mercoledì 26 novembre 2008

l’Unità 26.11.08
È solo Coluccia invocare il «fumus persecutionis» della Cirami sul tribunale di Genova
Ma la stessa via giudiziariapotrebbe essere seguita da tutti gli imputati dei vari processi
G8, i big della polizia si affidano alla legge vergogna
di Claudia Fusani


L’avvocato difensore di uno degli imputati si è appellato alla Cirami. Seguendo la strada inaugurata dagli avvocati di Berlusconi, l’alto funzionario accusato di falsa testimonianza non si fida del tribunale di Genova.
Non più carnefici ma «vittime». E anche un po’ «perseguitati». Quello di Genova è un tribunale «non sereno». Meglio non si pronunci sul caso. Per ora quello che riguarda il Capo della polizia, l’ex questore di Genova Francesco Colucci e l’ex capo della Digos Spartaco Mortola, accusati di falsa testimonianza. Di aver depistato, mentendo, i processi sui fatti del G8 e nello specificio quello sull’irruzione alla scuola Diaz. Poi si vedrà. Di fronte a questo «sospetto» ieri mattina il gup Silvia Carpanini ha rinviato l’udienza preliminare in cui doveva decidere se celebrare o meno il processo per De Gennaro, Colucci e Mortola.
Il ricorso è stato presentato “solo” da Maurizio Mascia, legale dell’ex questore Colucci. Il professor Coppi, che assiste De Gennaro, e i legali di Mortola erano informati ma si sono astenuti. Il rinvio va però a beneficio di tutti visto che le posizioni dei tre indagati non sono separabili. Gli effetti del ricorso rischiano di rappresentare una rivoluzione nella storia processuale dei fatti del G8. La legge Cirami, infatti, può essere “invocata” in ogni momento e grado del processo, tranne che in Cassazione. Significa che anche per la Diaz e per Bolzaneto, entrambi in appello, gli avvocati potrebbero chiedere di non essere giudicati a Genova. Una fuga.
Capita così che il palazzo di giustizia di Genova sembri il tribunale di Milano, causa ed esperimento della cosiddetta Cirami. La legge che ammette la «remissione» di un procedimento e il suo trasferimento se c’è il sospetto del fumus persecutionis è nata dalla richiesta dei legali di Berlusconi che non voleva essere giudicato dal tribunale di Milano nei processi Sme e dintorni. Ora anche poliziotti e prefetti, i custodi dell’ordine e della legalità, si sentono vittime di una persecuzione. Non si difendono “nel” processo ma “dal” processo.
I legali del prefetto De Gennaro e di Mortola prendono le distanze. «Eravamo pronti al dibattimento, anzi, avremmo anche chiesto il giudizio abbreviato pur di chiudere questa storia» precisa Franco Coppi, difensore di De Gennaro. Però un rinvio fa comodo a tanti, anzi a tutti. Sempre che le polemiche per la polizia che fugge dal processo invece di affrontarlo a testa alta non ottengano risultati opposti. E che la pezza non sia peggiore del buco.
In undici pagine l’avvocato Mascia spiega dove nasce la «necessità della remissione del procedimento a carico del prefetto Francesco Colucci», questore di Genova ai tempi del G8. Il fatto è che «l’accusa dei processi sui fatti del G8 ha avuto un atteggiamento sbagliato che ha provocato nell’opinione pubblica una percezione errata delle prove dei procedimenti stessi». Il fumus, secondo Mascia, non è tanto agli ultimi 7 anni di indagini e processi, «ma agli ultimi 15 giorni». Da quando c’è stata la sentenza sulla Diaz che ha assolto sedici dei 29 imputati e ha condannato a pene molto lievi “solo” gli esecutori del pestaggio alla Diaz. Il fascicolo sulla falsa testimonianza è «una costola del dibattimento per la Diaz» ed è «parte di un processo che ha destato le maggiori proteste al momento della lettura della sentenza e nei giorni successivi proprio perché non sono stati condannati i vertici della polizia». La falsa testimonianza di cui sono accusati Colucci e Mortola - istigati, secondo i pm, da De Gennaro - «è in stretta connessione con quello che è successo e che ha provocato insulti e minacce al tribunale», le grida «vergogna» dopo che il presidente Barone aveva letto la sentenza e le minacce «ci vendicheremo». Ora, ragiona l’avvocato nel ricorso, «poiché nessuno ha contestato l’oltraggio al magistrato e il successivo linciaggio mediatico»; poiché «il Csm ha dovuto aprire una pratica a tutela e la prefettura ha deciso di proteggere i giudici della I sezione», è evidente «il rischio che venga limitata la serenità e la libertà di decidere». Il succo è che il processo a De Gennaro - per questa inchiesta rimosso dal vertice della polizia e ora alla guida del Dis, il coordinamento dell’intelligence - almeno per ora non si fa. E che forse Genova non vedrà più uno di questi processi. Una fuga, da tutto.

l’Unità 26.11.08
Bioetica. La legge non sia contro Eluana
di Luigi Manconi


Che il tuo riposo sia lieve, Eluana, e non si trasformi in espiazione di una vita che si riduce a una pena senza fine. Eluana è nata a Lecco il 25 novembre 1970 e ieri, dunque, ha compiuto 38 anni: gli ultimi 17 li ha passati in stato vegetativo, in una condizione priva di esperienza e di conoscenza, di capacità di comunicazione e di relazione. Il suo anniversario ricorda drammaticamente il trascorrere di un tempo di cui Eluana è vittima e non protagonista: uno stato di assenza perpetuato artificialmente. Oggi, è possibile interrompere quell'artificio e lasciare che quell'esistenza vada verso il suo esito. Lo hanno deciso la giurisprudenza e l'amore dei suoi genitori, la scienza e l'intelligenza delle cose del mondo e della loro ragione profonda.
Forse, così, Eluana Englaro potrà infine riposare in pace. Ora resta da fare quello che finora non è stato fatto e che, senza il grido muto di Eluana Englaro, mai si sarebbe nemmeno intrapreso. Ieri il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, ha definito "non più procrastinabile" una legge in materia di fine della vita. Ma attenzione: non serve una legge qualunque. E si ha ragione di temere che sia possibile un esito normativo assai pericoloso, dal momento che una maggioranza parlamentare è intenzionata a porre limiti assai rigidi. In particolare, a privilegiare, in caso di conflitto tra volontà del paziente e valutazione del medico, l'opinione di quest'ultimo; e a escludere dall'ambito delle decisioni assumibili quella relativa a nutrizione e idratazione artificiali e alla loro sospensione. Se così accadesse, la legge risulterebbe fatalmente più arretrata rispetto all’attuale situazione: oggi, infatti, dettato costituzionale e giurisprudenza consentono di affermare, e di vedere giuridicamente protetto il principio dell'autodeterminazione del paziente. Una legge quale quella che è possibile venga approvata negherebbe proprio questo fondamentale principio e avrebbe un esito tragicamente beffardo. Verrebbe approvata - «sull’onda dell'emozione per Eluana Englaro», come infallibilmente scriverebbe qualche giornale - una legge propriamente «contro Eluana Englaro» e tutto ciò che la sua vicenda evoca. Una legge che negherebbe, cioè, la possibilità di scelta del paziente in merito a quei trattamenti sanitari che, secondo tutti i protocolli scientifici internazionali, sono nutrizione e idratazione artificiali. Ma per gli spietati difensori della vita come «bene non disponibile» sono altro: dunque non è possibile sospenderli. Eppure, già nel dicembre del 2000, la Conferenza episcopale spagnola scriveva che «la vita in questo mondo è un dono e una benedizione di Dio, però non è il valore supremo assoluto».

l’Unità 26.11.08
Antonio Gramsci si convertì?
No, ci provarono ma lui rifiutò
di Bruno Gravagnuolo


Il caso L’arcivescovo Luigi De Magistris rivela: «Prima di morire chiese i conforti religiosi»
La storia Ma i documenti attestano tutt’altro: il tentativo d’indurlo ad abbracciare la fede fallì

Una vicenda non nuova esplosa già nel 1977 e già chiarita a sufficienza da lettere, documenti e testimonianze che allo stato attuale fanno escludere recisamente la presunta conversione e anzi la smentiscono.
Gramsci convertito in punto di morte? Addirittura con i sacramenti? Ad affermarlo è stato l’arcivescovo Luigi De Magistris, penitenziere emerito della Santa Sede, alla presentazione del primo catalogo internazionale dei «Santini». Che ha aggiunto alla «rivelazione» precisi dettagli. La presenza nella stanza alla Quisisana di Roma dell’immagine di Santa Teresa del Bambin Gesù. E le suore della clinica, che avrebbero portato da baciare a Gramsci l’immagine di Gesù Bambino, su esplicita richiesta: «Perché non me l’avete portato?». L’infermo avrebbe così baciato il Bambino, «tornando alla fede della sua infanzia».
Peccato però che la rivelazione non regga. Ma sia del tutto infondata e priva di riscontri al momento. Anzi, a leggere bene le carte di cui disponiamo, la verità fu un’altra e di tenore del tutto opposto. Cominciamo da una domanda: quando avvenne materialmente la conversione? Gramsci entrò in coma il 25 e spirò per un ictus il giorno 27 aprile 1937. Fu cremato con pratica non consacrata e con molte difficoltà, grazie al fratello Carlo (il regime temeva la concomitanza con il primo maggio), e poi le ceneri furono trasferite dal Verano al Cimitero degli Inglesi nel dopoguerra. Bene, non c’è traccia di conversione né nella lettera di Tatiana Schucht a Sraffa, né in quella alla sorella Giulia, entrambe scritte post-mortem e piene di particolari sugli ultimi istanti di Antonio. E ancora.
Il caso esplose nel 1977
Il caso della «conversione di Gramsci» esplose già nel 1977, quando il gesuita padre Della Vedova sbandierò la notizia sulla rivista Studi Sociali (n. 10). Ne nacque una polemica a seguito della quale il professor Arnaldo Nesti, sociologo a Firenze, raccontò di essersi recato 10 anni prima a Ingebohl in Svizzera, sede della casa generalizia a cui appartenevano le suore della Quisisana (cfr. Paese Sera del 21-4-77 e 8-6-77). Lì aveva incontrato i testimoni delle ultime ore di Gramsci. Il cappellano Don Giuseppe Furrer, Suor Linda, Suor Maria Ausilia e Suor Palmira. Furrer racconta delle sue «dispute» al capezzale di Gramsci, il quale polemizzava contro i sacerdoti, «incapaci di capire l’animo umano». Quanto alle suore, che esortavano l’infermo ad andare in cappella, riferirono che egli disse loro: «Non è che non voglio, non posso!». Solo una volta Gramsci cedette alle pressioni, e consentì che dei bambini entrassero nella sua stanza con la statuina del bambin Gesù. Ma era il Natale 1936, e l’ammalato si limitò in quel caso ad accontentare i bambini, con il bacio di rito all’effigie. Dunque è qui la radice della leggenda oggi riciclata, trent’anni dopo la sua prima diffusione. Laddove i fatti appurati parlano di tutt’altra situazione. Nella quale con fermezza e coraggio - e in quelle condizioni! - Antonio Gramsci respingeva ogni pressione del capellano e delle suore per convertirlo. Alternando, gentilezza, ironia, fermezza e argomenti razionali. Il tutto nella preoccupazione della cognata Tatiana, timorosa di strumentalizzazioni politiche. E alla quale non sfuggiva il tramestio attorno al letto del malato, per indurlo ad accettare i conforti religiosi. Come che sia il 25 aprile Gramsci entrò in coma, furono preparati il secchiello d’acqua santa e l’olivo e fu appoggiata sul letto la stola violacea, secondo il rito cattolico. Furrer narra di non ricordare di aver amministrato o meno l’assoluzione «sotto condizione». Fatto sta che Gramsci era ormai assente e immobile, e non rinvenne più, sino al decesso. Non solo. Secondo una testimonianza di Alfonso Leonetti (resagli proprio da Carlo Gramsci), Gramsci rivelò al fratello che un frate aveva cercato fino all’ultimo di indurlo «a compiere un atto di conversione». Tentativo fallito, perché il malato si voltò contro il muro, invitando il frate a lasciarlo in pace. E la testimonianza di Carlo è inoppugnabile, visto che assistette Antonio fino agli ultimi istanti. In conclusione, cercarono di convertire Gramsci, che tenne duro. Fino a prova contraria.

Repubblica 26.11.08
Senza uguaglianza la democrazia è un regime
di Gustavo Zagrebelsky


Regime o non-regime? Un confronto su questo dilemma, pur così tanto determinante rispetto al dovere morale che tutti riguarda, ora come sempre, qui come ovunque, di prendere posizione circa la conduzione politica del paese di cui si è cittadini, non è neppure incominciato. La ragione sta, probabilmente, in un´associazione di idee. Se il "regime", inevitabilmente, è quello del ventennio fascista, allora la domanda se in Italia c´è un regime significa se c´è "il" o "un" fascismo; oppure, più in generale, se c´è qualcosa che gli assomigli in autoritarismo, arbitrio, provincialismo, demagogia, manipolazione del consenso, intolleranza, violenza, ecc. Così, una questione seria, anzi cruciale, viene attratta sul terreno, che non si presta all´analisi, della demonizzazione politica, funzionale all´isteria e allo scontro.
Ma "regime" è un termine totalmente neutro, che significa semplicemente modo di reggere le società umane. Parliamo di "Ancien Régime", di regimi repubblicani e democratici, monarchici, parlamentari, presidenziali, liberali, totalitari e, tra gli altri, per l´appunto, di regime fascista. Senza qualificazione, regime non ci dice nulla su cui ci sia da prendere posizione, perché l´essenziale sta nell´aggettivo.
Così, assumendo la parola nel suo significato proprio, isolato dalle reminiscenze, la domanda iniziale cambia di senso: da "esiste attualmente un regime" in "il regime attuale è qualcosa di nuovo, rispetto al precedente"? Che l´Italia viva un´esperienza costituzionale, forse ancora in divenire e dall´esito non scontato, che mira a non lasciarsi confondere con quella che l´ha preceduta: almeno di questo non c´è da dubitare. Lo pensano, e talora lo dicono, tanto i favorevoli, quanto i contrari, cioè lo pensiamo e lo diciamo tutti, con definizioni ora passatiste ora futuriste.
Non lo si dice ufficialmente e a cifra tonda, perché il momento è, o sembra, ancora quello dell´incubazione. La covata è a mezzo. L´esito non è scritto. La Costituzione del ´48 non è abolita e, perciò, accredita l´impressione di una certa continuità. Ma è sottoposta a erosioni e svuotamenti di cui nessuno, per ora, può conoscere l´esito. Forze potenti sono all´opera per il suo superamento, ma altre forze possono mobilitarsi per la sua difesa. La Costituzione è in bilico.
Che cosa significa "costituzione in bilico"? Innanzitutto, che non si vive in una legittimità costituzionale generalmente accettata, cioè in una sola concezione della giusta costituzione, ma in (almeno) due che si confrontano. Ogni forma di reggimento politico si basa su un principio essenziale, una molla etica, il ressort di cui parla Montesquieu, trattando delle forme di governo nell´Esprit des lois. Quando questo principio essenziale è in consonanza con l´esprit général di un popolo, allora possiamo dire che la costituzione è legittima e, perciò, solida e accettata. Quando è dissonante, la costituzione è destinata crollare, a essere detronizzata. Se invece lo spirito pubblico è diviso, e dunque non esiste un esprit che possa dirsi général, questo è il momento dell´incertezza costituzionale, il momento della costituzione in bilico e della bilancia che prima o poi dovrà pendere da una parte. È il momento del conflitto latente, che non viene dichiarato perché i fautori della rottura costituzionale come quelli della continuità non si sentono abbastanza sicuri di sé e preferiscono allontanare il chiarimento. I primi aspettano il tempo più favorevole; i secondi attendono che passi sempre ancora un giorno di più, ingannando se stessi, non volendo vedere ciò che temono. Tutti attendono, ma i primi per prudenza, i secondi per ignavia.
Non voler vedere, significa scambiare per accidentali deviazioni quelli che sono segni di un mutamento di rotta; significa sbagliare, prendendo per lucciole, cioè per piccole alterazioni che saranno presto dimenticate come momentanee illegalità, quelle che sono invece lanterne, cioè segni premonitori e preparazioni di una diversa legittimità. Così, si resta inerti. L´accumulo progressivo di materiali di costruzione del nuovo regime procede senza ostacoli e, prima o poi, farà massa. Allora, non sarà più possibile non voler vedere, ma sarà troppo tardi.
* * *
Ciò che davvero qualifica e distingue i regimi politici nella loro natura più profonda e che segna il passaggio dall´uno all´altro, è l´atteggiamento di fronte all´uguaglianza, il valore politico, tra tutti, il più importante e, tra tutti però, oggi il più negletto, perfino talora deriso, a destra e a sinistra. Perché il più importante? Perché dall´uguaglianza dipendono tutti gli altri. Anzi, dipende il rovesciamento nel loro contrario. Senza uguaglianza, la libertà vale come garanzia di prepotenza dei forti, cioè come oppressione dei deboli. Senza uguaglianza, la società, dividendosi in strati, diventa gerarchia. Senza uguaglianza, i diritti cambiano natura: per coloro che stanno in alto, diventano privilegi e, per quelli che stanno in basso, concessioni o carità. Senza uguaglianza, ciò che è giustizia per i primi è ingiustizia per i secondi. Senza uguaglianza, la solidarietà si trasforma in invidia sociale. Senza uguaglianza, le istituzioni, da luoghi di protezione e integrazione, diventano strumenti di oppressione e divisione. Senza uguaglianza, il merito viene sostituito dal patronaggio; le capacità dal conformismo e dalla sottomissione; la dignità dalla prostituzione. Nell´essenziale: senza uguaglianza, la democrazia è oligarchia, un regime castale. Quando le oligarchie soppiantano la democrazia, le forme di quest´ultima (il voto, i partiti, l´informazione, la discussione, ecc.) possono anche non scomparire, ma si trasformano, anzi si rovesciano: i diritti di partecipazione politica diventano armi nelle mani di gruppi potere, per regolare conti della cui natura, da fuori, nemmeno si è consapevoli.
Questi rovesciamenti avvengono spesso sotto la copertura di parole invariate (libertà, società, diritti, ecc.). Possiamo constatare allora la verità di questa legge generale: nel mondo della politica, le parole sono esposte a rovesciamenti di significato a seconda che siano pronunciate da sopra o da sotto della scala sociale. Ciò vale a iniziare dalla parola "politica": forza sopraffattrice dal punto di vista dei forti, come nel binomio amico-nemico; oppure, dal punto di vista dei deboli, esperienza di convivenza, come suggerisce l´etimo di politéia. Un uso ambiguo, dunque, che giustifica la domanda a chi parla di politica: da che parte stai, degli inermi o dei potenti? La ricomposizione dei significati e quindi l´integrità della comunicazione politica sono possibili solo nella comune tensione all´uguaglianza.
* * *
Ritorniamo alla questione iniziale, se sia in corso, o se si sia già realizzato, un cambiamento di regime, dal punto di vista decisivo dell´uguaglianza.
In ogni organizzazione di grandi numeri si insinua un potere oligarchico, cioè il contrario dell´uguaglianza. Anzi, più i numeri sono grandi, più questa è una legge "ferrea". E´ la constatazione di un paradosso, o di una contraddizione della democrazia. Ma è molto diverso se l´uguaglianza è accantonata, tra i ferri vecchi della politica o le pie illusioni, oppure se è (ancora) valore dell´azione politica. La costituzione ? questa costituzione che assume l´uguaglianza come suo principio essenziale ? è in bilico proprio su questo punto.
Noi non possiamo non vedere che la società è ormai divisa in strati e che questi strati non sono comunicanti. Più in basso di tutti stanno gli invisibili, i senza diritti che noi, con la nostra legge, definiamo "clandestini", quelli per i quali, obbligati a tutto subire, non c´è legge; al vertice, i privilegiati, uniti in famiglie di sangue e d´interesse, per i quali, anche, non c´è legge, ma nel senso opposto, perché è tutto permesso e, se la legge è d´ostacolo, la si cambia, la si piega o non la si applica affatto. In mezzo, una società stratificata e sclerotizzata, tipo Ancien Régime, dove la mobilità è sempre più scarsa e la condizione sociale di nascita sempre più determina il destino. Se si accetta tutto ciò, il resto viene per conseguenza. Viene per conseguenza che la coercizione dello Stato sia inegualmente distribuita: maggiore quanto più si scende nella scala sociale, minore quanto più si sale; che il diritto penale, di fatto, sia un diritto classista e che, per i potenti, il processo penale non esista più; che nel campo dei diritti sociali la garanzia pubblica sia progressivamente sostituita dall´intervento privato, dove chi più ha, più può. Né sorprende che quello che la costituzione considera il primo diritto di cittadinanza, il lavoro, si riduca a una merce di cui fare mercato.
Analogamente, anche l´organizzazione del potere si sposta e si chiude in alto. L´oligarchia partitica non è che un riflesso della struttura sociale. La vigente legge elettorale, che attribuisce interamente ai loro organi dirigenti la scelta dei rappresentanti, escluso il voto di preferenza, non è che una conseguenza. Così come è una conseguenza l´allergia nei confronti dei pesi e contrappesi costituzionali e della separazione dei poteri, e nei confronti della complessità e della lunghezza delle procedure democratiche, parlamentari. Decidere bisogna, e dall´alto; il consenso, semmai, salirà poi dal basso.
E´ una conseguenza, infine, non la causa, la concentrazione di potere non solo politico ma anche economico-finanziario e cultural-mediatico. L´indipendenza relativa delle cosiddette tre funzioni sociali, da millenni considerata garanzia di equilibrio, buon governo delle società, è minacciata. Ma il tema delle incompatibilità, cioè del conflitto di interessi, a destra come a sinistra, è stato accantonato.
La causa è sempre e solo una: l´appannamento, per non dire di più, dell´uguaglianza e la rete di gerarchie che ne deriva. Qui si gioca la partita decisiva del "regime". Tutto il resto è conseguenza e pensare di rimettere le cose a posto, nelle tante ingiustizie e nelle tante forzature istituzionali senza affrontare la causa, significa girare a vuoto, anzi farsene complici.
Nessun regime politico si riduce a un uomo solo, nemmeno i "dispotismi asiatici", dove tutto sembrava dipendere dall´arbitrio di uno solo, kahn, califfo, satrapo, sultano, o imperatore cinese. Sempre si tratta di potere organizzato in sistemi di relazioni. Alessandro Magno, il più "orientale" dei signori dell´Occidente, perse il suo impero perché (dice Plutarco), mentre trattava i Greci come un capo, cioè come fossero parenti e amici, «si comportava con i barbari come con animali o piante», cioè meri oggetti di dominio, «così riempiendo il suo regno di esìli, destinati a produrre guerre e sedizioni». Sarà pur vero che comportamenti di quest´ultimo genere non mancano, ma non vedere il sistema su cui si innestano e li producono significa trascurarne le cause per restare alla superficie, spesso solo al folklore.

Repubblica 26.11.08
Dalle fabbriche a Luxuria
di Gad Lerner


Reduce da una catastrofica sconfitta politica, il comunismo riciclato con sapienza da Bertinotti come linguaggio televisivo si prende la rivincita espugnando con Vladimir Luxuria il reality show.
Pure l´auditel viene surriscaldato dall´evento, nel mentre il gelo della recessione penetra le ossa di un mondo del lavoro sempre più lacerato e afono perché costretto a fare i conti con una raffica di fallimenti personali.
Troppo facile, moralistico, giocare su tale contrasto fra una vittoria all´"Isola dei famosi" e tante sconfitte nella penisola dei cassintegrati o "senza rete"? Al contrario, dobbiamo riflettere su questo segno dei tempi se non vogliamo perdere del tutto i contatti con la realtà. Com´è successo a certi compagni di Luxuria che esaltano un improbabile significato liberatorio del suo successo.
Pur con tutta la simpatia che può ispirare l´ex parlamentare di Rifondazione incoronata dai telespettatori in un impeto d´innocua trasgressione, lo sapevamo già che la grande crisi 2008-9 non sarà una faccenda da comunisti virtuali. Ci mancherebbe che su tante persone improvvisamente costrette a misurarsi con il baratro della povertà, gravasse anche il peso di un´ideologia antagonista in format tv. Il distacco fra la sinistra virtuale e la sua comunità d´origine è ormai da tempo compiuto. Ma in questi giorni perfino lo specchio deformato dell´audience televisiva dovrebbe aiutarci a misurare in quale vuoto di comunicazione, in quale solitudine, si stanno consumando tanti passaggi esistenziali.
Nei distretti industriali che fino a ieri simboleggiavano l´eccellenza e il benessere dei cicli espansivi, dove il passato e il futuro coincidevano da generazioni nell´evoluzione del medesimo prodotto, capita ora d´incontrare padri, figli, mogli, nuore finiti tutti insieme nella cassa integrazione. Il benessere è già un ricordo nella Val Seriana colpita dalla crisi del tessile, così come nel feudo marchigiano degli elettrodomestici dove rischia di chiudere la Antonio Merloni. Scricchiola a Sassuolo la roccaforte della ceramica e anche il Nord-Est patisce il taglio brutale degli ordinativi. Ma siccome ormai è la stessa mamma Fiat a disdettare centinaia, se non migliaia di contratti a termine, ricorrendo massicciamente alla cassa integrazione per i suoi addetti a tempo indeterminato, ecco che ci tocca fare i conti con la vera novità di questa crisi.
Il mondo del lavoro non è mai stato così diviso al suo interno. I tardivi richiami sindacali alla solidarietà e la richiesta di una riforma universalistica degli ammortizzatori sociali, vi appaiono dunque poco credibili. Proprio come gli appelli di Berlusconi a consumare di più.
E´ imbarazzante fare la conoscenza dei 360 ingegneri torinesi mandati a spasso improvvisamente dalla Motorola, senza cassa integrazione. Ma ancor più imbarazzante è riscontrare la cattiva sorte toccata a migliaia di assistenti di volo e lavoratori di terra Alitalia: a loro è toccato rinnovare più volte negli anni un contratto provvisorio e quindi ora non godranno del sussidio garantito invece fino al 2014 ai loro colleghi in esubero ma meno sfortunati, che pure svolgevano le stesse identiche mansioni.
Il panorama è completato dai giovani apprendisti rispediti prematuramente a casa; dagli operatori di call center così flessibili da non meritare preavviso di licenziamento; dagli agenti immobiliari cui si chiede di mettersi in proprio, se vogliono continuare a lavorare; e dalla massa imponente degli immigrati che senza lavoro vedono rimesso in discussione il permesso di soggiorno. Senza contare i famigerati precari del pubblico impiego.
La nostra società, assuefatta alla crescita esponenziale delle disuguaglianze di reddito, già da tempo ha archiviato come retrograda la nozione di giustizia sociale. La predicazione del rischio come virtù ha mirato a realizzare il mito dell´uomo flessibile, senza indugiare sui fallimenti che ne avrebbero costellato il cammino. Abbiamo tollerato come passaggio doloroso ma necessario l´apartheid che separa i lavori protetti da quelli che non lo sono.
Ora che la crisi morde là dove non pensavamo sarebbe mai giunta tutto ciò desta scandalo, ma si tratta di uno scandalo difficile da condividere nella dimensione superata della comunità sociale.
I lavoratori in cassa integrazione non vi rinuncerebbero in favore di un sussidio unico di disoccupazione che tuteli anche i "senza rete". I dipendenti stabili guardano con disagio i colleghi "a termine" allontanati, ma che ci possono fare? Gli anziani sono ostili all´idea di ridimensionare il loro trattamento previdenziale per sostenere i giovani. Gli italiani avvertirebbero dannosa un´estensione di tutele ai colleghi stranieri.
E´ difficile, in questa situazione frantumata, che il mondo del lavoro parli con una voce sola. Ci sono quelli che vanno in corteo sotto la sede della banca per invocare una proroga dal rientro del debito aziendale, come gli operai della Pininfarina. Altri confidano negli enti locali per ottenere un anticipo del sussidio, oppure confidano nella sensibilità degli imprenditori per soccorrere le urgenze. Tutti aspirano a un sostegno pubblico governativo che sarà comunque insufficiente, né fornisce risposte sull´impiego futuro.
La recessione ormai prolungata, e destinata ad aggravarsi nel 2009, ha modificato così la condizione esistenziale dei lavoratori. Nel contrasto vissuto tra realtà e virtualità, la televisione diviene una scatola magica in cui si rappresenta un mondo distante. Dove il presidente del Consiglio raccomanda a tutti di spendere per sostenere l´economia, e la drag queen comunista traslocata dai salotti politici a una spiaggia in Honduras ne rappresenta il degno contraltare.

Repubblica 26.11.08
Entusiasta la moglie dell´ex leader di Rifondazione. "E´ stata perfetta, l´ammiro"
Lella Bertinotti: l´ho detto a Fausto e ci siamo commossi insieme
di Alessandra Longo


ROMA - «Fausto, sai chi ha vinto "L´Isola dei famosi"? Luxuria». Lella Bertinotti racconta di aver informato il marito della vittoria del «compagno» Vladimir, già parlamentare di Rifondazione, l´altra notte, poco dopo l´annuncio televisivo: «Mi sono guardata tutta la trasmissione. Devo dire che quando ho capito che Luxuria ce l´aveva fatta, mi sono commossa. È stata brava, intelligente, ironica. Se l´è meritata un´affermazione così. E anche Fausto era contento. A suo tempo ci fu chi, dentro il partito, criticò la sua scelta di volerla in Parlamento. Una scelta che invece si è rivelata felice per lo spessore, le qualità umane, intellettuali, che Luxuria ha sempre dimostrato sia nei dibattiti politici che in un reality nazional-popolare come "L´Isola"».
Lella Bertinotti ne parla come di «una donna che si è messa ancora una volta alla prova e ha vinto la sfida». Poteva essere ingoiata dal meccanismo banalizzante dello spettacolo, finire in pasto, con la sua storia, a un pubblico ben lontano dalla platea complice dei militanti del suo partito e, invece, dice la moglie dell´ex presidente della Camera, «alla fine, è avvenuto il contrario: è stata Luxuria a mangiarsi il reality, a regalare a milioni di persone, la possibilità di riflettere su temi cosiddetti sensibili». Una partita, la sua, giocata «con dignità» e «con una calma che io le invidio». Mai una risposta alle provocazioni e alle ironie, piuttosto l´«uso» dello strumento televisivo per spiegare, come ha fatto, quanto poco politically correct sia «dare a uno del frocio». Luxuria ha centrato l´obiettivo e, forse, a modo suo, ha fatto politica, anche se non vede nel suo futuro immediato il Parlamento europeo. «Se non sbaglio, ha dichiarato che vuol fermarsi un attimo». Fermarsi e godersi «la tempesta ormonale di felicità» che, come dice lei, l´ha travolta. «Quando ho visto questa Belen - racconta Lella Bertinotti - ho pensato che era bella, molto bella, accidenti. Ma Luxuria è stata brava, non ha perso una battuta, non ha sbagliato una risposta. Ha ragione Liberazione quando scrive che anche se la vittoria fosse andata a Belen, lei ne sarebbe uscita benissimo lo stesso. Ha accettato di mettersi in gioco, è una vita che rilancia. Viene da una storia difficile, penso a cosa devono essere stati gli anni da ragazzo a Foggia e anche la difficoltà per i suoi genitori. Eppure ce l´ha fatta. L´ammiro moltissimo e voglio che sappia che mi sono commossa».

Corriere della Sera 26.11.08
Prc, Luxuria diventa un caso «È il nostro Obama, si candidi»
Offerta di Ferrero alla vincitrice dell'«Isola». Casini: la sinistra è morta
Monaco: farà audience ma nuoce. Vladimir: ringrazio per la proposta però Strasburgo non è nel mio immediato futuro
di Paolo Foschi


ROMA — Da reality show a caso politico. La vittoria di Vladimir Luxuria all'Isola dei famosi è stata festeggiata dal quotidiano comunista Liberazione con un articolo in prima pagina. Il segretario del Prc, Paolo Ferrero, ha offerto all'ex parlamentare transgender la candidatura per le europee: «Spetta a lei decidere». Invito subito declinato: «Grazie a Ferrero, ma lo avevo già detto dopo la sconfitta elettorale, il parlamento europeo non è nei miei programmi per l'immediato futuro », ha detto Vladimiro Guadagno, in arte Luxuria, che annunciato di voler devolvere parte del premio tv all'Unicef. E intanto «scriverò da maggio un libro di favole transgender per bambini e mi dedicherò al teatro».
Commenti positivi per il successo sono arrivati da sinistra, mentre il centrodestra e l'Udc hanno accolto con freddezza il risultato, anche se Alessandra Mussolini si è dissociata dalle critiche: «Sono contenta per la vittoria di Vladimir». Nel Pd si è sentita invece la voce polemica del prodiano Franco Monaco: «Luxuria fa audience ma nuoce alla sinistra. Non sempre il buon senso e persino un certo sano moralismo sono sinonimo di arretratezza e pregiudizio. Talvolta riflettono un sentire popolare che non apprezza le derive snobistiche di certa sinistra. Poi ci si sorprende se elettori di sinistra migrano verso destra».
Il dibattito è stato aperto da Liberazione:
«Vladimir come Obama?
È un po' esagerato e fatecelo dire. Con il primo presidente afroamericano si rompe il pregiudizio che per più di un secolo ha tenuto un popolo lontano dalla più importante istituzione americana. Con Vladimir all'Isola si rompe il tabù dell'eterosessualità a tutti i costi». E Luxuria stessa ha affrontato il tema delle discriminazioni. «Gli italiani, votandomi, hanno dimostrato di essere più avanti dei politici. A Roma purtroppo in parte della popolazione c'è un'intolleranza spesso alimentata da quei che pensano che due gay che si vogliono bene non possono essere considerati una coppia normale riconosciuta dallo Stato. Il ministro Carfagna? Non penso che abbia fra le sue priorità il rispetto della dignità di omosessuali e transessuali».
«L'autenticità e lo straordinario animo di Luxuria hanno battuto stereotipi e pregiudizi», ha commentato Paola Concia, del Pd, mentre secondo Fabio Evangelisti, Italia dei valori, «se in parlamento c'è ancora chi si scandalizza perché una transgender diventa eroina per un giorno, vuol dire davvero che gli italiani sono più avanti della politica ». Secondo l'Arcigay, «è stata una svolta storica», anche se Franco Grillini, presidente dell'associazione Gaynet, «per una trans che vince migliaia ancora soffrono».
«Complimenti a Vladimir, è stata veramente simpatica — ha detto Pier Ferdinando Casini, leader dell'Udc — ma la sua vittoria certifica la morte della sinistra comunista ». Molto più duro Maurizio Ronconi, sempre Udc: «Che la tv pubblica erga ad eroina un trans è scandaloso. Più che Isola dei famosi, l'Isola della vergogna ». Per Elisabetta Gardini, ex show girl e europarlamentare di Forza Italia che alla Camera ingaggiò una battaglia contro l'uso dei bagni delle donne da parte di Luxuria, «ben venga la vittoria che dimostra come da parte degli italiani non ci sia nessuna discriminazione come non c'è mai stata da parte mia. Ma mi preoccupa che un programma così sia diventato lo show di punta della tv pubblica».

il Riformista 26.11.08
Bandiera rossa sventola a Cayo Paloma
UN'ALTRA ISOLA È POSSIBILE. Ogni Paese ha le rivoluzioni che si merita. In America un nero è stato eletto alla Casa Bianca. Da noi un trans ha vinto un reality col televoto. La battuta più bella di Luxuria: «Adoro il porno, ha sempre il lieto fine».
Vladimir una e bina
di Fabrizio d'Esposito


Dal pennone del Cremlino, la bandiera rossa venne ammainata meno di vent'anni di fa. Da ieri sventola sulla palma più alta di Cayo Paloma, atollo honduregno. Ogni Paese ha le rivoluzioni che si merita. In America un nero è stato eletto alla Casa Bianca. Da noi un trans ha vinto col televoto all'Isola dei famosi. Il paragone Obama-Luxuria piace tanto ai comunisti di Liberazione che in un amen sono passati dal requiem per il compagno Curzi all'allelluia per l'ex deputato registrato all'anagrafe come Guadagno: «Forza Vladimir, hai vinto tu». Un'altra isola è possibile. Ma l'Italia è una penisola e il capogruppo del Pdl al Senato, Maurizio Gasparri, che in passato ha riconosciuto a Luxuria di «non essere uno sciocco», oggi dice: «Io non vedo l'Isola dei famosi, apprendo ora da lei che ha vinto Luxuria. Credo sia stato giusto restituire questo personaggio allo spettacolo. Del resto è stata furba: ha approfittato del passaggio in politica per farsi una fama e sfruttarla, 'sto Parlamento tutti lo schifano ma poi serve. Luxuria ha raggiunto il suo obiettivo, altrimenti io e lei adesso non parleremo della vittoria all'Isola. Questa è la dimostrazione che la politica è debole: arrivano calciatori, veline, trans e zoccole come Cicciolina e poi se ne vanno senza lasciare traccia».
La politica è debole. E non solo lei. Sull'Isola, quando alla vigilia della finale la contessa Patrizia De Blanck si è ripresa la sua felpa lasciando nudo il biondo bidello Carlo sotto il diluvio, Luxuria ha aiutato il debole, denudandosi a sua volta, e ha proclamato: «Io mi sono ribellata ai poteri forti nella vita. A me Patrizia De Blanck mi fa la ceretta. Quando vedo una persona che ha che toglie a una che non ha è guerra». Lotta di classe esotica, ma sempre lotta di classe. Senza contare che la stessa Luxuria aveva tentato di favorire un idillio tra il bidello e la contessa proprio per azzerare il conflitto di classe medesimo. Insomma, comunismo vero. Come la delazione anticapitalista e bacchettona contro il marito di Ivana Trump e la modella argentina Belen Rodriguez, fidanzata col rossonero Marco Borriello: «I due si sono baciati, lo devono sapere tutti». Pettegolezzo o depistaggio in vero stile Kgb.
Torniamo alla problematica della ceretta. Per togliersi i peli dalle gambe, Luxuria aveva inserito una pinzetta fra i tre oggetti da portare con sé in Honduras. Gli altri due sono stati un libro di preghiere buddhiste e una maschera subacquea per pescare. Non a caso il primo pesce isolano, il 17 settembre scorso, l'ha beccato lei: «Sono contenta perché sono stata la prima a pescare. Una cosa è avere di fronte un pesce cucinato al ristorante, un'altra è vederlo boccheggiare tra le tue mani». Per la gioia di Simona Ventura, Luxuria ci è andata a nozze coi doppi sensi sull'Isola. Quando fu candidata alla Camera da Rifondazione comunista, due anni fa, in campagna elettorale fu vittima di un'aggressione di destra a Guidonia, in provincia di Roma: «Tiravano i finocchi come i sassi. La polizia non arrivava, lo Stato non c'è». A Cayo Paloma ha trovato invece funghi, serpenti e iguane. Quest'ultima voleva farsela arrosto per la fame. Poi, durante un'escursione: «Guarda che fungone». Infine, il pitone incontrato insieme con Ela Weber. Ela: «Rimani calma, il pitone non è velenoso, stritola». Vladimir: «Un uomo mi deve stritolare, non un pitone».
Sull'Isola, Luxuria ha sperimentato un marxismo esistenziale. Orazioni orientali e meditazioni, le sono servite per la lunga marcia verso il sol di Cayo Paloma. È stato in questi frangenti di solitudine che ha afferrato il senso profondo della vita. Condannata per una settimana ai lavori forzati, doveva trovare delle matasse di filo nascoste nella sabbia per edificare una capanna socialista: «La prova è basata molto sulla resistenza e sulla forza di braccia e mani, ma anche sulla fortuna, la fortuna di trovare il buco giusto. Forse la vita è questo: trovare il buco giusto».
Vladimir Luxuria ha faticato molto per trovare il buco giusto nella sua vita. Il suo è stato un percorso durissimo. Glielo si leggeva in faccia, una faccia con gli zigomi sporgenti per la fame, quando la Ventura le ha alzato il braccio sinistro per dichiararla vincitrice della sesta edizione dell'Isola. Luxuria ha pianto. Forse la stessa commozione che provò quando entrò a Montecitorio per la prima volta nell'aprile del 2006. Mastella la derubricò a «Cicciolina dell'Unione», ma il leghista Roberto Castelli prese le sue difese: «Luxuria è una persona intelligente, corretta e che si esprime molto bene. Per nulla volgare». Alla Camera si fece notare da subito con la denuncia dell'«apartheid della segregazione urinaria». Cioè: «Una toilette tutta per me è un privilegio che non penso di meritare. Penso che invece alcuni servizi per le donne debbano essere rivolti anche alle trans. E a chi si imbarazza per la mia presenza, ricordo che quando si va in bagno si chiude la porta».
Transgender del sud, la quarantenne Luxuria ha venduto il suo corpo, fatto l'attrice, scritto articoli e libri. Ieri ha respinto l'offerta di una candidatura alle europee subito avanzata da Rifondazione, partito boccheggiante come il primo pesce preso sull'isola. Per il futuro vuole vergare un volume di favole. Ma non ha tralasciato un attacco al ministro Carfagna sul rispetto dei gay. La sua vittoria in un reality può diventare una cosa seria se come ha scritto Aldo Grasso «l'Isola è lo specchio del nostro paese». Lei stessa ha detto: «Gli italiani sono più avanti della politica». In ogni caso, una storia di sinistra a lieto fine. Giusto per fare il verso alla più bella battuta di Luxuria, pronunciata qualche anno fa: «Adoro il porno, c'è sempre il lieto fine».

Corriere della sera 26.11.08
Kentucky, è il primo caso
Pedofilia, via libera a un processo contro il Vaticano


NEW YORK — Per la prima volta una corte di appello federale degli Stati Uniti ha dato il via libera ad un processo contro il Vaticano per presunti casi di abusi sessuali. La corte di appello di Cincinnati ha dichiarato legittima la richiesta a procedere contro la Santa Sede in un caso di abusi sessuali commessi da religiosi della diocesi di Louisville in Kentucky, ipotizzando che il Vaticano potrebbe essere ritenuto corresponsabile della condotta dei suoi membri. È la prima volta che allo stato Vaticano non viene garantita dagli Usa l'immunità sovrana sancita dal Foreign Sovereign Immunities del 1976. «Se qualcuno può rompere questa barriera viene aperta la strada ad altri processi contro la Chiesa Cattolica», ha dichiarato Jonathan Levy, avvocato di Washington che rappresenta un folto gruppo di sopravvissuti dei campi di concentramento in una azione legale rivolta contro varie parti incluso il Vaticano. Dall'altra parte, Jeffrey Lena, avvocato della Santa Sede, pur dicendosi «attualmente non intenzionato» a chiedere ai giudici di rivedere la decisione, ha precisato che «la sentenza è ancora molto lontana dal dimostrare la responsabilità diretta del Vaticano» per la condotta dei suoi membri.

il Riformista 26.11.08
Vista da Fausto Bertinotti
di Alessandro De Angelis


«Una volta si sarebbe detto che la vittoria di Luxuria all'Isola è la spia di un qualcosa di più generale». Fausto Bertinotti lo spiega in un'intervista al Riformista.
Di cosa è la spia?
Di una politicizzazione naturaliter di sinistra che, non essendoci la sinistra, non può essere politicizzata classicamente e cade nel vuoto. Per decifrare l'elemento servirebbe il contatto fisico, cioè i partiti, ma c'è il vuoto.
Si spieghi?
Ha vinto Vladimir perché è quella persona lì e non perché transgender e comunista. Nel vuoto della sinistra emerge una persona, nella sua unicità di bella persona: Vladimir.
E l'ideologia?
Non c'entra. Chi osserva è spoliticizzato. E dice, semplicemente: questa è brava. E non ha il pregiudizio che c'è in una parte del Parlamento che rideva quando le davo la parola al femminile.
Liberazione ne ha fatto un'icona.
E ha fatto bene. L'ha difesa contro il pregiudizio di chi criticava che lei andava all'Isola in nome di una cultura alta in contrapposizione a quella bassa. Ma la vittoria è interessante per un altro aspetto.
Quale?
Lei ha vinto contro il mezzo, che ha un linguaggio teso alla ricerca del successo. In questo Vladimir, che non ha quel linguaggio, vince "contro". E vince una battaglia culturale nella sfera dei comportamenti. Lei, che non è lì per apparire, vince proprio perché appare.
Niente politica, dunque?
Non è una vittoria di partito o della sinistra, ma solo sua. Mi piacerebbe dire che ha vinto una bandiera ma non è così. Aggiungo: lei fa accettare da chi la guarda ciò che astrattamente non accetterebbe. Se uno chiede al telespettatore: a te piacciono i transgender, magari dice no. Ma la sua naturalità la premia come persona.
Nello stesso giorno la folla ai funerali di Curzi. C'è un nesso?
Sandro era Sandro. Come Vladimir è Vladimir. C'è una irriducibilità della persona che propone alla sinistra una correzione: l'idea della diversità contro l'anonimato. In una sinistra in crisi le persone sono più forti della crisi. La commozione per Sandro, la vittoria di Vladimir: sono una supplenza nei confronti della sinistra. Ma non è grazie a loro che la sinistra rinasce. Il problema resta il passaggio dai "mondi" al "mondo". E se ci sono i plurali è il singolare quello che manca.

martedì 25 novembre 2008

lettera a Lotta continua
Giovedì 24 Aprile 1980

Ragazzino donne e sifilide
di Massimo Fagioli


Caro Luciano,
ho avuto la ventura, da ragazzino, di incontrare una donna assai brutta. A me parve bruttissima appena la vidi. Ho sempre bevuto molto, da tutti, le strade e le stradine percorse, deserte, salvo le molte puttane, molli di pioggia, si trasformarono per me in uno di quei labirinti che fanno ogni istituto di psicologia, da un milione di anni, che servono per certi esperimenti sugli uomini: sull’istinto animale, la ripetizione, la rassegnazione, la passività.
Dentro quei vicoli mi muovevo con pochissima sicurezza, dapprima, che diventava, poi, sempre maggiore. Guidato da un desiderio forsennato e dalla certezza che le cose non potevano essere in quel modo. Era una sensazione dolorosa aumentata dalla mia nebbia di allora. E il mio corpo era in subbuglio. Penso che tu intenda cosa voglio dire. Quella donna, la realtà psichica umana, le cui labbra bellissime nascondevano spesso, troppo spesso, i denti guasti dell'invidia e della rabbia.
Ne cercai di donne, anch'io avevo bisogno di quella sana che curasse la mia sifilide, il mio desiderio cieco, la negazione della realtà psichica umana.
Ebbene, Luciano, tutte erano sifilitiche come me, più di me, e quando lo erano meno di me succhiavo avidamente fino ad ubriacarmi.
Non lo seppi subito. Passarono anni in cui provavo sensazioni strane; camminavo a piedi nudi sul marmo freddo del pavimento della camera dopo aver fatto l'amore e mi pareva di camminare sul velluto, mi bruciavo la pelle delle dita cercando di spegnere al buio mozziconi di sigaretta e sentivo solo una leggera puntura di spillo. Attribuivo sulle prime questi sintomi alla grandezza straordinaria del mio amore.
Era pulsione di annullamento e di negazione dell’inconscio mare calmo: quella latente, quella invisibile come le spirochete ma terribile, mortale.
La luce gialla dei lampioni metteva in evidenza silhouettes di donne, vicino al duomo, sottomesse al duomo, accecate dal duomo, quando, tante volte, ormai stavo per rinunciare mi accingevo ad uscire dal labirinto per una stradina laterale che tutti conosciamo molto bene: l’indifferenza. Tante volte l’avrei ammazzate quelle donne. Tornavo in me furibondo. Ma poi le loro labbra di velluto succhiavano la mia rabbia; i loro occhi mi ritrascinavano di colpo nel mare in tempesta della nostra relazione amorosa.
Mi curai per sei anni in maniera intensiva con la mia ricerca, per resistere, non soccombere, non impazzire. Poi ancora per altri venti anni. Studiai. Avevo scoperto che non c’era nessun medico che potesse dire che non era amore, era negazione. Non c’era nessun medico che avesse la penicillina.
Ovviamente. Dovevo dire che gli esseri umani sono bellissimi. Ce l’avevo dentro da tanti anni. Ogni volta che mi avvicinavo ognuno mi succhiava le parole dal cuore con dei baci che, caro Luciano, ti auguro di non provare mai. Se fossi un poeta invece che uno psichiatra forse potrei tentare di descrivere i liquidi infuocati che mi scendevano e salivano per il corpo mescolandosi alle labbra incollate a quelle degli altri, ad un fresco sapore di mentuccia prealpina che fluisce dal respiro degli altri.
Quell’incontro ha segnato in maniera indelebile la mia vita. Sono passati tantissimi anni ed ora tu mi chiedi una risposta. Perché sono diventato medico, scienziato, terapeuta, ricercatore, critico duro, caustico, ma costruttivo.
Perché ogni volta, sempre, quando baciavo come te, le labbra delle donne, sentivo sempre la domanda continua, neppure sussurrata, senza suoni materiali: “toglimi la follia, che è dentro di me, ripulisci la mia mente dal mio Io infetto e restituiscimi la dolcezza dell’inconscio mare calmo con cui sono nata. Fammi rinascere in maniera diecimila volte più bella perché questa volta, tu ed io, siamo gestante e feto ad un tempo. Ma tu devi essere anche levatrice. Fammi rinascere con la coscienza di nascere. E di nascere sana".
Ed io, te lo confesso, qualche volta, tante volte forse, ho tentato di non ascoltare. Ma non ci sono riuscito. Non sono riuscito ad accecarmi per non vedere quello che c’era al di là delle labbra bellissime, al di là della rabbia dei denti guasti.
La domanda degli occhi. Tu l’avrai notato che, talvolta, gli occhi, nel bacio rimangono aperti e hanno un non so che di vuoto. E dietro al vuoto ancora c’è la domanda appassionata, invisibile; c’è l’ordine, il comando, il Potere giusto al quale bisogna sottomettersi. “Se tu puoi devi guarirmi della follia che è dentro di me”.
Allora ti succhiano le parole dal cuore, in un bacio continuo che, caro Luciano, non ti auguro di provare. Perché ti danno tutto quello che hanno, ma ti chiedono tanto, tutto quello che hai, e tutto quello che puoi fare nella vita. Ti chiedono anche di essere duro, sempre critico, caustico, di pretendere sempre di più e di meglio. Allora devi rinunciare a far l’amore; perché mentre ti dicono ti amo, ti dicono “non fare l’amore con me, non ingannarti, perché io sono sifilitica. Non permettere che la mia malattia uccida entrambi”.
Perché la gente vuole vivere, anche se è malata. E ciascuno di noi chiede all’altro, sempre, un po’ di vita.
Oggi sono contento di non aver chiesto mai a nessuno se era malato; sono contento di aver avuto con gli altri l’unico rapporto dialettico possibile: non essere scappato. Stiamo ancora bene insieme, con gli altri, più di quando non c’era la penicillina.
Non ti dico cosa manca a te: non lo so. Hai scritto una bellissima lettera, te l’ho quasi interamente copiata. Per immergermi nel rapporto anche se non tutto è uguale. E’ così: “…liquidi infuocati in ogni rapporto interumano che scendono e salgono per il corpo, mescolandosi nelle labbra incollate dell’uno e dell’altro ad un fresco sapore di mentuccia che fluisce dal respiro di ognuno”.
Ma, poi, ecco il medico-scienziato e, se vuoi, il politico. Necessario per non morire. Non con tutti. C’è gente per “razza”, più sensibile, più vera artista, più grande genio, amanti più abili, battoni più puri, sensibilità maggiore, anima più bella. Una “razza” ariana di cui tu, dal momento che dici di non essere più tanto giovane, dovresti ricordarti, e ricordandoti, accorgerti che è accanto a te, nella stessa pagina.
Vedi, quando si vuole fare scienza le distrazioni sono mortali. Ecco, forse ti manca questo per essere scienziato: l’attenzione per il latente. O forse un po’ di metodo politico. Il latente uccide e la gente non vuole morire, non vuole che tu muoia perché ognuno di noi serve agli altri per vivere. Il democraticismo volgare non serve; fa morire quanto la repressione del potere.
Tu hai amato una donna, io più di una. Forse occorre questo per essere scienziato: prendere la sifilide da più di una donna, lasciarsi andare ogni volta senza fare lo scienziato. Poi ti costringono ad esserlo. Perché sono tutte diverse, bellissime, ti danno la vita e la gioia di vivere ma sono tutte uguali nella sofferenza, nell’angoscia, nel vuoto della mente.
Spero di ascoltare sempre più frequentemente gente come te, gente che ha affrontato in proprio, sulla propria pelle il rapporto con gli altri e si è curata. Ora sei sano ma… se non ci fosse stato Fleming? Te lo devo ricordare io il disfacimento luetico, la pazzia luetica, i figli scemi luetici? Nessuna gratitudine ma… una rosa gliela vuoi mandare a Fleming?

Massimo Fagioli
l’Unità 25.11.08
La Cgil: troppo poco, restituite il fiscal drag. Sciopero confermato
di Felicia Masocco


«Esposizione generica e insufficiente». Così Guglielmo Epifani sul pacchetto anticrisi preparato dal governo. «Allo stato lo sciopero è confermato». Il giudizio negativo non trova riscontri in Cisl e Uil
«Il drenaggio fiscale, quei 350 euro pagati in più da lavoratori e pensionati, va restituito con le tredicesime...», Guglielmo Epifani neanche finisce la frase che viene interrotto da Silvio Berlusconi, «Non l’ha restituito neanche Prodi» dice il premier. «Per questo proclamammo lo sciopero generale» è la risposta del leader della Cgil. Solo che allora, agli inizi di quest’anno, la proclamazione fu unitaria. Il 12 dicembre la Cgil sciopererà da sola. «Allo stato sono confermate tutte le ragioni della mobilitazione», dichiara Epifani al termine dell’incontro. «Allo stato» è tutto nelle mani del governo, della sua capacità di accogliere - come ha detto il premier - «i consigli di tutti». A partire proprio dalle tredicesime, che non solo la Cgil, ma anche Cisl e Uil vogliono più pesanti con l’uso, però, della detassazione. Unisce poi il sindacato - ma anche Confindustria- la necessità di ammortizzatori sociali più forti per chi perde il lavoro.
Il vertice non ha dato e risposte attese, il giudizio della Cgil è negativo, la delegazione ha lasciato Palazzo Chigi insoddisfatta perché - come ha spiegato Agostino Megale che accompagnava Epifani - «si dovrebbe fare di più per sostenere i redditi da lavoro dipendente e pensioni, e per le tutele per giovani e precari». «È la prima emergenza», ha detto Epifani al tavolo - tantissimi stanno andando a casa». Ma l’esposizione del governo è stata «generica e insufficiente». «Quante sono le risorse? Come sono ripartite tra lavoro e impresa? Ci vuole di più, la crisi è inedita», ha sostenuto Epifani. La detassazione degli straordinari «va sospesa, in questa fase non serve». Opinione condivisa dalla presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia che punta ad alzare da 30 a 35mila euro il tetto di reddito per la detassazione dei premi di produttività. E su questo converge la Cisl. Anche per Raffaele Bonanni, infatti, meglio alzare la soglia di reddito, «anche sospendendo la detassazione degli straordinari».
Il giudizio negativo della Cgil non trova tuttavia riscontri presso le altre due confederazioni. «È stato un incontro interessante», per Bonanni, «vedremo poi venerdì la quantità delle risorse e la qualità delle disposizioni». «Bisogna dare subito un segnale positivo». E un intervento sulle tredicesime è la misura «più immediata». Dalla Cisl, infine, un appello alla «classe dirigente»: «Deve dimostrare senso di responsabilità e unità». Lo sciopero della Cgil è destinato a pesare sui rapporti unitari. L’impostazione data al decreto sembra convincere anche la Uil, salvo «verifiche tecniche». «Condivido l’idea di sostenere la domanda interna - ha detto Luigi Angeletti - e l’idea di incentivare le famiglie con figli, ma non può essere la dichiarazione dei redditi a stabilire chi è povero e dunque chi ne ha diritto».

Corriere della Sera 25.11.08
Il fronte della Cgil con Fiom: lo sciopero generale resta
di Enrico Marro


Epifani: le misure non bastano, il governo è fermo
Il premier stringe la mano al leader della confederazione e chiude il caso del vertice separato

ROMA — Visto che le misure annunciate ieri sera dal governo per affrontare la crisi sono le stesse che si sono lette in questi giorni sui quotidiani e visto che su di esse la Cgil aveva già espresso il suo giudizio negativo, nessuna sorpresa quando il segretario Guglielmo Epifani ha bocciato il pacchetto Berlusconi- Tremonti: «È necessario fare di più». Scontata, quindi, la conferma dello sciopero generale del 12 dicembre: «Le ragioni della mobilitazione restano tutte». A nulla sono valsi i contatti che ci sono stati, prima del vertice, tra lo stesso leader e il sottosegretario alla presidenza Gianni Letta. E nel vuoto è caduto il «caloroso invito» lanciato ancora ieri pomeriggio dal ministro del Welfare, Maurizio Sacconi, alla Cgil affinché riflettesse «su uno sciopero isolato», considerando quello che il governo propone «senza pregiudizi ».
Alla Cgil la tessera per i poveri non è mai piaciuta, per ragioni etico-politiche (assomiglia, secondo Epifani, al capitalismo compassionevole targato Bush) ancor prima che economiche. Per il resto, non ci sono i 350 euro di restituzione del fiscal drag che la Cgil avrebbe voluto con le tredicesime, non viene affrontata «l'emergenza precari» e gli interventi sembrano squilibrati a favore delle imprese, conclude il leader della Cgil.
Concetti che oggi saranno ripetuti in una conferenza stampa dallo stesso Epifani alla quale parteciperà anche il segretario della Fiom, Gianni Rinaldini.
Era già previsto che i due fossero insieme, spiegano alla Cgil, perché l'appuntamento era stato pensato nei giorni scorsi per parlare anche della crisi industriale. Ma è chiaro che il leader dei metalmeccanici — che ieri, ancor prima del vertice di Palazzo Chigi tra governo e parti sociali, aveva definito «insensate e beffarde» le dichiarazioni del presidente del Consiglio sul fatto che gli italiani devono avere fiducia — darà man forte a Epifani a sostegno dello sciopero generale.
Il sindacato, dunque, continua a restare diviso. Cisl, Uil e Ugl, che tengono aperto il dialogo col governo, davano per scontata la conferma dello sciopero da parte della Cgil. Ritengono che, al punto in cui sono gli equilibri interni a Corso Italia — con la segreteria Epifani puntellata dall'inedita alleanza tra la stessa Fiom e la Funzione pubblica di Carlo Podda, entrambe in prima fila sulla linea dello scontro con Berlusconi — la Cgil non potesse sottrarsi alla piazza. Ma i leader di Cisl e Uil, Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti, sono anche convinti che la Cgil dovrà pur porsi il problema di non restarci per altri 4 anni e mezzo in piazza. Tutti i presenti hanno quindi notato che, al termine del vertice, Epifani ha parlottato a lungo e cordialmente col ministro dell'Economia, Giulio Tremonti: di come potenziare gli ammortizzatori sociali per i precari e non solo. E quando Berlusconi ha stretto la mano a tutti i leader sindacali, a quello della Cgil avrebbe detto di essere dispiaciuto per l'incidente del vertice segreto di Palazzo Grazioli (c'erano Bonanni e Angeletti, ma non Epifani). Viene infine guardato con attenzione il segnale che arriva dal tavolo dell'artigianato dove non è escluso che la Cgil possa firmare la pre-intesa sulla riforma del modello contrattuale. Sarebbe l'inizio della ricucitura con Cisl e Uil? Troppo presto per dirlo.

l’Unità 25.11.08
Gianni De Gennaro Oggi l’udienza preliminare per l’ex numero 1 della polizia e il questore
Ipotesi di reato «Istigato alla falsa testimonianza durante il processo per la Diaz e il G8»
E venne il giorno del «Capo»
di Claudia Fusani


I pm Zucca e Cardona Albini chiedono il giudizio per il prefetto, il questore Colucci e Mortola. «De Gennaro ha istigato e indotto il sottoposto a deporre il falso nel processo Diaz nell’udienza del 3 maggio 2007».
Il Capo che «fa praticamente marcia indietro nelle sue dichiarazioni» e un prefetto, a lui sottoposto, che deve «rivedere il discorso per aiutare il Capo e i colleghi». Verbali di interrogatorio segreti che passano da un testimone all’altro prima delle deposizioni in aula per «concordare» e «uniformare» il senso delle dichiarazioni. Indagati che vengono informati di essere intercettati. Sempre il Capo raccontato mentre ringrazia e gioisce perché la pubblica accusa «è stata messa alla sbarra».
Di più: è stata «sbaragliata». Vengono i brividi a leggere le intercettazioni che sono il cuore delle 50 pagine - ma l’indagine ne conta 900 - con cui i pm di Genova Enrico Zucca e Francesco Cardona Albini chiedono il rinvio a giudizio dell’ex capo della polizia Gianni De Gennaro, del questore di Genova ai tempi del G8, e ora prefetto, Francesco Colucci e di Spartaco Mortola, nel luglio 2001 a guida della Digos. Per tutti l’ipotesi di reato è falsa testimonianza. Come raccontano decine e decine di intercettazioni, avrebbero aggiustato le testimonianze per difendere se stessi e la polizia finita sotto processo per i fatti di Genova. Pesa l’aggravante di essere tutti pubblici ufficiali. Di più, i custodi della sicurezza e dell’ordine pubblico.
Ecco, al di là di quello che deciderà oggi il gup Silvia Carpanini, non c’è dubbio che dalla lettura di quelle intercettazioni la fiducia nell’istituzione polizia risulta indebolita. E questo mentre sono ancora forti le polemiche sulla sentenza che due settimane fa ha assolto i vertici del Dipartimento della pubblica sicurezza che la sera del 21 luglio 2001 organizzarono la perquisizione-mattanza nella scuola Diaz.
L’inchiesta nasce nel 2007 mentre era in corso il dibattimento per la Diaz e dopo che, all’improvviso, spariscono dall’ufficio corpo di reato le due bottiglie molotov che avevano giustificato, secondo la questura, l’irruzione nella scuola e che poi risultarono false, cioè trovate in tutt’altra parte della città. L’accusa non ci sta, non accetta la versione ufficiale «distrutte per sbaglio». E allaccia una serie di telefoni. Due soprattutto: l’utenza del prefetto Colucci, e di Spartaco Mortola. Nessuno dei telefoni del Capo della polizia è finito sotto controllo.
Secondo l’accusa Colucci «ritratta», tra indagini (fine 2001) e deposizione in aula (3 maggio 2007), la sua testimonianza in almeno cinque punti. Dapprima sostiene di aver informato il Capo della polizia, tanto da aver avvisato il suo portavoce a Genova Roberto Sgalla, sull’operazione Diaz rispettando così la catena di comando dell’ordine pubblico che per il G8 coinvolgeva direttamente il Dipartimento della pubblica sicurezza. In aula, davanti ai pm, la comunicazione di quella sera diventa invece «generica», in linea con la versione di De Gennaro. Colucci direbbe il falso anche quando all’improvviso indica in un vicequestore presente a Genova il responsabile delle operazioni: un funzionario già fuori dall’indagine e il cui coinvolgimento «mette in difficoltà l’accusa».
Le ritrattazioni di Colucci nascono, secondo l’accusa, dalle «pressioni» esercitate dal Capo della polizia. Ecco cosa scrivono i pm: «La posizione di supremazia del Capo, unità alla personalità del prefetto a confronto con il ruolo e la personalità di Colucci, rimosso dall’incarico di questore dopo i fatti di Genova e ora (2007 ndr) nella prospettiva di diventare finalmente prefetto, fanno intendere in quale modo i due potessero trovare la consonanza in parola».

l’Unità 25.11.08
Treviso, spina staccata al neonato
il vescovo: no ad accanimenti
di Toni Fontana


«Professionalità e sensibilità». Mentre infuriano le polemiche (Luca Volontè, Udc, ha parlato di «introduzione di una eugenetica soft») sulla vicenda del neonato con gravissime malformazioni ricoverato al reparto di Patologia neonatale di Treviso, cui i medici hanno sospeso i trattamenti, ritenendo che non vi erano speranze di salvezza, interviene il vescovo del capoluogo veneto, Andrea Bruno Mazzocato. Il prelato si schiera con la scelta compiuta dai sanitari: «Ogni vita umana - dice - è sacra e chiede di essere sostenuta con assoluto rispetto e con mezzi possibili, in ogni momento. Questo sostegno non deve però offendere la dignità della persona con accanimenti terapeutici inutili». Il vescovo non parla di eutanasia; nel suo intervento accenna alla «notizia riportata dai mezzi di comunicazione circa la prassi medica seguita nei confronti del neonato affetto da gravissime malformazioni morto a Ca’Foncello» e, dopo aver ricordato «i principi morali più volte espressi dalla Chiesa» si schiera contro «accanimenti terapeutici inutili, anche se tecnicamente possibili». Tra le righe il prelato ripropone le indicazioni del centro di bioetica dell’Università Cattolica di Roma che, nel 2006, diffuse le linee guida «per l’astensione dall’accanimento terapeutico nella pratica neonatoligica» schierandosi appunto per la sospensione di trattamenti inutili. A Treviso il procuratore capo Antonio Fojadelli fa notare che sul «testamento biologico non esiste ancora un quadro normativo certo e completo».
Su Eluana Englaro e i temi che riguardano il «trattamento di fine vita» interviene Famiglia Cristiana. L’editoriale del prossimo numero recita tra l’altro che «siamo di fronte al suicidio di un Parlamento, sempre più svilito, che abdica alle proprie responsabilità e si autosospende dalla sua funzione legislativa».
Berlusconi - dice il settimanale - «una legge non la vuole e se ne lava le mani, affidandosi ai giudici (almeno in questo caso!).. Veltroni «è l'eterno indeciso».

l’Unità 25.11.08
Emergenza Gaza Nella Striscia civili allo stremo. La denuncia delle organizzazioni umanitarie
Cisgiordania murata. La regione ridotta in tanti ghetti. Il mondo assiste impotente
Il dramma dei palestinesi assediati, divisi e senza Stato
di Unberto De Giovannangeli


Il 29 novembre l’Onu ha indetto la Giornata mondiale di solidarietà con il popolo palestinese. L’Unità dà voce a un popolo senza diritti, raccontandone speranze e tragedie. Partendo dall’assedio di Gaza.
Una nazione senza Stato. Un popolo tradito dalle sue leadership, abbandonato dai «fratelli» arabi, assediato (a Gaza) e costretto a vivere nei tanti ghetti a cui è stata ridotta la Cisgiordania. È la Palestina oggi. Il dramma di un popolo si consuma nell’impotenza manifesta della comunità internazionale e in uno scontro di potere interno che rischia di trasformarsi in una devastante guerra civile. Il 29 novembre l’Onu celebra la giornata mondiale di solidarietà con il popolo palestinese. Solidarietà è anche mantenere viva l’attenzione su un dramma in atto. Il dramma degli «ingabbiati» di Gaza e dei «murati» della Cisgiordania.
LA GABBIA DI GAZA
È l’emergenza tra le emergenze. I pressanti inviti delle Nazioni Unite hanno spinto Israele a riaprire parzialmente la frontiera con la zona controllata da Hamas per permettere il passaggio dei beni di prima necessità. Di fronte all’aggravarsi della crisi umanitaria, il governo di Gerusalemme ha concordato il lasciapassare per un numero limitato di convogli. Dal 4 novembre, quando un’incursione di Tsahal nel territorio aveva provocato una ripresa degli attacchi di Hamas, è la seconda volta che le autorità israeliane hanno permesso la revoca del blocco. Una misura, però, giudicata troppo timida e quasi inutile dagli organismi che operano nella zona. Una quarantina di camion di alimenti, «non sono sufficienti», lamenta Christofer Gunness, portavoce dell’Agenzia Onu per i rifugiati della Palestina (Unrwa).
«Come animali in gabbia». Così si descrivono gli abitanti della Striscia di Gaza: senza corrente elettrica, senza scorte alimentari, senza latte per i propri figli. Voci da Gaza. Racconti disperati. Richieste di aiuto che non devono cadere nel vuoto. «Non ne possiamo più, mi sembra di essere un animale in gabbia», afferma Khalil Barakat, 50 anni, che vive nella colonia di Al Shati. «Ho paura per la vita di mio figlio, ha solo 11 mesi», riferisce Intizar, una giovane mamma, «siamo senza corrente elettrica e giro tutto il giorno per trovare del cibo per il mio bambino. Sono stata in alcuni negozi e non ho trovato nulla, tutto deserto». La donna racconta che è diventato impossibile trovare alcuni prodotti «come il latte, la carne, i pannolini...».
LA TESTIMONIANZA DI AMIRA
A Gaza è tornata anche Amira Hass, corrispondente del quotidiano israeliano «Haaretz» nei Territori. Amira aveva vissuto a Gaza negli anni Novanta. «In primo luogo mi ha colpito la miseria», dice la reporter. «Rispetto al passato - annota Amira Hass - la povertà mi fa impressione». «Le misure che aggravano le sofferenze della popolazione civile della Striscia di Gaza sono inaccettabili e devono cessare immediatamente», dichiara sottosegretario generale dell’Onu John Holmes.
GAZA O HAMASLAND?
Assediati da Israele, il milione e mezzo di palestinesi della Striscia fanno i conti con le conseguenze, disastrose, della resa dei conti armata tra Hamas e Al Fatah. È l’altra faccia della tragedia palestinese: quella di uno scontro politico-militare che non ha fine. Da Ramallah, parla il presidente dell’Anp, Mahmud Abbas (Abu Mazen). Il rais insiste sulla necessità di difendere la unità del popolo palestinese di fronte ai «golpisti di Gaza», cioè Hamas. Se costoro pensano di poter decidere per il popolo intero, esclama con foga, «si illudono,si illudono, si illudono». Dopo aver espugnato con la forza (nel giugno 2007) comandi centrali, commissariati e campi profughi essi vorrebbero ora «creare un regime separatista nella nostra amata Gaza» lamenta Abu Mazen.
«È lui il golpista, succube di Israele», ribatte Mahmud al Zahar, leader dei «duri» di Hamas.

l’Unità 25.11.08
Nelle sale tedesche «Anonyma» tratto dal diario dell’epoca d’una giornalista
Le violenze perpetrate dai soldati dell’Armata Rossa taciute e rimosse per 60 anni
1945, i due milioni di stupri che misero fine alla guerra
di Gherardo Ugolini


Un gioco di veti incrociati ha coperto la tragedia di massa di cui, alla sconfitta, furono protagoniste in Prussia orientale le cittadine del Reich. Ora il film di Max Färberböck l’ha imposta all’attenzione di tutti.

BERLINO. Quante furono le donne tedesche violentate dai russi negli ultimi mesi di guerra? Secondo gli storici, se si considera l’intero territorio della Prussia orientale, la regione di confine dove l’Armata Russa sfondò già nel dicembre del 1944, le donne vittime di stupro furono circa 2 milioni, gran parte delle quali ammazzate direttamente dai soldati che le violentarono o morte per le conseguenze della violenza (spesso compiendo suicido). Un dramma collettivo dalle proporzioni mostruose, sul quale per decenni è caduto un muro di silenzio. Nella Ddr il tema è stato esorcizzato fino all’ultimo per ovvie ragioni di opportunità politica: non si poteva parlare dei soldati sovietici se non in termini apologetici di liberatori. Allusioni agli stupri di guerra erano ammesse ma solo sottolineando che si era trattato di pochi episodi isolati dovuti al cattivo comportamento di qualche soldato ubriaco che aveva disatteso le consegne delle autorità militari. Ed era d’obbligo ricordare che i tedeschi della Wehrmacht pochi mesi prima avevano violentato le russe in misura incomparabilmente superiore. Ma anche all’Ovest si è preferito per decenni far cadere il silenzio su quella tragedia, in parte per un senso di vergogna che coinvolge la biografia dell’intera nazione, in parte per un principio di «colpa collettiva» introiettato in misura più o meno consapevole da molti, e in parte anche per non danneggiare i rapporti politici con l’Urss e poi con la Russia.
Ora questa rimozione sembra essere finita. A riproporre la vicenda delle violenze dei russi sulle donne tedesche è arrivato un film uscito sugli schermi tedeschi a fine ottobre. Si intitola Anonyma. Eine Frau in Berlin e l’ha girato Max Färberböck basandosi sul diario di una giovane giornalista tedesca trovatasi a vivere a Berlino nelle settimane tra il 20 aprile e il 22 giugno del 1945. L’attrice Nina Hoss interpreta il ruolo della protagonista sullo sfondo degli ultimi giorni di guerra: l’assedio sovietico della capitale, la resistenza a oltranza ordinata dal Führer, l’arrivo dei carri armati dell’Armata Rossa fino alla capitolazione del Reich. La pellicola illustra la pena di sopravvivere in una città distrutta, la difficoltà di trovare cibo, la vita nascosta negli scantinati. Rievoca anche la grande paura che serpeggiava a Berlino nei confronti dei Russi, descritti dalla propaganda nazista come mostri crudeli e selvaggi. E racconta naturalmente anche degli stupri di massa compiuti dai soldati vincitori.
PERSONA O BOTTINO?
Finché la protagonista, che anche nel film non ha nome, per puro spirito di sopravvivenza decide di lasciarsi prendere come bottino di guerra da un ufficiale dell’esercito nemico (Evgeny Sidikhin) così da garantirsi la sussistenza materiale ed un minimo di protezione. Tra i due nasce un sentimento che potrebbe essere definito d’amore, se non ci fosse a dividerli la barriera dei diversi schieramenti: lui uno dei colpevoli, lei una delle vittime. Il film di Färberböck racconta tutto questo in modo sobrio e disincantato, senza rabbia, vittimismi e neppure moralismi. Questo film è un’ennesima testimonianza di quella tendenza che da un po’ di tempo si è fatta avanti nella storiografia tedesca e con essa anche nella percezione comune della gente. La parola d’ordine è: indagare a tutto campo su eventi considerati fino agli anni Novanta un tabù, in particolare sulle sofferenze patite dalla popolazione civile tedesca durante la seconda guerra mondiale. Un tempo parlare dei tedeschi come «vittime» piuttosto che come «carnefici» poteva costare l’accusa di nostalgia verso il passato nazista o di revisionismo destrorso. Adesso non più. Così abbiamo visto il dolore dei cittadini di Dresda, caduti sotto le bombe alleate nel febbraio 1945, così come il dramma dei profughi tedeschi costretti dopo la guerra a lasciare i paesi di residenza (Sudeti, Slesia, Pomerania). Sovente è stato il cinema il veicolo più efficace nel raccontare queste pagine dolorose della storia. E in questa serie rientra anche la questione degli stupri di massa compiuti dai soldati dell’Armata Rossa.

l’Unità Firenze 25.11.08
Sindacati e studenti si incontrano in vista del prossimo sciopero generale
di S. Cas.


«La vostra lotta è la nostra lotta». Le parole di Franco Nigi - Rsu Electrolux - riassumono l’incontro di ieri al plesso occupato di viale Morgagni tra gli studenti e alcuni rappresentanti sindacali. «Dovremo reggere nel tempo - spiega Gianni Rinaldini, segretario generale Fiom Cgil -, perché governo e confindustria pensano di far passare questo autunno caldo e poi continuare per la loro strada. Ma lo sciopero generale del 12 dicembre sarà solo l’inizio». Sciopero confermato quindi, «fintanto che il governo non cambierà politica economica», nelle parole di Andrea Montagni della Cgil, e che vedrà in piazza, a fianco dei lavoratori, studenti e precari della conoscenza, «lavoratori privi di diritti, di assistenza sanitaria e previdenziale, costantemente sotto ricatto - come racconta Ilaria Agostini del coordinamento docenti precari - costretti ad accettare condizioni lavorative non regolari». Ancora più ricattabili sono i lavoratori stranieri «che, perdendo il lavoro, diventano automaticamente clandestini - ricorda Rinaldini - in virtù di una legge vergognosa, la Bossi-Fini, contro cui combatteremo. Perché è importante che tutti i lavoratori, strutturati, precari e stranieri, rimangano uniti in un momento in cui il governo cercherà in tutti i modi di dividerli». Dopo l’incontro di ieri, continuano in varie facoltà dibattiti e approfondimenti che ormai vanno oltre la riforma universitaria. Oggi e domani al polo di Novoli sarà ospitato il Forum nazionale contro la mafia, mentre a Sesto alle 21.15 continuano gli incontri sulle energie rinnovabili.

Repubblica 25.11.08
L'Osservatore: "L'Europa è in preda ad un impulso di autodistruzione"
Crocifisso, la Chiesa attacca la Spagna
di Alessandro Oppes


La guerra dei vescovi contro Zapatero
Accuse di "cristofobia" dopo il veto del crocifisso. Anche il Vaticano attacca
I socialisti propongono: estendere il veto di Valladolid a tutta la Spagna

CITTA´ DEL VATICANO - «Che si giunga a considerare un crocifisso offensivo in Occidente si può solo interpretare come un sintomo allarmante di amnesia o necrosi culturale». L´Osservatore Romano ha affidato a un articolo dello scrittore spagnolo Juan Manuel de Prada il compito di esprimere il proprio sconcerto per la decisione presa nei giorni scorsi dal tribunale amministrativo di Valladolid di far rimuovere i crocifissi dalle aule di una scuola pubblica della città spagnola. La decisione non è ancora stata commentata ufficialmente dal Vaticano.

MADRID - «A volte è necessario saper dimenticare». Parla con tono pacato, il cardinale Antonio Maria Rouco Varela, ma le sue parole sono taglienti come lame. Dimenticare la Guerra Civile, dimenticare la dittatura, è il nuovo obiettivo proclamato dal presidente della Conferenza episcopale, per evitare di «dar adito a scontri che potrebbero finire per essere violenti». L´accusa non è neanche tanto velata, e nel mirino, ancora una volta, c´è il governo socialista di José Luis Rodríguez Zapatero. Colpevole, per il cardinale ultra-conservatore di Madrid, di alimentare lo scontro sociale, di ostacolare la «riconciliazione» nazionale per il fatto di aver promosso una legge, quella sulla «Memoria storica», che ha l´obiettivo di restituire dignità alle vittime del franchismo.
Rouco si presenta con questa nuova sfida davanti all´assemblea plenaria dei vescovi, ancora scossi per la decisione presa giorni fa da un giudice di Valladolid di far rimuovere tutti i crocifissi dalle pareti di una scuola pubblica. «La nostra società è malata», aveva tuonato poche ore prima il cardinale primate di Spagna, Antonio Carizares, parlando di «cristofobia». E il malumore espresso a gran voce da alcuni prelati rischia già di trasformarsi in un coro di protesta dell´intera Chiesa cattolica spagnola. Anche dal Vaticano l´Osservatore Romano ha commentato la sentenza di Valladolid: "Che si consideri un crocifisso offensivo in occidente è sintomo di amnesia e necrosi culturale" scrive nel suo editoriale il quotidiano del Vaticano. "E in Spagna questo impulso autodistruttivo assume espressioni violente".
Nessuna reazione a caldo dal palazzo della Moncloa, sede del governo, ma a parlare senza peli sulla lingua - esprimendo quella che è con ogni probabilità l´opinione dello stesso premier Zapatero - è il numero due del Psoe, José Blanco: «Mi sorprende che chi sta promuovendo canonizzazioni in relazione a persone di quell´epoca, ora faccia appello all´oblio e al perdono. Non si può cancellare la memoria del nostro paese e alcuni soffrono di amnesia in funzione del fatto che gli convenga o meno». I socialisti si schierano poi anche a favore della rimozione dei crocifissi dalle scuole pubbliche perché, dice Blanco, ricordando di essere «credente», «bisogna rispettare il credo religioso di tutti».
Lo scontro si profila durissimo, e i vescovi sembrano decisi ad affrontare a muso duro la svolta «laicista» del governo Zapatero. In linea con le posizioni espresse in questi anni in Parlamento dal Partito popolare, contrario a «riaprire vecchie ferite», il cardinale Rouco Varela vede una soluzione nel ritorno allo «spirito di riconciliazione, sacrificato e generoso» degli anni della transizione alla democrazia. Anni in cui, in base a un patto non scritto, la società spagnola scelse di evitare di fare i conti con il passato per favorire il consolidamento delle istituzioni democratiche. Ma, arrivato al potere nel 2004, Zapatero aveva giudicato maturi i tempi per ridare spazio alla memoria, promuovendo un risarcimento morale delle vittime e favorendo la ricerca dei resti delle migliaia di desaparecidos. Ma il presidente della Conferenza episcopale la pensa in maniera completamente opposta. «Dimenticare» è la nuova parola d´ordine, per ottenere «un´autentica e sana purificazione della memoria» che liberi i giovani «dagli ostacoli del passato, senza gravarli dei vecchi litigi e rancori».
Reazioni anche Italia alla sentenza del giudice di Valladolid. «La laicità dello Stato è un principio troppo serio per essere ridicolizzato, come è avvenuto in Spagna», ha detto il leader dell´Udc Pierferdinando Casini. Per Roberto Calderoli, ministro per la Semplificazione Normativa, «il crocifisso non è solo un simbolo religioso, ma è il simbolo della nostra civiltà».

Repubblica 25.11.08
Se il futuro dell’uomo si chiama poliamore
Dalla poligamia alle società monogamiche
di Jacques Attali


Anticipazione / Jacques Attali ha curato un volume dedicato all´evoluzione dei rapporti di coppia a far data da quattro miliardi di anni fa
Per i primi esseri umani la donna è ristoro, l´uomo potenza, lei è terra mentre lui è cielo
Il matrimonio, la consacrazione di un rapporto di coppia, nasce solo presso gli Ebrei

Da oltre quattro miliardi di anni, la storia della vita segue una sola strada, quella della propria conservazione. E fa ricorso a una sola strategia, quella della diversificazione. Per riuscirvi inventa mille stratagemmi a cominciare dal più singolare di tutti, il più fantasmagorico, fonte di variazioni che si rinnovano senza sosta: la sessualità, strana divisione di ogni specie in due generi, la cui unione è necessaria perché la specie si perpetui.
La specie umana è la prima a inscrivere i rapporti tra i sessi in una concezione globale del mondo. A tal punto che fece dell´amore e delle sue interdizioni uno dei pilastri fondanti delle prime civiltà, le quali stabilirono che le leggi di quei rapporti fossero eterne poiché fissano le condizioni della sopravvivenza e dell´identità culturale.
Per i primi esseri umani, la donna è accoglimento, luogo di ristoro; l´uomo è potenza e movimento. La donna è «Terra», l´uomo è «Cielo», dicono i popoli delle origini. La donna ha il progetto esistenziale di trasmettere la vita, mentre l´uomo ha un progetto di conquista motivato dalla paura della fine. Gli uomini temono le donne poiché, mettendoli al mondo, li destinano alla morte e perciò, finché il ruolo dei padri nella procreazione non è stato scoperto, le madri hanno avuto un potere assoluto sui figli.
In particolari circostanze geografiche e storiche, le prime mitologie organizzano la protezione demografica del gruppo. Definiscono tabù ed esigenze primarie. Non esiste nessuna pratica (dall´incesto alla zoofilia, passando per la pedofilia, il feticismo, la pornografia o l´erotismo) che, vietata da alcune società, non sia fortemente raccomandata da altre e soltanto i rapporti sessuali tra madre e figlio sono condannati universalmente.
A un certo punto ? spinte da circostanze del tutto particolari ? alcune società si orientano verso la poliandria (più uomini per una sola donna), mentre, una volta che l´uomo prende coscienza della paternità, quasi tutte le altre tendono alla poliginia (più donne per un solo uomo). Visto che servono più donne che uomini, queste società poliginiche sono necessariamente bellicose e conquistatrici. L´accumulazione del denaro per produrre ed economizzare il lavoro non è ancora d´attualità: la poligamia non è facilmente compatibile con il capitalismo?
Dobbiamo aspettare gli Ebrei, quattromila anni fa, perché le relazioni tra i due sessi siano consacrate in una cerimonia, il matrimonio, che si svolge in un luogo di culto sotto il controllo dei genitori e dei religiosi senza però che sia messa in discussione la poliginia.
Poi arriva il cristianesimo. Prima di allora, nessuno aveva preteso di imporre a tutta l´umanità la monogamia, la fedeltà totale e relazioni irreversibili. Nessuno aveva preteso di gestire con tanta precisione la vita sessuale di ogni fedele. E mentre tutte le religioni avevano considerato inaccettabile il celibato, per Paolo e i suoi discepoli il vero scandalo è il sesso. Per i padri della Chiesa, la monogamia non è che uno stratagemma perché l´umanità sopravviva: la vita è un dono di Dio che è compito degli uomini trasmettere. Da allora assume una forma assoluta: una sola donna, un solo uomo, tutta la vita, nel rifiuto della sensualità e sotto la sorveglianza puntigliosa di Roma. Attraverso il controllo della sessualità e del matrimonio, la Chiesa, sposa e madre, tenta così di prendere il potere sull´Occidente, poco prima che nel VII secolo l´islam venga a restituire legittimità alla poliginia su un quinto del pianeta.
Anche se in Europa la Chiesa cattolica è dominante da un punto di vista politico, non riesce a imporre quasi niente della sua concezione dell´amore fino al XII secolo. La poliginia resta consuetudine dei potenti, il concubinato quella dei contadini, e i preti, che prima di allora non sono stati quasi mai casti, si occupano raramente dei matrimoni.
In compenso, un vento venuto d´Oriente, dove la poliginia è una tradizione dei regimi imperiali, sconvolge l´Occidente glorificando erotismo e amor cortese. Ne scaturisce la modernità occidentale che trova il suo nutrimento in una ricerca amorosa che alcuni reprimono e trasformano in bramosia di conoscenza, ambizione artistica o superamento di sé.
Con Christopher Marlowe e William Shakespeare fa la sua apparizione il colpo di fulmine, unione paritetica dei corpi e degli spiriti, e l´amore trova mille forme di espressione nella letteratura e nell´arte. Uomini e donne cominciano a parlarsi da pari a pari e il loro dialogo non cesserà più: nasce l´attrazione per l´Altro, l´interesse per l´Altro, il bisogno dell´Altro e l´attaccamento all´Altro. Le donne vi ricoprono il ruolo principale, sono le prime che osano davvero parlare d´amore.
La Riforma protestante e l´avvento della società borghese del XVII secolo limiteranno l´amore alle esigenze della riproduzione sociale e faranno dell´eredità la prima ragion d´essere della famiglia e del matrimonio: non si deve risparmiare in onore di Dio, né per avere più donne, ma per accrescere la ricchezza della famiglia.
Nel XIX secolo l´unione borghese riesce là dove il matrimonio cristiano ha fallito e lo Stato riorganizza il matrimonio monogamico a proprio profitto, ma senza punire l´uomo che pratica la poliginia.
Nel XX secolo, mentre in gran parte del mondo le donne si battono ancora contro la poliginia, contro il matrimonio forzato e quello dei bambini (ancora oggi una ragazzina su tre è data in sposa prima di aver compiuto 18 anni), l´amore diventa la prima rivendicazione veramente planetaria. Si impone il diritto di ciascuno a essere amato e la coppia diventa un rapporto tra due persone che si parlano, si osservano, si giudicano e si amano. Non c´è nulla che permetta di garantire la perennità della relazione, poiché se è vero che gli esseri umani hanno bisogno di amare ed essere amati, molti hanno anche bisogno di cambiare oggetti e soggetti d´amore. L´utopia cristiana e la norma borghese vengono perciò cancellate: l´assenso degli sposi, se è veramente libero, non può essere né eterno, né esclusivo.
Come in un ritorno alle origini, si annuncia una nuova era che porta con sé nuove forme di relazioni tra esseri umani fondate sulla soddisfazione istantanea dei desideri e liberate progressivamente dall´assillo della riproduzione: si profila il matrimonio contrattualmente provvisorio, in cui la durata del rapporto sarà fissata in anticipo dalla coppia; il poliamore, in cui ciascuno potrà avere in tutta trasparenza più amori allo stesso tempo; la polifamiglia, in cui si farà parte contemporaneamente di più famiglie; la polifedeltà, in cui ciascuno sarà fedele a diversi membri di un gruppo dalle sessualità molteplici. Quanto ai bambini, vivranno in una casa dove i vari genitori verranno a turno a occuparsi di loro.
In un futuro più lontano sessualità, desiderio e amore saranno ancora più facili da dissociare, macchine speciali si occuperanno della riproduzione e, prima di diventare anch´essa meccanica, la sessualità sarà una pratica devoluta esclusivamente al piacere. L´utero artificiale e la clonazione schiuderanno prospettive vertiginose in cui ciascuno potrà decidere autonomamente di riprodursi e un giorno si arriverà forse all´ermafroditismo universale.
È un po´ come se l´umanità scegliesse di ripercorrere a ritroso la storia della vita, tornando prima al matrimonio di gruppo, poi alla partenogenesi. Per riscoprire un giorno, chissà, il bisogno dell´altro. E quindi dell´amore.
Si deve resistere a un tale avvenire o rimanere stupiti davanti a tanti mutamenti? Possiamo sperare che l´amore salvi gli esseri umani dalla propria follia? Il nostro libro è un viaggio in questa storia meravigliosa e minacciata. Un viaggio che ci porterà a scoprire le tribù poliandriche della Cina e i rituali omosessuali della Nuova Guinea; le donne degli harem d´Arabia e i numerosi mariti delle donne tibetane; le prostitute d´America e le geishe giapponesi; i maestri dell´erotismo indiano e i matrimoni di gruppo nel Congo; famiglie borghesi e trii bisessuali; macchine di piacere e chimere d´amore. Tutti protagonisti dell´ambizione umana più elevata e più rivoluzionaria: trascendersi per raggiungere un ideale, quello di piacere all´altro per piacere a se stessi. Ed essere amati.

il Riformista 25.11.08
Berlusconi non è fascismo. Però...
di Massimo Giannini


Nel mio libro "Lo Statista" rifiuto le tesi in voga dell'anti-berlusconismo radicale. Ma cerco di spiegare perché, a mio avviso, la parabola politica del premier si inserisce in un filone di continuità simbolica con il Ventennio.

Caro direttore, nel suo articolo sul Riformista di martedì 18 novembre Andrea Romano mi fa l'onore di inserirmi a bella posta in uno dei «due rami ugualmente sterili» attraverso i quali si sarebbe sdoppiato quello che lui chiama «l'antiberlusconismo radicale» nato all'incirca nel 1995. Tredici anni dopo, io sarei uno dei frutti (se capisco bene tra i più bacati) di cotanta semina. Sarei parte di quella «ridondanza a giorni alterni dell'allarme regime». E farei coppia con Antonio Di Pietro. Colpevole lui di aver raffigurato in Parlamento Berlusconi come il generale Videla. Colpevole io di aver scritto del berlusconismo «né più né meno come di un regime con tratti in comune con il fascismo». «Con buona pace - aggiunge Romano - sia del rispetto dovuto alle vere vittime dei veri fascismi, italiano e argentino, sia della buona salute dei nostri sensori civili devastati con tanta leggerezza».

No, caro direttore. Non ci sto. Per amor di verità, Koba avrebbe dovuto leggere (o almeno leggere meglio) il libro che ho appena dedicato al Cavaliere ("Lo Statista"). Se l'avesse fatto, avrebbe potuto raccontare ai tuoi lettori che il raffronto tra berlusconismo e fascismo si iscrive in una riflessione molto più ampia sulla natura "tecnica" dei totalitarismi moderni. Avrebbe potuto scoprire che il mio tentativo è opposto a quello in voga presso l'antiberlusconismo radicale, che tende ad esaurire il fenomeno o come semplice forma di telepopulismo mediatico, o come barbaro esempio di golpismo costituzionale.

Proprio per evitare queste semplificazioni, (che spesso la cultura terzista sfrutta abilmente per incasellare a suo comodo tutti coloro che hanno il torto di criticare il Cavaliere) nel libro non ho fatto un solo cenno alle vicende giudiziarie di Berlusconi. Viceversa, ho fatto molti cenni sulla piena legittimità democratica del suo governo, sulla compattezza del blocco sociale che ha ricostruito e che è largamente maggioritario nel Paese, sull'oggettiva capacità di generare consenso di molte campagne messe in atto in questi mesi dai suoi ministri. Ho cercato di spiegare perché, a mio parere, il Cavaliere è ormai un vero statista: tra i peggiori, ma pur sempre uno statista che ha saputo capire e conquistare l'Italia.

Ho cercato di spiegare perché, a mio avviso, la sua parabola politica si inserisca in un filone di continuità simbolica con il fascismo. C'è qualche affinità di contesto politico (la crisi dello Stato liberale e il crollo del sistema dei partiti), qualche affinità di carattere personale (il mito del capo infaticabile, il carisma populista e situazionale), qualche affinità sui valori di fondo (dio-patria-famiglia), qualche affinità sulla produzione e la gestione del consenso (attraverso la "vigila cura" sui media). E poi, certo, una analoga visione autocratica del potere, coniugata al tentativo di riprodurre una "rivoluzione conservatrice" che l'opinione pubblica mostra di gradire. Il tragico errore dell'opposizione (nel libro dico anche questo) è di non provare a chiedersi perché, ma di continuare a pensare, in nome del vecchio mito della "diversità" berlingueriana, che quello italiano sia un popolo indegno di questa nobile sinistra.

Ho cercato anche di chiarire perché, secondo me, l'Italia di oggi attraversa un ciclo di democrazia a bassa qualità. Quando lo "stato di diritto" diventa "stato di governo", e il potere tende ad esercitare la sua sovranità in modo tendenzialmente assoluto, con poco rispetto per le istituzioni di garanzia e con molta intolleranza per tutte le manifestazioni di dissenso, la democrazia non viene meno. Ma può assumere connotati illiberali, sui quali forse non è inutile riflettere. Possibilmente senza ricadere nei soliti (quelli sì, davvero corrivi) stereotipi dominanti: il berlusconismo militante e l'antiberlusconismo combattente. Non ho bisogno della lezione di Romano, per riconoscere la differenza con le tragedie dei veri fascismi, e per portare il rispetto che meritano alle vittime delle dittature del tragico Novecento. Lo scrivo testualmente, nel libro. E mi dispiace che una persona intelligente come Romano mi ricicli in quello che nel libro chiamo «il rumore bianco» dell'informazione, come fossi uno dei tanti "imbecilli" (e in effetti non ne mancano) che abbaiano come cani alla luna "regime, regime!". Non era e non è questa la mia intenzione.

Ma un'ultima cosa, al Terribile Koba, la voglio chiedere. Apprezzo la chirurgica precisione del suo bisturi culturale, che seziona i tessuti già martoriati dello sciagurato centrosinistra italiano. Ma perché non prova a dirci lui (con lo stesso rigore analitico e politico) cosa pensa del berlusconismo di questi anni? Perché non scattano mai i suoi «sensori civili», quando il Cavaliere definisce "coglioni" gli italiani che votano a sinistra, o "imbecilli" quelli che lo criticano perché dà dell'abbronzato a Obama? Perché non si indigna, in nome di quelle povere vittime delle vere dittature, quando non riesce mai a dirsi anti-fascista, e dribbla il tema con un agghiacciante "io penso solo a lavorare"? Perché non prova un moto d'imbarazzo, quando dice che il Parlamento è un posto per nullafacenti e la Corte costituzionale è un covo di comunisti, quando impone alle Camere il Lodo Alfano, quando accusa i tg di creare ansia nei telespettatori, o quando sceglie lui (espropriando di questo diritto l'opposizione) il presidente della Vigilanza Rai?
Tutto questo, con il vero fascismo mussoliniano, non c'entra. Sono il primo a saperlo, e a scriverlo. Ma Koba è così sicuro che tutto questo c'entri con la vera democrazia liberale?

il Riformista 25.11.08
Il dibattito è antico, e riguarda la natura del sistema berlusconiano


Il dibattito è antico, e riguarda la natura del sistema berlusconiano. Analoga al fascismo, per gli anti-berlusconiani in servizio permanente effettivo, una fitta schiera di "intransigenti" radicali, che si è conquistata ascolto e consenso nell'elettorato della sinistra. Populista ma democratica invece per chi, pur non essendo berlusconiano e spesso anzi sentendosi all'opposizione, non vuole trasformarsi in professionista dell'anti-berlusconismo e anzi pensa che chi lo fa rafforza il consenso popolare verso il berlusconismo.
Alla gamma dei pareri si è aggiunto domenica il solito Di Pietro il quale, in un'anticipazione del suo nuovo libro pubblicata dal Corriere della Sera, è giunto al paragone estremo, quello con Hitler. Berlusconi, a suo dire, tratterebbe i magistrati come gli ebrei, diventando così una specie di nuovo Fürher (nella foto, la statua di cera del grande dittatore).
Non ricorderemo a Di Pietro che l'Olocausto non si paragona, perché rappresenta l'indicibile, e ogni parallelo storico lo banalizza, recando offesa grave alla sua vittima: il popolo ebreo. Né aggiungeremo che, dal versante opposto dei Di Pietro, c'è invece chi grida, tra il serio e il faceto, «Silvio santo subito», e «Meno male che Silvio c'è». Perché a demonizzazione corrisponde sempre beatificazione. Piuttosto, preferiamo affrontare il tema, più serio, del giudizio sul «regime» berlusconiano con i due articoli che ospitiamo in queste pagine: il primo è di Massimo Giannini, vicedirettore di Repubblica e autore del recente volume "Lo Statista. Il Ventennio berlusconiano tra fascismo e populismo", che replica a un articolo pubblicato sul Riformista del nostro Andrea Romano. Il secondo articolo è la controreplica di Andrea Romano.
Ci sembra un buon modo di discutere. Purtroppo la semplificazione dell'assoluta anomalia rappresentata in Italia dal fenomeno Berlusconi produce nel nostro dibattito pubblico più invettive e partigianerie che analisi e studio. Eppure sarebbe ora di cominciare a considerare Berlusconi come parte della storia d'Italia, e trattarlo di conseguenza sul piano storiografico. In fin dei conti, a fine legislatura il Cavaliere sarà stato in scena per un ventennio, né più né meno come Lui, come nota il titolo del libro di Giannini. E un ventennio di storia italiana non si può archiviare alla Di Pietro, con un paragone hitleriano.

il Riformista 25.11.08
Barack cerca parrocchia
Quale chiesa sceglieranno di frequentare gli Obamas la domenica mattina?
di Alessandra Cardinale


New York. Quale chiesa sceglieranno di frequentare gli Obamas la domenica mattina? E perchè il neo presidente americano viene sempre più spesso avvistato tra gli attrezzi ginnici della sua palestra preferita piuttosto che tra i banchi di una chiesa? Archiviato il dilemma scuola pubblica o scuola privata (concluso a favore di quest'ultima), si apre il capitolo, ugualmente delicato, della chiesa che a Washington D.C. dal 20 gennaio gli Obamas decideranno di frequentare. Il sito web Politico.com è il primo a puntare il dito contro Obama e famiglia che mancherebbero dalle funzioni religiose da tre settimane, il che significa che da quando è stato eletto, Barack non mette piede in chiesa. «La famiglia Obama ha un gran rispetto dei luoghi sacri, e la loro presenza attirerebbe troppo attenzione sui confratelli e sulla chiesa», ha risposto un consigliere del neo Presidente alle perplessità di chi gli chiedeva come mai la prima famiglia americana non si fosse più recata in Chiesa. Il temporeggiare di Obama e della first lady Michelle è saltato subito agli occhi degli attenti commentatori americani che, almanacco politico alla mano, hanno maliziosamente fatto notare che sia George W. Bush che Bill Clinton neo-presidenti, riuscirono a recarsi a messa: nel 1992, appena eletto, Bill Clinton partecipò alla messa nella chiesa di Little Rock in Arkansas e la terza domenica dalla sua elezione fu fotografato con Jesse Jackson in una parocchia cattolica. Ma anche George W. Bush non mancò gli appuntamenti con la fede, nel 2000 e nel 2004 seguiva regolarmente, insieme alla moglie Laura, le funzioni della chiesa metodista di Austin in Texas. Ma non tutti gli analisti tirano le orecchie a Obama, infatti, il blog "Under God" del Washington Post chiede indulgenza nei confronti della first family. «Non posso immaginare una decisione più importante di questa per una giovane famiglia come quella di Obama», scrive David Waters esperto di questioni religiose. La scelta è infatti ampia e può facilmente diventare un bersaglio politico. Sono in molti a corteggiare il neo Presidente la cui presenza darebbe lustro, non solo spirituale, alla propria comunità: metodisti, battisti, episcopali, tutti aspirano ad ospitare la domenica mattina la famiglia presidenziale. «Tutto questo però non è giusto», scrive Waters, «dovremmo lasciarli in pace per dargli la possibilità di fare la scelta più giusta».

il Riformista 25.11.08
Burg, noi prigionieri del culto della Shoah
L'ex presidente del parlamento israeliano denuncia il peso schiacciante della memoria
di Grazia Lissi


L'ex presidente del parlamento israeliano sta facendo scalpore con il saggio "Sconfiggere Hitler", in cui denuncia il peso schiacciante della memoria. Per affrontare il presente ci vogliono nuovi strumenti. Israele sbaglia ad avvicinarsi agli Usa, «dovrebbe far parte della Ue, il continente della riconciliazione».

Nel suo libro ha invitato gli israeliani a non rimanere "schiacciati" dalla memoria dell'Olocausto. È stato preso come una provocazione. Cosa ritiene non sia stato capito?
Le polemiche sono nate perché il libro è stato ben capito: gli israeliani si sono arrabbiati, gli europei sono stati felici di leggerlo. In Israele chi ha letto il libro sa che offro un'alternativa che ci obbliga ad abbandonare i toni attuali. La Shoah è stata una base forte per la creazione dello Stato ma non può essere utilizzata per giustificare sempre quello che facciamo. Nel mio saggio c'è una nuova visione d'Israele, uno stato guidato da un senso morale, sensibile verso il prossimo e lo straniero, basato su norme che noi ebrei abbiamo chiesto al mondo per anni nei nostri confronti.
C'è un Hitler da sconfiggere in Israele e uno in Europa?
Quello con cui stiamo lottando noi israeliani non è il vostro. Come ebrei dobbiamo sconfiggere la nozione psicologica per cui il mondo è contro di noi e non possiamo avere fiducia in nessuno. Gli europei devono riuscire a gestire il problema dell'altro, ebrei, arabi, musulmani, senza ripetere gli errori già fatti. Dobbiamo distruggere l'utilizzo di strumenti hitleriani per combattere il diverso: l'odio, il razzismo, il nazionalismo.
Lei sostiene che la Shoah rischia di essere un tarlo che corrode Israele stesso.
Dal '45 al '48 si è passati dalla fine di Auschwitz alla fondazione dello Stato d'Israele, avevamo bisogno di nuovi miti. Non abbiamo prestato attenzione al trauma, pensavamo riguardasse gli ebrei della diaspora, noi dello Stato d'Israele credevamo in un nuovo prototipo d'israeliano. Dopo 60 anni ci siamo resi conto del trauma, la nostra storia non è scritta solo da eroi ma da esseri umani.
È duro con Israele, non teme di finire preda per antisemiti o anti-israeliani?
Con la pubblicazione all'estero, mi sono posto la domanda: la traduzione dovrà rispecchiare la voce di un israeliano oppure devo farla adattare in modo da mitigare il testo? Il dibattito in Israele, sia politico sia religioso, è urlato, se uno non alza la voce non viene ascoltato. Questa è la mia voce, chi odia me o gli ebrei non ha bisogno di una scusa per farlo, lo stesso vale per chi ci ama. Chi si trova in mezzo... capirà quanto Israele sia una società libera.
Ha scritto di voler essere «un ebreo universale piuttosto che un israeliano separatista».
C'è confusione nel mondo quando si parla di israeliani ed ebrei. Essere ebreo significa credere nello Stato e nella religione, essere israeliano vuol dire avere lo stato, la religione e il concetto di sovranità. Negli ultimi 60 anni l'israelianità è diventata meno religiosa e più nazionalista, meno popolo e più governo. Lo stato d'Israele sta trasformando gli ebrei da una comunità diasporica in qualcosa d'altro che ha elementi di sovranità. Il Cristianesimo, l'Islam sono un'unica religione in tanti stati, l'ebraismo è la religione di un popolo espressa in un unico stato.
Come mai nel suo libro critica Israele senza affrontare le radici del conflitto israeliano - palestinese?
Ai nuovi Bush del mondo americani, europei, israeliani, piace etichettare le persone, tutti i musulmani sono Bin Laden. So fare distinzioni. Il futuro di pace non è una responsabilità di buoni israeliani contro cattivi arabi, ma di buoni arabi, israeliani, palestinesi contro arabi, israeliani, palestinesi cattivi. Negli ultimi tre anni non c'è stato spargimento di sangue fra Israele ed Egitto, anche Abu Mazen è un uomo di pace, ha partecipato agli accordi di Ginevra.
Perché, secondo lei, Israele è sempre più vicino all'America e meno all'Europa?
È una strategia sbagliata. Israele dovrebbe far parte dell'Europa, non geograficamente, come insieme di persone. L'Europa è una profezia biblica tradotta in realtà, per millenni ci sono state guerre, spargimenti di sangue, ma 60 anni fa ha abbandonato la spada trasformandosi nel continente della riconciliazione. Ha creato un nuovo modello in cui si può essere patrioti e non nazionalisti. Se si realizzerà il progetto d'unione europea, ci saranno due Stati Uniti d'America e d'Europa; i primi sono un'entità politica e culturale che cancella le identità di chi vi entra, gli Stati Uniti d'Europa santificano le identità precedenti, tutti sono diversi. Per gli ebrei questa sarebbe la soluzione ideale.
È stato presidente della Knesset. Perché ha lasciato la politica?
Per ragioni personali e collettive. Negli ultimi due anni mi sono reso conto che Israele era diventato un regno efficiente ma senza profezia, il governo e l'economia funzionavano ma non capivo che direzione stessero imboccando. Non si parlava di pace, nessuno offriva una guida, mi sono ritirato quando ho visto che la mia influenza stava diventando sempre più limitata. Lavoro fuori dal sistema per rinnovare il pensiero israeliano, scrivo libri che rappresentano una base per l'azione, oggi ho un ruolo più politico di quando stavo al governo.
Ora che come Giobbe ha parlato, si sente sollevato?
Molto, sono redento.

La Gazzetta del Canavese 25.11.08
Bertinotti-Fassino: amici-nemici alle Officine H
di Bruno Cossano


Ivrea. Ieri sera si è svolto un appuntamento di alta valenza politico-culturale proposto dall’Associazione “La Terza Isola”. Il titolo della serata era “Dialoghi sulla Costituzione”, un progetto voluto per celebrare il sessantesimo anniversario della Costituzione italiana e inserito nel contesto del centenario di fondazione della Olivetti.
Alle Officine H di via Jervis, il tema dibattuto è stato “Idee e valori della sinistra all’origine della Repubblica”: protagonisti due carismatici personaggi della Sinistra italiana, Fausto Bertinotti e Piero Fassino, giunti alle Officine H ed applauditi calorosamente dal folto pubblico che ha seguito l'incontro.
Bertinotti e Fassino rappresentano anche due dei più noti politici espressi dal territorio piemontese: l’ex Presidente della Camera dei Deputati, pur essendo nato a Milano, è cresciuto nel Novarese e lì ha iniziato la sua ascesa politica. Fassino, invece, è un “piemontese tutto d’un pezzo”: nato ad Avigliana, l’ultimo Segretario dei Ds (oggi responsabile degli Esteri nel “governo ombra” del Pd) ha sempre vissuto a Torino.
La serata è iniziata con la visione di un filmato legato agli orrori della guerra, proiettato in sala per introdurre il dibattito e con la colonna sonora musicata dagli Area di Demetrio Stratos, gruppo pop italiano anni ‘60 con una connotazione politica di sinistra molto marcata.
Fausto Bertinotti ha esordito commemorando la memoria di una firma storica del giornalismo di casa nostra, come Sandro Curzi, le cui esequie si sono officiate in mattinata a Roma ed etichettato pubblicamente come padre storico della Repubblica italiana per tante motivazioni. Bertinotti ha menzionato il grande contributo della sinistra italiana alla creazione della Costituzione e si è soffermato sulle grandi lotte operaie degli anni ‘50 e ’60, sulla grandezza del movimento operaio che ha combattuto una battaglia secolare contro le forme di capitalismo dominanti; la macchina costituzionale ha lavorato alacremente per promuovere una società all'insegna dell'uguaglianza, della liberazione e della dignità delle persone, attrezzata per affrontare il futuro e basata essenzialmente sull' economia e sulla organizzazione di partito.
Quindi ha citato l'articolo 3 come caposaldo della costituzione: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
Piero Fassino ha condiviso per grandi linee i concetti espressi da Bertinotti, enfatizzando il pensiero che la Costituzione sancisce: la formazione di uno stato democratico. Grandi elogi ad un padre storico come Piero Calamandrei e dito puntato contro l' ideologia del capitalismo, visto come il grande male della società assieme all'espressione classica del mondo clericale. Fassino ha ribadito il ruolo netto e chiaro della sinistra nell'affermazione e nella tutela della Costituzione, senza lesinare il processo degenerativo del partitismo degli anni bui dell’80 e ‘90 culminati con la vergogne di “mani pulite” e tangentopoli.
Qualche momento di laconica tristezza di Bertinotti nel ricordo delle tante nottate passate a parlare con l'amico Fassino sulle “difficili convergenze politiche e concettuali determinate e opposte alla destra liberale”.
Bella la battuta di Fassino rivolta all'amico compagno Fausto: «Io passavo a riorientare le masse dopo che tu le avevi puntualmente disorientate con le tue teorie.»
La serata quindi ha preso un taglio più propriamente politico e i due amici-nemici della sinistra storica italiana hanno fatto pubblicamente il mea culpa su certi insuccessi: la sconfitta rispetto alla destra berlusconiana più coesa e più organizzata.