venerdì 28 novembre 2008

Repubblica 28.11.08
Le torture di Bolzaneto


la prima parte di questo articolo non è disponibile in rete

Le violenze confermate anche nelle motivazioni della sentenza per il G8 Ora tocca alla polizia chiudere con la verità una pagina di vergogna della sua storia

(SEGUE DALLA PRIMA PAGINA)
No, occorre che ogni gesto degradante (naturalmente provato) abbia un suo responsabile diretto (naturalmente identificato in modo inequivocabile).
Una fortunata coincidenza ci mette sotto gli occhi, nelle stesse ore, gli esiti del nuovo "diritto diseguale". A Roma il procuratore generale della Cassazione definisce «deviata» una cultura poliziesca che, identificando una persona che partecipa a una manifestazione, le attribuisce «tutti i reati commessi durante la manifestazione» (è accaduto l´11 marzo 2006 a Milano, in Corso Buenos Aires, durante una manifestazione antifascista). A Genova diventano pubbliche le motivazioni per le torture della caserma di polizia di Bolzaneto durante i giorni del G8, tra il 20 e 22 luglio 2001. E si legge che ? non c´è dubbio ? le violenze, le umiliazioni consumate in quella caserma e «pienamente provate avrebbero potuto ricomprendersi nella nozione di "tortura" delle convenzioni internazionali». Ma in Italia quel reato non c´è e allora bisogna accontentarsi di descrivere quelle prepotenze come «condotte inumane e degradanti». Sono comportamenti «che hanno tradito il giuramento di fedeltà alle leggi della Repubblica italiana e alla Carta Costituzionale, inferto un vulnus gravissimo, oltre a coloro che ne sono stati vittime, anche alla dignità delle forze della polizia di Stato e della polizia penitenziaria e alla fiducia della quale detti Corpi devono godere nella comunità dei cittadini». Epperò, dall´accertamento delle condotte vessatorie «non discende automaticamente che, di quelle condotte, debbano necessariamente rispondere tutti gli imputati». Ne risponderanno individualmente soltanto i responsabili diretti. «Purtroppo la maggior parte di coloro che si sono resi direttamente responsabili delle vessazioni risultate provate in dibattimento è rimasta ignota. Scrivono i giudici: il limite di questo processo è rappresentato dal fatto che quei nomi, quelle facce, gli aguzzini non sono saltati fuori «per difficoltà oggettive, non ultima delle quali la scarsa collaborazione delle Forze di Polizia, originata, forse, da un malinteso "spirito di corpo"».
Non c´è dubbio che il procuratore generale della Cassazione e i giudici di Genova abbiano ragione: la responsabilità penale deve essere personale. C´è però una differenza non trascurabile: da un poliziotto ci si attende una leale collaborazione nell´accertamento dei fatti, non "spirito di corpo", non complicità, non omertà. Quei poliziotti, che hanno violato la Costituzione nelle vie di Genova, alla Diaz, a Bolzaneto avrebbero dovuto essere trascinati dinanzi al giudice dai loro stessi commilitoni. Al contrario, la storia dei processi di Genova è una parabola sempre uguale di connivenze, silenzi, reticenze, favoreggiamento, fughe dal processo come quella promossa proprio in questi giorni da un questore accusato di falsa testimonianza con l´allora capo della polizia Gianni De Gennaro. Se la polizia vuole finalmente chiudere con la verità una pagina di vergogna della sua storia, come ha promesso di fare il capo della polizia Antonio Manganelli, non ha che da rendere concreto il suo impegno accompagnandolo con l´agenda ragionevolmente proposta dal «Comitato verità e giustizia per Genova». Scuse formali dei vertici dello Stato alle vittime degli abusi e a tutti i cittadini; collocazione immediata dei condannati a ruoli che non comportino una relazione diretta con i cittadini; massima collaborazione con la magistratura per le inchieste ancora aperte. Da parte sua, il Parlamento discuta al più presto proposte di legge di "riforma" delle forze di polizia: l´obbligo per gli agenti in servizio di ordine pubblico di indossare codici d´identificazione; l´istituzione di un organismo indipendente cui denunciare eventuali abusi delle forze di sicurezza. Sono strumenti diffusi in molti paesi europei. Si può concordare che «l´esperienza di Genova dimostra che il nostro paese ne ha bisogno».

Repubblica 28.11.08
"A Bolzaneto ci furono torture indagini difficili per l´omertà"
G8, le motivazioni della sentenza. "Provati 13 tipi di abusi"
"Il pm è stato costretto a circoscrivere le condotte inumane e degradanti"
di Marco Preve


GENOVA - A Genova, nel luglio 2001, all´interno del carcere speciale di Bolzaneto, voluto in occasione del G8, fu commessa tortura. Può apparire sorprendente che a confermare quello che anche Amnesty International ha sempre sostenuto, siano le motivazioni di una sentenza, quella del processo di Bolzaneto appunto, che ha lasciato amareggiati chi si aspettava maggior coraggio da parte del tribunale chiamato a giudicare 45 imputati (15 condanne e 30 assoluzioni).
Eppure, nelle 441 pagine delle motivazioni del verdetto, depositate ieri pomeriggio, c´è scritto proprio questo, oltre al fatto che la polizia non ha collaborato nella ricerca della verità, che tutte le vittime hanno fornito resoconti non solo attendibili ma anche «prudenti», che tutti gli abusi «inumani e degradanti furono effettivamente commessi». Però, spiega il presidente Renato De Lucchi, per attribuire ai vertici la responsabilità di quanto avvenuto sarebbe stato necessario raggiungere la prova che gli stessi vertici fossero stati presenti ai fatti e avessero avuto perfetta percezione di quanto stava avvenendo. In ogni caso, Bolzaneto non è stata un´invenzione. Scrivono i giudici a pagina 311 «... la mancanza, nel nostro sistema penale, di uno specifico reato di tortura ha costretto l´ufficio del pm a circoscrivere le condotte inumane e degradanti (che avrebbero potuto senza dubbio ricomprendersi nella nozione di tortura adottata nelle convenzioni internazionali)». Ben 13 tipologie di vessazioni, violenze, abusi «sono risultate pienamente provate», dei testimoni i giudici lodano «genuinità e prudenza». Definiscono l´indagine dei pm Patrizia Petruzziello e Vittorio Ranieri Miniati «lunga, laboriosa e attenta», ma «per difficoltà oggettive (non ultima delle quali... la scarsa collaborazione delle Forze di Polizia, originata, forse, da un malinteso "spirito di corpo")», «la maggior parte di coloro che si sono resi direttamente responsabili delle vessazioni risultate provate in dibattimento è rimasta ignota». Come due agenti particolarmente violenti soprannominati "il tigre" e il "tedesco", che l´omertà di corpo ha trasformato in fantasmi nonostante le precise indicazioni delle vittime.
Un quadro durissimo, ma dal quale mancano, secondo il tribunale di Genova, alcuni passaggi fondamentali relativi all´intenzionalità del dolo. E poi, spiegano i giudici, «anche in questo processo, quantunque celebrato in un´atmosfera caratterizzata da forti contrapposizioni politico-ideologiche sia sui mezzi di informazione che nell´opinione pubblica, sono stati portati a giudizio non situazioni ambientali o orientamenti ideologici, bensì, ovviamente, singoli imputati per specifiche e ben individuate condotte criminose loro attribuite nei rispettivi capi di imputazione, che costituiscono la via maestra da cui il giudicante non deve mai deviare, pena la violazione dell´altro cardine del nostro sistema di garanzie processuali rappresentato dall´articolo 24 della Costituzione». Il giusto processo, dove non si è potuto processare la tortura.

Corriere della Sera 28.11.08
Il G8 e la sentenza su Bolzaneto «La tortura ci fu, ma non c'è la legge»
di Erika Dellacasa


GENOVA — Nella caserma di Bolzaneto, dove vennero portati i manifestanti arrestati durante il G8 di Genova nel 2001, esponenti delle forze dell'ordine tennero «condotte inumane e degradanti», tradendo «il giuramento di fedeltà alle leggi della Repubblica italiana e della Costituzione». Questo scrivono i giudici del Tribunale di Genova nella motivazione alla sentenza che ha condannato quindici poliziotti e ne ha assolti trenta per i gravi maltrattamenti inflitti ai no-global a Bolzaneto. In sintesi, ci fu tortura (i metodi usati, è scritto «a pieno titolo avrebbero potuto senza dubbio ricomprendersi nella nozione di tortura adottata dalle convenzioni internazionali») ma questo reato non è contemplato dal nostro codice quindi è stato adottato quello «inadeguato» di abuso d'ufficio. Inoltre la «scarsa collaborazione» delle forze dell'ordine ha fatto sì che non fosse possibile individuare con certezza gli autori dei singoli episodi di violenza. Per questo il Tribunale in nome della responsabilità penale individuale e della certezza della prova ha largamente assolto. Le 467 pagine di motivazioni depositate ieri sono però una dura critica al comportamento delle forze dell'ordine e alla loro «pessima» organizzazione.

il Riformista 28.11.08
Dopo la Diaz, liberi tutti «Assolvete gli estremisti»
Cassazione. Il Pg: «Esiste un'unica giustizia, anche per gli scapestrati».«Nel Paese c'è il rischio di una giustizia sommaria»


«Nel Paese c'è il rischio di una giustizia sommaria». A paventarlo è il sostituto procuratore generale della Cassazione Alfredo Montagna nel corso della requisitoria con la quale ha chiesto di annullare le condanne per devastazione nei confronti di 18 imputati appartenenti alla sinistra radicale che in primo e in secondo grado sono stati condannati a 4 anni di reclusione per devastazione in relazione agli incidenti accaduti a Milano in corso Buenos Aires l'11 marzo del 2006. La publica accusa della Cassazione, per sua stessa ammissione, ha fatto un riferimento implicito alle vicende accadute alla scuola Diaz durante il G8: «Esiste un'unica giustizia, non una giustizia che si applica a seconda delle qualifiche che si hanno».
Il pg si è rivolto così ai giudici della prima Sezione penale che dovranno decidere se confermare le pesanti condanne o riconoscere una pena ridotta per i soli reati di incendio e resistenza a pubblico ufficiale: «Ho la sensazione che nel paese nei confronti di ragazzi scapestrati si applichi una tutela attenuata rispetto a chi, non essendo un colletto bianco, non ha agganci su cui poter contare».
Non che il pg approvi quello che è accaduto alla manifestazione del 2006: «Se fossero andati i miei figli li avrei rimproverati - ammette Montagna - ma certo non li avrei mandati in carcere». E comunque, aggiunge, «la polizia è convinta che basti identificare i manifestanti per attribuirgli tutti i reati. Le forze dell'ordine quell'11 marzo del 2006 hanno fotografato di tutto e di più ma non hanno fornito le foto delle devastazioni. Perché? Questo non solo mi lascia perplesso ma soprattutto significa che non è stata raggiunta la prova oltre ogni ragionevole dubbio».

Repubblica 28.11.08
Tradotto il testo definitivo di "vita e destino" di Vasilij Grossman
Il romanzo della libertà
Uno scrittore contro i totalitarismi
di Cesare De Michelis


Il lungo racconto epico della guerra fu scritto negli anni Cinquanta, e sequestrato nel ´61, durante la destalinizzazione di Krusciov, per il parallelo tra Hitler e Stalin che ne emergeva
Si fece conoscere come scrittore del realismo socialista. Ma più tardi il suo lavoro sul genocidio nazista fu censurato e poi bloccato
Quando l´autore sovietico cominciò a vederci chiaro scrisse tutto quello che aveva visto, saputo, capito E l´ha pagata cara

L´edizione italiana finalmente condotta sul testo definitivo di Vita e destino di Vasilij Grossman (traduzione di Claudia Zonghetti, Adephi, pagg. 827, euro 34) è un evento paragonabile alla conoscenza integrale di altri grandi romanzi dell´epoca sovietica come Il Dottor Zivago di Boris Pasternak o Il Maestro e Margherita di Michail Bulgakov.
Grossman (1905-1964) si fece conoscere trentenne come scrittore che interpretava al meglio i dettami del "realismo socialista" col racconto Gleckauf, dedicato alla vita dei minatori del Donbass, che attrasse l´attenzione del gran capo delle lettere sovietiche, Maksim Gor´kij; ribadí poi la sua fama con il romanzo Stepan Kolèugin (1941), sulla formazione d´un operaio bolscevico. Come tale venne fatto ben presto conoscere anche in Italia: Ettore Lo Gatto ne parlò brevemente ma con ammirazione nella sua Storia della letteratura russa (1942), e sulla prima rivista dell´Associazione Italia-URSS (La cultura sovietica, n? 2, ottobre-dicembre 1945); Angelo M. Ripellino presentò per primo in Italia la traduzione di un suo racconto, Anjuta, accompagnato da queste parole: «Le pene della guerra, la sua austera poesia, la passione, sono gli elementi essenziali degli scritti di Grossman. Più di chiunque altro egli ha rivelato le sorgenti dell´epopea di Stalingrado. Allo stesso modo che in tempo di pace, gli eroi di Grossman erano animati dal sogno della creazione; in guerra, i suoi ufficiali e soldati compiono prodigi di coraggio, ispirati dal sogno della vittoria».
Fu appunto la guerra, durante la quale fu corrispondente al fronte del giornale dell´esercito Kràsnaja Zvezdà (Stella rossa), che segnò il suo destino. Accanto a diversi articoli, saggi e bozzetti (tra i quali meritano d´essere ricordati almeno «Il popolo è immortale» e «L´inferno di Treblinka»), concepí difatti un vasto affresco bellico che doveva realizzarsi come "epopea di Stalingrado", e che gli avrebbe portato insieme profondi dolori e la grande fama che oggigiorno, a quarant´anni e passa dalla scomparsa, lo colloca tra i grandi autori del Novecento russo.
Il primo romanzo fu pubblicato nel 1952 ed era intitolato Per una giusta causa (un brano, "La notte del 21 giugno", fu tradotto da Pietro Zveteremich in Narratori russi moderni, Bompiani 1963); e ancora nell´anno della scomparsa dell´autore, la Breve enciclopedia letteraria sovietica gli dedicava una voce, a firma di Georgij Munblit, che lo lodava per il romanzo e informava il lettore che «negli ultimi anni aveva pubblicato una serie di racconti su varie riviste». Ma naturalmente non diceva una parola del fatto che da qualche anno a quella parte Vasilij Grossman, senza nessuna intenzione, s´era trasformato da valente scrittore del realismo socialista in pericoloso sovversivo, e che i suoi due ultimi romanzi (Tutto scorre e Vita e destino) non erano destinati ad essere letti dal pubblico sovietico.
Già quindici anni prima però Grossman era incappato nella censura.
Quella volta (1947) per via del lavoro documentario che, su istanza di Albert Einstein, aveva intrapreso assieme ad un altro scrittore d´origine ebraica (e ben più famoso di lui: Il´ja Erenburg), per testimoniare del genocidio nazista nei territori sovietici durante la guerra. Finché le operazioni militari erano in corso, tutti i mezzi erano buoni per la propaganda interna e per la solidità dell´alleanza internazionale; ma, a guerra finita, quel martirologio ebraico sembrò inopportuno a Stalin (che proprio in quegli anni intraprese la campagna contro il cosmopolitismo e il nazionalismo "borghese"), e l´imponente raccolta di tragici materiali venne prima sottoposta a revisione censoria, e poi fermata quando era già in bozze. E stata pubblicata quasi cinquant´anni dopo, nel 1994 (in italiano è uscita da Mondadori solo nel 1999, col titolo Il libro nero).
Vita e destino, scritto nel corso degli anni Cinquanta, e che come s´è detto doveva costituire la seconda parte dell´epopea bellica dopo Per una giusta causa, venne sequestrato nel 1961, durante la "destalinizzazione" di Krusciov, non appena l´autore l´aveva consegnato alla rivista Znamja (La bandiera) per la pubblicazione: il capo-redattore Vadim Kozevnikov l´aveva subito segnalato al KGB, spaventato al solo pensiero di poter apparire connivente.
Per intendere, oggi, la durezza della risoluzione presa, servirà ricordare non solo che l´anno dopo (novembre 1962) il Novyj mir (Mondo nuovo) pubblicò, col consenso preventivo di Krusciov, Una giornata di Ivan Denisoviè di Aleksandr Solgenitsyn, ma che anche il Dottor Zivago di Boris Pasternak era stato sí vietato, ma non sequestrato (il sequestro toccherà, dodici anni dopo, all´Arcipelago Gulag di Solgenitsyn).
Che cosa c´era di tanto terribile, nell´opera di Grossman? Il fatto è che il tema bellico aveva, e sempre più avrà negli anni successivi, una doppia valenza nella cultura sovietica: rappresentava da un lato una tragedia corale di popolo, rispetto alla quale si potevano dire anche cose difficili da dire in tempo di pace (da cui il successo non solo della narrativa di guerra di Konstantin Simonov, ma anche quella di Bulat Okudzava, o la raccolta delle poesie dei caduti in guerra, I versi rimangono in riga, 1958); ma d´altro canto era l´occasione per cementare il ruolo-guida del Partito, come ben sapeva Aleksandr Fadeev, che aveva dovuto riscrivere il suo romanzo La giovane guardia per eliminare l´impressione che l´iniziativa spontanea delle formazioni partigiane fosse più rilevante della strategia politica.
In un saggio sulla «Grande guerra patriottica» (come i sovietici chiamavano il secondo conflitto mondiale) nella cultura russo-sovietica Maria Ferretti ha scritto che «dal ricordo della guerra scaturivano due memorie opposte, antitetiche, che veicolavano due sistemi di valori inconciliabili, fondati l´uno sulla libertà che alimentava le speranze di una democratizzazione [del sistema sovietico], e la memoria della vittoria, che celebrava invece lo Stato autoritario» ("La memoria spezzata", Italia contemporanea, XII, 2006).
Figurarsi poi se dalla nuda e cruda rappresentazione dei fatti, sostenuta da una lucida capacità di coglierne le ragioni profonde, dalle macerie fumanti di Stalingrado emergeva un parallelo tra il nazismo di Hitler e il bolscevismo di Stalin: «Di quale speranza si può parlare - scriveva Efim Etkind, presentando la prima edizione di questo romanzo, nel 1984 -, se siamo posti di fronte a due campi che come specchi si rimandano un´identica immagine?». Allora, «la confisca di un romanzo - insisteva Etkind - è il più alto riconoscimento che il potere dello Stato possa accordare ad un´opera letteraria; l´immaginazione dell´autore viene collocata al livello stesso della realtà; le riflessioni dello scrittore diventano divulgazione di segreti di Stato».
Nell´archivio dell´amico Semen Lipkin (1911-2003), che scrisse anche lui della guerra (La nave di Stalingrado, 1943) ma soprattutto ha dedicato un libro a Vita e destino di Vasilij Grossman (1984), è conservata la lettera che Grossman scrisse a Krusciov, a un anno dal sequestro del libro. In quella lettera, tragica e per certi versi disperata, Grossman diceva tra l´altro:
«Perché è stato posto il divieto sul mio libro che forse, in qualche misura, risponde alle esigenze interiori dei sovietici, un libro dove non c´è menzogna né calunnia, mentre c´è verità, dolore, amore per gli altri, perché mi è stato confiscato con metodi di violenza amministrativa, è stato segregato, da me e dagli altri, come un assassino colpevole? [.] Non basta: mi è stato raccomandato di rispondere alle domande dei lettori di non avere ancora terminato il lavoro sul manoscritto, che ci vorrà ancora molto tempo. In altre parole, mi è stato proposto di dire il falso».
Per comprendere il rilievo del lascito morale che l´opera di Grossman ha trasmesso anche alla Russia post-sovietica, ricorderò il seguente aneddoto che Benedikt Sarnov narra ne Il caso Erenburg (2004): il poeta Boris Sluckij gli chiese una volta chi avesse vissuto più da giusto, se Erenburg o Paustovskij, e alla sua ovvia risposta («Naturalmente Paustovskij»), Sluckij gli replicò che no, non aveva ragione, e se Erenburg aveva praticato tanti compromessi «quante persone però aveva aiutato». Ricordando l´episodio, Sarnov commenta: «Ma che cosa avrei detto se mi avesse posto il dilemma tra Erenburg e Grossman? Avrei risposto senza tentennamenti: - Naturalmente Grossman! Si, Grossman era più libero. Non chiamò mai la cecità un espediente. Quando cominciò a vederci chiaro scrisse di tutto quello che aveva visto, saputo, capito. E l´ha pagata cara».

Repubblica 28.11.08
Il dittatore pensava di poter contare sulla tradizione cristiana
Hitler, la chiesa e l’antisemitismo
di Giovanni Miccoli


La rarità di pubbliche voci di dissenso ecclesiastico verso la politica antiebraica confermavano ai nazisti che non ci sarebbe stata opposizione dell’episcopato

l resoconto che monsignor Berning, vescovo di Osnabreck, scrisse per i suoi confratelli su ciò che Hitler aveva detto della «questione ebraica» nel corso di un incontro con una delegazione episcopale il 26 aprile 1933, attesta una sorta di sintonia di fondo con settori non irrilevanti del mondo cattolico (...): «Hitler parlò con calore e calma, qua e là pieno di fervore. Contro la Chiesa non una parola, solo apprezzamento per i vescovi. Sono stato attaccato per il mio modo di trattare la questione ebraica. Per 1.500 anni la Chiesa ha considerato gli ebrei come esseri nocivi, li ha esiliati nel ghetto eccetera, in quanto ha riconosciuto ciò che gli ebrei sono. Al tempo del liberalismo non si è più visto questo pericolo. Io risalgo nel tempo e faccio ciò che si è fatto per 1.500 anni. Io non metto la razza al di sopra della religione, ma vedo nei membri di questa razza esseri nocivi per lo Stato e la Chiesa, e forse fornisco così al cristianesimo il più grande servizio; da qui il loro allontanamento dall´insegnamento e dagli impieghi statali».
Hitler non mentiva ma era solo reticente quando affermava di non mettere la razza al di sopra della religione: ne faceva infatti una componente costitutiva di essa, pur ironizzando sulle fumisterie dell´ideologia völkisch. Né aveva difficoltà a richiamarsi alla tradizione ecclesiastica per le misure adottate contro gli ebrei. (...) Non a caso Karl Lueger e le agitazioni di massa promosse contro gli ebrei a Vienna dai cristiano-sociali figurano nel Mein Kampf tra i suoi modelli, anche se il loro limite restava per lui di aver fondato il loro antisemitismo non sulla razza ma su una visione religiosa. E probabile che egli pensasse davvero di poter in qualche modo contare, nella lotta contro gli ebrei, sulla tradizione antiebraica cristiana. (...)
Il calcolo, entro certi limiti, non era sbagliato. Non è privo di significato il fatto che monsignor Berning non trovò difficoltà né avanzò obiezioni di fronte alle affermazioni e ai propositi di Hitler. (...) quei propositi non erano certo tali da poterlo particolarmente inquietare: per decenni voci autorevoli della pubblicistica cattolica avevano avanzato proposte non dissimili. La rarità di pubbliche ed esplicite voci di dissenso da parte della Chiesa nei confronti della politica antiebraica (...) non potevano non confermare Hitler e i dirigenti nazisti nell´opinione che, su tali questioni, nessuna seria opposizione sarebbe venuta loro dall´episcopato.
In quei primi mesi del potere nazista la Santa Sede e la Chiesa cattolica tedesca si mostrarono dunque concentrate soprattutto a tutelare la propria condizione in Germania. (...) Non va dimenticato il ripetuto, esplicito riconoscimento espresso da Pio XI nei confronti di Hitler dopo la sua nomina a cancelliere il 30 gennaio 1933 e già prima della vittoria elettorale del 5 marzo: «Hitler è il primo e unico uomo di Stato che parla pubblicamente contro i bolscevichi. Finora era stato unicamente il papa». Meriterebbe da questo punto di vista analizzare con cura le informazioni contraddittorie sul nazionalsocialismo e le sue imprese che nei primissimi anni Trenta e anche dopo la sua conquista del potere pervenivano alla segreteria di Stato e di cui la documentazione vaticana offre ricca testimonianza. (...) Spiaceva che con gli ebrei e l´ebraismo si colpissero e si rifiutassero capisaldi della tradizione cristiana come il Vecchio Testamento, spiacevano certi metodi di lotta, spiaceva soprattutto che le misure adottate si fondassero su premesse ideologiche che si ispiravano ad un razzismo estremo, sostanzialmente incompatibile con il credo cristiano. Nelle famose prediche dell´Avvento del 1933 il cardinale Faulhaber scese perciò in campo a difesa del Vecchio Testamento e della tradizione cristiana, Rosenberg e il suo Mythus des XX. Jahrhunderts, così come i maestri del neopaganesimo germanico, divennero il bersaglio di molta pubblicistica cattolica. Ma ci si guardò bene dal coinvolgere nella polemica e nella condanna l´antisemitismo. Non erano del resto pochi a ritenere che, se vi era un antisemitismo razzistico vietato ai cattolici, ne esisteva un altro, spirituale ed etico («geistiger und ethischer»), che era «stretto dovere di coscienza di ogni cristiano consapevole», come scrisse il vescovo di Linz, monsignor Gfvllner, nel gennaio 1933, in una pastorale che ebbe larga diffusione negli ambienti cattolici europei.

Corriere della Sera 28.11.08
Elezioni studentesche Trionfo dei ragazzi di An di «Azione universitaria». Il ministro: i giovani con il governo
La Sapienza va a destra, esulta la Meloni
di Fabrizio Caccia


ROMA — Per il fronte pro Gelmini si tratta di rivincita: «Alla Sapienza, una valanga di destra ha seppellito l'Onda, Azione universitaria ha preso più voti delle liste di sinistra», esulta Giovanni Donzelli, leader degli universitari di An. In effetti, nell'università più grande d'Europa (140 mila iscritti), dove l'Onda praticamente è nata, dalle urne ieri è uscita la sorpresa. Gli studenti sono andati a votare per eleggere i loro rappresentanti nel Senato accademico e nel Cda. Otto liste in gara e un risultato netto: rispetto all'ultima consultazione (2005) per la sinistra è stata una débâcle. Ai primi tre posti si sono piazzate le liste del centrodestra
(Vento di cambiamento vicina al rettore Frati e prima con 3 mila voti, poi i ciellini di Lista aperta, quindi Azione universitaria,
grande sconfitta nel 2005).
Anomalia Sapienza, invece, la lista dei Collettivi (motore dell'Onda) è risultata appena la quinta forza (1200 voti), scavalcata pure dai moderati di Sapienza in movimento, forza ambientalista che nel 2005 arrivò seconda (e i Collettivi quarti con 500 voti in più). Ma peggio sono andati gli Studenti democratici
(Pd) e quelli dell'Udu (Cgil) che non han beccato nemmeno un seggio. Tutto il contrario, per dire, di quanto successo nel 2007 alla Statale di Milano: dopo vent'anni di predominio Cl, s'è imposta Sinistra Universitaria. Così, ora, sfotte l'Onda anche Gaetano Quagliariello (Pdl): «Un tempo si diceva piazze piene, urne vuote...». E il ministro della Gioventù, Giorgia Meloni, aggiunge: «La maggioranza degli studenti dimostra di condividere le iniziative intraprese sinora dal governo». Replica Pina Picierno, Pd, responsabile delle Politiche giovanili: «È inaccettabile che un ministro tenti di strumentalizzare il voto degli studenti».
Attenti, però: i votanti alla Sapienza sono stati appena 13.348 (su quasi 140 mila studenti) cioè il 10,6 per cento degli aventi diritto. Alle ultime elezioni (maggio 2005) votò il 12,7 per cento (18.667). Insomma, astensione fortissima: «Mi sorprende che si possa parlare di maggioranza quando ha votato solo una minoranza», osserva Giovanni Amelino Camelia, ricercatore di Fisica. Concorda lo scienziato Giorgio Parisi: «Anche nel '68 la maggioranza stava con il movimento ma non andava a votare, perché rifiutava questa forma di democrazia rappresentativa». Francesco Brancaccio, uno dei leader del movimento 2008, taglia corto: «L'Onda non ha mai pensato di candidarsi, perché non la rappresenta nessuno. L'entusiasmo del centrodestra è grottesco ». E comunque l'Onda non s'arresta: ieri blitz a Milano al Piccolo Teatro e a Palazzo Reale (al grido «la cultura è gratis») e autoriduzioni a Roma al teatro Valle e alla mensa di via De Lollis (posti e pasti gratis in nome del welfare). Oggi, poi, si torna in piazza: due cortei nel centro di Roma («la città è stanca di questa situazione», lo sfogo del sindaco Alemanno). Non si esclude neppure una pacifica incursione nel corso dell'inaugurazione dell'anno accademico. A La Sapienza, naturalmente.

il Riformista 28.11.08
Lettera a Dagospia
Lady Lella, i salotti e la ricchezza
di Fabrizio d'Esposito


Tra le pagine dell'ultimo capitolo del comunismo italiano d'inizio millennio, si rischia di trovare qualche capello biondo di Valeria Marini. La Jessica Rabbit rivale di Rita Rusic nei tormentoni amorosi con il trottolino Cecchi Gori è stata infatti la migliore amica di Vladimir Luxuria sull'Isola dei famosi. Arrivata come ospite speciale, ha contribuito alle strategie che l'ex deputata di Rifondazione ha messo in atto per edificare con successo il socialismo esotico sull'atollo di Cayo Paloma. Come se non bastasse, poi, un'altra amica della Marini, Gabriella Fagno detta Lella e coniugata Bertinotti, in questi giorni freddi di novembre ha preso carta e penna per vergare una lettera in cui difendere se stessa, il marito, il cashmere e finanche Valeria dalle cupe accuse di lusso e mondanità. E la preziosa missiva non è apparsa su "Alternative per il socialismo", dotta e ponderosa rivista bimestrale fondata dal consorte Fausto, bensì sul più letto e meno alternativo Dagospia.
Prosegue dunque lo show della sinistra rosa dura e pura. Dopo l'exploit di Luxuria all'Isola, che ha prodotto fiumi d'inchiostro sul rapporto tra il tubo catodico e la falce e martello, adesso tocca a Lella Bertinotti. Lo scoop del sito Dagospia inizia così: «Illustre Roberto D'Agostino, siccome in più occasioni si è, con qualche malizia, occupato di vicende private che mi riguardavano e riguardavano la vita di coppia con mio marito, vorrei portarla a conoscenza di una lettera che ho scritto a un giornalista che, con il suo stesso spirito, se ne è occupato».
Una corrispondenza privata, quindi. Ma con chi? Dagospia accosta il manoscritto di lady Bertinotti a una maliziosa foto in cui si vede la stessa Lella che bacia la mano a Paolo Mieli, direttore del "Corriere della sera", e a un caustico articolo di Aldo Grasso sul Magazine: «La sciura Lella e il silenzio». La pista giusta, però, sarebbe un'altra. La moglie di Bertinotti avrebbe indirizzato la lettera a Riccardo Barenghi, la Jena traslocata dal "manifesto" alla "Stampa" e che per Fazi ha pubblicato "Eutanasia della sinistra", includendo i salotti frequentati da Lella e Fausto tra le cause della catastrofe massimalista. Scrive Gabriella Fagno in Bertinotti: «Sono stata, per oltre trent'anni, la moglie di un sindacalista che ha trascorso i suoi primi cinque anni in un territorio periferico della provincia di Novara lavorando nel sindacato tessile. In quel tempo ai sindacalisti non venivano versati i contributi assicurativi e previdenziali. La sua retribuzione era di quarantamila lire al mese quando lo stipendio di un qualsiasi impiegato era di ottanta-novantamila lire».
La lettera si divide in quattro paragrafi: «Sindacato e percorso politico», «Agi», «Frequentazioni», «Eleganza, cashmere, Mondanità». Insomma, una vera memoria difensiva per confutare il tribunale del popolo e del pettegolezzo. Lella Bertinotti spiega che la casa in cui vive con il marito è stata comprata con il mutuo, «che finiremo di pagare nel dicembre 2008, e grazie a «quarantatré anni di lavoro comune». E il famoso casale di campagna in Umbria è costituito da «due pezzi di casa di contadini uniti da una veranda». Ancora: il figlio e la nuora vivono in affitto perché «non possono e non possiamo permetterci di acquistare un appartamento». Infine: mai vacanze alle Maldive o Barbados o Seychelles e il 55 per cento degli emolumenti parlamentari versato sempre al partito.
Sublime la contabilità dei salotti e delle amicizie: dalla Angiolillo due volte in ventitré anni, dalla Verusio il doppio, cioè quattro, e se con la Sospisio c'è stata una maggiore frequentazione è «perché siamo entrambe psiuppine». E veniamo alla Marini: anche lei vista non più di «tre o quattro volte l'anno» in ogni caso «senza imbarazzo alcuno» perché è una «donna sensibile e intelligente» nonostante non abbia letto i tremila libri «necessari per essere presa in considerazione da un certo mondo». L'epilogo è caldo come il primo e unico maglione di cashmere che lei donò al marito nel 1995. Di colore rosso lo comprò al mercato dell'usato di via Sannio a Roma, pagandolo venticinquemila lire. E se in seguito Fausto ha sfoggiato altri capi della stessa lana è solo perché gli amici per prenderlo in giro gli regalano un maglione e una sciarpa a ogni compleanno. Tutto qui. Niente lussi, niente vita dorata. Ma ancora «un letto di bandiere rosse». Hasta la victoria ed el cashmere siempre. «La nostra vita è sinistra».

giovedì 27 novembre 2008

Repubblica 27.11.08
Il merito e l’uguaglianza
di Nadia Urbinati


"Meritocrazia" è la parola magica che pare ai più capaci di liberare la società italiana dalle sue croniche aberrazioni. Se il merito venisse davvero riconosciuto, si dice, la nostra società si emanciperebbe dai lacci del nepotismo e del clientelismo.
Come recita il sottotitolo del libro di Roger Abravanel sulla meritocrazia, questa è la ricetta per valorizzare il talento e rendere il paese più ricco e più giusto. Wikipedia definisce la meritocrazia come un sistema di governo o un´organizzazione dell´azione collettiva basato "sull´abilità dimostrata" e sul "talento" piuttosto che su "ricchezza ereditata, relazioni familiari e clientelari, nepotismo, privilegi di classe, proprietà o altri determinanti storici di potere politico e posizione sociale". John Rawls avrebbe sottoscritto questa definizione. Tuttavia resta difficile da spiegare con precisione che cosa sia vero merito, prima di tutto perché è impossibile stabilire con rigore e certezza il dosaggio tra capacità personali e condizioni sociali. Qualche volta sembra di capire che il merito sia una qualità che la persona riconosciuta meritevole possieda naturaliter come per innata disposizione (talenti) e che con fatica e duro lavoro riesce poi a fare emergere (responsabilità). Ma nessuno sembra soffermarsi abbastanza sulla dimensione sociale del merito, sul suo dipendere profondamente dal riconoscimento sociale ovvero dalla sintonia che si stabilisce tra chi opera e chi riceve i frutti o è influenzato dall´operato.
Il giudizio rispetto al merito di una persona è relativo a un settore di lavoro, a determinati requisiti che definiscono una prestazione, all´utilità sociale delle funzioni in un determinato tempo storico, ovvero al riconoscimento pubblico. Nel merito entrano in giuoco non soltanto le qualità intrinseche e morali della persona, ma anche quella che per Adam Smith era una simpatetica corrispondenza tra i partner sociali. Per questo i teorici moderni della giustizia hanno sempre diffidato di questo criterio se usato per distribuire risorse. Non perché non pensano che ad essere assunto in un ospedale debba essere un bravo medico, ma perché mettono in guardia dallo scambiare l´effetto con la causa: è l´eguaglianza di trattamento e di opportunità il principio che deve governare la giustizia non il merito, il quale semmai è una conseguenza di un ordine sociale giusto. Per non essere privilegio truffaldino, il merito deve sprigionare da una società nella quale a tutti dovrebbe essere concessa un´eguale possibilità di formarsi capacità e accedere ai beni primari (diritti civili e diritti sociali essenziali) per poter partecipare alla gara della vita.
Il Presidente degli Stati Uniti Lyndon B. Johnson raccontò questa storia per far comprendere quanto necessari fossero i programmi pubblici di giustizia sociale: immaginiamo una gara di velocità tra due persone che partono dallo stesso punto, ma una delle quali parte con dei lacci alle caviglie. Si può ignorare questa differenza di capacità nel giudicare del merito del vincitore? Evidentemente no. Perché ci sia una gara effettivamente gareggiata occorre rimuovere gli ostacoli dell´altro competitore. Ecco perché a meno che non si azzerino le relazioni sociali e non si rifondi daccapo la società civile non si può onestamente parlare del merito come della soluzione ai problemi dell´ingiustizia senza preoccuparsi di vedere con quali mezzi i concorrenti si apprestano a competere.
Parlare di merito senza intaccare i residui storici e naturali che condizionano le prestazioni individuali è a dir poco capzioso. Nella condizione in cui la nostra società si trova attualmente è davvero difficile che il riconoscimento del merito sia un fattore di imparzialità o giustizia. Ne parlava su questo giornale alcune settimane fa Adriano Sofri. L´appartenenza di classe, sempre più determinante nell´accesso a buone scuole e quindi a una buona occupazione (a un lavoro che piace non semplicemente a un lavoro necessario) rende il discorso sulla meritocrazia non proprio cristallino e la gara una gara chiusa, avvantaggiata già alla partenza o truccata.
Perché questo lungo discorso sul merito? Perché in questi giorni di sacrosanta denuncia delle aberrazioni che si annidano in molte università italiane potrebbe venir spontaneo pensare che l´unica soluzione per curare il malato di corruzione sia sottoporlo al salasso delle risorse. Per curare una università che non seleziona per merito occorre togliere i finanziamenti: questo è quanto da più parti si dice con più frequenza, portando acqua al mulino governativo in maniera più o meno diretta. Nell´età premoderna si pensava che il modo migliore per guarire un malato fosse quello di salassarlo per togliergli il sangue cattivo e si finiva per far morire il malcapitato proprio con l´intento di salvarlo. Il corpo non rinvigorisce togliendogli il cibo, ma dandogli cibo buono. Non si tratta di una terapia veloce, ma è l´unica terapia ragionevole. Non esiste una giustizia rapida, come i sognatori della meritocrazia sembrano credere. E quindi non è tagliando i finanziamenti che si può pensare di risanare l´università, il luogo dove i talenti cercano alimento. Anche perché la politica dei "meno soldi" non si traduce necessariamente in "più onestà". Occorre invece far sì che i soldi siano meglio spesi e che siano messi in atto sistemi di controllo che controllino davvero (con anche l´uso del codice penale se necessario) e sistemi di reclutamento efficaci e non corrotti.
Ma non ci si faccia illusioni sulla celerità della cura. Perché è evidente che la questione del merito non è né neutra né di semplice procedura. Essa è prima di tutto una questione di etica ? di chi valuta e di chi è valutato, dei sistemi di valutazione e, in primo luogo, di chi li escogita e chi li fa funzionare. Non basta enunciare che occorre seguire il criterio del merito (e quale altro se no?), occorre davvero seguirlo sempre. Per esperienza devo dire che spesso anche chi esalta il merito non è poi sempre pronto a onorarlo perché la logica del sistema ha più forza di quella del merito e dell´onestà. Non è questa la ragione per la quale è così difficile che un esterno vinca una competizione nell´accademia italiana? Se la questione del merito è una questione di eguali opportunità e di etica pubblica o di responsabilità, allora, per sconfortante che la cosa possa apparire, non consente soluzioni veloci e facili. Anche se è comprensibile che di fronte alla notizia scandalistica (ma per nulla nuova) di cattedre destinate a parenti e amanti (o ad allievi fedeli, una categoria altrettanto aberrante, eppure molto in uso) e ai finanziamenti statali elargiti a università private di ogni tipo e luogo (uno sperpero del denaro pubblico di cui si parla troppo poco), viene sacrosanta la reazione di volere azzerare tutto togliendo le risorse. Ma si può voler creare indigenza per sconfiggere il furto?

Repubblica 27.11.08
Il ritratto di Stalin in chiesa e scoppia la guerra delle icone
San Pietroburgo, fedeli in rivolta contro il parroco
Il santino è vicino a quello della beata Nikonova che predisse la vittoria su Hitler
di Leonardo Coen


MOSCA - Passi la richiesta provocatoria dei comunisti di Pietroburgo che qualche mese fa perorarono il Patriarcato russo perché avviasse la pratica di canonizzazione di Stalin, in quanto «benefattore della Gran Madre Russia». Il portavoce del venerabile Alessio II liquidò seccamente la vicenda ricordando le persecuzioni, le sofferenze e le atrocità imposte dal dittatore del Cremlino ai fedeli, ai sacerdoti e alla Chiesa ortodossa. Ma le vie del Signore sono infinite, e una di queste impervie stradine della fede ha attraversato Strelna, sobborgo di Pietroburgo, per arrestarsi davanti ad una chiesetta dove un pope di infinita tolleranza ha interpretato il Verbo di Gesù sul perdono e ha deciso di esporre un´icona che ritrae Josif Stalin intabarrato nel suo celebre cappottone militare accanto alla beata Matrona Nikonova di Mosca (1881-1952), mentre sullo sfondo campeggiano i bulbi multicolori della stupenda san Basilio.
Insomma, un «santino» ortodosso. C´è una ragione, dietro questa audace e, diciamolo pure, dissacrante iniziativa del pope di Strelna. Bisogna tornare indietro nel tempo. Il defunto arciprete Dimitrij Dudko, noto teologo, da giovane era un sincero antisovietico ed ebbe la fortuna di sopravvivere alle purghe nonostante un lungo soggiorno nei gulag. Ma quando cominciò ad invecchiare seriamente all´improvviso ebbe una folgorazione sulla via della falce e martello: si innamorò di Stalin. Nei suoi sermoni diceva che Stalin in realtà era religioso e che nella sua coscienza non vi erano sentimenti persecutori nei confronti della chiesa ortodossa.
Lo scrisse, persino: «Voglio tanto esclamare alla fine: «Santo, pio Josef, prega Dio per tutti noi!». Un caso di aberrazione o di sfinimento psicologico? Comunque, fu un´eccezione il fervore staliniano dell´arciprete Dudko. Oggi, però, è spuntato fuori un seguace di padre Dimitrij. Nella chiesa di Strelna dedicata alla santa principessa Olga, una delle sventurate figlie di Nicola II, il priore Evstafij Zhakov ha deciso di esporre appunto l´icona di Stalin con a fianco la figura della beata Matrona di Mosca. Sono tantissime le leggende che riguardano la vita di questa santa donna che riuscì a superare i massacri e le purghe staliniane. Una di queste racconta che «la madre Matrona» nell´autunno del 1941 ebbe dei colloqui con Stalin. Anzi, che Stalin stesso fosse andato a trovarla per confidarle che era molto preoccupato della situazione di Mosca. I nazisti erano alle porte.
Ci voleva una «guerra patriottica», rispose lei, e predisse: «Tu rimarrai da solo in città, ne sarai il Grande Difensore. Mosca non cadrà in mano a Hitler». Ecco il motivo dell´icona in cui si rappresenta quel momento.
Il problema è che la cosa non è affatto piaciuta ai parrocchiani. Non hanno gradito l´iniziativa, la considerano un´offesa alla memoria di tutte le vittime delle repressioni antireligiose di Stalin. E hanno deciso di disertare le cerimonie fin quando quell´icona resterà in chiesa. Le proteste hanno suggerito al pope di spostare l´icona e di metterla nel luogo più appartato della chiesa, ma i fedeli pretendono che venga tolta: «Non ci importa che la popolarità di Stalin sia ancora molto alta in Russia, lui è stato il diavolo contro chi credeva in Dio». Sinora il patriarcato di Mosca non ha commentato la vicenda.

Repubblica 27.11.08
I tormenti della sinistra
di Marc Lazar


Il recente Congresso del Ps francese, la designazione di Martine Aubry a Primo segretario con una manciata di voti di vantaggio su Ségolène Royal e la contestazione del risultato da parte dei sostenitori di quest´ultima rivelano la crisi di questo partito in tutta la sua ampiezza. E´ una crisi che presenta indiscutibilmente una sua specificità ? nessun altro partito di sinistra nutre tanto odio al proprio interno ? ma è anche un segno della fase delicata in cui versa tutta la sinistra europea.
In seno al Ps, la maggioranza tenterà di tornare a un orientamento di tipo classico: difesa intransigente del «patriottismo» di partito, affermazione della sua identità tradizionale, proclamazione ostentata della sua appartenenza alla sinistra, ricerca di un´ipotetica alleanza sul suo fianco sinistro, stigmatizzazione di ogni intesa con i centristi (fatte salve le possibili alleanze a livello locale), ritorno al «tutto Stato», critica di prammatica al capitalismo e al liberismo. Insistendo volutamente su questi temi, Martine Aubry ha potuto costruire, in via provvisoria, un´ampia coalizione estremamente eterogenea, cementata solo dalla volontà di sbarrare la strada a Ségolène Royal. La nuova segretaria dovrà definire ora un vero orientamento politico, e prendere iniziative per soddisfare la forte domanda di cambiamento espressa dagli iscritti, in ordine al funzionamento del partito e a un ampio ricambio generazionale. Ma ciascuna di queste decisioni rischia di far saltare la maggioranza. Inoltre, Martine Aubry non potrà non tener conto della metà dei votanti socialisti che in barba agli sforzi di gran parte dell´apparato del partito per sostenere la sua candidatura, avevano optato per Ségolène Royal, e ora non accettano l´esito del voto. Il Ps è ormai spaccato in due. Se al momento la prospettiva di una scissione non è plausibile, resta il fatto che il partito va incontro a una coabitazione molto tesa tra la nuova dirigente e la sua rivale, Ségolène Royal. La prima vuol rinnovare il partito richiamandosi alla tradizione, mentre la seconda intende muoversi verso altri orizzonti, sull´esempio del Partito Democratico italiano.
Ma può il Pd costituire un modello? Nato nel 2007, questo partito sta esplorando un percorso disseminato di insidie e gravido di incertezze. Considerando superate le grandi ideologie e la classica divisione tra destra e sinistra, si sforza di inventare una nuova forma di partito con una sua identità e un suo progetto, che per ora non hanno contorni ben definiti. Alcuni dei suoi dirigenti pensano di unirsi all´Udc, suscitando resistenze interne. Evidentemente Ségolène Royal si è ispirata al suo esempio, ancorché in maniera contraddittoria. Da un lato sostiene di incarnare il rinnovamento dicendo di voler aprire le porte del partito, denunciando la vecchia oligarchia in carica e accettando, in caso di necessità, eventuali alleanze con i centristi per battere Sarkozy. Dall´altro ha dato garanzie del suo impegno di sinistra, in particolare in campo economico, con proposte come quelle di vietare i licenziamenti, o di imporre alle imprese, in caso di delocalizzazione, il rimborso di tutti gli aiuti pubblici ottenuti. Ma soprattutto, Ségolène Royal ha giocato a fondo la carta della personalizzazione e della presidenzializzazione. I suoi avversari denunciano precisamente ciò che piace alla metà del partito, che approvano il suo stile inconsueto.
Parallelamente, in Gran Bretagna le recenti decisioni anticrisi di Gordon Brown ? tra cui la riduzione dell´Iva e un aumento delle imposte sui redditi più elevati ? contraddicono quella che è stata la politica del New Labour. In Germania, l´Spd è penalizzata dalla sua politica di coalizione con la Cdu-Csu. E subisce la spinta del partito di sinistra (Die Linke), che attrae un elettorato di operai, disoccupati e lavoratori dipendenti del ceto medio declassati, o in via di precarizzazione. Di conseguenza, l´Spd ha corretto la rotta e ha ripreso a parlare di «socialismo democratico» (un concetto caduto in disuso in questi ultimi tempi), rettificando alcuni aspetti dell´Agenda 2020 adottata sotto Schroeder e avanzando una serie di proposte più «sociali». Sembra quindi che il Labour e l´Spd, artefici della politica di revisione e rinnovamento della sinistra negli Anni 90, siano giunti al termine di quel ciclo che aveva costituito la Terza via. Non possono ripudiare i passi compiuti col riconoscimento dell´economia di mercato, del principio di responsabilità degli individui, della necessità di modernizzare il welfare, o con l´invenzione di nuove forme di solidarietà sociale, ma ancor meno possono tornare, come vorrebbero le correnti più radicali, a una politica tradizionale di sinistra, dopo averla aspramente criticata e abbandonata. E dunque devono reinventarsi tutto.
I partiti riformisti sono oggi tutti sulla difensiva a fronte della crisi economica e finanziaria e del dinamismo della destra. E sono inoltre destabilizzati da identiche sfide. Innanzitutto quella della leadership, un tema delicato, perché a differenza della destra che accetta facilmente un capo e la sua autorità, a sinistra i leader sono soggetti a continue critiche, come nel caso di Veltroni in seno al Pd. C´è poi il problema delle profonde divisioni interne, suscitate non solo da rivalità umane, ma anche dalla pregnanza delle scorie ideologiche che paralizzano questi partiti e deteriorano la loro immagine agli occhi degli elettori. E c´è la concorrenza dei piccoli partiti alla loro sinistra, che non cessano di criticarli e di intimidirli, soprattutto in Francia e ora anche in Germania. C´è la questione della strategia da adottare, dato che per poter aspirare al successo questi partiti devono chiamare a raccolta la sinistra, ma anche conquistare elettori dell´area moderata. C´è il problema del rapporto con la società, poiché sul piano sociologico la loro base è formata in larga parte da persone con un alto livello di istruzione, che vivono nelle grandi città e lavorano nei servizi e nel settore pubblico, mentre stentano a conquistare i ceti più popolari, i giovani, i precari e molti dipendenti delle imprese private. E infine, quello della loro identità, del loro progetto, poiché d´ora in poi sono chiamati a dare un contenuto preciso e mobilitante al loro riformismo, o al socialismo al quale si richiamano.
La sinistra europea ha subito numerose sconfitte elettorali; ma ha soprattutto perduto la sua egemonia culturale. Ed è quindi per riconquistarla che dovrebbe profondere il suo impegno.
(Traduzione di Elisabetta Horvat)

Repubblica 27.11.08
Il piacere del male, così nasce la perversione
di Fabio Gambino


Elisabeth Roudinesco parla del suo saggio su "la parte oscura di noi stessi"
Una storia delle perversioni

"Il pedofilo ci fa orrore anche perché mai come oggi la società valorizza l´infanzia A differenza del serial killer che ripugna ma affascina"
"Spesso i mistici sono stati protagonisti di radicali degenerazioni passando dalle vette del sublime agli abissi dell´abiezione"

PARIGI. «La perversione è lo specchio dei nostri desideri più inconfessabili. Per questo ci fa paura». La psicanalista e storica Elisabeth Roudinesco non ha dubbi: «Tutti dobbiamo fare i conti con la crudeltà e il piacere del male che agiscono in noi in maniera più o meno latente. Sono pulsioni feroci e assassine che crescendo, con l´educazione, impariamo a tenere a bada e a superare. Ma pur seppellite nel profondo del nostro inconscio, esse continuano a ossessionarci».
La studiosa francese lo scrive in un saggio, La parte oscura di noi stessi (Angelo Colla Editore, pagg.183, euro 18), che cerca di ricostruire la percezione della perversione nella cultura occidentale, dal Medioevo ai giorni nostri. Il libro si presenta come «una storia dei perversi», vale a dire di «coloro che sono stati considerati tali dalle società umane, preoccupate di esorcizzare la loro parte maledetta». Per l´autrice, la perversione, «che ha sempre a che fare con l´idea d´inversione e di rovesciamento», è una realtà variabile, relativa e sfuggente, un «sinonimo di perversità» percepito come «una sorta di negativo della libertà» che si trasforma a seconda delle epoche e delle culture.
«La perversione è una costruzione culturale, perché il piacere del male è un dato specifico dell´umano. In natura, la perversione non esiste», spiega Roudinesco, nota anche in Italia per le sue numerose pubblicazioni, tra cui una celebre biografia di Lacan e un corposo Dictionnaire de la psychanalyse. «Il senso comune considera la perversione come la manifestazione della parte bestiale dell´umano, ma l´animale non si rende conto della propria crudeltà. Si ha perversione solo quando si ha coscienza del male che si procura. Il perverso è responsabile delle proprie azioni e ne gode. Non è un folle incapace d´intendere e di volere. La perversione nasce dalla coscienza della norma ed ha bisogno del linguaggio per esprimersi, come per altro ci ha insegnato Sade. In passato, è stata considerata un atteggiamento contro natura oggi è piuttosto vista come un disturbo dell´identità, una deviazione, uno stato di delinquenza».
Ogni epoca ha costruito le proprie figure della perversione?
«La società ha bisogno di rappresentarsi concretamente la perversione per dare corpo e allontanare le paure legate alla parte oscura che sente dentro di sé. Non è possibile pensare una società senza la dimensione del male. Le figure dei perversi sono il capro espiatorio da additare alla comunità. Sapere che la minaccia alla società non viene da noi, ma da qualcun altro, ci tranquillizza e ci rassicura».
Il serial killer e il pedofilo sono le due figure della perversione che dominano la percezione contemporanea. In passato però ce ne sono state altre...
«Ogni epoca si è creata la sua idea di perversione. I grandi criminali seriali sono considerati perversi fin dal Medioevo. Anche l´omosessualità è stata considerata a lungo una forma di perversione contro natura, come pure la masturbazione infantile e l´isteria femminile. Oggi però la loro percezione è cambiata e nessuno le considera più perversioni. Nella società contemporanea la perversione assoluta è incarnata dal pedofilo. La nostra società ne è ossessionata, considera la pedofilia una perversione assolutamente ingiustificabile. Più dello stupro e dell´omicidio. Da un punto di vista storico, è una novità. Il pedofilo ci fa orrore, a differenza del serial killer che ci ripugna ma ci affascina».
Come si spiega tale evoluzione?
«La nostra società accorda ai bambini uno statuto senza precedenti. Valorizzando come mai in passato l´infanzia, oggi qualsiasi aggressione al corpo infantile ci sembra un gesto orribile. Il bambino non può difendersi, può essere plagiato e non può dare il suo consenso, mentre nella nostra cultura l´idea del consenso è fondamentale. Prima di Freud, i medici condannavano la sessualità dei bambini come perversa. Dopo che il fondatore della psicanalisi ha dimostrato la normalità della sessualità infantile, la società l´ha accettata, ma ha anche sentito il bisogno di proteggerla. Per questi diversi motivi la pedofilia è diventata ai nostri occhi la perversione più intollerabile».
La perversione implica solo la sfera sessuale?
«Naturalmente no. I mistici, ad esempio, sono spesso stati protagonisti di forme di perversione molto radicali. Si pensi alle sofferenze che si sono imposti alcuni santi oggi molto venerati, la mortificazione della carne e la flagellazione per purificare il corpo. I rituali che ai nostri occhi appaiono come vere e proprie perversioni, all´epoca erano considerati un mezzo per avvicinarsi a Dio. Ancora oggi ci sono santoni indiani che digiunano fino a trasformarsi in veri e propri scheletri. I mistici oltretutto possono passare dalle vette del sublime agli abissi dell´abiezione. Si pensi a Gilles de Rais, su cui è stato poi costruito il mito di Barbablù. Fu un grande condottiero, animato dalla ricerca del bene, che seguì in battaglia Giovanna d´Arco. Quando questa venne mandata al rogo accusata di essere una strega perversa, egli precipitò nel pozzo delle proprie pulsioni incontrollabili, mettendosi ad ammazzare bambini. Quando la legge degli uomini s´inverte, trasformando la santa in strega, anche Gilles de Rais rovescia i propri comportamenti, diventando un orco assassino».
Personaggi come Barbablù ci fanno paura però ci affascinano. Come mai?
«L´orrore dei grandi perversi violenti ci ha sempre affascinato, da Barbablù a Jack lo Squartatore, fino ai più recenti serial killer cinematografici con la loro violenza piena di rituali macabri. Questi personaggi ci offrono lo spettacolo di quello che non siamo, ma che potremmo forse essere. Ci fanno paura, ma, assistendo alle loro raccapriccianti azioni, ci liberiamo dalla minaccia indefinita e oscura che sentiamo in noi. E´ un fascino torbido che esiste perché tutti, prima o poi, in un modo o nell´altro, ci siamo confrontati con il male. Tutti nascondiamo in noi una componente perversa».
Altri esempi di perversione?
«Oggi un´altra figura percepita come profondamente perversa è quella del terrorista che schianta il suo aereo sui grattacieli di New York. In lui percepiamo una sorta di godimento del male che sta procurando. In tutt´altro ambito, anche nei casi gravi di anoressia c´è una forma di perversione, dato che in essi si manifesta una sorta di godimento della morte di sé».
Nel suo libro lei evoca anche la perversione politica. Come mai?
«Accanto alla perversione individuale, esiste quella collettiva dei sistemi politici che pervertono le loro finalità. In nome del bene, questi istituiscono il male come legge. Le dittature, i fanatismi religiosi mostrano questa inversione della legge che autorizza il crimine. Il nazismo è stato il sistema che più è sprofondato nella perversione, giustificando perfino il genocidio. Il rovesciamento tra male e bene è stato totale. Anche nelle democrazie contemporanee, in nome della sicurezza, della prevenzione e del controllo, si mettono in atto meccanismi che possono diventare perversi. La società di sorveglianza che pretende di controllare e prevenire tutto è una forma di perversione della democrazia».

Repubblica 27.11.08
"Conversione? Mai detto”
Antonio Gramsci e il sacerdote pentito


E alla fine risulta che neppure Giuseppe Della Vedova, il padre dehoniano a cui nel 1977 fu attribuita la "rivelazione" di Gramsci convertito al cattolicesimo, era davvero convinto della conversione. «Chiarissimo Professore, spero che Lei avrà letto le mie note su Studi Sociali. Avrà visto che io non dico che l´onorevole Gramsci s´è convertito o ha ricevuto i sacramenti», scrive in quello stesso anno ad Arnaldo Nesti, lo studioso che su Paese Sera smentì la tesi della conversione grazie alle testimonianze del cappellano e delle suore che assistettero Gramsci in fin di vita nella clinica Quisisana. Tracce di questa vicenda sono anche in un libro di Nesti, La fontana e il borgo, pubblicato da Ianua nel 1982.
In una lettera inedita, che il professor Nesti mostra a Repubblica, padre Della Vedova quasi si scusa per il suo intervento superficiale («Se avessi saputo delle sue interviste, l´avrei consultata»). Se la prende con il direttore della rivista, padre Boschini, che ha pubblicato il suo articolo sulla conversione di Gramsci senza avvertirlo che dell´argomento s´era già occupato Nesti nella sua tesi di laurea. Poi riferisce allo studioso di essersi messo in contatto, dopo l´uscita dell´articolo di Paese Sera, con l´unico vero cappellano della clinica Quisisana, don Giuseppe Furrer, il quale gli conferma in sostanza la testimonianza già resa a Nesti (don Giuseppe non ricordava neppure d´aver dato i sacramenti in punto di morte, comunque Gramsci era assente, immobile). Prova imbarazzo, padre Della Vedova, ma precisa che nel suo articolo uscito su Studi Sociali «io non dico che Gramsci s´è convertito o ha ricevuto i sacramenti, come ha scritto il Corriere della Sera, ma solo fatto una mia supposizione». Solo una supposizione. Destinata però a durare tre decenni.
S.Fio.

Corriere della Sera 27.11.08
Dopo l'«Isola» Per il giornale è «regina del pettegolezzo»
Luxuria, lite a sinistra Il «manifesto» attacca: donnetta da ballatoio
Bertinotti: ha vinto perché autentica
Su «Liberazione» altre due pagine sulla vittoria nel reality. L'ex parlamentare prc: non mi candiderò alle Europee
di Paolo Foschi


ROMA — Compagni contro. La vittoria di Vladimir Luxuria all'Isola dei famosi fa ancora discutere. E proprio mentre l'ex parlamentare di Rifondazione dichiara che «la sinistra unita può battere la destra», i giornali comunisti litigano sul reality show.
Liberazione, organo del Prc, dopo aver paragonato due giorni fa il successo della trans al trionfo di Obama, ieri ha dedicato a Luxuria due pagine e un «grazie perché hai reso un grande servigio non solo a lesbiche, gay, bisex e trans di questo Paese, ma in generale a chi pensa che libertà e civiltà siano valori connessi, imprescindibili, per cambiare l'Italia». Il quotidiano diretto da Piero Sansonetti ha comunque ospitato anche una lettera di Paola Nardi, la militante che per prima mesi fa aveva criticato la partecipazione di Luxuria all'Isola: «Questo è vero pietismo», ha scritto ieri. Il Manifesto
ha invece affidato il racconto del «naufragio di Vladimir » a Norma Rangeri, critica tv: «La sua è la classica vittoria di Pirro, il successo di chi alza la coppa del trionfo come fosse la bandiera rossa del transgender mentre in realtà sventola le mutande di Valeria Marini». E, ancora, «la povera Luxuria è entrata nell'Isola come un volantino stampato ("parlerò di problemi sociali e politici") e ne è uscita come una donnetta da ballatoio. Il massimo della popolarità lo ha raggiunto con la spiata di un flirt fra una bella argentina (Belen Rodriguez) e un rubacuori (Rossano Rubicondi), marito di Ivana Trump. Altro che rottura del tabù dell'eterosessualità, come scrive Liberazione.
Semmai l'incoronazione della reginetta del pettegolezzo ». Luxuria ieri ha ribadito che non si candiderà per le europee e ha raccontato: «Sono stata fuori due mesi e mezzo ma i punti fermi non sono cambiati: la Carrà fa tv, Berlusconi fa il cabarettista, nel Pd ci sono scontri tra Veltroni e D'Alema, così come in Rifondazione tra Vendola e Ferrero». Secondo Bertinotti, Vladimir «ha vinto perché è autentica come il Movimento degli studenti». Infine Maurizio Ronconi, Udc: «In questo momento l'unico leader della sinistra radicale è Luxuria».

Corriere della Sera 27.11.08
Angela Scarparo contro la Rangeri: l'ex deputata ha classe, intelligenza e umana fragilità
La compagna di Ferrero: è brava, sbaglia chi pensa solo agli operai
di A. Gar.


ROMA — Angela Scarparo. Scrittrice, giornalista, compagna di Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione. Nel suo blog ha scritto «Chi se ne frega dei reality».
Cosa intendeva?
«Che a me piacciono Visconti, Giotto, Ingmar Bergman...».
Non si unisce al coro entusiasta per Luxuria e l'«Isola dei famosi».
«Mi piace anche Vladimir. È una vincente.
Me la ricordo alla fine degli anni '80 che trattava col Vaticano...».
Col Vaticano?
«La sede del locale che animava, "Muccassassina", era loro. Lei trasformò uno sfratto in una battaglia su come la Chiesa gestisce le sue proprietà ».
Norma Rangeri ha scritto sul manifesto che Luxuria è uscito dal reality «come una donnetta da ballatoio».
«Non ho mai visto l'"Isola". Sono certa che Vladimir ha mantenuto classe, intelligenza, e umana fragilità».
Il manifesto parla di «un concentrato di sessismo, conformismo e luoghi comuni».
«A proposito dell'"Isola", sono d'accordo. Chi ha davvero vinto l'altra sera è stato Berlusconi. E la sua cultura».
Liberazione, il giornale di Rifondazione, ha scritto che con Vladimir ha vinto la diversità.
«Queste sono panzane! Gli italiani hanno passato le serate con una come lei così come si sposano in Rolls Royce: una tantum».
Alcuni, dentro Rifondazione, dicono che i comunisti dovrebbero stare al fianco della classe operaia.
«Ma non solo! Uno dei compiti della sinistra è smontare i luoghi comuni che la destra ci impone: immigrati, paura, individualismo».
Ferrero che vuole candidare Luxuria alle Europee...
«Affari loro. Io sono una iscritta, faccio lavoro di base».

Corriere della Sera 27.11.08
Così l'Io viene svelato dalla tecnica
di Giulio Giorello


«Non è portentoso il fatto che io sia qui, e che qualcosa nella mia testa pensi cento cose diverse in un solo momento e faccia del mio corpo tutto quello che vuole?». Così sulle scene recita lo Sganarello del Don Giovanni di Molière, celebrando «la fantastica libertà» per cui basta un comando del cervello per far sì che un essere umano possa compiere questo o quel gesto oppure pronunciare i discorsi più articolati. Ma dove va a finire tutta questa libertà se il soggetto in questione è completamente paralizzato? Una risposta non sul piano filosofico bensì su quello operativo ci viene dai risultati annunciati da Frank Guenther della Boston University. Già si era appurato che si potevano tradurre dei comandi motori in istruzioni per una «macchina»; adesso è la volta della parola o, meglio, dell'intenzione di profferire una parola! Dunque l'apparato tecnologico si trova connesso con quella attività così elusiva e importante che è il pensiero, visto il profondo legame che c'è tra riflessione e linguaggio. Nel caso in questione, l'interfaccia, per così dire, riesce a rendere comunicabile un pensiero che in qualche modo è già linguaggio. Com'è ovvio, siamo solo agli inizi; ci vorranno tempo, pazienza e opportune risorse economiche. Al contrario di alcuni diffusi luoghi comuni, questo mi pare un bell'esempio di interazione tra coscienza e tecnologia: man mano che costruiremo dispositivi sempre più raffinati riusciremo non solo ad aiutare chi è colpito da gravi menomazioni, ma anche a fare luce sui nostri «meccanismi interiori» che sottendono il mondo delle idee e quello delle decisioni. Non si tratta più insomma di concepire gli strumenti tecnologici come dei rivali del corpo o del cervello umani, bensì di pensare a una sorta di cooperazione tra gli uni e gli altri. E forse questo ci permetterà anche di capire come la «cosa» più preziosa, il nostro Io, non è tanto un piccolo fantasma nascosto in un punto imprecisato della nostra testa, quanto un potere diffuso nella sofisticata architettura delle sinapsi.

il Riformista 27.11.08
L'Osservatore sbatte Galileo in prima pagina
di Paolo Rodari


La pace definitiva (nonostante le ferite restino) tra la Chiesa cattolica e Galielo Galilei avverrà nel corso del 2009, l'anno nel quale l'Onu ha deciso di celebrare il quattrocentesimo anniversario delle prime osservazioni astronomiche che Galileo realizzò nel 1609 puntando il suo cannocchiale verso il cielo. Certo, c'erano stati in passato una serie di mea culpa di Papa Wojtyla in merito. Ma è anche vero che alla Chiesa, nel tempo del pontificato di Joseph Ratzinger, più che i mea culpa interessa una corretta revisione del tempo che fu. E, nel merito del caso Galileo, una pacificazione che riconosca gli errori della Chiesa senza però accollarsi colpe che non ci sono.
Nel 2009, dunque, questa operazione pace/verità sarà sancita a suon di incontri, approfondimenti e, pure, come ha detto due giorni fa monsignor Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio consiglio per la cultura, da una ripubblicazione degli atti del processo allo scienziato pisano, con quella sentenza di condanna che, secondo quanto ha detto il presule confermando che non ci può essere riappacificazione senza verità, mai fu firmata dal Pontefice anche a motivo del fatto che i cardinali non raggiunsero un accordo in merito. Una pace che, per dovere di cronaca, nonostante le anticipazioni di diversi organi di stampa nei mesi scorsi, non vedrà il posizionamento di una statua dello scienziato in Vaticano: dicono oltre il Tevere che il progetto che doveva vedere Finmeccanica donare la statua alla Santa Sede sia tramontato per problemi economici. La Santa Sede, in sostanza, avrebbe dovuto accollarsi gran parte della spesa ma la spesa sarebbe stata troppo onerosa.
Oggi, significativamente, è l'Osservatore Romano a pubblicare in prima pagina un articolo di padre José Gabriel Funes, direttore della Specola Vaticana, con un titolo che soltanto qualche anno addietro sarebbe stato impossibile: «Grazie, Galileo». Grazie per l'impegno a favore del copernicanesimo e della Chiesa stessa (nonostante il drammatico scontro di alcuni uomini di Chiesa con lo scienziato abbia lasciato delle ferite ancora oggi aperte). E grazie perché, se è vero che senza la Chiesa cattolica non ci sarebbe stato Galileo, è altrettanto vero - sono parole di padre Funes - «che forse non ci sarebbe stata una Specola Vaticana senza Galileo».Ieri, in questa lunga strada verso la pace/verità, è stato il giorno del cardinale Tarcisio Bertone. In un importante convegno promosso dal "ministero" vaticano della cultura diretto da Ravasi e da Finmeccanica, il segretario di Stato vaticano è andato in qualche modo oltre i precedenti mea culpa wojtyliani. E anche qui, per dare il tono della cosa, occorre rifarsi al titolo che dà l'Osservatore quest'oggi all'intervento del porporato pubblicato (in parte) a pagine cinque: "Due ali per volare verso la verità". Che sta a significare: scienza e fede non sono nemiche, come le sofferenze patite da Galileo potrebbero far desumere, ma sono due ali che assieme possono portare l'uomo ad avvicinarsi alla verità delle cose. Lo stesso Galileo - ha detto Bertone - era un uomo che ha vissuto tenendo assieme le due cose: «Uomo di scienza, ha pure coltivato con amore la sua fede e le sue profonde convinzioni religiose». E gli errori commessi nei suoi confronti, furono dovuti principalmente «alla mentalità dell'epoca».

mercoledì 26 novembre 2008

l’Unità 26.11.08
È solo Coluccia invocare il «fumus persecutionis» della Cirami sul tribunale di Genova
Ma la stessa via giudiziariapotrebbe essere seguita da tutti gli imputati dei vari processi
G8, i big della polizia si affidano alla legge vergogna
di Claudia Fusani


L’avvocato difensore di uno degli imputati si è appellato alla Cirami. Seguendo la strada inaugurata dagli avvocati di Berlusconi, l’alto funzionario accusato di falsa testimonianza non si fida del tribunale di Genova.
Non più carnefici ma «vittime». E anche un po’ «perseguitati». Quello di Genova è un tribunale «non sereno». Meglio non si pronunci sul caso. Per ora quello che riguarda il Capo della polizia, l’ex questore di Genova Francesco Colucci e l’ex capo della Digos Spartaco Mortola, accusati di falsa testimonianza. Di aver depistato, mentendo, i processi sui fatti del G8 e nello specificio quello sull’irruzione alla scuola Diaz. Poi si vedrà. Di fronte a questo «sospetto» ieri mattina il gup Silvia Carpanini ha rinviato l’udienza preliminare in cui doveva decidere se celebrare o meno il processo per De Gennaro, Colucci e Mortola.
Il ricorso è stato presentato “solo” da Maurizio Mascia, legale dell’ex questore Colucci. Il professor Coppi, che assiste De Gennaro, e i legali di Mortola erano informati ma si sono astenuti. Il rinvio va però a beneficio di tutti visto che le posizioni dei tre indagati non sono separabili. Gli effetti del ricorso rischiano di rappresentare una rivoluzione nella storia processuale dei fatti del G8. La legge Cirami, infatti, può essere “invocata” in ogni momento e grado del processo, tranne che in Cassazione. Significa che anche per la Diaz e per Bolzaneto, entrambi in appello, gli avvocati potrebbero chiedere di non essere giudicati a Genova. Una fuga.
Capita così che il palazzo di giustizia di Genova sembri il tribunale di Milano, causa ed esperimento della cosiddetta Cirami. La legge che ammette la «remissione» di un procedimento e il suo trasferimento se c’è il sospetto del fumus persecutionis è nata dalla richiesta dei legali di Berlusconi che non voleva essere giudicato dal tribunale di Milano nei processi Sme e dintorni. Ora anche poliziotti e prefetti, i custodi dell’ordine e della legalità, si sentono vittime di una persecuzione. Non si difendono “nel” processo ma “dal” processo.
I legali del prefetto De Gennaro e di Mortola prendono le distanze. «Eravamo pronti al dibattimento, anzi, avremmo anche chiesto il giudizio abbreviato pur di chiudere questa storia» precisa Franco Coppi, difensore di De Gennaro. Però un rinvio fa comodo a tanti, anzi a tutti. Sempre che le polemiche per la polizia che fugge dal processo invece di affrontarlo a testa alta non ottengano risultati opposti. E che la pezza non sia peggiore del buco.
In undici pagine l’avvocato Mascia spiega dove nasce la «necessità della remissione del procedimento a carico del prefetto Francesco Colucci», questore di Genova ai tempi del G8. Il fatto è che «l’accusa dei processi sui fatti del G8 ha avuto un atteggiamento sbagliato che ha provocato nell’opinione pubblica una percezione errata delle prove dei procedimenti stessi». Il fumus, secondo Mascia, non è tanto agli ultimi 7 anni di indagini e processi, «ma agli ultimi 15 giorni». Da quando c’è stata la sentenza sulla Diaz che ha assolto sedici dei 29 imputati e ha condannato a pene molto lievi “solo” gli esecutori del pestaggio alla Diaz. Il fascicolo sulla falsa testimonianza è «una costola del dibattimento per la Diaz» ed è «parte di un processo che ha destato le maggiori proteste al momento della lettura della sentenza e nei giorni successivi proprio perché non sono stati condannati i vertici della polizia». La falsa testimonianza di cui sono accusati Colucci e Mortola - istigati, secondo i pm, da De Gennaro - «è in stretta connessione con quello che è successo e che ha provocato insulti e minacce al tribunale», le grida «vergogna» dopo che il presidente Barone aveva letto la sentenza e le minacce «ci vendicheremo». Ora, ragiona l’avvocato nel ricorso, «poiché nessuno ha contestato l’oltraggio al magistrato e il successivo linciaggio mediatico»; poiché «il Csm ha dovuto aprire una pratica a tutela e la prefettura ha deciso di proteggere i giudici della I sezione», è evidente «il rischio che venga limitata la serenità e la libertà di decidere». Il succo è che il processo a De Gennaro - per questa inchiesta rimosso dal vertice della polizia e ora alla guida del Dis, il coordinamento dell’intelligence - almeno per ora non si fa. E che forse Genova non vedrà più uno di questi processi. Una fuga, da tutto.

l’Unità 26.11.08
Bioetica. La legge non sia contro Eluana
di Luigi Manconi


Che il tuo riposo sia lieve, Eluana, e non si trasformi in espiazione di una vita che si riduce a una pena senza fine. Eluana è nata a Lecco il 25 novembre 1970 e ieri, dunque, ha compiuto 38 anni: gli ultimi 17 li ha passati in stato vegetativo, in una condizione priva di esperienza e di conoscenza, di capacità di comunicazione e di relazione. Il suo anniversario ricorda drammaticamente il trascorrere di un tempo di cui Eluana è vittima e non protagonista: uno stato di assenza perpetuato artificialmente. Oggi, è possibile interrompere quell'artificio e lasciare che quell'esistenza vada verso il suo esito. Lo hanno deciso la giurisprudenza e l'amore dei suoi genitori, la scienza e l'intelligenza delle cose del mondo e della loro ragione profonda.
Forse, così, Eluana Englaro potrà infine riposare in pace. Ora resta da fare quello che finora non è stato fatto e che, senza il grido muto di Eluana Englaro, mai si sarebbe nemmeno intrapreso. Ieri il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, ha definito "non più procrastinabile" una legge in materia di fine della vita. Ma attenzione: non serve una legge qualunque. E si ha ragione di temere che sia possibile un esito normativo assai pericoloso, dal momento che una maggioranza parlamentare è intenzionata a porre limiti assai rigidi. In particolare, a privilegiare, in caso di conflitto tra volontà del paziente e valutazione del medico, l'opinione di quest'ultimo; e a escludere dall'ambito delle decisioni assumibili quella relativa a nutrizione e idratazione artificiali e alla loro sospensione. Se così accadesse, la legge risulterebbe fatalmente più arretrata rispetto all’attuale situazione: oggi, infatti, dettato costituzionale e giurisprudenza consentono di affermare, e di vedere giuridicamente protetto il principio dell'autodeterminazione del paziente. Una legge quale quella che è possibile venga approvata negherebbe proprio questo fondamentale principio e avrebbe un esito tragicamente beffardo. Verrebbe approvata - «sull’onda dell'emozione per Eluana Englaro», come infallibilmente scriverebbe qualche giornale - una legge propriamente «contro Eluana Englaro» e tutto ciò che la sua vicenda evoca. Una legge che negherebbe, cioè, la possibilità di scelta del paziente in merito a quei trattamenti sanitari che, secondo tutti i protocolli scientifici internazionali, sono nutrizione e idratazione artificiali. Ma per gli spietati difensori della vita come «bene non disponibile» sono altro: dunque non è possibile sospenderli. Eppure, già nel dicembre del 2000, la Conferenza episcopale spagnola scriveva che «la vita in questo mondo è un dono e una benedizione di Dio, però non è il valore supremo assoluto».

l’Unità 26.11.08
Antonio Gramsci si convertì?
No, ci provarono ma lui rifiutò
di Bruno Gravagnuolo


Il caso L’arcivescovo Luigi De Magistris rivela: «Prima di morire chiese i conforti religiosi»
La storia Ma i documenti attestano tutt’altro: il tentativo d’indurlo ad abbracciare la fede fallì

Una vicenda non nuova esplosa già nel 1977 e già chiarita a sufficienza da lettere, documenti e testimonianze che allo stato attuale fanno escludere recisamente la presunta conversione e anzi la smentiscono.
Gramsci convertito in punto di morte? Addirittura con i sacramenti? Ad affermarlo è stato l’arcivescovo Luigi De Magistris, penitenziere emerito della Santa Sede, alla presentazione del primo catalogo internazionale dei «Santini». Che ha aggiunto alla «rivelazione» precisi dettagli. La presenza nella stanza alla Quisisana di Roma dell’immagine di Santa Teresa del Bambin Gesù. E le suore della clinica, che avrebbero portato da baciare a Gramsci l’immagine di Gesù Bambino, su esplicita richiesta: «Perché non me l’avete portato?». L’infermo avrebbe così baciato il Bambino, «tornando alla fede della sua infanzia».
Peccato però che la rivelazione non regga. Ma sia del tutto infondata e priva di riscontri al momento. Anzi, a leggere bene le carte di cui disponiamo, la verità fu un’altra e di tenore del tutto opposto. Cominciamo da una domanda: quando avvenne materialmente la conversione? Gramsci entrò in coma il 25 e spirò per un ictus il giorno 27 aprile 1937. Fu cremato con pratica non consacrata e con molte difficoltà, grazie al fratello Carlo (il regime temeva la concomitanza con il primo maggio), e poi le ceneri furono trasferite dal Verano al Cimitero degli Inglesi nel dopoguerra. Bene, non c’è traccia di conversione né nella lettera di Tatiana Schucht a Sraffa, né in quella alla sorella Giulia, entrambe scritte post-mortem e piene di particolari sugli ultimi istanti di Antonio. E ancora.
Il caso esplose nel 1977
Il caso della «conversione di Gramsci» esplose già nel 1977, quando il gesuita padre Della Vedova sbandierò la notizia sulla rivista Studi Sociali (n. 10). Ne nacque una polemica a seguito della quale il professor Arnaldo Nesti, sociologo a Firenze, raccontò di essersi recato 10 anni prima a Ingebohl in Svizzera, sede della casa generalizia a cui appartenevano le suore della Quisisana (cfr. Paese Sera del 21-4-77 e 8-6-77). Lì aveva incontrato i testimoni delle ultime ore di Gramsci. Il cappellano Don Giuseppe Furrer, Suor Linda, Suor Maria Ausilia e Suor Palmira. Furrer racconta delle sue «dispute» al capezzale di Gramsci, il quale polemizzava contro i sacerdoti, «incapaci di capire l’animo umano». Quanto alle suore, che esortavano l’infermo ad andare in cappella, riferirono che egli disse loro: «Non è che non voglio, non posso!». Solo una volta Gramsci cedette alle pressioni, e consentì che dei bambini entrassero nella sua stanza con la statuina del bambin Gesù. Ma era il Natale 1936, e l’ammalato si limitò in quel caso ad accontentare i bambini, con il bacio di rito all’effigie. Dunque è qui la radice della leggenda oggi riciclata, trent’anni dopo la sua prima diffusione. Laddove i fatti appurati parlano di tutt’altra situazione. Nella quale con fermezza e coraggio - e in quelle condizioni! - Antonio Gramsci respingeva ogni pressione del capellano e delle suore per convertirlo. Alternando, gentilezza, ironia, fermezza e argomenti razionali. Il tutto nella preoccupazione della cognata Tatiana, timorosa di strumentalizzazioni politiche. E alla quale non sfuggiva il tramestio attorno al letto del malato, per indurlo ad accettare i conforti religiosi. Come che sia il 25 aprile Gramsci entrò in coma, furono preparati il secchiello d’acqua santa e l’olivo e fu appoggiata sul letto la stola violacea, secondo il rito cattolico. Furrer narra di non ricordare di aver amministrato o meno l’assoluzione «sotto condizione». Fatto sta che Gramsci era ormai assente e immobile, e non rinvenne più, sino al decesso. Non solo. Secondo una testimonianza di Alfonso Leonetti (resagli proprio da Carlo Gramsci), Gramsci rivelò al fratello che un frate aveva cercato fino all’ultimo di indurlo «a compiere un atto di conversione». Tentativo fallito, perché il malato si voltò contro il muro, invitando il frate a lasciarlo in pace. E la testimonianza di Carlo è inoppugnabile, visto che assistette Antonio fino agli ultimi istanti. In conclusione, cercarono di convertire Gramsci, che tenne duro. Fino a prova contraria.

Repubblica 26.11.08
Senza uguaglianza la democrazia è un regime
di Gustavo Zagrebelsky


Regime o non-regime? Un confronto su questo dilemma, pur così tanto determinante rispetto al dovere morale che tutti riguarda, ora come sempre, qui come ovunque, di prendere posizione circa la conduzione politica del paese di cui si è cittadini, non è neppure incominciato. La ragione sta, probabilmente, in un´associazione di idee. Se il "regime", inevitabilmente, è quello del ventennio fascista, allora la domanda se in Italia c´è un regime significa se c´è "il" o "un" fascismo; oppure, più in generale, se c´è qualcosa che gli assomigli in autoritarismo, arbitrio, provincialismo, demagogia, manipolazione del consenso, intolleranza, violenza, ecc. Così, una questione seria, anzi cruciale, viene attratta sul terreno, che non si presta all´analisi, della demonizzazione politica, funzionale all´isteria e allo scontro.
Ma "regime" è un termine totalmente neutro, che significa semplicemente modo di reggere le società umane. Parliamo di "Ancien Régime", di regimi repubblicani e democratici, monarchici, parlamentari, presidenziali, liberali, totalitari e, tra gli altri, per l´appunto, di regime fascista. Senza qualificazione, regime non ci dice nulla su cui ci sia da prendere posizione, perché l´essenziale sta nell´aggettivo.
Così, assumendo la parola nel suo significato proprio, isolato dalle reminiscenze, la domanda iniziale cambia di senso: da "esiste attualmente un regime" in "il regime attuale è qualcosa di nuovo, rispetto al precedente"? Che l´Italia viva un´esperienza costituzionale, forse ancora in divenire e dall´esito non scontato, che mira a non lasciarsi confondere con quella che l´ha preceduta: almeno di questo non c´è da dubitare. Lo pensano, e talora lo dicono, tanto i favorevoli, quanto i contrari, cioè lo pensiamo e lo diciamo tutti, con definizioni ora passatiste ora futuriste.
Non lo si dice ufficialmente e a cifra tonda, perché il momento è, o sembra, ancora quello dell´incubazione. La covata è a mezzo. L´esito non è scritto. La Costituzione del ´48 non è abolita e, perciò, accredita l´impressione di una certa continuità. Ma è sottoposta a erosioni e svuotamenti di cui nessuno, per ora, può conoscere l´esito. Forze potenti sono all´opera per il suo superamento, ma altre forze possono mobilitarsi per la sua difesa. La Costituzione è in bilico.
Che cosa significa "costituzione in bilico"? Innanzitutto, che non si vive in una legittimità costituzionale generalmente accettata, cioè in una sola concezione della giusta costituzione, ma in (almeno) due che si confrontano. Ogni forma di reggimento politico si basa su un principio essenziale, una molla etica, il ressort di cui parla Montesquieu, trattando delle forme di governo nell´Esprit des lois. Quando questo principio essenziale è in consonanza con l´esprit général di un popolo, allora possiamo dire che la costituzione è legittima e, perciò, solida e accettata. Quando è dissonante, la costituzione è destinata crollare, a essere detronizzata. Se invece lo spirito pubblico è diviso, e dunque non esiste un esprit che possa dirsi général, questo è il momento dell´incertezza costituzionale, il momento della costituzione in bilico e della bilancia che prima o poi dovrà pendere da una parte. È il momento del conflitto latente, che non viene dichiarato perché i fautori della rottura costituzionale come quelli della continuità non si sentono abbastanza sicuri di sé e preferiscono allontanare il chiarimento. I primi aspettano il tempo più favorevole; i secondi attendono che passi sempre ancora un giorno di più, ingannando se stessi, non volendo vedere ciò che temono. Tutti attendono, ma i primi per prudenza, i secondi per ignavia.
Non voler vedere, significa scambiare per accidentali deviazioni quelli che sono segni di un mutamento di rotta; significa sbagliare, prendendo per lucciole, cioè per piccole alterazioni che saranno presto dimenticate come momentanee illegalità, quelle che sono invece lanterne, cioè segni premonitori e preparazioni di una diversa legittimità. Così, si resta inerti. L´accumulo progressivo di materiali di costruzione del nuovo regime procede senza ostacoli e, prima o poi, farà massa. Allora, non sarà più possibile non voler vedere, ma sarà troppo tardi.
* * *
Ciò che davvero qualifica e distingue i regimi politici nella loro natura più profonda e che segna il passaggio dall´uno all´altro, è l´atteggiamento di fronte all´uguaglianza, il valore politico, tra tutti, il più importante e, tra tutti però, oggi il più negletto, perfino talora deriso, a destra e a sinistra. Perché il più importante? Perché dall´uguaglianza dipendono tutti gli altri. Anzi, dipende il rovesciamento nel loro contrario. Senza uguaglianza, la libertà vale come garanzia di prepotenza dei forti, cioè come oppressione dei deboli. Senza uguaglianza, la società, dividendosi in strati, diventa gerarchia. Senza uguaglianza, i diritti cambiano natura: per coloro che stanno in alto, diventano privilegi e, per quelli che stanno in basso, concessioni o carità. Senza uguaglianza, ciò che è giustizia per i primi è ingiustizia per i secondi. Senza uguaglianza, la solidarietà si trasforma in invidia sociale. Senza uguaglianza, le istituzioni, da luoghi di protezione e integrazione, diventano strumenti di oppressione e divisione. Senza uguaglianza, il merito viene sostituito dal patronaggio; le capacità dal conformismo e dalla sottomissione; la dignità dalla prostituzione. Nell´essenziale: senza uguaglianza, la democrazia è oligarchia, un regime castale. Quando le oligarchie soppiantano la democrazia, le forme di quest´ultima (il voto, i partiti, l´informazione, la discussione, ecc.) possono anche non scomparire, ma si trasformano, anzi si rovesciano: i diritti di partecipazione politica diventano armi nelle mani di gruppi potere, per regolare conti della cui natura, da fuori, nemmeno si è consapevoli.
Questi rovesciamenti avvengono spesso sotto la copertura di parole invariate (libertà, società, diritti, ecc.). Possiamo constatare allora la verità di questa legge generale: nel mondo della politica, le parole sono esposte a rovesciamenti di significato a seconda che siano pronunciate da sopra o da sotto della scala sociale. Ciò vale a iniziare dalla parola "politica": forza sopraffattrice dal punto di vista dei forti, come nel binomio amico-nemico; oppure, dal punto di vista dei deboli, esperienza di convivenza, come suggerisce l´etimo di politéia. Un uso ambiguo, dunque, che giustifica la domanda a chi parla di politica: da che parte stai, degli inermi o dei potenti? La ricomposizione dei significati e quindi l´integrità della comunicazione politica sono possibili solo nella comune tensione all´uguaglianza.
* * *
Ritorniamo alla questione iniziale, se sia in corso, o se si sia già realizzato, un cambiamento di regime, dal punto di vista decisivo dell´uguaglianza.
In ogni organizzazione di grandi numeri si insinua un potere oligarchico, cioè il contrario dell´uguaglianza. Anzi, più i numeri sono grandi, più questa è una legge "ferrea". E´ la constatazione di un paradosso, o di una contraddizione della democrazia. Ma è molto diverso se l´uguaglianza è accantonata, tra i ferri vecchi della politica o le pie illusioni, oppure se è (ancora) valore dell´azione politica. La costituzione ? questa costituzione che assume l´uguaglianza come suo principio essenziale ? è in bilico proprio su questo punto.
Noi non possiamo non vedere che la società è ormai divisa in strati e che questi strati non sono comunicanti. Più in basso di tutti stanno gli invisibili, i senza diritti che noi, con la nostra legge, definiamo "clandestini", quelli per i quali, obbligati a tutto subire, non c´è legge; al vertice, i privilegiati, uniti in famiglie di sangue e d´interesse, per i quali, anche, non c´è legge, ma nel senso opposto, perché è tutto permesso e, se la legge è d´ostacolo, la si cambia, la si piega o non la si applica affatto. In mezzo, una società stratificata e sclerotizzata, tipo Ancien Régime, dove la mobilità è sempre più scarsa e la condizione sociale di nascita sempre più determina il destino. Se si accetta tutto ciò, il resto viene per conseguenza. Viene per conseguenza che la coercizione dello Stato sia inegualmente distribuita: maggiore quanto più si scende nella scala sociale, minore quanto più si sale; che il diritto penale, di fatto, sia un diritto classista e che, per i potenti, il processo penale non esista più; che nel campo dei diritti sociali la garanzia pubblica sia progressivamente sostituita dall´intervento privato, dove chi più ha, più può. Né sorprende che quello che la costituzione considera il primo diritto di cittadinanza, il lavoro, si riduca a una merce di cui fare mercato.
Analogamente, anche l´organizzazione del potere si sposta e si chiude in alto. L´oligarchia partitica non è che un riflesso della struttura sociale. La vigente legge elettorale, che attribuisce interamente ai loro organi dirigenti la scelta dei rappresentanti, escluso il voto di preferenza, non è che una conseguenza. Così come è una conseguenza l´allergia nei confronti dei pesi e contrappesi costituzionali e della separazione dei poteri, e nei confronti della complessità e della lunghezza delle procedure democratiche, parlamentari. Decidere bisogna, e dall´alto; il consenso, semmai, salirà poi dal basso.
E´ una conseguenza, infine, non la causa, la concentrazione di potere non solo politico ma anche economico-finanziario e cultural-mediatico. L´indipendenza relativa delle cosiddette tre funzioni sociali, da millenni considerata garanzia di equilibrio, buon governo delle società, è minacciata. Ma il tema delle incompatibilità, cioè del conflitto di interessi, a destra come a sinistra, è stato accantonato.
La causa è sempre e solo una: l´appannamento, per non dire di più, dell´uguaglianza e la rete di gerarchie che ne deriva. Qui si gioca la partita decisiva del "regime". Tutto il resto è conseguenza e pensare di rimettere le cose a posto, nelle tante ingiustizie e nelle tante forzature istituzionali senza affrontare la causa, significa girare a vuoto, anzi farsene complici.
Nessun regime politico si riduce a un uomo solo, nemmeno i "dispotismi asiatici", dove tutto sembrava dipendere dall´arbitrio di uno solo, kahn, califfo, satrapo, sultano, o imperatore cinese. Sempre si tratta di potere organizzato in sistemi di relazioni. Alessandro Magno, il più "orientale" dei signori dell´Occidente, perse il suo impero perché (dice Plutarco), mentre trattava i Greci come un capo, cioè come fossero parenti e amici, «si comportava con i barbari come con animali o piante», cioè meri oggetti di dominio, «così riempiendo il suo regno di esìli, destinati a produrre guerre e sedizioni». Sarà pur vero che comportamenti di quest´ultimo genere non mancano, ma non vedere il sistema su cui si innestano e li producono significa trascurarne le cause per restare alla superficie, spesso solo al folklore.

Repubblica 26.11.08
Dalle fabbriche a Luxuria
di Gad Lerner


Reduce da una catastrofica sconfitta politica, il comunismo riciclato con sapienza da Bertinotti come linguaggio televisivo si prende la rivincita espugnando con Vladimir Luxuria il reality show.
Pure l´auditel viene surriscaldato dall´evento, nel mentre il gelo della recessione penetra le ossa di un mondo del lavoro sempre più lacerato e afono perché costretto a fare i conti con una raffica di fallimenti personali.
Troppo facile, moralistico, giocare su tale contrasto fra una vittoria all´"Isola dei famosi" e tante sconfitte nella penisola dei cassintegrati o "senza rete"? Al contrario, dobbiamo riflettere su questo segno dei tempi se non vogliamo perdere del tutto i contatti con la realtà. Com´è successo a certi compagni di Luxuria che esaltano un improbabile significato liberatorio del suo successo.
Pur con tutta la simpatia che può ispirare l´ex parlamentare di Rifondazione incoronata dai telespettatori in un impeto d´innocua trasgressione, lo sapevamo già che la grande crisi 2008-9 non sarà una faccenda da comunisti virtuali. Ci mancherebbe che su tante persone improvvisamente costrette a misurarsi con il baratro della povertà, gravasse anche il peso di un´ideologia antagonista in format tv. Il distacco fra la sinistra virtuale e la sua comunità d´origine è ormai da tempo compiuto. Ma in questi giorni perfino lo specchio deformato dell´audience televisiva dovrebbe aiutarci a misurare in quale vuoto di comunicazione, in quale solitudine, si stanno consumando tanti passaggi esistenziali.
Nei distretti industriali che fino a ieri simboleggiavano l´eccellenza e il benessere dei cicli espansivi, dove il passato e il futuro coincidevano da generazioni nell´evoluzione del medesimo prodotto, capita ora d´incontrare padri, figli, mogli, nuore finiti tutti insieme nella cassa integrazione. Il benessere è già un ricordo nella Val Seriana colpita dalla crisi del tessile, così come nel feudo marchigiano degli elettrodomestici dove rischia di chiudere la Antonio Merloni. Scricchiola a Sassuolo la roccaforte della ceramica e anche il Nord-Est patisce il taglio brutale degli ordinativi. Ma siccome ormai è la stessa mamma Fiat a disdettare centinaia, se non migliaia di contratti a termine, ricorrendo massicciamente alla cassa integrazione per i suoi addetti a tempo indeterminato, ecco che ci tocca fare i conti con la vera novità di questa crisi.
Il mondo del lavoro non è mai stato così diviso al suo interno. I tardivi richiami sindacali alla solidarietà e la richiesta di una riforma universalistica degli ammortizzatori sociali, vi appaiono dunque poco credibili. Proprio come gli appelli di Berlusconi a consumare di più.
E´ imbarazzante fare la conoscenza dei 360 ingegneri torinesi mandati a spasso improvvisamente dalla Motorola, senza cassa integrazione. Ma ancor più imbarazzante è riscontrare la cattiva sorte toccata a migliaia di assistenti di volo e lavoratori di terra Alitalia: a loro è toccato rinnovare più volte negli anni un contratto provvisorio e quindi ora non godranno del sussidio garantito invece fino al 2014 ai loro colleghi in esubero ma meno sfortunati, che pure svolgevano le stesse identiche mansioni.
Il panorama è completato dai giovani apprendisti rispediti prematuramente a casa; dagli operatori di call center così flessibili da non meritare preavviso di licenziamento; dagli agenti immobiliari cui si chiede di mettersi in proprio, se vogliono continuare a lavorare; e dalla massa imponente degli immigrati che senza lavoro vedono rimesso in discussione il permesso di soggiorno. Senza contare i famigerati precari del pubblico impiego.
La nostra società, assuefatta alla crescita esponenziale delle disuguaglianze di reddito, già da tempo ha archiviato come retrograda la nozione di giustizia sociale. La predicazione del rischio come virtù ha mirato a realizzare il mito dell´uomo flessibile, senza indugiare sui fallimenti che ne avrebbero costellato il cammino. Abbiamo tollerato come passaggio doloroso ma necessario l´apartheid che separa i lavori protetti da quelli che non lo sono.
Ora che la crisi morde là dove non pensavamo sarebbe mai giunta tutto ciò desta scandalo, ma si tratta di uno scandalo difficile da condividere nella dimensione superata della comunità sociale.
I lavoratori in cassa integrazione non vi rinuncerebbero in favore di un sussidio unico di disoccupazione che tuteli anche i "senza rete". I dipendenti stabili guardano con disagio i colleghi "a termine" allontanati, ma che ci possono fare? Gli anziani sono ostili all´idea di ridimensionare il loro trattamento previdenziale per sostenere i giovani. Gli italiani avvertirebbero dannosa un´estensione di tutele ai colleghi stranieri.
E´ difficile, in questa situazione frantumata, che il mondo del lavoro parli con una voce sola. Ci sono quelli che vanno in corteo sotto la sede della banca per invocare una proroga dal rientro del debito aziendale, come gli operai della Pininfarina. Altri confidano negli enti locali per ottenere un anticipo del sussidio, oppure confidano nella sensibilità degli imprenditori per soccorrere le urgenze. Tutti aspirano a un sostegno pubblico governativo che sarà comunque insufficiente, né fornisce risposte sull´impiego futuro.
La recessione ormai prolungata, e destinata ad aggravarsi nel 2009, ha modificato così la condizione esistenziale dei lavoratori. Nel contrasto vissuto tra realtà e virtualità, la televisione diviene una scatola magica in cui si rappresenta un mondo distante. Dove il presidente del Consiglio raccomanda a tutti di spendere per sostenere l´economia, e la drag queen comunista traslocata dai salotti politici a una spiaggia in Honduras ne rappresenta il degno contraltare.

Repubblica 26.11.08
Entusiasta la moglie dell´ex leader di Rifondazione. "E´ stata perfetta, l´ammiro"
Lella Bertinotti: l´ho detto a Fausto e ci siamo commossi insieme
di Alessandra Longo


ROMA - «Fausto, sai chi ha vinto "L´Isola dei famosi"? Luxuria». Lella Bertinotti racconta di aver informato il marito della vittoria del «compagno» Vladimir, già parlamentare di Rifondazione, l´altra notte, poco dopo l´annuncio televisivo: «Mi sono guardata tutta la trasmissione. Devo dire che quando ho capito che Luxuria ce l´aveva fatta, mi sono commossa. È stata brava, intelligente, ironica. Se l´è meritata un´affermazione così. E anche Fausto era contento. A suo tempo ci fu chi, dentro il partito, criticò la sua scelta di volerla in Parlamento. Una scelta che invece si è rivelata felice per lo spessore, le qualità umane, intellettuali, che Luxuria ha sempre dimostrato sia nei dibattiti politici che in un reality nazional-popolare come "L´Isola"».
Lella Bertinotti ne parla come di «una donna che si è messa ancora una volta alla prova e ha vinto la sfida». Poteva essere ingoiata dal meccanismo banalizzante dello spettacolo, finire in pasto, con la sua storia, a un pubblico ben lontano dalla platea complice dei militanti del suo partito e, invece, dice la moglie dell´ex presidente della Camera, «alla fine, è avvenuto il contrario: è stata Luxuria a mangiarsi il reality, a regalare a milioni di persone, la possibilità di riflettere su temi cosiddetti sensibili». Una partita, la sua, giocata «con dignità» e «con una calma che io le invidio». Mai una risposta alle provocazioni e alle ironie, piuttosto l´«uso» dello strumento televisivo per spiegare, come ha fatto, quanto poco politically correct sia «dare a uno del frocio». Luxuria ha centrato l´obiettivo e, forse, a modo suo, ha fatto politica, anche se non vede nel suo futuro immediato il Parlamento europeo. «Se non sbaglio, ha dichiarato che vuol fermarsi un attimo». Fermarsi e godersi «la tempesta ormonale di felicità» che, come dice lei, l´ha travolta. «Quando ho visto questa Belen - racconta Lella Bertinotti - ho pensato che era bella, molto bella, accidenti. Ma Luxuria è stata brava, non ha perso una battuta, non ha sbagliato una risposta. Ha ragione Liberazione quando scrive che anche se la vittoria fosse andata a Belen, lei ne sarebbe uscita benissimo lo stesso. Ha accettato di mettersi in gioco, è una vita che rilancia. Viene da una storia difficile, penso a cosa devono essere stati gli anni da ragazzo a Foggia e anche la difficoltà per i suoi genitori. Eppure ce l´ha fatta. L´ammiro moltissimo e voglio che sappia che mi sono commossa».

Corriere della Sera 26.11.08
Prc, Luxuria diventa un caso «È il nostro Obama, si candidi»
Offerta di Ferrero alla vincitrice dell'«Isola». Casini: la sinistra è morta
Monaco: farà audience ma nuoce. Vladimir: ringrazio per la proposta però Strasburgo non è nel mio immediato futuro
di Paolo Foschi


ROMA — Da reality show a caso politico. La vittoria di Vladimir Luxuria all'Isola dei famosi è stata festeggiata dal quotidiano comunista Liberazione con un articolo in prima pagina. Il segretario del Prc, Paolo Ferrero, ha offerto all'ex parlamentare transgender la candidatura per le europee: «Spetta a lei decidere». Invito subito declinato: «Grazie a Ferrero, ma lo avevo già detto dopo la sconfitta elettorale, il parlamento europeo non è nei miei programmi per l'immediato futuro », ha detto Vladimiro Guadagno, in arte Luxuria, che annunciato di voler devolvere parte del premio tv all'Unicef. E intanto «scriverò da maggio un libro di favole transgender per bambini e mi dedicherò al teatro».
Commenti positivi per il successo sono arrivati da sinistra, mentre il centrodestra e l'Udc hanno accolto con freddezza il risultato, anche se Alessandra Mussolini si è dissociata dalle critiche: «Sono contenta per la vittoria di Vladimir». Nel Pd si è sentita invece la voce polemica del prodiano Franco Monaco: «Luxuria fa audience ma nuoce alla sinistra. Non sempre il buon senso e persino un certo sano moralismo sono sinonimo di arretratezza e pregiudizio. Talvolta riflettono un sentire popolare che non apprezza le derive snobistiche di certa sinistra. Poi ci si sorprende se elettori di sinistra migrano verso destra».
Il dibattito è stato aperto da Liberazione:
«Vladimir come Obama?
È un po' esagerato e fatecelo dire. Con il primo presidente afroamericano si rompe il pregiudizio che per più di un secolo ha tenuto un popolo lontano dalla più importante istituzione americana. Con Vladimir all'Isola si rompe il tabù dell'eterosessualità a tutti i costi». E Luxuria stessa ha affrontato il tema delle discriminazioni. «Gli italiani, votandomi, hanno dimostrato di essere più avanti dei politici. A Roma purtroppo in parte della popolazione c'è un'intolleranza spesso alimentata da quei che pensano che due gay che si vogliono bene non possono essere considerati una coppia normale riconosciuta dallo Stato. Il ministro Carfagna? Non penso che abbia fra le sue priorità il rispetto della dignità di omosessuali e transessuali».
«L'autenticità e lo straordinario animo di Luxuria hanno battuto stereotipi e pregiudizi», ha commentato Paola Concia, del Pd, mentre secondo Fabio Evangelisti, Italia dei valori, «se in parlamento c'è ancora chi si scandalizza perché una transgender diventa eroina per un giorno, vuol dire davvero che gli italiani sono più avanti della politica ». Secondo l'Arcigay, «è stata una svolta storica», anche se Franco Grillini, presidente dell'associazione Gaynet, «per una trans che vince migliaia ancora soffrono».
«Complimenti a Vladimir, è stata veramente simpatica — ha detto Pier Ferdinando Casini, leader dell'Udc — ma la sua vittoria certifica la morte della sinistra comunista ». Molto più duro Maurizio Ronconi, sempre Udc: «Che la tv pubblica erga ad eroina un trans è scandaloso. Più che Isola dei famosi, l'Isola della vergogna ». Per Elisabetta Gardini, ex show girl e europarlamentare di Forza Italia che alla Camera ingaggiò una battaglia contro l'uso dei bagni delle donne da parte di Luxuria, «ben venga la vittoria che dimostra come da parte degli italiani non ci sia nessuna discriminazione come non c'è mai stata da parte mia. Ma mi preoccupa che un programma così sia diventato lo show di punta della tv pubblica».

il Riformista 26.11.08
Bandiera rossa sventola a Cayo Paloma
UN'ALTRA ISOLA È POSSIBILE. Ogni Paese ha le rivoluzioni che si merita. In America un nero è stato eletto alla Casa Bianca. Da noi un trans ha vinto un reality col televoto. La battuta più bella di Luxuria: «Adoro il porno, ha sempre il lieto fine».
Vladimir una e bina
di Fabrizio d'Esposito


Dal pennone del Cremlino, la bandiera rossa venne ammainata meno di vent'anni di fa. Da ieri sventola sulla palma più alta di Cayo Paloma, atollo honduregno. Ogni Paese ha le rivoluzioni che si merita. In America un nero è stato eletto alla Casa Bianca. Da noi un trans ha vinto col televoto all'Isola dei famosi. Il paragone Obama-Luxuria piace tanto ai comunisti di Liberazione che in un amen sono passati dal requiem per il compagno Curzi all'allelluia per l'ex deputato registrato all'anagrafe come Guadagno: «Forza Vladimir, hai vinto tu». Un'altra isola è possibile. Ma l'Italia è una penisola e il capogruppo del Pdl al Senato, Maurizio Gasparri, che in passato ha riconosciuto a Luxuria di «non essere uno sciocco», oggi dice: «Io non vedo l'Isola dei famosi, apprendo ora da lei che ha vinto Luxuria. Credo sia stato giusto restituire questo personaggio allo spettacolo. Del resto è stata furba: ha approfittato del passaggio in politica per farsi una fama e sfruttarla, 'sto Parlamento tutti lo schifano ma poi serve. Luxuria ha raggiunto il suo obiettivo, altrimenti io e lei adesso non parleremo della vittoria all'Isola. Questa è la dimostrazione che la politica è debole: arrivano calciatori, veline, trans e zoccole come Cicciolina e poi se ne vanno senza lasciare traccia».
La politica è debole. E non solo lei. Sull'Isola, quando alla vigilia della finale la contessa Patrizia De Blanck si è ripresa la sua felpa lasciando nudo il biondo bidello Carlo sotto il diluvio, Luxuria ha aiutato il debole, denudandosi a sua volta, e ha proclamato: «Io mi sono ribellata ai poteri forti nella vita. A me Patrizia De Blanck mi fa la ceretta. Quando vedo una persona che ha che toglie a una che non ha è guerra». Lotta di classe esotica, ma sempre lotta di classe. Senza contare che la stessa Luxuria aveva tentato di favorire un idillio tra il bidello e la contessa proprio per azzerare il conflitto di classe medesimo. Insomma, comunismo vero. Come la delazione anticapitalista e bacchettona contro il marito di Ivana Trump e la modella argentina Belen Rodriguez, fidanzata col rossonero Marco Borriello: «I due si sono baciati, lo devono sapere tutti». Pettegolezzo o depistaggio in vero stile Kgb.
Torniamo alla problematica della ceretta. Per togliersi i peli dalle gambe, Luxuria aveva inserito una pinzetta fra i tre oggetti da portare con sé in Honduras. Gli altri due sono stati un libro di preghiere buddhiste e una maschera subacquea per pescare. Non a caso il primo pesce isolano, il 17 settembre scorso, l'ha beccato lei: «Sono contenta perché sono stata la prima a pescare. Una cosa è avere di fronte un pesce cucinato al ristorante, un'altra è vederlo boccheggiare tra le tue mani». Per la gioia di Simona Ventura, Luxuria ci è andata a nozze coi doppi sensi sull'Isola. Quando fu candidata alla Camera da Rifondazione comunista, due anni fa, in campagna elettorale fu vittima di un'aggressione di destra a Guidonia, in provincia di Roma: «Tiravano i finocchi come i sassi. La polizia non arrivava, lo Stato non c'è». A Cayo Paloma ha trovato invece funghi, serpenti e iguane. Quest'ultima voleva farsela arrosto per la fame. Poi, durante un'escursione: «Guarda che fungone». Infine, il pitone incontrato insieme con Ela Weber. Ela: «Rimani calma, il pitone non è velenoso, stritola». Vladimir: «Un uomo mi deve stritolare, non un pitone».
Sull'Isola, Luxuria ha sperimentato un marxismo esistenziale. Orazioni orientali e meditazioni, le sono servite per la lunga marcia verso il sol di Cayo Paloma. È stato in questi frangenti di solitudine che ha afferrato il senso profondo della vita. Condannata per una settimana ai lavori forzati, doveva trovare delle matasse di filo nascoste nella sabbia per edificare una capanna socialista: «La prova è basata molto sulla resistenza e sulla forza di braccia e mani, ma anche sulla fortuna, la fortuna di trovare il buco giusto. Forse la vita è questo: trovare il buco giusto».
Vladimir Luxuria ha faticato molto per trovare il buco giusto nella sua vita. Il suo è stato un percorso durissimo. Glielo si leggeva in faccia, una faccia con gli zigomi sporgenti per la fame, quando la Ventura le ha alzato il braccio sinistro per dichiararla vincitrice della sesta edizione dell'Isola. Luxuria ha pianto. Forse la stessa commozione che provò quando entrò a Montecitorio per la prima volta nell'aprile del 2006. Mastella la derubricò a «Cicciolina dell'Unione», ma il leghista Roberto Castelli prese le sue difese: «Luxuria è una persona intelligente, corretta e che si esprime molto bene. Per nulla volgare». Alla Camera si fece notare da subito con la denuncia dell'«apartheid della segregazione urinaria». Cioè: «Una toilette tutta per me è un privilegio che non penso di meritare. Penso che invece alcuni servizi per le donne debbano essere rivolti anche alle trans. E a chi si imbarazza per la mia presenza, ricordo che quando si va in bagno si chiude la porta».
Transgender del sud, la quarantenne Luxuria ha venduto il suo corpo, fatto l'attrice, scritto articoli e libri. Ieri ha respinto l'offerta di una candidatura alle europee subito avanzata da Rifondazione, partito boccheggiante come il primo pesce preso sull'isola. Per il futuro vuole vergare un volume di favole. Ma non ha tralasciato un attacco al ministro Carfagna sul rispetto dei gay. La sua vittoria in un reality può diventare una cosa seria se come ha scritto Aldo Grasso «l'Isola è lo specchio del nostro paese». Lei stessa ha detto: «Gli italiani sono più avanti della politica». In ogni caso, una storia di sinistra a lieto fine. Giusto per fare il verso alla più bella battuta di Luxuria, pronunciata qualche anno fa: «Adoro il porno, c'è sempre il lieto fine».

Corriere della sera 26.11.08
Kentucky, è il primo caso
Pedofilia, via libera a un processo contro il Vaticano


NEW YORK — Per la prima volta una corte di appello federale degli Stati Uniti ha dato il via libera ad un processo contro il Vaticano per presunti casi di abusi sessuali. La corte di appello di Cincinnati ha dichiarato legittima la richiesta a procedere contro la Santa Sede in un caso di abusi sessuali commessi da religiosi della diocesi di Louisville in Kentucky, ipotizzando che il Vaticano potrebbe essere ritenuto corresponsabile della condotta dei suoi membri. È la prima volta che allo stato Vaticano non viene garantita dagli Usa l'immunità sovrana sancita dal Foreign Sovereign Immunities del 1976. «Se qualcuno può rompere questa barriera viene aperta la strada ad altri processi contro la Chiesa Cattolica», ha dichiarato Jonathan Levy, avvocato di Washington che rappresenta un folto gruppo di sopravvissuti dei campi di concentramento in una azione legale rivolta contro varie parti incluso il Vaticano. Dall'altra parte, Jeffrey Lena, avvocato della Santa Sede, pur dicendosi «attualmente non intenzionato» a chiedere ai giudici di rivedere la decisione, ha precisato che «la sentenza è ancora molto lontana dal dimostrare la responsabilità diretta del Vaticano» per la condotta dei suoi membri.

il Riformista 26.11.08
Vista da Fausto Bertinotti
di Alessandro De Angelis


«Una volta si sarebbe detto che la vittoria di Luxuria all'Isola è la spia di un qualcosa di più generale». Fausto Bertinotti lo spiega in un'intervista al Riformista.
Di cosa è la spia?
Di una politicizzazione naturaliter di sinistra che, non essendoci la sinistra, non può essere politicizzata classicamente e cade nel vuoto. Per decifrare l'elemento servirebbe il contatto fisico, cioè i partiti, ma c'è il vuoto.
Si spieghi?
Ha vinto Vladimir perché è quella persona lì e non perché transgender e comunista. Nel vuoto della sinistra emerge una persona, nella sua unicità di bella persona: Vladimir.
E l'ideologia?
Non c'entra. Chi osserva è spoliticizzato. E dice, semplicemente: questa è brava. E non ha il pregiudizio che c'è in una parte del Parlamento che rideva quando le davo la parola al femminile.
Liberazione ne ha fatto un'icona.
E ha fatto bene. L'ha difesa contro il pregiudizio di chi criticava che lei andava all'Isola in nome di una cultura alta in contrapposizione a quella bassa. Ma la vittoria è interessante per un altro aspetto.
Quale?
Lei ha vinto contro il mezzo, che ha un linguaggio teso alla ricerca del successo. In questo Vladimir, che non ha quel linguaggio, vince "contro". E vince una battaglia culturale nella sfera dei comportamenti. Lei, che non è lì per apparire, vince proprio perché appare.
Niente politica, dunque?
Non è una vittoria di partito o della sinistra, ma solo sua. Mi piacerebbe dire che ha vinto una bandiera ma non è così. Aggiungo: lei fa accettare da chi la guarda ciò che astrattamente non accetterebbe. Se uno chiede al telespettatore: a te piacciono i transgender, magari dice no. Ma la sua naturalità la premia come persona.
Nello stesso giorno la folla ai funerali di Curzi. C'è un nesso?
Sandro era Sandro. Come Vladimir è Vladimir. C'è una irriducibilità della persona che propone alla sinistra una correzione: l'idea della diversità contro l'anonimato. In una sinistra in crisi le persone sono più forti della crisi. La commozione per Sandro, la vittoria di Vladimir: sono una supplenza nei confronti della sinistra. Ma non è grazie a loro che la sinistra rinasce. Il problema resta il passaggio dai "mondi" al "mondo". E se ci sono i plurali è il singolare quello che manca.