sabato 29 novembre 2008

Repubblica 29.11.08
Se vince Luxuria perde la Sinistra
di Giovanni Valentini

La vittoria di Vladimir Luxuria all´Isola dei famosi non è la rivincita del comunismo riciclato in salsa televisiva, bensì il trionfo della videocrazia, del potere che si fa televisione o viceversa. Ed è anche la sconfitta di una sinistra alternativa che, incapace ormai di coltivare la propria diversità sul terreno delle idee e dei valori, non trova di meglio che declinarla sul piano della sessualità.
Anche a rischio di essere scambiati per retrogradi o bigotti, si deve dire che quella di Luxuria (e di ciò che la sua figura rappresenta) è una resa alla mercificazione del reality; la sottomissione mediatica alla logica dello show; la subordinazione della politica allo spettacolo e all´esibizione di sé. Tutto ciò non giova certamente alla credibilità dei partiti, del Parlamento o delle istituzioni. Né tantomeno alla "questione omosessuale" che merita senz´altro maggiore rispetto e migliore considerazione, a cominciare proprio dal personaggio in questione.
Definita da Simona Ventura con un´enfasi da premio Oscar "una lama nel burro dei pregiudizi italiani", Luxuria non aveva bisogno di naufragare su un set artificiale per testimoniare la propria condizione, il proprio impegno civile e la propria sofferenza umana. Con l´ingresso in Parlamento, aveva scelto coraggiosamente di proiettare la sua storia personale sullo schermo della politica, richiamando l´opinione pubblica di destra e di sinistra a riflettere seriamente sul tema dell´omosessualità. E invece, con lo sbarco sull´isola, ne ha interpretato una versione ridotta e caricaturale, una parodia per il piccolo schermo della tv.
Avevamo già assistito in passato alle più svariate performances di deputati o senatori davanti alle telecamere e perfino alla metamorfosi di un ex presidente della Camera, come Irene Pivetti, prima in conduttrice televisiva, poi in show-girl e infine in ballerina. Ma la prestazione di Luxuria sull´isola dei finti naufraghi, premiata prima dal boom degli ascolti e quindi dal voto dei telespettatori, è destinata a rimanere negli annali come l´apice di una degenerazione della vita pubblica attraverso il video, con l´aggravante che in questo caso si tratta per di più della tv di Stato. L´ex parlamentare di Rifondazione comunista s´è incaricata di rappresentare così non tanto la fine di un´ideologia, quanto l´estinzione genetica di una specie culturale e politica i cui connotati principali d´identità erano il rigore, la riservatezza, la sobrietà: quella "virtù civile", insomma, di cui parla Viroli nel saggio che citiamo di nuovo all´inizio.
Sembra francamente improbabile che una tale vittoria mediatica possa produrre qualche effetto positivo, sul piano dell´immagine o su quello elettorale, a favore della sinistra cosiddetta antagonista. Ma purtroppo, al giorno d´oggi, non si può escludere neppure questo. E sarebbe, appunto, la sconfitta più mortificante.
Come meravigliarsi allora che in un Paese come il nostro, dove l´onorevole Luxuria vince all´Isola dei famosi, l´esimio senatore Villari resti abbarbicato alla poltrona di presidente della Commissione parlamentare di Vigilanza, nonostante il coro pressoché unanime che adesso l´invita a dimettersi? Non è forse, proprio lui, il più degno custode di una televisione pubblica che manda in onda tali distorsioni catodiche? A questo punto, Riccardo Villari rischia ormai di diventare un eroe nazionale, il leader riconosciuto dei voltagabbana, il campione assoluto dei combattenti e reduci. Chissà, anzi, che non si debba assistere prima o poi alla sua riabilitazione, beatificazione e santificazione.
Con questa epica resistenza, il presidente eletto e dimissionato della Vigilanza può aprire ora la strada alla più spettacolare normalizzazione della Rai, consentendo al centrodestra di impossessarsi definitivamente di viale Mazzini senza colpo ferire. Magari per confermare gli stessi consiglieri di amministrazione nominati in precedenza dal centrosinistra e addirittura lo stesso "presidente di garanzia", in carico all´attuale opposizione. O comunque, nuovi consiglieri di minoranza scelti però dalla maggioranza. E naturalmente, per insediare i fedelissimi di quest´ultima alla direzione generale, alla direzione delle reti e a quella dei telegiornali. Un intrigo di trasformismo e opportunismo che meriterebbe senza dubbio un serial televisivo.
Agli strateghi della nostra sinistra, riformista e massimalista, si può solo raccomandare di leggere un paragrafo di due paginette contenuto nel libro del collega Salvatore Giannella, intitolato Voglia di cambiare e pubblicato da Chiarelettere. Si racconta come ha fatto Zapatero in Spagna a sottrarre la tv pubblica al potere dei partiti.
La prima mossa è stata la riduzione dei costi: 4.150 dipendenti, su novemila, mandati a casa con prepensionamenti e indennizzi nel giro di due anni. Debito di 7.551 milioni di euro trasferito allo Stato. E infine, trasformazione dell´ente pubblico in una società anonima pubblica, con capitale statale e autonomia di gestione, sottoposta al controllo del Parlamento.
"Il nuovo modello ? si legge ancora nel libro di Giannella ? prevede la creazione di un consiglio d´amministrazione indipendente con maggiori funzioni e con più responsabilità rispetto al passato. Il consiglio è formato da dodici membri eletti con la maggioranza dei due terzi (quattro dal Senato e otto dalla Camera) e ha un mandato di sei anni in modo da non coincidere con la durata della legislatura. Anche il presidente viene nominato dal Parlamento (in precedenza lo nominava il governo)".
Non è, come si vede, la rivoluzione. Ma soltanto una ragionevole riforma, forse fin troppo graduale e prudente. Nell´Italia di Berlusconi, di Luxuria e di Villari, invece, la Rai è e resta ? per ora ? quella imposta dalla legge Gasparri. Una tv di Stato assoggettata alla partitocrazia, controllata dal governo con la complicità dell´opposizione e la partecipazione straordinaria della sinistra trasgressiva.

Corriere della Sera 29.11.08
Nuove alleanze Da Colombo a Lerner: più fiducia in Washington
Obama e la lotta al terrore La sinistra ora è americana
Il ruolo Usa e la risposta globale al fanatismo
di Maria Luisa Agnese

Siamo di nuovo tutti americani? E non solo perché con l'avvento dell'era Obama è più facile entusiasmarsi per il cambiamento globale. Ma perché i venti che spirano dal continente indiano non rassicurano sugli scenari futuri: suonano come un tentativo di condizionare da subito la nuova amministrazione americana — come lo fu nel 2001 con Bush e nel 1993 con Clinton — e spingono anche la sinistra a stringersi con più convinzione all'America. «Certo siamo tutti americani, anche se io non ho mai smesso di esserlo. E come potrei? La vita di metà della mia famiglia, mia figlia, i miei nipoti, coincide con la sicurezza americana; sono addolorato per quel che avviene anche se ora ho una speranza in più perché se prima era doveroso per me stare con l'America, ora è anche un gesto volontario perché so che quello che farà mi rappresenterà».
Furio Colombo scrittore e politico, ex direttore dell'Unità, tira un sospiro di sollievo dopo Bush e confessa di dormire più tranquillo da quando Obama è il futuro presidente, (parafrasando Jack Valenti che coniò la frase a favore del presidente Lyndon B. Johnson) perché sa che il traguardo si chiama «pace» e non «vittoria», dove pace non vuol dire «resa ma politica politica politica».
Più composti entusiasmi esterna fra gli intellettuali di area Ritanna Armeni, giornalista di carta e di etere, editorialista di Liberazione. «Dire che siamo tutti più americani mi sembra molto tagliato con l'accetta» commenta, anche se poi aggiunge di non essere mai stata anti-americana, «semmai anti- Bush; ma Bush non è l'America. Adesso non so quello che farà Obama, forse ancora non lo immagina neppure lui, è prudente perché sa che l'eredità è pesantissima e quello che è avvenuto in India dimostra che quell'area è ancora una polveriera».
Ma non è un po' troppo spiccio dire con Bush no, con Obama sì? Risponde Umberto Ranieri giornalista e politico (pd tendenza Letta Enrico). «Certo, e infatti penso che più che cittadini americani ci dobbiamo dichiarare cittadini del mondo globale: tutto il mondo è a rischio e deve scovare una strategia più sofisticata di quella guerra-contro- guerra che non è stata risolutiva». Ma se questa strategia oculata e composita dovesse prima o poi contemplare anche uno sforzo militare la comunità internazionale sarebbe pronta a sentirsi di nuovo arruolata «nella difesa attiva di pace e civiltà» come si è chiesto ieri in prima pagina il quotidiano margheritino Europa? Ranieri non lo esclude, ovviamente come ultima ratio, anche se avverte che è proprio scopo di questo terrorismo spietato quello di spingere Obama sul terreno che era di Bush: «Il loro calcolo è quello di mettere in crisi la risposta razionale ». Anche Gad Lerner sostiene che un presidente americano più aperto al mondo, che rinnega l'unilateralismo, potrebbe avanzare richieste precise: «Lo sapevamo in anticipo, non lo scopriamo oggi. Ma proprio perché Obama sa che si troverà a gestire il ridimensionamento del peso americano nel mondo, il declino dell' impero, lui agisce con prudenza, e l'intervento militare non sarà la sua prima opzione. Lo escludo».
Fatta questa premessa, Lerner rigetta la provocazione simil 11 settembre del «Siamo tutti di nuovo americani» come una semplificazione provinciale, e la ripropone con uno slogan di nuovo conio, che considera più appropriato al clima post 26 novembre: «Siamo tutti indiani, questi attentati mettono in discussione un esperimento molto ambizioso che mescolava Oriente e Occidente per far convivere democrazia e business in area asiatica, una vera alternativa alla Cina». Partito a cui si iscrive subito anche Furio Colombo («Mumbai è città allegra, in questi alberghi sarò stato almeno venti volte, i miei viaggi iniziavano o finivano là»). Ora non solo la sorte di quella democrazia è in bilico e tutti, americani, indiani, cittadini del mondo globale, siamo nella stessa barca a pensare a una reazione più furba dell'«occhio per occhio ».

Corriere della Sera 29.11.08
Scienza Spesso gli studiosi somigliano a Cristoforo Colombo: partono con un programma di ricerca e arrivano dove non si aspettavano
La matematica inafferrabile
Sfugge alle categorie dei filosofi e si spinge su territori inesplorati
di Giulio Giorello

«La biologia studia gli organismi viventi; l'astronomia i corpi celesti; la chimica la varietà della materia e i modi delle sue trasformazioni… ma che cosa studia la matematica?», chiede il grande matematico russo Yuri Manin, ora alla Northwestern University a Evanston nell'Illinois. La domanda sembra assillare non pochi studenti ai quali, forse, manca il coraggio di rivolgerla al loro insegnante. La differenza importante, però, è che Manin ha tentato una risposta: «La matematica ha a che fare con concetti che si possono trattare come se fossero oggetti reali».
Concetti che devono essere sufficientemente chiari da essere riconoscibili in ogni contesto in cui possano venire utilizzati, ma anche dotati di «forti potenzialità di connessione con altri concetti dello stesso tipo». Tali connessioni possono a loro volta assurgere a oggetti, iniziando «una gerarchia di astrazioni» che in linea teorica non ha fine: così, per esempio, l'algebra ha fatto diventare le operazioni aritmetiche i suoi nuovi oggetti, ecc. Salendo in questa gerarchia, comunque, non si perde il contatto con la realtà: decollando dal loro terreno di origine le nozioni matematiche si rivelano capaci di applicazioni insospettate, sia nella spiegazione dei fenomeni naturali sia nell'intervento tecnologico. Pensiamo alla lunghissima storia che lega la prima attività del contare — coi vecchi e familiari numeri interi uno, due, tre ecc. — ai computer superveloci. Qualche millennio fa alcuni «protomatematici», ovvero prudenti pastori e sagaci amministratori, «numeravano pecore in fenicio», per dirla con una battuta del poeta Ezra Pound; oggi potenti apparati di calcolo contribuiscono a dimostrare sofisticate congetture, realizzando un'economia di pensiero che cambia la natura stessa del lavoro umano.
Questo e altri aspetti della ricerca matematica sono messi in luce dall'articolo di Manin che apre il secondo volume della serie (di quattro) La matematica, a cura di Claudio Bartocci e di Piergiorgio Odifreddi (Einaudi). È dedicato a Problemi e teoremi, cioè alla linfa vitale di un'attività che forse più di ogni altra, a parte la musica, è insieme comprensione scientifica e opera d'arte, costruzione linguistica ed espressione di razionalità. Il lettore vi troverà la storia delle grandi congetture che hanno resistito agli sforzi umani per decenni o addirittura secoli, cedendovi solo di recente, come «l'ultimo teorema di Fermat» (dimostrato da Andrew Wiles) o la congettura di Poincaré (dimostrata da Grigori Perelman), e quelle che ancora restano delle sfide aperte all'immaginazione di coloro che amano leggere nel grande libro matematico del mondo. È il caso, per esempio, della celebre «ipotesi di Riemann», cui è dedicato nel volume il bel saggio di J. Brian Conrey. E tutti i collaboratori mostrano come problemi e teoremi possono anche venire immersi in «programmi di ricerca», simili, per certi versi, a carte geografiche in cui alcune aree sono raffigurate con notevole chiarezza (sono quelle da dove partiamo: gli elementi di cui siamo sufficientemente sicuri), mentre altre vengono ricostruite sulla scorta di analogie (sono le «terre incognite»: i nuovi settori da investigare) — sicché le indagini qui assumono i caratteri dell'avventura, non troppo diversamente dall'impresa di Colombo. Com'è noto, questi si sbagliò nel suo tentativo di raggiungere l'Oriente passando per l'Occidente; ma l'ostacolo che trovò sulla sua rotta verso le Indie doveva rivelarsi un continente ricco di risorse inaspettate. E — dal calcolo infinitesimale alle geometrie non euclidee, dalla teoria dei numeri allo studio delle probabilità, dalle matematiche combinatorie alla topologia generale — l'impresa dei matematici ha saputo trovare la sua «America della conoscenza ». Si è trattato di un tipo di esplorazione così vario e complesso da rendere impossibile una rigida definizione dell'essenza della matematica. Sono stati soprattutto i filosofi a cimentarsi in questa impresa degna del despota Procuste; ma appena ne avevano tracciati i confini, si accorgevano che ne era rimasta esclusa una qualche componente di grande rilevanza e fascino. E forse la matematica è simile a un organismo vivente, che non si può costringere in uno spazio angusto, come faceva quel mitico tiranno, senza ucciderlo.
Un po' malignamente Manin osserva come, al tempo dell'antica Roma, che si veniva aprendo sempre di più alla cultura greca e a quella orientale, la matematica non ebbe grandi riconoscimenti: i valori imperiali di coraggio, onore, gloria, disciplina le lasciavano poco spazio. Colpa degli stessi matematici? Quando si mettono al tavolo e iniziano a lavorare, essi «dimenticano valori in conflitto come autorità, efficienza, ambizione, fede e così via». Ma questa indipendenza è il segreto della loro forza: non solo nei confronti del potere, ma anche della stessa filosofia, che talvolta cerca di rinchiudere l'animale matematico in gabbia, salvo accorgersi che, appena serrato il chiavistello, questo è evaso.
Dobbiamo allora rinunciare a qualsiasi filosofia della matematica? O magari a qualunque filosofia, senza ulteriori qualificazioni? Le categorie filosofiche, al contrario dei concetti matematici, difficilmente diventano «oggetti» di quel tipo di indagine operativa che consente al matematico di trovare «al di là della superficie delle apparenze» (come diceva Bernhard Riemann) connessioni profonde tra campi apparentemente scollegati. Né esse hanno l'incisività delle idee portanti della fisica o della biologia — capaci di rinnovare di continuo ingegneria e biotecnologie. E infine, se è la matematica a innervare concettualmente l'impresa della conoscenza, c'è ancora bisogno di una filosofia che ci dica lei che cos'è la razionalità, e che cos'è la realtà?
Mi ricordo che (un po' di anni fa) il mio maestro e amico Ludovico Geymonat, di formazione sia filosofica che matematica, ammoniva noi giovani a non cadere nella trappola di definizioni frettolose, guardando invece alla «effettualità» della pratica matematica (tra l'altro, segnalo che Bollati Boringhieri ha ristampato, di Geymonat, la Storia e filosofia dell'analisi infinitesimale, in origine 1948, con una nuova introduzione di Gabriele Lolli, che bene mostra come quel libro non sia affatto invecchiato).
Alle prese con problemi formidabili, armato degli strumenti concettuali che la tradizione gli fornisce, ma al tempo stesso sospettoso di tutto quello che viene dato semplicemente per scontato, il matematico creativo è davvero il cittadino di un paese ove «regna la libertà», come diceva Georg Cantor, che edificò nell'Ottocento l'imponente teoria dei «numeri infiniti», nonostante l'ostilità di autorevoli colleghi e le perplessità di importanti filosofi. Glossa Manin: questa libertà è «la libertà di scelta tra alternative incompatibili», e perciò — aggiungerei io — è un'assunzione di responsabilità. E dove c'è libertà c'è anche spazio per la (buona) filosofia.

il Riformista 29.11.08
Università. Approvato il decreto. Opposizione indecisa e divisa
Il Pd riesce a far fare bella figura alla Gelmini
di Mario Ricciardi

L'approvazione al Senato del decreto sull'università proposto dal governo segna una vittoria per Maria Stella Gelmini. Non c'è dubbio, infatti, che la titolare dell'Istruzione è riuscita a chiudere con abilità - e senza perdere l'iniziativa - una partita difficile. Meno bene ne esce il Pd. Infatti, dopo aver fatto gesti distensivi, che lasciavano intendere la possibilità di una conversione bipartisan del decreto, il principale partito dell'opposizione ha votato contro. Senza una spiegazione chiara e con il dissenso di un suo autorevole esponente, Nicola Rossi, che è uscito dall'Aula per non partecipare al voto.
Come siamo arrivati a questo risultato? Per comprenderlo bisogna fare un passo indietro, ritornando alla fine dell'estate, quando Walter Veltroni ha individuato in Maria Stella Gelmini l'anello debole del governo, quello che poteva essere colpito con la speranza di spezzarlo. Così nasce una strategia che, rinunciando quasi completamente a presentare e difendere un programma alternativo a quello del governo per scuola e università, puntava tutto sulla speranza che un autunno caldo per il dicastero di viale Trastevere si trasformasse in una sconfitta per Berlusconi e i suoi alleati e in un vantaggio per il Pd. Tuttavia, scommettere sull'Onda si è rivelato un grave errore. In primo luogo, perché il movimento di protesta nato nelle scorse settimane si è rivelato - come lasciavano intendere le sue prime manifestazioni - piuttosto confuso. Prive di un senso politico, le proteste studentesche hanno esibito il solito catalogo di intemperanze, lamentele, disagi esistenziali e sfoghi creativi con cui siamo familiari da anni. Ben lungi dall'essere il nuovo Sessantotto di cui alcuni hanno vaneggiato, l'Onda ha solo increspato un po' le acque. Anche perché, e questa è la novità politica degli ultimi mesi, stavolta la solita protesta d'autunno contro le "riforme" di scuola e università ha trovato un interlocutore meno disposto a lasciarsi chiudere nell'angolo.
Con abilità di cui bisogna darle atto, Maria Stella Gelmini è partita al contrattacco riuscendo a trasformare la sua debolezza in forza. Prima ha presentato una serie di provvedimenti sulla scuola, alcuni dei quali erano ispirati da esigenze di bilancio piuttosto che da un chiaro disegno di riforma, come interventi positivi. Attaccata su queste misure, la Gelmini ha reagito accentuando la dimensione di novità e di rottura con il passato delle proprie proposte. Dopo qualche settimana di polemiche, e grazie all'Onda, un pacchetto normativo minimalista è diventato a furor di popolo la "riforma Gelmini" della scuola.
Lo stesso schema si è ripetuto anche per l'università. Un decreto scritto in fretta - e male - per rispondere a una sollecitazione di Francesco Giavazzi si è riempito strada facendo di contenuti, alcuni dei quali sarebbero forse condivisibili ma avrebbero meritato più seria discussione, fino a diventare una sorta di miniriforma dell'università che interviene in modo significativo su diversi profili, dal reclutamento e alle progressioni di carriera di docenti e ricercatori fino al finanziamento delle sedi e alla ripartizione dei fondi. Anche in questo caso Maria Stella Gelmini ha trasformato una debolezza iniziale in un punto di forza, presentando i tagli imposti da ragioni di bilancio come iniziative in positivo, e cavalcando con abilità l'indignazione dell'opinione pubblica per certi episodi di malcostume accademico. Ci sarebbe da discutere, e ieri l'ha fatto - con ottimi argomenti - Massimo Marinucci, sul modo distorto in cui l'università italiana viene presentata in questi giorni da certi organi di stampa. La discussione seria e pacata su ciò che non funziona e sui modi migliori per migliorare la situazione è stata sostituita ormai da una caccia alle streghe in cui tutti coloro che appartengono alla "casta" accademica sono per ciò stesso sospetti, e probabilmente colpevoli, di ogni genere di nefandezze. In questo clima il Pd è apparso privo di una linea, oscillando tra la tentazione di accodarsi agli attacchi ai "baroni" e quella di correggere attraverso gli emendamenti le parti meno condivisibili di un decreto sull'università approvato in fretta e furia e senza un'adeguata riflessione. La scelta di non votare ieri è la nuova oscillazione del pendolo. Incomprensibile ai più, e verosimilmente destinata a essere raffigurata dai sostenitori della Gelmini come motivata dal desiderio di difendere i privilegi degli indifendibili "baroni". Insomma, un fallimento da cui nessuno può trarre giovamento. Certamente non il Partito democratico, probabilmente nemmeno l'università.

Liberazione 29.11.08
«Perché, da lavoratore, mi sento rappresentato da Vladimir»
di Bruno Carboni

Caro Piero, grazie al nostro giornale si è aperto un bel dibattito sulla partecipazione di Vladimir all' Isola dei famosi e se lei rappresenti realmente la nostra cultura politica. In primo luogo bisogna riconoscere a Vladimir il coraggio di rischiare in prima persona l'eventuale strumentalizzazione del suo essere diversa, consapevole delle posizioni di contrarietà alla sua partecipazione di una parte del partito e del mondo Lgbtq. Ma tutto questo non ha condizionato la sua scelta creando in noi (comunisti, e lavoratori), prima curiosità, poi passione ed infine una felicità immensa nel vederla trionfare. Dico queste cose perché anche io all'inizio ero titubante sulla sua partecipazione all' Isola . Poi incuriosito ho incominciato a seguire Vladimir, giorno dopo giorno, cercando di capire se la sua persona veniva percepita - a detta di altri - come un giullare di corte - e se sarebbe stata una umiliazione per lei, per noi una sconfitta.Ma giorno dopo giorno la mia curiosità diventava passione, mi rendevo conto che i suoi messaggi arrivavano in case di italiani che noi, pur facendo milioni di iniziative sulle problematiche del lavoro o dei diritti civili, non avevamo mai raggiunto. La gente per strada parlava e parla di lei non per la sua tendenza sessuale, ma perché la persona Vladimir ha toccato questioni importanti come l'intolleranza: ha spiegato che la convivenza tra persone diverse - che siano popoli, che siano di tendenza sessuale diversa o altro - si deve costruire ascoltandosi e confrontandosi nel rispetto reciproco, non tollerando. Ma la grande vittoria che ha avuto Vladimir è stata quando - io lavoratore, padre di tre figli piccoli che lotta ogni giorno col disagio sociale di non arrivare più alla terza settimana, uomo di partito che cerca di farsi ascoltare dai compagni per far capire quello che le lavoratrici e i lavoratori sopportano ogni giorno nei posti di lavoro e infine dirigente provinciale della Filcams Cgil Cagliari che all'interno del direttivo fa battaglie a difesa in particolare delle lavoratrici che operano nelle aziende di pulizie dove lo sfruttamento è ormai insopportabile anche all'interno di appalti pubblici - mi sono sentito rappresentato in modo inequivoco. Vedi, caro Piero, io vorrei partecipare al dibattito dicendo che ognuno di noi può contribuire a divulgare e creare opinione nella società, partendo sì dalla sua storia personale - fondamentale per la propria crescita politica e culturale - ma avendo anche la capacità di mettersi a disposizione delle altre sensibilità che il nostro partito vuole rappresentare. Secondo il mio parere Vladimir c'è riuscita. Ora permettetemi di dire che è venuto il momento che anche il resto del nostro partito, dal nazionale al territoriale, ascolti la società stando di più in mezzo alla gente (come mi sembra che stia avvenendo dal dopo congresso). Non si deve perdere tempo a farsi la guerra interna, ma ricordare a tutti che il nemico o avversario non è all'interno: è la destra populista che si è radicata nella nostra società.

venerdì 28 novembre 2008

Repubblica 28.11.08
Le torture di Bolzaneto


la prima parte di questo articolo non è disponibile in rete

Le violenze confermate anche nelle motivazioni della sentenza per il G8 Ora tocca alla polizia chiudere con la verità una pagina di vergogna della sua storia

(SEGUE DALLA PRIMA PAGINA)
No, occorre che ogni gesto degradante (naturalmente provato) abbia un suo responsabile diretto (naturalmente identificato in modo inequivocabile).
Una fortunata coincidenza ci mette sotto gli occhi, nelle stesse ore, gli esiti del nuovo "diritto diseguale". A Roma il procuratore generale della Cassazione definisce «deviata» una cultura poliziesca che, identificando una persona che partecipa a una manifestazione, le attribuisce «tutti i reati commessi durante la manifestazione» (è accaduto l´11 marzo 2006 a Milano, in Corso Buenos Aires, durante una manifestazione antifascista). A Genova diventano pubbliche le motivazioni per le torture della caserma di polizia di Bolzaneto durante i giorni del G8, tra il 20 e 22 luglio 2001. E si legge che ? non c´è dubbio ? le violenze, le umiliazioni consumate in quella caserma e «pienamente provate avrebbero potuto ricomprendersi nella nozione di "tortura" delle convenzioni internazionali». Ma in Italia quel reato non c´è e allora bisogna accontentarsi di descrivere quelle prepotenze come «condotte inumane e degradanti». Sono comportamenti «che hanno tradito il giuramento di fedeltà alle leggi della Repubblica italiana e alla Carta Costituzionale, inferto un vulnus gravissimo, oltre a coloro che ne sono stati vittime, anche alla dignità delle forze della polizia di Stato e della polizia penitenziaria e alla fiducia della quale detti Corpi devono godere nella comunità dei cittadini». Epperò, dall´accertamento delle condotte vessatorie «non discende automaticamente che, di quelle condotte, debbano necessariamente rispondere tutti gli imputati». Ne risponderanno individualmente soltanto i responsabili diretti. «Purtroppo la maggior parte di coloro che si sono resi direttamente responsabili delle vessazioni risultate provate in dibattimento è rimasta ignota. Scrivono i giudici: il limite di questo processo è rappresentato dal fatto che quei nomi, quelle facce, gli aguzzini non sono saltati fuori «per difficoltà oggettive, non ultima delle quali la scarsa collaborazione delle Forze di Polizia, originata, forse, da un malinteso "spirito di corpo"».
Non c´è dubbio che il procuratore generale della Cassazione e i giudici di Genova abbiano ragione: la responsabilità penale deve essere personale. C´è però una differenza non trascurabile: da un poliziotto ci si attende una leale collaborazione nell´accertamento dei fatti, non "spirito di corpo", non complicità, non omertà. Quei poliziotti, che hanno violato la Costituzione nelle vie di Genova, alla Diaz, a Bolzaneto avrebbero dovuto essere trascinati dinanzi al giudice dai loro stessi commilitoni. Al contrario, la storia dei processi di Genova è una parabola sempre uguale di connivenze, silenzi, reticenze, favoreggiamento, fughe dal processo come quella promossa proprio in questi giorni da un questore accusato di falsa testimonianza con l´allora capo della polizia Gianni De Gennaro. Se la polizia vuole finalmente chiudere con la verità una pagina di vergogna della sua storia, come ha promesso di fare il capo della polizia Antonio Manganelli, non ha che da rendere concreto il suo impegno accompagnandolo con l´agenda ragionevolmente proposta dal «Comitato verità e giustizia per Genova». Scuse formali dei vertici dello Stato alle vittime degli abusi e a tutti i cittadini; collocazione immediata dei condannati a ruoli che non comportino una relazione diretta con i cittadini; massima collaborazione con la magistratura per le inchieste ancora aperte. Da parte sua, il Parlamento discuta al più presto proposte di legge di "riforma" delle forze di polizia: l´obbligo per gli agenti in servizio di ordine pubblico di indossare codici d´identificazione; l´istituzione di un organismo indipendente cui denunciare eventuali abusi delle forze di sicurezza. Sono strumenti diffusi in molti paesi europei. Si può concordare che «l´esperienza di Genova dimostra che il nostro paese ne ha bisogno».

Repubblica 28.11.08
"A Bolzaneto ci furono torture indagini difficili per l´omertà"
G8, le motivazioni della sentenza. "Provati 13 tipi di abusi"
"Il pm è stato costretto a circoscrivere le condotte inumane e degradanti"
di Marco Preve


GENOVA - A Genova, nel luglio 2001, all´interno del carcere speciale di Bolzaneto, voluto in occasione del G8, fu commessa tortura. Può apparire sorprendente che a confermare quello che anche Amnesty International ha sempre sostenuto, siano le motivazioni di una sentenza, quella del processo di Bolzaneto appunto, che ha lasciato amareggiati chi si aspettava maggior coraggio da parte del tribunale chiamato a giudicare 45 imputati (15 condanne e 30 assoluzioni).
Eppure, nelle 441 pagine delle motivazioni del verdetto, depositate ieri pomeriggio, c´è scritto proprio questo, oltre al fatto che la polizia non ha collaborato nella ricerca della verità, che tutte le vittime hanno fornito resoconti non solo attendibili ma anche «prudenti», che tutti gli abusi «inumani e degradanti furono effettivamente commessi». Però, spiega il presidente Renato De Lucchi, per attribuire ai vertici la responsabilità di quanto avvenuto sarebbe stato necessario raggiungere la prova che gli stessi vertici fossero stati presenti ai fatti e avessero avuto perfetta percezione di quanto stava avvenendo. In ogni caso, Bolzaneto non è stata un´invenzione. Scrivono i giudici a pagina 311 «... la mancanza, nel nostro sistema penale, di uno specifico reato di tortura ha costretto l´ufficio del pm a circoscrivere le condotte inumane e degradanti (che avrebbero potuto senza dubbio ricomprendersi nella nozione di tortura adottata nelle convenzioni internazionali)». Ben 13 tipologie di vessazioni, violenze, abusi «sono risultate pienamente provate», dei testimoni i giudici lodano «genuinità e prudenza». Definiscono l´indagine dei pm Patrizia Petruzziello e Vittorio Ranieri Miniati «lunga, laboriosa e attenta», ma «per difficoltà oggettive (non ultima delle quali... la scarsa collaborazione delle Forze di Polizia, originata, forse, da un malinteso "spirito di corpo")», «la maggior parte di coloro che si sono resi direttamente responsabili delle vessazioni risultate provate in dibattimento è rimasta ignota». Come due agenti particolarmente violenti soprannominati "il tigre" e il "tedesco", che l´omertà di corpo ha trasformato in fantasmi nonostante le precise indicazioni delle vittime.
Un quadro durissimo, ma dal quale mancano, secondo il tribunale di Genova, alcuni passaggi fondamentali relativi all´intenzionalità del dolo. E poi, spiegano i giudici, «anche in questo processo, quantunque celebrato in un´atmosfera caratterizzata da forti contrapposizioni politico-ideologiche sia sui mezzi di informazione che nell´opinione pubblica, sono stati portati a giudizio non situazioni ambientali o orientamenti ideologici, bensì, ovviamente, singoli imputati per specifiche e ben individuate condotte criminose loro attribuite nei rispettivi capi di imputazione, che costituiscono la via maestra da cui il giudicante non deve mai deviare, pena la violazione dell´altro cardine del nostro sistema di garanzie processuali rappresentato dall´articolo 24 della Costituzione». Il giusto processo, dove non si è potuto processare la tortura.

Corriere della Sera 28.11.08
Il G8 e la sentenza su Bolzaneto «La tortura ci fu, ma non c'è la legge»
di Erika Dellacasa


GENOVA — Nella caserma di Bolzaneto, dove vennero portati i manifestanti arrestati durante il G8 di Genova nel 2001, esponenti delle forze dell'ordine tennero «condotte inumane e degradanti», tradendo «il giuramento di fedeltà alle leggi della Repubblica italiana e della Costituzione». Questo scrivono i giudici del Tribunale di Genova nella motivazione alla sentenza che ha condannato quindici poliziotti e ne ha assolti trenta per i gravi maltrattamenti inflitti ai no-global a Bolzaneto. In sintesi, ci fu tortura (i metodi usati, è scritto «a pieno titolo avrebbero potuto senza dubbio ricomprendersi nella nozione di tortura adottata dalle convenzioni internazionali») ma questo reato non è contemplato dal nostro codice quindi è stato adottato quello «inadeguato» di abuso d'ufficio. Inoltre la «scarsa collaborazione» delle forze dell'ordine ha fatto sì che non fosse possibile individuare con certezza gli autori dei singoli episodi di violenza. Per questo il Tribunale in nome della responsabilità penale individuale e della certezza della prova ha largamente assolto. Le 467 pagine di motivazioni depositate ieri sono però una dura critica al comportamento delle forze dell'ordine e alla loro «pessima» organizzazione.

il Riformista 28.11.08
Dopo la Diaz, liberi tutti «Assolvete gli estremisti»
Cassazione. Il Pg: «Esiste un'unica giustizia, anche per gli scapestrati».«Nel Paese c'è il rischio di una giustizia sommaria»


«Nel Paese c'è il rischio di una giustizia sommaria». A paventarlo è il sostituto procuratore generale della Cassazione Alfredo Montagna nel corso della requisitoria con la quale ha chiesto di annullare le condanne per devastazione nei confronti di 18 imputati appartenenti alla sinistra radicale che in primo e in secondo grado sono stati condannati a 4 anni di reclusione per devastazione in relazione agli incidenti accaduti a Milano in corso Buenos Aires l'11 marzo del 2006. La publica accusa della Cassazione, per sua stessa ammissione, ha fatto un riferimento implicito alle vicende accadute alla scuola Diaz durante il G8: «Esiste un'unica giustizia, non una giustizia che si applica a seconda delle qualifiche che si hanno».
Il pg si è rivolto così ai giudici della prima Sezione penale che dovranno decidere se confermare le pesanti condanne o riconoscere una pena ridotta per i soli reati di incendio e resistenza a pubblico ufficiale: «Ho la sensazione che nel paese nei confronti di ragazzi scapestrati si applichi una tutela attenuata rispetto a chi, non essendo un colletto bianco, non ha agganci su cui poter contare».
Non che il pg approvi quello che è accaduto alla manifestazione del 2006: «Se fossero andati i miei figli li avrei rimproverati - ammette Montagna - ma certo non li avrei mandati in carcere». E comunque, aggiunge, «la polizia è convinta che basti identificare i manifestanti per attribuirgli tutti i reati. Le forze dell'ordine quell'11 marzo del 2006 hanno fotografato di tutto e di più ma non hanno fornito le foto delle devastazioni. Perché? Questo non solo mi lascia perplesso ma soprattutto significa che non è stata raggiunta la prova oltre ogni ragionevole dubbio».

Repubblica 28.11.08
Tradotto il testo definitivo di "vita e destino" di Vasilij Grossman
Il romanzo della libertà
Uno scrittore contro i totalitarismi
di Cesare De Michelis


Il lungo racconto epico della guerra fu scritto negli anni Cinquanta, e sequestrato nel ´61, durante la destalinizzazione di Krusciov, per il parallelo tra Hitler e Stalin che ne emergeva
Si fece conoscere come scrittore del realismo socialista. Ma più tardi il suo lavoro sul genocidio nazista fu censurato e poi bloccato
Quando l´autore sovietico cominciò a vederci chiaro scrisse tutto quello che aveva visto, saputo, capito E l´ha pagata cara

L´edizione italiana finalmente condotta sul testo definitivo di Vita e destino di Vasilij Grossman (traduzione di Claudia Zonghetti, Adephi, pagg. 827, euro 34) è un evento paragonabile alla conoscenza integrale di altri grandi romanzi dell´epoca sovietica come Il Dottor Zivago di Boris Pasternak o Il Maestro e Margherita di Michail Bulgakov.
Grossman (1905-1964) si fece conoscere trentenne come scrittore che interpretava al meglio i dettami del "realismo socialista" col racconto Gleckauf, dedicato alla vita dei minatori del Donbass, che attrasse l´attenzione del gran capo delle lettere sovietiche, Maksim Gor´kij; ribadí poi la sua fama con il romanzo Stepan Kolèugin (1941), sulla formazione d´un operaio bolscevico. Come tale venne fatto ben presto conoscere anche in Italia: Ettore Lo Gatto ne parlò brevemente ma con ammirazione nella sua Storia della letteratura russa (1942), e sulla prima rivista dell´Associazione Italia-URSS (La cultura sovietica, n? 2, ottobre-dicembre 1945); Angelo M. Ripellino presentò per primo in Italia la traduzione di un suo racconto, Anjuta, accompagnato da queste parole: «Le pene della guerra, la sua austera poesia, la passione, sono gli elementi essenziali degli scritti di Grossman. Più di chiunque altro egli ha rivelato le sorgenti dell´epopea di Stalingrado. Allo stesso modo che in tempo di pace, gli eroi di Grossman erano animati dal sogno della creazione; in guerra, i suoi ufficiali e soldati compiono prodigi di coraggio, ispirati dal sogno della vittoria».
Fu appunto la guerra, durante la quale fu corrispondente al fronte del giornale dell´esercito Kràsnaja Zvezdà (Stella rossa), che segnò il suo destino. Accanto a diversi articoli, saggi e bozzetti (tra i quali meritano d´essere ricordati almeno «Il popolo è immortale» e «L´inferno di Treblinka»), concepí difatti un vasto affresco bellico che doveva realizzarsi come "epopea di Stalingrado", e che gli avrebbe portato insieme profondi dolori e la grande fama che oggigiorno, a quarant´anni e passa dalla scomparsa, lo colloca tra i grandi autori del Novecento russo.
Il primo romanzo fu pubblicato nel 1952 ed era intitolato Per una giusta causa (un brano, "La notte del 21 giugno", fu tradotto da Pietro Zveteremich in Narratori russi moderni, Bompiani 1963); e ancora nell´anno della scomparsa dell´autore, la Breve enciclopedia letteraria sovietica gli dedicava una voce, a firma di Georgij Munblit, che lo lodava per il romanzo e informava il lettore che «negli ultimi anni aveva pubblicato una serie di racconti su varie riviste». Ma naturalmente non diceva una parola del fatto che da qualche anno a quella parte Vasilij Grossman, senza nessuna intenzione, s´era trasformato da valente scrittore del realismo socialista in pericoloso sovversivo, e che i suoi due ultimi romanzi (Tutto scorre e Vita e destino) non erano destinati ad essere letti dal pubblico sovietico.
Già quindici anni prima però Grossman era incappato nella censura.
Quella volta (1947) per via del lavoro documentario che, su istanza di Albert Einstein, aveva intrapreso assieme ad un altro scrittore d´origine ebraica (e ben più famoso di lui: Il´ja Erenburg), per testimoniare del genocidio nazista nei territori sovietici durante la guerra. Finché le operazioni militari erano in corso, tutti i mezzi erano buoni per la propaganda interna e per la solidità dell´alleanza internazionale; ma, a guerra finita, quel martirologio ebraico sembrò inopportuno a Stalin (che proprio in quegli anni intraprese la campagna contro il cosmopolitismo e il nazionalismo "borghese"), e l´imponente raccolta di tragici materiali venne prima sottoposta a revisione censoria, e poi fermata quando era già in bozze. E stata pubblicata quasi cinquant´anni dopo, nel 1994 (in italiano è uscita da Mondadori solo nel 1999, col titolo Il libro nero).
Vita e destino, scritto nel corso degli anni Cinquanta, e che come s´è detto doveva costituire la seconda parte dell´epopea bellica dopo Per una giusta causa, venne sequestrato nel 1961, durante la "destalinizzazione" di Krusciov, non appena l´autore l´aveva consegnato alla rivista Znamja (La bandiera) per la pubblicazione: il capo-redattore Vadim Kozevnikov l´aveva subito segnalato al KGB, spaventato al solo pensiero di poter apparire connivente.
Per intendere, oggi, la durezza della risoluzione presa, servirà ricordare non solo che l´anno dopo (novembre 1962) il Novyj mir (Mondo nuovo) pubblicò, col consenso preventivo di Krusciov, Una giornata di Ivan Denisoviè di Aleksandr Solgenitsyn, ma che anche il Dottor Zivago di Boris Pasternak era stato sí vietato, ma non sequestrato (il sequestro toccherà, dodici anni dopo, all´Arcipelago Gulag di Solgenitsyn).
Che cosa c´era di tanto terribile, nell´opera di Grossman? Il fatto è che il tema bellico aveva, e sempre più avrà negli anni successivi, una doppia valenza nella cultura sovietica: rappresentava da un lato una tragedia corale di popolo, rispetto alla quale si potevano dire anche cose difficili da dire in tempo di pace (da cui il successo non solo della narrativa di guerra di Konstantin Simonov, ma anche quella di Bulat Okudzava, o la raccolta delle poesie dei caduti in guerra, I versi rimangono in riga, 1958); ma d´altro canto era l´occasione per cementare il ruolo-guida del Partito, come ben sapeva Aleksandr Fadeev, che aveva dovuto riscrivere il suo romanzo La giovane guardia per eliminare l´impressione che l´iniziativa spontanea delle formazioni partigiane fosse più rilevante della strategia politica.
In un saggio sulla «Grande guerra patriottica» (come i sovietici chiamavano il secondo conflitto mondiale) nella cultura russo-sovietica Maria Ferretti ha scritto che «dal ricordo della guerra scaturivano due memorie opposte, antitetiche, che veicolavano due sistemi di valori inconciliabili, fondati l´uno sulla libertà che alimentava le speranze di una democratizzazione [del sistema sovietico], e la memoria della vittoria, che celebrava invece lo Stato autoritario» ("La memoria spezzata", Italia contemporanea, XII, 2006).
Figurarsi poi se dalla nuda e cruda rappresentazione dei fatti, sostenuta da una lucida capacità di coglierne le ragioni profonde, dalle macerie fumanti di Stalingrado emergeva un parallelo tra il nazismo di Hitler e il bolscevismo di Stalin: «Di quale speranza si può parlare - scriveva Efim Etkind, presentando la prima edizione di questo romanzo, nel 1984 -, se siamo posti di fronte a due campi che come specchi si rimandano un´identica immagine?». Allora, «la confisca di un romanzo - insisteva Etkind - è il più alto riconoscimento che il potere dello Stato possa accordare ad un´opera letteraria; l´immaginazione dell´autore viene collocata al livello stesso della realtà; le riflessioni dello scrittore diventano divulgazione di segreti di Stato».
Nell´archivio dell´amico Semen Lipkin (1911-2003), che scrisse anche lui della guerra (La nave di Stalingrado, 1943) ma soprattutto ha dedicato un libro a Vita e destino di Vasilij Grossman (1984), è conservata la lettera che Grossman scrisse a Krusciov, a un anno dal sequestro del libro. In quella lettera, tragica e per certi versi disperata, Grossman diceva tra l´altro:
«Perché è stato posto il divieto sul mio libro che forse, in qualche misura, risponde alle esigenze interiori dei sovietici, un libro dove non c´è menzogna né calunnia, mentre c´è verità, dolore, amore per gli altri, perché mi è stato confiscato con metodi di violenza amministrativa, è stato segregato, da me e dagli altri, come un assassino colpevole? [.] Non basta: mi è stato raccomandato di rispondere alle domande dei lettori di non avere ancora terminato il lavoro sul manoscritto, che ci vorrà ancora molto tempo. In altre parole, mi è stato proposto di dire il falso».
Per comprendere il rilievo del lascito morale che l´opera di Grossman ha trasmesso anche alla Russia post-sovietica, ricorderò il seguente aneddoto che Benedikt Sarnov narra ne Il caso Erenburg (2004): il poeta Boris Sluckij gli chiese una volta chi avesse vissuto più da giusto, se Erenburg o Paustovskij, e alla sua ovvia risposta («Naturalmente Paustovskij»), Sluckij gli replicò che no, non aveva ragione, e se Erenburg aveva praticato tanti compromessi «quante persone però aveva aiutato». Ricordando l´episodio, Sarnov commenta: «Ma che cosa avrei detto se mi avesse posto il dilemma tra Erenburg e Grossman? Avrei risposto senza tentennamenti: - Naturalmente Grossman! Si, Grossman era più libero. Non chiamò mai la cecità un espediente. Quando cominciò a vederci chiaro scrisse di tutto quello che aveva visto, saputo, capito. E l´ha pagata cara».

Repubblica 28.11.08
Il dittatore pensava di poter contare sulla tradizione cristiana
Hitler, la chiesa e l’antisemitismo
di Giovanni Miccoli


La rarità di pubbliche voci di dissenso ecclesiastico verso la politica antiebraica confermavano ai nazisti che non ci sarebbe stata opposizione dell’episcopato

l resoconto che monsignor Berning, vescovo di Osnabreck, scrisse per i suoi confratelli su ciò che Hitler aveva detto della «questione ebraica» nel corso di un incontro con una delegazione episcopale il 26 aprile 1933, attesta una sorta di sintonia di fondo con settori non irrilevanti del mondo cattolico (...): «Hitler parlò con calore e calma, qua e là pieno di fervore. Contro la Chiesa non una parola, solo apprezzamento per i vescovi. Sono stato attaccato per il mio modo di trattare la questione ebraica. Per 1.500 anni la Chiesa ha considerato gli ebrei come esseri nocivi, li ha esiliati nel ghetto eccetera, in quanto ha riconosciuto ciò che gli ebrei sono. Al tempo del liberalismo non si è più visto questo pericolo. Io risalgo nel tempo e faccio ciò che si è fatto per 1.500 anni. Io non metto la razza al di sopra della religione, ma vedo nei membri di questa razza esseri nocivi per lo Stato e la Chiesa, e forse fornisco così al cristianesimo il più grande servizio; da qui il loro allontanamento dall´insegnamento e dagli impieghi statali».
Hitler non mentiva ma era solo reticente quando affermava di non mettere la razza al di sopra della religione: ne faceva infatti una componente costitutiva di essa, pur ironizzando sulle fumisterie dell´ideologia völkisch. Né aveva difficoltà a richiamarsi alla tradizione ecclesiastica per le misure adottate contro gli ebrei. (...) Non a caso Karl Lueger e le agitazioni di massa promosse contro gli ebrei a Vienna dai cristiano-sociali figurano nel Mein Kampf tra i suoi modelli, anche se il loro limite restava per lui di aver fondato il loro antisemitismo non sulla razza ma su una visione religiosa. E probabile che egli pensasse davvero di poter in qualche modo contare, nella lotta contro gli ebrei, sulla tradizione antiebraica cristiana. (...)
Il calcolo, entro certi limiti, non era sbagliato. Non è privo di significato il fatto che monsignor Berning non trovò difficoltà né avanzò obiezioni di fronte alle affermazioni e ai propositi di Hitler. (...) quei propositi non erano certo tali da poterlo particolarmente inquietare: per decenni voci autorevoli della pubblicistica cattolica avevano avanzato proposte non dissimili. La rarità di pubbliche ed esplicite voci di dissenso da parte della Chiesa nei confronti della politica antiebraica (...) non potevano non confermare Hitler e i dirigenti nazisti nell´opinione che, su tali questioni, nessuna seria opposizione sarebbe venuta loro dall´episcopato.
In quei primi mesi del potere nazista la Santa Sede e la Chiesa cattolica tedesca si mostrarono dunque concentrate soprattutto a tutelare la propria condizione in Germania. (...) Non va dimenticato il ripetuto, esplicito riconoscimento espresso da Pio XI nei confronti di Hitler dopo la sua nomina a cancelliere il 30 gennaio 1933 e già prima della vittoria elettorale del 5 marzo: «Hitler è il primo e unico uomo di Stato che parla pubblicamente contro i bolscevichi. Finora era stato unicamente il papa». Meriterebbe da questo punto di vista analizzare con cura le informazioni contraddittorie sul nazionalsocialismo e le sue imprese che nei primissimi anni Trenta e anche dopo la sua conquista del potere pervenivano alla segreteria di Stato e di cui la documentazione vaticana offre ricca testimonianza. (...) Spiaceva che con gli ebrei e l´ebraismo si colpissero e si rifiutassero capisaldi della tradizione cristiana come il Vecchio Testamento, spiacevano certi metodi di lotta, spiaceva soprattutto che le misure adottate si fondassero su premesse ideologiche che si ispiravano ad un razzismo estremo, sostanzialmente incompatibile con il credo cristiano. Nelle famose prediche dell´Avvento del 1933 il cardinale Faulhaber scese perciò in campo a difesa del Vecchio Testamento e della tradizione cristiana, Rosenberg e il suo Mythus des XX. Jahrhunderts, così come i maestri del neopaganesimo germanico, divennero il bersaglio di molta pubblicistica cattolica. Ma ci si guardò bene dal coinvolgere nella polemica e nella condanna l´antisemitismo. Non erano del resto pochi a ritenere che, se vi era un antisemitismo razzistico vietato ai cattolici, ne esisteva un altro, spirituale ed etico («geistiger und ethischer»), che era «stretto dovere di coscienza di ogni cristiano consapevole», come scrisse il vescovo di Linz, monsignor Gfvllner, nel gennaio 1933, in una pastorale che ebbe larga diffusione negli ambienti cattolici europei.

Corriere della Sera 28.11.08
Elezioni studentesche Trionfo dei ragazzi di An di «Azione universitaria». Il ministro: i giovani con il governo
La Sapienza va a destra, esulta la Meloni
di Fabrizio Caccia


ROMA — Per il fronte pro Gelmini si tratta di rivincita: «Alla Sapienza, una valanga di destra ha seppellito l'Onda, Azione universitaria ha preso più voti delle liste di sinistra», esulta Giovanni Donzelli, leader degli universitari di An. In effetti, nell'università più grande d'Europa (140 mila iscritti), dove l'Onda praticamente è nata, dalle urne ieri è uscita la sorpresa. Gli studenti sono andati a votare per eleggere i loro rappresentanti nel Senato accademico e nel Cda. Otto liste in gara e un risultato netto: rispetto all'ultima consultazione (2005) per la sinistra è stata una débâcle. Ai primi tre posti si sono piazzate le liste del centrodestra
(Vento di cambiamento vicina al rettore Frati e prima con 3 mila voti, poi i ciellini di Lista aperta, quindi Azione universitaria,
grande sconfitta nel 2005).
Anomalia Sapienza, invece, la lista dei Collettivi (motore dell'Onda) è risultata appena la quinta forza (1200 voti), scavalcata pure dai moderati di Sapienza in movimento, forza ambientalista che nel 2005 arrivò seconda (e i Collettivi quarti con 500 voti in più). Ma peggio sono andati gli Studenti democratici
(Pd) e quelli dell'Udu (Cgil) che non han beccato nemmeno un seggio. Tutto il contrario, per dire, di quanto successo nel 2007 alla Statale di Milano: dopo vent'anni di predominio Cl, s'è imposta Sinistra Universitaria. Così, ora, sfotte l'Onda anche Gaetano Quagliariello (Pdl): «Un tempo si diceva piazze piene, urne vuote...». E il ministro della Gioventù, Giorgia Meloni, aggiunge: «La maggioranza degli studenti dimostra di condividere le iniziative intraprese sinora dal governo». Replica Pina Picierno, Pd, responsabile delle Politiche giovanili: «È inaccettabile che un ministro tenti di strumentalizzare il voto degli studenti».
Attenti, però: i votanti alla Sapienza sono stati appena 13.348 (su quasi 140 mila studenti) cioè il 10,6 per cento degli aventi diritto. Alle ultime elezioni (maggio 2005) votò il 12,7 per cento (18.667). Insomma, astensione fortissima: «Mi sorprende che si possa parlare di maggioranza quando ha votato solo una minoranza», osserva Giovanni Amelino Camelia, ricercatore di Fisica. Concorda lo scienziato Giorgio Parisi: «Anche nel '68 la maggioranza stava con il movimento ma non andava a votare, perché rifiutava questa forma di democrazia rappresentativa». Francesco Brancaccio, uno dei leader del movimento 2008, taglia corto: «L'Onda non ha mai pensato di candidarsi, perché non la rappresenta nessuno. L'entusiasmo del centrodestra è grottesco ». E comunque l'Onda non s'arresta: ieri blitz a Milano al Piccolo Teatro e a Palazzo Reale (al grido «la cultura è gratis») e autoriduzioni a Roma al teatro Valle e alla mensa di via De Lollis (posti e pasti gratis in nome del welfare). Oggi, poi, si torna in piazza: due cortei nel centro di Roma («la città è stanca di questa situazione», lo sfogo del sindaco Alemanno). Non si esclude neppure una pacifica incursione nel corso dell'inaugurazione dell'anno accademico. A La Sapienza, naturalmente.

il Riformista 28.11.08
Lettera a Dagospia
Lady Lella, i salotti e la ricchezza
di Fabrizio d'Esposito


Tra le pagine dell'ultimo capitolo del comunismo italiano d'inizio millennio, si rischia di trovare qualche capello biondo di Valeria Marini. La Jessica Rabbit rivale di Rita Rusic nei tormentoni amorosi con il trottolino Cecchi Gori è stata infatti la migliore amica di Vladimir Luxuria sull'Isola dei famosi. Arrivata come ospite speciale, ha contribuito alle strategie che l'ex deputata di Rifondazione ha messo in atto per edificare con successo il socialismo esotico sull'atollo di Cayo Paloma. Come se non bastasse, poi, un'altra amica della Marini, Gabriella Fagno detta Lella e coniugata Bertinotti, in questi giorni freddi di novembre ha preso carta e penna per vergare una lettera in cui difendere se stessa, il marito, il cashmere e finanche Valeria dalle cupe accuse di lusso e mondanità. E la preziosa missiva non è apparsa su "Alternative per il socialismo", dotta e ponderosa rivista bimestrale fondata dal consorte Fausto, bensì sul più letto e meno alternativo Dagospia.
Prosegue dunque lo show della sinistra rosa dura e pura. Dopo l'exploit di Luxuria all'Isola, che ha prodotto fiumi d'inchiostro sul rapporto tra il tubo catodico e la falce e martello, adesso tocca a Lella Bertinotti. Lo scoop del sito Dagospia inizia così: «Illustre Roberto D'Agostino, siccome in più occasioni si è, con qualche malizia, occupato di vicende private che mi riguardavano e riguardavano la vita di coppia con mio marito, vorrei portarla a conoscenza di una lettera che ho scritto a un giornalista che, con il suo stesso spirito, se ne è occupato».
Una corrispondenza privata, quindi. Ma con chi? Dagospia accosta il manoscritto di lady Bertinotti a una maliziosa foto in cui si vede la stessa Lella che bacia la mano a Paolo Mieli, direttore del "Corriere della sera", e a un caustico articolo di Aldo Grasso sul Magazine: «La sciura Lella e il silenzio». La pista giusta, però, sarebbe un'altra. La moglie di Bertinotti avrebbe indirizzato la lettera a Riccardo Barenghi, la Jena traslocata dal "manifesto" alla "Stampa" e che per Fazi ha pubblicato "Eutanasia della sinistra", includendo i salotti frequentati da Lella e Fausto tra le cause della catastrofe massimalista. Scrive Gabriella Fagno in Bertinotti: «Sono stata, per oltre trent'anni, la moglie di un sindacalista che ha trascorso i suoi primi cinque anni in un territorio periferico della provincia di Novara lavorando nel sindacato tessile. In quel tempo ai sindacalisti non venivano versati i contributi assicurativi e previdenziali. La sua retribuzione era di quarantamila lire al mese quando lo stipendio di un qualsiasi impiegato era di ottanta-novantamila lire».
La lettera si divide in quattro paragrafi: «Sindacato e percorso politico», «Agi», «Frequentazioni», «Eleganza, cashmere, Mondanità». Insomma, una vera memoria difensiva per confutare il tribunale del popolo e del pettegolezzo. Lella Bertinotti spiega che la casa in cui vive con il marito è stata comprata con il mutuo, «che finiremo di pagare nel dicembre 2008, e grazie a «quarantatré anni di lavoro comune». E il famoso casale di campagna in Umbria è costituito da «due pezzi di casa di contadini uniti da una veranda». Ancora: il figlio e la nuora vivono in affitto perché «non possono e non possiamo permetterci di acquistare un appartamento». Infine: mai vacanze alle Maldive o Barbados o Seychelles e il 55 per cento degli emolumenti parlamentari versato sempre al partito.
Sublime la contabilità dei salotti e delle amicizie: dalla Angiolillo due volte in ventitré anni, dalla Verusio il doppio, cioè quattro, e se con la Sospisio c'è stata una maggiore frequentazione è «perché siamo entrambe psiuppine». E veniamo alla Marini: anche lei vista non più di «tre o quattro volte l'anno» in ogni caso «senza imbarazzo alcuno» perché è una «donna sensibile e intelligente» nonostante non abbia letto i tremila libri «necessari per essere presa in considerazione da un certo mondo». L'epilogo è caldo come il primo e unico maglione di cashmere che lei donò al marito nel 1995. Di colore rosso lo comprò al mercato dell'usato di via Sannio a Roma, pagandolo venticinquemila lire. E se in seguito Fausto ha sfoggiato altri capi della stessa lana è solo perché gli amici per prenderlo in giro gli regalano un maglione e una sciarpa a ogni compleanno. Tutto qui. Niente lussi, niente vita dorata. Ma ancora «un letto di bandiere rosse». Hasta la victoria ed el cashmere siempre. «La nostra vita è sinistra».

giovedì 27 novembre 2008

Repubblica 27.11.08
Il merito e l’uguaglianza
di Nadia Urbinati


"Meritocrazia" è la parola magica che pare ai più capaci di liberare la società italiana dalle sue croniche aberrazioni. Se il merito venisse davvero riconosciuto, si dice, la nostra società si emanciperebbe dai lacci del nepotismo e del clientelismo.
Come recita il sottotitolo del libro di Roger Abravanel sulla meritocrazia, questa è la ricetta per valorizzare il talento e rendere il paese più ricco e più giusto. Wikipedia definisce la meritocrazia come un sistema di governo o un´organizzazione dell´azione collettiva basato "sull´abilità dimostrata" e sul "talento" piuttosto che su "ricchezza ereditata, relazioni familiari e clientelari, nepotismo, privilegi di classe, proprietà o altri determinanti storici di potere politico e posizione sociale". John Rawls avrebbe sottoscritto questa definizione. Tuttavia resta difficile da spiegare con precisione che cosa sia vero merito, prima di tutto perché è impossibile stabilire con rigore e certezza il dosaggio tra capacità personali e condizioni sociali. Qualche volta sembra di capire che il merito sia una qualità che la persona riconosciuta meritevole possieda naturaliter come per innata disposizione (talenti) e che con fatica e duro lavoro riesce poi a fare emergere (responsabilità). Ma nessuno sembra soffermarsi abbastanza sulla dimensione sociale del merito, sul suo dipendere profondamente dal riconoscimento sociale ovvero dalla sintonia che si stabilisce tra chi opera e chi riceve i frutti o è influenzato dall´operato.
Il giudizio rispetto al merito di una persona è relativo a un settore di lavoro, a determinati requisiti che definiscono una prestazione, all´utilità sociale delle funzioni in un determinato tempo storico, ovvero al riconoscimento pubblico. Nel merito entrano in giuoco non soltanto le qualità intrinseche e morali della persona, ma anche quella che per Adam Smith era una simpatetica corrispondenza tra i partner sociali. Per questo i teorici moderni della giustizia hanno sempre diffidato di questo criterio se usato per distribuire risorse. Non perché non pensano che ad essere assunto in un ospedale debba essere un bravo medico, ma perché mettono in guardia dallo scambiare l´effetto con la causa: è l´eguaglianza di trattamento e di opportunità il principio che deve governare la giustizia non il merito, il quale semmai è una conseguenza di un ordine sociale giusto. Per non essere privilegio truffaldino, il merito deve sprigionare da una società nella quale a tutti dovrebbe essere concessa un´eguale possibilità di formarsi capacità e accedere ai beni primari (diritti civili e diritti sociali essenziali) per poter partecipare alla gara della vita.
Il Presidente degli Stati Uniti Lyndon B. Johnson raccontò questa storia per far comprendere quanto necessari fossero i programmi pubblici di giustizia sociale: immaginiamo una gara di velocità tra due persone che partono dallo stesso punto, ma una delle quali parte con dei lacci alle caviglie. Si può ignorare questa differenza di capacità nel giudicare del merito del vincitore? Evidentemente no. Perché ci sia una gara effettivamente gareggiata occorre rimuovere gli ostacoli dell´altro competitore. Ecco perché a meno che non si azzerino le relazioni sociali e non si rifondi daccapo la società civile non si può onestamente parlare del merito come della soluzione ai problemi dell´ingiustizia senza preoccuparsi di vedere con quali mezzi i concorrenti si apprestano a competere.
Parlare di merito senza intaccare i residui storici e naturali che condizionano le prestazioni individuali è a dir poco capzioso. Nella condizione in cui la nostra società si trova attualmente è davvero difficile che il riconoscimento del merito sia un fattore di imparzialità o giustizia. Ne parlava su questo giornale alcune settimane fa Adriano Sofri. L´appartenenza di classe, sempre più determinante nell´accesso a buone scuole e quindi a una buona occupazione (a un lavoro che piace non semplicemente a un lavoro necessario) rende il discorso sulla meritocrazia non proprio cristallino e la gara una gara chiusa, avvantaggiata già alla partenza o truccata.
Perché questo lungo discorso sul merito? Perché in questi giorni di sacrosanta denuncia delle aberrazioni che si annidano in molte università italiane potrebbe venir spontaneo pensare che l´unica soluzione per curare il malato di corruzione sia sottoporlo al salasso delle risorse. Per curare una università che non seleziona per merito occorre togliere i finanziamenti: questo è quanto da più parti si dice con più frequenza, portando acqua al mulino governativo in maniera più o meno diretta. Nell´età premoderna si pensava che il modo migliore per guarire un malato fosse quello di salassarlo per togliergli il sangue cattivo e si finiva per far morire il malcapitato proprio con l´intento di salvarlo. Il corpo non rinvigorisce togliendogli il cibo, ma dandogli cibo buono. Non si tratta di una terapia veloce, ma è l´unica terapia ragionevole. Non esiste una giustizia rapida, come i sognatori della meritocrazia sembrano credere. E quindi non è tagliando i finanziamenti che si può pensare di risanare l´università, il luogo dove i talenti cercano alimento. Anche perché la politica dei "meno soldi" non si traduce necessariamente in "più onestà". Occorre invece far sì che i soldi siano meglio spesi e che siano messi in atto sistemi di controllo che controllino davvero (con anche l´uso del codice penale se necessario) e sistemi di reclutamento efficaci e non corrotti.
Ma non ci si faccia illusioni sulla celerità della cura. Perché è evidente che la questione del merito non è né neutra né di semplice procedura. Essa è prima di tutto una questione di etica ? di chi valuta e di chi è valutato, dei sistemi di valutazione e, in primo luogo, di chi li escogita e chi li fa funzionare. Non basta enunciare che occorre seguire il criterio del merito (e quale altro se no?), occorre davvero seguirlo sempre. Per esperienza devo dire che spesso anche chi esalta il merito non è poi sempre pronto a onorarlo perché la logica del sistema ha più forza di quella del merito e dell´onestà. Non è questa la ragione per la quale è così difficile che un esterno vinca una competizione nell´accademia italiana? Se la questione del merito è una questione di eguali opportunità e di etica pubblica o di responsabilità, allora, per sconfortante che la cosa possa apparire, non consente soluzioni veloci e facili. Anche se è comprensibile che di fronte alla notizia scandalistica (ma per nulla nuova) di cattedre destinate a parenti e amanti (o ad allievi fedeli, una categoria altrettanto aberrante, eppure molto in uso) e ai finanziamenti statali elargiti a università private di ogni tipo e luogo (uno sperpero del denaro pubblico di cui si parla troppo poco), viene sacrosanta la reazione di volere azzerare tutto togliendo le risorse. Ma si può voler creare indigenza per sconfiggere il furto?

Repubblica 27.11.08
Il ritratto di Stalin in chiesa e scoppia la guerra delle icone
San Pietroburgo, fedeli in rivolta contro il parroco
Il santino è vicino a quello della beata Nikonova che predisse la vittoria su Hitler
di Leonardo Coen


MOSCA - Passi la richiesta provocatoria dei comunisti di Pietroburgo che qualche mese fa perorarono il Patriarcato russo perché avviasse la pratica di canonizzazione di Stalin, in quanto «benefattore della Gran Madre Russia». Il portavoce del venerabile Alessio II liquidò seccamente la vicenda ricordando le persecuzioni, le sofferenze e le atrocità imposte dal dittatore del Cremlino ai fedeli, ai sacerdoti e alla Chiesa ortodossa. Ma le vie del Signore sono infinite, e una di queste impervie stradine della fede ha attraversato Strelna, sobborgo di Pietroburgo, per arrestarsi davanti ad una chiesetta dove un pope di infinita tolleranza ha interpretato il Verbo di Gesù sul perdono e ha deciso di esporre un´icona che ritrae Josif Stalin intabarrato nel suo celebre cappottone militare accanto alla beata Matrona Nikonova di Mosca (1881-1952), mentre sullo sfondo campeggiano i bulbi multicolori della stupenda san Basilio.
Insomma, un «santino» ortodosso. C´è una ragione, dietro questa audace e, diciamolo pure, dissacrante iniziativa del pope di Strelna. Bisogna tornare indietro nel tempo. Il defunto arciprete Dimitrij Dudko, noto teologo, da giovane era un sincero antisovietico ed ebbe la fortuna di sopravvivere alle purghe nonostante un lungo soggiorno nei gulag. Ma quando cominciò ad invecchiare seriamente all´improvviso ebbe una folgorazione sulla via della falce e martello: si innamorò di Stalin. Nei suoi sermoni diceva che Stalin in realtà era religioso e che nella sua coscienza non vi erano sentimenti persecutori nei confronti della chiesa ortodossa.
Lo scrisse, persino: «Voglio tanto esclamare alla fine: «Santo, pio Josef, prega Dio per tutti noi!». Un caso di aberrazione o di sfinimento psicologico? Comunque, fu un´eccezione il fervore staliniano dell´arciprete Dudko. Oggi, però, è spuntato fuori un seguace di padre Dimitrij. Nella chiesa di Strelna dedicata alla santa principessa Olga, una delle sventurate figlie di Nicola II, il priore Evstafij Zhakov ha deciso di esporre appunto l´icona di Stalin con a fianco la figura della beata Matrona di Mosca. Sono tantissime le leggende che riguardano la vita di questa santa donna che riuscì a superare i massacri e le purghe staliniane. Una di queste racconta che «la madre Matrona» nell´autunno del 1941 ebbe dei colloqui con Stalin. Anzi, che Stalin stesso fosse andato a trovarla per confidarle che era molto preoccupato della situazione di Mosca. I nazisti erano alle porte.
Ci voleva una «guerra patriottica», rispose lei, e predisse: «Tu rimarrai da solo in città, ne sarai il Grande Difensore. Mosca non cadrà in mano a Hitler». Ecco il motivo dell´icona in cui si rappresenta quel momento.
Il problema è che la cosa non è affatto piaciuta ai parrocchiani. Non hanno gradito l´iniziativa, la considerano un´offesa alla memoria di tutte le vittime delle repressioni antireligiose di Stalin. E hanno deciso di disertare le cerimonie fin quando quell´icona resterà in chiesa. Le proteste hanno suggerito al pope di spostare l´icona e di metterla nel luogo più appartato della chiesa, ma i fedeli pretendono che venga tolta: «Non ci importa che la popolarità di Stalin sia ancora molto alta in Russia, lui è stato il diavolo contro chi credeva in Dio». Sinora il patriarcato di Mosca non ha commentato la vicenda.

Repubblica 27.11.08
I tormenti della sinistra
di Marc Lazar


Il recente Congresso del Ps francese, la designazione di Martine Aubry a Primo segretario con una manciata di voti di vantaggio su Ségolène Royal e la contestazione del risultato da parte dei sostenitori di quest´ultima rivelano la crisi di questo partito in tutta la sua ampiezza. E´ una crisi che presenta indiscutibilmente una sua specificità ? nessun altro partito di sinistra nutre tanto odio al proprio interno ? ma è anche un segno della fase delicata in cui versa tutta la sinistra europea.
In seno al Ps, la maggioranza tenterà di tornare a un orientamento di tipo classico: difesa intransigente del «patriottismo» di partito, affermazione della sua identità tradizionale, proclamazione ostentata della sua appartenenza alla sinistra, ricerca di un´ipotetica alleanza sul suo fianco sinistro, stigmatizzazione di ogni intesa con i centristi (fatte salve le possibili alleanze a livello locale), ritorno al «tutto Stato», critica di prammatica al capitalismo e al liberismo. Insistendo volutamente su questi temi, Martine Aubry ha potuto costruire, in via provvisoria, un´ampia coalizione estremamente eterogenea, cementata solo dalla volontà di sbarrare la strada a Ségolène Royal. La nuova segretaria dovrà definire ora un vero orientamento politico, e prendere iniziative per soddisfare la forte domanda di cambiamento espressa dagli iscritti, in ordine al funzionamento del partito e a un ampio ricambio generazionale. Ma ciascuna di queste decisioni rischia di far saltare la maggioranza. Inoltre, Martine Aubry non potrà non tener conto della metà dei votanti socialisti che in barba agli sforzi di gran parte dell´apparato del partito per sostenere la sua candidatura, avevano optato per Ségolène Royal, e ora non accettano l´esito del voto. Il Ps è ormai spaccato in due. Se al momento la prospettiva di una scissione non è plausibile, resta il fatto che il partito va incontro a una coabitazione molto tesa tra la nuova dirigente e la sua rivale, Ségolène Royal. La prima vuol rinnovare il partito richiamandosi alla tradizione, mentre la seconda intende muoversi verso altri orizzonti, sull´esempio del Partito Democratico italiano.
Ma può il Pd costituire un modello? Nato nel 2007, questo partito sta esplorando un percorso disseminato di insidie e gravido di incertezze. Considerando superate le grandi ideologie e la classica divisione tra destra e sinistra, si sforza di inventare una nuova forma di partito con una sua identità e un suo progetto, che per ora non hanno contorni ben definiti. Alcuni dei suoi dirigenti pensano di unirsi all´Udc, suscitando resistenze interne. Evidentemente Ségolène Royal si è ispirata al suo esempio, ancorché in maniera contraddittoria. Da un lato sostiene di incarnare il rinnovamento dicendo di voler aprire le porte del partito, denunciando la vecchia oligarchia in carica e accettando, in caso di necessità, eventuali alleanze con i centristi per battere Sarkozy. Dall´altro ha dato garanzie del suo impegno di sinistra, in particolare in campo economico, con proposte come quelle di vietare i licenziamenti, o di imporre alle imprese, in caso di delocalizzazione, il rimborso di tutti gli aiuti pubblici ottenuti. Ma soprattutto, Ségolène Royal ha giocato a fondo la carta della personalizzazione e della presidenzializzazione. I suoi avversari denunciano precisamente ciò che piace alla metà del partito, che approvano il suo stile inconsueto.
Parallelamente, in Gran Bretagna le recenti decisioni anticrisi di Gordon Brown ? tra cui la riduzione dell´Iva e un aumento delle imposte sui redditi più elevati ? contraddicono quella che è stata la politica del New Labour. In Germania, l´Spd è penalizzata dalla sua politica di coalizione con la Cdu-Csu. E subisce la spinta del partito di sinistra (Die Linke), che attrae un elettorato di operai, disoccupati e lavoratori dipendenti del ceto medio declassati, o in via di precarizzazione. Di conseguenza, l´Spd ha corretto la rotta e ha ripreso a parlare di «socialismo democratico» (un concetto caduto in disuso in questi ultimi tempi), rettificando alcuni aspetti dell´Agenda 2020 adottata sotto Schroeder e avanzando una serie di proposte più «sociali». Sembra quindi che il Labour e l´Spd, artefici della politica di revisione e rinnovamento della sinistra negli Anni 90, siano giunti al termine di quel ciclo che aveva costituito la Terza via. Non possono ripudiare i passi compiuti col riconoscimento dell´economia di mercato, del principio di responsabilità degli individui, della necessità di modernizzare il welfare, o con l´invenzione di nuove forme di solidarietà sociale, ma ancor meno possono tornare, come vorrebbero le correnti più radicali, a una politica tradizionale di sinistra, dopo averla aspramente criticata e abbandonata. E dunque devono reinventarsi tutto.
I partiti riformisti sono oggi tutti sulla difensiva a fronte della crisi economica e finanziaria e del dinamismo della destra. E sono inoltre destabilizzati da identiche sfide. Innanzitutto quella della leadership, un tema delicato, perché a differenza della destra che accetta facilmente un capo e la sua autorità, a sinistra i leader sono soggetti a continue critiche, come nel caso di Veltroni in seno al Pd. C´è poi il problema delle profonde divisioni interne, suscitate non solo da rivalità umane, ma anche dalla pregnanza delle scorie ideologiche che paralizzano questi partiti e deteriorano la loro immagine agli occhi degli elettori. E c´è la concorrenza dei piccoli partiti alla loro sinistra, che non cessano di criticarli e di intimidirli, soprattutto in Francia e ora anche in Germania. C´è la questione della strategia da adottare, dato che per poter aspirare al successo questi partiti devono chiamare a raccolta la sinistra, ma anche conquistare elettori dell´area moderata. C´è il problema del rapporto con la società, poiché sul piano sociologico la loro base è formata in larga parte da persone con un alto livello di istruzione, che vivono nelle grandi città e lavorano nei servizi e nel settore pubblico, mentre stentano a conquistare i ceti più popolari, i giovani, i precari e molti dipendenti delle imprese private. E infine, quello della loro identità, del loro progetto, poiché d´ora in poi sono chiamati a dare un contenuto preciso e mobilitante al loro riformismo, o al socialismo al quale si richiamano.
La sinistra europea ha subito numerose sconfitte elettorali; ma ha soprattutto perduto la sua egemonia culturale. Ed è quindi per riconquistarla che dovrebbe profondere il suo impegno.
(Traduzione di Elisabetta Horvat)

Repubblica 27.11.08
Il piacere del male, così nasce la perversione
di Fabio Gambino


Elisabeth Roudinesco parla del suo saggio su "la parte oscura di noi stessi"
Una storia delle perversioni

"Il pedofilo ci fa orrore anche perché mai come oggi la società valorizza l´infanzia A differenza del serial killer che ripugna ma affascina"
"Spesso i mistici sono stati protagonisti di radicali degenerazioni passando dalle vette del sublime agli abissi dell´abiezione"

PARIGI. «La perversione è lo specchio dei nostri desideri più inconfessabili. Per questo ci fa paura». La psicanalista e storica Elisabeth Roudinesco non ha dubbi: «Tutti dobbiamo fare i conti con la crudeltà e il piacere del male che agiscono in noi in maniera più o meno latente. Sono pulsioni feroci e assassine che crescendo, con l´educazione, impariamo a tenere a bada e a superare. Ma pur seppellite nel profondo del nostro inconscio, esse continuano a ossessionarci».
La studiosa francese lo scrive in un saggio, La parte oscura di noi stessi (Angelo Colla Editore, pagg.183, euro 18), che cerca di ricostruire la percezione della perversione nella cultura occidentale, dal Medioevo ai giorni nostri. Il libro si presenta come «una storia dei perversi», vale a dire di «coloro che sono stati considerati tali dalle società umane, preoccupate di esorcizzare la loro parte maledetta». Per l´autrice, la perversione, «che ha sempre a che fare con l´idea d´inversione e di rovesciamento», è una realtà variabile, relativa e sfuggente, un «sinonimo di perversità» percepito come «una sorta di negativo della libertà» che si trasforma a seconda delle epoche e delle culture.
«La perversione è una costruzione culturale, perché il piacere del male è un dato specifico dell´umano. In natura, la perversione non esiste», spiega Roudinesco, nota anche in Italia per le sue numerose pubblicazioni, tra cui una celebre biografia di Lacan e un corposo Dictionnaire de la psychanalyse. «Il senso comune considera la perversione come la manifestazione della parte bestiale dell´umano, ma l´animale non si rende conto della propria crudeltà. Si ha perversione solo quando si ha coscienza del male che si procura. Il perverso è responsabile delle proprie azioni e ne gode. Non è un folle incapace d´intendere e di volere. La perversione nasce dalla coscienza della norma ed ha bisogno del linguaggio per esprimersi, come per altro ci ha insegnato Sade. In passato, è stata considerata un atteggiamento contro natura oggi è piuttosto vista come un disturbo dell´identità, una deviazione, uno stato di delinquenza».
Ogni epoca ha costruito le proprie figure della perversione?
«La società ha bisogno di rappresentarsi concretamente la perversione per dare corpo e allontanare le paure legate alla parte oscura che sente dentro di sé. Non è possibile pensare una società senza la dimensione del male. Le figure dei perversi sono il capro espiatorio da additare alla comunità. Sapere che la minaccia alla società non viene da noi, ma da qualcun altro, ci tranquillizza e ci rassicura».
Il serial killer e il pedofilo sono le due figure della perversione che dominano la percezione contemporanea. In passato però ce ne sono state altre...
«Ogni epoca si è creata la sua idea di perversione. I grandi criminali seriali sono considerati perversi fin dal Medioevo. Anche l´omosessualità è stata considerata a lungo una forma di perversione contro natura, come pure la masturbazione infantile e l´isteria femminile. Oggi però la loro percezione è cambiata e nessuno le considera più perversioni. Nella società contemporanea la perversione assoluta è incarnata dal pedofilo. La nostra società ne è ossessionata, considera la pedofilia una perversione assolutamente ingiustificabile. Più dello stupro e dell´omicidio. Da un punto di vista storico, è una novità. Il pedofilo ci fa orrore, a differenza del serial killer che ci ripugna ma ci affascina».
Come si spiega tale evoluzione?
«La nostra società accorda ai bambini uno statuto senza precedenti. Valorizzando come mai in passato l´infanzia, oggi qualsiasi aggressione al corpo infantile ci sembra un gesto orribile. Il bambino non può difendersi, può essere plagiato e non può dare il suo consenso, mentre nella nostra cultura l´idea del consenso è fondamentale. Prima di Freud, i medici condannavano la sessualità dei bambini come perversa. Dopo che il fondatore della psicanalisi ha dimostrato la normalità della sessualità infantile, la società l´ha accettata, ma ha anche sentito il bisogno di proteggerla. Per questi diversi motivi la pedofilia è diventata ai nostri occhi la perversione più intollerabile».
La perversione implica solo la sfera sessuale?
«Naturalmente no. I mistici, ad esempio, sono spesso stati protagonisti di forme di perversione molto radicali. Si pensi alle sofferenze che si sono imposti alcuni santi oggi molto venerati, la mortificazione della carne e la flagellazione per purificare il corpo. I rituali che ai nostri occhi appaiono come vere e proprie perversioni, all´epoca erano considerati un mezzo per avvicinarsi a Dio. Ancora oggi ci sono santoni indiani che digiunano fino a trasformarsi in veri e propri scheletri. I mistici oltretutto possono passare dalle vette del sublime agli abissi dell´abiezione. Si pensi a Gilles de Rais, su cui è stato poi costruito il mito di Barbablù. Fu un grande condottiero, animato dalla ricerca del bene, che seguì in battaglia Giovanna d´Arco. Quando questa venne mandata al rogo accusata di essere una strega perversa, egli precipitò nel pozzo delle proprie pulsioni incontrollabili, mettendosi ad ammazzare bambini. Quando la legge degli uomini s´inverte, trasformando la santa in strega, anche Gilles de Rais rovescia i propri comportamenti, diventando un orco assassino».
Personaggi come Barbablù ci fanno paura però ci affascinano. Come mai?
«L´orrore dei grandi perversi violenti ci ha sempre affascinato, da Barbablù a Jack lo Squartatore, fino ai più recenti serial killer cinematografici con la loro violenza piena di rituali macabri. Questi personaggi ci offrono lo spettacolo di quello che non siamo, ma che potremmo forse essere. Ci fanno paura, ma, assistendo alle loro raccapriccianti azioni, ci liberiamo dalla minaccia indefinita e oscura che sentiamo in noi. E´ un fascino torbido che esiste perché tutti, prima o poi, in un modo o nell´altro, ci siamo confrontati con il male. Tutti nascondiamo in noi una componente perversa».
Altri esempi di perversione?
«Oggi un´altra figura percepita come profondamente perversa è quella del terrorista che schianta il suo aereo sui grattacieli di New York. In lui percepiamo una sorta di godimento del male che sta procurando. In tutt´altro ambito, anche nei casi gravi di anoressia c´è una forma di perversione, dato che in essi si manifesta una sorta di godimento della morte di sé».
Nel suo libro lei evoca anche la perversione politica. Come mai?
«Accanto alla perversione individuale, esiste quella collettiva dei sistemi politici che pervertono le loro finalità. In nome del bene, questi istituiscono il male come legge. Le dittature, i fanatismi religiosi mostrano questa inversione della legge che autorizza il crimine. Il nazismo è stato il sistema che più è sprofondato nella perversione, giustificando perfino il genocidio. Il rovesciamento tra male e bene è stato totale. Anche nelle democrazie contemporanee, in nome della sicurezza, della prevenzione e del controllo, si mettono in atto meccanismi che possono diventare perversi. La società di sorveglianza che pretende di controllare e prevenire tutto è una forma di perversione della democrazia».

Repubblica 27.11.08
"Conversione? Mai detto”
Antonio Gramsci e il sacerdote pentito


E alla fine risulta che neppure Giuseppe Della Vedova, il padre dehoniano a cui nel 1977 fu attribuita la "rivelazione" di Gramsci convertito al cattolicesimo, era davvero convinto della conversione. «Chiarissimo Professore, spero che Lei avrà letto le mie note su Studi Sociali. Avrà visto che io non dico che l´onorevole Gramsci s´è convertito o ha ricevuto i sacramenti», scrive in quello stesso anno ad Arnaldo Nesti, lo studioso che su Paese Sera smentì la tesi della conversione grazie alle testimonianze del cappellano e delle suore che assistettero Gramsci in fin di vita nella clinica Quisisana. Tracce di questa vicenda sono anche in un libro di Nesti, La fontana e il borgo, pubblicato da Ianua nel 1982.
In una lettera inedita, che il professor Nesti mostra a Repubblica, padre Della Vedova quasi si scusa per il suo intervento superficiale («Se avessi saputo delle sue interviste, l´avrei consultata»). Se la prende con il direttore della rivista, padre Boschini, che ha pubblicato il suo articolo sulla conversione di Gramsci senza avvertirlo che dell´argomento s´era già occupato Nesti nella sua tesi di laurea. Poi riferisce allo studioso di essersi messo in contatto, dopo l´uscita dell´articolo di Paese Sera, con l´unico vero cappellano della clinica Quisisana, don Giuseppe Furrer, il quale gli conferma in sostanza la testimonianza già resa a Nesti (don Giuseppe non ricordava neppure d´aver dato i sacramenti in punto di morte, comunque Gramsci era assente, immobile). Prova imbarazzo, padre Della Vedova, ma precisa che nel suo articolo uscito su Studi Sociali «io non dico che Gramsci s´è convertito o ha ricevuto i sacramenti, come ha scritto il Corriere della Sera, ma solo fatto una mia supposizione». Solo una supposizione. Destinata però a durare tre decenni.
S.Fio.

Corriere della Sera 27.11.08
Dopo l'«Isola» Per il giornale è «regina del pettegolezzo»
Luxuria, lite a sinistra Il «manifesto» attacca: donnetta da ballatoio
Bertinotti: ha vinto perché autentica
Su «Liberazione» altre due pagine sulla vittoria nel reality. L'ex parlamentare prc: non mi candiderò alle Europee
di Paolo Foschi


ROMA — Compagni contro. La vittoria di Vladimir Luxuria all'Isola dei famosi fa ancora discutere. E proprio mentre l'ex parlamentare di Rifondazione dichiara che «la sinistra unita può battere la destra», i giornali comunisti litigano sul reality show.
Liberazione, organo del Prc, dopo aver paragonato due giorni fa il successo della trans al trionfo di Obama, ieri ha dedicato a Luxuria due pagine e un «grazie perché hai reso un grande servigio non solo a lesbiche, gay, bisex e trans di questo Paese, ma in generale a chi pensa che libertà e civiltà siano valori connessi, imprescindibili, per cambiare l'Italia». Il quotidiano diretto da Piero Sansonetti ha comunque ospitato anche una lettera di Paola Nardi, la militante che per prima mesi fa aveva criticato la partecipazione di Luxuria all'Isola: «Questo è vero pietismo», ha scritto ieri. Il Manifesto
ha invece affidato il racconto del «naufragio di Vladimir » a Norma Rangeri, critica tv: «La sua è la classica vittoria di Pirro, il successo di chi alza la coppa del trionfo come fosse la bandiera rossa del transgender mentre in realtà sventola le mutande di Valeria Marini». E, ancora, «la povera Luxuria è entrata nell'Isola come un volantino stampato ("parlerò di problemi sociali e politici") e ne è uscita come una donnetta da ballatoio. Il massimo della popolarità lo ha raggiunto con la spiata di un flirt fra una bella argentina (Belen Rodriguez) e un rubacuori (Rossano Rubicondi), marito di Ivana Trump. Altro che rottura del tabù dell'eterosessualità, come scrive Liberazione.
Semmai l'incoronazione della reginetta del pettegolezzo ». Luxuria ieri ha ribadito che non si candiderà per le europee e ha raccontato: «Sono stata fuori due mesi e mezzo ma i punti fermi non sono cambiati: la Carrà fa tv, Berlusconi fa il cabarettista, nel Pd ci sono scontri tra Veltroni e D'Alema, così come in Rifondazione tra Vendola e Ferrero». Secondo Bertinotti, Vladimir «ha vinto perché è autentica come il Movimento degli studenti». Infine Maurizio Ronconi, Udc: «In questo momento l'unico leader della sinistra radicale è Luxuria».

Corriere della Sera 27.11.08
Angela Scarparo contro la Rangeri: l'ex deputata ha classe, intelligenza e umana fragilità
La compagna di Ferrero: è brava, sbaglia chi pensa solo agli operai
di A. Gar.


ROMA — Angela Scarparo. Scrittrice, giornalista, compagna di Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione. Nel suo blog ha scritto «Chi se ne frega dei reality».
Cosa intendeva?
«Che a me piacciono Visconti, Giotto, Ingmar Bergman...».
Non si unisce al coro entusiasta per Luxuria e l'«Isola dei famosi».
«Mi piace anche Vladimir. È una vincente.
Me la ricordo alla fine degli anni '80 che trattava col Vaticano...».
Col Vaticano?
«La sede del locale che animava, "Muccassassina", era loro. Lei trasformò uno sfratto in una battaglia su come la Chiesa gestisce le sue proprietà ».
Norma Rangeri ha scritto sul manifesto che Luxuria è uscito dal reality «come una donnetta da ballatoio».
«Non ho mai visto l'"Isola". Sono certa che Vladimir ha mantenuto classe, intelligenza, e umana fragilità».
Il manifesto parla di «un concentrato di sessismo, conformismo e luoghi comuni».
«A proposito dell'"Isola", sono d'accordo. Chi ha davvero vinto l'altra sera è stato Berlusconi. E la sua cultura».
Liberazione, il giornale di Rifondazione, ha scritto che con Vladimir ha vinto la diversità.
«Queste sono panzane! Gli italiani hanno passato le serate con una come lei così come si sposano in Rolls Royce: una tantum».
Alcuni, dentro Rifondazione, dicono che i comunisti dovrebbero stare al fianco della classe operaia.
«Ma non solo! Uno dei compiti della sinistra è smontare i luoghi comuni che la destra ci impone: immigrati, paura, individualismo».
Ferrero che vuole candidare Luxuria alle Europee...
«Affari loro. Io sono una iscritta, faccio lavoro di base».

Corriere della Sera 27.11.08
Così l'Io viene svelato dalla tecnica
di Giulio Giorello


«Non è portentoso il fatto che io sia qui, e che qualcosa nella mia testa pensi cento cose diverse in un solo momento e faccia del mio corpo tutto quello che vuole?». Così sulle scene recita lo Sganarello del Don Giovanni di Molière, celebrando «la fantastica libertà» per cui basta un comando del cervello per far sì che un essere umano possa compiere questo o quel gesto oppure pronunciare i discorsi più articolati. Ma dove va a finire tutta questa libertà se il soggetto in questione è completamente paralizzato? Una risposta non sul piano filosofico bensì su quello operativo ci viene dai risultati annunciati da Frank Guenther della Boston University. Già si era appurato che si potevano tradurre dei comandi motori in istruzioni per una «macchina»; adesso è la volta della parola o, meglio, dell'intenzione di profferire una parola! Dunque l'apparato tecnologico si trova connesso con quella attività così elusiva e importante che è il pensiero, visto il profondo legame che c'è tra riflessione e linguaggio. Nel caso in questione, l'interfaccia, per così dire, riesce a rendere comunicabile un pensiero che in qualche modo è già linguaggio. Com'è ovvio, siamo solo agli inizi; ci vorranno tempo, pazienza e opportune risorse economiche. Al contrario di alcuni diffusi luoghi comuni, questo mi pare un bell'esempio di interazione tra coscienza e tecnologia: man mano che costruiremo dispositivi sempre più raffinati riusciremo non solo ad aiutare chi è colpito da gravi menomazioni, ma anche a fare luce sui nostri «meccanismi interiori» che sottendono il mondo delle idee e quello delle decisioni. Non si tratta più insomma di concepire gli strumenti tecnologici come dei rivali del corpo o del cervello umani, bensì di pensare a una sorta di cooperazione tra gli uni e gli altri. E forse questo ci permetterà anche di capire come la «cosa» più preziosa, il nostro Io, non è tanto un piccolo fantasma nascosto in un punto imprecisato della nostra testa, quanto un potere diffuso nella sofisticata architettura delle sinapsi.

il Riformista 27.11.08
L'Osservatore sbatte Galileo in prima pagina
di Paolo Rodari


La pace definitiva (nonostante le ferite restino) tra la Chiesa cattolica e Galielo Galilei avverrà nel corso del 2009, l'anno nel quale l'Onu ha deciso di celebrare il quattrocentesimo anniversario delle prime osservazioni astronomiche che Galileo realizzò nel 1609 puntando il suo cannocchiale verso il cielo. Certo, c'erano stati in passato una serie di mea culpa di Papa Wojtyla in merito. Ma è anche vero che alla Chiesa, nel tempo del pontificato di Joseph Ratzinger, più che i mea culpa interessa una corretta revisione del tempo che fu. E, nel merito del caso Galileo, una pacificazione che riconosca gli errori della Chiesa senza però accollarsi colpe che non ci sono.
Nel 2009, dunque, questa operazione pace/verità sarà sancita a suon di incontri, approfondimenti e, pure, come ha detto due giorni fa monsignor Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio consiglio per la cultura, da una ripubblicazione degli atti del processo allo scienziato pisano, con quella sentenza di condanna che, secondo quanto ha detto il presule confermando che non ci può essere riappacificazione senza verità, mai fu firmata dal Pontefice anche a motivo del fatto che i cardinali non raggiunsero un accordo in merito. Una pace che, per dovere di cronaca, nonostante le anticipazioni di diversi organi di stampa nei mesi scorsi, non vedrà il posizionamento di una statua dello scienziato in Vaticano: dicono oltre il Tevere che il progetto che doveva vedere Finmeccanica donare la statua alla Santa Sede sia tramontato per problemi economici. La Santa Sede, in sostanza, avrebbe dovuto accollarsi gran parte della spesa ma la spesa sarebbe stata troppo onerosa.
Oggi, significativamente, è l'Osservatore Romano a pubblicare in prima pagina un articolo di padre José Gabriel Funes, direttore della Specola Vaticana, con un titolo che soltanto qualche anno addietro sarebbe stato impossibile: «Grazie, Galileo». Grazie per l'impegno a favore del copernicanesimo e della Chiesa stessa (nonostante il drammatico scontro di alcuni uomini di Chiesa con lo scienziato abbia lasciato delle ferite ancora oggi aperte). E grazie perché, se è vero che senza la Chiesa cattolica non ci sarebbe stato Galileo, è altrettanto vero - sono parole di padre Funes - «che forse non ci sarebbe stata una Specola Vaticana senza Galileo».Ieri, in questa lunga strada verso la pace/verità, è stato il giorno del cardinale Tarcisio Bertone. In un importante convegno promosso dal "ministero" vaticano della cultura diretto da Ravasi e da Finmeccanica, il segretario di Stato vaticano è andato in qualche modo oltre i precedenti mea culpa wojtyliani. E anche qui, per dare il tono della cosa, occorre rifarsi al titolo che dà l'Osservatore quest'oggi all'intervento del porporato pubblicato (in parte) a pagine cinque: "Due ali per volare verso la verità". Che sta a significare: scienza e fede non sono nemiche, come le sofferenze patite da Galileo potrebbero far desumere, ma sono due ali che assieme possono portare l'uomo ad avvicinarsi alla verità delle cose. Lo stesso Galileo - ha detto Bertone - era un uomo che ha vissuto tenendo assieme le due cose: «Uomo di scienza, ha pure coltivato con amore la sua fede e le sue profonde convinzioni religiose». E gli errori commessi nei suoi confronti, furono dovuti principalmente «alla mentalità dell'epoca».