martedì 2 dicembre 2008

l'Unità 1.12.08
Basaglia e i governi di destra
di Luigi Cancrini


Vivo, come tanti altri, l'inferno della malattia mentale con gli infiniti difficilissimi problemi da affrontare quotidianamente, primo fra tutti far riconoscere a Massimo che è malato e che deve accettare le cure. Ma Massimo perde anche il posto di lavoro, perché si è ammalato. Se si è molto malati si è licenziati.

Quella che aumenta immediatamente in tempi di crisi è la disoccupazione e, con la disoccupazione, la difficoltà di difendere le nicchie di lavoro protetto faticosamente costruite in tanti anni di lotta politica e sindacale. Nel privato prima di tutto perché le assunzioni dei precari avvengono senza previsione di quote per i diversamente abili e perché, per i precari, la possibilità di continuare a lavorare diminuisce non solo se si è malati ma anche se si aspetta un bambino o si ha in mente di volerIo. Ma nel pubblico, ugualmente, perché i tagli incidono duramente sul funzionamento di quelle iniziative che in modo diretto o indiretto danno lavoro ai più deboli. Affrontare una crisi economica grave guidati da un governo di destra che tratta solo con i padroni e con i sindacalisti disposti a piegare il capo, determinerà problemi sempre più gravi anche a questo livello, dunque, perché i malati di mente sono prima di tutto persone deboli. Come per primo indicò Basaglia insegnandoci che curare i pazienti psichiatrici vuoI dire prima di tutto sforzo di reinserirli.

il Riformista 2.12.08
Parisi: «Il Pd si è dissolto, è una casa delle libertà»
intervista di Stefano Cappellini


Intervista. Per l'ex ministro della Difesa le inchieste sulle giunte democrat sono l'altra faccia della crisi interna: «Quando un partito smette di esistere prevalgono solo i disegni personali, buoni o cattivi che siano». Esempi: «Gravissimo che Fassino firmi il manifesto del Pse e Chiamparino fondi il partito del nord».
Dice Parisi: «Magari tra D´Alema e Veltroni scoppiasse una guerra vera. Sarebbe utile alla ...

«Mi faccia fare la parte di Parisi. Qui non c'è solo un partito privo di linea, e con una leadership che ha perso per strada la sua legittimazione. Qui è il partito che non c'è proprio più. Sembra dissolto». Così Arturo Parisi riassume al Riformista il senso ultimo delle difficoltà del partito di cui è tra i fondatori, il Pd, agitato da contrasti interni, dall'irrisolto nodo della collocazione europea e, soprattutto, dalle inchieste che hanno investito molte e importanti amministrazioni locali guidate dal centrosinistra. «Viviamo - dice l'ex ministro della Difesa - in un territorio terremotato. Vanno moltiplicandosi episodi che non è difficile collocare all'interno della categoria della patologia della politica, non certo della fisiologia».
Il Pd è alle prese con una nuova questione morale?
Resisterei all'idea che la quantità di problemi locali iscritti sotto l'etichetta del Pd sia superiore a quella degli altri partiti. Diciamo che nell'ultima settimana siamo in vantaggio noi. Ma ho difficoltà a riconoscere un filo che unisca tutti questi episodi, tra loro molto diversi. Allo stesso tempo è evidente che nella comunicazione tendono a essere unificati come parte di un fenomeno unico.
E che spiegazione si è dato?
È inevitabile che a guidare la lettura di qualsiasi analista sia il riconoscimento della crisi profonda che attraversa il Pd, tanto più profonda quanto più negata. La disfatta politica dello scorso aprile, il risultato nazionale, quello di Roma e il crollo in Sicilia, si è ingigantita. È un fantasma che aleggia su ogni episodio.
E che c'entra con le inchieste?
La dinamica che emerge fa capo a comportamenti individuali non più controllati da decisioni collettive, di gente che persegue autonomamente un proprio disegno personale, in totale autonomia. Se poi agisca nel rispetto della legge o meno, in nome dell'interesse privato o pubblico, è una questione successiva.
Il Pd aveva un vantaggio strategico nella qualità del suo ceto amministrativo. L'ha perso?
Detto con distacco professionale, credo che il nostro quadro politico di base sia ancora di qualità decisamente superiore a quello della parte a noi avversa. Semmai proprio questo può diventare un problema. Nel momento in cui si afferma la logica del "liberi tutti", la qualità non riconosciuta diventa essa stessa una delle componenti del caos. All'origine di questa corsa a mettersi in proprio sta anche la perdita di fiducia nelle decisioni collettive e l'incapacità di premiare il merito.
Lei parla di merito e qualità ma, al netto delle eventuali responsabilità penali, non sono esattamente le caratteristiche che emergono dalle cronache degli ultimi giorni.
Ma come stupirsi? Se sono patologici i fatti che si presentano come trasgressione della legge - lasciamo perdere la morale - ancor prima e ancor più gravi sono i fatti che trasgrediscono la legalità del partito.
A cosa si riferisce?
Fassino ha appena firmato il manifesto del Pse. È cosa di una gravità così forte che il solo fatto che non venga rilevato è prova dell'inesistenza del partito. Il ministro ombra per le relazioni Estere che firma in quanto segretario dei Ds, cioè di un partito defunto, il manifesto di un partito al quale il Pd non aderisce!
Più di metà partito viene dal Pse. Conterà qualcosa.
Il fatto è che le scelte rispetto al Pse vengono proposte come continuazione del passato, non come un cammino nuovo. Come non possiamo andare in Europa in ordine sparso, così nessuno può invitare altri ad accodarsi al proprio passato. Servono novità e originalità, oppure siamo morti.
Tutto giusto, ma poi la scelta è inevitabile: o col Pse o fuori.
Occorre presentarsi alle elezioni forti di un'iniziativa europea e non come partito nazionale, che è costretto alla fine a scegliere tra iniziative altrui. Il nostro compito è avviare una iniziativa capace di stabilire rapporti con chiunque sia esterno al campo conservatore.
Cosa pensa dell'iniziativa di Chiamparino per il Pd del nord?
Un altro esempio di quel liberi tutti di cui si parlava. Il ministro ombra delle Riforme istituzionali, che si occupa per definizione della scrittura delle regole comuni, lancia l'idea di un Pd del nord dimenticando che, essendo i partiti pensati in funzione della Repubblica, varare un partito del nord significa pensare a un repubblica che si articola non più in regioni ma in macroregioni, la proposta che i leghisti considerano da sempre la loro bandiera. E lo propone senza che il Pd ne abbia discusso e deciso da qualche parte. Alle obiezioni Chiamparino replica dicendo che le regole sono le regole, ma "se dovessimo seguirle non andremmo da nessuna parte". Ecco un altro invito a seguire la logica del fatto compiuto, che guida purtroppo il Pd fin dalla sua fondazione. Ho paura che sia il Pd la vera casa delle libertà.
Scusi?
Casa delle libertà. Con la differenza che quando Berlusconi ha sciolto Forza Italia non lo ha nemmeno messo ai voti. Non ne ha bisogno. Noi invece abbiamo rimesso in campo la categoria di partito, che per una quota significativa degli aderenti è scritto con la maiuscola, e ci siamo chiamati democratici. Si fa in fretta a dirlo. Se non siamo conseguenti le parole servono solo a misurare la nostra distanza dai fatti.
Lei è il padre delle primarie. Non pensa però che siano ormai l'alibi per mortificare la democrazia interna? Si chiama la gente a votare e per un tot si chiude ogni discussione.
E no! Questo è riuscito solo per le prime. In parte per quelle che chiamammo per Prodi, ancor più per quelle per Veltroni. Ma la creatura, per fortuna, ogni tanto sfugge di mano. Basta vedere la situazione che si è creata nella corsa a sindaco di Firenze e non solo.
Lei nella guerra tra D'Alema e Veltroni con chi sta?
Guerra? Magari. Quello che ci manca è una competizione: vera, leale, alla luce del sole, e, soprattutto, politica. Questa sì che potrebbe avviare una dinamica utile. In scena è invece solo una dialettica di potere personale ereditata dal passato.
Possibile non la convinca nulla della linea di Veltroni?
Vedo che ha minacciato un "Lingotto due". Ma che vuol dire? Già "lingotto" mi fa pensare a una pietra."Lingotto due" sembra l'annuncio di una lapidazione.

Repubblica 2.12.08
La via maestra per il testamento biologico
di Stefano Rodotà


Misura, rigore, pulizia del linguaggio, rispetto degli altri. Sono queste, o dovrebbero essere, le regole d´ogni discorso pubblico, soprattutto quando si tocca la sfera delicatissima, insondabile forse, della vita stessa delle persone. Non è così nei giorni drammatici che hanno seguito la parola difficile e serena con la quale i giudici della Corte di Cassazione hanno chiuso la vicenda giuridica della sorte di Eluana Englaro. Toni violenti, là dove si richiedeva silenzio. Distorsioni dei dati clinici, là dove si chiedeva ascolto delle conoscenze scientifiche. Improvvisazione giuridica, là dove è indispensabile la consapevolezza delle tecniche da adoperare. E tutto questo avviene mentre contro i genitori di Eluana si levano impietose le istituzioni che rifiutano la loro collaborazione, si alimenta una impietosa ostilità pubblica.
Ma si è pure aperta una fase che ci interessa tutti, poiché sembra che le diverse forze politiche siano d´accordo per approvare al più presto una legge sul testamento biologico. Come, però? Con quali motivazioni e quali finalità? Avremo una legge seria e umana o un nuovo esempio di legislazione ideologica?
Da molte parti, ministro della Giustizia compreso, si afferma che questa legge sarebbe necessaria "per colmare un vuoto legislativo". È una affermazione che non corrisponde alla realtà, che continua a insinuare il sospetto che i giudici, affrontando nell´arco di diciassette anni la vicenda di Eluana, siano responsabili di una forzatura, abbiano creato illegittimamente diritto, invadendo il campo riservato al legislatore.
La tesi di una Cassazione che si sostituisce al potere legislativo, e così viola i principi della separazione tra i poteri, era alla base del conflitto sollevato dal Parlamento davanti alla Corte costituzionale. Ma i giudici costituzionali hanno dichiarato inammissibile il conflitto e hanno detto esplicitamente che i provvedimenti della magistratura non sono stati usati "per esercitare funzioni di produzione normativa o per menomare l´esercizio del potere normativo da parte del Parlamento" (ordinanza n. 334). I giudici, dunque, hanno agito legittimamente. E questo vuol dire che si sono serviti del diritto vigente, di norme che già esistono nel nostro sistema e che sono adeguate per risolvere in futuro casi come quelli di Eluana. Non un "vuoto", dunque, ma un "pieno" di diritto.
È proprio su questo "pieno" che si vuole intervenire. La conversione di molti ambienti fino a ieri contrari alla legislazione sul testamento biologico, la Chiesa in primo luogo, è eloquente. Non si persegue una legislazione necessaria, si cerca una rivincita. Per questo, per creare un clima di allarme e così imporre una legge che limiti quel diritto all´autodeterminazione della persona già riconosciuto dalla Costituzione e da altre norme, si dipingono i giudici come assassini e eversori. È una vecchia tecnica, che produce solo cattive leggi e inammissibili restrizioni dei diritti. Ricordate i tempi della legge sulla procreazione assistita? Si diceva che era indispensabile per eliminare il far west procreativo. E invece lo ha creato. Oggi migliaia di donne italiane vanno in altri Stati, chiedono un provvisorio "asilo politico" per sfuggire all´assurdo proibizionismo della legge italiana, e possono finire in paesi, dall´Ucraina alla Slovenia, dove gli interventi non offrono sufficienti garanzie né alla donna, né alla persona che nascerà.
Il quadro delle norme che già oggi, in Italia, consentono di rifiutare le cure e di morire con dignità, è chiarissimo. Lo ha detto la Corte di Cassazione in una esemplare sentenza dell´ottobre dell´anno scorso, lo ha ribadito nell´ultima sua sentenza. I giudici hanno ancorato i loro ragionamenti ad una serie amplissima di norme: gli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione; la Convenzione sui diritti umani e la biomedicina del Consiglio d´Europa; la Carta dei diritti fondamentali dell´Unione europea; la legge sul Servizio sanitario nazionale del 1978; gli articoli del Codice di deontologia medica. Hanno richiamato sentenze della Corte costituzionale e precedenti della stessa Cassazione. Il punto di partenza è rappresentato dall´ormai indiscutibile principio del consenso informato, dal quale discende il "potere della persona di disporre del proprio corpo" (così la Corte costituzionale nel 1990) e quindi l´illegittimità di qualsiasi intervento che prescinda dalla sua volontà. Da qui l´imperativa indicazione dell´art. 32 della Costituzione, che vieta qualsiasi trattamento che possa violare "il rispetto della persona umana". Qui si fonda il diritto di rifiutare qualsiasi cura.
Da questo quadro costituzionale il Parlamento non può prescindere. Il suo intervento, allora, deve avere come unico obiettivo il consentire a ciascuno di esprimere liberamente e responsabilmente la propria volontà per dettare le regole del morire nel caso in cui lo stato di incapacità in cui si trova gli impedisca di esercitare in quel momento il suo diritto al rifiuto dei trattamenti, come hanno potuto fare Piergiorgio Welby e Giovanni Nuvoli. Una legge sul testamento biologico (meglio, sulle direttive anticipate) deve essere sintetica, lineare, chiara, immediatamente comprensibile. Non deve risolvere un problema della politica, ma riconoscere un diritto dei cittadini. Deve affrontare solo le questioni necessarie per definire la validità delle direttive anticipate, non temi confinanti, ma distinti, quali sono quelli riguardanti il consenso informato e il rifiuto di cure, l´accanimento terapeutico e il suicidio assistito.
La strada è ulteriormente spianata dal chiarissimo articolo 408, dove si prevede che, "in previsione della propria futura incapacità", una persona possa designare "un amministratore di sostegno" perché siano rispettate le sue indicazioni nel caso in cui si trovi in stato vegetativo permanente. Di nuovo un "pieno" di diritto, già utilizzato dai giudici su richiesta delle persone interessate.
Questo cammino lineare non sarà facile da percorrere. Si dice nuova legge, ma molti preparano una restaurazione. Vi è una dura posizione di parlamentari cattolici con proposte che escludono il valore vincolante del testamento biologico e la possibilità di rinunciare a trattamenti come l´alimentazione e l´idratazione forzata, cercando così di imporre un punto di vista che mortifica la libertà delle persone e ignora le indicazioni della scienza. Ma il mondo cattolico non è monolitico, e bisognerebbe prestare attenzione a tutti le voci. Anche se sembra lontana la possibilità di avere in Italia una posizione della Conferenza episcopale analoga a quella della Conferenza spagnola che, presentando il suo "testamento vital", scrive che la volontà della persona deve essere "rispettata come se si trattasse di un testamento" (escludendo così la possibilità di un rifiuto o di una obiezione di coscienza da parte dei medici) e, con dichiarazione particolarmente impegnativa, sottolinea che la persona considera che "la vita in questo mondo sia un dono e una benedizione di Dio, ma non è il valore supremo assoluto".

Repubblica 2.12.08
Crocifisso. Una legge per abolirlo
I vescovi e il potere
Parla il filosofo spagnolo Fernando Savater


La Spagna è un Paese in cui il principio di aconfessionalità e laicità dello Stato è solennemente sancito dalla Costituzione democratica votata trent´anni fa. La Chiesa è in crisi e alla fine dovrà accettare di veder ridimensionato il proprio ruolo

MADRID. «Macché guerra del crocifisso. Diciamo la verità, se si fosse trattato di una statua di Buddha, sarebbe stato esattamente uguale. Qui il problema non è il crocifisso, non credo che esista nessuna ostilità preconcetta a quello che rappresenta. Quello che sì esiste, ed è pienamente giustificato, è un´avversione totale e incondizionata al fatto che si impongano dei simboli». In Spagna, il filosofo Fernando Savater può essere considerato l´intellettuale laico per eccellenza per come ha sempre difeso, con estremo spirito critico, il principio della aconfessionalità dello Stato. «L´unica cosa veramente chiara sulla laicità della nostra democrazia», ha scritto appena un mese fa su El País, «è la sua insufficienza».
Professor Savater, ma allora perché quello della presenza dei crocifissi nelle scuole continua a essere un tema che scalda tanto gli animi?
«La risposta è molto semplice: per la vera e propria deformazione del problema che viene fatta, come al solito, dalla gerarchia ecclesiastica. Qui non esiste nessuna "cristofobia", come vogliono farci credere. Non c´è nessuna Chiesa assediata o rifiutata. La realtà è che non esiste nessun motivo in base al quale i crocifissi dovrebbero continuare a restare appesi nelle pareti delle scuole spagnole. Questo è un paese in cui il principio di laicità e aconfessionalità dello Stato è solennemente sancito nella Costituzione democratica votata giusto trent´anni fa. Sarebbe ora di cominciare finalmente ad applicarlo. Loro, se vogliono i crocifissi, dispongono delle scuole cattoliche e confessionali: è l´unica sede dove è logico e naturale che vengano esposti».
Non crede, quindi, che i contrasti che questa questione continua a suscitare possano derivare dalla reazione di rifiuto che la Chiesa ha provocato in molti spagnoli per il suo sostegno alla dittatura franchista?
«In qualche caso è possibile, ognuno ha le sue idee ed è ipotizzabile che ci sia ancora chi conserva un ricordo negativo di quell´epoca in cui il crocifisso era lì a simboleggiare un´educazione cattolica imposta dallo Stato. Se c´è una reazione di rifiuto è giustificabile, ma dubito che ci sia chi voglia alimentare nuove tensioni».
A suo giudizio, allora, è la Chiesa che alimenta la strategia della contrapposizione frontale?
«È l´unica strada che ha per difendere una posizione che è ormai diventata indifendibile. Questo Stato è laico, e dovranno finire per accettarlo. Il problema è che la Spagna continua a essere, nonostante tutto, uno dei paesi in cui la Chiesa cattolica gode di più privilegi e di un riconoscimento pubblico smisurato rispetto alla sua presenza reale nei comportamenti quotidiani dei cittadini. Qui vigono ancora gli accordi antidemocratici stipulati nel 1979 con la Santa Sede e che un governo realmente progressista avrebbe dovuto rivedere da tempo. E si è persino aumentato il contributo economico alla Chiesa che, attraverso le imposte, pagano tutti i cittadini spagnoli».
Eppure, professor Savater, il governo socialista di Zapatero ha fatto della laicizzazione dello Stato la propria bandiera, tanto che è visto dalla gerarchia ecclesiastica come il fumo negli occhi.
«Il vero guaio è che il Partito socialista è specialista nel fare sempre un passo avanti e due passi indietro. Assume impegni concreti, elabora grandi affermazioni di principio che poi, troppo spesso, restano per aria».
Sul caso dei crocifissi, hanno detto che dovrebbero essere rimossi.
«Ma anche lì si sono sbagliati. È assurdo che il ministro dell´Educazione dichiari che la decisione dev´essere affidata alle singole scuole. Che un crocifisso venga rimosso o resti appeso alla parete a seconda che ci sia o no un genitore che lo chiede. Se si sceglie questa strada, allora sì che si può scatenare una guerra. Se esiste una normativa, che sia valida per tutti, si applica e basta. E´ questa l´unica soluzione».
Per i vescovi, potrebbe essere il pretesto per lanciare nuove mobilitazioni di piazza, come già hanno fatto contro i matrimoni gay e l´abolizione dell´obbligatorietà dell´ora di religione a scuola.
«Non credo che arriveranno a tanto, non penso che ci saranno nuove mobilitazioni. Tanto più che, se ne saranno resi conto, riescono a mobilitare sempre di meno. Questa Chiesa è in crisi, e alla fine dovrà accettare di veder ridimensionato il proprio ruolo. Che gli piaccia o no».
Sarà un cammino probabilmente ancora molto lungo.
«Immagino di sì, un cammino lungo. Ma questo è qualcosa che sapete molto bene anche in Italia, dove la Chiesa continua ad avere un ruolo e una presenza molto simile, se non superiore, a quella che esercita nella società spagnola».

Repubblica 2.12.08
Muti all'Opera
"La cultura in Italia va difesa tutta sbagliato innaffiare solo pochi fiori"
intervista di Leonetta Bentivoglio


Sono confusi: i ragazzi devono poter costruire se stessi da un punto di vista culturale
Non sono contro l´intrattenimento ma ci sono cose in tv raccapriccianti e ipocrite
L´Italia è piena di teatri prestigiosi: individuare solo le eccellenze è sbagliato
È una partitura impegnativa. Ma in questa orchestra i musicisti sono bravi e capiscono Verdi
Il direttore d'orchestra per la prima volta a Roma con "Otello"

ROMA. Sbarca all´Opera di Roma, senza uragani né tempeste, l´Otello di Verdi diretto da un verdiano acclamato come Riccardo Muti: sarà il suo esordio nel teatro della capitale. Prova generale aperta al pubblico il 4, con incasso destinato all´Anlaids. Debutto il 6 con successive repliche, esaurite da mesi, fino al 14. Regia di Stephen Landgridge: è una coproduzione con Salisburgo, dove lo spettacolo, sempre con Muti e gran parte degli stessi cantanti (Aleksandrs Antonenko nel ruolo del Moro, Marina Poplavskaya come Desdemona), andò in scena ad agosto. A Roma, durante le prove quotidiane, l´emozione è tangibile. Tutti paiono galvanizzati dal maestro, o forse spaventati dagli aggettivi che si porta dietro: toscaniniano, intransigente, autoritario... Può entrare in sintonia, un tale carismatico temperamento, con un teatro spesso definito pigro e incolto? Certo che può. Anche il custode, di fronte al viavai di curiosi che anelano all´ingresso in sala, pare eccitato e fiero; anche le maschere, nel buio della platea, fremono quando Desdemona, chioma avvolgente come un mantello aureo, intona la Canzone del Salice: un lamento di cristallo. Vibra l´orchestra insieme a lei.
«Il clima è straordinario», racconta Muti di gran buonumore. «C´è disciplina, attenzione, partecipazione; e quest´orchestra ha cultura e istinto. Doti necessarie per Otello, la cui complessa partitura richiede virtuosismo tecnico, immaginazione e capacità di creare i timbri sofisticati dell´ultimo Verdi. Qui vivo un momento di isola felice, ma la parola "isola" non dovrei usarla, è abusata per colpa di certi programmi tivù... Insomma, è un´esperienza di lavoro positiva, molto al di sopra di quanto mi aspettavo. Il che fa riflettere sul concetto di eccellenza applicato a certe istituzioni».
Si riferisce all´annuncio dei tagli alla cultura, dove le istituzioni musicali segnalate come «eccellenti» sono state solo la Scala e Santa Cecilia?
«Musicalmente l´Italia è diversa dall´Inghilterra, che pur coi suoi tanti teatri s´identifica col Covent Garden di Londra; o dall´America, che sente il Met di New York come centro della propria cultura musicale. Invece l´Italia, che ha dato i natali dell´opera, è piena di teatri dalla storia prestigiosa: San Carlo, Fenice, Maggio Fiorentino, Bologna con la sua tradizione wagneriana... Individuare solo un paio di realtà è anti-storico. L´intero percorso della musica italiana è fondamentale: non si può essiccare il terreno per innaffiare due o tre fiori. Pensiamo poi alla quantità dei nostri conservatori: un´ottantina. Ma non si è fatto nulla per aumentare le orchestre: intere regioni ne sono prive. Perché centuplicare gli studenti per condannarne tanti alla disoccupazione? In America, oltre alle grandi orchestre, centinaia di formazioni fanno capo a piccole comunità, con sostanziose stagioni di concerti. Eppure non mi pare che dal punto di vista finanziario gli Stati Uniti stiano meglio di noi».
Però la vita delle orchestre americane non dipende dallo Stato.
«Se favorissimo il sostegno dei privati alle fondazioni liriche defiscalizzando i contributi sarebbe enorme lo sgravio per il governo. Però non è il nostro sistema, questo non fa parte della nostra tradizione. Da noi lo Stato deve interessarsi di più alla cultura. Conosco il ministro Bondi e mi sembra attento ai problemi culturali: seguendo un mio appello di qualche tempo fa, cerca di dare una mano alle bande comunali, una ricchezza italiana che rischia di sparire. Non è lui che accuso: l´idea che la cultura debba pagare lo scotto della crisi mi pare più generale. E pericolosissima».
Può spiegare perché?
«Incombe la decadenza: i giovani sono confusi, sbandati. Bisogna dare loro la possibilità di costruire se stessi da un punto di vista culturale ed etico, non codino né reazionario. Porli di fronte alla comunità con senso civico e disciplina. La consistenza della nostra gente si sta annacquando. Anche per colpa di certe trasmissioni televisive raccapriccianti, dove sotto la parvenza di messaggi umani e sociali si espongono di fronte a milioni di persone i dolori personali. Non sono affatto contro l´intrattenimento, ma divertimento non significa volgarità e ipocrisia. È vitale non prescindere dal patrimonio della memoria, rilanciando nel futuro le nostre radici culturali. Girando il mondo mi accorgo che l´immagine dell´Italia ha perso brillantezza».
Ha detto spesso di aver preso le distanze dal suo paese. E si è legato agli Stati Uniti diventando direttore musicale dell´Orchestra di Chicago. Eppure guida l´Orchestra Cherubini, tutta di giovani italiani. E qui a Roma eseguirà un´opera all´anno fino al 2011. Inoltre il 7 febbraio dirigerà un concerto a Napoli per la riapertura del San Carlo. Sembra fortissimo il suo attaccamento all´Italia...
«Non mi riconosco nell´approssimazione italiana, nell´eccessiva politicizzazione, negli atteggiamenti spavaldi e tribuneschi di piccoli gruppi di mediocri che mettono in ginocchio grandi istituzioni. Eppure in Italia ci sono personalità individuali formidabili. Con gli strumentisti che abbiamo si potrebbe fare una delle migliori orchestre del mondo. E malgrado tutto sono profondamente italiano, orgoglioso della mia cultura e pronto a diffonderla nel mondo».

Corriere della Sera 2.12.08
Quando, negli anni 70, eravamo noi a nasconderci
I 30 mila bimbi italiani clandestini in Svizzera
di Gian Antonio Stella


Anni Settanta Quando Berna ostacolava i ricongiungimenti familiari dei nostri emigranti. E i mariti assumevano le mogli come domestiche per farle arrivare
«Non ridere, non piangere, non giocare» I 30 mila piccoli italiani illegali in Svizzera

Le mogli e i bambini degli immigrati? «Sono braccia morte che pesano sulle nostre spalle. Che minacciano nello spettro d'una congiuntura lo stesso benessere dei cittadini. Dobbiamo liberarci del fardello». Chi l'ha detto: qualche xenofobo nostrano contro marocchini o albanesi? No: quel razzista svizzero di James Schwarzenbach. Contro gli italiani che portavano di nascosto decine di migliaia di figlioletti in Svizzera. E non nell' 800 dei dagherrotipi: negli anni Settanta e Ottanta del '900.
Quando Berlusconi aveva già le tivù e Gianfranco Fini era già in pista per diventare il leader del Msi.
Per questo è stupefacente la rivolta di un pezzo della destra contro la sentenza della Cassazione, firmata da Edoardo Fazzioli, che ha assolto l'immigrato macedone Ilco Ristoc, denunciato e processato perché non si era accontentato di portare in Italia con tutte le carte in regola (permesso di soggiorno, lavoro regolare, abitazione decorosa) solo la moglie e il bambino più piccolo ma anche la figlioletta Silvana, che aveva 12 anni. Cosa avrebbe dovuto fare: aspettare di avere un giorno o l'altro l'autorizzazione ulteriore e intanto lasciare la piccola in Macedonia? A dodici anni? Rischiando addirittura, al di là del trauma, il reato di abbandono di minore? Macché. Il leghista Paolo Grimoldi, indignato, si è chiesto «se la magistratura sia ancora un baluardo della legalità oppure il fortino dell'eversione». E la forzista Isabella Bertolini ha bollato il verdetto come «un'altra mazzata alla legalità » e censurato la «legittimazione di un comportamento palesemente illegale». Lo «stato di necessità » previsto dalla legge e richiamato dalla suprema Corte, a loro avviso, non è in linea con le scelte del Parlamento.
L'uno e l'altra, come quelli che fanno loro da sponda, non conoscono niente della grande emigrazione italiana. Niente. Non sanno che larga parte dei nostri emigrati, almeno quattro milioni di persone, è stata clandestina. Lo ricordano molte copertine della Domenica del Corriere, il capolavoro di Pietro Germi «Il cammino della speranza», decine di studi ricchi di dettagli (tra cui quello di Simonetta Tombaccini dell'Università di Nizza o quello di Sandro Rinauro sulla rivista «Altreitalie» della Fondazione Agnelli) o lo strepitoso reportage in cui Egisto Corradi raccontò sul Corriere d'Informazione
del 1947 come aveva attraversato il Piccolo San Bernardo sui sentieri dei «passeur» e degli illegali.
Non conoscono storie come quella di Paolo Iannillo, che fu costretto ad assumere sua moglie come domestica per portarla a vivere con lui a Zurigo. Ma ignorano in particolare, come dicevamo, che la Svizzera ospitò per decenni decine di migliaia di bambini italiani clandestini. Portati a Berna o Basilea dai loro genitori siciliani e veneti, calabresi e lombardi, a dispetto delle leggi elvetiche contro i ricongiungimenti familiari. Leggi durissime che Schwarzenbach, il leader razzista che scatenò tre referendum contro i nostri emigrati, voleva ancora più infami: «Dobbiamo respingere dalla nostra comunità quegli immigrati che abbiamo chiamato per i lavori più umili e che nel giro di pochi anni, o di una generazione, dopo il primo smarrimento, si guardano attorno e migliorano la loro posizione sociale. Scalano i posti più comodi, studiano, s'ingegnano: mettono addirittura in crisi la tranquillità dell'operaio svizzero medio, che resta inchiodato al suo sgabello con davanti, magari in poltrona, l'ex guitto italiano».
Marina Frigerio e Simone Burgherr, due studiosi elvetici, hanno scritto un libro in tedesco intitolato «Versteckte Kinder» (Bambini nascosti) per raccontare la storia di quei nostri figlioletti. Costretti a vivere come Anna Frank. Sepolti vivi, per anni, nei loro bugigattoli alle periferie delle città industriali. Coi genitori che, terrorizzati dalle denunce dei vicini, raccomandavano loro: non fare rumore, non ridere, non giocare, non piangere. Lucia, raccontano Burgherr e la Frigerio, fu chiusa a chiave nella stanza di un appartamento affittato in comune con altre famiglie, per una vita intera: «Uscì fuori per la prima volta quando aveva tredici anni». Un'altra, dopo essere caduta, restò per ore ad aspettare la mamma con due costole rotte. Senza un lamento.
Trentamila erano, a metà degli anni Settanta, i bambini italiani clandestini in Svizzera: trentamila. Al punto che l'ambasciata e i consolati organizzavano attraverso le parrocchie e certe organizzazioni umanitarie addirittura delle scuole clandestine. E i nostri orfanotrofi di frontiera erano pieni di piccoli che, denunciati dalla delazione di qualche zelante vicino di casa, erano stati portati dai genitori appena al di qua dei nostri confini e affidati al buon cuore degli assistenti: «Tenete mio figlio, vi prego, non faccio in tempo a riportarlo a casa in Italia, è troppo lontana, perderei il lavoro: vi prego, tenetelo». Una foto del settimanale
Tempo illustrato n. 7 del 1971 mostra dietro una grata alcuni figli di emigranti alla Casa del fanciullo di Domodossola: di 120 ospiti una novantina erano «orfani di frontiera». Bimbi clandestini espulsi. Figli nostri. Che oggi hanno l'età di Grimoldi e della Bertolini.
Dicono: la legge è legge. Giusto. Ma qui il principio dei due pesi e delle due misure nella Costituzione non c'è. E la realtà dice che almeno un milione di italiani vivono oggi in condizioni di sovraffollamento nelle sole case popolari senza essere, come è ovvio, colpiti da alcuna sanzione: non si ammanettano i poveri perché sono poveri. A un immigrato regolare e a posto con tutti i documenti che sogna di farsi raggiungere dalla moglie e dai figli esattamente come sognavano i nostri emigrati, la nuova legge chiede invece non solo di dimostrare un reddito di 5.142 euro più altri 2.571 per la moglie e ciascuno dei figli ma di avere a disposizione una casa di un certo tipo. E qui la faccenda varia da regione a regione. In Liguria ad esempio, denuncia l'avvocato Alessandra Ballerini, in prima linea sui diritti degli immigrati, occorre avere una stanza per ogni membro della famiglia con più di 14 anni più un vano supplementare libero (esempio: il salotto) più la cucina e più i servizi igienici. Il che significa che una famiglia composta da padre, madre e quattro figli adolescenti dovrebbe avere una casa con almeno sei stanze. Quanti italiani hanno la possibilità di vivere così? Quando vinse la Coppa dei Campioni, coi soldi dell' ingaggio e del premio per la coppa, Gianni Rivera comprò un appartamento a San Siro.
Il papà e la mamma dormivano nella camera matrimoniale, il fratello nella cameretta e lui in un divano letto in salotto. Se invece che di Alessandria fosse stato di Belgrado, sarebbe stato fuorilegge. Ed era Gianni Rivera. Il campione più amato da un'Italia certo più povera. Ma anche più serena di adesso.

Corriere della Sera 2.12.08
Pochi mesi dopo l'edizione critica, Salvatore Settis torna sul controverso manoscritto
Artemidoro e «il tigre»: così nel papiro spuntò uno strano francesismo
di Luciano Canfora


Georges Clemenceau divenne capo del governo francese il 16 novembre 1917. La guerra andava piuttosto male per l'Intesa, dopo la vittoria tedesca sul fronte orientale. Ci voleva un uomo di spietata capacità operativa, e tale fu il settantaseienne leader radical-socialista assurto al vertice nel momento del pericolo. Per i suoi aspri modi, fu popolarmente detto «le tigre ». Infatti «tigre » nella lingua francese è di genere maschile, come del resto maschile è la morte in tedesco e in greco. In Italia, specie dopo Caporetto, lo stile Clemenceau suscitava ammirazione. Il nomignolo tributatogli dai francesi fu subito adottato dalla nostra stampa e tradotto, col proposito di renderlo più intimorente, al maschile: «il tigre». Forma insolita nella nostra lingua, dove è più frequente «tigrotto» e più raro, invece, il femminile «tigretta». In greco antico l'unica forma è tigris, sia femminile che maschile; d'altra parte la radice, avestica, è tigri. Nel greco medievale la situazione non cambia, mentre nel greco moderno si ha tigris per il maschile e tigri per il femminile. Ecco perché ha fatto scalpore trovare sul
verso del cosiddetto «papiro di Artemidoro » (ma il vero Artemidoro non c'entra) il disegno di una maestosa tigre rampante, ritta su di un supporto roccioso e denominata, da un'imbarazzante didascalia, tigros. Una novità assoluta, quasi un francesismo.
Nell'edizione Led del cosiddetto Artemidoro (a cura di Kramer-Gallazzi- Settis-Cassio-Soldati-Adornato) veniva prospettato, con movenze stilistiche solenni, che potesse trattarsi «verosimilmente » di «uno sbaglio dell'estensore » ( sic) più che di una «forma eteroclita dell'usuale tigris ». Fortuna che non è stata sfoderata, anche per il tigre, la spericolata àncora di salvezza dei «nomi di origine popolare» o, a piacer vostro, «locale», che spesseggia nel tomo Led ogni qualvolta una didascalia crea imbarazzo.
Ad ogni modo, questa trovata relativa al tigre non figura più nel recentissimo volume einaudiano Artemidoro. Un papiro dal I secolo al XXI, di cui qui brevemente diremo. Il volume sembra destinato a mandare in soffitta l'edizione Led, uscita appena nello scorso marzo e già offerta, ad un pubblico selezionato, a metà prezzo. Riprendendo la conferenza pronunciata a Berlino al cospetto della prima copia dell'edizione Led, Salvatore Settis ha infatti dato vita ad una sorta di epitome di quanto già si leggeva nelle 630 pagine della citata edizione Led: memore forse del peso che le epitomi hanno avuto nella storia del vero Artemidoro.
L'epitome è un genere letterario minore, ma dignitoso e altruista. Marciano, ad esempio, nel fare dopo cinque secoli l'epitome di Artemidoro, addirittura annullò se stesso, e fece circolare l'epitome senz'altro sotto il nome di Artemidoro. (Nel caso einaudiano, invece, sembra essere accaduto il contrario). L'epitome è anche un genere che non impone l'aggiornamento: deve rispecchiare il già detto. Ecco perché qui, nel novissimo volumetto einaudiano, non ci si è presi la briga di discutere quanto è stato scritto prima, durante e dopo l'edizione Led, sullo stesso argomento. C'è solo un elenco di titoli nel Post-scriptum. Meno male: così, almeno, il lettore può andarsi comunque ad informare su come stanno realmente le cose.
Rarissime le innovazioni rispetto al tomo di marzo: vediamo di che si tratta. Per tamponare il disastro rappresentato dal toponimo Obleuion (colonna V) era stata suscitata in luglio, su di un quotidiano, l'ipotesi che tale toponimo fosse nientemeno che «celtico». Si sa quanto si può cavare dai sostrati, specie se celtici. La trovata viene ora accolta nel novissimo volume einaudiano, e propinata in modo personale: avremmo, nel papiro, che tutto sommato è scritto in greco, «la forma latina del nome celtico ( Oblivio) ». L'idea è fantastica. I Celti, forse una pattuglia post-hallstattiana spintasi verso nord, avevano creato il toponimo Obleuion; i Romani lo imitarono e, vedi fortuna, imbroccarono, ciò facendo, una parola latina, oblivio, che peraltro aveva una sua propria autosufficiente origine (radice lei, che si ritrova in lino/levis etc.). Un vero miracolo. Più saggiamente Bärbel e Johannes Kramer scrivevano, neanche dodici mesi fa, che Obleuion «no es otro que la grafia griega de la palabra latina» (Memorias de Clio, n. 5, 2007, p. 86).
Un'altra innovazione è, alla pagina 13, la foto di un grosso pezzo del papiro, addotto a testimoniare «le fasi dello smontaggio». Il bello è che quella foto, con altre quattro o cinque, la posseggo anch'io: mi giunse da un papirologo che la ebbe quando il cosiddetto Artemidoro giaceva, in grossi pezzi già distesi, in un box fuori Basilea in attesa di compratori. Ricordiamo che alcuni mesi addietro si parlava di almeno cinquanta piccoli frammenti risultati dallo smontaggio della «maschera» e sapientemente ricomposti col sudore della fronte. Come potrebbe lo smontaggio della «maschera» aver prodotto un pezzo così grande e in così buone condizioni? Il problema è che quanto scritto da Luigi Vigna sui Quaderni di storia (n. 68) e poi sul Giornale dell'arte di novembre in merito al totale silenzio degli editori sulle fasi di smontaggio dell'ex maschera funeraria da cui sarebbe sbucato fuori il cosiddetto Artemidoro costituisce un serissimo problema. È questo che induce a cercare rimedi peggiori del male.
Inutile dire che l'insormontabile inconciliabilità, da tempo e reiteratamente segnalata, tra la colonna IV del cosiddetto Artemidoro ed il già noto frammento 21 sussiste più che mai. Infatti nella colonna IV si legge, in contrasto con la realtà storica, che la provincia romana detta Spagna Ulteriore comprenderebbe (nell'anno 100 a.C.!) «tutta quanta la Lusitania», mentre invece, ben più correttamente, nel frammento si legge che quella provincia «si estende fino alla Lusitania». A lungo Kramer-Gallazzi-Settis sostennero che i due testi sono identici; ora invece riconoscono che sono diversi ( deo gratias) e che però, proprio perciò, il papiro può indisturbatamente essere Artemidoro mentre si deve ammettere (evviva) che il frammento è Marciano. Piroetta tragica. In questo modo finisce che l'autore dice una sciocchezza, mentre chi lo riassume dice il giusto. L'escamotage supremo, consistente nel dire che lì «Lusitania» è detto in senso «non amministrativo», è rovinoso, giacché la nozione «non ammini-strativa » ma geografica di Lusitania è molto più vasta, e di conseguenza l'inclusione di «tutta quanta la Lusitania» nella provincia romana già nel 100 a.C. diventa più che mai un'insostenibile assurdità.
Maas diceva che basta un solo argomento, purché forte. Noi non vorremmo essere così severi. Ci limitiamo a dire che l'eroica e vana difesa dell'«autenticità » del cosiddetto Artemidoro sta diventando un genere letterario. E questo parla da sé: per un papiro appena nato è proprio una sorte ria.

il Riformista 2.12.08
Epifani conferma lo sciopero
ma la Triplice ha voglia di unità
di Tonia Mastrobuoni


GRANDI MANOVRE. L'iniziativa Cgil parte con qualche "se" e "ma". Fissate le tappe verso la pace sindacale. Obiettivo: una mobilitazione unitaria a difesa di pensioni e redditi bassi.

Dopo una breve ma intensa stagione di gelo, nella Triplice sono riprese le grandi manovre di riavvicinamento. Appena un mese fa, sotto il palco della manifestazione unitaria del 30 ottobre contro il decreto Gelmini, Guglielmo Epifani e Raffaele Bonanni non avevano neanche incrociato gli sguardi. Dalla scorsa settimana i leader di Cgil e Cisl hanno ricominciato a parlarsi pubblicamente, ai convegni. Piccoli segnali, assieme all'intervista concessa domenica da Bonanni al Corriere (titolo eloquente, «pronto a un passo verso Epifani»), che preparano concretamente il terreno per un ritorno, in tempi ragionevoli, all'unità sindacale.
Il motivo è ovvio. Il paese sta scivolando velocemente verso un «orribile» 2009, come lo ha definito di recente il numero uno della Cisl, che rende indispensabile un fronte comune dei sindacati contro le emorragie nelle fabbriche. Naturalmente, di mezzo c'è lo sciopero generale solitario che la Cgil ha confermato ieri per il 12 dicembre. Tuttavia, nella testa di Bonanni e Angeletti quella mobilitazione è ormai un impedimento puramente temporale. Anche perché gli stessi leader Cisl e Uil non sono entusiasti del pacchetto anti crisi approvato venerdì scorso dal governo. Ieri la direzione nazionale della Uil ha promosso il provvedimento, ma ha osservato che «l'esiguità delle risorse approntate rischia di depotenziarne l'efficacia».
Dunque, dal giorno dopo lo sciopero generale, la strada per una convergenza con Epifani su una vertenza comune sarà in discesa. A giudicare dalle indiscrezioni potrebbe essere una battaglia per ottenere dal governo misure più incisive a favore dei pensionati e delle fasce più deboli. A favore di questa ipotesi gioca anche il fatto che Bonanni ha mal digerito i fischi ricevuti alla recente assemblea dei pensionati che hanno intonato a più riprese cori a favore dello sciopero. Già oggi, alla presentazione del rapporto sull'industria, il segretario generale della Cisl parlerà della necessità di tutelare i posti di lavoro e di ritrovare una posizione unitaria. Ma Bonanni attende anche un segnale concreto di ammorbidimento anche dai piani alti della Cgil.
Formalmente, questo segnale potrebbe arrivare a breve, dall'attesa la firma, solo per gli artigiani, della riforma del modello contrattuale già sottoscritta da tutti meno che da Epifani. Del resto, la disponibilità al dialogo sullo spinoso capitolo dei contratti è emersa anche dall'intervista di domenica di Bonanni, secondo il quale si può ricominciare a negoziare a partire dal documento unitario della Triplice, siglato in primavera. «Suggerisco a tutti, ma proprio a tutti, di rileggerlo e confrontarlo in controluce con le linee guida sottoscritte da Confindustria. L'80% delle questioni è lì», ha precisato. Un passaggio importante, nella strategia di distensione con Epifani.
Nel frattempo anche il leader della Cgil sta smussando gli angoli. Ufficialmente, come emerso dalla segreteria che ha confermato ieri la mobilitazione del 12, resta il giudizio negativo anti crisi. Perché «non rappresenta la svolta economica, sociale e fiscale della quale il paese ha bisogno», si legge nella nota diffusa el termine della riunione. Tuttavia, sarà uno sciopero generale con qualche "se" e "ma". Nei prossimi giorni potrebbero emergere, all'interno delle singole categorie, eventuali deroghe, ad esempio nelle fabbriche colpite più pesantemente dalla cassa integrazione e dalla mobilità.
Nella nota la Cgil riconosce anche che il governo, con la sospensione della detassazione degli straordinari e l'aggancio dei mutui nuovi al tasso della Bce, «dimostra che è possibile giungere ad alcuni risultati condivisi». In questa fase un abbassamento dei toni, anche sulle motivazioni dello sciopero, è un altro tassello importante, nella strategia di riavvicinamento con Cisl e Uil. A breve, una volta ritrovata l'unità, potrà partire la mobilitazione unitaria, a difesa dei pensionati e dei lavoratori più colpiti dalla crisi. E contro un governo che si è dimostrato timido e deludente, sul fronte della loro tutela.

il Riformista 2.12.08
E se provassimo a fare a meno dei partiti politici?
L'eretica, la mistica, la rivoluzionaria Simone ce lo suggerisce.
di Ritanna Armeni


Sono organizzazioni totalitarie in sé come dice Simone Weil? O forse hanno esaurito il loro compito storico e la democrazia oggi ha bisogno di nuovi pilastri

Mi è capitato di leggere in questi giorni un piccolo volume di Simone Weil titolato "Manifesto per la soppressione dei partiti politici". Una «modesta proposta» rimasta inedita e pubblicata dopo la sua morte che colpisce per la sua radicalità e la sua potenza.
«I partiti - scrive senza mezzi termini l'eretica Simone - sono organismi costituiti in maniera tale da uccidere nelle anime il senso di verità e di giustizia», perché sono costruiti proprio per «esercitare una pressione collettiva sul pensiero di ognuno degli esseri umani che ne fanno parte». «L'unico fine di qualunque partito politico - prosegue la Weil - è la sua propria crescita, e questo senza alcun limite», di conseguenza «è totalitario in nuce e nelle aspirazioni. Se non lo è nei fatti, questo accade solo perché quelli che lo circondano non lo sono da meno». La conclusione non ammette compromessi: «Se si affidasse al diavolo l'organizzazione della vita pubblica, non saprebbe immaginare nulla di più ingegnoso» e quindi «la soppressione dei partiti costituirebbe un bene quasi allo stato puro».
Il piccolo volume mi ha colpito molto. Per due motivi probabilmente molto personali e apparentemente contradditori. Quelle definizioni non contenevano quasi nulla di ciò che io avevo fino a quel momento pensato e detto dei partiti e che, con me, avevano pensato e detto molti altri. Ma nello stesso tempo quelle parole così drastiche, appassionate e definitorie mi convincevano, squarciavano un velo, portavano alla luce qualcosa che sapevo e che - paradossalmente - non avevo avuto il coraggio di pensare fino in fondo.
Lo so bene, oggi i partiti non godono di buona fama. Anche l'uomo della strada pensa che il loro fine è il potere. La scarsità di adesioni e di militanza indica che la sfiducia è profonda. La supremazia che i governi hanno ormai acquistato rispetto ai parlamenti e quindi ai partiti che qui sono rappresentati è un segnale inequivocabile della loro crisi.
Ma quelle parole vanno ancora più nel profondo e aprono nuove domande. Dicono che i partiti, non in conseguenza di condizioni date (Simone Weil scrive in pieno stalinismo e nazismo), ma in sé e per sé, in quanto organizzazioni del pensiero e dell'azione, ne contengono la soppressione, producono l'abolizione della libertà di espressione e delle idee di cambiamento.
Naturalmente so bene che, guardando alla storia, mi si potrebbe dimostrare il contrario. Ma il punto interessante non riguarda il passato bensì il presente. L'eretica Simone non stimola sull'analisi di quanto è avvenuto ieri ma sull'oggi e sul domani. La domanda che ci fa o alla quale ci induce è la seguente: la società moderna ha ancora bisogno dei partiti per produrre idee di cambiamento e per organizzarlo? Non stiamo assistendo oggi nel concreto della loro azione al fatto che non sono capaci né dell'uno né dell'altro? Chi dovrebbe sostituirli? E, ancora, se il loro fine, e quindi il fine della politica è il potere, è possibile separare l'una dall'altro? E - soprattutto - è giusto e utile?
Confesso che non so rispondere a queste domande. E a molte altre che Simone Weil con i suoi drastici assunti suggerisce. Ho, invece, alcune piccole certezze.
Negli ultimi anni non ho visto nascere nessuna idea, nessuna analisi convincente della realtà da un partito. È più facile, molto più facile, che essa nasca da un giornale, da un singolo intellettuale e persino da una discussione in un salotto.
Nei partiti di destra e di sinistra il conformismo è la regola. Ed è il conformismo la forma moderna del totalitarismo. La liberazione da esso, che pure alcuni attuano, è quasi obbligatoriamente simultanea all'abbandono del partito che, nel migliore dei casi, rimane uno stanco riferimento elettorale.
Separare il potere dalla politica non è una idea tanto astratta e velleitaria se è vero che milioni di persone si dedicano al volontariato, si organizzano autonomamente, cercano di portare avanti nuove idee di cambiamento. Il senso di verità e di giustizia di cui parlava Simone Weil sta cercando nuovi modi di esprimersi.
Il pessimismo quindi non è d'obbligo. Ma lo è il ripensamento di tutti gli schemi che ci hanno guidato finora compreso quello secondo cui «i partiti sono i pilastri della democrazia».
E se non fosse più così? Se per la democrazia dovessimo trovare altri pilastri, altre parole? Se non potesse essere ridotta a prendere posizione dall'una e dall'altra parte? Se fosse sbagliare liquidare come «qualunquistica» la diffidenza e l'abbandono dei partiti? Se pensassimo a nuovi strumenti per «perseguire il bene pubblico»"?.

lunedì 1 dicembre 2008

Repubblica 1.12.08
"Libertà di cura, la scelta al paziente"
L'appello di Ignazio Marino. Firmano Levi Montalcini, Epifani, Marcello Lippi
di Paola Coppola


ROMA - Un appello per il diritto alla libertà di cura. Per una legge sul testamento biologico che confermi il diritto alla salute ma non il dovere alle terapie. Un appello che chiede di rispettare l´articolo 32 della Costituzione.
L´iniziativa è stata lanciata dal chirurgo e senatore del Pd, Ignazio Marino, e già sottoscritta da diverse personalità della politica e dell´informazione, dello sport e dello spettacolo. Il testo ha ricevuto adesioni trasversali come quella del Nobel Rita Levi Montalcini, di Giuliano Amato e Stefano Rodotà. È stato firmato dal fondatore di Repubblica, Eugenio Scalfari, Miriam Mafai, Corrado Augias e Massimo Giannini. E ancora, tra gli altri, dal segretario generale della Cgil, Guglielmo Epifani e dal ct della nazionale, Marcello Lippi, dall´attrice Simona Marchini, dalla ginecologa Alessandra Kustermann e da Mina Welby.
«Rivendichiamo l´indipendenza dei cittadini nella scelta delle terapie, come scritto nella Costituzione», recita l´appello. E continua: «Rivendichiamo tale diritto per tutte le persone, per coloro che possono parlare e decidere, e anche per chi ha perso l´integrità intellettiva e non può più comunicare, ma ha lasciato precise indicazioni sulle proprie volontà». L´iniziativa nasce dalla preoccupazione che la legge che sarà approvata, rendendo obbligatoria idratazione e nutrizione enterale, come vuole il centrodestra, non rispetti l´orientamento degli italiani. «Negli ultimi due anni e mezzo sono stato invitato a parlare di questo tema in oltre 100 convegni riscontrando che la maggior parte delle persone ritiene che rispetto a malattia e a terapia la scelta debba spettare alla persona», racconta Marino. E chiarisce: «Vogliamo raccogliere centinaia di migliaia di adesioni per dire con forza a chi ha la responsabilità di condurre la discussione sul testamento biologico in Parlamento di ascoltare l´opinione di tutti».
Continua l´appello: «Chiediamo che la legge sul testamento biologico rispetti il diritto di ogni persona a poter scegliere. Chiediamo una legge che dia la possibilità, solo a chi lo vuole, di indicare, quando si è pienamente consapevoli e informati, le terapie alle quali si vuole essere sottoposti così come quelle che si intendono rifiutare, se un giorno si perderà la coscienza e con essa la possibilità di esprimersi». E conclude: «Chiediamo una legge che colmi il vuoto del nostro Paese in questa materia ma rifiutiamo che una qualunque terapia o trattamento medico siano imposti dallo Stato contro la volontà espressa del cittadino». È possibile firmare sul sito: www. appellotestamentobiologico. it.

Repubblica 1.12.08
La battaglia dei diritti
Marcello Flores ha scritto una storia della conquista della parità
La lunga marcia verso l'uguaglianza
di Simonetta Fiori


A 60 anni dalla Dichiarazione Universale, uno sguardo al percorso accidentato che oggi ha portato un uomo di colore alla Casa Bianca
Un´epopea con le donne in prima fila, da Florence Nightingale a Eleanor Roosevelt
Ancora adesso le contraddizioni tra democrazie e tutela dell´essere umano sono molte

Pochi simboli come Obama primo presidente nero alla Casa Bianca restituiscono il lungo e controverso cammino della cultura dei diritti umani. Il clamore della novità può essere commisurato alla lentezza del percorso. Nelle lacrime del reverendo Jesse Jackson è la denuncia d´un vergognoso ritardo. Possibile che soltanto al principio del XXI un uomo di colore sia autorizzato a varcare la soglia della Casa Bianca, per di più tra molti timori? E´ anche questo il segno d´una storia complicata, ricca di paradossi e contraddizioni, ora raccontata per la prima volta da Marcello Flores nel suo intreccio tra elaborazione ideale e azione concreta (Storia dei diritti umani, il Mulino, pagg. 368, euro 25). «Il percorso storico dell´attuazione dei diritti umani è assai più lento e accidentato rispetto alla consapevolezza teorica. Ma questa distanza tra auspicio e concretizzazione, tra ambizioni universalistiche e capacità pratica assai parziale di realizzarle, va valutata storicamente: non può essere un pretesto per liquidare la questione dei diritti come inutile retorica».
L´incoerenza è uno dei tratti distintivi di questa lunga storia, riproposta alla vigilia del sessantesimo anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti, sancita dalle Nazioni Unite il 10 dicembre del 1948. Un´epopea, che vede in prima linea le donne, da Olympe de Gouges a Mary Wollstonecraft, da Florence Nightingale a Emily Hobhouse fino a Eleanor Roosevelt, artefice di delicate mediazioni alla guida della Commissione che con la Dichiarazione Universale intendeva chiudere l´epoca della violenza e dell´orrore. «Non è un caso che siano figure femminili a scrivere questo racconto lungo due secoli, e che ancora oggi ne siano protagoniste, essendo esse stesse vittime di un´esclusione».
Anche alla metà del Settecento, momento fondante per la cultura dei diritti, all´interno della civiltà occidentale coesistono tensioni opposte e non poche ambiguità: da una parte la lotta contro l´arbitrio nella giustizia e nell´eguaglianza, dall´altra la perpetuazione di discriminazioni verso le donne e di pratiche spietate come la tratta degli schiavi, su cui si regge l´economia colonialista. «La storia dei diritti», spiega Flores, «non ha un risultato definitivo: è un processo a tappe, mai garantite una volta per tutte. Fin dal principio la contraddizione ne è un tratto costante. Sia la Rivoluzione francese che quella americana sanciscono l´eguaglianza di tutti gli uomini, ma in realtà si rivolgono al "maschio", "bianco" e "proprietario". Schiavi e donne ne sono escluse. Ma fu grazie alla circolazione di quelle idee che più tardi saranno sconfitte la schiavitù e l´emarginazione femminile».
Da nuovi fermenti germogliano, pur in un paesaggio contrastato, nuove aspettative. E soprattutto piccole azioni concrete, condotte da personalità spesso ignorate dai libri di storia, ma non meno rivoluzionarie rispetto ai Beccaria, Voltaire, Montesquieu.
«Mentre i philosophes diffondono idee destinate a influenzare il pensiero moderno, un gruppo di uomini e donne coraggiosi s´appresta a favorire una rivoluzione culturale e giuridica altrettanto rilevante». E´ il caso degli inglesi Grandville Sharp e Thomas Clarkson che, da una piccola stamperia vicino a Londra, mossero la loro battaglia contro la tratta degli schiavi, che solo vent´anni dopo porterà all´abolizione del commercio degli schiavi da parte del Parlamento inglese. «Risale al 1787 la loro minuscola "Società per l´abolizione del commercio di schiavi", una delle primissime associazioni affidate al volontariato. Tante ne sarebbero scaturite negli anni a venire, procedendo parallelamente alla storia delle idee».
Non sarà priva di contraddizioni anche la "svolta" successiva, alla metà del XX secolo, quando la Dichiarazione Universale estese i diritti umani a tutti, senza distinzioni e discriminazioni, rimarcando la volontà sovranazionale rispetto al potere delle singole nazioni. «Fu un fatto rivoluzionario. Ma i tre decenni successivi saranno giudicati da molti analisti un periodo di insuccesso continuo. Anche quello dei diritti divenne terreno di scontro: i diritti civili e politici dell´Occidente versus i diritti economici e sociali dell´Unione Sovietica. Bisognerà aspettare la fine della guerra fredda per poter vedere realizzati alcuni principi».
Ancora oggi, dopo rinnovate battaglie e un´accresciuta sensibilità, le incoerenze appaiono insanabili. Sorti per limitare il potere, i diritti umani lo hanno spesso legittimato attribuendogli nuove responsabilità. «I diritti non possono che essere garantiti dal potere», dice Flores, «però sappiamo quante difficoltà nascondano le stesse democrazie. L´emergenza del terrorismo internazionale ha indotto Gran Bretagna e soprattutto Stati Uniti a legislazioni che limitano i diritti in nome della battaglia contro i terroristi. Però tra i primi annunci di Obama figurano la chiusura del carcere di Guantanamo e il ritiro dei soldati dall´Iraq: segno che nello stesso Occidente vivono anime diverse».
Quella dell´Occidente e i diritti umani è una relazione complessa, densa di ombre dissimulate, spesso usata strumentalmente per spegnere ogni tentativo di dialogo multiculturale. «Si ritiene a torto che solo l´Occidente, per storia e tradizione, abbia un legame solido e coerente con la cultura dei diritti umani. Uno sguardo pur succinto alla storia occidentale aiuta a sgombrare il campo da questo equivoco. Le società europee del passato non hanno avuto, per la maggior parte della propria storia, alcuna tradizione fondata sui diritti umani. Discorso analogo vale per la democrazia, che diventa saldamente maggioritaria in Europa solamente nel corso del XX secolo, talvolta soccombendo a ideologie totalitarie e regimi dittatoriali fondati su disvalori anch´essi tipicamente occidentali». Un conto è dunque rintracciare nel pensiero e nella storia occidentale i contributi più significativi per una cultura dei diritti umani, «diverso è invece ritenere che questa sia connaturata alla civiltà occidentale e ne abbia segnato in modo coerente l´evoluzione».
Palese intento strumentale è riscontrabile in chi oggi rifiuta la cultura dei diritti umani in nome del «relativismo culturale», posizione manifestata anche di recente in difesa dei «valori asiatici». «I decenni che ci separano dal 10 dicembre del 1948 hanno visto la crescente partecipazione sul tema dei diritti di personalità, organismi, gruppi, associazioni tutt´altro che riconducibili esclusivamente alla cultura dell´Occidente. A meno di non considerare "plagiato" o "egemonizzato" chiunque si dichiari in Africa, Asia o Medio Oriente a favore dei diritti umani, gran parte dei contributi innovativi su questo terreno provengono proprio da ambiti culturali non occidentali e da esperienze di sincretismo culturale che sono un risultato storico della globalizzazione».
Il terreno della tutela dei diritti umani rischia di essere abbandonato anche da quelle democrazie che, come la nostra, lo ritengono poco fruttuoso in termini elettorali e di consenso popolare. La colossale crescita dell´immigrazione è un delicato banco di prova. «Come può il sindaco di una grande città italiana come Milano negare il diritto all´istruzione primaria dei figli degli immigrati irregolari? L´educazione e la salute sono diritti sacrosanti. Se non si vuole rispettarli, si va contro la Dichiarazione Universale». Una consapevolezza che però frequentemente manca nel dibattito pubblico, in Italia e altrove.
«Le condizioni dei carcerati e la vita dei senzatetto spesso non rispettano la dignità dell´uomo, però facciamo finta di niente. Le voci più incisive provengono per la massima parte dal mondo cattolico, il più vigile verso la cultura dei diritti. Anche da noi prevale la paura di fare i conti con le nostre incoerenze. Esserne consapevoli, al contrario, è l´unico modo per non arretrare nella difesa di principi fondamentali».

Corriere della Sera 1.12.08
Il ministro «Sempre più ragazzi vogliono studiare. Dopo sei mesi di lavoro gli italiani hanno iniziato a capire»
Gelmini: la protesta si sta riducendo
Nessun contestatore all'incontro di Milano. Il movimento replica: era segreto
di Annachiara Sacchi


E non risparmia colpi all'opposizione: «Non votando il decreto sull'università al Senato, persa un'occasione»

MILANO — Domenica mattina, il convegno con i giovani di Forza Italia su «scuola e lavoro » è fissato per le 10. Appena scende dall'auto, il ministro del-l'Istruzione, Mariastella Gelmini, si guarda intorno. Accoglienza da stadio: applausi di 300 ragazzi «azzurri» in pieno centro a Milano. Di contestatori nemmeno l'ombra: l'Onda non c'è. Sollievo: «Le frange di protesta stanno diminuendo, cominciamo a raccogliere i frutti del nostro lavoro». Ma nel pomeriggio arriva la replica del movimento studentesco: «Era un appuntamento top secret. Noi migliaia nelle strade, loro decine nelle sale».
Scontro sui numeri della mobilitazione.
Durante il suo intervento, il ministro ribadisce: «A me pare che i contrari stiano diminuendo. Aumentano, invece, i ragazzi preoccupati per il futuro dell'università e che vogliono poter studiare». Lo dice il giorno dopo i cortei anti-riforma di Milano, Bologna, Roma, Palermo. Ma l'ottimismo resta: «Dopo sei mesi — aggiunge la titolare dell'Istruzione, nell'Auditorium della Provincia in via Corridoni — gli italiani hanno cominciato a capire i nostri sforzi per migliorare la scuola». Quanto al dissenso, il ministro sorride: «Io ho rispetto per tutte le manifestazioni. Invito solo questi ragazzi a leggere il decreto attentamente. Credo che troverebbero molte risposte alle loro domande».
Apertura al dialogo. E al confronto. Con tutti, a partire dall'opposizione. «Ma non votando il decreto legge sull'università — continua il ministro —, al Senato il centrosinistra ha perso un'occasione. E sì che abbiamo accolto molti emendamenti della minoranza». Sospiro: «Quando le scelte sono state difficili ci siamo sempre trovati da soli». E una certezza: «Andremo avanti comunque».
Applausi, excursus su merito e trasparenza nei concorsi, attacco «a chi in questi mesi ha raccontato solo bugie sul nostro lavoro». Anche il ministro del Welfare, Maurizio Sacconi, ospite della mattinata, non risparmia colpi alla sinistra e alla «sua difesa ottusa delle peggiori corporazioni universitarie». Ma gli occhi sono tutti per il «ministro della scuola», Mariastella Gelmini saluta, concede autografi, si lascia fotografare.
Bagno di folla. Solo quando è tutto finito, l'Onda annuncia: «La Gelmini si nasconde, non sapevamo nulla del suo arrivo ». Il tono è indignato: «La domenica mattina, grazie a un'operazione di depistaggio, senza divulgare la notizia al di fuori del suo partito, il ministro ha messo piede a Milano». Bollettino sulle condizioni di salute del movimento: «Siamo in migliaia. La Gelmini potrà organizzare ancora conferenze, sempre nel massimo segreto, ma soltanto il 25 dicembre a mezzanotte, oppure il primo gennaio entro mezzogiorno».
Botta e risposta. Cui si aggiunge la controreplica di Francesco Pasquali, coordinatore nazionale dei Giovani per la Libertà: «Le ultime elezioni a La Sapienza e il flop della manifestazione romana indicano che le proteste sono figlie di minoranze ideologizzate. La stragrande maggioranza degli studenti condivide i cambiamenti introdotti dal ministro Gelmini».

domenica 30 novembre 2008

Repubblica 30.11.08
Scuola, il sì del Senato non ferma l´Onda
Milano, 10 mila in corteo. E a Roma i bambini nella protesta in piazza
A Roma polemiche sul blitz alla Sapienza, mentre manifestano maestri e genitori
di Gioanni Messa


MILANO - L´Onda ironica della protesta. Studenti e ricercatori hanno reagito così, con l´ironia, dopo il sì del Senato al decreto Gelmini sull´università (che diventerà legge con la definitiva approvazione alla Camera). È accaduto a Milano, dove in diecimila si sono ritrovati in piazza Duomo con tanto di banda musicale al seguito, giocolieri e saltimbanchi, e a Bologna, con i ricercatori che si sono fatti metaforicamente calpestare: hanno tappezzato con le loro 1.800 foto il Crescentone, ovvero la pavimentazione di piazza Maggiore, invitando i passanti a camminarci sopra per denunciare il fatto che il governo Berlusconi calpesta la ricerca. Un´ironia che era mancata al ministro Renato Brunetta, l´altra sera a Milano, il quale era salito in cattedra per mettere a tacere l´interlocutore che gli contestava quei tagli: «Io sono un professore ordinario e lei un ricercatore. Conto di più io».
Va da sé che anche Brunetta sia finito nel mirino dei contestatori milanesi. Assieme all´immancabile collega Mariastella Gelmini e al numero due della giunta Moratti, Riccardo De Corato, chiamato in causa, lui che è sempre in prima linea per combattere i writer in nome dell´arredo urbano, quando gli studenti hanno disegnato sui muri il volto di Anna Adamolo (il personaggio virtuale, anagramma di Onda anomala, eletto dai ragazzi ministro al posto della Gelmini). Alunni e studenti, maestri e professori, genitori e personale tecnico amministrativo si sono ritrovati in piazza Duomo, dopo essere partiti in corteo da tre punti della città, nel segno del "Non ci stiamo": uno slogan urlato a più riprese e stampato sui cartelloni e i volantini dei manifestanti insieme con la frase "Il futuro è di chi lo ricerca".
A Bologna i ricercatori hanno proposto ai passanti una serie di esperimenti: particolarmente apprezzato, soprattutto dai bambini, quello delle fontane di Coca Cola sprigionate dalla reazione fra l´anidride carbonica della bibita e le caramelle Mentos. Anche a Roma il mondo della scuola e quello dell´università sono scesi insieme in piazza. Alla Bocca della Verità bambini, genitori e insegnanti del movimento «Non rubateci il futuro» hanno protestato contro le misure del governo allestendo un laboratorio di giochi e arti a cielo aperto. Ben altro clima dopo il blitz dell´Onda che venerdì ha interrotto alla Sapienza l´inaugurazione del settecentesimo anno accademico: un gesto definito «inaccettabile» dal sindaco Gianni Alemanno perché «gli studenti devono rispettare il diritto di espressione di tutti, a partire da quello del rettore appena eletto». Sulla vicenda è intervenuto anche il rettore stesso, Luigi Frati, sostenendo che «servono pazienza e dialogo, confronto e discussione, mentre ciò che non è praticabile è il divieto di parlare. Io non mi fermerò nel fare della Sapienza un´università normale a livello dei grandi atenei internazionali».
Prosegue infine a Palermo l´occupazione della Facoltà di Lettere e filosofia (con Azione giovani, il movimento giovanile di Alleanza nazionale, che chiede l´intervento del preside Vincenzo Guarrasi per liberare le aule). Gli studenti siciliani hanno proclamato «cinque giornate di incontri e dibattiti sulla precarietà, l´autoriforma e i beni comuni».

Repubblica Roma 30.11.08
Alemanno attacca l'Onda: "Blitz inaccettabile"
Dopo lo scontro con il rettore Frati. Gli studenti: "Si occupi della città"
di Laura Mari



«Un blitz inaccettabile» così il sindaco Alemanno ha definito l´azione degli studenti dell´Onda che venerdì mattina hanno interrotto l´inaugurazione dell´anno accademico della Sapienza. «È inaccettabile - ha proseguito Alemanno - che un gruppetto di studenti politicizzati abbia impedito al rettore di parlare». Ma i giovani dell´Onda ribattono: «È stato il rettore Frati ad andarsene e a sospendere l´inaugurazione- sostengono gli studenti- invece di intervenire sulle iniziative di protesta nelle università, dovrebbe pensare a risolvere i problemi della città».

Giovedì aveva parlato di una «città stanca dei continui cortei». Ieri il nuovo affondo. «È inaccettabile che un gruppetto di studenti politicizzati abbia impedito il diritto di espressione al rettore». A contestare il blitz dell´Onda all´inaugurazione dell´anno accademico della Sapienza è stato il sindaco Gianni Alemanno, secondo cui «quanto avvenuto deve far riflettere complessivamente sul rispetto vero della democrazia negli atenei. Inoltre - ha proseguito il sindaco Alemanno - i risultati delle elezioni studentesche della Sapienza sono significativi perché dimostrano che il movimento dell´Onda, prodotto dalla sinistra studentesca, è molto visibile ma probabilmente espressione di una minoranza».
Parole che proprio non sono andate giù ai leader dell´Onda. «Il sindaco dovrebbe pensare ai problemi della città ed evitare di mettere bocca sulle iniziative di protesta nelle università» risponde Giorgio Sestili, uno dei portavoce del movimento. Dello stesso parere anche Luca Cafagna, leader dell´Onda e studente di Scienze Politiche, che ci tiene a far notare ad Alemanno che «il blitz all´inaugurazione dell´anno accademico è stato organizzato semplicemente per delegittimare un incontro che, in realtà, rappresentava solo una vetrina per il rettore. E nessuno degli studenti - prosegue Cafagna - intendeva togliere la parola a Frati: è stato lui a decidere di andarsene e sospendere l´inaugurazione».
Diversa, invece, la versione del rettore, che al momento del blitz ha inveito contro gli studenti chiamandoli «fascisti». «Quei ragazzi hanno perso un´occasione importante di confrontarsi con il mio discorso di apertura dell´anno accademico - ha ribadito il rettore della Sapienza Luigi Frati - quello che serve in questo momento è pazienza e dialogo, confronto e discussione, mentre ciò che non è praticabile è il divieto di parlare».
Al di là dei botta e risposta tra studenti e figure istituzionali, la protesta dell´Onda non si fermerà e andrà avanti sino al 12 dicembre, giorno dello sciopero generale. «Il 9 dicembre - annuncia Francesco Brancaccio della Sapienza - organizzeremo un assedio sonoro sotto al rettorato per contestare la riunione del Consiglio d´amministrazione, dove all´ordine del giorno ci sarà probabilmente la discussione di quel bilancio preventivo che il rettore Frati, a luglio, aveva promesso di non far approvare se il governo non avesse mutato la sostanza dei tagli del decreto Tremonti». Tagli che, in un documento diffuso all´indomani dell´approvazione delle modifiche del decreto 180, per i dottorandi e precari delle università romane avranno «effetti dirompenti sul funzionamento degli atenei italiani. Università che - si legge nel documento - hanno invece bisogno di interventi che diano diritti e dignità al lavoro dei ricercatori precari».
Ieri, infine, la Digos ha notificato l´obbligo di dimora ad uno studente di 25 anni, F.G., per gli scontri avvenuti il 7 novembre scorso a piazzale Ostiense, nel corso della manifestazione di protesta contro il decreto Gelmini. Al giovane sono stati contestati i reati di resistenza a pubblico ufficiale e lesioni personali ad un dirigente di polizia.

Repubblica Roma 30.11.08
Alla Bocca della Verità la manifestazione "Non rubateci il futuro"
Bimbi, bande e disegni in piazza contro la Gelmini
Show degli alunni dell'Artusi solidali con i compagni denunciati per l´occupazione
Zona rossa anti-Gelmini in piazza contro il maestro unico
di Tea Maisto e Laura Mari


Una zona rossa anti-Gelmini. A disegnarne i confini, con stand e gazebo, i tanti bambini, genitori e insegnanti che ieri mattina, nonostante la pioggia, hanno partecipato all´iniziativa "Scuola pubblica in pubblica piazza", organizzata in piazza della Bocca della Verità dal coordinamento "Non rubateci il futuro", in lotta contro i provvedimenti del ministro. Con loro, anche i liceali e i ricercatori precari.
Tra bande musicali, laboratori di disegno, gazebo dedicati alla lettura e performance di giocolieri e animatori, anche lo stand degli studenti dell´istituto alberghiero Artusi, nel quartiere Tuscolano. «Sedici nostri compagni di classe sono stati denunciati dalla preside per aver occupato la scuola per cinque giorni - ricorda Manuel - una denuncia contro cui abbiamo deciso di mobilitarci esponendo le nostre foto segnaletiche con su scritto "siamo facinorosi"».
Alla manifestazione, a cui hanno aderito circa 700 persone, tra cui gli studenti della facoltà di Filosofia e Lingue Orientali della Sapienza, ha partecipato anche il deputato del Pd (ed ex-assessore capitolino alla Scuola) Maria Coscia. «Non ha senso tagliare i fondi alla scuola, che è una risorsa fondamentale per il futuro. Se non si investe sull´intelligenza - ha detto la Coscia - si va verso il declino».
Prima delle esibizioni della banda musicale del liceo Russel e della performance dei "Gelminari" (alunni ed insegnanti che con colori e gessetti hanno riprodotto il volto del ministro dell´Istruzione), è stato osservato un minuto di silenzio in ricordo di Vito Scafidi, lo studente morto a Rivoli nel crollo del soffitto di un´aula.
«Le mobilitazioni della scuola elementare proseguiranno anche nelle prossime settimane - annuncia Massimo Lucà, del coordinamento "Non rubateci il futuro" - e il 16 dicembre alla scuola Iqbal Masih organizzeremo un´assemblea pubblica con l´assessore regionale alla Scuola Silvia Costa, l´ex vice-ministro dell´Istruzione Mariangela Bastico e Angela Nava, presidente del coordinamento Genitori Democratici».

Repubblica 30.11.08
Pd, D'Alema annuncia battaglia
"Polemiche su di me in mia assenza, mi occuperò di più del partito"
di Carmelo Lopapa


ROMA - L´avviso ha tutto il sapore della sfida. Così com´è il Pd non va, «bisogna rilanciare la sua sfida riformista», dice Massimo D´Alema che si confessa «amareggiato» al suo rientro dopo due settimane trascorse in Centramerica. Troppe polemiche in sua assenza, lamenta, senza che lui si potesse difendere e potesse difendere i suoi finiti nel mirino dei veltroniani. Ecco, quell´eterna sfida tra veltroniani e dalemiani segna ormai la vita del partito e nella promessa-minaccia del «leader Maximo» di volersi occupare d´ora in poi in maniera più assidua della vita del Pd c´è quasi l´annuncio di una resa dei conti. Che sia il preludio di una candidatura alternativa alla segreteria, come qualcuno ha subito letto l´uscita di D´Alema, è esagerato pensarlo. Certo è che diventa ancor più delicato l´appuntamento già segnato, la direzione del 19 dicembre.
Il presidente della fondazione Italianieuropei rientra in Italia e sceglie il Tg1 delle 20 per confessare tutto il suo disappunto per quanto sta accadendo. Ne ha per Berlusconi e le sue misure economiche «insufficienti»: il premier «vuole il dialogo, ma sarebbe stato semplice chiamare al tavolo le forze di opposizione e i sindacati per decidere insieme, dopo, il dialogo è una finzione». Ma il suo ragionamento è rivolto soprattutto a Veltroni. Non lo nomina ma è a lui che si rivolge quando dice che «c´è bisogno di un chiarimento politico, c´è bisogno di rilanciare e di ridare vigore alla proposta riformista del Partito democratico. È importante che lo si faccia, discutendo con franchezza, con serenità». Con altrettanta schiettezza fa autocritica, per il poco tempo dedicato al partito a vantaggio della fondazione. Ma non accadrà più: «Per quanto mi riguarda anch´io, se posso aggiungere una nota autocritica, intendo impegnarmi di più. Fino a oggi non ho fatto tutto ciò che si poteva fare per questo partito». Veltoni e veltroniani avvertiti.
L´intervento di D´Alema giunge dopo due settimane al fulmicotone dentro il Pd. Segnate dal caso Villari, ma anche dalle accuse di «tradimento» rivolte al dalemiano Latorre per la storia del «pizzino» girato all´avversario Bocchino in tv, fino alla Finocchiaro dichiaratasi disponibile, un giorno, alla guida del partito e attaccata dai fedelissimi del segretario in carica. Scambio di fendenti quasi quotidiano tra le due anime del partito. L´ex ministro degli Esteri allude soprattutto al caso Latorre e passa al contrattacco. «Io non amo le polemiche e devo dire che, anzi, mi ha amareggiato una polemica personale, aspra, tanto più spiacevole perché condotta in mia assenza, visto che mi trovavo all´estero per una missione internazionale».
Sembra che Piero Fassino si stia curando in queste ore di trovare una mediazione ragionevole tra Veltroni e D´Alema, per evitare che tutto questo precipiti in un congresso anticipato. L´ultimo segretario dei Ds ha incontrato l´ex capo della Farnesina venerdì sera, appena sbarcato dall´America. Ed ora è volato a Madrid per il congresso del Pse, dove domani lo raggiungerà Veltroni. Obiettivo, non facile, una tregua nella battaglia tra «Oriazi e Curiazi», come Fassino stesso l´ha battezzata. In Spagna il Pse dovrebbe accogliere il termine «democratici» nella sua sigla, per favorire la confluenza del Pd. Confluenza tutt´altro che scontata, però. L´esigenza di fare chiarezza all´interno riguarda, infatti, pure il nodo della collocazione europea del Partito democratico. Dopo che gli ex Margherieta Rutelli e Fioroni hanno ribadito giorni fa il loro no all´adesione al Pse, ieri è stata la volta dell´ex presidente del Senato Marini. «Ma pensate che Franco Marini possa dire di essere diventato socialista? Questo non potete chiedermelo, è sbagliato anche culturalmente - ha affermato parlando di sé in terza persona - La cultura sociale cattolica non può essere cancellata con la negazione della propria storia». Per il leader popolare una strada percorribile sarebbe quella di «pensare a una forma di federazione in Europa, ma la decisione va presa prima delle elezioni: sarebbe un fattore di grande debolezza dire che verrà presa dopo». E invece no, secondo Bobo Craxi, dirigente del Ps, i socialisti europei chiedono stavolta una risposta vera: «Il rompicapo del Pd si risolve solo con una decisione netta, chiara». Gli ex ds non nascondono la preoccupazione. «Sulla collocazione europea sembrava esserci un punto di accordo - confessa Vincenzo Vita - ora di nuovo tutto in discussione. Ma in Europa o ci si allea con la destra o con la sinistra». Anche questa partita, tuttavia, si giocherà sul campo della direzione del Pd, il 19 dicembre.

il Riformista 30.11.08
Ma perché il Pd non si scioglie?
di Peppino Caldarola


Dice Mussi. «Il Pd si è messo in una posizione difficilmente sostenibile sul piano politico. Ho l´impressione che avrà difficoltà a stare in piedi».

Chiamparino e Cacciari vogliono il Pd del Nord, il Pd del Sud non si può fare perché l'unico segretario possibile, Riccardo Villari, l'hanno cacciato, Renato Soru vuole il Pd-Tiscali, Rutelli e Vernetti vogliono aderire all'Internazionale liberale, D'Alema vuole restare in quella socialista (Forza Massimo!), a Firenze sono più i Pd degli elettori, Parisi civetta con Di Pietro, Ritanna è conquistata da Anna ma vota per Rifondazione, Livia Turco detesta Anna e Ritanna e scoppia in lacrime, Marina Sereni non pervenuta, Morri dopo aver servito il caffè a casa Fassino vorrebbe fare le pulizie in Vigilanza, Fioroni si è fatto una porchetta intera alla faccia degli ex comunisti, Epifani fa Tarzan ma sembra Jane, Latorre (giù le mani da Nicola!) è stato avvistato allo zoosafari di Fasano mentre dava da mangiare pizzini alle scimmie, Tonini e Ceccanti stanno scrivendo una "Storia sulle espulsioni celebri da Stalin a Veltroni", Letta vuole lasciare Bersani, troppo vecchio, e sta circuendo Zingaretti, il Pd siciliano si è sciolto nel club Mediterranée, Marco Minniti ha lasciato Dolce e Gabbana ed è passato alla Oviesse di Reggio Calabria. È tutto un muoversi, agitarsi, scomunicarsi, minacciarsi, odiarsi, prendersi per i fondelli, tendere agguati, inciuciare, spettegolare, insomma una normale vita di partito. Ma non sarebbe più semplice fare una riunione di caminetto per scrivere una bella lettera ai militanti firmata dai leader dal titolo: «Scusateci», e sciogliere immediatamente il Pd?

Corriere della Sera 30.11.08
Scontri islamici-cristiani, massacro in Nigeria
Chiese e moschee in fiamme dopo le elezioni locali contestate: centinaia di vittime
Dietro le violenze religiose, la lotta per il potere dopo che il presidente Yar'Adua ha licenziato metà governo
di Massimo A. Alberizzi


I morti accertati sono quasi cinquecento, ma il bilancio potrebbe salire. Trecentottantuno corpi sono stati contati in una sola moschea. La violenza religiosa, subito dopo una tornata elettorale locale, è scoppiata ancora una volta in Nigeria, a Jos, capitale del Plateau State. Moschee e chiese bruciate, barricate nelle strade, scontri tra militanti musulmani e cristiani, e con la polizia e l'esercito. Il governatore Jonah David Jang ha proclamato il coprifuoco dall'alba al tramonto. Le violenze sono cominciate giovedì sera quando i sostenitori del Partito di Tutti i Popoli Nigeriani (Anpp, a maggioranza musulmana) si sono scatenati appena si è diffusa la voce secondo cui il loro candidato, dato largamente vincitore dalle previsioni, era stato battuto da Barrister Timothy Gyang Buba, il rivale del Partito Democratico del Popolo, al potere a livello federale e vissuto dalla gente come dominato dai cristiani. Bande di teppisti hanno dato l'assalto all'università ammazzando otto studenti, un poliziotto e un autista di una compagnia governativa.
Venerdì gruppi di sostenitori armati di machete e armi automatiche hanno eretto posti di blocco, bruciando copertoni per le strade ed è cominciata la mattanza. Secondo Eniola Bello, direttore del quotidiano
This Day, contattato al telefono dal Corriere, «i dimostranti hanno dichiarato di non combattere la gente ma piuttosto il governo, considerato responsabile dei brogli elettorali. Al momento dello scoppio delle violenze, comunque, la commissione elettorale stava ancora raccogliendo i risultati dei seggi ». Secondo la Croce Rossa «più di 10 mila persone sono scappate dalle loro case per cercare rifugio nei posti di polizia, nelle caserme dell'esercito, nelle moschee e nelle chiese». Jos, purtroppo, ha una lunga storia di violenze religiose tra i musulmani pastori hausa del Nord e i cristiani contadini berom
del Sud. La desertificazione spinge gli hausa a cercare nuovi pascoli al Meridione. Nei campi dei berom. Ma le violenze etniche nascondono anche ambizioni politiche. Il presidente Umaru Musa Yar'Adua un mese fa ha licenziato mezzo governo, così si sono scatenate le ambizioni di chi è a caccia di un portafoglio. Inoltre Yar'Adua, eletto un anno fa, dovrà affrontare una nuova difficile elezione nel 2011. I suoi rivali stanno già lavorando per prendere il suo posto. Nessuno di loro nega l'ambizione di cacciare Yar'Adua prima della scadenza del mandato. E le violenze fanno il loro gioco.

Corriere della Sera 30.11.08
Forum internazionale. L'obiettivo: creare un blocco da Parigi ad Atene (via Roma) e presentarsi uniti alle elezioni Ue del 2009
Sinistre di tutta Europa sedotte da Lafontaine
Congresso a Berlino del fronte anti-capitalista. Si impone un solo modello: la Linke
di Danilo Taino


Ferrero riconosce il ruolo dei tedeschi: «Ma la loro esperienza non può essere riprodotta»

BERLINO - Dev'essere una sfida impossibile. Diversamente, l'irrequieto Oskar Lafontaine non l'avrebbe accettata. Diventare il padrino, il trascinatore, forse il demiurgo della sinistra non socialdemocratica europea. Della sinistra-sinistra, insomma. La quale c'è un po' in tutto il Vecchio Continente, non solo in Germania dove la Linke continua a crescere: ma è debole, divisa, litigiosa e frammentata. Occasione vicina, le elezioni europee dell'anno prossimo, strategia di lungo periodo, la costruzione di un fronte continentale anti-capitalista in un momento in cui il capitalismo soffre. Non sarà la Quinta o Sesta Internazionale ma il progetto è ambizioso.
Ieri, a Berlino, Lafontaine non era presente alla Conferenza elettorale della Sinistra europea che ha lanciato il programma per le elezioni del 2009. Perché era alle porte di Parigi a testimoniare il suo appoggio alla nascita di una nuova formazione politica, il Parti de gauche (Pg) di Jean-Luc Mélenchon. Il prossimo 6 dicembre, l'ex ministro del governo Schröder sarà a Venezia, a una manifestazione sulla crisi economica organizzata da Rifondazione comunista che lo staff del segretario Paolo Ferrero definisce «importante ». E nei prossimi mesi — dicono alla Linke — sarà molto impegnato sul versante europeo oltre che su quello, intensissimo, tedesco. Per molti versi, non stupisce che sia così.
Lafontaine è uno dei fondatori e delle anime del partito della sinistra radicale che ha avuto il maggior successo negli ultimi anni. Uscito dalla socialdemocrazia tedesca su posizioni anti-liberiste, ha prima formato un suo movimento di esuli come lui dalla Spd, poi, nell'estate 2007, ha fondato Die Linke, assieme ad alcuni sindacalisti e, soprattutto, con il Pds, erede della Sed che governava senza opposizione la Germania Est. Da allora, la Linke (Sinistra) è passata di successo in successo: probabilmente, oggi è il primo partito nei Länder dell'Est della Germania, in un testa a testa con la Cdu della cancelliera Angela Merkel. Ma sta entrando nei parlamenti di quasi tutti gli Stati federali anche a Ovest e al momento i sondaggi la danno attorno al 12-13% a livello nazionale. Ha sottratto grandi consensi ai socialdemocratici.
In un passaggio politico nel quale la sinistra europea è in grave crisi, la Linke è dunque diventata il punto di riferimento ovvio. «Quello che prendiamo dai tedeschi è il metodo— sostiene ad esempio Mélenchon — La Linke è diventata un bacino collettore. Lafontaine mi ha detto: "migliore l'agglomerante, più probabile il successo"». Su queste basi, il Pg vuole mettere assieme comunisti, trotzkisti e socialisti delusi.
E anche Ferrero riconosce il ruolo trainante dei tedeschi: «Sono un punto di riferimento. Il loro modello non è immediatamente riproducibile in Italia: loro hanno una Grande Coalizione e non hanno Berlusconi. Ma certamente hanno un grande ruolo». A suo parere, il rapporto con il sindacato è quello che fa della Linke «il punto di riferimento politico di ogni insofferenza». D'altra parte, ricorda il parlamentare europeo di Rifondazione comunista Roberto Musacchio, «la sinistra europea fu lanciata da Fausto Bertinotti e Lafontaine ».
Per altri versi, però, la sfida di Oskar il Rosso è enorme. Germania a parte, i partiti della sinistra radicale raccolgono abbastanza consensi in Portogallo, dietro al Bloco de Esquerda, e in Grecia, dietro la leadership del giovane Alexis Tsipras, anch'egli ieri a Berlino. Per il resto, però, sono divisi anche all'interno dei loro singoli Paesi: ieri, alla conferenza di Berlino, i partiti rappresentati erano trenta. In Francia, i trotzkisti di Olivier Besancenot hanno ottimi sondaggi, ma la sinistra non-Psf è divisa, con i comunisti e ora il nuovo Parti de Gauche. In Italia, dentro Rifondazione è aperto lo scontro sul presentare alle Europee una lista tipo arcobaleno o andare da soli (come vuole Ferrero), oltre alla separazione con i Comunisti italiani. Difficile, anche per Lafontaine, essere il padrino di questo caos.

Corriere della Sera 30.11.08
Un saggio processa le certezze democratiche e stronca la figura di Voltaire
Il Saladino che salverà l'Occidente
Pietrangelo Buttafuoco rivaluta l'islamismo e invoca il ritorno al Sacro
di Dario Fertilio


Condottiero curdo, fu tra i più grandi strateghi di tutti i tempi e fondatore della dinastia ayyubide in Egitto e Siria

L'espressione Cabaret Voltaire, oltre a evocare la culla storica del dadaismo, a Zurigo, e più di recente un pretenzioso complesso inglese funk-punk-rock, secondo Pietrangelo Buttafuoco coincide con la metafora nera dell'Occidente. Viene da essa infatti il titolo del suo ultimo saggio, appena pubblicato in copertina dorata da Bompiani (pagine 225, e 18).
L'autentico bersaglio polemico di Buttafuoco, giornalista militante con ascendenze di destra e scrittore di successo soprattutto per Le uova del Drago (Mondadori) — un romanzo in cui racconta la Seconda guerra mondiale in Sicilia dalla parte dei perdenti — è il mondo globale in cui viviamo. Che gli appare un laboratorio asettico e dissacrante, in cui impera l'indifferenza morale, è obbligatoria l'allergia a qualsiasi fede, viene abolita ogni differenza naturale (tra conservatori e progressisti, ma anche tra uomini e donne), ci si sposa con partner dello stesso sesso e — pur scandalizzandosi per la lapidazione delle adultere ordinata dalla sharia islamica — non si esita a mettere in palio fanciulle illibate nei reality show. L'occidentale Cabaret Voltaire,
insomma, per Buttafuoco è un gran brutto posto, un trionfo dell'anarchia dove l'unico comandamento universalmente rispettato è il «diritto di avere tutti i diritti », l'adozione del conformismo consumista è obbligatorio, l'adorazione della democrazia americana e il disprezzo dell'islam sono scontati, con inevitabile, annessa esportazione di guerre giuste.
Va da sé che il Voltaire di Buttafuoco, eroe negativo e fonte di riprovevole modernismo, non è il filosofo della tolleranza, l'autore della celebre e fin troppo banalizzata affermazione — «non condivido la tua opinione ma sono pronto a morire affinché tu possa esprimerla» — quanto piuttosto l'autore dell'opera in cinque atti Il fanatismo, ossia Maometto profeta,
in cui il primo musulmano è presentato come mostro tirannico e traditore. Trattando di Maometto, Voltaire lascia cadere la maschera illuminista e si abbandona visceralmente — conclude Buttafuoco — al «pregiudizio postumo per eccellenza, quello contro il moro».
Ma non sta nemmeno qui il nocciolo più duro della polemica. Nel petto del Voltaire, giudicato colonialista e un po' razzista verso l'islam, Buttafuoco prende di mira infatti il cuore e l'anima dell'illuminismo nato dopo la sconfitta dei turchi a Vienna. Voltaire per lui è l'ideologo ispiratore di ogni modernità ostile «alla presenza del Sacro nel mondo», tutto preso dall'esigenza di «dimostrare la falsità e la pericolosità della fede senza la guida della ragione». Ed è questo appunto il peccato più grave secondo l'autore, tanto da farne il baricentro concettuale del saggio: è la cacciata del sentimento religioso dai cuori umani, il rifiuto del Mito e della Tradizione da cui emana, lo sradicamento dei valori su cui poggia la civiltà mediterranea (dunque, comprensiva anche dell'islam), il disprezzo per la preghiera e il rito politicamente scorretti, l'esaltazione di modelli fatti di cartapesta al posto dei veri, grandi eroi. Fra questi personaggi inattuali ma salvifici, nel solco di Thomas Carlyle, Buttafuoco colloca una eccentrica trinità anti-illuministica, che comprende curiosamente il filosofo Heidegger, il pontefice Wojtyla e l'ayatollah Khomeini, definiti «tre fior di anticapitalisti», capaci di «travolgere uomini e cose nel passaggio dal materiale all'immateriale ». Non bisogna pensare a un anti-occidentalismo preconcetto, comunque, e tanto meno a una simpatia di Buttafuoco per la militanza dura e pura dei talebani afghani, se non addirittura per i fanatici di Al Qaeda. Si intuisce piuttosto, già nella dedica rispettosa a Giuliano Ferrara — il quale ieri ricambiava sul Foglio denunciando il suo «orrore ideologico», però «illuminato da scintille di bellezza» — che il saggio va letto secondo i canoni dell'espressività panflettistica, dell'eccesso colto, della passione esibita per il rito anche cruento, non escluso quello pagano, magari crudele, purché storicamente fondato ed esteticamente seducente. L'ammirazione plaudente al «trionfo barocco di Cordoba», al film di Mel Gibson sulla passione di Cristo, ai miracoli di Padre Pio e San Gennaro, alle meditazioni mistiche di Pavel Florenskij sino al carisma dell'islam «che sveglia l'istinto del Sacro da troppo tempo sopito in occidente», offrono al lettore illuminazioni e suggerimenti capaci di spiazzare fior di progressisti, politicamente impermeabili al pensiero reazionario. E tuttavia bisogna pur rilevare che l'ammirato Thomas Carlyle, con il suo culto romantico e antidemocratico degli eroi, è collocato dal liberale Hayek nel pantheon ideologico pre-nazista. La categoria della destra, cui Buttafuoco attribuisce la necessità di radicarsi nella Tradizione, oltre che «un'estetica guerriera e un codice aristocratico che è più o meno quello di Federico II o del Saladino», somiglia molto a un arcaismo concettuale; come del resto l'idea di una sinistra nel cui Dna Buttafuoco vorrebbe inscrivere una vocazione alla «sovversione» e al «laicismo ».
Quanto alla nostalgia del Sacro che pervade Cabaret Voltaire, certo l'eclissi denunciata da Buttafuoco rappresenta una perdita grave per l'umanità; altra cosa però è farne una bandiera da contrapporre in blocco ai valori democratici. Un filosofo religioso come Paul Ricoeur non ha ricordato forse che in ogni tempo il Sacro ha fatto la sua irruzione nel mondo anche attraverso la violenza e il terrore? Per cui distinguere fra un mito e l'altro, porre un argine alle pulsioni salvifiche e anteporre Locke all'eroico Saladino potrebbe non essere soltanto un'idea da piccoli borghesi.

Corriere della Sera 30.11.08
I poeti greci tradotti da Boncinelli
Uno scienziato rilegge i lirici
di Luciano Canfora


Il risultato ottenuto è una serie di testi sapienti e agguerriti

Uno scienziato poliedrico che si mette per anni, «nei ritagli di tempo», a tradurre un buon numero di frammenti dei lirici greci è un fenomeno inconsueto. Non mancano scienziati che mantengono un legame non solo affettivo con gli studi umanistici, ma solo una esigua minoranza tra di essi si cimenta con la traduzione dalle lingue classiche, e addirittura dal greco. Del tutto sporadico, se non inesistente, il fenomeno contrario: cioè la pratica delle scienze da parte degli studiosi dell'altra sponda.
Edoardo Boncinelli (nella foto), che frequentò a suo tempo un eccellente liceo, ci dà, in questi giorni, un libro di sue traduzioni dai lirici greci ( I miei lirici greci, Editrice San Raffaele, pp. 422, e
24). Ha dunque scelto di cimentarsi con gli autori più ardui tra i greci dell'età arcaica e classica. Soprattutto gli interessa Saffo che, insieme con Alceo, Alcmane e Anacreonte, occupa la gran parte di questa antologia.
«Ci restano spesso solo frammenti — osserva in apertura —, ma il loro fascino e la loro potenza poetica sono tali da renderli capolavori immortali». Qui Boncinelli sfiora la questione complicata del possibile apprezzamento di testi frammentarî. Questione che si ripresenta, non meno acuta, nel caso dei frammenti dei filosofi greci, in ispecie dei presocratici. Accade cioè che si finisca col trattare i frammenti come testi interi, volutamente brevi e quasi «oracolari ». Ovviamente è una illusione ottica, nella quale non si lascia irretire Boncinelli. Egli osserva infatti che — nel corso del tempo — c'è stata una valutazione sui generis per questo strano pulviscolo di «avanzi» provenienti da componimenti maggiori. Dicendo che la loro «potenza» li ha resi «immortali », infatti, Boncinelli intende probabilmente dire che quei frammenti — per lo più citazioni ad opera di autori successivi — furono non di rado trascelti, estratti dal loro contesto, da coloro che ce li hanno in tal modo conservati. E lo furono, comunque, per una loro speciale significanza.
Quei passi, prelevati dai loro contesti, a cura di eruditi, retori, critici letterari (Dionigi di Alicarnasso, l'autore del Sublime, lo stesso Aristotele etc.), rappresentano, visti nel loro insieme, già una antologia di «punti alti». Naturalmente le ragioni per cui parvero «alti» ai critici antichi possono non collimare con il nostro gusto. Resta però il fatto, come osservò una volta Tocqueville, che le letterature classiche furono strutturalmente prodotti di élite, riservati a cerchie molto ristrette ed esigenti, e che perciò stesso erano caratterizzate da una straordinaria ricerca di perfezione formale. Di qui l'impressione dei moderni di trovarsi di fronte a testi nei quali la ricerca formale è molto acuminata e regolata da norme riconosciute e accettate. (È per questo che si dovrà sempre dubitare dei moderni creduloni quando «rifilano» ad autori antichi componimenti particolarmente sconclusionati).
Come interprete, Boncinelli ha scelto, di fronte a poesie caratterizzate da uno stile «alto», un tono mediamente «elevato», anche quando la materia può apparire frivola. Il rischio era quello di produrre, di autore in autore, uno stile sostanzialmente uniforme. Ma è stato, per lo più, evitato. Il Boncinelli traduttore risulta dunque agguerrito e sapiente. Il trono Ludovisi sulla copertina sarà forse una scherzosa allusione alla costante insidia — per i moderni — dei falsi nell'arte ed ai sospetti che essi fatalmente ingenerano.

il Riformista 30.11.08
Centenari nasceva il 1 dicembre del 1908 il più grande antropologo italiano
Per De Martino è l'Occidente la terra del rimorso
di Guido Vitiello


Riletture. In un saggio del 1962 l'autore del "Mondo magico" anticipava il dibattito sul relativismo culturale. Esortando gli europei a non darsi troppo addosso, e a non abbandonare la "scelta della ragione".

Cartografo del «mondo magico»
Nato a Napoli appena tre giorni più tardi del suo "collega" Claude Lévi-Strauss (e morto nel 1965) Ernesto de Martino è stato il più importante antropologo ed etnomusicologo italiano. La sua prima grande opera è "Il mondo magico", pubblicata nel 1948, che indagava la natura e la funzione dei poteri magici. Seguirà una serie di studi dedicati alle civiltà contadine del Meridione e ai loro culti arcaici che perduravano a fianco del Cattolicesimo: "Morte e pianto rituale", sul lamento funebre in Lucania; "Sud e magia", sulla fascinazione e la fattura; "La terra del rimorso", sul tarantismo del Salento. Il saggio "Promesse e minacce dell'etnologia" (1962), più volte citato in questo articolo, è raccolto nel volume "Furore simbolo valore".

Ben prima che il saggista francese Pascal Bruckner parlasse del «singhiozzo dell'uomo bianco» e del masochismo degli europei, desiderosi di addossarsi il "fardello" di tutte le colpe del mondo, ci aveva pensato Ernesto de Martino a metterci in guardia sugli eccessi dell'autofustigazione culturale. E già, perché l'Occidente non è tanto la "terra del tramonto", dell'occasus, come vanno ripetendo da decenni le prefiche heideggeriane e spengleriane a suon di etimologie civettuole. È piuttosto la "terra del rimorso", il luogo di una contrizione e di una flagellazione interminabili. Certo, quando il grande antropologo nato cent'anni fa coniò quest'espressione, nel suo studio sul tarantolismo pugliese, si riferiva a uno scenario ben più ridotto: al Salento, alla Puglia, tutt'al più al Meridione d'Italia. Ma la «terra del cattivo passato che torna e opprime col suo rigurgito», a ben vedere, è una formula appropriata per l'Occidente divorato dalle sue colpe storiche come Prometeo dalla leggendaria aquila. E impegnato in un inesausto «pianto rituale» di espiazione, via via degradato a piagnisteo.
Perché, non c'è dubbio, a furia di fustigare l'etnocentrismo va a finire che si diventa etnocentrifughi. Forse un giorno appenderemo nelle aule scolastiche il curioso atlante che i seguaci di André Breton s'inventarono negli anni Venti, Le Monde au temps des surréalistes. Un planisfero noncurante dei parametri geografici, ridisegnato secondo il capriccio primitivista dei «disfattisti d'Europa»: la Francia dei Lumi era ridotta a un punto, la sola Parigi; di tutta l'Europa non restavano che la Germania e l'Austria della Romantik e di Freud; scomparivano gli Stati Uniti, fagocitati tra il Messico e il Canada. L'Isola di Pasqua, con i suoi moai, i grotteschi mascheroni di tufo, appariva invece quasi più vasta del Vecchio Continente. Una nemesi carnevalesca della boria dell'Occidente colonialista, razzista, imperialista, spavaldamente persuaso della propria superiorità sugli altri popoli.
A questa (doverosa) nemesi la tradizione antropologica, che tanto deve alla temperie surrealista, ha offerto un contributo intellettuale immenso. Ha insegnato a ridimensionare l'albagìa dei bianchi, ha riscattato i popoli non europei dallo stigma di "barbari" o "selvaggi", ne ha illustrato i sistemi di pensiero e i costumi spesso raffinatissimi.
Il guaio è quando si passa il segno, e dal sano apprezzamento delle altre civiltà si arriva alla denigrazione sistematica della propria, trasformando la mappa del mondo reale nel masochistico atlante dei surrealisti. Ernesto De Martino, che pure ha dato un contributo di prim'ordine all'impresa di demolizione della boria eurocentrica, ne aveva tuttavia avvertito per tempo i pericoli. Che erano quelli di spazzar via per intero l'edificio dell'Occidente, in modo irresponsabile e indiscriminato. C'è un saggio di spaventosa chiaroveggenza, Promesse e minacce dell'etnologia, che risale al 1962 ma che attinge largamente a uno scritto di dieci anni prima. Se non sembra scritto oggi, poco ci manca. Non lo si cita spesso, non è certo tra le pagine predilette di certi lettori «etnocentrifughi» di De Martino, ma è uno straordinario documento di «battaglia delle idee» che prende di mira uno dei bersagli più ricorrenti del dibattito contemporaneo: il relativismo culturale estremo, l'idea che le civiltà siano disposte su un piano di assoluta parità, che il progresso sia una chimera, che il rapporto tra le culture non sia in nessun caso affare di gerarchie ma sempre e solo di "scarti differenziali". Una visione che il "quasi gemello" d'Oltralpe di De Martino, Claude Lévi-Strauss, aveva contribuito a forgiare, soprattutto nel saggio Razza e storia (1952) scritto su sollecitazione dell'Unesco, che gli valse i rimproveri di Roger Caillois.
Per De Martino la grande minaccia dell'etnologia è quella che si realizza allorché «il rapporto con l'etnos si dissolve in un alquanto frivolo défilé di modelli culturali, sospinti sulla passerella della "scienza" da un frigido apolide in funzione di antropologo infinitamente disponibile verso i possibili gusti culturali». Una grande sfilata di moda - neppure una gara di bellezza con voti e palette - in cui l'unico elemento d'interesse è la diversità delle civiltà, da ammirare senza sognarsi di giudicarle. Tutte, tranne una: la nostra, a cui spetta a fine sfilata un inappellabile pollice verso. In tutto questo De Martino riconosceva un venir meno al compito storico dell'Occidente.
«Mettere in causa il sistema nel quale si è nati e cresciuti non significa essere indefinitamente disponibili per rinunzie incaute e disinvolte», proseguiva De Martino. «Si "mette in causa" un certo patrimonio per meglio possederlo e accrescerlo, per distinguerne chiaramente l'attivo dal passivo, non per liquidarlo e annientarlo leggermente. Accade invece che, nel vuoto della coscienza storica delle scelte culturali dell'Occidente, l'incontro con l'etnos diventi una occasione di più per cancellare indiscriminatamente tali scelte, e soprattutto quella "scelta della ragione" che, attraverso i momenti storici della nuova scienza, dell'illuminismo e dello storicismo, ha reso possibile il configurarsi di un compito dell'uomo di scienza, e in particolare di un compito dell'etnologo». Questa "scelta della ragione" per De Martino, marxista ben poco chiesastico, andava rilanciata con convinzione, per«restituire alla tradizione occidentale, su vie radicalmente diverse da quella dello sfruttamento borghese, del colonialismo e del missionarismo, il passo eroico del suo destino unificatore».
Ernesto de Martino è stato un pensatore strano, inclassificabile, in virtù della sua curiosità onnivora. Di formazione crociana, diede spazio nel suo pensiero agli apporti più disparati: il marxismo e la psicopatologia, l'esistenzialismo e la fenomenologia di Heidegger, Sartre e Jaspers. Proprio per questo è stato così facile per molti «appropriarsene», spacciandolo di volta in volta come pensatore della "crisi" o come etnorelativista. Ma il caleidoscopio di letture (e di gerghi) di cui De Martino si giovò non lo distolse da una fedeltà di fondo alla tradizione illuministica e umanistica. Certo, tra i compiti dell'Occidente l'antropologo annoverava «il tramonto della determinazione borghese della civiltà occidentale, la liberazione dei popoli coloniali e semicoloniali, la unificazione socialista del nostro pianeta, la conquista degli spazi cosmici». Nondimeno, a conti fatti, la via del progresso gli sembrava passare sempre per il Vecchio Continente: «Malgrado gli elementi negativi, vistosi e spesso atroci, con cui la crisi si manifesta e si minaccia», suggeriva, «le alternative vitali che impegnano oggi il mondo si chiamano ancora Europa».