Tobino, un amore folle per i malati senza bavaglio
Non considerava il manicomio causa prima del disagio
di Michele Zappella
A Lucca si apre domani la mostra «Il turbamento curato, Strumenti medici e scientifici dell’Ospedale Psichiatrico di Maggiano». Nella mostra sono esposti gli oggetti primordiali della psichiatria e racconta una storia lunga 205 anni fatta di camicie di forza, elettroshock, manicotti di sicurezza, fonendoscopi, maschere di Esmarch, inquietanti strumenti per misurare il vuoto e guanti volumetrici per misurare le alterazioni affettive.
Nato nel 1910 l’autore toscano ha svolto l’attività di psichiatra tra gli anni trenta e settanta
La sue idee: la malattia non cancella i sentimenti. Sì agli psicofarmaci, ma solo per curare
Lucca inaugura le celebrazioni del centenario della nascita di Mario Tobino (1910-1991) con una mostra e un convegno. Ce ne parla Michele Zappella, psichiatra nonché nipote dello scrittore toscano.
L’attività di Mario Tobino come psichiatra si svolge tra gli anni trenta e i settanta, un’epoca in cui per anni non c’erano cure (i primi psicofarmaci compaiono negli anni cinquanta) e la psichiatria veniva esercitata quasi unicamente negli ospedali psichiatrici. Inesistente il lavoro nel territorio che iniziò in poche parti del nostro Paese soltanto durante gli anni settanta. In quel periodo Tobino, che abitava con i malati di mente di cui aveva una conoscenza profonda, attenta e quotidiana, è la voce più potente in difesa del malato di cui rivendica l’umanità. Cauto nei riguardi degli psicofarmaci che accetta in quanto cura ma rifiuta come un modo di imbavagliare la follia, contrario alla lobotomia e a qualsiasi tipo di intervento che con la cura cancelli o deformi la persona del malato. La sua visione della malattia di mente è sostanzialmente unitaria, riferendo il tutto a disturbi dell’intelletto, ed è mossa da un’idea di fondo: gli affetti, i sentimenti non vengono cancellati dalla malattia. In molti malati c’è una sete, una fame d’amore e lo manifestano pienamente. In altri, durante le fasi più gravi del disturbo, è come se gli affetti si ritirassero in un loro rifugio per ripresentarsi poi intatti quando la fase più acuta del disturbo è passata. La follia stessa può rivelarsi come espressione intensa, sublimata della mente umana: richiede rispetto, e una comprensione affettuosa è dovuta a chi ne è colpito.
È questa la stella polare del percorso psichiatrico di Tobino che nasce da un prolungato ascolto del malato e che ispira un intervento che punta a migliorare la sua condizione. «Scrissi questo libro per dimostrare che anche i matti sono creature degne d’amore, il mio scopo fu ottenere che i malati fossero trattati meglio, meglio vestiti, si avesse maggiore sollecitudine per la loro vita spirituale, per la loro libertà» dice Tobino in una sintesi delle sue idee in un’edizione del 1963 de Le Libere Donne di Magliano.
UN «MANIFESTO»
Questo suo «manifesto» si potrebbe ritradurre nell’oggi indicando nella migliore qualità della vita dei malati il suo programma la quale comprende anche la necessità di proteggerli dai rischi della loro malattia e di curarli nel modo migliore. Essendo disponibile verso di loro nel lavoro e nella vita quotidiana e organizzando meglio l’ospedale: come quando per un anno divenne direttore dell’ospedale e cercò di umanizzarlo, e successivamente nel progetto per l’ospedale di Vicenza, fatto congiuntamente a due architetti, in cui propose una sorta di villaggio con la sua chiesa e la sua piazza centrale, anticipando di dieci anni i suggerimenti dati in proposito da Maxwell Jones, noto esponente di comunità terapeutiche. Questo indirizzo riformatore va, sia pure per vie diverse, in parallelo con Basaglia col quale esisteva una reciproca stima fino alla fine degli anni sessanta: come suo nipote posso dire che quando verso il ’68-’69, esprimevo alcune perplessità verso Basaglia mio zio mi rispondeva, invece, con simpatia verso di lui: «Ha reso il suo ospedale famoso nel mondo. Poi lì c’è Jervis che è anche filosofo!».
IL RAPPORTO CON BASAGLIA
Quanto ai pensieri e sentimenti di Basaglia verso Tobino prima della 180 basta leggere l’intervista che egli rilasciò a Paese Sera il 4.5.1978 dove, riferendosi a un’epoca lontana di anni, scrive: «io stesso sono stato innamorato di Tobino e del suo manicomio». Lo scontro fra i due si manifesta negli anni settanta in relazione all’evoluzione del pensiero basagliano che tende a considerare i malati come vittime della società, il manicomio come causa prima del disagio mentale, psichiatri e infermieri come aguzzini al servizio del potere capitalistico. Tobino si oppose a questa interpretazione e alla legge 180 con libri e articoli, uno dei quali sembra sia stato di stimolo per una modifica della legge stessa che consentì ai malati cronici di restare ancora nell’ospedale.
Oggi in Italia gli ospedali psichiatrici sono chiusi da anni. È ormai evidente a tutti che i malati di mente sono vittime della società né più né meno che coloro che hanno altre differenti malattie(si sapeva trent’anni fa e molto prima, almeno fuori del nostro Paese!). Il loro inserimento nel territorio ha lasciato aperti disagi e pericoli che comportano numerosi interrogativi. Rispetto a questi il pensiero di Tobino ci suggerisce il valore dell’ascolto del malato, dei suoi bisogni e desideri, che va integrato con le numerose esperienze a riguardo per organizzare un territorio, spesso poco attrezzato alle esigenze del malato, con strutture diurne e di ricovero che ne migliorino la qualità della vita, lo rendano autonomo dalla famiglia di origine e liberino quest’ultima da un peso eccessivo. In questo contesto anche la legge 180 va riesaminata con mente libera da pregiudizi e da demagogie.
l’Unità 3.12.08
Calamandrei. Scuola pubblica addio: la storia si ripete 60 anni dopo
di Tullio De Mauro
L’analisi di Calamandrei si impone oggi come ieri. Passa attraverso la capacità di promuovere una istruzione che rialzi in tutta la società i livelli di cultura la possibilità di realizzare una compiuta democrazia che dia a tutte e tutti una effettiva pari dignità:
«L’UOMO NON PUÒ ESSERE LIBERO se non gli si garantisce un’educazione sufficiente per prender coscienza di sé, per alzar la testa dalla terra e per intravedere, in un filo di luce che scende dall’alto in questa sua tenebra, fini più alti».
In libreria torna il famoso testo-pamphlet contro l’istruzione privata.
Uscirà a giorni, edito dalla Sellerio, nella collana «La memoria», una nuova edizione del libro di Pietro Calamandrei «Per la scuola». La prefazione che riportiamo in ampi stralci in queste pagine è del linguista Tullio De Mauro . Calamandrei considerava la scuola un organo costituzionale della democrazia e come la più iniqua e dannosa delle disuguaglianze il privilegio nell'istruzione. Privilegio rafforzato dall'indebolimento della scuola pubblica a vantaggio di una privata ricca e protetta.
Un governo che come quello italiano attuale con la sua legge finanziaria riduce pesantemente il numero degli insegnanti e la possibilità del loro normale ricambio nelle scuole e nelle università pubbliche e taglia e si propone di tagliare ancor più di anno in anno e per anni i fondi già miseri assegnati; una maggioranza che prepara un emendamento per stabilire che il taglieggiamento non colpirà le scuole private; un governo che, mentre scrivo (10 novembre 2008) si sbraccia e sgola per assicurare che no, tranquilli, taglierà i fondi alla scuola pubblica, ma mai alla privata; e gli emendatori di maggioranza che prontamente dichiarano di essere «soddisfatti per le assicurazioni date oggi dal governo per il reintegro dei fondi da destinare alle scuole non statali»: tutti danno un assai poco gradevole sapore di attualità alle parole di Calamandrei. I «cuochi di questa bassa cucina» dopo sessant’anni sono alacremente al lavoro per cucinare la loro ricetta.
Dunque c’è della attualità immediata in questi scritti solo nel tempo remoti. E c’è anche là dove Calamandrei sorprendeva la sua platea e sorprenderà più d’uno ancora oggi prendendo la distanze da un laicismo che della politica scolastica vede un solo aspetto, la lotta contro le intrusioni clericali e nel 1950 al congresso dell’Associazione per la difesa della scuola nazionale diceva: «PUÒ VENIRE SUBITO in mente che noi siamo riuniti per difendere la scuola laica. Ed è anche un po’ vero ed è stato detto stamane. Ma non è tutto qui, c’è qualcosa di più alto (...). Difendiamo la scuola democratica: la scuola che corrisponde a quella Costituzione democratica che ci siamo voluti dare; la scuola che è in funzione di questo Costituzione, che può essere strumento, perché questa Costituzione scritta sui fogli diventi realtà».
C’è «qualcosa di più alto» e il «più alto» è percepire e rimuovere le condizioni di incultura che minano profondamente il passaggio da una democrazia puramente formale a una democrazia sostanziale. Con mezzo secolo d’anticipo Calamandrei precorre le analisi critiche della democrazia intesa come puro meccanismo elettorale periodico gestito dalle dirigenze di partito e avvio una risposta che trascende tali critiche (e trascende anche il laicismo di chi a volte pare che se ne starebbe contento in un paese di analfabeti purché usciti da una scuola non confessionale). Così diceva e così parla anche a noi:
«IL SISTEMA ELETTORALE non è che uno strumento giuridico, cioè formale; perché la democrazia si attui è necessario che tutti i componenti del popolo siano messi in condizione di sapersi servire di fatto dello strumento elettorale, per i fini sostanziali ai quali è preordinato. I fini di un governo democratico, nel quale la nomina dei governanti è giuridicamente rimessa alla scelta dei governati, saranno tanto meglio raggiunti quanto meglio da questa sua scelta usciranno eletti i più degni: cioè i più capaci, intellettualmente moralmente e tecnicamente, ad assumere nel popolo funzioni di governo. Ma per ottener ciò occorre non soltanto che gli elettori abbiano di fatto capacità di scegliere, cioè di valutare comparativamente i meriti e le attitudini di coloro che stanno per esser chiamati a coprire i pubblici uffici, in modo da saper distinguere i più degni; ma occorre altresì che i più degni si trovino di fatto in condizione di essere scelti, cioè che veramente tutti i cittadini siano in condizione di rivelare e sviluppare le loro qualità sociali, in modo che la scelta, compiuta nell’ambito del popolo intero, possa rappresentare veramente la scoperta e la messa in valore degli elementi più idonei della società. Il problema della democrazia si pone dunque, prima di tutto, come un problema di istruzione. Per far sì che gli elettori abbiano la capacità di compiere una scelta consapevole dei rappresentanti più degni, è indispensabile che tutti abbiano quel minimo di istruzione elementare che valga ad orientarli nelle varie correnti politiche a guidarli nel discernimento dei meriti e delle competenze dei candidati; ma sopra tutto è indispensabile che a tutti i cittadini siano ugualmente accessibili le vie della cultura media e superiore, per far sì che i governanti siano veramente l'espressione più eletta di tutte le forze sociali, chiamate a raccolta da tutti i ceti e messe a concorso per arricchire e rinnovare senza posa il gruppo dirigente.
«Vera democrazia non si ha là dove, pur essendo diritto tutti i cittadini ugualmente elettori ed eleggibili, di fatto solo alcune categorie di essi dispongano dell’istruzione sufficiente per essere elementi consapevoli ed attivi nella lotta politica. La democrazia non è, com ei suoi critici hanno cercato di raffigurarla deformandola, la tirannia della quantità sulla qualità, del numero cieco sull’intelligenza individuale, della massa analfabeta sui pochi competenti colti; ma deve, per dare i suoi frutti, essere consapevole scelta dei valori individuali operata non in una ristretta cerchia di privilegiati della cultura, ma nell'ambito di tutto un popolo reso capace dell’istruzione di giudicare i più degni».
Come in filigrana, in queste pagine che "Il Ponte" pubblicò nel 1946, intravediamo le linee di azioni vol-te a garantire e potenziare una scuola per la democrazia: la battaglia per ottenere che uno, due anni dopo la Costituzione sancisse gli "almeno otto anni" di istruzione "obbligatoria e gratuita" come diritto e do-vere di ogni cittadino (art. 34, c. 2); la lunga e non facile lotta per ottenere dalla metà degli anni cinquanta al 1962 che l'articolo della Costituzione diventasse realtà con la realizzazione della scuola media unica. Ma, diversamente da quanti facevano resistenza all'idea del più largo sviluppo dell'istruzione post elementare, Calamandrei non si proponeva solo il traguardo della media unificata. La sua analisi precorre quelle che veniamo facendo dagli anni novanta e che tuttora stentano a tradursi in fatti e pare utopia e ha avversari in tutto lo schieramento politico la proposta di portare l'istruzione scolastica per tutte e tut-ti fino alle soglie dell'università, come avviene del resto nei paesi progrediti, un'istruzione scolastica "elastica" che si offra con un ricco ventaglio di scelte in un percorso essenzialmente unitario:
«BISOGNEREBBE STUDIARE il modo di far sì che la scelta della professione fosse differita a un'età il più possibile prossima a quella della piena maturità intellettuale, o che in ogni caso potesse esser soggetta a revisione fino alla soglia dell'Università, agevolando allo studente fino agli ultimi anni degli studi medi il passaggio da un tipo all'altro di scuola. Questo è uno dei grandi pregi del sistema scolastico vigente negli Stati Uniti, dove fino all'Università la distinzione tra i vari ordini di studi rimane estremamente elastica e permeabile alle più svariate esperienze e ai più ritardati pentimenti; e in ciò è forse una delle ragioni per le quali in America, nonostante il sistema capitalista, il ricambio sociale è tanto più attivo e rapido che da noi. Questo infatti, attraverso il continuo affluire di nuove forze sociali rivelate e educate dalla scuola, è il segreto della continuità e della vitalità dei veri sistemi democratici: la classe dirigente in continuo ricambio, aperta all'ininterrotto emergere dei migliori».
A una tal considerazione Calamandrei giungeva per forza di riflessione, certamente. Ma queste riflessioni, che suonano ovvie non solo negli Stati Uniti ma in gran parte del restante mondo civile, in Italia erano di pochi (e di pochi restano). Non è illegittimo chiedersi se nello svolgerle Calamandrei avesse tratto ispirazioni da altri. Un libro che ebbe grande fortuna prima e dopo la Prima guerra mondiale e di cui Calamandrei, come ricorda opportunamente Silvia Calamandrei, conosceva assai bene l'autore, le Lezioni di didattica di Giuseppe Lombardo Radice, contiene a riguardo pagine significative. È uno stringente ragionamento psicologico e pedagogico, arricchito da una gustosa testimonianza autobiografica, quello che portava Lombardo Radice a condannare la scelta precoce di una professione negli anni della prima adolescenza e a sostenere che scegliere è opportuno dopo l'offerta e la fruizione di un vario esperire solo al termine degli studi medio superiori. Oggi anche le neuroscienze aiutano a capire quanto mutevole e bisognoso di esperienze varie e varianti è il cervello degli adolescenti fino alle soglie dei vent'anni.
... Per Calamandrei il pieno sviluppo della scolarità, e non solo elementare, è un prerequisito essenziale di una democrazia non solo formale. L’idea di scuola come «organo costituzionale», un cui corollario è la necessità di un impegno pubblico nell’aprile e tenere scuole aperte a tute e a tutti, è il suo lascito. Se quella scuola non diventa reale:
«VIENE A MANCARE DI FATTO, se non di diritto, quel continuo ricambio sociale, quella circolazione delle élites, attraverso la quale si opera senza posa nelle vere democrazie il rinnovamento della classe politica dirigente, che non rimane una casta chiusa, ma costituisce veramente in ogni momento la espressione aperta e mutevole delle forze più giovani della società, confluenti da tutti i ceti a rinnovarla e a ravvivarla. Proprio in questo cristallizzarsi della cultura in una minoranza privilegiata, dove le professioni intellettuali sono legate alla ricchezza più che all’intelligenza e tramandate pigramente di padre in figlio senza più alcun adeguamento ai meriti o alla vocazione, è la ragione del miserabile declinare della classe dirigente italiana (...): proprio qui è da cercarsi la causa più profonda del facile trionfo del fascismo, in questa fiacchezza, in questa anemia, in questa indifferenza, in questa senilità di un gruppo politico grettamente trincerato nei suoi privilegi di censo e di istruzione».
Repubblica 3.12.08
Cento anni fa nasceva il celebre padre dell’antropologia italiana
La lezione di De Martino sull´umanità minore
di Marino Niola
Fu lo studioso del tarantismo pugliese, di quello che lui stesso definì come "l´etnos del Mezzogiorno, il dolorante mondo dei contadini e dei pastori"
Pra le altezze rarefatte della ragione idealistica e le convulsioni ritmiche delle tarantolate salentine, tra la severità sussiegosa e distante dello storicismo crociano e l´immersione commossa nelle arcaiche profondità del Sud. Tra questi estremi si snoda l´intera vicenda umana e scientifica di Ernesto De Martino, padre dell´antropologia italiana, di cui il primo dicembre ricorreva il centenario della nascita.
Ragioni prima politiche e poi teoriche - due dimensioni che nella sua opera non si separeranno mai - guidano il cammino del grande intellettuale napoletano oltre le colonne d´Ercole di Eboli. Comincia negli anni Cinquanta la nekya meridionale di De Martino, la sua discesa negli inferi di un Mezzogiorno che è al tempo stesso una dimensione antropologica, una regione dell´anima e una ferita meridiana della storia.
Nel profondo Sud il raffinato filosofo trova quel che altri grandi antropologi come Lévi-Strauss e Malinowski cercano in terre lontane. Una nuova coscienza dei limiti e delle virtù della propria civiltà. Un modo di guardare il proprio sé, individuale e collettivo, nello specchio di una abissale differenza. Un´operazione problematica, spesso traumatica, che espone il ricercatore al rischio di veder vacillare le proprie certezze, di revocare in questione i fondamenti stessi della propria identità, del proprio essere nel mondo. Esattamente come accade all´intellettuale De Martino ascoltando la nenia funebre intonata da una contadina lucana con suoni, parole e gesti da tragedia greca. Lungi dal considerare le lacrime della donna come una pittoresca, o superstiziosa sopravvivenza, lo studioso si interroga su se stesso e sulla sua cultura, sullo scandalo di quella faglia storica così profonda da rendere una sua concittadina, e contemporanea, lontana da lui quanto un´aborigena australiana. Scheggia di un´altra storia non più nostra, avrebbe detto Pasolini. Oggetto di ricerca, se non di esperimento.
Il primitivo di De Martino è dunque quello che lui stesso definisce "l´etnos del Mezzogiorno, il dolorante mondo dei contadini e dei suoi pastori". Una umanità oppressa dove la magia aiuta gli uomini a far fronte alla precarietà dell´esistenza e rappresenta un antidoto simbolico e condiviso, contro quella che De Martino definisce, con termine heideggeriano, la crisi della presenza.
La chiave di volta dell´antropologia storica demartiniana è la ricerca sul tarantismo pugliese condotta alla fine degli anni Cinquanta nel Salento. Dove la cura musicale del morso della tarantola diventa il paradigma di un orizzonte magico e simbolico in grado di dare un nome, anche se non un rimedio, al male e alla miseria di un´umanità minore. Dall´indagine sul tarantismo nasce La terra del rimorso, il libro più famoso dell´antropologia italiana.
Che sia tra i selvaggi delle Americhe o fra i contadini italiani, il viaggio etnografico è in ogni caso un´uscita da sé, un distacco dai limiti angusti del proprio angolo di mondo per cercare, nelle alterità vicine e lontane, un´immagine più compiuta di sé che comprenda perfino il modo in cui ci rapportiamo a queste alterità. Il frutto più maturo dell´umanesimo occidentale è la capacità di negarsi, diceva Cesare Cases. A questa autocritica culturale De Martino contribuì con la fondazione della leggendaria "collana viola" di Einaudi, concepita insieme a Cesare Pavese, con lo scopo dichiarato di sprovincializzare la cultura italiana, stretta tra idealismo, marxismo e pensiero cattolico. Rendendo in questo modo finalmente accessibili autori proibiti come Jung, Kerényi, Eliade, Mauss, Durkheim.
Ma, quel che più conta, questa critica De Martino la sbatté in faccia all´Italia del miracolo economico, che ancora si cullava nell´illusione delle magnifiche sorti e progressive, nell´escatologia del benessere, e che era improvvisamente costretta a contemplare con stupore orrificato le contadine lucane che si percuotevano il petto ululando come delle menadi in lutto, o le tarantolate salentine che si arrampicavano sugli altari con l´agilità spiritata di ragni equilibristi. Era il lato oscuro dello sviluppo, quella non-storia sofferente che offriva alla trasformazione del paese un doppio tributo: quello di chi emigrava e quello di chi restava. Spaesamento da una parte e arretratezza dall´altra. Le donne tarantolate erano storicamente e anagraficamente sorelle del Rocco di Visconti e delle madri dolenti di Pasolini. Ma anche della folla stracciata e sognante di Miracolo a Milano.
Oltre a capolavori come Il mondo magico, Sud e magia e Morte e pianto rituale nel mondo antico - vincitore del Viareggio 1958 - l´eredità che il grande antropologo, scomparso nel 1965, ha lasciato alla cultura italiana consiste in una officina antropologica che non ha mai smesso di produrre sollecitazioni a pensare. Soprattutto oggi che il mondo, come lui stesso diceva, ha più che mai fame di simboli per dire i suoi mali. Per lenire i suoi dolori.
Repubblica 3.12.08
Addio consumismo riscopriamo le cose
di Pietro Citati
Tutto cominciò, credo, verso l´inizio degli anni cinquanta. Allora, un noto specialista americano in pubblicità venne incaricato di studiare il comportamento delle massaie nei nuovi supermarket. In un angolo, nascose una macchina da presa che avrebbe registrato i movimenti delle palpebre delle massaie mentre si aggiravano tra i reparti. Dal ritmo dei battiti egli poteva desumere la tensione interna di ognuna di loro: tenendo conto che la media si aggira attorno ai trentadue battiti al minuto.
Quando una massaia metteva piede nel supermarket, veniva inquadrata dall´obbiettivo, che la seguiva passo dopo passo. Il numero dei battiti scendeva rapidissimamente, fino a raggiungere la media di quattordici al minuto: una media subumana, come quella dei pesci; tutte le signore precipitavano in una forma di trance ipnoide. Molte erano così ipnotizzate, che a volte incontravano vecchi amici e conoscenti senza riconoscerli e salutarli. Alcune procedevano con gli occhi sbarrati. Altre si aggiravano tra i banchi come automi, pescando a caso dagli scaffali, o inciampando negli ostacoli senza vederli: spesso non scorgevano la macchina da presa, sebbene fosse a mezzo metro. Quando avevano riempito il carrello, si avviavano verso la cassa. In quel momento, il numero dei battiti cominciava a risalire. Appena trillava il campanello del registratore e la voce del cassiere chiedeva il denaro, il ritmo delle palpebre raggiungeva, all´improvviso, i quarantacinque battiti al minuto.
In questi quasi sessant´anni gli americani e gli europei hanno vissuto in una condizione di trance ipnoide, come le massaie del 1952.
Abbiamo consumato, sempre più velocemente, sempre più istericamente, senza che nessuna necessità ci costringesse a comprare. Conosco un bambino di otto anni: ama piantare sul terrazzo di casa i peperoni e i pomodori e vederli crescere: ma, a Natale, padre, madre, nonni, nonne, zii, cugini e cugine gli regalano trenini elettrici, automobili modernissime, aerei teleguidati, animali mostruosi, che il bambino guarda con disgusto per qualche minuto e poi butta via. Non vedo perché uomini adulti debbano possedere otto telefonini, quaranta paia di scarpe, tre macchine velocissime, due televisori portatili, uno yacht con i rubinetti d´oro: né perché da qualche anno le contadine toscane comprino due cucine complete, una delle quali serve da salotto: né perché cinquanta milioni di persone visitino le Gallerie Vaticane o l´Ermitage, senza capire niente di quello che intravedono nel delirio; né perché, dopo sei mesi, una ricca signora milanese cambi il suo frigorifero bianco con un frigorifero rosa.
Negli ultimi anni, il cosiddetto consumismo ha fatto crescere rapidamente l´imbecillità degli italiani. Un mio amico, che per molti mesi insegna Dante, Chaucer, Pindaro e Virgilio in un´università americana, è ritornato ieri a Roma. Mi ha detto che, in soli quattro mesi, la sciocchezza italiana è aumentata del trenta per cento, almeno nelle persone che occupano ruoli pubblici e appaiono in televisione. Quando li ha lasciati, erano individui quasi normali; dicevano sciocchezze pressappoco come le diciamo lui ed io. Ora aprono la bocca solo per pronunciare grandiose idiozie: ciò è divertentissimo per lui e per me, ma meno utile per il funzionamento dello stato.
Mi ha ricordato due casi, che mi erano sfuggiti. Gli studenti dell´Onda, cioè il cuore e il fiore del nostro futuro, hanno appena preparato un piano sull´università: dove sostengono che l´elemento decisivo per la sua e la nostra salvezza è che gli studenti possano andare gratis al cinema. Lella e Fausto Bertinotti hanno assistito al trionfo di Vladimir Luxuria, già deputato-deputata di Rifondazione comunista, in una trasmissione fondamentalissima come L´isola dei famosi. Marito e moglie si sono commossi e hanno pianto, lasciando una piccola pozza salata di lacrime sul tappeto persiano. "Luxuria - ha detto Lella Bertinotti al marito - è una personalità di grande spessore. Si è messa alla prova ed ha vinto. Non ha sbagliato una risposta. Se l´è meritata, una affermazione così. Potrebbe essere il nostro Obama".
* * *
Non so nulla di economia; e mi conforto leggendo su Il Sole. Ventiquattro ore un intelligente articolo di Roberto Perotti, dove sostiene che quasi tutti gli economisti italiani ed europei ignoravano le tecniche finanziarie diffuse negli Stati Uniti. E non sono un profeta. Non saprei nemmeno lontanamente prevedere se le misure dei governi modereranno la recessione di questi mesi. O se, invece, piomberemo in una crisi peggiore di quella del 1929.Credo che la crisi americana distruggerà due modi di pensare diffusissimi. In primo luogo, la fede nel progresso ininterrotto. Per quasi quarant´anni, banchieri, industriali, politici, economisti, saggisti di terz´ordine hanno immaginato che la storia moderna sia dominata dal progresso ininterrotto, come un jet che sfonda l´infinito. Ogni anno il Prodotto Interno Lordo aumentava, la scienza faceva scoperte, la fratellanza universale cresceva, l´intelligenza si liberava dal peso dell´empio passato, e i banchieri giocavano con la carta, dove qualcuno aveva scritto cifre irreali, come in una partita di Monopoli. Un noto scrittore italiano ha detto: "Noi, genitori progressisti"; una razza certamente superiore, alla quale mi duole di non appartenere.
Come quasi tutti gli storici sanno, nella storia non c´è nemmeno un´ombra, o un barlume, di progresso ininterrotto. Quando sembra sul punto di giungere alla meta, la storia si ferma, bivacca per qualche tempo in un bosco o in una palude, si addormenta, produce catastrofi, ripercorre la strada che ha già percorso, procede a zig-zag. Credo che avesse ragione Leopardi, quando nel maggio 1833 scriveva a una sua amica fiorentina, Charlotte Bonaparte. "Quanto a me, cara signora, voi sapete bene che lo stato progressivo della società non mi riguarda per niente. Il mio stato, se non retrogrado, è eminentemente stazionario".
Quindi entrerà in crisi il cosiddetto consumismo. Non sarà più possibile consumare, consumare, consumare: comprare una Bentley quando basta una bicicletta. Mi auguro che gli uomini ritrovino un giusto rapporto con le cose, che abbiamo comprato, ingoiato, sciupato, gettato con incredibile leggerezza per tanti anni. Oggi, sono troppe. Si accumulano da tutte le parti, l´automobile e la lavatrice, il quadro e il tappeto, cinquecento cravatte e quaranta paia di scarpe nell´armadio. Siamo ricoperti dagli oggetti: nascosti dagli oggetti; stanchi di quello che produciamo. Abbiamo smarrito la sensazione di come è fatta una cosa: del suo peso, del suo spessore, dei suoi colori, delle sue ombre, e del valore simbolico che può avere nella nostra vita. Non le amiamo più. Non possiamo amarle, visto che oggi sono diventate infinitamente sostituibili.
Tutti gli oggetti del mondo hanno diritto alla nostra attenzione e al nostro rispetto. Non ci sono cose sostituibili. Tutto ciò che esiste, sebbene fabbricato in serie, è unico. Anche una vecchia giacca, o una vecchia automobile, o una lavatrice che cade a pezzi chiedono il nostro riguardo. Dobbiamo recuperare le virtù della civiltà contadina, ritrovando la parsimonia, la sobrietà e quasi l´avarizia all´inizio del ventunesimo secolo. Non c´è da possedere nulla, perché il possesso è una qualità che apparteneva ai tempi di Balzac, non a quelli moderni. Vorrei essere Virgilio, o Orazio, o Ariosto, o Manzoni nelle loro case di campagna. Amavano poche cose, le accarezzavano con la mente e la mano, contemplavano un grappolo d´uva, un albero, o un tramonto, abituandosi alla precisione, che noi abbiamo perduto.
Certo, la Cina continuerà a consumare. Aumenterà ogni anno il Pil del dodici per cento, moltiplicherà le fabbriche, i porti, gli aeroporti, si coprirà di gioielli e di vestiti acquistati a Parigi, mentre le ciminiere e le automobili sporcheranno il cielo di un nero incancellabile, e i tibetani verranno offesi e uccisi. Preferisco l´Europa: gli olivi e i cipressi delle colline toscane, le campagne francesi dove le cuspidi delle cattedrali forano il cielo rosa, le foreste di rododendri della Scozia; o gli agilissimi, delicatissimi grattacieli di Manhattan, con i vetri che riflettono l´Hotel Plaza. Non mi importa nulla se conosceremo la decadenza: se non cambieremo frigorifero ogni settimana: se saremo più poveri e consumeremo meno; e se i nostri regimi politici sembrano ai Cinesi lievemente anacronistici. Mi importa soltanto che gli Stati Uniti e l´Europa continuino a capire il mondo, ad accoglierlo e a trasformarlo, conservando quel prodigioso dono di metamorfosi, che ha permesso a tanti popoli, tanti dèi, tanti libri di penetrare nelle nostre terre.
Corriere della Sera 3.12.08
L'intervista L'ex presidente della Corte costituzionale: non c'è stato alcun ricambio generazionale
«Corruzione a sinistra, cacicchi scatenati»
Zagrebelsky: se ne sentono di tutti i colori. La colpa? Il Pd centrale è debolissimo
di M. Antonietta Calabrò
ROMA — «Questa è qualcosa di più di un'intervista, è uno sfogo». A parlare così è Gustavo Zagrebelsky, uno dei più importanti costituzionalisti italiani, ex presidente della Corte Costituzionale, opinionista influente, capofila della scuola piemontese cui hanno fatto riferimento personaggi come Giancarlo Caselli e Luciano Violante, e un'intera generazione di magistrati «democratici».
Fumo negli occhi per il centrodestra che lo ha sempre temuto come il padre nobile di Mani Pulite e, negli anni, come la punta di diamante giuridica contro le cosiddette leggi ad personam e i provvedimenti sulla giustizia dei governi Berlusconi succedutisi dal 1994.
Ebbene,con il suo consueto rigore
more geometrico Zagrebelsky prende oggi pubblicamente atto che un'enorme «questione morale sta corrodendo il centrosinistra». E che quello che Gerhard Ritter aveva definito «il volto demoniaco del potere» ormai è diventa l'altra faccia della politica del Partito democratico. Secondo l'analisi di Zagrebelsky il Pd «a livello centrale è debolissimo e quindi a livello locale i cacicchi si sono scatenati». Dalla Campania all'Abruzzo, da Firenze a Genova.
Oggi la questione morale si è spostata a sinistra?
«Sì. Per un motivo antropologico e per uno politico».
Prima l'antropologia...
«E' una questione di antropologia, ma pur sempre antropologia politica. Le leggi della politica sono ineluttabili: la politica corrompe. Ha un effetto progressivamente corrosivo, permea il tessuto connettivo e stabilisce delle relazioni basate sul potere. Nel caso meno peggiore si tratta di relazioni non trasparenti, di dipendenze, di clientele. Siamo un popolo di clienti delle persone che contano. Nel peggiore dei casi, invece, si tratta di vere e proprie relazioni criminali e di malavita».
Anche nel Pd?
«Sì. Nella sinistra, il neonato Pd è la causa della questione morale che constatiamo. Per due motivi».
Il primo?
«Il mancato ricambio generazionale che era la speranza e la scommessa dei democratici. Non che a sinistra ci siano necessariamente gli uomini migliori, ma si poteva sperare in un rinnovamento che avrebbe invertito l'inesorabile avanzata degli effetti della legge della corruzione».
Il secondo?
«La debolezza del partito, dell'organizzazione del partito, la mancanza di comuni linee di condotta...».
Rina Gagliardi su «Liberazione « ieri sottolineava che l'esplosione della questione morale comporta il rischio di implosione per il Pd. Manca il centralismo democratico?
«Certamente non bisogna invocare il centralismo democratico che era anch'esso una degenerazione, ma al centro del Pd oggi come oggi non c'è nulla e così a livello locale i cacicchi si sono scatenati ».
Anche D'Alema aveva definito questa tipologia di politici locali il «partito dei cacicchi». Lei quando parla di caciccato pensa alla Campania del presidente Antonio Bassolino?
«Non conosco direttamente le varie situazioni: certo è che se ne sentono dire di tutti i colori».
Proprio ieri il capo dello Stato, parlando a Napoli, ha fatto un forte appello all'autocritica delle forze politiche in particolare del Mezzogiorno. Condivide le parole di Napolitano?
«Completamente. Anche perché si stanno avvicinando le elezioni amministrative e quello che si vede e si sente ha effetti devastanti sulla tenuta democratica del Paese».
Ci spieghi...
«La gente si sente strumentalizzata, usata per giochi di potere. C'è un drammatico bisogno di ricambio degli amministratori. Molti cittadini hanno veramente creduto nella possibilità di un cambiamento con il governo della sinistra.
E invece, le ferree regole descritte da Ritter ne Il volto demoniaco del potere hanno avuto il sopravvento e si è instaurato il caciccato ».
E nel centrodestra ci sono i cacicchi?
«Il centrodestra ha un leader, Berlusconi, che ha dimostrato di avere le capacità e le possibilità, anche materiali, di tenere insieme i suoi. Noi constatiamo che a destra il sistema di potere funziona meglio e quindi è meno visibile. Non che questo sia un vantaggio, ma gli effetti degenerativi non sono sotto gli occhi di tutti in maniera così eclatante».
Corriere della Sera 3.12.08
Ragusa Il presidente del Tribunale: lo Stato è laico. Sindaco, vescovo e avvocati lo attaccano
Il giudice che toglie i crocifissi: meglio Socrate
di Felice Cavallaro
RAGUSA — Se la legge è davvero uguale per tutti, oltre al Crocifisso il presidente del Tribunale di Ragusa potrebbe proporre di piazzare pure i simboli delle altre religioni su giudici togati e popolari, avvocati, cancellieri e imputati. Ma è più facile togliere che mettere. E così nel palazzo di giustizia della provincia più a Sud d'Italia scatta un particolare divieto di affissione considerato dai cattolici praticanti una sorta di bestemmia.
Manca Cristo in croce nelle aule dove si decide il destino di potenti e poveri cristi. Per ordine superiore. E si scatena la polemica. Non siamo più nelle rosse contrade della querelle cinematografica fra Don Camillo e l'Onorevole Peppone. Ma poco ci manca a trasformare il primo fra i giudici ragusani, il presidente Michele Duchi, nel sindaco anticlericale interpretato da Gino Cervi e a far calare un sindaco vero, Nello Dipasquale, primo cittadino con cuore berlusconiano, nei panni di un novello Fernandel come difensore della tradizione cristiana.
Il primo vuol mettere tutti alla pari, da Budda a Cristo, dai musulmani agli ebrei, e ordina al cancelliere della sede distaccata di Vittoria che s'era permesso di affiggere un Crocifisso di toglierlo. L'altro passa all'attacco e chiede di rivedere la disposizione. Perché non gli piace proprio che Duchi la pensi come Zapatero in Spagna o come quel giudice di Camerino, Luigi Tosti, condannato l'inverno scorso a un anno di reclusione per essersi rifiutato di tenere udienze in aule col Crocifisso alla parete.
«Io penso con la mia testa», puntualizza Duchi rivendicando il diritto alla rimozione. «Il nostro è uno Stato laico, multietnico e multireligioso dove hanno gli stessi diritti ebraici, musulmani, buddisti o cattolici. E chiunque, entrando in un ufficio pubblico, ha diritto di non vedere simboli religiosi che possano disturbarlo». Irremovibile, eccolo pronto a rilanciare sempre più in alto la provocazione. Perché, «pur da laico e anche da cristiano nato e cresciuto in un mondo cattolico», azzarda confronti destinati a moltiplicare la polemica: «Sento Cristo come figura grandissima. Ma è grandissima pure quella di Socrate che forse è ancora più alta. Come la storia di San Francesco, il Santo che più si avvicina a Cristo. E se la Chiesa avesse seguito il verbo francescano non ci sarebbero state tante lacerazioni, né il movimento protestante...».
No, non ci sta il sindaco senza la tonaca di Fernandel a sostituire Cristo con Socrate o San Francesco. Nello Dipasquale prova a mettere paletti: «Marciamo verso una società multirazziale, ma questo non può produrre intolleranza sulle nostre tradizioni. E il crocifisso dov'era rimane. E dove non c'è si metterà».
Richiesta analoga a quella del presidente dell'Ordine degli avvocati, Giorgio Assenza: «È una sciocchezza considerare una discriminazione il simbolo religioso in cui si riconosce il nostro popolo». Osservazione condivisa dal vescovo di Ragusa, Paolo Urso: «Cristo si è immolato per salvaguardare i diritti dei più deboli. La giustizia degli uomini è una trama che riesce a prendere solo i moscerini perché le realtà più forti sfondano la rete. E rappresentare i più deboli con l'esempio di Cristo aiuta l'umanità a crescere».
Echeggiano le voci contrarie al divieto, ma il presidente Duchi insiste: «Lo Stato laico deve mostrarsi assolutamente imparziale». E gioca la sfida che sembra quella dell'uno contro tutti. Certo di non essere isolato.
l’Unità 3.12.08
Veltroni: «Non siamo socialisti»
Un «caminetto» per sciogliere il nodo Strasburgo, con Veltroni, D'Alema, Marini, Rutelli, Fassino e Franceschini. Il 10 dicembre s’incontreranno anche per trovare la soluzione al problema della collocazione europea del Pd.
Lunedì scorso Veltroni era intervenuto al meeting socialista di Madrid e ieri ha incontrato a Roma Graham Watson, capogruppo al Parlamento europeo dell'Alde, alleanza alla quale aderiscono gli euro parlamentari ex Dl. Sempre ieri, durante la riunione dei segretari regionali, il leader dei democratici ha ribadito che il Pd è «un partito di centrosinistra, e non solo di sinistra». Una realtà, in sostanza, che mette assieme storie e tradizioni diverse, con un «pluralismo» del quale si dovrà tenere conto anche in Europa.
Nelle stesse ore, intanto, a Madrid, veniva approvato il calendario delle iniziative Pse in vista del rinnovo del Parlamento di Strasburgo. La giornata socialista messa in calendario per il 30 maggio, e che si svolgerà in contemporanea in tutte le capitali Ue alla vigilia del voto, potrebbe creare nuovi imbarazzi in Italia, se la matassa europea non si dovesse dipanare prima. Chi incontreranno i leader Pse che voleranno a Roma in campagna elettorale? Soltanto i socialisti di Nencini o metteranno in piedi iniziative anche con i democratici?
Ieri nuove polemiche sono piovute su Piero Fassino, che ha approvato il manifesto elettorale Pse (al contrario di Veltroni). «Spacca il partito», ha attaccato Gianni Vernetti, ex Dl. «La collocazione europea del Pd, resa più difficile dalla mia adesione al documento? - chiede Fassino - Ma non scherziamo, dopo Madrid, in realtà, c'è maggiore chiarezza sulle possibili decisioni da prendere in Italia».
La strada che il vertice Pd vuole percorrere è quella di costruire in Europa un gruppo parlamentare nuovo fin dalla denominazione di «socialisti e democratici». Una sede dove realizzare un «patto federativo» tra Pse e Pd che salvaguardi autonomia e identità della nuova forza politica nata in Italia. Una realtà che rappresenti la prima tappa di un'intesa più larga con altri riformismi europei e che non chiuda le porte ai centristi francesi che militano nell'Alde. Ancora ieri, durante il coordinamento Pd, Veltroni ha ripetuto che «Il Pd non è socialista, ma collaborerà con quella famiglia politica». Una «direzione giusta», secondo Rosy Bindi. Non tutti, però, accettano l'ipotesi di un patto federativo esclusivo con il Pse.
Se parte dei popolari - Marini e Fioroni - aprono (ma con molti condizionali), Rutelli rimane in silenzio in vista del congresso del Partito democratico europeo, al quale parteciperà venerdì con Dario Franceschini. I “rutelliani” rimangono affezionati all'idea di non mollare gli ormeggi dall'Alde, che fa capo al Pde. Lo farebbero, sembra di capire, solo se il Pd facesse squadra a sé nell'europarlamento. «Autonomia non significa isolamento», ha spiegato però Veltroni. Il vertice del 10 convocato dopo il meeting socialista di Madrid e dopo il congresso del Pde, dovrà trovare la quadra tra ex Ds che non vogliono rompere con il Pse ed ex Dl che non intendono «morire socialisti». In via delle Fratte, però, si ribadisce che il Pd deve giocare una propria identità, diversa dalla sommatoria tra una parte che vola dai socialisti e l'altra che si imbarca alla volta dei liberaldemocratici. Una confusione di itinerari non facile da comprendere anche in Europa.
Martin Schulz l'altro ieri, durante l'incontro con Veltroni e Fassino, ha ventilato l'ipotesi che il nodo della collocazione europea si sciolga dopo le elezioni, quando sarà chiaro quanti euro parlamentari Pd vorranno aderire al gruppo socialista. Gli altri? Con loro si vedrà, anche sulla base del numero. «Nessuna soluzione pasticciata - replica Fassino - l'intesa va trovata con il Pd in quanto tale».
il Riformista 3.12.08
Ora il Pd ha la bandiera: Murdoch
di Peppino Caldarola
È ora di farla finita con questa campagna contro il Pd. Certi giornalisti, alcuni annidati anche nell'ex foglio arancione, non fanno altro che sminuire i successi del segretario del Pd. Sono dalemiani camuffati che non riescono a cogliere la svolta epocale che il giovane Walter ha impresso al nuovo partito. Sì, è vero, ci sono difficoltà. Di D'Alema abbiamo detto, Chiamparino sta facendo due maroni così con il partito sabaudo, al sud Di Pietro sta aizzando le procure per far arrestare tutta la classe dirigente piddina, i cantautori del club Tenco si sono affiliati al fan club di Apicella, gli operai votano per la Lega, gli ex del Manifesto per Magdi Cristiano Allam, Fioroni si è intrippato di porchetta, gli articoli di Alfredo Reichlin non entrano più nel nuovo formato dell'Unità, da giovedì sarà Marina Sereni a servire il caffè a casa Fassino al posto di Morri che è passato alla Casina Valadier, le mamme che lavorano hanno mandato affanculo Cofferati, Andrea Orlando dopo il caso Villari si fa chiamare Andrea Orlé per non creare confusione. Un vero disastro, ma a risollevare gli animi è arrivata al segretario del Pd, dopo le dichiarazioni a difesa del povero e indifeso Murdoch, una entusiastica lettera di sostegno. Seguono le firme di Abramovich, Dolce e Gabbana, Ivana Trump e Rossano Rubicondi, Roberto Cavalli, Julio Iglesias, il maggiordomo di casa Angiolillo, Lapo Agnelli. Franceschini non sta più nella pelle perché sembra che stia per firmare anche Flavio Briatore.
Il pensiero scientifico editore 2.12.08
Capire il mistero degli incubi dei bambini
di David Frati
La tendenza ad avere incubi notturni tipica di molti bambini intorno all’anno di età potrebbe essere ereditaria, almeno nella metà dei casi. Lo sostiene uno studio pubblicato dalla prestigiosa rivista specializzata Pediatrics, che tenta di fare luce su un vero e proprio mistero medico.
Il fenomeno della ricorrenza inconsueta di incubi nella primissima infanzia che scompare gradualmente con l’età è ben noto ai pediatri, ma finora non ha trovato spiegazioni mediche convincenti. I ricercatori canadesi del Sacre-Coeur Hospital di Montreal coordinati da Jacques Montplaisir hanno esaminato 390 coppie di gemelli identici – quindi con uguale corredo genetico - e le loro madri dalla nascita a 30 mesi di età.
È emerso che il 36,9 per cento dei bambini di 18 mesi soffre di incubi frequenti e ricorrenti con risvegli improvvisi. La buona notizia è che a 30 mesi la percentuale scende al 19,7 per cento. Mettendo a confronto i gemelli identici e le madri si è potuto concludere che poco più del 40 per cento dei casi di ‘sonno tormentato’ ha una radice genetica, mentre nel resto dei casi dovrebbe trattarsi di fattori ambientali.
Fonte: Nguyen BH, Pérusse D, Montplaisir J et al. Sleep Terrors in Children: A Prospective Study of Twins. Pediatrics 2008; 122: e1164-e1167.