mercoledì 3 dicembre 2008

l’Unità 3.12.08
Tobino, un amore folle per i malati senza bavaglio
Non considerava il manicomio causa prima del disagio
di Michele Zappella


A Lucca si apre domani la mostra «Il turbamento curato, Strumenti medici e scientifici dell’Ospedale Psichiatrico di Maggiano». Nella mostra sono esposti gli oggetti primordiali della psichiatria e racconta una storia lunga 205 anni fatta di camicie di forza, elettroshock, manicotti di sicurezza, fonendoscopi, maschere di Esmarch, inquietanti strumenti per misurare il vuoto e guanti volumetrici per misurare le alterazioni affettive.

Nato nel 1910 l’autore toscano ha svolto l’attività di psichiatra tra gli anni trenta e settanta
La sue idee: la malattia non cancella i sentimenti. Sì agli psicofarmaci, ma solo per curare

Lucca inaugura le celebrazioni del centenario della nascita di Mario Tobino (1910-1991) con una mostra e un convegno. Ce ne parla Michele Zappella, psichiatra nonché nipote dello scrittore toscano.
L’attività di Mario Tobino come psichiatra si svolge tra gli anni trenta e i settanta, un’epoca in cui per anni non c’erano cure (i primi psicofarmaci compaiono negli anni cinquanta) e la psichiatria veniva esercitata quasi unicamente negli ospedali psichiatrici. Inesistente il lavoro nel territorio che iniziò in poche parti del nostro Paese soltanto durante gli anni settanta. In quel periodo Tobino, che abitava con i malati di mente di cui aveva una conoscenza profonda, attenta e quotidiana, è la voce più potente in difesa del malato di cui rivendica l’umanità. Cauto nei riguardi degli psicofarmaci che accetta in quanto cura ma rifiuta come un modo di imbavagliare la follia, contrario alla lobotomia e a qualsiasi tipo di intervento che con la cura cancelli o deformi la persona del malato. La sua visione della malattia di mente è sostanzialmente unitaria, riferendo il tutto a disturbi dell’intelletto, ed è mossa da un’idea di fondo: gli affetti, i sentimenti non vengono cancellati dalla malattia. In molti malati c’è una sete, una fame d’amore e lo manifestano pienamente. In altri, durante le fasi più gravi del disturbo, è come se gli affetti si ritirassero in un loro rifugio per ripresentarsi poi intatti quando la fase più acuta del disturbo è passata. La follia stessa può rivelarsi come espressione intensa, sublimata della mente umana: richiede rispetto, e una comprensione affettuosa è dovuta a chi ne è colpito.
È questa la stella polare del percorso psichiatrico di Tobino che nasce da un prolungato ascolto del malato e che ispira un intervento che punta a migliorare la sua condizione. «Scrissi questo libro per dimostrare che anche i matti sono creature degne d’amore, il mio scopo fu ottenere che i malati fossero trattati meglio, meglio vestiti, si avesse maggiore sollecitudine per la loro vita spirituale, per la loro libertà» dice Tobino in una sintesi delle sue idee in un’edizione del 1963 de Le Libere Donne di Magliano.
UN «MANIFESTO»
Questo suo «manifesto» si potrebbe ritradurre nell’oggi indicando nella migliore qualità della vita dei malati il suo programma la quale comprende anche la necessità di proteggerli dai rischi della loro malattia e di curarli nel modo migliore. Essendo disponibile verso di loro nel lavoro e nella vita quotidiana e organizzando meglio l’ospedale: come quando per un anno divenne direttore dell’ospedale e cercò di umanizzarlo, e successivamente nel progetto per l’ospedale di Vicenza, fatto congiuntamente a due architetti, in cui propose una sorta di villaggio con la sua chiesa e la sua piazza centrale, anticipando di dieci anni i suggerimenti dati in proposito da Maxwell Jones, noto esponente di comunità terapeutiche. Questo indirizzo riformatore va, sia pure per vie diverse, in parallelo con Basaglia col quale esisteva una reciproca stima fino alla fine degli anni sessanta: come suo nipote posso dire che quando verso il ’68-’69, esprimevo alcune perplessità verso Basaglia mio zio mi rispondeva, invece, con simpatia verso di lui: «Ha reso il suo ospedale famoso nel mondo. Poi lì c’è Jervis che è anche filosofo!».
IL RAPPORTO CON BASAGLIA
Quanto ai pensieri e sentimenti di Basaglia verso Tobino prima della 180 basta leggere l’intervista che egli rilasciò a Paese Sera il 4.5.1978 dove, riferendosi a un’epoca lontana di anni, scrive: «io stesso sono stato innamorato di Tobino e del suo manicomio». Lo scontro fra i due si manifesta negli anni settanta in relazione all’evoluzione del pensiero basagliano che tende a considerare i malati come vittime della società, il manicomio come causa prima del disagio mentale, psichiatri e infermieri come aguzzini al servizio del potere capitalistico. Tobino si oppose a questa interpretazione e alla legge 180 con libri e articoli, uno dei quali sembra sia stato di stimolo per una modifica della legge stessa che consentì ai malati cronici di restare ancora nell’ospedale.
Oggi in Italia gli ospedali psichiatrici sono chiusi da anni. È ormai evidente a tutti che i malati di mente sono vittime della società né più né meno che coloro che hanno altre differenti malattie(si sapeva trent’anni fa e molto prima, almeno fuori del nostro Paese!). Il loro inserimento nel territorio ha lasciato aperti disagi e pericoli che comportano numerosi interrogativi. Rispetto a questi il pensiero di Tobino ci suggerisce il valore dell’ascolto del malato, dei suoi bisogni e desideri, che va integrato con le numerose esperienze a riguardo per organizzare un territorio, spesso poco attrezzato alle esigenze del malato, con strutture diurne e di ricovero che ne migliorino la qualità della vita, lo rendano autonomo dalla famiglia di origine e liberino quest’ultima da un peso eccessivo. In questo contesto anche la legge 180 va riesaminata con mente libera da pregiudizi e da demagogie.

l’Unità 3.12.08
Calamandrei. Scuola pubblica addio: la storia si ripete 60 anni dopo
di Tullio De Mauro


L’analisi di Calamandrei si impone oggi come ieri. Passa attraverso la capacità di promuovere una istruzione che rialzi in tutta la società i livelli di cultura la possibilità di realizzare una compiuta democrazia che dia a tutte e tutti una effettiva pari dignità:
«L’UOMO NON PUÒ ESSERE LIBERO se non gli si garantisce un’educazione sufficiente per prender coscienza di sé, per alzar la testa dalla terra e per intravedere, in un filo di luce che scende dall’alto in questa sua tenebra, fini più alti».

In libreria torna il famoso testo-pamphlet contro l’istruzione privata.
Uscirà a giorni, edito dalla Sellerio, nella collana «La memoria», una nuova edizione del libro di Pietro Calamandrei «Per la scuola». La prefazione che riportiamo in ampi stralci in queste pagine è del linguista Tullio De Mauro . Calamandrei considerava la scuola un organo costituzionale della democrazia e come la più iniqua e dannosa delle disuguaglianze il privilegio nell'istruzione. Privilegio rafforzato dall'indebolimento della scuola pubblica a vantaggio di una privata ricca e protetta.

Un governo che come quello italiano attuale con la sua legge finanziaria riduce pesantemente il numero degli insegnanti e la possibilità del loro normale ricambio nelle scuole e nelle università pubbliche e taglia e si propone di tagliare ancor più di anno in anno e per anni i fondi già miseri assegnati; una maggioranza che prepara un emendamento per stabilire che il taglieggiamento non colpirà le scuole private; un governo che, mentre scrivo (10 novembre 2008) si sbraccia e sgola per assicurare che no, tranquilli, taglierà i fondi alla scuola pubblica, ma mai alla privata; e gli emendatori di maggioranza che prontamente dichiarano di essere «soddisfatti per le assicurazioni date oggi dal governo per il reintegro dei fondi da destinare alle scuole non statali»: tutti danno un assai poco gradevole sapore di attualità alle parole di Calamandrei. I «cuochi di questa bassa cucina» dopo sessant’anni sono alacremente al lavoro per cucinare la loro ricetta.
Dunque c’è della attualità immediata in questi scritti solo nel tempo remoti. E c’è anche là dove Calamandrei sorprendeva la sua platea e sorprenderà più d’uno ancora oggi prendendo la distanze da un laicismo che della politica scolastica vede un solo aspetto, la lotta contro le intrusioni clericali e nel 1950 al congresso dell’Associazione per la difesa della scuola nazionale diceva: «PUÒ VENIRE SUBITO in mente che noi siamo riuniti per difendere la scuola laica. Ed è anche un po’ vero ed è stato detto stamane. Ma non è tutto qui, c’è qualcosa di più alto (...). Difendiamo la scuola democratica: la scuola che corrisponde a quella Costituzione democratica che ci siamo voluti dare; la scuola che è in funzione di questo Costituzione, che può essere strumento, perché questa Costituzione scritta sui fogli diventi realtà».
C’è «qualcosa di più alto» e il «più alto» è percepire e rimuovere le condizioni di incultura che minano profondamente il passaggio da una democrazia puramente formale a una democrazia sostanziale. Con mezzo secolo d’anticipo Calamandrei precorre le analisi critiche della democrazia intesa come puro meccanismo elettorale periodico gestito dalle dirigenze di partito e avvio una risposta che trascende tali critiche (e trascende anche il laicismo di chi a volte pare che se ne starebbe contento in un paese di analfabeti purché usciti da una scuola non confessionale). Così diceva e così parla anche a noi:
«IL SISTEMA ELETTORALE non è che uno strumento giuridico, cioè formale; perché la democrazia si attui è necessario che tutti i componenti del popolo siano messi in condizione di sapersi servire di fatto dello strumento elettorale, per i fini sostanziali ai quali è preordinato. I fini di un governo democratico, nel quale la nomina dei governanti è giuridicamente rimessa alla scelta dei governati, saranno tanto meglio raggiunti quanto meglio da questa sua scelta usciranno eletti i più degni: cioè i più capaci, intellettualmente moralmente e tecnicamente, ad assumere nel popolo funzioni di governo. Ma per ottener ciò occorre non soltanto che gli elettori abbiano di fatto capacità di scegliere, cioè di valutare comparativamente i meriti e le attitudini di coloro che stanno per esser chiamati a coprire i pubblici uffici, in modo da saper distinguere i più degni; ma occorre altresì che i più degni si trovino di fatto in condizione di essere scelti, cioè che veramente tutti i cittadini siano in condizione di rivelare e sviluppare le loro qualità sociali, in modo che la scelta, compiuta nell’ambito del popolo intero, possa rappresentare veramente la scoperta e la messa in valore degli elementi più idonei della società. Il problema della democrazia si pone dunque, prima di tutto, come un problema di istruzione. Per far sì che gli elettori abbiano la capacità di compiere una scelta consapevole dei rappresentanti più degni, è indispensabile che tutti abbiano quel minimo di istruzione elementare che valga ad orientarli nelle varie correnti politiche a guidarli nel discernimento dei meriti e delle competenze dei candidati; ma sopra tutto è indispensabile che a tutti i cittadini siano ugualmente accessibili le vie della cultura media e superiore, per far sì che i governanti siano veramente l'espressione più eletta di tutte le forze sociali, chiamate a raccolta da tutti i ceti e messe a concorso per arricchire e rinnovare senza posa il gruppo dirigente.
«Vera democrazia non si ha là dove, pur essendo diritto tutti i cittadini ugualmente elettori ed eleggibili, di fatto solo alcune categorie di essi dispongano dell’istruzione sufficiente per essere elementi consapevoli ed attivi nella lotta politica. La democrazia non è, com ei suoi critici hanno cercato di raffigurarla deformandola, la tirannia della quantità sulla qualità, del numero cieco sull’intelligenza individuale, della massa analfabeta sui pochi competenti colti; ma deve, per dare i suoi frutti, essere consapevole scelta dei valori individuali operata non in una ristretta cerchia di privilegiati della cultura, ma nell'ambito di tutto un popolo reso capace dell’istruzione di giudicare i più degni».
Come in filigrana, in queste pagine che "Il Ponte" pubblicò nel 1946, intravediamo le linee di azioni vol-te a garantire e potenziare una scuola per la democrazia: la battaglia per ottenere che uno, due anni dopo la Costituzione sancisse gli "almeno otto anni" di istruzione "obbligatoria e gratuita" come diritto e do-vere di ogni cittadino (art. 34, c. 2); la lunga e non facile lotta per ottenere dalla metà degli anni cinquanta al 1962 che l'articolo della Costituzione diventasse realtà con la realizzazione della scuola media unica. Ma, diversamente da quanti facevano resistenza all'idea del più largo sviluppo dell'istruzione post elementare, Calamandrei non si proponeva solo il traguardo della media unificata. La sua analisi precorre quelle che veniamo facendo dagli anni novanta e che tuttora stentano a tradursi in fatti e pare utopia e ha avversari in tutto lo schieramento politico la proposta di portare l'istruzione scolastica per tutte e tut-ti fino alle soglie dell'università, come avviene del resto nei paesi progrediti, un'istruzione scolastica "elastica" che si offra con un ricco ventaglio di scelte in un percorso essenzialmente unitario:
«BISOGNEREBBE STUDIARE il modo di far sì che la scelta della professione fosse differita a un'età il più possibile prossima a quella della piena maturità intellettuale, o che in ogni caso potesse esser soggetta a revisione fino alla soglia dell'Università, agevolando allo studente fino agli ultimi anni degli studi medi il passaggio da un tipo all'altro di scuola. Questo è uno dei grandi pregi del sistema scolastico vigente negli Stati Uniti, dove fino all'Università la distinzione tra i vari ordini di studi rimane estremamente elastica e permeabile alle più svariate esperienze e ai più ritardati pentimenti; e in ciò è forse una delle ragioni per le quali in America, nonostante il sistema capitalista, il ricambio sociale è tanto più attivo e rapido che da noi. Questo infatti, attraverso il continuo affluire di nuove forze sociali rivelate e educate dalla scuola, è il segreto della continuità e della vitalità dei veri sistemi democratici: la classe dirigente in continuo ricambio, aperta all'ininterrotto emergere dei migliori».
A una tal considerazione Calamandrei giungeva per forza di riflessione, certamente. Ma queste riflessioni, che suonano ovvie non solo negli Stati Uniti ma in gran parte del restante mondo civile, in Italia erano di pochi (e di pochi restano). Non è illegittimo chiedersi se nello svolgerle Calamandrei avesse tratto ispirazioni da altri. Un libro che ebbe grande fortuna prima e dopo la Prima guerra mondiale e di cui Calamandrei, come ricorda opportunamente Silvia Calamandrei, conosceva assai bene l'autore, le Lezioni di didattica di Giuseppe Lombardo Radice, contiene a riguardo pagine significative. È uno stringente ragionamento psicologico e pedagogico, arricchito da una gustosa testimonianza autobiografica, quello che portava Lombardo Radice a condannare la scelta precoce di una professione negli anni della prima adolescenza e a sostenere che scegliere è opportuno dopo l'offerta e la fruizione di un vario esperire solo al termine degli studi medio superiori. Oggi anche le neuroscienze aiutano a capire quanto mutevole e bisognoso di esperienze varie e varianti è il cervello degli adolescenti fino alle soglie dei vent'anni.
... Per Calamandrei il pieno sviluppo della scolarità, e non solo elementare, è un prerequisito essenziale di una democrazia non solo formale. L’idea di scuola come «organo costituzionale», un cui corollario è la necessità di un impegno pubblico nell’aprile e tenere scuole aperte a tute e a tutti, è il suo lascito. Se quella scuola non diventa reale:
«VIENE A MANCARE DI FATTO, se non di diritto, quel continuo ricambio sociale, quella circolazione delle élites, attraverso la quale si opera senza posa nelle vere democrazie il rinnovamento della classe politica dirigente, che non rimane una casta chiusa, ma costituisce veramente in ogni momento la espressione aperta e mutevole delle forze più giovani della società, confluenti da tutti i ceti a rinnovarla e a ravvivarla. Proprio in questo cristallizzarsi della cultura in una minoranza privilegiata, dove le professioni intellettuali sono legate alla ricchezza più che all’intelligenza e tramandate pigramente di padre in figlio senza più alcun adeguamento ai meriti o alla vocazione, è la ragione del miserabile declinare della classe dirigente italiana (...): proprio qui è da cercarsi la causa più profonda del facile trionfo del fascismo, in questa fiacchezza, in questa anemia, in questa indifferenza, in questa senilità di un gruppo politico grettamente trincerato nei suoi privilegi di censo e di istruzione».

Repubblica 3.12.08
Cento anni fa nasceva il celebre padre dell’antropologia italiana
La lezione di De Martino sull´umanità minore
di Marino Niola


Fu lo studioso del tarantismo pugliese, di quello che lui stesso definì come "l´etnos del Mezzogiorno, il dolorante mondo dei contadini e dei pastori"

Pra le altezze rarefatte della ragione idealistica e le convulsioni ritmiche delle tarantolate salentine, tra la severità sussiegosa e distante dello storicismo crociano e l´immersione commossa nelle arcaiche profondità del Sud. Tra questi estremi si snoda l´intera vicenda umana e scientifica di Ernesto De Martino, padre dell´antropologia italiana, di cui il primo dicembre ricorreva il centenario della nascita.
Ragioni prima politiche e poi teoriche - due dimensioni che nella sua opera non si separeranno mai - guidano il cammino del grande intellettuale napoletano oltre le colonne d´Ercole di Eboli. Comincia negli anni Cinquanta la nekya meridionale di De Martino, la sua discesa negli inferi di un Mezzogiorno che è al tempo stesso una dimensione antropologica, una regione dell´anima e una ferita meridiana della storia.
Nel profondo Sud il raffinato filosofo trova quel che altri grandi antropologi come Lévi-Strauss e Malinowski cercano in terre lontane. Una nuova coscienza dei limiti e delle virtù della propria civiltà. Un modo di guardare il proprio sé, individuale e collettivo, nello specchio di una abissale differenza. Un´operazione problematica, spesso traumatica, che espone il ricercatore al rischio di veder vacillare le proprie certezze, di revocare in questione i fondamenti stessi della propria identità, del proprio essere nel mondo. Esattamente come accade all´intellettuale De Martino ascoltando la nenia funebre intonata da una contadina lucana con suoni, parole e gesti da tragedia greca. Lungi dal considerare le lacrime della donna come una pittoresca, o superstiziosa sopravvivenza, lo studioso si interroga su se stesso e sulla sua cultura, sullo scandalo di quella faglia storica così profonda da rendere una sua concittadina, e contemporanea, lontana da lui quanto un´aborigena australiana. Scheggia di un´altra storia non più nostra, avrebbe detto Pasolini. Oggetto di ricerca, se non di esperimento.
Il primitivo di De Martino è dunque quello che lui stesso definisce "l´etnos del Mezzogiorno, il dolorante mondo dei contadini e dei suoi pastori". Una umanità oppressa dove la magia aiuta gli uomini a far fronte alla precarietà dell´esistenza e rappresenta un antidoto simbolico e condiviso, contro quella che De Martino definisce, con termine heideggeriano, la crisi della presenza.
La chiave di volta dell´antropologia storica demartiniana è la ricerca sul tarantismo pugliese condotta alla fine degli anni Cinquanta nel Salento. Dove la cura musicale del morso della tarantola diventa il paradigma di un orizzonte magico e simbolico in grado di dare un nome, anche se non un rimedio, al male e alla miseria di un´umanità minore. Dall´indagine sul tarantismo nasce La terra del rimorso, il libro più famoso dell´antropologia italiana.
Che sia tra i selvaggi delle Americhe o fra i contadini italiani, il viaggio etnografico è in ogni caso un´uscita da sé, un distacco dai limiti angusti del proprio angolo di mondo per cercare, nelle alterità vicine e lontane, un´immagine più compiuta di sé che comprenda perfino il modo in cui ci rapportiamo a queste alterità. Il frutto più maturo dell´umanesimo occidentale è la capacità di negarsi, diceva Cesare Cases. A questa autocritica culturale De Martino contribuì con la fondazione della leggendaria "collana viola" di Einaudi, concepita insieme a Cesare Pavese, con lo scopo dichiarato di sprovincializzare la cultura italiana, stretta tra idealismo, marxismo e pensiero cattolico. Rendendo in questo modo finalmente accessibili autori proibiti come Jung, Kerényi, Eliade, Mauss, Durkheim.
Ma, quel che più conta, questa critica De Martino la sbatté in faccia all´Italia del miracolo economico, che ancora si cullava nell´illusione delle magnifiche sorti e progressive, nell´escatologia del benessere, e che era improvvisamente costretta a contemplare con stupore orrificato le contadine lucane che si percuotevano il petto ululando come delle menadi in lutto, o le tarantolate salentine che si arrampicavano sugli altari con l´agilità spiritata di ragni equilibristi. Era il lato oscuro dello sviluppo, quella non-storia sofferente che offriva alla trasformazione del paese un doppio tributo: quello di chi emigrava e quello di chi restava. Spaesamento da una parte e arretratezza dall´altra. Le donne tarantolate erano storicamente e anagraficamente sorelle del Rocco di Visconti e delle madri dolenti di Pasolini. Ma anche della folla stracciata e sognante di Miracolo a Milano.
Oltre a capolavori come Il mondo magico, Sud e magia e Morte e pianto rituale nel mondo antico - vincitore del Viareggio 1958 - l´eredità che il grande antropologo, scomparso nel 1965, ha lasciato alla cultura italiana consiste in una officina antropologica che non ha mai smesso di produrre sollecitazioni a pensare. Soprattutto oggi che il mondo, come lui stesso diceva, ha più che mai fame di simboli per dire i suoi mali. Per lenire i suoi dolori.

Repubblica 3.12.08
Addio consumismo riscopriamo le cose
di Pietro Citati


Tutto cominciò, credo, verso l´inizio degli anni cinquanta. Allora, un noto specialista americano in pubblicità venne incaricato di studiare il comportamento delle massaie nei nuovi supermarket. In un angolo, nascose una macchina da presa che avrebbe registrato i movimenti delle palpebre delle massaie mentre si aggiravano tra i reparti. Dal ritmo dei battiti egli poteva desumere la tensione interna di ognuna di loro: tenendo conto che la media si aggira attorno ai trentadue battiti al minuto.
Quando una massaia metteva piede nel supermarket, veniva inquadrata dall´obbiettivo, che la seguiva passo dopo passo. Il numero dei battiti scendeva rapidissimamente, fino a raggiungere la media di quattordici al minuto: una media subumana, come quella dei pesci; tutte le signore precipitavano in una forma di trance ipnoide. Molte erano così ipnotizzate, che a volte incontravano vecchi amici e conoscenti senza riconoscerli e salutarli. Alcune procedevano con gli occhi sbarrati. Altre si aggiravano tra i banchi come automi, pescando a caso dagli scaffali, o inciampando negli ostacoli senza vederli: spesso non scorgevano la macchina da presa, sebbene fosse a mezzo metro. Quando avevano riempito il carrello, si avviavano verso la cassa. In quel momento, il numero dei battiti cominciava a risalire. Appena trillava il campanello del registratore e la voce del cassiere chiedeva il denaro, il ritmo delle palpebre raggiungeva, all´improvviso, i quarantacinque battiti al minuto.
In questi quasi sessant´anni gli americani e gli europei hanno vissuto in una condizione di trance ipnoide, come le massaie del 1952.
Abbiamo consumato, sempre più velocemente, sempre più istericamente, senza che nessuna necessità ci costringesse a comprare. Conosco un bambino di otto anni: ama piantare sul terrazzo di casa i peperoni e i pomodori e vederli crescere: ma, a Natale, padre, madre, nonni, nonne, zii, cugini e cugine gli regalano trenini elettrici, automobili modernissime, aerei teleguidati, animali mostruosi, che il bambino guarda con disgusto per qualche minuto e poi butta via. Non vedo perché uomini adulti debbano possedere otto telefonini, quaranta paia di scarpe, tre macchine velocissime, due televisori portatili, uno yacht con i rubinetti d´oro: né perché da qualche anno le contadine toscane comprino due cucine complete, una delle quali serve da salotto: né perché cinquanta milioni di persone visitino le Gallerie Vaticane o l´Ermitage, senza capire niente di quello che intravedono nel delirio; né perché, dopo sei mesi, una ricca signora milanese cambi il suo frigorifero bianco con un frigorifero rosa.
Negli ultimi anni, il cosiddetto consumismo ha fatto crescere rapidamente l´imbecillità degli italiani. Un mio amico, che per molti mesi insegna Dante, Chaucer, Pindaro e Virgilio in un´università americana, è ritornato ieri a Roma. Mi ha detto che, in soli quattro mesi, la sciocchezza italiana è aumentata del trenta per cento, almeno nelle persone che occupano ruoli pubblici e appaiono in televisione. Quando li ha lasciati, erano individui quasi normali; dicevano sciocchezze pressappoco come le diciamo lui ed io. Ora aprono la bocca solo per pronunciare grandiose idiozie: ciò è divertentissimo per lui e per me, ma meno utile per il funzionamento dello stato.
Mi ha ricordato due casi, che mi erano sfuggiti. Gli studenti dell´Onda, cioè il cuore e il fiore del nostro futuro, hanno appena preparato un piano sull´università: dove sostengono che l´elemento decisivo per la sua e la nostra salvezza è che gli studenti possano andare gratis al cinema. Lella e Fausto Bertinotti hanno assistito al trionfo di Vladimir Luxuria, già deputato-deputata di Rifondazione comunista, in una trasmissione fondamentalissima come L´isola dei famosi. Marito e moglie si sono commossi e hanno pianto, lasciando una piccola pozza salata di lacrime sul tappeto persiano. "Luxuria - ha detto Lella Bertinotti al marito - è una personalità di grande spessore. Si è messa alla prova ed ha vinto. Non ha sbagliato una risposta. Se l´è meritata, una affermazione così. Potrebbe essere il nostro Obama".
* * *
Non so nulla di economia; e mi conforto leggendo su Il Sole. Ventiquattro ore un intelligente articolo di Roberto Perotti, dove sostiene che quasi tutti gli economisti italiani ed europei ignoravano le tecniche finanziarie diffuse negli Stati Uniti. E non sono un profeta. Non saprei nemmeno lontanamente prevedere se le misure dei governi modereranno la recessione di questi mesi. O se, invece, piomberemo in una crisi peggiore di quella del 1929.
Credo che la crisi americana distruggerà due modi di pensare diffusissimi. In primo luogo, la fede nel progresso ininterrotto. Per quasi quarant´anni, banchieri, industriali, politici, economisti, saggisti di terz´ordine hanno immaginato che la storia moderna sia dominata dal progresso ininterrotto, come un jet che sfonda l´infinito. Ogni anno il Prodotto Interno Lordo aumentava, la scienza faceva scoperte, la fratellanza universale cresceva, l´intelligenza si liberava dal peso dell´empio passato, e i banchieri giocavano con la carta, dove qualcuno aveva scritto cifre irreali, come in una partita di Monopoli. Un noto scrittore italiano ha detto: "Noi, genitori progressisti"; una razza certamente superiore, alla quale mi duole di non appartenere.
Come quasi tutti gli storici sanno, nella storia non c´è nemmeno un´ombra, o un barlume, di progresso ininterrotto. Quando sembra sul punto di giungere alla meta, la storia si ferma, bivacca per qualche tempo in un bosco o in una palude, si addormenta, produce catastrofi, ripercorre la strada che ha già percorso, procede a zig-zag. Credo che avesse ragione Leopardi, quando nel maggio 1833 scriveva a una sua amica fiorentina, Charlotte Bonaparte. "Quanto a me, cara signora, voi sapete bene che lo stato progressivo della società non mi riguarda per niente. Il mio stato, se non retrogrado, è eminentemente stazionario".
Quindi entrerà in crisi il cosiddetto consumismo. Non sarà più possibile consumare, consumare, consumare: comprare una Bentley quando basta una bicicletta. Mi auguro che gli uomini ritrovino un giusto rapporto con le cose, che abbiamo comprato, ingoiato, sciupato, gettato con incredibile leggerezza per tanti anni. Oggi, sono troppe. Si accumulano da tutte le parti, l´automobile e la lavatrice, il quadro e il tappeto, cinquecento cravatte e quaranta paia di scarpe nell´armadio. Siamo ricoperti dagli oggetti: nascosti dagli oggetti; stanchi di quello che produciamo. Abbiamo smarrito la sensazione di come è fatta una cosa: del suo peso, del suo spessore, dei suoi colori, delle sue ombre, e del valore simbolico che può avere nella nostra vita. Non le amiamo più. Non possiamo amarle, visto che oggi sono diventate infinitamente sostituibili.
Tutti gli oggetti del mondo hanno diritto alla nostra attenzione e al nostro rispetto. Non ci sono cose sostituibili. Tutto ciò che esiste, sebbene fabbricato in serie, è unico. Anche una vecchia giacca, o una vecchia automobile, o una lavatrice che cade a pezzi chiedono il nostro riguardo. Dobbiamo recuperare le virtù della civiltà contadina, ritrovando la parsimonia, la sobrietà e quasi l´avarizia all´inizio del ventunesimo secolo. Non c´è da possedere nulla, perché il possesso è una qualità che apparteneva ai tempi di Balzac, non a quelli moderni. Vorrei essere Virgilio, o Orazio, o Ariosto, o Manzoni nelle loro case di campagna. Amavano poche cose, le accarezzavano con la mente e la mano, contemplavano un grappolo d´uva, un albero, o un tramonto, abituandosi alla precisione, che noi abbiamo perduto.
Certo, la Cina continuerà a consumare. Aumenterà ogni anno il Pil del dodici per cento, moltiplicherà le fabbriche, i porti, gli aeroporti, si coprirà di gioielli e di vestiti acquistati a Parigi, mentre le ciminiere e le automobili sporcheranno il cielo di un nero incancellabile, e i tibetani verranno offesi e uccisi. Preferisco l´Europa: gli olivi e i cipressi delle colline toscane, le campagne francesi dove le cuspidi delle cattedrali forano il cielo rosa, le foreste di rododendri della Scozia; o gli agilissimi, delicatissimi grattacieli di Manhattan, con i vetri che riflettono l´Hotel Plaza. Non mi importa nulla se conosceremo la decadenza: se non cambieremo frigorifero ogni settimana: se saremo più poveri e consumeremo meno; e se i nostri regimi politici sembrano ai Cinesi lievemente anacronistici. Mi importa soltanto che gli Stati Uniti e l´Europa continuino a capire il mondo, ad accoglierlo e a trasformarlo, conservando quel prodigioso dono di metamorfosi, che ha permesso a tanti popoli, tanti dèi, tanti libri di penetrare nelle nostre terre.

Corriere della Sera 3.12.08
L'intervista L'ex presidente della Corte costituzionale: non c'è stato alcun ricambio generazionale
«Corruzione a sinistra, cacicchi scatenati»
Zagrebelsky: se ne sentono di tutti i colori. La colpa? Il Pd centrale è debolissimo
di M. Antonietta Calabrò


ROMA — «Questa è qualcosa di più di un'intervista, è uno sfogo». A parlare così è Gustavo Zagrebelsky, uno dei più importanti costituzionalisti italiani, ex presidente della Corte Costituzionale, opinionista influente, capofila della scuola piemontese cui hanno fatto riferimento personaggi come Giancarlo Caselli e Luciano Violante, e un'intera generazione di magistrati «democratici».
Fumo negli occhi per il centrodestra che lo ha sempre temuto come il padre nobile di Mani Pulite e, negli anni, come la punta di diamante giuridica contro le cosiddette leggi ad personam e i provvedimenti sulla giustizia dei governi Berlusconi succedutisi dal 1994.
Ebbene,con il suo consueto rigore
more geometrico Zagrebelsky prende oggi pubblicamente atto che un'enorme «questione morale sta corrodendo il centrosinistra». E che quello che Gerhard Ritter aveva definito «il volto demoniaco del potere» ormai è diventa l'altra faccia della politica del Partito democratico. Secondo l'analisi di Zagrebelsky il Pd «a livello centrale è debolissimo e quindi a livello locale i cacicchi si sono scatenati». Dalla Campania all'Abruzzo, da Firenze a Genova.
Oggi la questione morale si è spostata a sinistra?
«Sì. Per un motivo antropologico e per uno politico».
Prima l'antropologia...
«E' una questione di antropologia, ma pur sempre antropologia politica. Le leggi della politica sono ineluttabili: la politica corrompe. Ha un effetto progressivamente corrosivo, permea il tessuto connettivo e stabilisce delle relazioni basate sul potere. Nel caso meno peggiore si tratta di relazioni non trasparenti, di dipendenze, di clientele. Siamo un popolo di clienti delle persone che contano. Nel peggiore dei casi, invece, si tratta di vere e proprie relazioni criminali e di malavita».
Anche nel Pd?
«Sì. Nella sinistra, il neonato Pd è la causa della questione morale che constatiamo. Per due motivi».
Il primo?
«Il mancato ricambio generazionale che era la speranza e la scommessa dei democratici. Non che a sinistra ci siano necessariamente gli uomini migliori, ma si poteva sperare in un rinnovamento che avrebbe invertito l'inesorabile avanzata degli effetti della legge della corruzione».
Il secondo?
«La debolezza del partito, dell'organizzazione del partito, la mancanza di comuni linee di condotta...».
Rina Gagliardi su «Liberazione « ieri sottolineava che l'esplosione della questione morale comporta il rischio di implosione per il Pd. Manca il centralismo democratico?
«Certamente non bisogna invocare il centralismo democratico che era anch'esso una degenerazione, ma al centro del Pd oggi come oggi non c'è nulla e così a livello locale i cacicchi si sono scatenati ».
Anche D'Alema aveva definito questa tipologia di politici locali il «partito dei cacicchi». Lei quando parla di caciccato pensa alla Campania del presidente Antonio Bassolino?
«Non conosco direttamente le varie situazioni: certo è che se ne sentono dire di tutti i colori».
Proprio ieri il capo dello Stato, parlando a Napoli, ha fatto un forte appello all'autocritica delle forze politiche in particolare del Mezzogiorno. Condivide le parole di Napolitano?
«Completamente. Anche perché si stanno avvicinando le elezioni amministrative e quello che si vede e si sente ha effetti devastanti sulla tenuta democratica del Paese».
Ci spieghi...
«La gente si sente strumentalizzata, usata per giochi di potere. C'è un drammatico bisogno di ricambio degli amministratori. Molti cittadini hanno veramente creduto nella possibilità di un cambiamento con il governo della sinistra.
E invece, le ferree regole descritte da Ritter ne Il volto demoniaco del potere hanno avuto il sopravvento e si è instaurato il caciccato ».
E nel centrodestra ci sono i cacicchi?
«Il centrodestra ha un leader, Berlusconi, che ha dimostrato di avere le capacità e le possibilità, anche materiali, di tenere insieme i suoi. Noi constatiamo che a destra il sistema di potere funziona meglio e quindi è meno visibile. Non che questo sia un vantaggio, ma gli effetti degenerativi non sono sotto gli occhi di tutti in maniera così eclatante».

Corriere della Sera 3.12.08
Ragusa Il presidente del Tribunale: lo Stato è laico. Sindaco, vescovo e avvocati lo attaccano
Il giudice che toglie i crocifissi: meglio Socrate
di Felice Cavallaro


RAGUSA — Se la legge è davvero uguale per tutti, oltre al Crocifisso il presidente del Tribunale di Ragusa potrebbe proporre di piazzare pure i simboli delle altre religioni su giudici togati e popolari, avvocati, cancellieri e imputati. Ma è più facile togliere che mettere. E così nel palazzo di giustizia della provincia più a Sud d'Italia scatta un particolare divieto di affissione considerato dai cattolici praticanti una sorta di bestemmia.
Manca Cristo in croce nelle aule dove si decide il destino di potenti e poveri cristi. Per ordine superiore. E si scatena la polemica. Non siamo più nelle rosse contrade della querelle cinematografica fra Don Camillo e l'Onorevole Peppone. Ma poco ci manca a trasformare il primo fra i giudici ragusani, il presidente Michele Duchi, nel sindaco anticlericale interpretato da Gino Cervi e a far calare un sindaco vero, Nello Dipasquale, primo cittadino con cuore berlusconiano, nei panni di un novello Fernandel come difensore della tradizione cristiana.
Il primo vuol mettere tutti alla pari, da Budda a Cristo, dai musulmani agli ebrei, e ordina al cancelliere della sede distaccata di Vittoria che s'era permesso di affiggere un Crocifisso di toglierlo. L'altro passa all'attacco e chiede di rivedere la disposizione. Perché non gli piace proprio che Duchi la pensi come Zapatero in Spagna o come quel giudice di Camerino, Luigi Tosti, condannato l'inverno scorso a un anno di reclusione per essersi rifiutato di tenere udienze in aule col Crocifisso alla parete.
«Io penso con la mia testa», puntualizza Duchi rivendicando il diritto alla rimozione. «Il nostro è uno Stato laico, multietnico e multireligioso dove hanno gli stessi diritti ebraici, musulmani, buddisti o cattolici. E chiunque, entrando in un ufficio pubblico, ha diritto di non vedere simboli religiosi che possano disturbarlo». Irremovibile, eccolo pronto a rilanciare sempre più in alto la provocazione. Perché, «pur da laico e anche da cristiano nato e cresciuto in un mondo cattolico», azzarda confronti destinati a moltiplicare la polemica: «Sento Cristo come figura grandissima. Ma è grandissima pure quella di Socrate che forse è ancora più alta. Come la storia di San Francesco, il Santo che più si avvicina a Cristo. E se la Chiesa avesse seguito il verbo francescano non ci sarebbero state tante lacerazioni, né il movimento protestante...».
No, non ci sta il sindaco senza la tonaca di Fernandel a sostituire Cristo con Socrate o San Francesco. Nello Dipasquale prova a mettere paletti: «Marciamo verso una società multirazziale, ma questo non può produrre intolleranza sulle nostre tradizioni. E il crocifisso dov'era rimane. E dove non c'è si metterà».
Richiesta analoga a quella del presidente dell'Ordine degli avvocati, Giorgio Assenza: «È una sciocchezza considerare una discriminazione il simbolo religioso in cui si riconosce il nostro popolo». Osservazione condivisa dal vescovo di Ragusa, Paolo Urso: «Cristo si è immolato per salvaguardare i diritti dei più deboli. La giustizia degli uomini è una trama che riesce a prendere solo i moscerini perché le realtà più forti sfondano la rete. E rappresentare i più deboli con l'esempio di Cristo aiuta l'umanità a crescere».
Echeggiano le voci contrarie al divieto, ma il presidente Duchi insiste: «Lo Stato laico deve mostrarsi assolutamente imparziale». E gioca la sfida che sembra quella dell'uno contro tutti. Certo di non essere isolato.

l’Unità 3.12.08
Veltroni: «Non siamo socialisti»


Un «caminetto» per sciogliere il nodo Strasburgo, con Veltroni, D'Alema, Marini, Rutelli, Fassino e Franceschini. Il 10 dicembre s’incontreranno anche per trovare la soluzione al problema della collocazione europea del Pd.
Lunedì scorso Veltroni era intervenuto al meeting socialista di Madrid e ieri ha incontrato a Roma Graham Watson, capogruppo al Parlamento europeo dell'Alde, alleanza alla quale aderiscono gli euro parlamentari ex Dl. Sempre ieri, durante la riunione dei segretari regionali, il leader dei democratici ha ribadito che il Pd è «un partito di centrosinistra, e non solo di sinistra». Una realtà, in sostanza, che mette assieme storie e tradizioni diverse, con un «pluralismo» del quale si dovrà tenere conto anche in Europa.
Nelle stesse ore, intanto, a Madrid, veniva approvato il calendario delle iniziative Pse in vista del rinnovo del Parlamento di Strasburgo. La giornata socialista messa in calendario per il 30 maggio, e che si svolgerà in contemporanea in tutte le capitali Ue alla vigilia del voto, potrebbe creare nuovi imbarazzi in Italia, se la matassa europea non si dovesse dipanare prima. Chi incontreranno i leader Pse che voleranno a Roma in campagna elettorale? Soltanto i socialisti di Nencini o metteranno in piedi iniziative anche con i democratici?
Ieri nuove polemiche sono piovute su Piero Fassino, che ha approvato il manifesto elettorale Pse (al contrario di Veltroni). «Spacca il partito», ha attaccato Gianni Vernetti, ex Dl. «La collocazione europea del Pd, resa più difficile dalla mia adesione al documento? - chiede Fassino - Ma non scherziamo, dopo Madrid, in realtà, c'è maggiore chiarezza sulle possibili decisioni da prendere in Italia».
La strada che il vertice Pd vuole percorrere è quella di costruire in Europa un gruppo parlamentare nuovo fin dalla denominazione di «socialisti e democratici». Una sede dove realizzare un «patto federativo» tra Pse e Pd che salvaguardi autonomia e identità della nuova forza politica nata in Italia. Una realtà che rappresenti la prima tappa di un'intesa più larga con altri riformismi europei e che non chiuda le porte ai centristi francesi che militano nell'Alde. Ancora ieri, durante il coordinamento Pd, Veltroni ha ripetuto che «Il Pd non è socialista, ma collaborerà con quella famiglia politica». Una «direzione giusta», secondo Rosy Bindi. Non tutti, però, accettano l'ipotesi di un patto federativo esclusivo con il Pse.
Se parte dei popolari - Marini e Fioroni - aprono (ma con molti condizionali), Rutelli rimane in silenzio in vista del congresso del Partito democratico europeo, al quale parteciperà venerdì con Dario Franceschini. I “rutelliani” rimangono affezionati all'idea di non mollare gli ormeggi dall'Alde, che fa capo al Pde. Lo farebbero, sembra di capire, solo se il Pd facesse squadra a sé nell'europarlamento. «Autonomia non significa isolamento», ha spiegato però Veltroni. Il vertice del 10 convocato dopo il meeting socialista di Madrid e dopo il congresso del Pde, dovrà trovare la quadra tra ex Ds che non vogliono rompere con il Pse ed ex Dl che non intendono «morire socialisti». In via delle Fratte, però, si ribadisce che il Pd deve giocare una propria identità, diversa dalla sommatoria tra una parte che vola dai socialisti e l'altra che si imbarca alla volta dei liberaldemocratici. Una confusione di itinerari non facile da comprendere anche in Europa.
Martin Schulz l'altro ieri, durante l'incontro con Veltroni e Fassino, ha ventilato l'ipotesi che il nodo della collocazione europea si sciolga dopo le elezioni, quando sarà chiaro quanti euro parlamentari Pd vorranno aderire al gruppo socialista. Gli altri? Con loro si vedrà, anche sulla base del numero. «Nessuna soluzione pasticciata - replica Fassino - l'intesa va trovata con il Pd in quanto tale».

il Riformista 3.12.08
Ora il Pd ha la bandiera: Murdoch
di Peppino Caldarola


È ora di farla finita con questa campagna contro il Pd. Certi giornalisti, alcuni annidati anche nell'ex foglio arancione, non fanno altro che sminuire i successi del segretario del Pd. Sono dalemiani camuffati che non riescono a cogliere la svolta epocale che il giovane Walter ha impresso al nuovo partito. Sì, è vero, ci sono difficoltà. Di D'Alema abbiamo detto, Chiamparino sta facendo due maroni così con il partito sabaudo, al sud Di Pietro sta aizzando le procure per far arrestare tutta la classe dirigente piddina, i cantautori del club Tenco si sono affiliati al fan club di Apicella, gli operai votano per la Lega, gli ex del Manifesto per Magdi Cristiano Allam, Fioroni si è intrippato di porchetta, gli articoli di Alfredo Reichlin non entrano più nel nuovo formato dell'Unità, da giovedì sarà Marina Sereni a servire il caffè a casa Fassino al posto di Morri che è passato alla Casina Valadier, le mamme che lavorano hanno mandato affanculo Cofferati, Andrea Orlando dopo il caso Villari si fa chiamare Andrea Orlé per non creare confusione. Un vero disastro, ma a risollevare gli animi è arrivata al segretario del Pd, dopo le dichiarazioni a difesa del povero e indifeso Murdoch, una entusiastica lettera di sostegno. Seguono le firme di Abramovich, Dolce e Gabbana, Ivana Trump e Rossano Rubicondi, Roberto Cavalli, Julio Iglesias, il maggiordomo di casa Angiolillo, Lapo Agnelli. Franceschini non sta più nella pelle perché sembra che stia per firmare anche Flavio Briatore.

Il pensiero scientifico editore 2.12.08
Capire il mistero degli incubi dei bambini
di David Frati


La tendenza ad avere incubi notturni tipica di molti bambini intorno all’anno di età potrebbe essere ereditaria, almeno nella metà dei casi. Lo sostiene uno studio pubblicato dalla prestigiosa rivista specializzata Pediatrics, che tenta di fare luce su un vero e proprio mistero medico.
Il fenomeno della ricorrenza inconsueta di incubi nella primissima infanzia che scompare gradualmente con l’età è ben noto ai pediatri, ma finora non ha trovato spiegazioni mediche convincenti. I ricercatori canadesi del Sacre-Coeur Hospital di Montreal coordinati da Jacques Montplaisir hanno esaminato 390 coppie di gemelli identici – quindi con uguale corredo genetico - e le loro madri dalla nascita a 30 mesi di età.
È emerso che il 36,9 per cento dei bambini di 18 mesi soffre di incubi frequenti e ricorrenti con risvegli improvvisi. La buona notizia è che a 30 mesi la percentuale scende al 19,7 per cento. Mettendo a confronto i gemelli identici e le madri si è potuto concludere che poco più del 40 per cento dei casi di ‘sonno tormentato’ ha una radice genetica, mentre nel resto dei casi dovrebbe trattarsi di fattori ambientali.
Fonte: Nguyen BH, Pérusse D, Montplaisir J et al. Sleep Terrors in Children: A Prospective Study of Twins. Pediatrics 2008; 122: e1164-e1167.

martedì 2 dicembre 2008

l'Unità 1.12.08
Basaglia e i governi di destra
di Luigi Cancrini


Vivo, come tanti altri, l'inferno della malattia mentale con gli infiniti difficilissimi problemi da affrontare quotidianamente, primo fra tutti far riconoscere a Massimo che è malato e che deve accettare le cure. Ma Massimo perde anche il posto di lavoro, perché si è ammalato. Se si è molto malati si è licenziati.

Quella che aumenta immediatamente in tempi di crisi è la disoccupazione e, con la disoccupazione, la difficoltà di difendere le nicchie di lavoro protetto faticosamente costruite in tanti anni di lotta politica e sindacale. Nel privato prima di tutto perché le assunzioni dei precari avvengono senza previsione di quote per i diversamente abili e perché, per i precari, la possibilità di continuare a lavorare diminuisce non solo se si è malati ma anche se si aspetta un bambino o si ha in mente di volerIo. Ma nel pubblico, ugualmente, perché i tagli incidono duramente sul funzionamento di quelle iniziative che in modo diretto o indiretto danno lavoro ai più deboli. Affrontare una crisi economica grave guidati da un governo di destra che tratta solo con i padroni e con i sindacalisti disposti a piegare il capo, determinerà problemi sempre più gravi anche a questo livello, dunque, perché i malati di mente sono prima di tutto persone deboli. Come per primo indicò Basaglia insegnandoci che curare i pazienti psichiatrici vuoI dire prima di tutto sforzo di reinserirli.

il Riformista 2.12.08
Parisi: «Il Pd si è dissolto, è una casa delle libertà»
intervista di Stefano Cappellini


Intervista. Per l'ex ministro della Difesa le inchieste sulle giunte democrat sono l'altra faccia della crisi interna: «Quando un partito smette di esistere prevalgono solo i disegni personali, buoni o cattivi che siano». Esempi: «Gravissimo che Fassino firmi il manifesto del Pse e Chiamparino fondi il partito del nord».
Dice Parisi: «Magari tra D´Alema e Veltroni scoppiasse una guerra vera. Sarebbe utile alla ...

«Mi faccia fare la parte di Parisi. Qui non c'è solo un partito privo di linea, e con una leadership che ha perso per strada la sua legittimazione. Qui è il partito che non c'è proprio più. Sembra dissolto». Così Arturo Parisi riassume al Riformista il senso ultimo delle difficoltà del partito di cui è tra i fondatori, il Pd, agitato da contrasti interni, dall'irrisolto nodo della collocazione europea e, soprattutto, dalle inchieste che hanno investito molte e importanti amministrazioni locali guidate dal centrosinistra. «Viviamo - dice l'ex ministro della Difesa - in un territorio terremotato. Vanno moltiplicandosi episodi che non è difficile collocare all'interno della categoria della patologia della politica, non certo della fisiologia».
Il Pd è alle prese con una nuova questione morale?
Resisterei all'idea che la quantità di problemi locali iscritti sotto l'etichetta del Pd sia superiore a quella degli altri partiti. Diciamo che nell'ultima settimana siamo in vantaggio noi. Ma ho difficoltà a riconoscere un filo che unisca tutti questi episodi, tra loro molto diversi. Allo stesso tempo è evidente che nella comunicazione tendono a essere unificati come parte di un fenomeno unico.
E che spiegazione si è dato?
È inevitabile che a guidare la lettura di qualsiasi analista sia il riconoscimento della crisi profonda che attraversa il Pd, tanto più profonda quanto più negata. La disfatta politica dello scorso aprile, il risultato nazionale, quello di Roma e il crollo in Sicilia, si è ingigantita. È un fantasma che aleggia su ogni episodio.
E che c'entra con le inchieste?
La dinamica che emerge fa capo a comportamenti individuali non più controllati da decisioni collettive, di gente che persegue autonomamente un proprio disegno personale, in totale autonomia. Se poi agisca nel rispetto della legge o meno, in nome dell'interesse privato o pubblico, è una questione successiva.
Il Pd aveva un vantaggio strategico nella qualità del suo ceto amministrativo. L'ha perso?
Detto con distacco professionale, credo che il nostro quadro politico di base sia ancora di qualità decisamente superiore a quello della parte a noi avversa. Semmai proprio questo può diventare un problema. Nel momento in cui si afferma la logica del "liberi tutti", la qualità non riconosciuta diventa essa stessa una delle componenti del caos. All'origine di questa corsa a mettersi in proprio sta anche la perdita di fiducia nelle decisioni collettive e l'incapacità di premiare il merito.
Lei parla di merito e qualità ma, al netto delle eventuali responsabilità penali, non sono esattamente le caratteristiche che emergono dalle cronache degli ultimi giorni.
Ma come stupirsi? Se sono patologici i fatti che si presentano come trasgressione della legge - lasciamo perdere la morale - ancor prima e ancor più gravi sono i fatti che trasgrediscono la legalità del partito.
A cosa si riferisce?
Fassino ha appena firmato il manifesto del Pse. È cosa di una gravità così forte che il solo fatto che non venga rilevato è prova dell'inesistenza del partito. Il ministro ombra per le relazioni Estere che firma in quanto segretario dei Ds, cioè di un partito defunto, il manifesto di un partito al quale il Pd non aderisce!
Più di metà partito viene dal Pse. Conterà qualcosa.
Il fatto è che le scelte rispetto al Pse vengono proposte come continuazione del passato, non come un cammino nuovo. Come non possiamo andare in Europa in ordine sparso, così nessuno può invitare altri ad accodarsi al proprio passato. Servono novità e originalità, oppure siamo morti.
Tutto giusto, ma poi la scelta è inevitabile: o col Pse o fuori.
Occorre presentarsi alle elezioni forti di un'iniziativa europea e non come partito nazionale, che è costretto alla fine a scegliere tra iniziative altrui. Il nostro compito è avviare una iniziativa capace di stabilire rapporti con chiunque sia esterno al campo conservatore.
Cosa pensa dell'iniziativa di Chiamparino per il Pd del nord?
Un altro esempio di quel liberi tutti di cui si parlava. Il ministro ombra delle Riforme istituzionali, che si occupa per definizione della scrittura delle regole comuni, lancia l'idea di un Pd del nord dimenticando che, essendo i partiti pensati in funzione della Repubblica, varare un partito del nord significa pensare a un repubblica che si articola non più in regioni ma in macroregioni, la proposta che i leghisti considerano da sempre la loro bandiera. E lo propone senza che il Pd ne abbia discusso e deciso da qualche parte. Alle obiezioni Chiamparino replica dicendo che le regole sono le regole, ma "se dovessimo seguirle non andremmo da nessuna parte". Ecco un altro invito a seguire la logica del fatto compiuto, che guida purtroppo il Pd fin dalla sua fondazione. Ho paura che sia il Pd la vera casa delle libertà.
Scusi?
Casa delle libertà. Con la differenza che quando Berlusconi ha sciolto Forza Italia non lo ha nemmeno messo ai voti. Non ne ha bisogno. Noi invece abbiamo rimesso in campo la categoria di partito, che per una quota significativa degli aderenti è scritto con la maiuscola, e ci siamo chiamati democratici. Si fa in fretta a dirlo. Se non siamo conseguenti le parole servono solo a misurare la nostra distanza dai fatti.
Lei è il padre delle primarie. Non pensa però che siano ormai l'alibi per mortificare la democrazia interna? Si chiama la gente a votare e per un tot si chiude ogni discussione.
E no! Questo è riuscito solo per le prime. In parte per quelle che chiamammo per Prodi, ancor più per quelle per Veltroni. Ma la creatura, per fortuna, ogni tanto sfugge di mano. Basta vedere la situazione che si è creata nella corsa a sindaco di Firenze e non solo.
Lei nella guerra tra D'Alema e Veltroni con chi sta?
Guerra? Magari. Quello che ci manca è una competizione: vera, leale, alla luce del sole, e, soprattutto, politica. Questa sì che potrebbe avviare una dinamica utile. In scena è invece solo una dialettica di potere personale ereditata dal passato.
Possibile non la convinca nulla della linea di Veltroni?
Vedo che ha minacciato un "Lingotto due". Ma che vuol dire? Già "lingotto" mi fa pensare a una pietra."Lingotto due" sembra l'annuncio di una lapidazione.

Repubblica 2.12.08
La via maestra per il testamento biologico
di Stefano Rodotà


Misura, rigore, pulizia del linguaggio, rispetto degli altri. Sono queste, o dovrebbero essere, le regole d´ogni discorso pubblico, soprattutto quando si tocca la sfera delicatissima, insondabile forse, della vita stessa delle persone. Non è così nei giorni drammatici che hanno seguito la parola difficile e serena con la quale i giudici della Corte di Cassazione hanno chiuso la vicenda giuridica della sorte di Eluana Englaro. Toni violenti, là dove si richiedeva silenzio. Distorsioni dei dati clinici, là dove si chiedeva ascolto delle conoscenze scientifiche. Improvvisazione giuridica, là dove è indispensabile la consapevolezza delle tecniche da adoperare. E tutto questo avviene mentre contro i genitori di Eluana si levano impietose le istituzioni che rifiutano la loro collaborazione, si alimenta una impietosa ostilità pubblica.
Ma si è pure aperta una fase che ci interessa tutti, poiché sembra che le diverse forze politiche siano d´accordo per approvare al più presto una legge sul testamento biologico. Come, però? Con quali motivazioni e quali finalità? Avremo una legge seria e umana o un nuovo esempio di legislazione ideologica?
Da molte parti, ministro della Giustizia compreso, si afferma che questa legge sarebbe necessaria "per colmare un vuoto legislativo". È una affermazione che non corrisponde alla realtà, che continua a insinuare il sospetto che i giudici, affrontando nell´arco di diciassette anni la vicenda di Eluana, siano responsabili di una forzatura, abbiano creato illegittimamente diritto, invadendo il campo riservato al legislatore.
La tesi di una Cassazione che si sostituisce al potere legislativo, e così viola i principi della separazione tra i poteri, era alla base del conflitto sollevato dal Parlamento davanti alla Corte costituzionale. Ma i giudici costituzionali hanno dichiarato inammissibile il conflitto e hanno detto esplicitamente che i provvedimenti della magistratura non sono stati usati "per esercitare funzioni di produzione normativa o per menomare l´esercizio del potere normativo da parte del Parlamento" (ordinanza n. 334). I giudici, dunque, hanno agito legittimamente. E questo vuol dire che si sono serviti del diritto vigente, di norme che già esistono nel nostro sistema e che sono adeguate per risolvere in futuro casi come quelli di Eluana. Non un "vuoto", dunque, ma un "pieno" di diritto.
È proprio su questo "pieno" che si vuole intervenire. La conversione di molti ambienti fino a ieri contrari alla legislazione sul testamento biologico, la Chiesa in primo luogo, è eloquente. Non si persegue una legislazione necessaria, si cerca una rivincita. Per questo, per creare un clima di allarme e così imporre una legge che limiti quel diritto all´autodeterminazione della persona già riconosciuto dalla Costituzione e da altre norme, si dipingono i giudici come assassini e eversori. È una vecchia tecnica, che produce solo cattive leggi e inammissibili restrizioni dei diritti. Ricordate i tempi della legge sulla procreazione assistita? Si diceva che era indispensabile per eliminare il far west procreativo. E invece lo ha creato. Oggi migliaia di donne italiane vanno in altri Stati, chiedono un provvisorio "asilo politico" per sfuggire all´assurdo proibizionismo della legge italiana, e possono finire in paesi, dall´Ucraina alla Slovenia, dove gli interventi non offrono sufficienti garanzie né alla donna, né alla persona che nascerà.
Il quadro delle norme che già oggi, in Italia, consentono di rifiutare le cure e di morire con dignità, è chiarissimo. Lo ha detto la Corte di Cassazione in una esemplare sentenza dell´ottobre dell´anno scorso, lo ha ribadito nell´ultima sua sentenza. I giudici hanno ancorato i loro ragionamenti ad una serie amplissima di norme: gli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione; la Convenzione sui diritti umani e la biomedicina del Consiglio d´Europa; la Carta dei diritti fondamentali dell´Unione europea; la legge sul Servizio sanitario nazionale del 1978; gli articoli del Codice di deontologia medica. Hanno richiamato sentenze della Corte costituzionale e precedenti della stessa Cassazione. Il punto di partenza è rappresentato dall´ormai indiscutibile principio del consenso informato, dal quale discende il "potere della persona di disporre del proprio corpo" (così la Corte costituzionale nel 1990) e quindi l´illegittimità di qualsiasi intervento che prescinda dalla sua volontà. Da qui l´imperativa indicazione dell´art. 32 della Costituzione, che vieta qualsiasi trattamento che possa violare "il rispetto della persona umana". Qui si fonda il diritto di rifiutare qualsiasi cura.
Da questo quadro costituzionale il Parlamento non può prescindere. Il suo intervento, allora, deve avere come unico obiettivo il consentire a ciascuno di esprimere liberamente e responsabilmente la propria volontà per dettare le regole del morire nel caso in cui lo stato di incapacità in cui si trova gli impedisca di esercitare in quel momento il suo diritto al rifiuto dei trattamenti, come hanno potuto fare Piergiorgio Welby e Giovanni Nuvoli. Una legge sul testamento biologico (meglio, sulle direttive anticipate) deve essere sintetica, lineare, chiara, immediatamente comprensibile. Non deve risolvere un problema della politica, ma riconoscere un diritto dei cittadini. Deve affrontare solo le questioni necessarie per definire la validità delle direttive anticipate, non temi confinanti, ma distinti, quali sono quelli riguardanti il consenso informato e il rifiuto di cure, l´accanimento terapeutico e il suicidio assistito.
La strada è ulteriormente spianata dal chiarissimo articolo 408, dove si prevede che, "in previsione della propria futura incapacità", una persona possa designare "un amministratore di sostegno" perché siano rispettate le sue indicazioni nel caso in cui si trovi in stato vegetativo permanente. Di nuovo un "pieno" di diritto, già utilizzato dai giudici su richiesta delle persone interessate.
Questo cammino lineare non sarà facile da percorrere. Si dice nuova legge, ma molti preparano una restaurazione. Vi è una dura posizione di parlamentari cattolici con proposte che escludono il valore vincolante del testamento biologico e la possibilità di rinunciare a trattamenti come l´alimentazione e l´idratazione forzata, cercando così di imporre un punto di vista che mortifica la libertà delle persone e ignora le indicazioni della scienza. Ma il mondo cattolico non è monolitico, e bisognerebbe prestare attenzione a tutti le voci. Anche se sembra lontana la possibilità di avere in Italia una posizione della Conferenza episcopale analoga a quella della Conferenza spagnola che, presentando il suo "testamento vital", scrive che la volontà della persona deve essere "rispettata come se si trattasse di un testamento" (escludendo così la possibilità di un rifiuto o di una obiezione di coscienza da parte dei medici) e, con dichiarazione particolarmente impegnativa, sottolinea che la persona considera che "la vita in questo mondo sia un dono e una benedizione di Dio, ma non è il valore supremo assoluto".

Repubblica 2.12.08
Crocifisso. Una legge per abolirlo
I vescovi e il potere
Parla il filosofo spagnolo Fernando Savater


La Spagna è un Paese in cui il principio di aconfessionalità e laicità dello Stato è solennemente sancito dalla Costituzione democratica votata trent´anni fa. La Chiesa è in crisi e alla fine dovrà accettare di veder ridimensionato il proprio ruolo

MADRID. «Macché guerra del crocifisso. Diciamo la verità, se si fosse trattato di una statua di Buddha, sarebbe stato esattamente uguale. Qui il problema non è il crocifisso, non credo che esista nessuna ostilità preconcetta a quello che rappresenta. Quello che sì esiste, ed è pienamente giustificato, è un´avversione totale e incondizionata al fatto che si impongano dei simboli». In Spagna, il filosofo Fernando Savater può essere considerato l´intellettuale laico per eccellenza per come ha sempre difeso, con estremo spirito critico, il principio della aconfessionalità dello Stato. «L´unica cosa veramente chiara sulla laicità della nostra democrazia», ha scritto appena un mese fa su El País, «è la sua insufficienza».
Professor Savater, ma allora perché quello della presenza dei crocifissi nelle scuole continua a essere un tema che scalda tanto gli animi?
«La risposta è molto semplice: per la vera e propria deformazione del problema che viene fatta, come al solito, dalla gerarchia ecclesiastica. Qui non esiste nessuna "cristofobia", come vogliono farci credere. Non c´è nessuna Chiesa assediata o rifiutata. La realtà è che non esiste nessun motivo in base al quale i crocifissi dovrebbero continuare a restare appesi nelle pareti delle scuole spagnole. Questo è un paese in cui il principio di laicità e aconfessionalità dello Stato è solennemente sancito nella Costituzione democratica votata giusto trent´anni fa. Sarebbe ora di cominciare finalmente ad applicarlo. Loro, se vogliono i crocifissi, dispongono delle scuole cattoliche e confessionali: è l´unica sede dove è logico e naturale che vengano esposti».
Non crede, quindi, che i contrasti che questa questione continua a suscitare possano derivare dalla reazione di rifiuto che la Chiesa ha provocato in molti spagnoli per il suo sostegno alla dittatura franchista?
«In qualche caso è possibile, ognuno ha le sue idee ed è ipotizzabile che ci sia ancora chi conserva un ricordo negativo di quell´epoca in cui il crocifisso era lì a simboleggiare un´educazione cattolica imposta dallo Stato. Se c´è una reazione di rifiuto è giustificabile, ma dubito che ci sia chi voglia alimentare nuove tensioni».
A suo giudizio, allora, è la Chiesa che alimenta la strategia della contrapposizione frontale?
«È l´unica strada che ha per difendere una posizione che è ormai diventata indifendibile. Questo Stato è laico, e dovranno finire per accettarlo. Il problema è che la Spagna continua a essere, nonostante tutto, uno dei paesi in cui la Chiesa cattolica gode di più privilegi e di un riconoscimento pubblico smisurato rispetto alla sua presenza reale nei comportamenti quotidiani dei cittadini. Qui vigono ancora gli accordi antidemocratici stipulati nel 1979 con la Santa Sede e che un governo realmente progressista avrebbe dovuto rivedere da tempo. E si è persino aumentato il contributo economico alla Chiesa che, attraverso le imposte, pagano tutti i cittadini spagnoli».
Eppure, professor Savater, il governo socialista di Zapatero ha fatto della laicizzazione dello Stato la propria bandiera, tanto che è visto dalla gerarchia ecclesiastica come il fumo negli occhi.
«Il vero guaio è che il Partito socialista è specialista nel fare sempre un passo avanti e due passi indietro. Assume impegni concreti, elabora grandi affermazioni di principio che poi, troppo spesso, restano per aria».
Sul caso dei crocifissi, hanno detto che dovrebbero essere rimossi.
«Ma anche lì si sono sbagliati. È assurdo che il ministro dell´Educazione dichiari che la decisione dev´essere affidata alle singole scuole. Che un crocifisso venga rimosso o resti appeso alla parete a seconda che ci sia o no un genitore che lo chiede. Se si sceglie questa strada, allora sì che si può scatenare una guerra. Se esiste una normativa, che sia valida per tutti, si applica e basta. E´ questa l´unica soluzione».
Per i vescovi, potrebbe essere il pretesto per lanciare nuove mobilitazioni di piazza, come già hanno fatto contro i matrimoni gay e l´abolizione dell´obbligatorietà dell´ora di religione a scuola.
«Non credo che arriveranno a tanto, non penso che ci saranno nuove mobilitazioni. Tanto più che, se ne saranno resi conto, riescono a mobilitare sempre di meno. Questa Chiesa è in crisi, e alla fine dovrà accettare di veder ridimensionato il proprio ruolo. Che gli piaccia o no».
Sarà un cammino probabilmente ancora molto lungo.
«Immagino di sì, un cammino lungo. Ma questo è qualcosa che sapete molto bene anche in Italia, dove la Chiesa continua ad avere un ruolo e una presenza molto simile, se non superiore, a quella che esercita nella società spagnola».

Repubblica 2.12.08
Muti all'Opera
"La cultura in Italia va difesa tutta sbagliato innaffiare solo pochi fiori"
intervista di Leonetta Bentivoglio


Sono confusi: i ragazzi devono poter costruire se stessi da un punto di vista culturale
Non sono contro l´intrattenimento ma ci sono cose in tv raccapriccianti e ipocrite
L´Italia è piena di teatri prestigiosi: individuare solo le eccellenze è sbagliato
È una partitura impegnativa. Ma in questa orchestra i musicisti sono bravi e capiscono Verdi
Il direttore d'orchestra per la prima volta a Roma con "Otello"

ROMA. Sbarca all´Opera di Roma, senza uragani né tempeste, l´Otello di Verdi diretto da un verdiano acclamato come Riccardo Muti: sarà il suo esordio nel teatro della capitale. Prova generale aperta al pubblico il 4, con incasso destinato all´Anlaids. Debutto il 6 con successive repliche, esaurite da mesi, fino al 14. Regia di Stephen Landgridge: è una coproduzione con Salisburgo, dove lo spettacolo, sempre con Muti e gran parte degli stessi cantanti (Aleksandrs Antonenko nel ruolo del Moro, Marina Poplavskaya come Desdemona), andò in scena ad agosto. A Roma, durante le prove quotidiane, l´emozione è tangibile. Tutti paiono galvanizzati dal maestro, o forse spaventati dagli aggettivi che si porta dietro: toscaniniano, intransigente, autoritario... Può entrare in sintonia, un tale carismatico temperamento, con un teatro spesso definito pigro e incolto? Certo che può. Anche il custode, di fronte al viavai di curiosi che anelano all´ingresso in sala, pare eccitato e fiero; anche le maschere, nel buio della platea, fremono quando Desdemona, chioma avvolgente come un mantello aureo, intona la Canzone del Salice: un lamento di cristallo. Vibra l´orchestra insieme a lei.
«Il clima è straordinario», racconta Muti di gran buonumore. «C´è disciplina, attenzione, partecipazione; e quest´orchestra ha cultura e istinto. Doti necessarie per Otello, la cui complessa partitura richiede virtuosismo tecnico, immaginazione e capacità di creare i timbri sofisticati dell´ultimo Verdi. Qui vivo un momento di isola felice, ma la parola "isola" non dovrei usarla, è abusata per colpa di certi programmi tivù... Insomma, è un´esperienza di lavoro positiva, molto al di sopra di quanto mi aspettavo. Il che fa riflettere sul concetto di eccellenza applicato a certe istituzioni».
Si riferisce all´annuncio dei tagli alla cultura, dove le istituzioni musicali segnalate come «eccellenti» sono state solo la Scala e Santa Cecilia?
«Musicalmente l´Italia è diversa dall´Inghilterra, che pur coi suoi tanti teatri s´identifica col Covent Garden di Londra; o dall´America, che sente il Met di New York come centro della propria cultura musicale. Invece l´Italia, che ha dato i natali dell´opera, è piena di teatri dalla storia prestigiosa: San Carlo, Fenice, Maggio Fiorentino, Bologna con la sua tradizione wagneriana... Individuare solo un paio di realtà è anti-storico. L´intero percorso della musica italiana è fondamentale: non si può essiccare il terreno per innaffiare due o tre fiori. Pensiamo poi alla quantità dei nostri conservatori: un´ottantina. Ma non si è fatto nulla per aumentare le orchestre: intere regioni ne sono prive. Perché centuplicare gli studenti per condannarne tanti alla disoccupazione? In America, oltre alle grandi orchestre, centinaia di formazioni fanno capo a piccole comunità, con sostanziose stagioni di concerti. Eppure non mi pare che dal punto di vista finanziario gli Stati Uniti stiano meglio di noi».
Però la vita delle orchestre americane non dipende dallo Stato.
«Se favorissimo il sostegno dei privati alle fondazioni liriche defiscalizzando i contributi sarebbe enorme lo sgravio per il governo. Però non è il nostro sistema, questo non fa parte della nostra tradizione. Da noi lo Stato deve interessarsi di più alla cultura. Conosco il ministro Bondi e mi sembra attento ai problemi culturali: seguendo un mio appello di qualche tempo fa, cerca di dare una mano alle bande comunali, una ricchezza italiana che rischia di sparire. Non è lui che accuso: l´idea che la cultura debba pagare lo scotto della crisi mi pare più generale. E pericolosissima».
Può spiegare perché?
«Incombe la decadenza: i giovani sono confusi, sbandati. Bisogna dare loro la possibilità di costruire se stessi da un punto di vista culturale ed etico, non codino né reazionario. Porli di fronte alla comunità con senso civico e disciplina. La consistenza della nostra gente si sta annacquando. Anche per colpa di certe trasmissioni televisive raccapriccianti, dove sotto la parvenza di messaggi umani e sociali si espongono di fronte a milioni di persone i dolori personali. Non sono affatto contro l´intrattenimento, ma divertimento non significa volgarità e ipocrisia. È vitale non prescindere dal patrimonio della memoria, rilanciando nel futuro le nostre radici culturali. Girando il mondo mi accorgo che l´immagine dell´Italia ha perso brillantezza».
Ha detto spesso di aver preso le distanze dal suo paese. E si è legato agli Stati Uniti diventando direttore musicale dell´Orchestra di Chicago. Eppure guida l´Orchestra Cherubini, tutta di giovani italiani. E qui a Roma eseguirà un´opera all´anno fino al 2011. Inoltre il 7 febbraio dirigerà un concerto a Napoli per la riapertura del San Carlo. Sembra fortissimo il suo attaccamento all´Italia...
«Non mi riconosco nell´approssimazione italiana, nell´eccessiva politicizzazione, negli atteggiamenti spavaldi e tribuneschi di piccoli gruppi di mediocri che mettono in ginocchio grandi istituzioni. Eppure in Italia ci sono personalità individuali formidabili. Con gli strumentisti che abbiamo si potrebbe fare una delle migliori orchestre del mondo. E malgrado tutto sono profondamente italiano, orgoglioso della mia cultura e pronto a diffonderla nel mondo».

Corriere della Sera 2.12.08
Quando, negli anni 70, eravamo noi a nasconderci
I 30 mila bimbi italiani clandestini in Svizzera
di Gian Antonio Stella


Anni Settanta Quando Berna ostacolava i ricongiungimenti familiari dei nostri emigranti. E i mariti assumevano le mogli come domestiche per farle arrivare
«Non ridere, non piangere, non giocare» I 30 mila piccoli italiani illegali in Svizzera

Le mogli e i bambini degli immigrati? «Sono braccia morte che pesano sulle nostre spalle. Che minacciano nello spettro d'una congiuntura lo stesso benessere dei cittadini. Dobbiamo liberarci del fardello». Chi l'ha detto: qualche xenofobo nostrano contro marocchini o albanesi? No: quel razzista svizzero di James Schwarzenbach. Contro gli italiani che portavano di nascosto decine di migliaia di figlioletti in Svizzera. E non nell' 800 dei dagherrotipi: negli anni Settanta e Ottanta del '900.
Quando Berlusconi aveva già le tivù e Gianfranco Fini era già in pista per diventare il leader del Msi.
Per questo è stupefacente la rivolta di un pezzo della destra contro la sentenza della Cassazione, firmata da Edoardo Fazzioli, che ha assolto l'immigrato macedone Ilco Ristoc, denunciato e processato perché non si era accontentato di portare in Italia con tutte le carte in regola (permesso di soggiorno, lavoro regolare, abitazione decorosa) solo la moglie e il bambino più piccolo ma anche la figlioletta Silvana, che aveva 12 anni. Cosa avrebbe dovuto fare: aspettare di avere un giorno o l'altro l'autorizzazione ulteriore e intanto lasciare la piccola in Macedonia? A dodici anni? Rischiando addirittura, al di là del trauma, il reato di abbandono di minore? Macché. Il leghista Paolo Grimoldi, indignato, si è chiesto «se la magistratura sia ancora un baluardo della legalità oppure il fortino dell'eversione». E la forzista Isabella Bertolini ha bollato il verdetto come «un'altra mazzata alla legalità » e censurato la «legittimazione di un comportamento palesemente illegale». Lo «stato di necessità » previsto dalla legge e richiamato dalla suprema Corte, a loro avviso, non è in linea con le scelte del Parlamento.
L'uno e l'altra, come quelli che fanno loro da sponda, non conoscono niente della grande emigrazione italiana. Niente. Non sanno che larga parte dei nostri emigrati, almeno quattro milioni di persone, è stata clandestina. Lo ricordano molte copertine della Domenica del Corriere, il capolavoro di Pietro Germi «Il cammino della speranza», decine di studi ricchi di dettagli (tra cui quello di Simonetta Tombaccini dell'Università di Nizza o quello di Sandro Rinauro sulla rivista «Altreitalie» della Fondazione Agnelli) o lo strepitoso reportage in cui Egisto Corradi raccontò sul Corriere d'Informazione
del 1947 come aveva attraversato il Piccolo San Bernardo sui sentieri dei «passeur» e degli illegali.
Non conoscono storie come quella di Paolo Iannillo, che fu costretto ad assumere sua moglie come domestica per portarla a vivere con lui a Zurigo. Ma ignorano in particolare, come dicevamo, che la Svizzera ospitò per decenni decine di migliaia di bambini italiani clandestini. Portati a Berna o Basilea dai loro genitori siciliani e veneti, calabresi e lombardi, a dispetto delle leggi elvetiche contro i ricongiungimenti familiari. Leggi durissime che Schwarzenbach, il leader razzista che scatenò tre referendum contro i nostri emigrati, voleva ancora più infami: «Dobbiamo respingere dalla nostra comunità quegli immigrati che abbiamo chiamato per i lavori più umili e che nel giro di pochi anni, o di una generazione, dopo il primo smarrimento, si guardano attorno e migliorano la loro posizione sociale. Scalano i posti più comodi, studiano, s'ingegnano: mettono addirittura in crisi la tranquillità dell'operaio svizzero medio, che resta inchiodato al suo sgabello con davanti, magari in poltrona, l'ex guitto italiano».
Marina Frigerio e Simone Burgherr, due studiosi elvetici, hanno scritto un libro in tedesco intitolato «Versteckte Kinder» (Bambini nascosti) per raccontare la storia di quei nostri figlioletti. Costretti a vivere come Anna Frank. Sepolti vivi, per anni, nei loro bugigattoli alle periferie delle città industriali. Coi genitori che, terrorizzati dalle denunce dei vicini, raccomandavano loro: non fare rumore, non ridere, non giocare, non piangere. Lucia, raccontano Burgherr e la Frigerio, fu chiusa a chiave nella stanza di un appartamento affittato in comune con altre famiglie, per una vita intera: «Uscì fuori per la prima volta quando aveva tredici anni». Un'altra, dopo essere caduta, restò per ore ad aspettare la mamma con due costole rotte. Senza un lamento.
Trentamila erano, a metà degli anni Settanta, i bambini italiani clandestini in Svizzera: trentamila. Al punto che l'ambasciata e i consolati organizzavano attraverso le parrocchie e certe organizzazioni umanitarie addirittura delle scuole clandestine. E i nostri orfanotrofi di frontiera erano pieni di piccoli che, denunciati dalla delazione di qualche zelante vicino di casa, erano stati portati dai genitori appena al di qua dei nostri confini e affidati al buon cuore degli assistenti: «Tenete mio figlio, vi prego, non faccio in tempo a riportarlo a casa in Italia, è troppo lontana, perderei il lavoro: vi prego, tenetelo». Una foto del settimanale
Tempo illustrato n. 7 del 1971 mostra dietro una grata alcuni figli di emigranti alla Casa del fanciullo di Domodossola: di 120 ospiti una novantina erano «orfani di frontiera». Bimbi clandestini espulsi. Figli nostri. Che oggi hanno l'età di Grimoldi e della Bertolini.
Dicono: la legge è legge. Giusto. Ma qui il principio dei due pesi e delle due misure nella Costituzione non c'è. E la realtà dice che almeno un milione di italiani vivono oggi in condizioni di sovraffollamento nelle sole case popolari senza essere, come è ovvio, colpiti da alcuna sanzione: non si ammanettano i poveri perché sono poveri. A un immigrato regolare e a posto con tutti i documenti che sogna di farsi raggiungere dalla moglie e dai figli esattamente come sognavano i nostri emigrati, la nuova legge chiede invece non solo di dimostrare un reddito di 5.142 euro più altri 2.571 per la moglie e ciascuno dei figli ma di avere a disposizione una casa di un certo tipo. E qui la faccenda varia da regione a regione. In Liguria ad esempio, denuncia l'avvocato Alessandra Ballerini, in prima linea sui diritti degli immigrati, occorre avere una stanza per ogni membro della famiglia con più di 14 anni più un vano supplementare libero (esempio: il salotto) più la cucina e più i servizi igienici. Il che significa che una famiglia composta da padre, madre e quattro figli adolescenti dovrebbe avere una casa con almeno sei stanze. Quanti italiani hanno la possibilità di vivere così? Quando vinse la Coppa dei Campioni, coi soldi dell' ingaggio e del premio per la coppa, Gianni Rivera comprò un appartamento a San Siro.
Il papà e la mamma dormivano nella camera matrimoniale, il fratello nella cameretta e lui in un divano letto in salotto. Se invece che di Alessandria fosse stato di Belgrado, sarebbe stato fuorilegge. Ed era Gianni Rivera. Il campione più amato da un'Italia certo più povera. Ma anche più serena di adesso.

Corriere della Sera 2.12.08
Pochi mesi dopo l'edizione critica, Salvatore Settis torna sul controverso manoscritto
Artemidoro e «il tigre»: così nel papiro spuntò uno strano francesismo
di Luciano Canfora


Georges Clemenceau divenne capo del governo francese il 16 novembre 1917. La guerra andava piuttosto male per l'Intesa, dopo la vittoria tedesca sul fronte orientale. Ci voleva un uomo di spietata capacità operativa, e tale fu il settantaseienne leader radical-socialista assurto al vertice nel momento del pericolo. Per i suoi aspri modi, fu popolarmente detto «le tigre ». Infatti «tigre » nella lingua francese è di genere maschile, come del resto maschile è la morte in tedesco e in greco. In Italia, specie dopo Caporetto, lo stile Clemenceau suscitava ammirazione. Il nomignolo tributatogli dai francesi fu subito adottato dalla nostra stampa e tradotto, col proposito di renderlo più intimorente, al maschile: «il tigre». Forma insolita nella nostra lingua, dove è più frequente «tigrotto» e più raro, invece, il femminile «tigretta». In greco antico l'unica forma è tigris, sia femminile che maschile; d'altra parte la radice, avestica, è tigri. Nel greco medievale la situazione non cambia, mentre nel greco moderno si ha tigris per il maschile e tigri per il femminile. Ecco perché ha fatto scalpore trovare sul
verso del cosiddetto «papiro di Artemidoro » (ma il vero Artemidoro non c'entra) il disegno di una maestosa tigre rampante, ritta su di un supporto roccioso e denominata, da un'imbarazzante didascalia, tigros. Una novità assoluta, quasi un francesismo.
Nell'edizione Led del cosiddetto Artemidoro (a cura di Kramer-Gallazzi- Settis-Cassio-Soldati-Adornato) veniva prospettato, con movenze stilistiche solenni, che potesse trattarsi «verosimilmente » di «uno sbaglio dell'estensore » ( sic) più che di una «forma eteroclita dell'usuale tigris ». Fortuna che non è stata sfoderata, anche per il tigre, la spericolata àncora di salvezza dei «nomi di origine popolare» o, a piacer vostro, «locale», che spesseggia nel tomo Led ogni qualvolta una didascalia crea imbarazzo.
Ad ogni modo, questa trovata relativa al tigre non figura più nel recentissimo volume einaudiano Artemidoro. Un papiro dal I secolo al XXI, di cui qui brevemente diremo. Il volume sembra destinato a mandare in soffitta l'edizione Led, uscita appena nello scorso marzo e già offerta, ad un pubblico selezionato, a metà prezzo. Riprendendo la conferenza pronunciata a Berlino al cospetto della prima copia dell'edizione Led, Salvatore Settis ha infatti dato vita ad una sorta di epitome di quanto già si leggeva nelle 630 pagine della citata edizione Led: memore forse del peso che le epitomi hanno avuto nella storia del vero Artemidoro.
L'epitome è un genere letterario minore, ma dignitoso e altruista. Marciano, ad esempio, nel fare dopo cinque secoli l'epitome di Artemidoro, addirittura annullò se stesso, e fece circolare l'epitome senz'altro sotto il nome di Artemidoro. (Nel caso einaudiano, invece, sembra essere accaduto il contrario). L'epitome è anche un genere che non impone l'aggiornamento: deve rispecchiare il già detto. Ecco perché qui, nel novissimo volumetto einaudiano, non ci si è presi la briga di discutere quanto è stato scritto prima, durante e dopo l'edizione Led, sullo stesso argomento. C'è solo un elenco di titoli nel Post-scriptum. Meno male: così, almeno, il lettore può andarsi comunque ad informare su come stanno realmente le cose.
Rarissime le innovazioni rispetto al tomo di marzo: vediamo di che si tratta. Per tamponare il disastro rappresentato dal toponimo Obleuion (colonna V) era stata suscitata in luglio, su di un quotidiano, l'ipotesi che tale toponimo fosse nientemeno che «celtico». Si sa quanto si può cavare dai sostrati, specie se celtici. La trovata viene ora accolta nel novissimo volume einaudiano, e propinata in modo personale: avremmo, nel papiro, che tutto sommato è scritto in greco, «la forma latina del nome celtico ( Oblivio) ». L'idea è fantastica. I Celti, forse una pattuglia post-hallstattiana spintasi verso nord, avevano creato il toponimo Obleuion; i Romani lo imitarono e, vedi fortuna, imbroccarono, ciò facendo, una parola latina, oblivio, che peraltro aveva una sua propria autosufficiente origine (radice lei, che si ritrova in lino/levis etc.). Un vero miracolo. Più saggiamente Bärbel e Johannes Kramer scrivevano, neanche dodici mesi fa, che Obleuion «no es otro que la grafia griega de la palabra latina» (Memorias de Clio, n. 5, 2007, p. 86).
Un'altra innovazione è, alla pagina 13, la foto di un grosso pezzo del papiro, addotto a testimoniare «le fasi dello smontaggio». Il bello è che quella foto, con altre quattro o cinque, la posseggo anch'io: mi giunse da un papirologo che la ebbe quando il cosiddetto Artemidoro giaceva, in grossi pezzi già distesi, in un box fuori Basilea in attesa di compratori. Ricordiamo che alcuni mesi addietro si parlava di almeno cinquanta piccoli frammenti risultati dallo smontaggio della «maschera» e sapientemente ricomposti col sudore della fronte. Come potrebbe lo smontaggio della «maschera» aver prodotto un pezzo così grande e in così buone condizioni? Il problema è che quanto scritto da Luigi Vigna sui Quaderni di storia (n. 68) e poi sul Giornale dell'arte di novembre in merito al totale silenzio degli editori sulle fasi di smontaggio dell'ex maschera funeraria da cui sarebbe sbucato fuori il cosiddetto Artemidoro costituisce un serissimo problema. È questo che induce a cercare rimedi peggiori del male.
Inutile dire che l'insormontabile inconciliabilità, da tempo e reiteratamente segnalata, tra la colonna IV del cosiddetto Artemidoro ed il già noto frammento 21 sussiste più che mai. Infatti nella colonna IV si legge, in contrasto con la realtà storica, che la provincia romana detta Spagna Ulteriore comprenderebbe (nell'anno 100 a.C.!) «tutta quanta la Lusitania», mentre invece, ben più correttamente, nel frammento si legge che quella provincia «si estende fino alla Lusitania». A lungo Kramer-Gallazzi-Settis sostennero che i due testi sono identici; ora invece riconoscono che sono diversi ( deo gratias) e che però, proprio perciò, il papiro può indisturbatamente essere Artemidoro mentre si deve ammettere (evviva) che il frammento è Marciano. Piroetta tragica. In questo modo finisce che l'autore dice una sciocchezza, mentre chi lo riassume dice il giusto. L'escamotage supremo, consistente nel dire che lì «Lusitania» è detto in senso «non amministrativo», è rovinoso, giacché la nozione «non ammini-strativa » ma geografica di Lusitania è molto più vasta, e di conseguenza l'inclusione di «tutta quanta la Lusitania» nella provincia romana già nel 100 a.C. diventa più che mai un'insostenibile assurdità.
Maas diceva che basta un solo argomento, purché forte. Noi non vorremmo essere così severi. Ci limitiamo a dire che l'eroica e vana difesa dell'«autenticità » del cosiddetto Artemidoro sta diventando un genere letterario. E questo parla da sé: per un papiro appena nato è proprio una sorte ria.

il Riformista 2.12.08
Epifani conferma lo sciopero
ma la Triplice ha voglia di unità
di Tonia Mastrobuoni


GRANDI MANOVRE. L'iniziativa Cgil parte con qualche "se" e "ma". Fissate le tappe verso la pace sindacale. Obiettivo: una mobilitazione unitaria a difesa di pensioni e redditi bassi.

Dopo una breve ma intensa stagione di gelo, nella Triplice sono riprese le grandi manovre di riavvicinamento. Appena un mese fa, sotto il palco della manifestazione unitaria del 30 ottobre contro il decreto Gelmini, Guglielmo Epifani e Raffaele Bonanni non avevano neanche incrociato gli sguardi. Dalla scorsa settimana i leader di Cgil e Cisl hanno ricominciato a parlarsi pubblicamente, ai convegni. Piccoli segnali, assieme all'intervista concessa domenica da Bonanni al Corriere (titolo eloquente, «pronto a un passo verso Epifani»), che preparano concretamente il terreno per un ritorno, in tempi ragionevoli, all'unità sindacale.
Il motivo è ovvio. Il paese sta scivolando velocemente verso un «orribile» 2009, come lo ha definito di recente il numero uno della Cisl, che rende indispensabile un fronte comune dei sindacati contro le emorragie nelle fabbriche. Naturalmente, di mezzo c'è lo sciopero generale solitario che la Cgil ha confermato ieri per il 12 dicembre. Tuttavia, nella testa di Bonanni e Angeletti quella mobilitazione è ormai un impedimento puramente temporale. Anche perché gli stessi leader Cisl e Uil non sono entusiasti del pacchetto anti crisi approvato venerdì scorso dal governo. Ieri la direzione nazionale della Uil ha promosso il provvedimento, ma ha osservato che «l'esiguità delle risorse approntate rischia di depotenziarne l'efficacia».
Dunque, dal giorno dopo lo sciopero generale, la strada per una convergenza con Epifani su una vertenza comune sarà in discesa. A giudicare dalle indiscrezioni potrebbe essere una battaglia per ottenere dal governo misure più incisive a favore dei pensionati e delle fasce più deboli. A favore di questa ipotesi gioca anche il fatto che Bonanni ha mal digerito i fischi ricevuti alla recente assemblea dei pensionati che hanno intonato a più riprese cori a favore dello sciopero. Già oggi, alla presentazione del rapporto sull'industria, il segretario generale della Cisl parlerà della necessità di tutelare i posti di lavoro e di ritrovare una posizione unitaria. Ma Bonanni attende anche un segnale concreto di ammorbidimento anche dai piani alti della Cgil.
Formalmente, questo segnale potrebbe arrivare a breve, dall'attesa la firma, solo per gli artigiani, della riforma del modello contrattuale già sottoscritta da tutti meno che da Epifani. Del resto, la disponibilità al dialogo sullo spinoso capitolo dei contratti è emersa anche dall'intervista di domenica di Bonanni, secondo il quale si può ricominciare a negoziare a partire dal documento unitario della Triplice, siglato in primavera. «Suggerisco a tutti, ma proprio a tutti, di rileggerlo e confrontarlo in controluce con le linee guida sottoscritte da Confindustria. L'80% delle questioni è lì», ha precisato. Un passaggio importante, nella strategia di distensione con Epifani.
Nel frattempo anche il leader della Cgil sta smussando gli angoli. Ufficialmente, come emerso dalla segreteria che ha confermato ieri la mobilitazione del 12, resta il giudizio negativo anti crisi. Perché «non rappresenta la svolta economica, sociale e fiscale della quale il paese ha bisogno», si legge nella nota diffusa el termine della riunione. Tuttavia, sarà uno sciopero generale con qualche "se" e "ma". Nei prossimi giorni potrebbero emergere, all'interno delle singole categorie, eventuali deroghe, ad esempio nelle fabbriche colpite più pesantemente dalla cassa integrazione e dalla mobilità.
Nella nota la Cgil riconosce anche che il governo, con la sospensione della detassazione degli straordinari e l'aggancio dei mutui nuovi al tasso della Bce, «dimostra che è possibile giungere ad alcuni risultati condivisi». In questa fase un abbassamento dei toni, anche sulle motivazioni dello sciopero, è un altro tassello importante, nella strategia di riavvicinamento con Cisl e Uil. A breve, una volta ritrovata l'unità, potrà partire la mobilitazione unitaria, a difesa dei pensionati e dei lavoratori più colpiti dalla crisi. E contro un governo che si è dimostrato timido e deludente, sul fronte della loro tutela.

il Riformista 2.12.08
E se provassimo a fare a meno dei partiti politici?
L'eretica, la mistica, la rivoluzionaria Simone ce lo suggerisce.
di Ritanna Armeni


Sono organizzazioni totalitarie in sé come dice Simone Weil? O forse hanno esaurito il loro compito storico e la democrazia oggi ha bisogno di nuovi pilastri

Mi è capitato di leggere in questi giorni un piccolo volume di Simone Weil titolato "Manifesto per la soppressione dei partiti politici". Una «modesta proposta» rimasta inedita e pubblicata dopo la sua morte che colpisce per la sua radicalità e la sua potenza.
«I partiti - scrive senza mezzi termini l'eretica Simone - sono organismi costituiti in maniera tale da uccidere nelle anime il senso di verità e di giustizia», perché sono costruiti proprio per «esercitare una pressione collettiva sul pensiero di ognuno degli esseri umani che ne fanno parte». «L'unico fine di qualunque partito politico - prosegue la Weil - è la sua propria crescita, e questo senza alcun limite», di conseguenza «è totalitario in nuce e nelle aspirazioni. Se non lo è nei fatti, questo accade solo perché quelli che lo circondano non lo sono da meno». La conclusione non ammette compromessi: «Se si affidasse al diavolo l'organizzazione della vita pubblica, non saprebbe immaginare nulla di più ingegnoso» e quindi «la soppressione dei partiti costituirebbe un bene quasi allo stato puro».
Il piccolo volume mi ha colpito molto. Per due motivi probabilmente molto personali e apparentemente contradditori. Quelle definizioni non contenevano quasi nulla di ciò che io avevo fino a quel momento pensato e detto dei partiti e che, con me, avevano pensato e detto molti altri. Ma nello stesso tempo quelle parole così drastiche, appassionate e definitorie mi convincevano, squarciavano un velo, portavano alla luce qualcosa che sapevo e che - paradossalmente - non avevo avuto il coraggio di pensare fino in fondo.
Lo so bene, oggi i partiti non godono di buona fama. Anche l'uomo della strada pensa che il loro fine è il potere. La scarsità di adesioni e di militanza indica che la sfiducia è profonda. La supremazia che i governi hanno ormai acquistato rispetto ai parlamenti e quindi ai partiti che qui sono rappresentati è un segnale inequivocabile della loro crisi.
Ma quelle parole vanno ancora più nel profondo e aprono nuove domande. Dicono che i partiti, non in conseguenza di condizioni date (Simone Weil scrive in pieno stalinismo e nazismo), ma in sé e per sé, in quanto organizzazioni del pensiero e dell'azione, ne contengono la soppressione, producono l'abolizione della libertà di espressione e delle idee di cambiamento.
Naturalmente so bene che, guardando alla storia, mi si potrebbe dimostrare il contrario. Ma il punto interessante non riguarda il passato bensì il presente. L'eretica Simone non stimola sull'analisi di quanto è avvenuto ieri ma sull'oggi e sul domani. La domanda che ci fa o alla quale ci induce è la seguente: la società moderna ha ancora bisogno dei partiti per produrre idee di cambiamento e per organizzarlo? Non stiamo assistendo oggi nel concreto della loro azione al fatto che non sono capaci né dell'uno né dell'altro? Chi dovrebbe sostituirli? E, ancora, se il loro fine, e quindi il fine della politica è il potere, è possibile separare l'una dall'altro? E - soprattutto - è giusto e utile?
Confesso che non so rispondere a queste domande. E a molte altre che Simone Weil con i suoi drastici assunti suggerisce. Ho, invece, alcune piccole certezze.
Negli ultimi anni non ho visto nascere nessuna idea, nessuna analisi convincente della realtà da un partito. È più facile, molto più facile, che essa nasca da un giornale, da un singolo intellettuale e persino da una discussione in un salotto.
Nei partiti di destra e di sinistra il conformismo è la regola. Ed è il conformismo la forma moderna del totalitarismo. La liberazione da esso, che pure alcuni attuano, è quasi obbligatoriamente simultanea all'abbandono del partito che, nel migliore dei casi, rimane uno stanco riferimento elettorale.
Separare il potere dalla politica non è una idea tanto astratta e velleitaria se è vero che milioni di persone si dedicano al volontariato, si organizzano autonomamente, cercano di portare avanti nuove idee di cambiamento. Il senso di verità e di giustizia di cui parlava Simone Weil sta cercando nuovi modi di esprimersi.
Il pessimismo quindi non è d'obbligo. Ma lo è il ripensamento di tutti gli schemi che ci hanno guidato finora compreso quello secondo cui «i partiti sono i pilastri della democrazia».
E se non fosse più così? Se per la democrazia dovessimo trovare altri pilastri, altre parole? Se non potesse essere ridotta a prendere posizione dall'una e dall'altra parte? Se fosse sbagliare liquidare come «qualunquistica» la diffidenza e l'abbandono dei partiti? Se pensassimo a nuovi strumenti per «perseguire il bene pubblico»"?.