venerdì 5 dicembre 2008

l’Unità 5.12.08
Le staminali e il freno della politica
di Cristiana Pulcinelli


La ricerca sulle staminali in Italia è condizionata dalle pressioni di gruppi politici e religiosi. Questi gruppi hanno messo in piedi una campagna confondendo volutamente l’aspetto scientifico con quelli etico, religioso e politico, manipolando l’informazione e denigrando la ricerca sulle staminali embrionali. Parlando dei ricercatori come di persone che operano contro la legge. A scriverlo, sulla rivista scientifica inglese Nature è Elena Cattaneo, direttrice del Centro per la ricerca sulle cellule staminali dell’università di Milano. Cattaneo nell’articolo recensisce un libro di Armando Massarenti dal titolo «Staminalia: le cellule etiche e i nemici della ricerca» (Guanda editore, 2008). Il libro di Massarenti, giornalista del supplemento domenicale del Sole 24 ore, mette il dito nella piaga dei soprusi inflitti dalla politica alla ricerca. Un problema che in Italia è più grave che in altri paesi. Prendiamo l’esempio degli Stati Uniti: George Bush nel 2001 aveva vietato il finanziamento pubblico della ricerca sulle staminali embrionali, ma gli Usa hanno un fortissimo comparto privato che ha continuato fare ricerca in questo settore e il federalismo ha consentito a singoli stati, come la California, di fare scelte diverse dal governo centrale. Senza considerare che Obama ha detto che rivedrà la norma. In Italia, invece, dove non esiste altro che il finanziamento pubblico, il divieto ha avuto effetti deleteri. Per Cattaneo in Italia si sta minando la libertà scientifica. E forse la democrazia stessa. La manipolazione dell’informazione può avere sempre un effetto sulla scelta delle ricerche da finanziare, ma nei paesi in cui l’allocazione dei finanziamenti è basata sulla peer review, ovvero sulla valutazione delle ricerche da parte di altri ricercatori, questo effetto è limitato: la competizione tra ricercatori non dipende dalle loro idee politiche. In Italia, invece, dove manca una cultura della peer review e dove «i conflitti di interesse inquinano la gestione e il finanziamento della scienza», può accadere che si assegnino milioni di euro ogni anno «alle istituzioni preferite, secondo le opinioni dei ministri». Un problema che era stato sollevato a giugno anche dall’Accademia dei Lincei che in un documento aveva definito «a rischio di collasso» la ricerca biologica e medica italiana proprio per gli stessi motivi. «La possibilità di criticare e valutare i risultati delle ricerche è parte essenziale della scienza, ma anche della crescita morale e civile di una nazione - conclude Cattaneo - chi attacca questi valori e rappresenta gli scienziati come una minaccia per l’umanità esprime intolleranza e disprezzo per la democrazia». È un caso che la lettera di Elena Cattaneo arrivi pochi giorni dopo la notizia che un italiano emigrato in Spagna ha effettuato il primo trapianto di trachea grazie alle staminali, dichiarando che nel suo paese natale non avrebbe mai potuto farlo?

l’Unità 5.12.08
Quel no di Terracini a Lenin
di Bruno Gravagnuolo


A 25 anni dalla morte, con «l’Unità» la biografia di Renzo Gianotti riapre un capitolo chiave della storia Pci

Domani con l’Unità: Si chiama «Umberto Terracini. La passione di un padre della repubblica», il libro «Unità - Le Chiavi del Tempo», in edicola domani a euro 7,50 più il prezzo del giornale. Lo ha scrito Lorenzo Gianotti, già segretario del Pci di Torino e poi senatore, autore di saggi storici sull’Ottobre ungherese e sugli operai Fiat.

Imbattersi in Umberto Terracini, per quelli che si avvicinavano alla politica a fine anni 60 era esperienza assai singolare. Conferenziere perfetto, dall’eloquio forbito e millimetricamente preciso, senza sbavature. E dotato di una consequenzialità geometrica, che faceva scaturire le conclusioni del discorso da passaggi e approdi definiti. Mai appesantiti da citazioni retoriche, fatti salvi certi riferimenti indispensabili di storia o di dottrina giuridica.
Sembrava un professore di diritto, sbarcato per caso in una di quelle affollate e fumose sezioni di partito. Ma ancor più straordinario era il silenzio, che avvolgeva quelle parole. E la vena giuridizzante ma chiara, che faceva apparire quegli interventi come usciti dalla sapienza di un costituzionalista, benché del tutto congrui con l’urgenza del momento. Chi era quel «professore»? E come era capitato lì, in mezzo a operai, artigiani, commercianti, impiegati, militanti spesso riottosi, di là della devozione al Partito? E invece non era una bizzarria. Perché le cose che Terracini diceva, erano parte integrante della linea di quel partito, erano in fondo la sua anima formale di fondo, il suo metodo. Tradotti in linguaggio alto ma comprensibile a tutti. Erano la stessa «via italiana al socialismo», intesa come gradualismo costituzionale, attraverso le leggi e l’ampliamento sociale e sostanziale di esse.
E il tutto senza rinnegare l’antica filiazione rivoluzionaria che aveva visto nascere quel Pc tra le bufere del secolo e a partire dall’Ottobre 1917 e dal 1921, con la scissione di Livorno (di cui Terracini fu uno dei protagonisti). Certo tutto questo, allora per noi, non era affatto chiaro, e rimaneva l’effetto di «stranezza» dinanzi a quello stile. Lo stesso effetto di anomalia e anche di «eresia» un po’ indecifrata, che fecero poi di Terracini a lungo, un caso a sé, e a volte un isolato nel Pci. Non troppo interessante alla fine, nemmeno per noi giovani.
ANOMALIA DI LIBERTÀ
Destino ingiusto, che è venuto il momento di rovesciare per intero, per amore di verità e di memoria che è base di verità. E l’occasione è il venticinquennale della scomparsa del grande dirigente, Presidente comunista dell’Assemblea Costituente, nato a Genova nel 1895, e avvenuta il sei dicembre 1983 a Roma. In concomitanza con la quale uscirà domani il volume delle «Chiavi del tempo» de l’Unità a lui dedicato: Lorenzo Gianotti, Umberto Teracini. La passione civile di un padre della Repubblica (pp. 280, euro 7,50 più il prezzo del quotidiano). È un libro affascinante, un libro di storia del Pci, costruito sullo sfondo di un affresco più vasto: il passaggio sociale otto-novecentesco dell’Italia, il socialismo italiano, la nascita del Pci, il fascismo, l’antifascismo, le vicende tragiche dell’Internazionale comunista a Mosca. E poi l’antifascismo, il patto Molotov-Ribbentropp, la guerra, la Resistenza, e il radicarsi via via del Pci di Togliatti. Fino al compromesso storico e al’ascesa di Craxi. Un libro completo, che è di per sé un romanzo d’epoca, costruito attraverso una biografia straordinaria, quella di Terracini.
Impossibile riassumerlo tutto. E però possiamo darvene una chiave. Eccola: «l’eretico fedele». L’ostinato rivoluzionario sempre controcorrente, approdato con la sua testa e pagando di persona alla democrazia come rivoluzione. Senza l’ausilio di Gramsci e Togliatti, l’uno in carcere come lui (rispettivamente 20 e 22 anni di condanna dal Tribunale speciale), l’altro a Mosca o in Spagna.
Dunque, ecco la parabola di Terracini. Giovane intellettuale medioceto, ebreo laico, socialista, ordinovista. Poi comunista, ostile alla pace nel «fronte unico» coi socialisti, e avverso su questo a Lenin e Zinoviev. Quindi, da bordighista si avvicina a Gramsci e trascina con sé anche Togliatti. E ancora: ostile alla svolta staliniana del 1928 e alla teoria del social-fascismo, nonché favorevole alla fase intermedia democratica. Nemico nel 1939 del patto Molotovo-Ribbentropp, e cacciato dal partito per questo nel 1941. Vi verrà riammesso nel 1945, a patto di non fare storie sul passato, e benché dieci anni prima il VII Congresso dell’Ic gli avesse dato ragione in pieno. Riappproda al «suo» partito dopo l’isolamento in carcere dai compagni, e dopo essere stato segretario della Repubblica partigiana della Val d’Ossola. Togliatti lo riaccoglie a Roma, e gli fa poco a poco strada verso l’alto, fino a proiettarlo verso la Presidenza dell’Assemblea Costituente, contro i più settari Longo, Secchia e Scoccimarro che pure lo avevano espulso nel 1941. Ecco allora perché Teracini fu un «eretico fedele», sempre gravato dall’ombra del sospetto, malgrado la tempra e il suo valore immensi. Malgrado il sentirsi, e sempre, un comunista figlio dell’Ottobre. E non finisce qui. Perché Terracini non smise mai di «crearsi» problemi. Dissente infatti sul piano Marshall Usa, che voleva accogliere. Dissente sulla fedeltà geopolitica a Mosca nel 1947 e sui richiami ortodossi della «casa madre». Dissentirà sulla guerra dei sei giorni nel 1967, affermando il diritto di Israele. E dissentirà sia sul «compromesso storico», sia sulla «guerra» di Berlinguer con Craxi. Insomma un terremoto costante, pur nella assoluta fedeltà. Un ossimoro vivente. Interamente coincidente con quella anomalia che fu il Pci. Anomalia di libertà, malgrado tutto.

l’Unità Roma 5.12.08
La Sapienza, Frati chiede lo stop delle occupazioni


A quanto riferito dagli studenti dei Collettivi dell'università La Sapienza ieri mattina il rettore dell'ateneo, Luigi Frati, si sarebbe recato nelle facoltà di Fisica e di Chimica per chiedere di porre fine all'occupazione di parte dei due edifici. Gli studenti dell'«Onda», attualmente riuniti in assemblea all'interno della facoltà di Fisica, aggiungono anche che il rettore abbia lasciato intendere come la sua volontà sia quella di procedere al ritorno di una situazione di normalità all'interno della città universitaria, agevolando così il pieno svolgimento della didattica. «Il rettore ci ha detto sostanzialmente che entro domani (oggi, ndr) dovremo sgomberare» spiegano gli studenti «ma noi non ci lasciamo intimidire dalle sue parole. La nostra protesta non sta impedendo l'attività didattica».

l’Unità Roma 5.12.08
Viaggio in un tribunale a pezzi
Oggi il personale incrocia le braccia
di Livia Ermini


I cancellieri e gli ufficiali giudiziari sono scesi da 53mila a circa 43mila: «Il governo vuole la giustizia a costo zero e Berlusconi vorrebbe privatizzare anche questo importante settore della società».

Un'onda umana ci investe mentre varchiamo la soglia del numero 54b di Viale Giulio Cesare. E'una normale mattinata di lavoro al Tribunale Civile di Roma; avvocati, magistrati, praticanti si affrettano, cartelle alla mano, lungo i corridoi e per le scale che portano alle diverse sezioni. Fino a poche ore prima la fila interminabile dei creditori del fallimento Alitalia si assiepava ai due sportelli appositamente aperti da un mese per depositare le pratiche di risarcimento.
UNA STRUTTURA A PEZZI
Le condizioni e gli ambienti di lavoro, paragonabili a bolgie dantesche, appaiono in tutta la loro precarietà. A cominciare dalla struttura. Al piano terra i corridoi sono stretti e tortuosi e le finestre hanno le grate che ostacolano ogni eventuale fuga. Con il recente nubifragio i controsoffitti di due stanze della sezione fallimentare sono crollati e per fortuna che era notte e non c'era nessuno.
Nella stanza accanto l'unica porta di sfogo in caso di incendio è bloccata da un armadio. Salendo ai piani superiori gli stipi con le pratiche delle cause sono ancora lungo i corridoi, ma almeno ora non è più possibile leggere la documentazione poiché sono stati dotati di serrature. Quando entriamo nella sala della cancelleria però il discorso cambia.
FALDONI INCUSTODITI
Negli scaffali i faldoni sono ammucchiati alla meglio. Senza contare che gli archivi sono posizionati solo sull'ala destra del piano perché la sinistra poggiando su piloni ed essendo cava sotto rischia di crollare sotto un peso eccessivo. Legge 626: questa sconosciuta; sembra suggerire la passeggiata, perché di sicurezza sul lavoro paradossalmente qui se ne vede ben poca. I dipendenti si lamentano della situazione ormai al tracollo. Il Ministero della Giustizia, a causa della legge 133 per il risparmio nelle pubbliche amministrazioni, ha tagliato la pianta organica di 3.256 unità. Oggi a fronte di un numero di giudici che è cresciuto da 8mila a 18mila in dieci anni i cancellieri e gli ufficiali giudiziari sono scesi da 53mila a circa 43mila.
I TAGLI DEL GOVERNO
Ovvio che lo smaltimento delle pratiche sia intasato. Solo il 10% degli straordinari viene pagato, ma soprattutto nel penale c'è l'obbligo di farne secondo necessità, pena la denuncia. Dunque c'è chi invece di 36 ore ne lavora 50 e non riesce nemmeno a prendere i riposi compensativi per mancanza di sostituti. Le circolari del Ministero non arrivano e spesso quando cambia qualche norma si deve improvvisare. I computer sono obsoleti e i programmi non riescono a girare, quando non si rimane senza carta. A volte fogli e cancelleria vengono pignorati perché non è stata pagata la fornitura. Si acquistano stampanti a prezzo stracciato per poi scoprire che il solo ricambio del toner costa più dell'intera macchina.
GIUSTIZIA «PRIVATIZZATA»
«Ogni Governo - sostiene Daniela Rossone delegata sindacale Cub Rdb - ha fatto riforme a costo zero senza investire nella giustizia, Berlusconi ora vuole privatizzare anche questo importante settore della società». Moltissimi infatti sono ormai i servizi appaltati all'esterno. Quello informatico innanzitutto e poi quello delle intercettazioni telefoniche. Non c'è solo dunque un problema di organizzazione e di tempi ma anche di controllo delle informazioni che potrebbero finire in mani sbagliate. Non va meglio altrove. Negli uffici del giudice di Pace a Piazzale Clodio i faldoni con documentazione e sentenze stanno stipati nei bagni.
Dunque lo sciopero per questi lavoratori esasperati appare oggi, anche se un po' spuntata, l'unica arma per attirare l'attenzione.

Corriere della Sera 5.12.08
Sinistra e «questione morale»
Allarme rosso
di Pierluigi Battista


L'Espresso è un settimanale prestigioso che non ha mai camuffato la sua anima progressista e di sinistra: per questo assume un significato particolare quel titolo-choc, «Compagni spa», che campeggia sulla copertina del suo ultimo numero. Organo di punta della polemica anti- berlusconiana, allergico culturalmente e antropologicamente a tutto ciò che nell'Italia e nel mondo porti con sé un sentore di «destra», il giornale ora diretto da Daniela Hamaui ha scelto di non chiudere gli occhi sulle brutture che deturpano le vicinanze di casa. Recentemente ha rivelato i dati che denunciano la deriva oligarchico- corporativa in cui appare prigioniera la «casta » sindacale. Ora denuncia gli «intrallazzi», specchio di un invasivo e arrogante «potere dei comitati d'affari» in cui si stanno inabissando le giunte di sinistra, da Napoli a Firenze, da Genova a Perugia, da Crotone a Trento, dall'Aquila a Foggia. Un esempio raro di giornalismo libero: schierato ma refrattario all'omertà di schieramento, di parte ma capace di non occultare, nella foga della battaglia politica, i vizi che albergano nei partiti idealmente più vicini.
Una lezione. E un allarme: un allarme rosso. Un allarme per quel clima mefitico di sospetti, pratiche spregiudicate, relazioni pericolose, favoritismi, uso disinvolto delle regole che sembrano dilagare sulle giunte di sinistra, messe oramai nelle condizioni di non poter più decentemente rivendicare anche solo la parvenza di quella «diversità» rispetto all'avversario esibita in passato con smisurato orgoglio. Una condizione prossima alla rottura, a cominciare dalla città-simbolo di questo sprofondamento, Napoli, che ha strappato al presidente della Repubblica Napolitano l'angosciata esortazione a «reagire all'impoverimento della politica» che affligge le amministrazioni del Mezzogiorno in particolare. Una fonte di ansia e di allarme che ha indotto un costituzionalista certo mai indulgente con il centrodestra come Gustavo Zagrebelsky, a denunciare in un'intervista al Corriere l'infiltrazione di una nuova «questione morale» nel corpo periferico del Pd. E ha spinto Oscar Luigi Scalfaro alla richiesta di una pulizia tempestiva e radicale, anticipando le sempre più incombenti voci di devastanti terremoti giudiziari.
La risposta meno efficace e più controproducente a questo accavallarsi di moniti e di avvertimenti sarebbe l'adozione di una strategia della minimizzazione, come sembra affiorare dalle parole di Luciano Violante consegnate al
Riformista. E invece un'opposizione debole e messa all'angolo da un'inedita e velenosa «questione morale» rappresenterebbe lo scenario peggiore in un'Italia squassata dalla crisi e in presenza, per la prima volta dall'aprile scorso, di una regressione nella vasta messe di consensi accumulata dal governo. L'allarme rosso ha raggiunto oramai il livello di guardia e svanisce l'illusione di riaggiustare gli strappi confidando nelle virtù risanatrici del tempo che passa e cicatrizza ogni ferita. Se si persistesse in questa illusione, il senso di drammatica urgenza di una svolta ispirerebbe il terrore dell'abisso. Qualcosa di molto più grave della copertina di un giornale.

Repubblica 5.12.08
L'ex Fgci e il plurinquisito la maledizione fiorentina torna a colpire la sinistra
Ora il Pd rischia di perdere dove trionfava
di Alberto Statera


Al centro dell´inchiesta il progetto da più di un miliardo per la piana di Castello
L´uomo di Ligresti, Rapisarda, è un ex latitante: racconta di una cena anche con D´Alema
Nel 1989 i giovani del Pci indussero Occhetto a segare l´intera classe dirigente cittadina

FIRENZE Qui, tra queste sterpaglie, i ragazzi della Federazione giovanile comunista, quei «khomeinisti» tra i quali militava l´attuale sindaco uscente Leonardo Domenici, piantarono nel 1989 la tenda rossa che indusse il segretario del Pds Achille Occhetto a bloccare la speculazione immobiliare della Fondiaria sulla piana fiorentina del Castello. «Sento puzza di bruciato», disse nella notte tra il 26 e il 27 giugno di quell´anno di disgrazia in una telefonata al segretario provinciale Paolo Cantelli, che si schiantò sulla sedia. E un´intera classe dirigente locale comunista, forse l´avanguardia di quella definita oggi «sinistra immobiliare», fu di fatto segata in una notte, nonostante i riti consolatori di Fabio Mussi e Gavino Angius, spediti a Firenze a trattare i reprobi. Vent´anni sono passati, vent´anni e la storia, come in un´ineluttabile maledizione fiorentina, si ripete con un partito che si sfalda alla vigilia delle primarie per la designazione del candidato sindaco su quei 180 ettari di nulla, in un clima politico che adesso Occhetto definisce da «compagni di merendine». Mentre da Roma Walter Veltroni ammette che il Partito democratico, percorso da cacicchi di periferia, non è affatto al riparo dalla questione morale, sollevata da Giorgio Napolitano.
Al posto della tenda rossa dei khomeinisti della Fgci svettano oggi qui, a nord-ovest del centro di Firenze, decine di scheletri poggiati su cilindri di cemento armato che dovrebbero contenere dal luglio prossimo la scuola dei marescialli e dei brigadieri dei carabinieri. Dietro, tra i rovi, il nulla su cui la sinistra rischia di perdere alle prossime elezioni amministrative il miglior risultato elettorale in tutta Italia del neonato Pd veltroniano. La piana di Castello, l´unica area libera di Firenze ora sequestrata dalla magistratura, diciamolo, è uno schifo, accerchiata com´è dall´aeroporto di Peretola dei Benetton, dall´autostrada, dalla ferrovia e dal futuro inceneritore.
Difficilmente ci sarebbe qualcuno disposto a costruire lì qualcosa. Se non fosse che quell´area è di Salvatore Ligresti con la sua Fondiaria-Sai. E, si sa, quando c´è di mezzo don Salvatore da Paternò, tutto è possibile: anche un quartiere residenziale con migliaia di appartamenti, e soprattutto le sedi della Regione e della Provincia, concesse dalla politica, che valorizzano un´area alquanto infelice. Un affare da più di un miliardo, importante quasi come quello di Milano nell´area ex Fiera denominato City Life.
«Mors tua vita mea», sembra essere il motto della squadra ligrestiana che ogni volta che persegue un progetto speculativo da Craxi in poi, sembra far fuori un´intera classe politica. Per scelta? Per insipienza? Per arroganza del potere finanziario, che è certo di poter comprare sempre tutto e tutti? Per inadeguatezza di una classe politica di cacicchi locali irretiti dal «volto demoniaco del potere», come dice l´ex presidente della Corte Costituzionele Gustavo Zagrebelsky, citando Ritter? Si chiama Fausto Rapisarda l´uomo che ha messo a ferro e fuoco la sinistra fiorentina. Vecchia conoscenza delle polizie e delle procure d´Italia, nipote acquisito e plenipotenziario di Ligresti, plurinquisito, ex latitante, fu protagonista di Mani Pulite per lo scandalo Eni-Sai: 12 miliardi di lire pagati al Psi di Craxi e al segretario amministrativo della Dc Severino Citaristi per ottenere di assicurare con polizze-vita i 140 mila dipendenti dell´ente petrolifero. Allora si beccò 3 anni e otto mesi, meno di Craxi e Citaristi, ma quella condanna non servì a toglierlo dalla scena, sulla quale persiste peraltro immarcescibile, pur se pregiudicato, suo zio don Salvatore.
E´ lui, Fausto, che a Firenze gestisce l´affare Castello con i soliti metodi.
Intercettato il 10 ottobre racconta a Ligresti: «Stasera sono a cena con D´Alema. Sono al suo tavolo, mi ha messo lui al suo tavolo, quindi si è informato evidentemente». Degno di una gag di Totò il resoconto telefonico del suo incontro alla Taverna del Bronzino con il vicepresidente della Regione Federico Gelli, che - onore che annuncia futuri favori - gli dà persino del tu. E da oscar della «Brutta Italia» quello con Francesco Carrassi, il direttore ora dimissionario della "Nazione", feudo della famiglia Riffeser che cambia i direttori dei suoi giornali come le calze, scegliendo accuratamente quasi sempre i più disponibili a tutto, il quale rivendica favori in cambio di un editoriale gradito a Ligresti.
Un´Italia di millanterie, di debolezze, di degenerazioni piccole e grandi della politica e della società civile, già vista tante volte, se non fosse perché sembra contagiare in pieno nella sua roccaforte la sinistra più gradita d´Italia, alla vigilia delle elezioni per l´elezione del nuovo sindaco al posto di Leonardo Domenici, che, come persona informata dei fatti, ha subìto l´onta di quattro ore di interrogatorio da parte del procuratore Giuseppe Quattrocchi. Le primarie espressione di democrazia interna rispetto allo strapotere partitico? Sarà, ma qui si sono trasformate nel massacro di un´intera classe dirigente e nell´epitome della «brutta politica». Perché le istituzioni trattano confidenzialmente personaggi ben noti come Rapisarda? «Istituzioni e politica volgari, grottesche, approssimative e arruffone», ha scolpito Daniela Lastri, la ragazza, candidata alle primarie con Matteo Renzi, il giovane, Lapo Pistelli, il democristiano, e Graziano Cioni, il vecchio. «Se vince la Lastri è un disastro», dice Cioni, l´assessore-sceriffo autore dei provvedimenti anti-lavavetri, in una delle intercettazioni che hanno portato ad indagarlo per corruzione insieme al suo collega assessore all´Urbanistica Gianni Biagi. Cioni, comunista da sempre, «babbo cenciaio», come ricorda con orgoglio, sembra un po´ Plunkitt, quel politico novecentesco della New York di Tammany Hall che viveva la politica come un do ut des di reciproche fedeltà e favori. Accusato di avere un figlio che lavora da Ligresti, di avere un´amica stretta cui ha trovato una casa di Ligresti, di averle fornito una parabola Sky di Ligresti, di aver preso sponsorizzazioni da Ligresti, la sua concezione della politica è tutta contenuta nell´intercettazione di una telefonata con Sonia Innocenti, una fornaia rimasta senza lavoro con due bambini a carico, che si era rivolta a lui in cerca di un lavoro.
Cioni l´aveva fatta assumere dall´imprenditore Marco Bassilichi.
Ma viene a sapere che al momento di schierarsi per le primarie, Sonia sceglie Lapo Pistelli. E per telefono le fa una sfuriata: «Ascoltami, io mi posso ritirare, posso andare alle elezioni, posso vincere, ma la gente che è stata con me e poi se ne scorda, mi fa incazzare, mi fa incazzare, mi fa incazzare. Capito? Allora è bene che te ne ricordi. Ma che mi prendi per il culo?». Sono increduli nella Casa del Popolo di San Bartolo 300 iscritti, ma il figlio del «babbo cenciaio», mentre si dimette il capogruppo del Pd Alberto Formigli, socio di società di progettazione, per ora non molla di un centimetro sulla candidatura alle primarie, aggravando a Roma la gastrite di Veltroni.
Tutto questo forse non sarebbe mai avvenuto se Diego Della Valle, che tanti soldi ha investito nella Fiorentina, non avesse chiesto una novantina di ettari al comune per fare la sua Cittadella Viola, il suo stadio, naturalmente con qualche albergo e qualche centro fitness. Visto che non siamo a Phoenix, ai margini del deserto, l´unica area disponibile è alla piana del Castello, anche a costo di sacrificare segretamente gli 80 ettari previsti di parco, che peraltro al sindaco Domenici lo hanno sempre fatto «cagare», come racconta lui stesso in un´intercettazione telefonica.
Fateci l´abitudine, nella stanza di Clemente VII, a Palazzo Vecchio, sotto gli affreschi del Vasari, è questo ormai il lessico corrente. Forse perché persino qui la politica - ma speriamo di essere smentiti - non è ormai che «sangue e merda», come diceva l´indimenticato ministro socialista Rino Formica.

Corriere Fiorentino 5.12.08
Assemblea infuocata nella notte. La Lastri: una decisione va presa. Il Presidente della Provincia sei ore in Procura
«Fuori Cioni». E il Pd si spacca
di Mauro Bonciani


L'assemblea cittadina del Pd fa il bis della notte da resa dei conti di mercoledì. Ieri riunita al circolo Andreoni si è spaccata su un documento che chiede all'assessore Graziano Cioni di ritirarsi dalla corsa alla primarie per sindaco.
A battersi perché la competizione resti a quattro, non solo i sostenitori dello sceriffo, ma anche i supporter del presidente della Provincia Renzi (ieri a colloquio con i magistrati sul caso Castello per sei ore, così come il vicepresidente della Regione Gelli). «Una decisione va comunque presa, altrimenti ci commissariano », dice l'assessore, nonché candidata alle primarie, Daniela Lasti. Il vicesindaco Matulli ha tentato fino all'ultimo un'opera di mediazione fra le parti.
«Fuori dalle primarie» E il partito s'infiamma
Un documento per chiedere il ritiro dell'assessore indagato Matulli media. Lastri: «Se non decidiamo ci commissariano»
Anche i sostenitori di Renzi contrari all'esclusione. I Comunisti Italiani annunciano l'uscita dalla maggioranza e dalla giunta
«Graziano non correrà alle primarie per il bene del partito». L'assemblea bis del Partito democratico fiorentino è andata in scena ieri sera, questa volta al circolo Andreoni. I democratici si confrontano e lacerano su un documento che segna una svolta nel braccio di ferro in atto da giorni, quasi una «resa dei conti», in un'atmosfera accalorata che sfiora lo psicodramma.
Nero su bianco, il documento del Pd, rinnovando la fiducia al segretario cittadino Giacomo Billi («Non mi dimetto altrimenti le primarie sarebbero automaticamente azzerate»), recita: «L'assemblea chiede a Graziano Cioni, cui va la nostra solidarietà rispetto alle indagini in corso, di rinunciare alla candidatura nell'ambito delle primarie per la selezione del candidato sindaco del Pd, gesto utile per proseguire serenamente verso il prossimo appuntamento elettorale. Un atto di responsabilità personale perché non gravino sulle primarie elementi che possano fare risultare meno autorevole la voce del Pd nei confronti dei cittadini». Una posizione che ha acceso gli animi (i cioniani e renziani sono andati su tutte le furie), che ha fatto evocare cadute e suicidi politici e che ha monopolizzato il dibattito. Il vicesindaco Beppe Matulli si è schierato invece contro l'allontanamento di Cioni dalle primarie, tentando la mediazione e chiedendo all'assemblea di dare a Billi 15 giorni di tempo per affrontare la situazione, lo ha definito «un periodo di decantazione»; il presidente della Provincia Renzi si è detto d'accordo con lui.
Ma il terremoto politico, sotto forma di documento in sette punti, era già stato scatenato: la paginetta partorita dal Pd, dopo la conferma della piena fiducia al segretario, sottolinea il no all'autosufficienza politica, la richiesta alla magistratura di tempi brevi, il sì al piano strutturale, il cambiamento della politica «adottando in tutte le sue parti il codice etico del partito »; e alla fine il passaggio che Cioni voleva ad ogni costo evitare.
Parole pesanti, arrivate proprio al circolo Andreoni dove Leonardo Domenici invitò Matteo Renzi a non scendere in campo nelle primarie. Poi gli interventi; e quasi tutti, paradossalmente, hanno chiesto al partito di «non espellere » Cioni, di non dividere gli elettori in buoni e cattivi, di non «farsi dettare l'agenda politica dalla magistratura », evocando il rischio della spaccatura. Il testo «unitario» è rimasto così praticamente senza padri, mentre in fondo alla sala i capannelli si formavano e si disfacevano in continuazione e arrivavano anche i candidati Matteo Renzi e Daniela Lastri. Dopo gli appassionati interventi dei cioniani Riccardo Nencini — «una maggiornaza che espelle impoverisce il partito» — e di Tea Albini, Massimo Mattei coordinatore della campagna elettorale di Renzi ha chiesto a gran voce il ritiro del documento: «Il documento del gruppo dirigente è stato dato ai giornalisti prima che all'assemblea — ha detto indignato — e per serietà del gruppo dirigente e per rispetto dell'assemblea, tralasciando il fatto che 40 anni di politica non si possono liquidare in una paginetta, chiedo il ritiro del documento». Stefania Collesei esponente della sinistra interna, è stata la prima a spiegare il perché dell'appello a Cioni: «Serve un passo coraggioso, per risolvere la situazione ». La resa dei conti è stata anticipata, oltre che dal consueto vortice di telefonate e dalle voci di un azzeramento romano delle primarie, dalla riunione di coalizione che si è tenuta ieri pomeriggio in via Venezia. Una coalizione che ha già perso un pezzo. I Comunisti Italiani non si sono neppure presentati per riunirsi con il segretario nazionale Oliviero Diliberto e su invito di Diliberto hanno deciso che «non ci sono le condizioni per continuare l'esperienza in Palazzo Vecchio, nella coalizione». Una posizione annunciata, che sarà ratificata formalmente oggi dal consiglio federale del Pdci (che chiederà anche all'assessore ai lavori pubblici Paolo Coggiola di dimettersi dalla giunta comunale) e che vede i Comunisti guardare al futuro, alla sinistra nuova ma anche ai tanti fiorentini disorientati dalle recenti vicende.
I capigruppo di Palazzo Vecchio, i segretari cittadini e provinciali di Pd, Sinistra, Idv, Verdi e partito Socialista hanno solo certificato le diverse posizioni, tra gli imbarazzi di Giacomo Billi e Andrea Barducci che sulle primarie non potevano rispondere «a prescindere» dall'assemblea della serata. Verdi, Sinistra e Socialisti si sono presentati con una posizione unitaria basata su azzeramento delle primarie del Pd e primarie di coalizione a Firenze. Sinistra e Socialisti (i segretari regionali Giovanni Bellini e Pieraldo Ciucchi si sono visti prima dell'inizio del vertice) hanno sottolineato che senza un cambio di rotta del Pd, se prevalesse la tendenza all'autosufficienza, non solo è a rischio la maggioranza Domenici, ma lo sono anche le alleanze per il voto della primavera 2009. Non hanno posto il problema della permanenza in maggioranza nè dello stop alla consultazione del Pd sul candidato sindaco Verdi e Italia dei Valori, ma i primi hanno ribadito che Graziano Cioni dovrebbe fare un passo indietro anche da assessore, non solo dalle primarie, e i secondi hanno insistito su tavoli condivisi e rinnovamento. Dopo quasi tre ore gli alleati si sono lasciati con un unico punto di accordo: in Provincia si terranno primarie di coalizione (per il Ps potrebbe correre Tommaso Ciuffoletti, per la Sinistra Maurizio De Santis).

Corriere della Sera 5.12.08
Memoria Il nuovo numero dell'«Europeo» dedicato a dodici mesi densi di avvenimenti decisivi
1948, l'anno che divise l'Europa
Dal piano Marshall al colpo di Praga: così nacquero i blocchi
di Antonio Carioti


Per l'Italia e per l'Europa fu l'anno della stabilizzazione, dopo le incertezze di un dopoguerra convulso. Nel 1948, il 18 aprile, l'Italia scelse al tempo stesso lo Scudo crociato e l'Occidente, con un voto largamente maggioritario: si affermò così la centralità democristiana, connotato principale del nostro sistema politico fino al terremoto dei primi anni Novanta. E votare per il partito di Alcide De Gasperi significò anche approvare il piano Marshall, il programma di aiuti economici americani all'Europa che fu la premessa dell'Alleanza atlantica.
Per quarant'anni i giochi erano fatti, e non solo in Italia. Negli stessi mesi si costituiva infatti ad Est il blocco sovietico, con il colpo di Praga del febbraio 1948, che segnò l'instaurazione di un brutale regime stalinista anche nella civile e progredita Cecoslovacchia. Ma al tempo stesso in ambito comunista si affermava l'eresia jugoslava di Tito, scomunicato dal Cominform in giugno e tuttavia capace di resistere alle pressioni di Mosca. Il blocco di Berlino da parte dei sovietici, sventato dal ponte aereo americano, segnò il definitivo consolidarsi dei due schieramenti geopolitici contrapposti, con l'ex capitale del Reich a fare da teatro delle tensioni più acute.
Si giustifica quindi pienamente il titolo «1948. L'anno decisivo della nostra storia», con cui L'Europeo illustra il tema portante del numero di dicembre, da oggi in edicola con il Corriere della Sera. Introdotte da una riflessione dello storico Giuseppe Galasso, che delinea il quadro di un'Italia ancora povera e arretrata, ma pronta a spiccare il balzo per il «miracolo economico » degli anni Cinquanta, sfilano nella consueta parata antologica alcune delle firme più prestigiose della gloriosa testata: Nicola Adelfi, Tommaso Besozzi, Enzo Biagi, Camilla Cederna, Sandro De Feo, Ennio Flaiano, Vittorio Gorresio. C'è anche Mario Pannunzio, che l'anno successivo avrebbe fondato un altro prestigioso settimanale, Il Mondo.
Qui firma due splendide corrispondenze dall'estero: una da Madrid, nella quale traccia il quadro di un Paese chiuso nel fiero immobilismo della restaurazione feudale imposta dal «generalissimo» Francisco Franco; l'altra da Londra, incentrata sull'atteggiamento dei britannici, tanto diffidenti verso i progetti di unificazione dell'Europa quanto determinati nell'affrontare le dure incombenze della guerra fredda.
Godibilissime anche le corrispondenze dagli Stati Uniti di Ugo Stille, in particolare quella sulla campagna presidenziale americana — già allora un'incredibile prova di resistenza per i due candidati — di cui pubblichiamo un estratto qui a fianco. Oltre al duello fra Harry Truman e Thomas Dewey, vinto dal primo contro tutte le previsioni, Stille racconta alcuni momenti drammatici della guerra fredda, che era sempre a rischio di arroventarsi.
Straordinario, come al solito, l'apparato iconografico: c'è il presidente della Repubblica Luigi Einaudi, compito e galante; c'è Amintore Fanfani, giovane e volitivo in un comizio; ci sono le folle in tumulto dopo l'attentato a Palmiro Togliatti; c'è un'immagine di Biagi che intervista il criminale nazista di Marzabotto, Walter Reder. Ma il pezzo forte è il servizio di David Seymour intitolato «Sciuscià d'Europa», con impressionanti foto di un'infanzia misera, malnutrita, stremata, che porta ancora i segni della guerra, ma riesce di quando in quando a regalarci una risata o una smorfia sbarazzina.
Completa il fascicolo un ritratto dedicato dall'attuale direttore editoriale dell'Europeo, Daniele Protti, allo scrittore quarantottesco per eccellenza, Giovannino Guareschi, anche lui immortalato in una serie d'immagini da cui traspare per intero il carattere sanguigno dell'inventore di Peppone e don Camillo.

il Riformista 5.12.08
Safouan, il Corano è tollerante, siamo noi a non essere liberi
intervista di di Alessandra D'Andria


L'intellettuale franco-egiziano, psicanalista e traduttore arabo di Freud, ci racconta i legami tra politica della scrittura (sacra) e terrorismo religioso.

«Non è l'Islam ad essere incompatibile con la democrazia ma la strumentalizzazione di questa religione da parte delle elite al potere». Pronuncia ogni singola parola con lentezza Moustapha Safouan, come se volesse imprimerla nella mente di chi lo ascolta. Perché la sua è una convinzione profonda, che nasce da anni di studio sulla questione - sempre attuale - del rapporto tra Corano e libertà. Tema a cui lo psichiatra franco egiziano - famoso tra le altre cose per aver tradotto in arabo L'interpretazione dei sogni di Freud - ha dedicato il saggio Perché il mondo arabo non è libero, appena pubblicato da Spirali. Un titolo provocatorio. Del resto, Safouan - in Italia per un ciclo di presentazioni- non ha timore di turbare la sensibilità degli «oltranzisti del politicamente corretto«. L'anziano medico - abituato a indagare nei meandri dell'inconscio - ama demolire falsi miti e luoghi comuni. Safouan è un intellettuale "senza mezze misure". Proprio come il suo nuovo libro, dal titolo controcorrente.
Safouan, perché il mondo arabo non è libero?
Devo fare una puntualizzazione. Il titolo originario - con cui l'opera è stata pubblicata in Gran Bretagna - è Perché gli arabi non sono liberi. L'editore francese, temendo di ferire la sensibilità dei Paesi islamici, ha trovato questa forma edulcorata. La nuova traduzione araba si chiamerà Perché noi non siamo liberi - che mi sembra il nome più adatto - dato che è un arabo a parlare. Quanto alle motivazioni dell'assenza di libertà nel mondo arabo queste derivano da ragioni storiche. Ben più antiche della colonizzazione. Spesso i nostri governanti puntano il dito contro gli stranieri - che di certo hanno sfruttato le colonie per i loro interessi - ma non si assumono le loro responsabilità.
Quali sarebbero?
La religione islamica non delinea una forma di organizzazione politica. È, però, vero che il Corano lascia irrisolta una questione fondamentale: quella della successione. Maometto è l'ultimo Profeta, nessuno può sostituirlo. Tale affermazione si iscrive in un contesto politico in cui ancora esiste la "forma stato" come la conosciamo ora. I popoli della regione, dunque, si sono dovuti ispirare all'unica forma di governo che conoscevano, ovvero il modello persiano dell'Imperatore-Dio. Una modalità di organizzazione del potere importata da fuori e, dunque, estranea all'Islam come religione. Il punto è che la divinizzazione del potere s'è conservata nei secoli, ha plasmato la mentalità dei popoli musulmani. Grazie alla manipolazione dei testi sacri operata dai vertici dei regimi. In Egitto, ad esempio, da Nasser in poi, il presidente nomina i rappresentanti del potere religiosi, i responsabili della fatwa, i rettori universitari.
In che modo è stata realizzata questa mistificazione?
La lingua ha un ruolo fondamentale in questo. L'arabo è una lingua "duale". Da una parte c'è l'idioma dei testi sacri, quello letterario, fisso e immutabile, dall'altra c'è la lingua parlata dal popolo. La prima resta, però, inaccessibile per il popolo. D'altra parte, chi detiene il potere non ha interesse a diffonderne la conoscenza. «Il Corano dice questo», ripetono i governanti ma la gente ignora che cosa realmente affermino le scritture. Si realizza, così, quella che io definisco una "censura non dichiarata". Perché il Corano è molto più tollerante di come i regimi arabi ce lo fanno apparire.
Perché allora, specie negli ultimi tempi, sembra prevalere l'estremismo?
Il fondamentalismo è il prodotto della repressione operata dai governi islamici. L'opposizione non ha modo di esprimersi, l'unico canale che ha per affermarsi è la violenza. Una violenza assoluta e brutale quanto - o spesse volte di più - quella dei sistemi politici che si trovano a combattere. Anche questi movimenti di resistenza "manipolano" il Corano per legittimarsi. Utilizzano gli stessi meccanismi dei governi al potere. Che vengono definiti "infedeli", mentre gli estremisti si autoproclamano i detentori "dell'ortodossia". Non a caso, l'integralismo colpisce non solo l'Occidente ma anche i regimi arabi. La religione, tuttavia, non c'entra. È una lotta per il potere.

Repubblica 5.12.08
Dalla concezione della scienza al senso dello Stato
Arabi e Occidente gli ostacoli al dialogo
di Adonis


Nelle tre fedi Dio è presente attraverso un messaggio specifico e unico che esclude gli altri. Nella prassi tutto ciò è stato mutato in ideologia

Quattro ostacoli vanificano il dialogo umano, sincero e creativo tra le sponde orientale e occidentale del Mediterraneo, o per essere più precisi tra gli Arabi e l´Occidente. Questi ostacoli rappresentano la visione religiosa dell´uomo e del mondo, la concezione della conoscenza, della scienza e in particolare dell´aspetto tecnologico, del senso dello Stato e della prassi politica, dell´antico e reiterato conflitto tra il sacro ebraico e quello islamico, che adesso si manifesta sotto forma di conflitto tra Israele e Palestina.
Se veramente volessimo realizzare questo tipo di dialogo creativo, che non si basa sulla semplice tolleranza, per essere fondato invece sulla eguaglianza degli esseri umani, allora dovremmo innanzitutto eliminare questi ostacoli o almeno dovremmo adoperarci per rimuoverli nel dialogo e negli incontri. In questa sede è difficile analizzare nei particolari ciascun ostacolo per scoprirne le origini e predisporne il superamento. Perciò mi limito a fare alcuni accenni e a porre domande specifiche per ciascuno di essi.
In primis, per quanto concerne la visione religiosa dell´uomo e del mondo, e qui si intende la visione monoteista, sappiamo tutti che il monoteismo ha un suo modo esclusivo di concepire Dio. In ogni monoteismo Dio è presente attraverso un messaggio specifico e unico che esclude gli altri. Nella prassi è stato mutato in ideologia, facendo della sua interpretazione l´unica via per conoscere Dio ad esclusione delle altre. Così, per il monoteismo, la parola divina si trasforma in uno strumento per il potere. E l´interpretazione è un potere culturale che diventa mezzo per fondare il potere politico-sociale. Allora, prima di affrontare qualsiasi dialogo tra le religioni monoteiste, è necessario porre delle domande fondamentali: la rivelazione specifica di ogni monoteismo, la parola di Dio nella sua totalità, è da ora sino alla fine del mondo, o è parte del discorso di Dio capace di arrivare sino all´infinito? Si può circoscrivere la parola di Dio alla sola rivelazione, mentre si può affermare che Dio non parlerà né farà rivelazioni dopo quella ebraica, o quella cristiana o quella islamica, e ciò che ha detto - a ciascuna di loro - è l´ultima rivelazione e quindi il sigillo delle verità? È possibile che Dio doni una rivelazione migliore di quelle svelate alle religioni monoteiste, o no? Se la risposta fosse affermativa allora i testi monoteistici non sarebbero più assoluti. Se la risposta fosse negativa, allora noi limiteremmo la libertà di Dio: allo stesso Dio non resterebbe che quel che ha detto.
Sembra quindi che il cosiddetto dialogo tra le religioni monoteiste si fondi su una differenza radicale, che consiste nel fatto che ciascuna di esse esclude l´altro nella propria visione di Dio. Come è possibile che vi sia dialogo tra parti che si negano a vicenda? Vi è dunque una egemonia teologica sul pensiero e sulla vita a un tempo. Il monoteismo non è semplicemente una conoscenza religiosa che domina la mente e il pensiero ma è anche un modo per controllare lo stesso corpo dell´uomo e possederne la vita in quanto ne possiede il pensiero. Esso è un potere biologico oltre che un potere culturale-mitologico. Il pensiero mediterraneo si muove quindi in una prigione teologica. Ad esempio, i fondamentalisti ebrei definiscono la terra palestinese occupata come i «territori biblici liberati». I musulmani rispondono contestando questa definizione.
Se lo stesso Dio è prigioniero della rivelazione dei suoi libri all´uomo, a maggior ragione lo stesso uomo, in tutto il suo essere pensiero, azione, ragione e cuore, è prigioniero di questa rivelazione scritta. E ciò che complica la questione oggi, si cela nel divario crescente tra ciò che la terra umana chiede sia scritto da una parte, e dall´altra quello che ha scritto Dio, ossia tra il reale e il trascendente.
Sembra che la liberazione da questa prigione sia una condizione necessaria affinché emerga un dialogo sufficientemente razionale. In particolare noi osserviamo, storicamente e fattivamente, che ogni cosa nell´interpretazione dominante dell´egemonia teologica monoteista e nella sua prassi, non fa che confutare l´incertezza e il dubbio della ragione, il suo contraddirsi e interrogarsi, il fare ipotesi, rischiare e vincere. La negazione della natura stessa dell´uomo, del corpo, del sesso maschile e femminile e dei loro oceani di piacere, desiderio e passione. Oceani di vita nella sua essenza di festa ed unione, e nella sua essenza di supremo valore umano.
Le sponde del Mediterraneo sono state testimoni di fasi storiche in cui questa interpretazione e questa prassi hanno trasformato il monoteismo in un esercitazione di forza, di invasione e di egemonia, di cui le crociate non sono che una manifestazione. In questi momenti l´essere umano ha distrutto in nome della verità rivelata, e ha trasformato Dio in un semplice capo militare, e la teologia in una formula linguistica. E il monoteismo non è stato considerato una preghiera ma è diventato una spada.
La questione dunque non è semplicemente il declino della religione, come crede Steiner, o del declino del ruolo dell´istituzione religiosa nella vita, nel pensiero e nei rapporti umani, la questione è piuttosto correggere il difetto nella visione monoteista dell´uomo e del mondo. Ed esso è un difetto le cui cause si celano nella natura stessa di questa visione, molto di più che nei fattori esterni, come credono molti sociologi - e questo sia che i fattori si ricolleghino al movimento razionalista della rinascita (araba), o alla vocazione al dubbio e alla laicità dell´illuminismo, o al darwinismo e alla moderna tecnologia della rivoluzione industriale. In momenti come questi abbiamo assistito all´istituzione dei tribunali dell´inquisizione e al trattamento disumano dell´uomo accusato di avere violato il testo.
(traduzione Francesca M. Corrao)

Repubblica 5.12.08
Perché la D'Amico, prima telediva postberlusconiana, manda in crisi il premier
L'Ilaria che fa male al Cavaliere
di Francesco Merlo


E già Berlusconi la chiama con sgomento «quella là», la teme ben più di Veltroni e di Di Pietro, ordina sondaggi sugli spot di «quella là», dice che bisogna fermare «quella là», e progetta di reagire come nella canzone napoletana: "me ne piglio un´ata cchiù bella...". E subito bisogna ammettere che "la signora Quellalà" fa così male a Berlusconi perché sembra pensata dal miglior Berlusconi. Con una prima grande differenza, però. Magari sarà un´impressione, ma Ilaria D´Amico passa per una che non ha prezzo.
Si sa, per esempio, che durante Calciopoli, anche questa bruna specializzata nel giornalismo sportivo ? allora la chiamavano "lady pallone" ? finì nel pozzo nero delle intercettazioni del rampollo di Moggi, Alessandro: «Ho speso diecimila euro per portare la D´Amico a Parigi. Ma mi ha dato buca». La signora Quellalà commentò con gli amici: «O pago io, o non ci sono soldi che bastano».
Al contrario del gossip più o meno volgare e più o meno verosimile che accompagna la Carfagna, la Gelmini, la Brambilla nonché l´intero educandato di attrici, vallette e ballerine che sono ormai una degenerazione del potere italiano, il gossip alimentato da Ilaria D´Amico, 35 anni, romana, è sempre fatto di leggera e stravagante libertà, sino al rapporto con Monica Bellucci, un´amicizia forte e candida che i giornali di genere si ostinano a immaginare come se fosse uscita da un saggio di Camille Paglia, la sociologa femminista che pensa all´amore come a una scena affollata.
Di sicuro Quellalà ha alle spalle, come moltissimi altri, una lunga gavetta di giornalismo televisivo prima di arrivare agli attuali record di ascolti, ma senza riconoscibili padronati politici e senza essere la pupa di nessun capo. E difatti anche nella trasmissione "impegnata" Exit, inventata per lei da Giorgio Gori (berlusconismo di sinistra?), questa stangona senza trucco dà comunque l´impressione di non avere appartenenza, e difatti non colloquia ma incombe, non ha la falsa modestia del giornalista che sta in mezzo. Preferisce stare sopra, dolcemente e magari anche sensualmente.
Perciò Berlusconi la invidia a Sky ma non la capisce: vagamente intravede in lei la prima telediva postberlusconiana. E forse anche a sinistra piace perché, soda ma ingenua, suggerisce alla sinistra che il futuro non è contro Berlusconi ma oltre Berlusconi, non in solidarietà oppositiva ma su un piano sghembo di indifferenza infastidita. La D´Amico difende la tv che le dà lavoro e dunque difende se stessa ma senza urlare, senza "michelesantoriare", senza cantare in diretta "Bella ciao", ma invitando i telespettatori a farsi onda teledemocratica (berlusconismo di sinistra?) e a inviare email di dissenso. Insomma, non ha pesantezza storica, non è una guerriera, non è stagionata nelle lotte studentesche o negli scontri sindacali, e le sue battute sono forse banali ma spesso sorprendenti.
Del resto, chiamarla Quellalà è già sonoramente geniale. Berlusconi dice così perché non ce la fa a definirla. Lo confonde la pericolosa professionalità "berlusconiana" della D´Amico che sempre intrattiene, anche quando protesta. E´ insomma una realtà alla quale non sa dare nome. Se infatti il fuoriclasse Santoro lo conferma perché è fazioso, esagerato e iperpolitico, la D´Amico lo spiazza perché, come si dice nel giornalismo calcistico, non gli dà punti di riferimento, non si lascia marcare: Quellalà, che conquista la sinistra in nome della televisione della destra mondiale, si pone fuori dai suoi schemi.
Perciò Quellalà è molto più affascinante sia del nome Ilaria sia del cognome D´amico, magari perché oscuramente ricorda "Tralala", la terribile e leggera "eroina" ? donna e droga, maschio e femmina ? di Hubert Selby, autore cult della radicalità a-ideologica e postcomunista appunto, la sinistra che non se la beve, la sinistra che vorremmo.
Berlusconi, che non conosce niente di "Tralalà", non può certo dare della comunista né alla D´Amico né alla tv di Murdoch e dunque non sa come comportarsi davanti alla bella giornalista che non si è formata nei fumosi locali del Manifesto e nella militanza, che non si riconosce nel catechismo democratico ma è un fiore di quella società di massa che finalmente non è più disprezzata a sinistra.
Bellezza abbondante ma senza l´ossessione estetica di rifarsi, Ilaria D´amico sta dunque conquistando una sinistra italiana che mai era stata così povera di simboli, così appiedata smarrita. Si può sorriderne e si può moraleggiare quanto si vuole. Ma più che della Parietti e della Ferilli, Quellalà sembra ? e speriamo che sia ? l´evoluzione moderna delle signore del giornalismo radicale italiano, la Cederna e la Rossanda innanzitutto, e magari anche di quelle altre donne che in passato volevano essere tutte testa, le cacasenno d´antan, quelle che non tolleravano che la bellezza fosse un´espansione dell´intelligenza, che diventasse la lingua della carne.
Professione e fascino, dunque. Coscia e lingua lunghe. E poi un´inchiesta sul degrado degli scavi di Pompei e, in un altro giorno della settimana, per raccontare il calcio con tutti i suoi bicipiti, Quellalà torna ad appollaiarsi sul solito alto sgabello come la «donna che mi piace tanto» di Fred Buscaglione «sofisticata e un po´ trasognata», proprio come appare negli spot che passeranno alla storia mediatica d´Italia come la più bella e la più seducente ma anche la più misurata e la più efficace campagna contro Berlusconi.
E anche la più inaspettata e forse la più gravida di insegnamenti, tutti racchiusi nello smarrimento berlusconiano, nella definizione Quellalà appunto, che ricorda la pop dance e il succeso internazionale di Gunter e delle sue Sunshine girls, Ding Dong Song,: «you touch my tralalà... ». Quellalà, Tralalà, Liolà...: sono suoni divertenti e scanzonati per una sinistra che la finisce con i francofortesi e il pensiero negativo, con le catastrofi e con l´ideologia, e diventa gioiosa, fatta di vocali aperte e consonanti liquide, belle donne, scrosci d’acqua e d’allegria: una, cento, mille Quellelà.

Repubblica 5.12.08
Ricerca Usa durata 20 anni su cinquemila persone: serve il contatto fisico
Le mille lingue delle emozioni. La felicità è contagiosa
di Franco La Cecla


Da quando esistono le scienze umane due sono state le tendenze per spiegare come si propagano le credenze, le mentalità, gli usi e gli stati emotivi. Una sostiene che l´umanità ha una maniera universale di procedere, di fronte a certe situazioni ed in certi contesti risponde nello stesso modo, che sia un villaggio di indios quechua delle Ande, un gruppo di manager di Chicago o una tribù del Benin. Si può chiamare teoria analogica. La seconda è la teoria del contagio, la teoria diffusionista. Gli aztechi costruivano città che somigliavano a quelle cinesi, allora è possibile che qualche cinese sia arrivato via mare fino in Messico.
Più banalmente è la teoria del contatto, quella per cui se due persone o due gruppi umani si incontrano finiranno per imitarsi. La mimesi sembra essere una delle molle fondamentali dell´umanità, quella per cui persone che vivono insieme finiscono per esempio per somigliarsi. L´idea che la felicità sia contagiosa e l´infelicità no presuppone che entrambe le teorie siano sbagliate Per i neuroscienziati che la sostengono ci sarebbero dei fattori particolari nelle sinapsi del cervello che aiutano il contagio felice e inibiscono quello depresso.
Intanto cosa significa felicità? Un conto è la felicità promessa nella Costituzione americana, un altro quella del kamikaze convinto che se muore per la causa giusta va in Paradiso, un conto è la felicità come assenza di dolore - e nel caso della nostra ricerca la felicità è misurata su parametri negativi, l´assenza di depressione - e un altro è la felicità come ricerca di un senso nella vita, un senso che può passare anche attraverso prove dolorose, come il ragazzino indio che si deve perdere nella foresta e soffrirvi per essere iniziato all´asceta. Il punto chiave è che l´umanità è legata al contesto, al tempo, alla geografia e alle motivazioni generali del gruppo dentro cui vive o a cui anche idealmente appartiene e la felicità dipende da queste circostanze. Ogni approccio clinico all´umanità ha bisogno di ridurla al un minimo comun denominatore con la scusa di essere una scienza empirica. Ma è la stessa disumanità che sta oggi alla base della medicina ufficiale, per cui l´uomo è un fascio di nervi e di sinapsi ed il cervello una bella macchina che tra poco avremo "totalmente" capito (dicono loro).
Le cose in realtà stanno in modo differente. Intanto l´idea che la depressione, o l´infelicità, non siano contagiose va contro il più banale buon senso. Vi siete mai trovati a convivere con un depresso? Vi sembra davvero che il suo stato d´animo non aleggi intorno a lui come un´aura pervasiva? Il fatto è che un esperimento in laboratorio è diverso dalla vita reale. E poi è sicuro che la depressione sia un sintomo di infelicità? Per gli psicanalisti la depressione è il momento di presa di coscienza della necessità di un cambiamento. Ma più in generale le discipline antropologiche che si occupano di emozioni hanno fatto passi da gigante tutti dovuti a dei pazienti ricercatori che si sono dati la briga di stare mesi, anni presso popolazioni diverse del mondo. Quelle che questi studi ci raccontano che ogni piccolo mondo ha la sua "tavolozza" di emozioni che hanno senso all´interno di un sistema che "si tiene" per rimandi. La collera, l´ira, la rabbia, e la risata, l´allegria, la gioia sono sì esperienze universali, ma si manifestano spesso in presenze di fenomeni opposti e con intensità diverse. Quello che per noi è uno stato di agitazione per gli antichi greci era il sentire del giovane perfetto. Per i polinesiani ogni eccesso di allegria o di rabbia viene rimproverato e quindi l´intero gruppo vive in una "moderazione" costante che ha bisogno, per non scoppiare, di momenti di follia collettiva. Per le mamme delle favelas brasiliane in cui la mortalità infantile è altissima il lutto deve essere trasformato in allegria. In generale però le emozioni sono un patrimonio locale, sono un linguaggio che si può capire solo dopo un bel po´ di tempo che si è convissuto in quel villaggio, in quel paese. L´umanità, quando si tratta di emozioni, è molto complessa, e come ci ha insegnato Bateson, le emozioni sono come un sistema ecologico, presuppongono un equilibrio di dinamiche. Felicità - infelicità sono parametri molto consumisti di lettura delle emozioni, pretendono di ridurre gli stati d´animo a bisogni, a soddisfazioni, a un vuoto da riempire, ad una carenza da colmare.

Repubblica 5.12.08
Se sull’amore parla Lacan
Escono ora le sue lezioni sul "transfert"
di Nadia Fusini


Sono pagine accessibili e interesseranno anche i classicisti, gli studiosi del mondo antico e della letteratura
"Il seminario. Libro VIII" parla dell´eros tra l´analista e il paziente indispensabile alla cura
Si tratta del corso tenuto dal maestro francese tra il 1960 e l´anno successivo al Sainte-Anne
Grande competenze nella lettura del "Simposio" di Platone, come su Arcimboldo o Swift

Nell´inverno 1960 Jacques Lacan riprende le sue lezioni all´ospedale di Sainte-Anne, secondo una cadenza settimanale, e cioè ogni mercoledì, fino al giugno 1961: un anno accademico, come ai vecchi tempi. Quest´anno a tema sarà il transfert, termine chiave per la comunità di attenti allievi cui il maestro si rivolge, essendo l´amore del paziente e per contro quello dell´analista il carburante necessario al viaggio in psicoanalisi. La coppia analista-analizzando come potrà stare insieme sulla stessa carrozza, se non amandosi e odiandosi, come ogni coppia?
Il testo di quelle lezioni stabilito da Jacques-Alain Miller e tradotto da Antonio Di Ciaccia, che cura l´edizione italiana, è raccolto ne Il Seminario, Libro VIII, uscito da Einaudi (pagg. 436, euro 34,00). Il libro è immensamente interessante: non esagero. Interesserà non solo i ricercatori della psiche, gli adepti del mestiere. Ma coinvolgerà gli studiosi del mondo antico, i classicisti, che vi troveranno un´analisi approfondita di indubbia intelligenza e competenza del Simposio di Platone; e gli studiosi in genere della letteratura, che vi troveranno una lettura del mito di Edipo oggi, così come risorge nella trilogia dei Coufontaine di Paul Claudel. E infinite altre acute, stranianti osservazioni su artisti e scrittori, da Arcimboldo a Swift: tutte pertinenti e insieme impertinenti, eccitanti come punture di uno spillo.
Per mesi Lacan guida i suoi uditori. E a noi leggendo pare di stare lì, di partecipare all´evento. Merito, questo, di una perfetta alleanza tra chi ha curato il passaggio dall´oralità alla scrittura, e ciò che era phoné ha trasformato in gramma, stabilizzando così un testo instabile. E chi nel tradurre ha saputo mantenere quel brusio ininterrotto, quell´infinito intrattenimento di una parola che, nello sforzo di acchiapparsi in quel che prova a dire, discorre secondo un moto ondoso. Non si era mai letto così bene Lacan. In un italiano altrettanto chiaro, limpido, mosso, secondo un movimento allegro andante con misura che allena la mente di chi legge all´esercizio del pensiero. Il che dovrebbe, chissà!, demolire le false resistenze di chi si protegge dall´incontro con Lacan invocando a pretesto difficoltà astruse, impervi concettismi.
Non c´è niente di astruso qui, provare per credere. C´è invece la straordinaria impresa di qualcuno che legge il mistero della nostra esistenza di uomini e donne ora e sempre nel mistero della lingua, nella dimensione creativa della parola umana. Per questo Lacan riconosce che la cultura classica gli è essenziale. Se legge il Simposio, se di questo testo filosofico fa la materia del suo insegnamento, invece che, non so, di un trattato sul funzionamento delle cellule del cervello, è perché gli è chiaro che chi voglia anche un poco sbrogliare la complessità della mente umana dovrà ricorrere al pensiero. Nel riconoscimento del fondo emotivo in cui si innesta. Ci vuole Platone, per pensare il desiderio. Come ci vuole Apuleio per cogliere «il punto di nascita dell´anima».
E se rilegge Claudel è perché crede che nella lingua della letteratura può "cadere" qualcosa che altrove non si lascia afferrare. La lingua poetica è un rete che tira su molti pesci, per chi la sappia ascoltare. Se non altro per la sua specialissima dote di misurarsi con l´indicibile, l´inesplicabile - che non sono affatto paroloni, ma esperienze assai comuni della nostra esistenza - mantenendone il carattere di enigma. Dimostrando così, con semplicità, la profonda verità dei limiti del linguaggio, e con coraggio assumendosi, sempre la letteratura, la passione della "capacità negativa" di sopportare l´incondizionato, come avrebbe detto Heidegger. La lingua poetica attrae Lacan per lo stesso motivo.
Non a caso, qualche anno prima di queste lezioni, e precisamente nel 1955, tramite l´amico e paziente Beaufret, Lacan ha incontrato Heidegger. A quanto pare, e la cosa non stupisce, visti i complessi legami di cui Beaufret si fece perno, parlarono di transfert, come quella condizione a priori dell´esperienza analitica, a cui in queste lezioni Lacan torna. E sempre in quell´incontro si decise che Lacan avrebbe tradotto Logos, il commento di Heidegger a un frammento di Eraclito, dove a tema è la ricerca da parte del filosofo tedesco di un modo prefilosofico del pensiero. Il testo di Lacan apparirà nel primo numero de La Psychanalyse, da lui diretto, dedicato per l´appunto alla parola, così come opera nel campo della psicoanalisi.
Il linguaggio - è qui che cerca Lacan l´inizio di ogni cosa. In principio era il verbo, ripete al suo uditorio più volte durante queste lezioni. E´ il linguaggio che lega, ci lega: la creatura umana vi sta immersa come nel liquido amniotico. Un segno noi siamo, scriveva Hölderlin, che nulla indica; e Heidegger commentava: un segno senza interpretazione, nell´ambigua posizione di chi nel proprio cammino è attratto da quel che gli sfugge, gli si sottrae.
E´ questo l´enigma della nostra condizione, riconosce Lacan. C´è chi la sostiene, c´è chi ne patisce più di altri. Ogni patologia umana nasce di lì, più o meno. E se è vero che la psicoanalisi ruota intorno agli affetti rimossi, è anche vero che quegli affetti li coglierà come effetti del significante. Nel linguaggio.
Però, attenzione: per lo più l´affetto si slega dal suo proprio significante, perché è proprio dell´espressione umana l´equivoco carattere di mostrare e insieme di nascondere. Sì che l´intrinseca teatralità della parola andrà di volta in volta velata e rivelata. Interpretata, dunque. Non è lì per questo l´analista?
Ma perché l´interpretazione acchiappi qualcosa, chi ascolta dovrà essere istruito a farsi apparecchio uditivo che non registra quel che ode come fosse nel posto della legge. Per regolarne cioè l´iscrizione entro una classificazione di malattie, in cui risolve la sua maestria come fosse padronanza.
L´analista non è questo, per Lacan. Né uno psicoterapeuta, né un medico. Semmai, un chirurgo. O ancora meglio, in questo seminario si chiarisce che se v´è una figura a cui Lacan si ispira, un´immagine in cui si specchia, è quella di Socrate. Socrate - il sileno ricco di tesori - è la sua controfigura: il maestro senza maestro è lui. E come tutti sappiamo il vanto di Socrate è di non insegnare niente. Lui non ha altro desiderio che la domanda dell´altro.
Lacan parla. A chi? Perché? E´ lì per insegnare come si conduce un´analisi? O c´è dell´altro? Mai come in questo seminario, centrato sul transfert, la domanda sul desiderio campeggia, prendendo la forma di atti e movimenti quali ascoltare, lasciarsi trasformare; lasciare aperta in sé, dentro di sé, la disponibilità perché un altro essere entri, questa la scommessa e il rischio dell´analisi. Una situazione erotica, senz´altro. Che andrà a buon fine se l´analista e il paziente sapranno scambiarsi le posizioni di amante e amato, se il paziente saprà farsi amante, e lo psicoanalista saprà decadere dalla posizione di amato; e soprattutto se accoglierà in sé «una mutazione nell´economia del suo desiderio». Mutation - proprio questa parola usa Lacan. E fedelmente Di Ciaccia traduce "mutazione", trattenendo il senso biologico che Lacan intende. Se di una mutazione biologica si tratta, di essa è soggetto lo psicoanalista: un nuovo tipo d´uomo, capace di un «desiderio più forte». Più forte, viene da chiedere, di quello sessuale?
Ma se esiste un desiderio più forte, essendo Lacan freudiano, non potrà che essere quello di morte; ovvero, un desiderio che abolisce l´analista in quanto desiderante, e lo fa sparire come soggetto. E´ di questa morte - la morte dell´analista - che alla fine Lacan celebra il lutto in pagine meste, e coraggiose. La posizione dell´analista, rivela nell´ultima seduta del 28 giugno 1961, è al cuore della questione del transfert: e se prima l´ha descritta dal punto di vista del desiderio, perché di amore si tratta, ora la guarda da un altro verso e denuncia la «perfetta distruttività» del desiderio più forte, di cui ha dotato lo psicoanalista. Chi si avvinghia al transfert come fosse un potere, chi si arrocca nella posizione di colui che sa come si fa a mettere a posto l´altro, a dargli il suo bene, non ha compiuto il giusto percorso. Se c´è un epilogo, è dell´ordine del suicidio.
Da parte dell´analista.

Repubblica Roma 5.12.08
Giulio Cesare, liceali a lezione da Scalfari
"Il maestro unico? È una controriforma". Il valore della lettura
di Carlo Picozza


Il maestro unico, gli incontri importanti della sua vita, da Italo Calvino a Ugo La Malfa, la continua evoluzione dell´uomo, l´impoverimento del linguaggio, l´insostituibilità della lettura. E l´invito a guardare al futuro fiduciosi, nonostante tutto. Il fondatore di Repubblica, Eugenio Scalfari, ha parlato di società, filosofia e politica raccontando delle sue esperienze di studente a San Remo. Tornando, «con la memoria», allo status dei 300 studenti delle ultime classi che lo hanno ascoltato per due ore nell´aula magna del liceo classico Giulio Cesare, «incuriositi e rapiti», come li hanno visti gli insegnanti Marina Sambiagio e Mario Gaetano Fabrocile.
«Le mie elementari cominciano 77 anni fa», ha raccontato Scalfari, portandosi al di qua della cattedra e parlando in piedi «per poter guardare tutti». «Il grembiulino per i maschietti finiva con l´ingresso al ginnasio, le femminucce lo portavano anche al liceo. C´era il fascismo e tutto era conformato. Avevamo un solo insegnante che ci faceva un po´ da papà». «Quando negli anni Ottanta si ricominciò a parlare di maestro unico», ha continuato, «il nostro giornale era favorevole. Ora no, perché questo ritorno piomberebbe su una scuola completamente cambiata: ci sono ragazzi di etnie, tradizioni e fedi diverse e ci sono i disabili che ai miei tempi restavano chiusi in casa. Si sono fatti grandi passi in avanti, ma la presenza di un portatore di handicap impone un insegnante di sostegno e la convivenza con altre culture richiede risposte multidisciplinari. Anche per questo quella che viene indicata come riforma è in realtà un passo indietro, una controriforma».
Tanto più che per Scalfari, «la cultura generale si comincia a intuire alle elementari per essere acquisita nelle scuole secondarie superiori: il cattivo funzionamento di queste ultime è una concausa del pessimo andamento dell´università». Quindi l´invito a «leggere e rileggere»: «Fino agli anni Settanta le grandi letture formative, da Guerra e pace a Madame Bovary, si facevano dai 16 ai 23 anni. Tra l´adolescenza e la giovinezza si divoravano libri per conoscere e conoscersi. Poi la televisione ha preso il sopravvento. La cultura oggi arriva più per immagini. Ritengo che questo ottunda la memoria, impoverisca il lessico. Restringe il nostro vocabolario e fa perdere il gusto dell´uso della parola come mezzo primario per parlare, leggere, scrivere. Per capire, capirci e farci capire». «Certo, non ci si può accanire contro la rivoluzione che c´è stata nei processi di apprendimento e nei comportamenti. Ma va detto che se l´immagine può colpire le nostre emozioni molto più della parola - perché questa ha bisogno di momenti di riflessione - è difficile che sviluppi lo stesso spirito critico».
«Si può rimediare all´impoverimento del lessico?», ha chiesto Vincenzo De Carolis della III H. «Temo di no», la risposta di Scalfari. «La parola è il mezzo che distingue la nostra specie. Un loro linguaggio lo hanno persino le piante che con il loro movimento dicono qual è il vento che tira. Ma mentre l´animale ha solo istinti a ripetere non evolutivi, l´uomo ha la memoria». Una memoria, però, «insidiata dalla comunicazione per immagini che non stimola alla lettura». Flaminia Fiorentino, anche lei in terza liceo, ha domandato a Scalfari del suo rapporto con Italo Calvino. «Siamo stati compagni di banco per tre anni», ha raccontato l´ex direttore di Repubblica. «Dopo il liceo continuammo a vederci anche se lui era a Torino e io a Roma. Ci frequentammo, ora più ora meno, dal 1938 all´8 settembre del ´43. Poi riallacciammo i contatti nel '45 attraverso le lettere. Nel 1984, tre anni prima della sua scomparsa, chiesi a Calvino di collaborare con Repubblica. Una sera venne a cena. "Italo", gli chiesi, "non ho più riletto le tue lettere che conservo in un pacchetto, vogliamo farlo ora?" "Per carità", mi rispose, "Non siamo più quelli". Aveva ragione. Come scrisse Montaigne, si muovono persino le piramidi, come pensare che noi non cambiamo momento per momento?».

Unità on line 5.12.08 ore 23
Bocciati emendamenti editoria. Fnsi: "Operazione disastrosa"


La Commissione Bilancio del Senato ha azzerato tutti gli emendamenti (bipartisan) per ripristinare i fondi dell’Editoria. Dopo tante promesse da parte del sottosegretario Bonaiuti, siamo al punto di partenza: in Finanziaria è di nuovo previsto un taglio indiscriminato ai fondi destinato ai giornali, un vero nodo scorsoio al collo della libera informazione: non si sa chi prenderà i soldi, quanto, quando. O meglio: li prenderà chi sarà scelto dal Principe. E non vale solo per i giornali. Sono saltati anche gli emendamenti destinati a ripristinare il Fondo unico per lo spettacolo.
Per il senatore del Pd Vincenzo Vita è la conferma che «governo e maggioranza sono contro la libertà d'informazione e la cultura. Del resto è il governo dell'Isola dei Famosi. Il centrodestra in commissione Bilancio ha infatti bocciato sistematicamente tutti gli emendamenti, le tabelle dei beni culturali e - con le firme anche di diversi esponenti della maggioranza - quelli tesi a ripristinare le risorse per l'editoria. E così nelle prossime settimane chiuderanno numerosi quotidiani e tante attività musicali, teatrali, dell'audiovisivo. C'è da chiedersi cosa andranno a raccontare Bondi e Bonaiuti ai tanti operatori delle attività interessate».
Severissima la Federazione della Stampa: che definisce la bocciatura una “operazione disastrosa”.«È urgentissimo che, prima del passaggio per il voto in aula – è scritto in una nota della Fnsi - il Governo tenga fede agli impegni e presenti in aula una manovra correttiva. Ove ciò non accadesse l'esecutivo e la maggioranza diventerebbero responsabili della chiusura di diversi giornali
e di un aggravamento degli stati di crisi nel settore».
Eppure (lo ricorda anche la Fnsi), gli emendamenti al voto oggi in Commissione Bilancio erano il frutto di intese tra maggioranza e minoranza parlamentare, per consentire risparmi progressivi e consistenti, ma anche per garantire che quella parte dell’editoria più tutelata dalla nostra Costituzione – l’editoria no-profit, quella in cooperativa, quella di idee e di partito – non venisse soffocata. Ecco perché oggi appare tanto più «incomprensibile la scelta di bocciare emendamenti frutto di un lavoro condiviso da tutte le forze politiche, impegnati ad evitare chiusure di giornali e
licenziamenti di massa. Una cosa è fare una ricognizione e riqualificare la spesa nel settore – continua la Fnsi - , altra cosa è cancellarla. È di tutta evidenza che a nulla servirebbe riordinare gli interventi se, nel frattempo, si sarà fatto il deserto delle voci del pluralismo e se sarà stata già messa in ginocchio anche l'editoria industriale».
Mediacoop, che rappresenta i giornali in cooperativa, aveva persino considerato «impresentabile» il nuovo testo del regolamento dell'editoria presentato dal sottosegretario Paolo Bonaiuti alle Commissioni parlamentari, perché «non corrisponde alle esigenze di rigore ed esclude i giornali di partito dalla nuova normativa ripristinando, per loro, l'erogazione dei contributi in base alle copie tirate e non a quelle diffuse. Sopprime il tetto del 30% della pubblicità come condizione di accesso al sostegno pubblico, che costituiva la motivazione principale per la sua erogazione».
Secondo Mediacoop il regolamento «invece di semplificare il processo ed i criteri per la definizione dei contributi, rende ancor più ingiusta, distorta e farraginosa la normativa». «Lo scenario di Farheneit 451 - è invece la conclusione di Vita - nel quale la società non aveva più bisogno di libri e sapere, peccava per ottimismo. Per quanto ci riguarda continueremo la battaglia in aula a partire da martedì prossimo».

giovedì 4 dicembre 2008

l’Unità 4.12.08
Berlusconi, stretta su Internet. Protesta del popolo web
di Natalia Lombardo


Il premier metterà le mani sul web con una proposta di «regolamentazione» da portare al G8. E sulla pay tv attacca: «Figuraccia enorme» di gionali e Pd. Gentiloni: «L’Iva al 20% voluta da Tremonti e non dalla Ue».
Sarà perché vuole passare alla storia in qualche modo, sarà perché non sa concepire la democrazia orizzontale della Rete, sarà per interessi societari, ma ieri il presidente del Consiglio ha annunciato la regolamentazione di Internet per via governativa. Globale, approfittando della presidenza italiana del G8. Il popolo del web oggi si oscura per protesta, perché ogni tentativo di regolarlo lo ha soffocato.
Entusiasta come un bambino, dopo aver fatto il giro nel polo tecnologico di Poste Italiane all’Eur («avete risollevato un pachiderma burocratico, una palla al piede dello Stato», ha detto ai vertici, ricambiato da sperticate lodi del presidente Ialongo), Berlusconi ha annunciato di voler mettere le mani sul web: «Su internet manca una regolamentazione internazionale uniforme», e siccome data l’età «purtroppo per la terza volta sarò presidente del G8, e poi con l’Inghilterra del G20», porteremo sul tavolo del G8 una proposta di regolamentazione di internet per tutto il mondo, visto che internet è un forum aperto al mondo». L’Italia, magari con Poste, nell’onnipotenza di Silvio può «portarci come avanguardia di queste nuove tecnologie» per le quali chiede «trasparenza internazionale» dato che «sono il futuro del mondo». Sono il presente, ma il premier non se n’è accorto: lo scorso marzo, prima del voto, ammise di essere «un anziano signore che scrive a penna» e non conosce un’acca di Internet.
L’ex ministro delle Comunicazioni, Paolo Gentiloni, parlando con l’Unità, spiega che nei vari dibattiti internazionali è stata ritenuta «sconveniente e dannosa una regolamentazione statale» della Rete, proposta come forma di controllo «da paesi non democratici, mentre quelli democratici hanno preferito lasciate la gestione leggera e semiprivatistica» ma più libera, del web. Filtri e censure sono già in vigore in Cina, Iran, Cuba e Arabia Saudita. «Spero non sia un suggerimento del premier russo Putin...», butta là Gentiloni.
E non si placa la polemica sul raddoppio dell’Iva per Sky (che dallo schermo invita a spedire mail di protesta a: portavoce tesoro.it). Berlusconi furioso ripete di «non essere stato al corrente» e attacca ancora sinistra e giornali: «Faranno una figuraccia enorme» ma «gli italiani daranno un giudizio definitivo». Il governo coglie al volo le dichiarazioni di Bruxelles: «Il caso è chiuso» con il riallineamento dell’Iva. Ad aprile la Ue suggerì di pareggiare l’Iva nel settore tv al 10%. Tutto nasce da un esposto di Mediaset in Europa contro la differenza (le carte prepagate hanno il 20%), ma, spiega ancora Gentiloni, «non c’era e non c’è una procedura d’infrazione dalla Ue sulle tv satellitari», ma solo «un carteggio tra gli uffici di Bruxelles e il ministero delle Finanze con richieste di chiarimento». Nessuna imposizione sul raddoppio dell’Iva per Sky: «L’ha fatto Tremonti per decreto. Berlusconi non si nasconda dietro il dito di Bruxelles: è in palese conflitto d’interessi». Messo su carta da Giannelli nella vignetta del Silvio Babbo Natale che porta il regalo di Tremonti a Mediaset: satira che ha fatto imbufalire il cavaliere, sbottato con l’editto albanese contro il «Corriere».

l’Unità 4.12.08
Rodotà: «No a leggi restrittive, sì a regole dal basso»
L’ex Garante della Privacy è impegnato per una “carta dei diritti” della Rete: «Ma si devono garantire le libertà, non limitarle»
intervista di Federica Fantozzi


Della dichiarazione di intenti fatta dal premier Berlusconi Stefano Rodotà non è al corrente: si trova in India proprio per partecipare all’”Internet Governance Forum” promosso nell’ambito delle Nazioni Unite. L’ex Garante della Privacy, giurista e docente universitario, è uno dei “padri” della proposta di dotare la Rete di una “carta dei diritti” a garanzia della stessa comunità internettiana. Nel 2006 l’iniziativa è stata presentata al Parlamento Europeo con la partecipazione del ministro della Cultura brasiliano Gilberto Gil.
Professore, il tema di regolamentare Internet esiste?
«Esiste da anni il tema di una Costituzione per Internet. Una sorta di bill of rights, come lanciato nel 2005 dalla Conferenza di Tunisi. Ma lo spirito deve essere quello di garantire le libertà fondamentali e non di introdurre forme di controllo».
Non sembra la stessa forma mentale che anima il premier.
«Infatti si tratta di due visioni profondamente diverse. Noi discutiamo da tempo per rafforzare le “coalizioni dinamiche” che si creano in modo spontaneo in Rete a garanzia di tutti e perché il bill of rights passi attraverso una discussione della comunità internettiana».
Quindi, le regole devono provenire dal basso?
«Esattamente. Anche se io non parlerei di regole che fanno pensare all’”ingabbiare”. Due sono i punti fermi. Il primo è che si deve intervenire non per restringere bensì per garantire le libertà. Il secondo è di non imporre regole dall’alto ma conformemente alla natura della Rete attraverso un processo aperto e condiviso».
E una legge del Parlamento servirebbe allo scopo?
«Ora non ci sono le condizioni. Oggi vedo molti tentativi di ridurre le libertà online per motivi economici, commerciali, di sicurezza...»
O, come in Cina, per motivi repressivi.
«Infatti. Ed è tanto più necessario tutelare la libertà di espressione. La dichiarazione dei cyber-diritti deve rafforzarsi con un processo a partecipazione allargata».
Quale deve essere dunque l’impostazione corretta per stabilizzare il mondo virtuale?
«Ritengo che la via corretta sia quella che stiamo seguendo. Un’impostazione che pensi Internet come un luogo pericoloso sarebbe da un lato un errore e dall’altro provocherebbe fortissime reazioni del popolo di Internet».
Ci sono già. Siti autoscurati, blog in fibrillazione.
«Nel momento in cui c’è un movimento che si va consolidando e sta acquistando riconoscibilità da parte dell’Onu e della Ue, non dobbiamo andare in direzione opposta. È importantissimo convincere la comunità di Internet che servono regole positive».
A cosa porterebbe una legislazione globale sulla Rete?
«La dimensione in cui ci muoviamo è uno spazio globale dove la legislazione nazionale non basta. L’attitudine tipica di tutti i regimi autoritari è frenare le manifestazioni di libertà su Internet. Da Pechino a Singapore, gli stati che cercano di mettere le mani su Internet lo fanno perché offre al dissenso possibilità inedite. Non dimentichiamo che dalla Birmania, nei giorni della repressione, filtravano online notizie superando la rigida censura. Andare in senso opposto sarebbe assolutamente inaccettabile».
L’Italia non è la Cina. Quali sono i rischi di regolamentare Internet per un paese democratico?
«Certo che non lo è. Ma proprio perché l’Italia è in primissima linea nel rafforzare le garanzie per chi naviga, dico che va benissimo se il governo vuole unirsi a questo fronte. Andare in senso opposto invece sarebbe assolutamente inaccettabile».

l’Unità 4.12.08
Vita da rom, tra elemosina e ipocrisia
di Dijana Pavlovic


La corte di Cassazione ha annullato la condanna a ben sei anni per sfruttamento di minori inflitta a una donna rom che chiedeva l’elemosina insieme al suo bambino. La Corte invita a considerare le situazioni di fatto e a valutare i comportamenti legati a tradizioni consolidate, per quanto riguarda i rom quella del mangel (l’elemosina), e indica un tempo limitato nel quale esercitarla purché il tempo residuo sia dedicato alla cura dei figli.
Le reazioni della politica sono state di scandalo a destra e di invocazione della priorità della tutela del minore a sinistra. Ma nessuno segue le indicazioni della Corte, nessuno guarda alla realtà concreta per poter giudicare e così non cade il velo di ipocrisia che circonda questo argomento. Vi racconto allora una storia, una delle tante che si possono trovare nei campi della segregazione rom e che forse aiuta a capire.
Flora, una mia amica, dopo innumerevoli sgomberi è finita sotto un cavalcavia nel fango, in mezzo ai topi e ai blocchi di cemento che il comune di Milano ha costruito per impedire loro di stabilirsi lì. Nonostante la situazione disperata, Flora sistema questo posto, mette tappeti per terra, pulisce davanti alla piccola tenda, separa la “cucina” con le bombole a gas dal posto dove si dorme, e soprattutto, tutti i giorni attraversa la città per portare quattro figli a scuola. Poi va a chiedere l’elemosina con il figlio più piccolo che non è in età scolare e non può lasciare sotto il ponte. Qualche ora, per potersi comprare qualcosa da mangiare per pranzo e cena, e poi a prendere i figli a scuola e di nuovo sotto il ponte a cucinare.
Flora è una di quelle terribili sfruttatrici di bambini che le persone per bene incontrano nelle strade. Certo i bambini devono essere tutelati, protetti scolarizzati e coccolati, non devono stare per strada a elemosinare. Le persone per bene dicono “poveri bambini” quando li vedono in metropolitana, poi escono e non ci pensano più: ma perché sono lì veramente, dove dormono, hanno da mangiare? Basta che non li si veda, che non ci ricordino di esistere. Per Flora vale una regola semplice: un bambino che non mangia è un bambino morto, un bambino che va con lei a chiedere l’elemosina è un bambino sfortunato ma vivo e con una minima possibilità di andare a scuola e di avere un futuro, magari migliore del suo. È per quello che lei vive.
Flora aveva un lavoro, accudiva una signora anziana, ovviamente in nero. Dopo l’omicidio Reggiani è stata licenziata perché rom rumena. Mi permetto una domanda banale: i diritti dei bambini non si proteggono tutelando anche i diritti dei lori genitori? E ancora: chi protegge queste persone dal pregiudizio e dal razzismo che distruggono la loro vita?
dijana.pavlovic@fastwebnet.it

l’Unità 4.12.08
Tre riforme da difendere, anzi ampliare
Basaglia, aborto e servizio sanitario
di Livia Turco


L’anno che si chiude, questo difficile 2008, porta via con sé tre compleanni importanti. I trent’anni di tre leggi che hanno cambiato la vita delle persone e del nostro Paese. Il 10 maggio 1978 veniva approvata la legge 180 che prevede la chiusura dei manicomi e la presa in carico da parte dei servizi pubblici e della comunità delle persone con disturbi psichici a partire dal riconoscimento della loro dignità. Il 18 maggio 1978 la legge 194 che tutela la maternità, previene e regolamenta l’aborto. Il 23 dicembre 1978 la legge 833 istitutiva del servizio sanitario nazionale. Passare dall’aborto clandestino e dalle mammane alle strutture ospedaliere e al consultorio; dal carcere per chi abortiva alla libertà di scelta verso la propria sessualità; dalla contenzione e dagli elettroshock alla comunità che si prende cura; dalle mutue e dal medico condotto al medico di famiglia e all’ospedale per tutti e alla prevenzione della malattia, realizzare questo passaggio è stato un cambio di civiltà. Dobbiamo esserne consapevoli ed avere anche l’orgoglio di queste conquiste per preservarle e migliorarle. Riforme che hanno fatto bene al Paese perché lo hanno reso più moderno, più solidale, più umano. Riforme frutto di grandi battaglie sociali. Riforme del dialogo tra le grandi forze politiche popolari come la Dc, il Pci, il Psi. Dell’impegno di grandi donne come Tina Anselmi e Giglia Tedesco. Dell’iniziativa dei Radicali. Tre riforme, tutte nel 1978. Nell’anno del brutale attacco terroristico, dell’uccisione di Aldo Moro e del Governo di Solidarietà Nazionale. Riforme che sono state possibili grazie ad un Parlamento autorevole, che ascoltava e che era ascoltato. Ad una forma della democrazia basata sulla centralità del Parlamento, sul dialogo tra le forze politiche e sul rapporto tra partecipazione sociale ed istituzioni. Tali riforme, inoltre, sono portatrici di un inedito universalismo solidale, capace di riconoscere e tutelare la dignità della persona. I dati e i fatti confermano il successo delle tre riforme. La nostra sanità, che va migliorata, è leader in Europa e nel mondo. Si è dimezzato il ricorso all’aborto. Molte persone hanno dimenticato i manicomi e si sono anche inseriti nel lavoro. Oggi l’universalismo solidale e la società che si prende cura si trovano di fronte alle sfide di un mondo globale e diseguale. Oggi c’è ancora più bisogno di equità, perché la povertà genera la malattia e la morte precoce; di solidarietà per combattere la solitudine e l’abbandono delle persone fragili e malate e delle loro famiglie; di competenza femminile per rendere più umana la nostra vita. Oggi c’è ancora più bisogno di istituzioni forti ed efficaci, di partiti capaci di promuovere il “noi”. Di una politica solidale per una società solidale. Discuteremo di ciò nel Convegno “Le riforme della speranza” domani a Roma (cinema Capranica).

l’Unità 4.12.08
Zygmunt e Irena Bauman
La città del futuro secondo il sociologo e l’architetta
di Paola Natalicchio


Erano gli ospiti di punta della giornata d’apertura di Urbs ’08, la rassegna internazionale sulle trasformazioni urbane che si conclude oggi a Roma. Bauman e la figlia Irena, rimasti bloccati in Inghilterra, hanno parlato con noi.
Il sociologo Zygmunt Bauman e sua figlia Irena, uno dei più affermati architetti inglesi hanno accettato di parlare con l’Unità via telefono, per un saggio di quale sarebbe stato il loro duetto previsto ieri a Roma.
«Marx diceva che le persone fanno la storia a partire da condizioni non scelte da loro - esordisce Zygmunt -. Anche gli architetti fanno le città senza aver scelto le condizioni di partenza. Sono consapevole, quindi, che questi fronteggiano questioni di ordine globale. E quindi si muovono entro dei limiti. Da sociologo penso che gli architetti abbiano un impatto enorme. Che ne siano coscienti o meno. Ogni loro intervento fa la differenza. Il loro ruolo è quindi importantissimo e molto delicato». «Gli architetti hanno la responsabilità di cucire le separazioni causate dalla velocità dei cambiamenti - prosegue Irena -. Il nostro ruolo è pensare il fututo e una società sostenibile. Abbiamo anche un ruolo chiave nell’influenzare la classe politica. Ma possiamo svolgerlo in modo efficace solo se agiamo uniti e abbandoniamo alcune nostre pessime abitudini».
CITTÀ GLOBALI
Chiediamo a entrambi se la missione dell’architettura possa essere oggi quella di governare le differenze che si incontrano nelle città globali Risponde Zygmunt: «La globalizzazione delle città ha due aspetti. Quello negativo è che sono spesso abitate dalla paura. Pensiamo alla paura degli immigrati, che vengono presentati come un fenomeno nuovo anche se nuovo non è. Il lato positivo è che le città globali sono dei grandi laboratori dove si sperimentano nuovi stili di vita. Da qui due atteggiamenti: la mixofobia, la paura di mescolarsi con la diversità, e la mixofilia, che è la capacità di godere delle differenze. Gli architetti dovrebbero promuovere progetti in grado di alimentare la mixofilia».
Risponde Irena: «Gli architetti sono dei pensatori strategici, capaci di analizzare problemi complessi e trovare soluzioni di mediazione. Disegnamo l’ambiente che costituirà il palcoscenico per l’interazione in luoghi che saranno qui molto più a lungo di ciascuno di noi. Dobbiamo avere le capacità e le responsabilità di comprendere il contesto che ci circonda e, per quello che è possibile, prevedere i bisogni futuri».
Ma cosa significa ripensare le città per un sociologo e per un architetto? «Significa mettere a punto strumenti in grado di mitigare la paura e scommettere sull’interazione con la diversità - risponde il sociologo -. Ad esempio eliminando tutte le separazioni spaziali con le comunità straniere. Tutti i ghetti, volontari e involontari. Mi riferisco a quelle zone urbane in cui i benpensanti non entrerebbero mai e da cui, chi ci vive, non fa altro che tentare di uscire, emanciparsi». «Noi progettiamo e modelliamo le nostre città - risponde l’architetta - e quindi possiamo dare un contributo fondamentale per mettere insieme le divisioni tra tutti coloro i quali si sentono esclusi dalla società. Non si sentono al servizio di una società sostenibile che potrebbe favorire una felice coabitazione delle differenze. Eppure noi facciamo una scelta etica ogni volta che accettiamo le richieste di un cliente. Saremo in grado di affrontare tutte queste sfide solo quando avremo imparato prima comprendere i problemi sociali e quando saremo pronti a lavorare solo su quei progetti in grado di dare un contributo positivo alla società».

l’Unità Roma 4.12.08
All’Argentina una giornata di discussione sulle prospettive delle attività culturali
Regione ed enti locali d’accordo nella richiesta di ripristinare i fondi alla cultura
Gli operatori dello spettacolo dal vivo s’incontrano. I centri sociali irrompono


Eccellenze, poche, e criticità sono state al centro di un incontro pubblico organizzato dalla regione Lazio sulla crisi dello spettacolo dopo i tagli ai finanzianti fatti dal governo. Sono intervenuti operatori, assessori e pochi artisti.
Paradossalmente l’incontro pubblico di ieri “Lo spettacolo deve continuare” è iniziato con un’interruzione: un gruppo dei ragazzi dello Horus ha fatto irruzione al Teatro Argentina dove si svolgevano i lavori, chiedendo che i locali del centro sociale recentemente sgomberato gli venissero restituiti. E come per magia, forse vista l’occasione, gli assessori alla Cultura della regione Lazio, che organizzava l’incontro, Giulia Rodano, della Provincia di Roma Cecilia D’Elia e perfino Umberto Croppi del comune, che lo sgombero aveva promosso, si sono detti d’accordo nel aprire al più presto un tavolo sulla questione dello Horus. L’episodio è senz’altro uno dei segnali della confusione e insofferenza che attraversa l’universo delle politiche e delle attività culturali e dello spettacolo, di cui l’incontro modo voleva essere il catalizzatore. Appena vinte le elezioni il governo Berlusconi, con il ministro dell’Economia Giulio Tremonti, ha presentato un documento di programmazione che nel giro di due anni taglia i finanziamenti statali alle attività culturali del 40%. Una vera mazzata ma, tanto per non farsi mancare nulla, nella legge finanziaria per il 2009 recentemente presentata lo spettacolo non è considerato tra i settori in crisi, ergo nessun aiuto o ammortizzatore sociale. D’Elia e Rodano, per provincia e regione, hanno garantito per il futuro il loro impegno finanziario, che Piero Marrazzo, attraverso un messaggio, ha voluto ribadire è un investimento e non una spesa. Anche Croppi a nome del comune ha preso le distanze dalla politica di disimpegno dalla cultura del governo nazionale, e questo è notevole. Si sono poi succeduti interventi di operatori del settore che hanno voluto puntualizzare le criticità che attraversa il settore, e Gianni Borgna ha lanciato la proposta di una vertenza nazionale, che coinvolga l’intero settore: una protesta “dura” ha sottolineato il presidente di Musica per Roma, che porti il governo a considerare la cultura una risorsa. Tra assessori ed ex assessori, ben 5, operatori, si sono succeduti una trentina di interventi, e vuoi un attore come Pino Quartullo, vuoi una regista cone Roberta Nicolai oppure una danzatrice come la giovane Giovanna Velardi hanno parlato solo in rappresentanza di istituzioni. Ma non come artisti e questo è certo singolare, se davvero lo spettacolo è una risorsa.

Repubblica 4.12.08
Addio a Via del comunismo
di Leonardo Coen


Trentaquattro anni dopo aver decretato l´espulsione dello scrittore dissidente il Cremlino ci ha ripensato Il Parlamento ha dovuto varare una legge speciale per poter intitolare la strada nel centro di Mosca

Quella strada era stata battezzata durante la Rivoluzione d´ottobre
Medvedev aveva disposto che la memoria del dissidente fosse onorata così

MOSCA Benvenuti in ulitsa Aleksandra Solgenytsina, la "nuovissima" via moscovita dedicata al grande scrittore dissidente, premio Nobel della letteratura per l´anno 1970, l´autore di «Arcipelago Gulag» stroncato da un infarto all´età di 89 anni lo scorso 4 agosto. Si chiama così da meno di ventiquattro ore: un omaggio denso di simboli e di "richiami" storici. Perché si tratta di una delle vie tra le più vecchie della città, una di quelle sopravvissute alla furia devastante delle pianificazioni urbanistiche sovietiche. Ha mantenuto intatto il fascino dell´architettura russa a cavallo tra la fine del Settecento e l´inizio del Novecento: unico compromesso con il regime, dover sopportare per quasi novant´anni il roboante quanto simbolico nome di Bolshaja Kommunisticeskaj, come vollero comunque battezzarla nel 1919 i bolscevichi. Il Grande Viale del Comunismo. L´indirizzo doveva risuonare quale imperituro slogan del regime che si era appena sbarazzato dello zar Nicola II e che proclamava una «rivoluzione permanente», come la prevedeva Trotskij.
Non è stata casuale, la scelta della Duma di Mosca, il consiglio municipale: quasi volesse saldare un debito morale mai scontato, assegnando a colui che aveva raccontato gli orrori del gulag e i soprusi del regime comunista lo stesso posto nello stradario emblematico che i dirigenti dell´Unione Sovietica avevano assegnato alla loro ideologia. Solgenytsin fu privato nel 1974 della cittadinanza sovietica, ed espulso dall´Urss.
Trentaquattro anni dopo, lo stesso Cremlino adotta un decreto presidenziale per cambiare in fretta e furia la legge che prevedeva un periodo di almeno dieci anni dalla morte per assegnare alla memoria di una personalità insigne una piazza o una via. Con procedura prioritaria, in appena 120 giorni, deroghe, regolamenti e codici hanno avuto le modifiche indispensabili grazie alla sollecitudine di Dmitri Medvedev, e ieri mattina gli operai del comune hanno cominciato a svitare le vecchie targhe, sostituendole con quelle nuove.
Non è difficile trovarla, la suggestiva ulitsa Aleksandra Solgenytsina. Si trova nel distretto sud-est del centro storico: una strada lunga poco più di due chilometri, con un centinaio di case, parecchi uffici e sedi di rappresentanza commerciali. Tutte costruzioni di uno o due piani, la maggior parte risalgono al periodo compreso tra la seconda metà dell´Ottocento e il primo Novecento. C´è pure un ospedale; purtroppo, ci sono anche cinque palazzine che risalgono all´epoca del disgelo kruscioviano, e che restano unico segno tangibile del Comunismo Costruttore. Si può cominciare a percorrerla dalla famosa piazza Taganskaja: dove peraltro si trova la Biblioteca dell´Emigrazione Russa, un´istituzione legata a Solgenytsin perché lo scrittore le lasciò un importante lascito, donandole libri e documenti. La via si snoda in quello che un tempo fu un borgo di artigiani specializzati nella fusione di tagan, cioè di caldaie di rame che servivano per le cucine da campo nelle missioni militari. Spesso, negli ultimi anni della sua lunga e tormentata vita, lo scrittore - condannando la decadenza russa contemporanea - sosteneva che l´unico cammino da imboccare era quello del ritorno ai valori patriottici della tradizione russa, alla semplicità della società rurale, alla laboriosità degli artigiani, alla religione ortodossa.
E guarda caso, l´antico nome di questa strada era Bolshaja Alekseevskaja, in memoria del metropolitia Aleksej cui era stato dedicato un tempio ortodosso. L´antica targhetta è conservata sul portone di un´altra chiesa, quella di san Martino Confessore, dove i parroci sfidavano le autorità comuniste ogni volta che veniva loro chiesto dove lavoravano: «Nel tempio di Bolshaja Aleksevskaja». La Taganka era ed è ancora una zona di monasteri e di chiese: moltissime vennero distrutte negli anni dell´ateismo militante sovietico, e questo ricordo addolorava il bigotto Solgenytsin. Ma negli anni Sessanta la Taganka era diventata pure una zona di «resistenza culturale»: che aveva i suoi centri ribelli nell´omonimo teatro drammatico fondato e diretto da Jurij Ljubimov, leggendario direttore artistico e capo regista. Qui si era meno ubbidienti al «realismo socialista», dottrina obbligatoria per tutte le istituzioni culturali. Il teatro Taganka fu il germoglio del libero pensiero che pigliava forma e materia sul palcoscenico e divenne ben radicato negli anni Settanta e Ottanta, quando l´intellighentsija russa si dava appuntamento alle prime. Indimenticabile quella dell´Amleto interpretato da Vladimir Vyssotskij, finissimo attore (marito di Marina Vlady: il loro matrimonio fu una sfida al regime), poeta e cantautore amatissimo da tutte le generazioni.
Il giorno dei suoi funerali, il 5 agosto del 1980, lungo questa via sfilò la Mosca del dissenso, e le autorità non ebbero il coraggio di reprimere quella che era diventata una grande manifestazione "contro".

Repubblica 4.12.08
Dialogo alla Luiss tra Eugenio Scalfari e il cardinale Achille Silvestrini
Gesù, il ribelle che cambia il mondo
Il fondatore di "Repubblica" racconta il suo grande interesse per una figura che con l´insegnamento evangelico è stata capace di difendere gli ultimi
di Orazio La Rocca


ROMA È un «terreno comune» su cui credenti e non credenti, laici e cattolici, «possono incontrarsi, dialogare» persino «collaborare»: è la predicazione evangelica di Gesù di Nazareth, il Figlio dell´Uomo che condanna le ingiustizie, difende gli ultimi, dà speranza agli oppressi. L´affermazione arriva dal fondatore di Repubblica, Eugenio Scalfari, ospite ieri sera dell´università Luiss «Guido Carli». Scalfari - in un´aula magna gremita di studenti - confessa di essere da sempre «profondamente colpito e innamorato della figura di Gesù e delle sue predicazioni evangeliche, pur non credendo nell´Assoluto». Parole apprezzate, in modo particolare, da un interlocutore molto interessato, invitato anche lui al workshop della Luiss, Achille Silvestrini, prefetto emerito della Congregazione delle Chiese Orientali, che fu, tra l´altro, stretto collaboratore del padre dell´Ostpolitik vaticana, il cardinale Agostino Casaroli.
Entrambi - Scalfari e Silvestrini - raccontano le varie fasi storiche che a loro parere hanno caratterizzato i più significativi «cambiamenti» del secolo scorso, partendo da posizioni ed esperienze diverse («Io e l´amico Eugenio abbiamo vissuto due vite parallele, ma ci siamo sempre rispettati», osserva il cardinale). Ma è Scalfari che prende quasi in contropiede il porporato confessando il suo «amore» per Gesù, visto «non come il Cristo figlio di Dio», ma come figura umana capace col suo insegnamento evangelico di contribuire al cambiamento della società anche dopo duemila anni.
Il confronto - coordinato dal rettore della Luiss Massimo Egidi - parte con l´intervento di Silvestrini che traccia le più significative tappe che hanno caratterizzato «le svolte ed i cambiamenti» degli ultimi cento anni. Il porporato inizia col ricordo del regime fascista, «autoritario e privo di libertà», al quale seguirono «gli anni della guerra, dei bombardamenti, della distruzione e della Resistenza». Anni «duri e terribili», ai quali fece seguito un nuovo cambiamento con «la nascita della Repubblica, della Costituente e l´avvento delle prime elezioni democratiche». Ma sinonimo di mutamento per il cardinale furono anche «le tensioni tra Est e Ovest per la Guerra Fredda» e le grandi attese legate alla rivoluzione giovanile del Sessantotto, «che ben presto si sarebbe rivelata solo utopia, piena di illusioni, dalle quali sarebbero scaturite anche violenza e terrorismo». Non dimentica, il cardinale Silvestrini, di sottolineare «i cambiamenti avvenuti nel mondo cattolico a partire da papa Giovanni XXIII», un papa illuminato che «col Concilio Vaticano II ha trasformato la Chiesa aprendola alla società e al mondo contemporaneo». Tra i documenti ecclesiali che hanno contribuito al cambiamento, il porporato cita le encicliche Pacem in terris di Giovanni XXIII e la Populorum progressio di Paolo VI.
L´analisi dei mutamenti storici fatta da Scalfari ha, invece, come chiave di lettura costante «il concetto di bene comune» che caratterizza le varie opzioni politiche e sociali emerse «a partire dai moti socialisti della fine dell´Ottocento, passando per il ventennio fascista, fino ai giorni nostri». Sul Sessantotto, Scalfari traccia un giudizio diverso: «Fu un movimento internazionale di cambiamento sollecitato da opzioni a favore della pace, della liberazione sessuale, del movimento femminista. Peccato - aggiunge il fondatore di Repubblica - che non ebbe un seguito all´altezza delle premesse, perché alcuni dei contestatori scelsero la violenza, altri oggi hanno fatto scelte opposte e alcuni di essi dirigono giornali e televisioni, e si spingono persino a rimproverare le giuste rimostranze degli studenti, ieri della Pantera e oggi dell´Onda».
Scalfari termina citando, in maniera ammirata, l´ultimo libro del cardinale Carlo Maria Martini, Conversazioni notturne a Gerusalemme. «L´ho letto tre volte - confessa - e ogni volta vi ho trovato qualche cosa di interessante. Come ad esempio, quella frase del capitolo introduttivo in cui Martini ricorda che i giovani lottano uniti contro le ingiustizie e vogliono imparare l´amore. È una sottolineatura che unisce credenti e non credenti, in quella grande visione che è il bene comune a cui ogni persona di buon senso non può non aspirare».

il Riformista 4.12.08
Il ruolo dell'urss nella creazione dello stato ebraico
Senza Stalin Israele non esisterebbe
di Enrico Mentana


A volte il lavoro di un giornalista, e perfino quello di un giornalista televisivo, riesce a colmare anche le lacune degli storici
Rimozioni. Fino al 1989 nessuno aveva interesse a ricordarlo, ma il dittatore fu cruciale per la nascita della nazione. Lo spiega il libro di un giornalista russo.

A volte il lavoro di un giornalista, e perfino quello di un giornalista televisivo, riesce a colmare anche le lacune degli storici. È il caso di questo libro e del ruolo decisivo giocato dall'Urss di Stalin nel parto dello Stato ebraico. Nel gioco delle parti che ha caratterizzato i due campi politici e strategici fino al collasso del regime sovietico, nessuno aveva più interesse a ricordarlo, né Washington, che si era sempre più legata ad Israele, né Mosca, diventata il punto di riferimento di gran parte dei paesi arabi.
Nella vulgata storica il "sì" sovietico al nuovo stato passava per una stranezza o un calcolo machiavellico, mentre solo vaga traccia c'era degli imbarazzi americani e dell'opposizione britannica, e nessun accenno agli interessi petroliferi che li avevano originati. Quando poi, a scoppio ritardato, ha cominciato ad affermarsi la coscienza dell'orrore dei campi di sterminio, la traccia di tutti i maneggi diplomatici si è come cancellata. La gran parte dei nostri contemporanei crede che Israele sia nata sulla scia dell'emozione per la scoperta dell'Olocausto: ma così non è stato. Né per l'Occidente, che stava riposizionando ex nemici ed ex alleati, né per il Cremlino, dove l'unico che decideva non era certo tipo da impressionarsi per gli stermini altrui. Il fatto che Auschwitz sia stato scoperto e liberato dai soldati a cavallo dell'Armata Rossa ci rimane ormai solo dalla testimonianza indelebile di Primo Levi. Nessuna propaganda lo ha mai più enfatizzato: una rimozione eloquente.
Questo libro di Leonid Mlecin - che è uno dei giornalisti di maggiore prestigio della televisione russa, conduttore di talk show e storico appassionato - riscrive una storia fattualmente inoppugnabile, ancor di più dopo l'apertura degli archivi sovietici, ma che evidentemente a troppi altri pesava rimettere insieme, citazione dopo citazione, pagina dopo pagina. Non ci fosse stata l'Urss di Stalin - proprio lui, Koba il Terribile - la nazione israeliana non sarebbe mai nata. È una semplificazione, certo: ma chi può metterla in discussione? I materiali che Mlecin cita nel suo libro confermano questo ruolo dell'Urss stalinista, e anche il progressivo allentamento del rapporto tra Tel Aviv e Mosca, avvelenato dalla questione degli ebrei russi e del loro diritto di "tornare" dove tutto cominciò.
Questo tema è l'alfa e l'omega della vicenda dei sionisti di Russia, e si è sempre intrecciato con la storia di quel paese, in misura decisiva per le sue sorti, e in coincidenza con tornanti importanti della vicenda europea. Nel 1881, l'anno in cui i rivoluzionari di Narodnaja Volja uccisero lo zar Alessandro II, in Palestina vivevano solo venticinquemila ebrei. Prima della fine del secolo erano già il doppio, con l'arrivo degli ebrei russi in fuga dai pogrom scatenati in tutta la «zona di residenza» come reazione popolare all'attentato, del quale peraltro gli ebrei non portavano alcuna responsabilità. È quello che viene considerato l'evento scatenante del sionismo organizzato, anche se dei quasi tre milioni di ebrei che lasciano l'Europa Orientale tra il 1881 e lo scoppio della Prima guerra mondiale, solo l'un per cento sceglie la Palestina: ma sarà una scelta fondativa. Molta parte dei pionieri che faranno la storia dello Stato ebraico (e che sono tra i protagonisti del racconto di Mlecin) sono figli di quest'esodo, la prima aliah di Eretz Israel.
Non sempre la storia ripete le sue tragedie in forma di farsa; ma certo ha la sua ironia. Così, oltre un secolo dopo, l'altra grande cesura della storia russa, il crollo dell'Unione Sovietica, ha aperto la strada all'ultima aliah, dalle proporzioni ben più cospicue rispetto a quella dei pionieri. La dissoluzione dell'impero comunista ha portato nell'arco di un decennio quasi un milione di russi di discendenza ebraica ad utilizzare la «legge del ritorno» per stabilirsi in Israele. Un terzo di loro non è ebreo. La nuova migrazione - inattesa e imprevedibile per portata e motivazioni - ha fatto di quella russa la principale comunità del paese, modificandone strutturalmente il profilo demografico della nazione. In mezzo a questi due esodi c'è la storia raccontata dal libro di Mlecin.

Corriere della Sera 4.12.08
Il duello L'ex pm: a Napoli istituzioni usate a scopi privati. Franceschini: giudizi eccessivi
Questione morale, Di Pietro contro il Pd
di Alessandro Trocino


«Situazione più grave di Mani pulite». La replica: fai pulizia in casa tua
Il leader IdV smentisce che un funzionario indagato sia un «suo uomo». Tonini promette «interventi chirurgici»
ROMA — Il tema volteggiava da giorni sulla politica italiana e sul Pd, scosso dalle inchieste giudiziarie. Ma l'intervento del capo dello Stato Giorgio Napolitano — che da Napoli ha invitato la politica a reagire contro la scarsa moralità — ha scosso i partiti. Con l'Italia dei Valori che subito ne approfitta per rilanciare il suo cavallo di battaglia, le inchieste della magistratura, e attaccare il Pd. E con il partito democratico in bilico tra la tentazione di replicare minimizzando e la voglia di affrontare a viso aperto lo sgradito ritorno della «questione morale ».
Antonio di Pietro attacca il Pd: «Siamo di fronte a una situazione e a una questione morale ancora più grave di quella di Mani pulite. E dalla quale la sinistra non può tirarsi fuori». Il leader dell'Idv smentisce le voci su un coinvolgimento del figlio Cristiano in una storia di appalti in Molise. E smentisce anche che un funzionario dei Lavori pubblici, Mario Mautone, coinvolto in un'inchiesta, sia un suo «uomo di fiducia»: «Quando sono arrivato, quel dirigente era lì da dieci anni. E io l'ho destituito dal suo posto ». Ma poi riparte subito all'attacco contro il Pd: «In Campania e a Napoli le istituzioni sono state manovrate da un gruppo che usava fondi pubblici per scopi privati». Il riferimento è a Rosa Russo Jervolino e ad Antonio Bassolino, «del quale chiediamo da due anni le dimissioni». Il governatore non risponde direttamente. Ma fa dire quel che ripete da mesi: «In primavera faremo il punto, non ora».
A Di Pietro risponde invece Giorgio Tonini: «Sarebbe bene che ognuno facesse pulizia in casa propria. Mi sarei sentito un vile a usare un appello del capo dello Stato come arma di lotta contro altri». Tonini spiega che il Pd è pronto a fare la sua parte: «Condivido il giudizio di Napolitano, che riguarda anche noi. Non porci questo problema significa condannarci alla sconfitta». Troppo spesso «la trasparenza si è trasformata in opacità, la competenza è sfociata in deteriori forme di professionismo politico con tratti di cinismo e l'innovazione è diventata mediocre gestione dell'esistente ». Diagnosi impietosa dei mali del Pd. Con ricetta acclusa: «Servono più democrazia e autorità». Con l'accento che cade sull'ultimo termine: «Abbiamo un codice etico, che ha prescrizioni più rigide della legge e che non è mai stato applicato: occorre metterlo in pratica». E Roma interverrà: «Ci sarà un'azione più decisa dal centro del partito: sono necessari interventi chirurgici ».
Non tutti condividono l'eccessiva enfatizzazione sul Pd, anche per replicare alle accuse dell'Idv. Per esempio il numero due, Dario Franceschini: «Credo che sia eccessivo parlare di questione morale all'interno del partito. Non si sta parlando di tutta la classe dirigente del Pd». Non minimizza ma allarga il campo Rosy Bindi: «Dobbiamo porre seriamente al centro del dibattito la questione morale, come un fatto di rifondazione democratica di questo Paese».

Corriere della Sera 4.12.08
Archivi Nuove prove sull'opera falsificatrice dell'Ovra. Ma resta aperta la questione del conflitto tra il leader prigioniero e Togliatti
Gramsci e l'enigma della «lettera criminale»
Luciano Canfora: manipolata dalla polizia fascista la missiva che lo indusse a sospettare del Pci
di Aurelio Lepre


Nel 1944-1945 il Pci fu ricostruito sul binomio Gramsci-Togliatti, il fondatore e il costruttore, modellato su quello sovietico Lenin-Stalin. Negli anni successivi Togliatti lo consolidò, grazie a un attento controllo esercitato sulla pubblicazione degli scritti di Gramsci.
Le cose cominciarono a cambiare dopo il 1964, l'anno della morte di Togliatti. Furono allora i nuovi dirigenti e gli storici che militavano nel Partito comunista a gestire politicamente la revisione di quel rapporto, sulla base della nuova documentazione che lentamente veniva alla luce, mano a mano che il Pci respingeva la parte più compromettente dell'eredità di Togliatti, cercando però di conservare intera quella di Gramsci.
È da qui che bisogna partire per capire l'importanza assunta sul piano storiografico dalla questione di una lettera che un dirigente del partito, Ruggero Grieco, inviò a Gramsci nel febbraio 1928, oltre un anno dopo il suo arresto, e che il prigioniero definì in un primo momento «strana» e successivamente «criminale». Il giudice istruttore Enrico Macis, che gliela aveva mostrata, aveva ipotizzato che i suoi compagni volessero danneggiarlo, perché la lettera conteneva dettagliate, anche se confuse, informazioni sulla situazione politica, tali da mostrare che Gramsci anche dal carcere continuava ad avere un ruolo attivo nel partito. Lo stesso Gramsci scrisse che l'invio fu dovuto a «imperizia, negligenza o volontà perversa».
Come si vede, c'è materia sufficiente per un giallo politico, con molti indizi ma senza una prova definitiva, e se ne cerca da tempo la soluzione. Quali erano le vere intenzioni di Grieco? Era stata una sua iniziativa o c'era stato un misterioso suggeritore, che aveva voluto compromettere Gramsci per lasciarlo in galera? Era forse lo stesso Togliatti, che già due anni prima si era scontrato con lui per divergenze sull'atteggiamento da assumere verso Stalin? Questa ipotesi, formulata soprattutto sul piano politico e giornalistico, ha dato luogo a interminabili discussioni e ha rappresentato un aspetto importante della polemica contro Togliatti e il Pci. Nel 1989 Luciano Canfora sostenne, con dei buoni argomenti, che la lettera era stata falsificata dalla polizia fascista. La discussione però è continuata e ora Canfora cerca di chiuderla svolgendo una nuova, più ampia e approfondita inchiesta, molto minuziosa ( La storia falsa, Rizzoli, pp. 322, e 17), condotta con i metodi sia dell'indagine poliziesca sia dell'analisi filologica, in cui, come sappiamo, è un maestro e che applica alla storia contemporanea con la stesso successo con cui esamina documenti della storia greco- romana.
Canfora si muove con sicurezza e perizia in un aggrovigliato mondo di rivoluzionari, poliziotti, infiltrati e traditori e il risultato appare persuasivo: la lettera di Grieco a Gramsci nella stesura che gli fu consegnata sembra (come altre due che erano state indirizzate contemporaneamente a Terracini e a Scoccimarro) il frutto di una falsificazione nemmeno tanto abile.
Ma resta aperto un grosso problema. Gramsci ripensò spesso a quella lettera, ponendosi tormentose domande: come mai non sospettò, se non, forse, in un primo momento, quando si limitò a definirla «strana», che potesse trattarsi, almeno parzialmente, di un falso? Proprio a causa di quella lettera tutta la sua vita carceraria fu lacerata dal dubbio di essere stato tradito, di essere stato condannato da un tribunale più vasto di quello fascista, di cui facevano parte anche alcuni suoi compagni. E quel dubbio contribuì a mettere a dura prova la vita del prigioniero, provocando in lui una «trasformazione molecolare» di cui parla in una delle sue più belle e drammatiche pagine — concordo in pieno con l'opinione di Canfora che Gramsci la riferisca a se stesso. Di essa non sono ancora chiare tutte le implicazioni, ma rivela comunque che l'uomo e il politico erano cambiati al momento in cui uscì dal carcere rispetto a quello in cui vi era entrato.
Luciano Canfora naviga con accortezza tra Scilla e Cariddi, tra l'ipotesi di una semplice leggerezza commessa da Grieco e quella di un'iniziativa «criminale», che avrebbe portato alla rottura di Gramsci con Togliatti. In realtà, non ci fu rottura ma solo un rapporto difficile, come testimoniano anche le lettere che il prigioniero inviava alla cognata Tania e che alla fine, attraverso Piero Sraffa, pervenivano a Togliatti. Ed è solo decifrando il linguaggio non sempre chiaro di quelle lettere che può essere ricostruita la storia completa dei rapporti tra Gramsci e Togliatti.
Qui sopra, la busta della lettera indirizzata a Gramsci conservata all'Archivio centrale dello Stato. A fianco, dall'alto: Palmiro Togliatti; Antonio Gramsci nella foto segnaletica scattata in carcere; Ruggero Grieco, firmatario della lettera controversa

Corriere della Sera 4.12.08
Dalla Russia Ricordi e testimonianze dei parenti del pensatore comunista
Dialogo con un padre mai visto
di Antonio Carioti


Grande leader politico e pensatore universalmente apprezzato, anche in ambienti molto lontani dalle sue idee (si pensi al cosiddetto «gramscismo di destra»). Ma uomo malato nel corpo e ferito nell'anima, forzatamente separato dalla moglie e dai figli, ossessionato dall'idea di essere stato abbandonato dai suoi compagni di lotta. Nella figura di Antonio Gramsci convivono questi due aspetti, che rendono doppiamente eccezionale, e per molti versi commovente, la sua vita.
Tragica fu la sua detenzione, segnata non solo dai disagi del carcere fascista, particolarmente pesanti per un individuo debilitato, ma anche da sospetti e conflitti sotterranei con il Pci, di cui era stato a capo, e con l'Urss di Stalin. Si aggiungevano i travagli familiari: la moglie russa Julia Schucht, a Mosca, colpita da una grave malattia nervosa e i due figli piccoli, Delio e Giuliano, affidati alle cure della cognata Eugenia, mentre l'altra cognata Tania, in Italia, era il principale appoggio del leader detenuto. E proprio sul versante familiare abbiamo oggi nuovi contributi, offerti da due diversi libri.
Nel volume Papà Gramsci. Il cuore nelle lettere (Gabrielli Editori, pp. 116, € 14), con prefazione di Walter Veltroni, Anna Maria Sgarbi ha raccolto le missive indirizzate idealmente ad Antonio Gramsci dal figlio Giuliano, scomparso lo scorso anno (l'altro fratello, Delio, era morto nel 1982). Non è solo «un documento storico di notevole importanza », come scrive lo studioso Marco Clementi nella postfazione, ma anche una confessione a cuore aperto, in cui i ricordi ingenui dell'infanzia si fondono felicemente con le riflessioni malinconiche della vecchiaia. Uno spaccato dell'Urss negli anni bui, quando nessuno era al sicuro dagli artigli del potere.
La prima moglie di Giuliano Gramsci, Margarita, e la loro figlia Olga hanno invece affidato i loro ricordi a Giancarlo Lehner, che li ha inclusi nel libro
La famiglia Gramsci in Russia (Mondadori, pp. 366, € 20). In questo caso le testimonianze riguardano il periodo successivo al disgelo kruscioviano, perché Margarita e Giuliano si sposarono nel 1956, però riflettono ugualmente un'atmosfera plumbea: non più quella di una tirannide sanguinaria, bensì quella di un regime in lento disfacimento, ma ancora ottuso e oppressivo. Entrambi utili sotto il profilo documentario, i due libri si differenziano per impostazione. Anna Maria Sgarbi è attenta soprattutto all'aspetto umano, alla vicenda di un figlio su cui gravavano il peso di portare un cognome illustre, ma in odor di eresia, e il dolore di non aver mai potuto abbracciare il proprio padre. Lehner, saggista appassionato e polemico, allestisce un processo in piena regola al gruppo dirigente del Pci, in primo luogo a Palmiro Togliatti, per aver isolato ed emarginato Gramsci, per averne ostacolato la liberazione dal carcere, per essersi impadronito indebitamente della sua eredità letteraria. Sullo sfondo l'idea che al vertice del Cremlino Gramsci fosse considerato un personaggio infido, «sospetto di trotzkismo».
Sono accuse che l'atteggiamento delle sorelle Schucht accredita, ma solo in parte. Esse si mostrarono ostili a Togliatti, tanto che chiesero a Stalin d'impedire che gli scritti del loro congiunto fossero consegnati al Pci. Ma bisogna aggiungere che, se i vertici del potere sovietico avessero visto in Gramsci un «traditore», come ritiene Lehner, ben difficilmente le Schucht si sarebbero rivolte al supremo despota per tutelarne l'eredità intellettuale. Parliamo di una vicenda densa di ombre, davvero ardua da scandagliare fino in fondo.