Decrescita
Un’occasione che non si deve perdere
di Loretta Napoleoni
Il movimento della decrescita è entrato in rotta di collisione con il verbo economico tradizionale, che incita gli abitanti del villaggio globale a consumare per uscire dalla crisi. Eppure la decrescita sembra essere la risposta istintiva di un'economia al collasso, che si riassesta attraverso i meccanismi classici della domanda e dell'offerta. A conferma i dati della disoccupazione, in netto aumento dovunque. Il Financial Times ha addirittura iniziato una prassi nuova: ogni sabato elenca i posti di lavoro «svaniti» durante la settimana. Nella City di Londra siamo ormai a quota 100 mila. La decrescita non è però circoscritta al settore finanziario - che ha perso negli ultimi due mesi 1.300 miliardi di dollari - ma coinvolge tutti, anche i settori più disparati: questa settimana a New York l'editoria ha tagliato il 25% dei posti di lavoro e Honda ha annunciato il ritiro dalla Formula Uno. Queste notizie apocalittiche ci devono far riflettere sul fallimento delle politiche anti-congiunturali dei governi: non è servito a nulla pompare più di 2 mila miliardi di dollari nel settore bancario internazionale.
E se la contrazione dell'economia fosse semplicemente un processo di assestamento necessario, che riporta l'economia ai valori reali, quelli veri, non più inflazionati dalla zavorra dei derivati e dalla bolla finanziaria? Più che di decrescita bisognerebbe parlare di economia sostenibile, senza sprechi. Latouche, il suo inventore, ce lo accenna quando scrive che il capitalismo non può convivere con una contrazione permanente dell'economia. Ma questo è vero per qualsiasi sistema economico, incluso quello marxista. La crisi del credito è dunque un'occasione da non perdere per rilanciare attraverso la decrescita una visione dell'economia sostenibile, che sfrutti e consumi le risorse ad un ritmo inferiore al loro rinnovamento. Un principio applicabile anche alle banche, poiché l'eccessivo indebitamento distrugge più denaro di quanto viene creato. Ed ecco un esempio illuminante: la simbiosi tra credito cooperativo e settore agricolo sostenibile. Il primo raccoglie il denaro tra i consumatori e lo investe nel secondo, che produce per la comunità in base ai bisogni di questa. Niente sprechi quindi; banca, produttore e consumatore sono a tutti gli effetti soci in affari. Peccato che la cooperazione economica piaccia poco ai nostri politici.
l’Unità 7.12.08
Tagli all’editoria. Un problema drammatico
di Vincenzo Vita
L’allarme è di quelli seri. Senza retorica. Dopo la bocciatura da parte del governo e della maggioranza degli emendamenti delle opposizioni tesi a ripristinare il Fondo per l’editoria e quello per lo spettacolo nel corso dei lavori sulla legge finanziaria nella commissione bilancio del Senato, il rischio chiusura per i settori più deboli è concreto. Dai teatri, alle attività musicali, alla produzione cinematografica e audiovisiva, alla danza. Ai giornali di cooperative, di editori non profit o di partito, ivi comprese le testate delle minoranze linguistiche e degli italiani all’estero. In quest’ultimo caso, poi, la maggioranza ha smentito sé stessa, bocciando gli emendamenti che aveva presentato o sottoscritto, resi pubblici in una conferenza stampa il 3 dicembre scorso. Sono 26 i quotidiani che rischiano davvero di chiudere subito, da Il Manifesto, a Liberazione, a Europa, a La Padania, al Secolo d’Italia, a Il Corriere Mercantile, a Bari sera, a La Voce di Mantova, a Carta, a Left, a Il salvagente; o che subiranno ridimensionamenti forti. Un centinaio entro un anno. Speriamo di sbagliare, ma c’è da temere che la realtà sia esattamente questa. Dopo il taglio del decreto Tremonti di luglio, che tra l’altro eliminava lo stesso diritto soggettivo delle testate ad avere i contributi, ripristinato in prima lettura dalla Camera dei deputati nel disegno di legge n. 1195 sullo sviluppo, ora in seconda lettura al Senato e tuttora a rischio. Taglio di 83 milioni di euro per il 2009 su 387 disponibili (già sotto la sufficienza, stimata in 589), di cui «solo» 305 predestinati a coprire i contributi indiretti - tariffe agevolate varie - sui quali la parte del leone viene fatta dai grandi gruppi editoriali quotati in borsa: Sole 24 ore, Corriere della Sera, Repubblica, ad esempio. Quindi, se non passa l’emendamento volto a rimettere un po’ di risorse nel Fondo, la capienza è -1, meno di zero. Mentre si sta discutendo nelle commissioni parlamentari competenti del regolamento di attuazione previsto dal citato decreto 112 (legge 133), che prefigura una sorta di riforma dell’editoria, auspicata dal sottosegretario Bonaiuti. Ma quale regolamento o quali evocati Stati generali dell’editoria di fronte alla scomparsa dei giornali, senza neppure aver provato a risparmiare davvero eliminando le provvidenze date ai presunti giornali di «movimenti politici», che sono tutt’altro o non vanno neanche in edicola? L’ultimo appello sarà tra qualche giorno, a partire da martedì prossimo, nel dibattito nell’aula del Senato sulla Finanziaria. Gli emendamenti su editoria, spettacolo e beni culturali saranno ripresentati. Mobilitiamoci. Il diritto all’informazione e al sapere è decisivo, è la premessa - come la libertà personale - per poter esercitare anche gli altri diritti. Che non finisca con la scena della distruzione della cultura di «Fahrenheit 451», ambientata magari sull’«Isola dei famosi».
Repubblica 7.12.08
Neonazisti e ultrà La nuova Europa ha un cuore nero
di Andrea Tarquini
La "Guardia ungherese" punta a raggiungere settemila adepti A Praga l´ultradestra vuole la "soluzione finale della questione zingara", evocando impunemente l´ideologia dell´Olocausto
Ungheria, Repubblica cèca, Slovacchia: tre giovani democrazie risorte dopo mezzo secolo di comunismo, da poco diventate Paesi membri della Ue, nelle quali l´estremismo di destra gode di crescente popolarità È organizzato in milizie, manifesta sentimenti antisemiti e razzisti. E a Bratislava è già insediato al governo
A Budapest sfilano in centro indossando l´uniforme nera, sventolano i gagliardetti delle Croci frecciate alleate di Hitler, giurano di salvare la patria dagli zingari, dal capitalismo e dagli ebrei. A Praga contattano ogni giorno i loro camerati tedeschi della Npd neonazista, e spesso affrontano la polizia in violenti scontri di guerriglia urbana. A Bratislava il loro partito è addirittura al governo, partner preferito ai democristiani per formare una coalizione dal premier socialdemocratico-populista Robert Fico.
Europa centrale, inverno 2008: mentre il più importante dei nuovi membri dell´Unione Europea, la Polonia, è una solida democrazia, una società dalla cultura democratica diffusa nella sua coscienza collettiva e dall´economia ancora in boom, in altri tre paesi membri della Ue, tre giovani democrazie risorte dopo mezzo secolo di comunismo e di colonialismo sovietico (Ungheria, Repubblica Cèca, Slovacchia), il neonazismo non è più solo uno spettro, né la minaccia violenta di minoranze arrabbiate ma marginali: è realtà quotidiana, è un modo di pensare che si diffonde nei salotti buoni, è una forza politica che ha imparato a sfidare la libertà sia con la violenza di piazza sia con successi elettorali e coalizioni. Diciannove anni dopo la caduta della Cortina di ferro, quelle tre giovani democrazie appaiono infettate da una voglia di ordine diventata mostro. E il mostro è un virus contagioso: nell´Europa senza frontiere, i successi magiari, cèchi e slovacchi possono dare esempio e forza ai suoi adepti ovunque nell´Unione.
L´Ungheria è il caso più appariscente della nuova sfida all´Europa. Jobbik, cioè "i migliori", si chiama il partito. Come sempre accade al fascismo, due volti vi convivono, il doppiopetto e il manganello. Il doppiopetto sono l´elegante look sportivo - camicia button down e pullover inglese - del suo leader Gábor Vona, o gli abiti chic della bionda, giovane, attraente Krisztina Morvai, avvocato e docente di giurisprudenza, ex attivista per i diritti delle donne e delle minoranze, convertita al sogno della destra nazionale. Il manganello si chiama Magyar Gárda, "guardia ungherese". È la milizia paramilitare del partito, conta oltre duemila aderenti, ma presto supererà i settemila. È organizzata in compagnie e reggimenti, i suoi membri entrandovi prestano giuramento di fedeltà assoluta come si fa in un esercito regolare. E si addestrano alle arti marziali e al tiro con le armi da fuoco.
Lo sfondo nazionale è desolante. Diciannove anni dopo la fine del comunismo, l´Ungheria è un´economia in crisi e soprattutto uno Stato sulla soglia della bancarotta. Solo iniezioni di liquidità somministrate in extremis dal Fondo monetario internazionale e dall´Unione Europea hanno salvato il governo socialdemocratico (postcomunista) del premier Péter Gyurcsany, ma il malcontento rimane. Fa da sedimento a una simpatia sempre più diffusa per l´ultradestra, ha avvertito di recente Paul Lendvai, decano dei corrispondenti del Financial Times, gentiluomo ungherese fuggito a Occidente durante il comunismo che da Vienna, nei decenni della Guerra fredda, era una delle fonti più attendibili su qualsiasi cosa accadesse o si preparasse nell´"altra Europa". Altre voci autorevoli sono purtroppo d´accordo: odio xenofobo, discriminazione, diffidenza verso minoranze e diversi, spiega la sociologa Maria Vasarhely, sono sempre più diffusi in ampi strati della popolazione. Venti ungheresi su cento, avverte il suo collega Pal Tamás, sui grandi temi della politica e della vita la pensano come l´ultradestra, e trenta su cento, secondo una sua indagine scientifica, sono da considerare antisemiti.
Manganello e doppiopetto agiscono in sinergia, nell´Ungheria della crisi, conquistano la ribalta ogni giorno nella Budapest splendida ma dove la nuova povertà e il degrado urbano, con troppe facciate di palazzi asburgici diroccate anziché risanate come in Polonia, mostrano che qualcosa non va. A Hoesoek Tére, la piazza degli eroi, luogo-simbolo della nazione, la Magyar Gárda sfila spesso e volentieri. Oppure conduce giorno e notte pattuglie, per intimidire gli zingari. O suoi simpatizzanti lanciano escrementi, pietre e uova marce contro il teatro della comunità ebraica. «Il problema dei senzatetto e degli zingari si può risolvere diffondendo batteri della tubercolosi», affermano i suoi ultrà, «perché dobbiamo difenderci». Vona e la signora Morvai no, non giungono a tanto. Ma affermano a ogni comizio: «Chi sono gli zingari? Amano l´Ungheria o no? Hanno voglia di lavorare? Vogliono adattarsi e assimilarsi o no? Possiamo fidarci?». E più spesso ancora diffondono l´idea che nel dopo Guerra fredda i politici dei partiti democratici hanno «trasformato l´Ungheria in un Paese sconfitto, una colonia dell´Occidente». Siamo a un passo dal mito mussoliniano della "vittoria mutilata".
La Grande Ungheria è il loro sogno, il rifiuto del Trattato di Trianon che nel 1918 tolse ai magiari (parte dell´Impero asburgico) i territori ora slovacchi o romeni è slogan e bandiera. Erano le idee-forza della dittatura dell´ammiraglio Miklos Horthy, alleato di Hitler, e degli estremisti delle Croci frecciate di Imre Szalasi.
Ma nell´ex Europa asburgica il nuovo fascismo si diffonde anche dove le tradizioni democratiche dovrebbero essere più solide. Guardiamo poco più a ovest, nella splendida, prospera Praga, capitale di un Paese devastato dal mezzo secolo bolscevico e ora tornato al capitalismo ma anche segnato dalla corruzione e dall´instabilità politica. Il Partito dei lavoratori (Ds, guidato da Tomás Vandas) ha chiare matrici neonaziste e contatti con la Npd tedesca. Qualche settimana fa nella città di Litvinov ci sono voluti oltre mille poliziotti in assetto di guerra per affrontare in una notte di guerriglia urbana almeno settecento squadristi del Ds decisi a dare l´assalto a un quartiere abitato da gitani.
I loro slogan sono ancor più duramente anti-occidentali di quelli dei camerati ungheresi: «Alzati, lotta contro il liberalismo», titolava uno degli ultimi numeri di Delnické listy, il loro organo. Il partito neofascista cèco è in prima fila, come i comunisti nostalgici dell´occupazione sovietica, contro i piani Nato sullo scudo difensivo in Cèchia e Polonia per affrontare i missili iraniani. E sull´esempio magiaro, anche nella Repubblica cèca un altro gruppo, il Partito nazionale, ha fondato una sua milizia paramilitare. Guidato da Petra Edelmannova, il partito vuole presentarsi alle elezioni politiche del 2010 proponendo la «soluzione finale della questione degli zingari». Linguaggio senza pudore, che evoca esplicitamente quello del nazismo hitleriano nella «soluzione finale», cioè l’Olocausto.
Il governo cèco non vuole restare a guardare, anzi non può permetterselo anche perché tra poco gli toccherà la presidenza di turno dell´Unione Europea. Per cui sta studiando la possibilità giuridica di una messa al bando dei nuovi fascisti. Una possibilità del genere è lontana anni luce a Bratislava, la capitale della Slovacchia. Perché qui Robert Fico, primo ministro e leader del locale partito socialdemocratico (schierato su posizioni di sinistra nazionalpopulista, era stato persino temporaneamente sospeso dal gruppo socialista all’Europarlamento), ha scelto di governare e garantirsi il potere alleandosi non con i democristiano-conservatori bensì con lo Sns, il Partito nazionalista slovacco di estrema destra. Lo guida Jan Slota, politico di provincia che ama abbandonarsi a eccessi alcolici per poi scatenarsi ancor meglio nei comizi. Propone «la frusta» per risolvere (rieccoci) «il problema degli zingari», sogna di diventare europarlamentare per «rendere di nuovo vive le acque marce e sporche di Bruxelles e di Strasburgo». I suoi bersagli preferiti sono, oltre ai gitani, la minoranza ungherese e gli omosessuali.
Il premier Fico tace, volta la testa dall´altra parte. Si preoccupa solo di litigare col governo ungherese, perché l´ultima partita di calcio tra squadre dei due paesi, a Dunajska Streda, si è conclusa con una notte di duri scontri tra teppisti magiari e slovacchi, tutti legati alle due ultradestre. E alla fine la polizia slovacca per una volta è intervenuta duramente, ma pestando quasi soltanto i violenti ungheresi.
L´unica, debole speranza dell´Unione Europea è questa: che la furia nazionalista dei nuovi fascisti nell´Europa ex asburgica sia talmente virulenta da indurli a volte a considerarsi tra loro nemici mortali anziché alleati. Ma anche in questo il rovescio della medaglia è l´abdicazione del potere statale. Dopo la notte di sangue a Dunajska Streda, la Magyar Gárda ha presidiato e chiuso i valichi di frontiera con la Slovacchia; nessuno glielo ha impedito. I nuovi radicalismi, denunciava l´altro giorno Joseph Croitoru sulla Frankfurter Allgemeine, sono un´ipoteca grave e imprevista sul futuro delle tre giovani democrazie europee. L´epidemia è scoppiata non in paesi lontani, ma all’interno dei confini aperti della Ue e della Nato.
Repubblica 7.12.08
Una deriva avviata dai nazionalisti russi
di Leonardo Coen
MOSCA. Terzo vagone di un convoglio della metropolitana, in viaggio verso la stazione della Biblioteca Lenin, 22 novembre. Tre giovani skinhead circondano un passeggero, sui trentacinque anni. Si chiama Mikhail Altshuller, un cantautore abbastanza noto nella comunità ebraica di Mosca: è infatti il solista e il direttore del "Dona Yiddish Song Group", che gode di ottima reputazione nell´ambiente musicale internazionale, ha pure vinto qualche festival. Uno dei tre si rivolge al barbuto Altshuller e lo apostrofa. Subito dopo, comincia un sistematico e feroce pestaggio: i tre picchiano e gridano slogan nazionalisti. Altshuller finisce all´ospedale. La polizia ferma due sospetti.
Pochi giorni dopo, il primo di dicembre, viene trovato il cadavere di un azero di venticinque anni: ucciso a coltellate vicino alla stazione Universitiet, non lontano dalla Collina dei Passeri. Ultimo delitto di una lunga serie di attacchi xenofobi che sinora hanno causato 114 vittime e ferito 357 persone (bilancio aggiornato alla fine di ottobre). Nei primi dieci mesi di quest´anno il numero delle aggressioni a sfondo razzista è cresciuto di una volta e mezzo rispetto al 2007.
L´attività di prevenzione della polizia e dell´Fsb, i servizi federali di sicurezza, dunque, non basta ad arginare il fenomeno. I media danno grande risalto al processo che in questi giorni, proprio a Mosca, vede alla sbarra una gang di neonazisti accusati di ventidue omicidi e dodici attentati. La Russia post-comunista è animata da virulenti movimenti di estrema destra che raggruppano un largo spettro ideologico: alcuni fanno riferimento al nazismo, altri al fascismo o al nazional-bolscevismo. Su questi filoni si innescano i movimenti degli skinhead e quelli che si riconoscono nella controcultura giovanile di estrema destra, sino alle correnti neopagane e ariane. Lungi dall´essere arcaica, l´estrema destra russa rivela indirettamente i profondi sconvolgimenti con cui ha a che fare il Paese da due decenni, a partire dalla necessità di riformare una nuova identità collettiva. Secondo alcune stime, i naziskin in Russia sono circa sessantacinquemila: la loro ideologia è profondamente permeata di razzismo, l´attività principale è la caccia all´immigrato (diciassette milioni, di cui cinque clandestini). Gli «intrusi», come vengono bollati gli immigrati, rappresentano la forza lavoro più sfruttata e indifesa. «Uzbeki, kirghizi e tagiki - si legge in un recente rapporto Unicef - sono gruppi a rischio la cui situazione è molto prossima alla schiavitù». Per forza: nella logica xenofoba russa sono i «non slavi», anzi, i «nemici della razza superiore slava». Poco importa se sino a diciotto anni fa facevano parte dell´Unione Sovietica: emancipandosi dalla Russia sono diventati stranieri di serie B perché asiatici. Anche gli stessi cittadini della Federazione Russa, come i daghestani e i ceceni, condividono questo destino di prede.
Più della metà degli omicidi a sfondo razziale sono stati commessi a Mosca e nella sua regione. L´altro grande polo xenofobo è rappresentato da Pietroburgo e dalla sua regione, che ha conservato il nome sovietico di Leningrado. Tuttavia, poco alla volta, la piaga si è estesa: dopo aver raggiunto Volgograd, Nizhnij Novgorod, Jaroslav, Kaliningrad, la violenza razzista ha infettato le grandi città della Siberia e dell´Estremo Oriente, dove l´immigrazione è massiccia. Il tamtam è Internet, la "bibbia" era sino a metà degli anni Novanta la rivista Rasato a zero. Oggi le pubblicazioni si sono moltiplicate: Combattente di strada, La volontà russa, La resistenza russa, La resistenza bianca, Martelli, Screwdriver, La Cosa 88 (il numero che in gergo identifica Hitler). Titoli che sono un programma.
Corriere della Sera 7.12.08
La guerra e la morte, l'amore e l'odio: i trenta capolavori della letteratura antica proposti in una nuova veste
Da Omero a Orazio, i padri dell'Occidente
L'attualità degli autori che hanno dato un pensiero (e una coscienza) all'uomo
di Armando Torno
Walter Benjamin sosteneva nel saggio dedicato al collezionismo dei libri che non sono i lettori a preservarli nel tempo ma, al contrario, i tomi accantonati conserveranno la memoria degli uomini che li hanno raccolti. Non salviamo i libri ma siamo salvati dal ricordo che abbiamo lasciato tra le pagine, perché noi «viviamo in loro ». Applicando questo felice paradosso al mondo greco e latino, potremmo credere che tutti quegli autori che vanno da Omero alla caduta dell'impero romano, fioriti nell'aureo millennio e mezzo dell'intelligenza occidentale, consentono ancora a noi oggi di avere un pensiero, un gusto, un'anima. Senza saperlo, ogni giorno ripercorriamo le strade battute dalle loro emozioni che misteriosamente non riescono a svanire. Chi desidera fare a meno della letteratura antica assomiglia a un tale che ha deciso di non credere più a se stesso.
Per questi semplici motivi, e per altri più complessi, una collana di autori greci e latini che riproponga trenta volumi essenziali, che vanno cronologicamente dall'Iliade di Omero al Libro dei sogni di Artemidoro di Daldi, non rappresenta un recupero archeologico di curiosità o di ricordi scolastici ma più semplicemente uno specchio dove è possibile osservare noi stessi. Quando vi capiterà di leggere nell'Odissea la vicenda dei compagni di Ulisse trasformati in porci da Circe, ricordatevi che non è avvenuto alcun sortilegio: la dea-maga ha semplicemente riconosciuto la loro natura. E se siete innamorati, avrete senz'altro rivissuto l'impulso egoistico che Catullo trasformò nei Carmina in poesia per sempre: «Vivamus, mea Lesbia, atque amemus, /rumoresque senum severiorum/ omnes unius aestimemus assis.
/Soles occidere et redire possunt: / nobis cum semel occidit brevis lux, / nox est perpetua una dormienda». Parole che diventano, tradotte senza poter ricreare i sussurri e gli ammiccamenti del testo latino: «Viviamo, mia Lesbia, e amiamo,/ e le prediche dei vecchi severi/ stimiamole, tutte, quanto un soldo bucato./ I soli possono tramontare e tornare;/ noi, una volta caduta la nostra breve luce,/ abbiamo davanti il sonno di una notte perpetua» (V, 1-6).
E che dire di Petronio e di quel Satyricon che Nietzsche amava più dei Vangeli? In quelle pagine non si descrivono gli uomini come angioletti, anzi questo narratore latino di cui sono rimaste scarsissime notizie biografiche e che aveva scelto di vivere di notte, ritrae impietosamente — tra le infinite situazioni — gli arricchiti di ogni tempo, dei quali Trimalcione resta patrono e simbolo. La volgarità riesce a tracimare dalle pagine, diventa lingua, odore, ideologia. Alla fine dell'episodio della cena un lettore potrebbe concludere: senza il porco non si ragiona, se manca il maiale per intere categorie sociali è la fine.
Non c'è stato grande spirito dell'Occidente che abbia ignorato i classici. Niccolò Machiavelli messo in disparte trovò le sue ragioni di vita in Tito Livio, Napoleone viaggiava sempre con un'edizione portatile delle Vite di Plutarco, Voltaire aveva nella sua biblioteca tutti i possibili classici antichi e si dimenticò di completare l'Encyclopédie, alla quale diede idee e articoli. E che dire di Beethoven? Teneva sul suo tavolo un busto di Bruto, pugnalatore di Cesare, come simbolo di libertà. Michel de Montaigne, una delle più fascinose anime del Rinascimento, rinunciò alle cariche pubbliche e agli onori di corte per chiudersi nel suo castello a meditare i classici antichi. Credeva, quasi sicuramente con ragione, che in essi fossero presenti tutte le notizie necessarie per conoscere l'uomo.
Ma per quanto possa continuare il nostro elenco non sarà possibile esaurirlo. Copernico ebbe l'intuizione che fonda il mondo moderno in alcuni scritti greci che non sono ancora ben identificati; quasi sicuramente egli partì dai testi pitagorici, da Archita in particolare, dove il sistema eliocentrico era una realtà. Non potremmo immaginare né Shakespeare né Leopardi né Erasmo senza le loro letture di autori antichi, né pensare alla filosofia contemporanea senza far ricorso a quello che si discusse ad Atene circa due millenni e mezzo fa. E quando ascoltiamo discorsi di persone tronfie che si credono indispensabili, vale la pena meditare su quanto scrisse l'imperatore Marco Aurelio in quella breve operetta privata che conosciamo impropriamente con il nome di Ricordi: «Tra poco avrò dimenticato tutto, tra poco tutti mi avranno dimenticato». E chi non ha verificato almeno una volta nella vita quei singhiozzi che un deluso Ovidio lasciò con impareggiabile grazia nelle sue pagine? Se volessimo riassumerli in una frase per compendiare le diverse situazioni, potremmo scrivere: finché sarai fortunato conterai molti amici, quando le cose cambieranno resterai solo.
Poi c'è Orazio, con quella sua morale autosufficiente che nelle
Odi invita l'uomo a cogliere l'attimo fuggente. È lui l'inventore di quel «carpe diem» che non riesce a tramontare (e che ispira ancora pellicole di successo). Di più: a volte irrita il lettore per taluni atteggiamenti deliziosamente insulsi, ma è attualissimo quando scrive dopo «carpe diem» le seguenti parole: «quam minimum credula postero», ovvero: «confidando il meno possibile nel futuro ». Sembrano concetti coniati pensando ai crolli di Borsa o a obbligazioni che si trasformano nel volgere di poche ore in polvere. Certo, nei trenta titoli che dicevamo ci sono anche i tragici e gli storici greci, c'è Cicerone, non mancano San Paolo e tanti altri. In questa pagina, pur saltellando tra autori ed emozioni, non riusciamo che a ribadire la loro utilità per vivere e per capirsi. E a sorridere pensando che, nonostante gli sforzi dei professori, non sono ancora morti.
Per concludere: quando sentite i politici parlare di patria e di sacrifici necessari, quando taluni esaltano quelle urgenze che non fanno abbassare le tasse, ricordatevi che Aristofane nel suo Pluto scrisse: «Patria è sempre dove si prospera ». Manzoni riprese il concetto nell'ultimo capitolo de I promessi sposi e ribadì — in pieno Risorgimento — per bocca di don Abbondio: «La patria è dove si sta bene».
Corriere della Sera 7.12.08
Il partito fai da te
Timori del leader per la direzione del 19. Il dalemiano Cuperlo: partito da costruire
Veltroni e il rischio «balcanizzazione» Un sondaggio lo gela: Pd al 28%
Da Firenze ai 54 ribelli: ognuno fa per sé. Il segretario: ci vogliono all'angolo
di Maria Teresa Meli
Stava riuscendo a far risalire la china al partito. Tenacemente, un passo alla volta, ma sempre un passo avanti.
Ora però la bufera giudiziaria che si è abbattuta sul Pd rischia di vanificare il lavoro di Veltroni.
L'ultimo sondaggio riservato è arrivato a largo del Nazareno l'altro ieri e ha destato un primo, forte, segnale d'allarme. Dopo le vicende di Napoli e Firenze il partito è calato di due punti e mezzo in percentuale nel giro di una settimana: dal 30,5 è tornato a quel 28 da cui il segretario lo aveva allontanato già alla fine d'ottobre. Ed è vero che Velt roni continua ad avere un indice di gradimento più alto del suo partito — è sopra del 9,3 rispetto al Pd — ma questa è una magra consolazione per un segretario che aveva cominciato a vedere la luce fuori dal tunnel della sconfitta elettorale e che ora deve ricominciare tutto daccapo. E così anche la direzione del 19, che per il leader si profilava come una passeggiata, visto che i dalemiani sembravano propensi a non dare battaglia, ma, piuttosto, a siglare una tregua, potrebbe diventare più insidiosa del previsto.
Un sindaco grande amico di Veltroni che si incatena davanti a un giornale senza neanche avvertire il leader, un presidente di Regione che si rifiuta di dimettersi e di andare al chiarimento con il suo segretario, un candidato a primo cittadino di Firenze indagato che voleva ugualmente partecipare alle primarie (che però dopo gli ultimi fatti verranno sospese), un documento che chiede ai vertici del Pd di cambiare registro che è stato elaborato da alcuni parlamentari dalemiani, Gianni Cuperlo e Barbara Pollastrini in testa, ma è firmato anche da un gruppetto di deputati veltroniani... Ecco, questi sono i segnali allarmanti che prefigurano il rischio balcanizzazione o di partito «fai da te» per il Pd. Senza contare che la ormai stucchevole contesa Veltroni-D'Alema, invece di cedere il passo, viste le altre emergenze, resta lì sospesa sopra il Pd.
Ne è convinto Peppino Caldarola, il quale, anzi, ritiene che la guerra tra il segretario e l'ex ministro degli Esteri si svolga adesso anche a colpi di inchieste e indagini. E infatti sul Giornale
di ieri Caldarola scriveva che Veltroni, «quasi vent'anni dopo Mani Pulite », pensa di «costruire la propria fortuna e di liquidare il suo amico-nemico» D'Alema con «la definitiva battaglia per la questione morale». Una battaglia che a Caldarola ricorda quella «finale contro Bettino Craxi» che venne condotta da Achille Occhetto negli anni, appunto, di Tangentopoli.
In questo clima i dirigenti del Pd sembrano convincersi che dietro le loro sventure si celi una sorta di complotto. Come spiega il segretario organizzativo del partito Beppe Fioroni, che, dopo l'inevitabile premessa («i magistrati stanno facendo il loro mestiere»), si dice «preoccupato per le strumentalizzazioni pesantissime che vengono fatte su queste vicende ». E non si tratta solo delle dichiarazioni di Silvio Berlusconi, che l'esponente del Partito democratico liquida così: «Il Cavaliere è come il bue che dice cornuto all'asino». C'è anche Gelli, che «ha detto che bisogna eliminare Veltroni».
Dunque? Dunque, secondo Fioroni e tutti i più alti dirigenti del centrosinistra, «è in atto un'offensiva contro il Pd da parte dei poteri forti di questo paese a cui il nostro partito dà fastidio: loro vorrebbero che tornasse a essere una cosa tipo ex dc ed ex pci». Anche il segretario è convinto che ci sia chi voglia «attaccare il Pd e metterlo all'angolo». Ma è altrettanto convinto che il Pd non esploderà e che anzi c'è il modo e il tempo per farlo ripartire. A patto che si porti avanti «un'iniziativa politica innovatrice». Ed è questo che Veltroni proporrà alla direzione del 19, dettando la piattaforma programmatica del "suo" Pd, con «chiarezza», perché non possano esservi dei "ni", ma solo dei sì o dei no. Certo ora tutto è più difficile. Ed è probabile che in quella riunione si sentiranno le critiche di chi, come Gianni Cuperlo, ritiene che il partito non c'è ancora e che «bisognerebbe costruirlo».
Repubblica 7.12.08
Campane d’allarme e trombe stonate
di Eugenio Scalfari
Da un partito guidato da persone perbene ci si aspetta che le mele marce siano messe da parte
Non esisterà più un capitalismo come quello che abbiamo conosciuto, basato soprattutto sui consumi
Non c´è un solo allarme rosso sul quale occorra tener fisso lo sguardo per comprenderne le cause e prevederne gli effetti con quotidiano monitoraggio. Ce ne sono tre, che insidiano la nostra vita dei prossimi mesi alimentando le nostre incertezze e i nostri timori.
Due hanno dimensioni nazionali e sono l´allarme sul funzionamento della giustizia e quello che viene definito la questione morale. Il terzo ha dimensione mondiale ed è la crisi dell´economia, la recessione americana diffusa ormai su tutto il pianeta, il pericolo che la recessione si trasformi in deflazione e che questa degradi ulteriormente in depressione.
La stampa americana parla ormai correntemente di «great depression, part 2» riferendosi a quella del ´29, le cui conseguenze devastarono gli Stati Uniti e l´Europa per otto anni. Ce ne vollero poi altri due affinché cominciasse un nuovo ciclo di crescita economica il cui mostruoso motore fu l´industria degli armamenti e la guerra scoppiata nel 1939, con i suoi milioni e milioni di morti, compresi quelli di Hiroshima e Nagasaki e lo sterminio dell´Olocausto. Proprio per queste sue terrificanti dimensioni comincerò queste mie note domenicali dal terzo allarme rosso. Me ne sto occupando ormai da alcuni mesi ma ogni giorno accadono fatti nuovi e un aggiornamento critico è dunque necessario.
Negli undici mesi fin qui trascorsi dal gennaio 2008 gli Stati Uniti sono in recessione, dapprima sottotraccia, poi esplosa a giugno con la crisi immobiliare. I sei mesi passati da allora hanno visto i listini di Wall Street perdere più del 50 per cento del loro valore e poiché i cittadini di quel paese hanno una familiarità con la Borsa sconosciuta nel resto del mondo ne è derivato un impoverimento, in parte virtuale ma in parte reale, che ha inciso sui consumi e sugli investimenti.
L´effetto, in un paese ad economia liberista, si è ripercosso sull´occupazione ed è stato un crescendo di mese in mese. Allo stato attuale dei fatti sono andati distrutti in undici mesi un milione e centomila posti di lavoro, dei quali 200.000 in ottobre e 536.000 in novembre. Un´accelerazione spaventosa che, secondo le previsioni più aggiornate, supererà nel primo semestre del 2009 i quattro milioni di persone.
Quando Obama e i suoi consiglieri affermano che il peggio deve ancora venire pensano esattamente a questo: lo spettro della disoccupazione di massa e quindi una diminuzione del reddito, specie nei ceti e per le etnie più deboli, ma non soltanto. Il saldo tra questa distruzione del reddito e l´apparente beneficio della discesa dei prezzi (dovuta appunto al crollo della domanda) sarà fortemente negativo, deprimerà i consumi e gli investimenti, manderà in fallimento decine di migliaia di aziende come in parte sta già accadendo.
Tra tanti germi negativi che l´America ha già disseminato nel resto dell´Occidente, l´effetto principale sta nel fatto che il motore americano si è ingolfato e così resterà a dir poco fino al 2011. Ma poi ricomincerà a tirare come prima?
Joseph Stiglitz in un´intervista pubblicata ieri sul nostro giornale, dà risposta negativa a questa domanda. Il capitalismo americano (e sul suo modello tutto il capitalismo internazionale) ha vissuto da decenni sulle bolle speculative. Sono state le bolle a far battere al massimo i pistoni del motore americano, locomotiva di tutto il resto del mondo. Le bolle, cioè il credito facile, cioè la speculazione.
Ma le bolle, dice Stiglitz, dopo la durissima crisi che stiamo vivendo non si ripeteranno più. Non nella dimensione che abbiamo visto all´opera negli ultimi anni. E quindi non esisterà più un capitalismo come quello che abbiamo conosciuto, basato per quattro quinti sui consumi.
Subentrerà probabilmente un capitalismo basato sugli investimenti e su una redistribuzione della ricchezza mondiale e, all´interno dei vari paesi, della ricchezza tra i vari ceti sociali. Si capovolgerà lo schema (finora imperante) che vede la redistribuzione del reddito e della ricchezza come una conseguenza dipendente dalla produzione del reddito e dei profitti. Sarà invece la redistribuzione a mettere in moto la produzione e i pistoni del motore economico.
Ricordo a chi non lo sapesse o l´avesse dimenticato che fu l´allora giovane liberale Luigi Einaudi a propugnare (era il 1911) un´imposta unica basata sui consumi e un´imposta patrimoniale di successione che al di là d´una certa soglia di reddito passasse i patrimoni con un´aliquota del 50 per cento da impiegare per ridistribuire socialmente la ricchezza. Forse, con un secolo di ritardo, ci si sta dirigendo verso soluzioni di questo tipo. Lo chiameremo ancora capitalismo? Oppure come?
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Il nostro governo e il nostro ministro dell´Economia sostengono che in Italia le cose andranno meglio perché le banche qui da noi sono più solide che altrove e i conti pubblici «sono in sicurezza». Salvo il debito pubblico, ma la colpa di quella voragine fu creata negli anni Ottanta e quindi riguarda la precedente generazione.Quest´ultimo punto del ragionamento è esatto; che le nostre banche siano solide è una fondata speranza; ma che le nostre prospettive siano migliori degli altri paesi è una bufala delle tante che il governo ci propina. Noi non stiamo meglio, stiamo decisamente peggio, ci tiene ancora a galla l´euro senza il quale staremmo da tempo sott´acqua. Stiamo peggio perché non abbiamo un soldo da spendere.
Quelli che avevamo venivano da una forte azione di recupero dell´evasione fiscale che ci dette nel 2006-7 più di 20 miliardi da spendere. Questa fonte si è inaridita. Il fabbisogno è aumentato, l´abolizione dell´Ici ha distrutto un reddito tributario di 3 miliardi e mezzo l´anno; l´Alitalia tricolore è costata all´erario 3 miliardi (se basteranno).
Sicché Tremonti non ha un soldo. Per mandare avanti il motorino italiano ha dovuto redigere nel luglio scorso una legge finanziaria gremita di tagli. Per far sopravvivere il sistema ha concesso la settimana scorsa un´elemosina di 6 miliardi "una tantum" alle famiglie e alle imprese; con qualche spicciolo aggiuntivo per far tacere le invettive del Papa e dei vescovi per i tagli alle scuole cattoliche (ma quelli alla scuola statale e all´Università sono rimasti tutti ferocemente in piedi).
Anche in Italia tuttavia, come altrove, la crisi finora ha soltanto graffiato la pelle ma non ha ferito né i muscoli né i tendini. Si consuma un po´ meno, si investe poco o nulla (ma questa latitanza degli investimenti privati e pubblici è da anni una costante).
Il peggio deve venire dice Tremonti ed ha purtroppo ragione. La diagnosi è giusta. La terapia non c´è per ragioni di forza maggiore determinati dagli errori commessi sei mesi fa. Come uscirne dovrebbero dircelo il premier e il ministro dell´Economia. Certo non se ne esce con gli inviti ai risparmiatori a sottoscrivere i Bot. Tanto meno facendone colpa all´opposizione. Per Tremonti la via d´uscita sembrerebbe quella di metter le mani sul risparmio postale della Cassa depositi e prestiti. Si sperava che il presidente della Cdp, Franco Bassanini, si opponesse a quel progetto così arrischiato, ma sento dire che ne è stato addirittura uno degli ispiratori. Se fosse vero ne sarei stupefatto.
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Tratterò insieme i due allarmi rossi nazionali: la crisi della giustizia e la questione morale.Il presidente del Consiglio, in un comizio di ieri a Pescara, ha scandito che «nel Pd c´è una questione morale». Il Corriere della Sera con un articolo di fondo in prima pagina del vicedirettore Battista, ha inneggiato all´Espresso che ha pubblicato un´inchiesta sulle indagini giudiziarie di alcuni assessori del Comune di Firenze e alcune attendibili voci su una sorta di comitato d´affari sugli appalti in terra di Napoli. Il Tg1 di venerdì sera ha anch´esso registrato tra le primissime notizie l´inchiesta dell´Espresso ed ha intervistato in presa diretta il direttore di quel giornale, Daniela Hamaui.
Un´attenzione simile, del resto più che meritata dall´amica e collega che dirige il settimanale del nostro gruppo e dai suoi collaboratori, è del tutto insolita da parte d´un giornale che scia a slalom sui fatti e i misfatti e di un telegiornale che si fa giusto vanto di essere "super partes" anche se molti dei suoi ascoltatori non se ne accorgono.
Non ho mai letto un editoriale del Corriere e mai visto sugli schermi del Tg1 un collega di Repubblica o dell´Espresso complimentato o chiamato ad illustrare i servizi pubblicati, quando quei servizi documentavano la questione morale nei partiti e nei personaggi del centrodestra a cominciare dallo stesso Berlusconi. Non parlo di giudizi politici, parlo di inchieste sul malaffare. In questi anni ne abbiamo scritti a centinaia ma nessuno di essi ha avuto la possibilità di imporsi alla pubblica opinione al di fuori di quanti ci leggono (che per fortuna sono tanti).
È un vanto dei giornalisti del nostro gruppo di non guardare in faccia ai colori di bandiera di questo o di quello quando si parla di malaffare.
Giuseppe D´Avanzo è un nome per tutti. Ma è sospetto e sospettabile il rilievo che viene dato dalla stampa cosiddetta indipendente e dal servizio pubblico televisivo solo quando le inchieste riguardano la sinistra riformista e mai quando riguardano i personaggi del centrodestra.
Quanto ai giornali e ai giornalisti di centrodestra è inutile cercare qualche loro articolo che metta sotto esame i colori della propria parte. Non sono certo pagati per questo dai loro padroni.
C´è una questione morale che riguarda alcune persone del Pd che rivestono cariche pubbliche. Personalmente non ritengo che riguardi il sindaco di Firenze che per protestare la sua innocenza si è voluto incatenare davanti al cancello d´ingresso dell´edificio dove lavorano tutti i giornalisti del nostro gruppo. Incatenarsi mi sembra un gesto che sa di retorica ma capisco la sua sofferenza e le sue motivazioni. Ciò detto, sentenzieranno i magistrati la loro verità.
Il partito cui gli indagati appartengono non ha sovranità sugli incarichi istituzionali elettivi, non può obbligare alle dimissioni un governatore di Regione o un sindaco che derivano dagli elettori i propri poteri. Ma può (secondo me deve) sospendere dal partito in attesa di accertamenti le persone inquisite. A Firenze dovrebbe sospendere gli inquisiti dalle elezioni primarie alla carica di sindaco. A Napoli dovrebbe sospendere gli inquisiti, se e quando ne conosceremo i nomi, di un´inchiesta giudiziaria in corso. Così pure dovrebbe sospendere il governatore della Campania, anche lui da tempo sotto inchiesta.
Di quanto bolle in pentola alla Procura napoletana per ora non si sa molto. D´Avanzo ne ha ampiamente parlato in due recenti articoli dai quali deduco che ci sarebbe una sorta di "comitato d´affari" formato da politici tra i quali importanti nomi di centrodestra e di centrosinistra in combutta tra loro e, come referente napoletano, Antonio Saladino, che non ha niente a che vedere con il feroce Saladino delle gloriose figurine del cioccolato Perugina, ma è stato dal 1995 al 2006 (cioè per undici anni) il presidente per il Mezzogiorno della Società delle Opere, filiazione in affari di Comunione e Liberazione. Dove si vede che le (supposte) mele marce ci sono dovunque e quando si avvistano vanno messe da parte affinché non contagino le buone. Questo ci si aspetta da un partito guidato da persone perbene. Questo, anzi lo si reclama.
Dall´altra parte politica ci si aspetta poco o niente perché lì il malaffare sta al vertice il quale ovviamente non può bonificare gli altri suoi compagni di viaggio visto che, per definizione, non può bonificare se stesso.
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Delle Procure di Salerno e di Catanzaro e della crisi della giurisdizione che in quelle Procure ha avuto in questi giorni la sua immagine più inquietante, ha detto tutto con parole tanto sobrie quanto severe il presidente della Repubblica. Sembra che ci sia stata in quegli ambienti una sorta di ventata di follia, di vanità, di ripicca, di megalomania che ha fatto crollare in poche ore la credibilità dell´intero ordine giudiziario e del suo potere diffuso.Il ministro Guardasigilli Alfano chiede ora una riforma costituzionale bipartisan. Vedremo come si condurrà nelle prossime settimane. Sarebbe auspicabile che l´aggettivo "bipartisan" non venisse confuso con l´incitamento all´opposizione di approvare un manufatto della maggioranza con la sola facoltà di cambiare un paio di virgole e qualche punto esclamativo. Finora è stato così e questo spiega la risposta sempre negativa dell´opposizione.
C´è un punto che non richiede modifiche costituzionali e che a mio avviso dovrebbe essere affrontato: riportare in capo al procuratore del tribunale e al procuratore della corte d´appello l´esercizio dell´azione penale oggi diffusa in capo ai sostituti. Buona parte delle discrasie in corso nella magistratura inquirente derivano da questa parcellizzazione estremamente pericolosa che va a mio avviso abolita.
il Riformista 7.12.08
Lettera aperta a D'Alema
di Peppino Caldarola
Lettera (seria) aperta a Massimo D'Alema. «Caro Massimo, siamo stati amici. Poi è andata come è andata. Ti scrivo nel momento di maggior pericolo per te e in fondo per tutti noi, apolidi di sinistra che non vogliamo ammainare la bandiera rossa. Il Pd è fallito. Non c'è niente di nuovo sotto quell'insegna. Non ho mai capito bene perché dal partito riformista al partito di Prodi sei finito nel Partito democratico che tanto aborrivi. Talvolta penso che le tue scelte siano state un po' costrette dagli eventi e che l'eterna battaglia per farti fuori ti abbia costretto a incamminarti lungo sentieri a te sgraditi per allontanare i cecchini e portare in salvo te stesso e l'esercito di militanti che ti segue. Ora siamo arrivati alla fine del percorso. Dopo c'è il burrone. Puoi fare come Thelma e Louise, accelerare e prepararti al grande salto suicida, Puoi fermarti e riprendere il cammino a ritroso. A ogni curva c'è Di Pietro e i suoi pm pronti a impalarti. Veltroni lo sa e lascia fare, felice e contento. Capitò a Giacomo Mancini, capitò a Bettino Craxi, rischia di capitare anche a te. Fatti coraggio e prendi l'iniziativa. Butta fuori dal partito del Sud i mercanti, promuovi una nuova generazione e parti all'assalto di Roma. Tu vuoi restare nel Pse, vuoi un partito che difenda gli svantaggiati, ti piace discutere con quelli che contano, non disprezzi il tuo avversario storico. È una linea. Se stai fermo, questa volta ti distruggono. Io, da ex amico, ti difenderò, ma forse non basterà, tuo Peppino».
il Riformista 7.12.08
Il Ps francese è spaccato in due
Il Pd in mille pezzi
di Giuliano da Empoli
L'ufo Ségolène, una comunicatrice molto ambiziosa che il vecchio establishment dei cosiddetti elefanti vede come il fumo negli occhi. Attorno a lei ci sono tutti i più brillanti esponenti della nuova guardia riformista del partito
I socialisti francesi - si sa - sono gli unici progressisti europei più sconclusionati e preistorici di quelli italiani. Lo psicodramma del Congresso di Reims, con le due candidate leader, Martine Aubry e Ségolène Royal, separate da una manciata di voti e sull'orlo di una crisi di nervi, non ha migliorato la situazione. Proprio come il nostro Pd, il Ps francese è spaccato - sull'orlo di una scissione, sostengono alcuni. Se non altro però, oltre le Alpi gli schieramenti hanno il merito di essere chiari. Da una parte c'è l'ufo Ségolène, una comunicatrice ambiziosissima che il vecchio establishment dei cosiddetti elefanti vede come il fumo negli occhi. Attorno a lei ci sono tutti i più brillanti esponenti della nuova guardia riformista del partito: primi tra tutti il braccio destro Vincent Peillon e il portavoce Manuel Valls.
Dall'altra parte, attorno a Martine Aubry, l'irsuta figlia di Jacques Delors, si sono riuniti tutti i dinosauri che paralizzano il Partito socialista da tre lustri: Lionel Jospin e Laurent Fabius, Dominique Strauss-Kahn e Michel Rocard, Pierre Mauroy e lo stesso François Hollande, ex consorte della Giovanna d'Arco del Poitou-Charente. Gente che si conosce (e si odia) da una vita, ma che preferisce unirsi all'insegna del "Tout sauf Ségolène", qualsiasi cosa tranne Ségolène, piuttosto che essere spazzata via da una nuova era glaciale.
In apparenza è prima di tutto una disputa personale - e il Figaro Magazine si è divertito, la scorsa settimana, a disegnare una mappa dell'odio in casa socialista. Ma la questione va ben al di là della dimensione personale. In gioco c'è l'identità stessa del Partito Socialista. Una formazione vecchia di un secolo, che non si è mai adeguata fino in fondo alle regole della quinta repubblica. Un partito d'apparato, fatto di parlamentari e di consiglieri comunali, di sezioni e di militanti, che ha sempre fatto fatica ad adattarsi alla logica presidenzialista introdotta da De Gaulle.
Ségolène vorrebbe trasformarlo in una formazione più leggera, aperta sull'esterno, dotata di una leadership carismatica, proiettata in una dimensione di comunicazione e di campagna permanente. La Aubry e gli elefanti non ci stanno. Per loro le radici contano. E non a caso Martine ha impiegato la tribuna di Reims per rievocare la classe operaia come classe generale, provocando un brivido di nostalgia nei tanti socialisti che non si sono mai rimessi dai quattordici anni di realpolitik di François Mitterand.
Al di là dell'organizzazione, la frattura tra Ségolène e Martine affonda nella cultura politica dei socialisti francesi. Quando, a metà degli anni novanta, l'era mitterandiana è giunta al capolinea, il PS si è trovato di fronte a un bivio. Da una parte, avrebbe potuto scegliere di adeguare il proprio (vetusto) bagaglio ideologico alla concreta pratica di governo riformista impostata da Mitterand partecipando al movimento europeo della Terza Via che, in quegli anni, si incarnava in Tony Blair, Gerhard Schroeder e Romano Prodi.
Ma Lionel Jospin scelse una strada diversa: quella, ipocrita, del riformismo implicito che fa le riforme senza dirlo mentre continua a sbandierare il vessillo del superamento del capitalismo e dell'avvento di un altro mondo. Una strada che ha condotto il partito nel vicolo cieco nel quale si trova attualmente, passando per la catastrofica sconfitta al primo turno delle presidenziali del 2002. La Aubry - pasionaria delle 35 ore, numero due di Jospin quando era Primo Ministro - incarna la totale continuità di questa linea; Ségolène, invece, una discontinuità ancora un po' confusa, ma indiscutibile, che apre la prospettiva di un'allenza strategica con il MoDem del centrista François Bayrou.
Alla luce di queste considerazioni, non si può dire che quella del Ps francese spaccato in due sia una condizione ideale. Eppure, ha il merito della chiarezza: le opzioni sono due, nettamente distinte e alternative tra loro. Una situazione invidiabile per chi - come i sostenitori del Pd nostrano - assiste ogni giorno ad uno scontro sotterraneo e inesplicabile come certe guerre civili africane che vanno avanti per inerzia, senza che nessuno ricordi più perché sono iniziate, né si aspetti alcun beneficio dalla loro eventuale conclusione.