domenica 7 dicembre 2008

l’Unità 7.12.08
Decrescita
Un’occasione che non si deve perdere
di Loretta Napoleoni


Il movimento della decrescita è entrato in rotta di collisione con il verbo economico tradizionale, che incita gli abitanti del villaggio globale a consumare per uscire dalla crisi. Eppure la decrescita sembra essere la risposta istintiva di un'economia al collasso, che si riassesta attraverso i meccanismi classici della domanda e dell'offerta. A conferma i dati della disoccupazione, in netto aumento dovunque. Il Financial Times ha addirittura iniziato una prassi nuova: ogni sabato elenca i posti di lavoro «svaniti» durante la settimana. Nella City di Londra siamo ormai a quota 100 mila. La decrescita non è però circoscritta al settore finanziario - che ha perso negli ultimi due mesi 1.300 miliardi di dollari - ma coinvolge tutti, anche i settori più disparati: questa settimana a New York l'editoria ha tagliato il 25% dei posti di lavoro e Honda ha annunciato il ritiro dalla Formula Uno. Queste notizie apocalittiche ci devono far riflettere sul fallimento delle politiche anti-congiunturali dei governi: non è servito a nulla pompare più di 2 mila miliardi di dollari nel settore bancario internazionale.
E se la contrazione dell'economia fosse semplicemente un processo di assestamento necessario, che riporta l'economia ai valori reali, quelli veri, non più inflazionati dalla zavorra dei derivati e dalla bolla finanziaria? Più che di decrescita bisognerebbe parlare di economia sostenibile, senza sprechi. Latouche, il suo inventore, ce lo accenna quando scrive che il capitalismo non può convivere con una contrazione permanente dell'economia. Ma questo è vero per qualsiasi sistema economico, incluso quello marxista. La crisi del credito è dunque un'occasione da non perdere per rilanciare attraverso la decrescita una visione dell'economia sostenibile, che sfrutti e consumi le risorse ad un ritmo inferiore al loro rinnovamento. Un principio applicabile anche alle banche, poiché l'eccessivo indebitamento distrugge più denaro di quanto viene creato. Ed ecco un esempio illuminante: la simbiosi tra credito cooperativo e settore agricolo sostenibile. Il primo raccoglie il denaro tra i consumatori e lo investe nel secondo, che produce per la comunità in base ai bisogni di questa. Niente sprechi quindi; banca, produttore e consumatore sono a tutti gli effetti soci in affari. Peccato che la cooperazione economica piaccia poco ai nostri politici.

l’Unità 7.12.08
Tagli all’editoria. Un problema drammatico
di Vincenzo Vita


L’allarme è di quelli seri. Senza retorica. Dopo la bocciatura da parte del governo e della maggioranza degli emendamenti delle opposizioni tesi a ripristinare il Fondo per l’editoria e quello per lo spettacolo nel corso dei lavori sulla legge finanziaria nella commissione bilancio del Senato, il rischio chiusura per i settori più deboli è concreto. Dai teatri, alle attività musicali, alla produzione cinematografica e audiovisiva, alla danza. Ai giornali di cooperative, di editori non profit o di partito, ivi comprese le testate delle minoranze linguistiche e degli italiani all’estero. In quest’ultimo caso, poi, la maggioranza ha smentito sé stessa, bocciando gli emendamenti che aveva presentato o sottoscritto, resi pubblici in una conferenza stampa il 3 dicembre scorso. Sono 26 i quotidiani che rischiano davvero di chiudere subito, da Il Manifesto, a Liberazione, a Europa, a La Padania, al Secolo d’Italia, a Il Corriere Mercantile, a Bari sera, a La Voce di Mantova, a Carta, a Left, a Il salvagente; o che subiranno ridimensionamenti forti. Un centinaio entro un anno. Speriamo di sbagliare, ma c’è da temere che la realtà sia esattamente questa. Dopo il taglio del decreto Tremonti di luglio, che tra l’altro eliminava lo stesso diritto soggettivo delle testate ad avere i contributi, ripristinato in prima lettura dalla Camera dei deputati nel disegno di legge n. 1195 sullo sviluppo, ora in seconda lettura al Senato e tuttora a rischio. Taglio di 83 milioni di euro per il 2009 su 387 disponibili (già sotto la sufficienza, stimata in 589), di cui «solo» 305 predestinati a coprire i contributi indiretti - tariffe agevolate varie - sui quali la parte del leone viene fatta dai grandi gruppi editoriali quotati in borsa: Sole 24 ore, Corriere della Sera, Repubblica, ad esempio. Quindi, se non passa l’emendamento volto a rimettere un po’ di risorse nel Fondo, la capienza è -1, meno di zero. Mentre si sta discutendo nelle commissioni parlamentari competenti del regolamento di attuazione previsto dal citato decreto 112 (legge 133), che prefigura una sorta di riforma dell’editoria, auspicata dal sottosegretario Bonaiuti. Ma quale regolamento o quali evocati Stati generali dell’editoria di fronte alla scomparsa dei giornali, senza neppure aver provato a risparmiare davvero eliminando le provvidenze date ai presunti giornali di «movimenti politici», che sono tutt’altro o non vanno neanche in edicola? L’ultimo appello sarà tra qualche giorno, a partire da martedì prossimo, nel dibattito nell’aula del Senato sulla Finanziaria. Gli emendamenti su editoria, spettacolo e beni culturali saranno ripresentati. Mobilitiamoci. Il diritto all’informazione e al sapere è decisivo, è la premessa - come la libertà personale - per poter esercitare anche gli altri diritti. Che non finisca con la scena della distruzione della cultura di «Fahrenheit 451», ambientata magari sull’«Isola dei famosi».

Repubblica 7.12.08
Neonazisti e ultrà La nuova Europa ha un cuore nero
di Andrea Tarquini


La "Guardia ungherese" punta a raggiungere settemila adepti A Praga l´ultradestra vuole la "soluzione finale della questione zingara", evocando impunemente l´ideologia dell´Olocausto
Ungheria, Repubblica cèca, Slovacchia: tre giovani democrazie risorte dopo mezzo secolo di comunismo, da poco diventate Paesi membri della Ue, nelle quali l´estremismo di destra gode di crescente popolarità È organizzato in milizie, manifesta sentimenti antisemiti e razzisti. E a Bratislava è già insediato al governo

A Budapest sfilano in centro indossando l´uniforme nera, sventolano i gagliardetti delle Croci frecciate alleate di Hitler, giurano di salvare la patria dagli zingari, dal capitalismo e dagli ebrei. A Praga contattano ogni giorno i loro camerati tedeschi della Npd neonazista, e spesso affrontano la polizia in violenti scontri di guerriglia urbana. A Bratislava il loro partito è addirittura al governo, partner preferito ai democristiani per formare una coalizione dal premier socialdemocratico-populista Robert Fico.
Europa centrale, inverno 2008: mentre il più importante dei nuovi membri dell´Unione Europea, la Polonia, è una solida democrazia, una società dalla cultura democratica diffusa nella sua coscienza collettiva e dall´economia ancora in boom, in altri tre paesi membri della Ue, tre giovani democrazie risorte dopo mezzo secolo di comunismo e di colonialismo sovietico (Ungheria, Repubblica Cèca, Slovacchia), il neonazismo non è più solo uno spettro, né la minaccia violenta di minoranze arrabbiate ma marginali: è realtà quotidiana, è un modo di pensare che si diffonde nei salotti buoni, è una forza politica che ha imparato a sfidare la libertà sia con la violenza di piazza sia con successi elettorali e coalizioni. Diciannove anni dopo la caduta della Cortina di ferro, quelle tre giovani democrazie appaiono infettate da una voglia di ordine diventata mostro. E il mostro è un virus contagioso: nell´Europa senza frontiere, i successi magiari, cèchi e slovacchi possono dare esempio e forza ai suoi adepti ovunque nell´Unione.
L´Ungheria è il caso più appariscente della nuova sfida all´Europa. Jobbik, cioè "i migliori", si chiama il partito. Come sempre accade al fascismo, due volti vi convivono, il doppiopetto e il manganello. Il doppiopetto sono l´elegante look sportivo - camicia button down e pullover inglese - del suo leader Gábor Vona, o gli abiti chic della bionda, giovane, attraente Krisztina Morvai, avvocato e docente di giurisprudenza, ex attivista per i diritti delle donne e delle minoranze, convertita al sogno della destra nazionale. Il manganello si chiama Magyar Gárda, "guardia ungherese". È la milizia paramilitare del partito, conta oltre duemila aderenti, ma presto supererà i settemila. È organizzata in compagnie e reggimenti, i suoi membri entrandovi prestano giuramento di fedeltà assoluta come si fa in un esercito regolare. E si addestrano alle arti marziali e al tiro con le armi da fuoco.
Lo sfondo nazionale è desolante. Diciannove anni dopo la fine del comunismo, l´Ungheria è un´economia in crisi e soprattutto uno Stato sulla soglia della bancarotta. Solo iniezioni di liquidità somministrate in extremis dal Fondo monetario internazionale e dall´Unione Europea hanno salvato il governo socialdemocratico (postcomunista) del premier Péter Gyurcsany, ma il malcontento rimane. Fa da sedimento a una simpatia sempre più diffusa per l´ultradestra, ha avvertito di recente Paul Lendvai, decano dei corrispondenti del Financial Times, gentiluomo ungherese fuggito a Occidente durante il comunismo che da Vienna, nei decenni della Guerra fredda, era una delle fonti più attendibili su qualsiasi cosa accadesse o si preparasse nell´"altra Europa". Altre voci autorevoli sono purtroppo d´accordo: odio xenofobo, discriminazione, diffidenza verso minoranze e diversi, spiega la sociologa Maria Vasarhely, sono sempre più diffusi in ampi strati della popolazione. Venti ungheresi su cento, avverte il suo collega Pal Tamás, sui grandi temi della politica e della vita la pensano come l´ultradestra, e trenta su cento, secondo una sua indagine scientifica, sono da considerare antisemiti.
Manganello e doppiopetto agiscono in sinergia, nell´Ungheria della crisi, conquistano la ribalta ogni giorno nella Budapest splendida ma dove la nuova povertà e il degrado urbano, con troppe facciate di palazzi asburgici diroccate anziché risanate come in Polonia, mostrano che qualcosa non va. A Hoesoek Tére, la piazza degli eroi, luogo-simbolo della nazione, la Magyar Gárda sfila spesso e volentieri. Oppure conduce giorno e notte pattuglie, per intimidire gli zingari. O suoi simpatizzanti lanciano escrementi, pietre e uova marce contro il teatro della comunità ebraica. «Il problema dei senzatetto e degli zingari si può risolvere diffondendo batteri della tubercolosi», affermano i suoi ultrà, «perché dobbiamo difenderci». Vona e la signora Morvai no, non giungono a tanto. Ma affermano a ogni comizio: «Chi sono gli zingari? Amano l´Ungheria o no? Hanno voglia di lavorare? Vogliono adattarsi e assimilarsi o no? Possiamo fidarci?». E più spesso ancora diffondono l´idea che nel dopo Guerra fredda i politici dei partiti democratici hanno «trasformato l´Ungheria in un Paese sconfitto, una colonia dell´Occidente». Siamo a un passo dal mito mussoliniano della "vittoria mutilata".
La Grande Ungheria è il loro sogno, il rifiuto del Trattato di Trianon che nel 1918 tolse ai magiari (parte dell´Impero asburgico) i territori ora slovacchi o romeni è slogan e bandiera. Erano le idee-forza della dittatura dell´ammiraglio Miklos Horthy, alleato di Hitler, e degli estremisti delle Croci frecciate di Imre Szalasi.
Ma nell´ex Europa asburgica il nuovo fascismo si diffonde anche dove le tradizioni democratiche dovrebbero essere più solide. Guardiamo poco più a ovest, nella splendida, prospera Praga, capitale di un Paese devastato dal mezzo secolo bolscevico e ora tornato al capitalismo ma anche segnato dalla corruzione e dall´instabilità politica. Il Partito dei lavoratori (Ds, guidato da Tomás Vandas) ha chiare matrici neonaziste e contatti con la Npd tedesca. Qualche settimana fa nella città di Litvinov ci sono voluti oltre mille poliziotti in assetto di guerra per affrontare in una notte di guerriglia urbana almeno settecento squadristi del Ds decisi a dare l´assalto a un quartiere abitato da gitani.
I loro slogan sono ancor più duramente anti-occidentali di quelli dei camerati ungheresi: «Alzati, lotta contro il liberalismo», titolava uno degli ultimi numeri di Delnické listy, il loro organo. Il partito neofascista cèco è in prima fila, come i comunisti nostalgici dell´occupazione sovietica, contro i piani Nato sullo scudo difensivo in Cèchia e Polonia per affrontare i missili iraniani. E sull´esempio magiaro, anche nella Repubblica cèca un altro gruppo, il Partito nazionale, ha fondato una sua milizia paramilitare. Guidato da Petra Edelmannova, il partito vuole presentarsi alle elezioni politiche del 2010 proponendo la «soluzione finale della questione degli zingari». Linguaggio senza pudore, che evoca esplicitamente quello del nazismo hitleriano nella «soluzione finale», cioè l’Olocausto.
Il governo cèco non vuole restare a guardare, anzi non può permetterselo anche perché tra poco gli toccherà la presidenza di turno dell´Unione Europea. Per cui sta studiando la possibilità giuridica di una messa al bando dei nuovi fascisti. Una possibilità del genere è lontana anni luce a Bratislava, la capitale della Slovacchia. Perché qui Robert Fico, primo ministro e leader del locale partito socialdemocratico (schierato su posizioni di sinistra nazionalpopulista, era stato persino temporaneamente sospeso dal gruppo socialista all’Europarlamento), ha scelto di governare e garantirsi il potere alleandosi non con i democristiano-conservatori bensì con lo Sns, il Partito nazionalista slovacco di estrema destra. Lo guida Jan Slota, politico di provincia che ama abbandonarsi a eccessi alcolici per poi scatenarsi ancor meglio nei comizi. Propone «la frusta» per risolvere (rieccoci) «il problema degli zingari», sogna di diventare europarlamentare per «rendere di nuovo vive le acque marce e sporche di Bruxelles e di Strasburgo». I suoi bersagli preferiti sono, oltre ai gitani, la minoranza ungherese e gli omosessuali.
Il premier Fico tace, volta la testa dall´altra parte. Si preoccupa solo di litigare col governo ungherese, perché l´ultima partita di calcio tra squadre dei due paesi, a Dunajska Streda, si è conclusa con una notte di duri scontri tra teppisti magiari e slovacchi, tutti legati alle due ultradestre. E alla fine la polizia slovacca per una volta è intervenuta duramente, ma pestando quasi soltanto i violenti ungheresi.
L´unica, debole speranza dell´Unione Europea è questa: che la furia nazionalista dei nuovi fascisti nell´Europa ex asburgica sia talmente virulenta da indurli a volte a considerarsi tra loro nemici mortali anziché alleati. Ma anche in questo il rovescio della medaglia è l´abdicazione del potere statale. Dopo la notte di sangue a Dunajska Streda, la Magyar Gárda ha presidiato e chiuso i valichi di frontiera con la Slovacchia; nessuno glielo ha impedito. I nuovi radicalismi, denunciava l´altro giorno Joseph Croitoru sulla Frankfurter Allgemeine, sono un´ipoteca grave e imprevista sul futuro delle tre giovani democrazie europee. L´epidemia è scoppiata non in paesi lontani, ma all’interno dei confini aperti della Ue e della Nato.

Repubblica 7.12.08
Una deriva avviata dai nazionalisti russi
di Leonardo Coen


MOSCA. Terzo vagone di un convoglio della metropolitana, in viaggio verso la stazione della Biblioteca Lenin, 22 novembre. Tre giovani skinhead circondano un passeggero, sui trentacinque anni. Si chiama Mikhail Altshuller, un cantautore abbastanza noto nella comunità ebraica di Mosca: è infatti il solista e il direttore del "Dona Yiddish Song Group", che gode di ottima reputazione nell´ambiente musicale internazionale, ha pure vinto qualche festival. Uno dei tre si rivolge al barbuto Altshuller e lo apostrofa. Subito dopo, comincia un sistematico e feroce pestaggio: i tre picchiano e gridano slogan nazionalisti. Altshuller finisce all´ospedale. La polizia ferma due sospetti.
Pochi giorni dopo, il primo di dicembre, viene trovato il cadavere di un azero di venticinque anni: ucciso a coltellate vicino alla stazione Universitiet, non lontano dalla Collina dei Passeri. Ultimo delitto di una lunga serie di attacchi xenofobi che sinora hanno causato 114 vittime e ferito 357 persone (bilancio aggiornato alla fine di ottobre). Nei primi dieci mesi di quest´anno il numero delle aggressioni a sfondo razzista è cresciuto di una volta e mezzo rispetto al 2007.
L´attività di prevenzione della polizia e dell´Fsb, i servizi federali di sicurezza, dunque, non basta ad arginare il fenomeno. I media danno grande risalto al processo che in questi giorni, proprio a Mosca, vede alla sbarra una gang di neonazisti accusati di ventidue omicidi e dodici attentati. La Russia post-comunista è animata da virulenti movimenti di estrema destra che raggruppano un largo spettro ideologico: alcuni fanno riferimento al nazismo, altri al fascismo o al nazional-bolscevismo. Su questi filoni si innescano i movimenti degli skinhead e quelli che si riconoscono nella controcultura giovanile di estrema destra, sino alle correnti neopagane e ariane. Lungi dall´essere arcaica, l´estrema destra russa rivela indirettamente i profondi sconvolgimenti con cui ha a che fare il Paese da due decenni, a partire dalla necessità di riformare una nuova identità collettiva. Secondo alcune stime, i naziskin in Russia sono circa sessantacinquemila: la loro ideologia è profondamente permeata di razzismo, l´attività principale è la caccia all´immigrato (diciassette milioni, di cui cinque clandestini). Gli «intrusi», come vengono bollati gli immigrati, rappresentano la forza lavoro più sfruttata e indifesa. «Uzbeki, kirghizi e tagiki - si legge in un recente rapporto Unicef - sono gruppi a rischio la cui situazione è molto prossima alla schiavitù». Per forza: nella logica xenofoba russa sono i «non slavi», anzi, i «nemici della razza superiore slava». Poco importa se sino a diciotto anni fa facevano parte dell´Unione Sovietica: emancipandosi dalla Russia sono diventati stranieri di serie B perché asiatici. Anche gli stessi cittadini della Federazione Russa, come i daghestani e i ceceni, condividono questo destino di prede.
Più della metà degli omicidi a sfondo razziale sono stati commessi a Mosca e nella sua regione. L´altro grande polo xenofobo è rappresentato da Pietroburgo e dalla sua regione, che ha conservato il nome sovietico di Leningrado. Tuttavia, poco alla volta, la piaga si è estesa: dopo aver raggiunto Volgograd, Nizhnij Novgorod, Jaroslav, Kaliningrad, la violenza razzista ha infettato le grandi città della Siberia e dell´Estremo Oriente, dove l´immigrazione è massiccia. Il tamtam è Internet, la "bibbia" era sino a metà degli anni Novanta la rivista Rasato a zero. Oggi le pubblicazioni si sono moltiplicate: Combattente di strada, La volontà russa, La resistenza russa, La resistenza bianca, Martelli, Screwdriver, La Cosa 88 (il numero che in gergo identifica Hitler). Titoli che sono un programma.

Corriere della Sera 7.12.08
La guerra e la morte, l'amore e l'odio: i trenta capolavori della letteratura antica proposti in una nuova veste
Da Omero a Orazio, i padri dell'Occidente
L'attualità degli autori che hanno dato un pensiero (e una coscienza) all'uomo
di Armando Torno


Walter Benjamin sosteneva nel saggio dedicato al collezionismo dei libri che non sono i lettori a preservarli nel tempo ma, al contrario, i tomi accantonati conserveranno la memoria degli uomini che li hanno raccolti. Non salviamo i libri ma siamo salvati dal ricordo che abbiamo lasciato tra le pagine, perché noi «viviamo in loro ». Applicando questo felice paradosso al mondo greco e latino, potremmo credere che tutti quegli autori che vanno da Omero alla caduta dell'impero romano, fioriti nell'aureo millennio e mezzo dell'intelligenza occidentale, consentono ancora a noi oggi di avere un pensiero, un gusto, un'anima. Senza saperlo, ogni giorno ripercorriamo le strade battute dalle loro emozioni che misteriosamente non riescono a svanire. Chi desidera fare a meno della letteratura antica assomiglia a un tale che ha deciso di non credere più a se stesso.
Per questi semplici motivi, e per altri più complessi, una collana di autori greci e latini che riproponga trenta volumi essenziali, che vanno cronologicamente dall'Iliade di Omero al Libro dei sogni di Artemidoro di Daldi, non rappresenta un recupero archeologico di curiosità o di ricordi scolastici ma più semplicemente uno specchio dove è possibile osservare noi stessi. Quando vi capiterà di leggere nell'Odissea la vicenda dei compagni di Ulisse trasformati in porci da Circe, ricordatevi che non è avvenuto alcun sortilegio: la dea-maga ha semplicemente riconosciuto la loro natura. E se siete innamorati, avrete senz'altro rivissuto l'impulso egoistico che Catullo trasformò nei Carmina in poesia per sempre: «Vivamus, mea Lesbia, atque amemus, /rumoresque senum severiorum/ omnes unius aestimemus assis.
/Soles occidere et redire possunt: / nobis cum semel occidit brevis lux, / nox est perpetua una dormienda». Parole che diventano, tradotte senza poter ricreare i sussurri e gli ammiccamenti del testo latino: «Viviamo, mia Lesbia, e amiamo,/ e le prediche dei vecchi severi/ stimiamole, tutte, quanto un soldo bucato./ I soli possono tramontare e tornare;/ noi, una volta caduta la nostra breve luce,/ abbiamo davanti il sonno di una notte perpetua» (V, 1-6).
E che dire di Petronio e di quel Satyricon che Nietzsche amava più dei Vangeli? In quelle pagine non si descrivono gli uomini come angioletti, anzi questo narratore latino di cui sono rimaste scarsissime notizie biografiche e che aveva scelto di vivere di notte, ritrae impietosamente — tra le infinite situazioni — gli arricchiti di ogni tempo, dei quali Trimalcione resta patrono e simbolo. La volgarità riesce a tracimare dalle pagine, diventa lingua, odore, ideologia. Alla fine dell'episodio della cena un lettore potrebbe concludere: senza il porco non si ragiona, se manca il maiale per intere categorie sociali è la fine.
Non c'è stato grande spirito dell'Occidente che abbia ignorato i classici. Niccolò Machiavelli messo in disparte trovò le sue ragioni di vita in Tito Livio, Napoleone viaggiava sempre con un'edizione portatile delle Vite di Plutarco, Voltaire aveva nella sua biblioteca tutti i possibili classici antichi e si dimenticò di completare l'Encyclopédie, alla quale diede idee e articoli. E che dire di Beethoven? Teneva sul suo tavolo un busto di Bruto, pugnalatore di Cesare, come simbolo di libertà. Michel de Montaigne, una delle più fascinose anime del Rinascimento, rinunciò alle cariche pubbliche e agli onori di corte per chiudersi nel suo castello a meditare i classici antichi. Credeva, quasi sicuramente con ragione, che in essi fossero presenti tutte le notizie necessarie per conoscere l'uomo.
Ma per quanto possa continuare il nostro elenco non sarà possibile esaurirlo. Copernico ebbe l'intuizione che fonda il mondo moderno in alcuni scritti greci che non sono ancora ben identificati; quasi sicuramente egli partì dai testi pitagorici, da Archita in particolare, dove il sistema eliocentrico era una realtà. Non potremmo immaginare né Shakespeare né Leopardi né Erasmo senza le loro letture di autori antichi, né pensare alla filosofia contemporanea senza far ricorso a quello che si discusse ad Atene circa due millenni e mezzo fa. E quando ascoltiamo discorsi di persone tronfie che si credono indispensabili, vale la pena meditare su quanto scrisse l'imperatore Marco Aurelio in quella breve operetta privata che conosciamo impropriamente con il nome di Ricordi: «Tra poco avrò dimenticato tutto, tra poco tutti mi avranno dimenticato». E chi non ha verificato almeno una volta nella vita quei singhiozzi che un deluso Ovidio lasciò con impareggiabile grazia nelle sue pagine? Se volessimo riassumerli in una frase per compendiare le diverse situazioni, potremmo scrivere: finché sarai fortunato conterai molti amici, quando le cose cambieranno resterai solo.
Poi c'è Orazio, con quella sua morale autosufficiente che nelle
Odi invita l'uomo a cogliere l'attimo fuggente. È lui l'inventore di quel «carpe diem» che non riesce a tramontare (e che ispira ancora pellicole di successo). Di più: a volte irrita il lettore per taluni atteggiamenti deliziosamente insulsi, ma è attualissimo quando scrive dopo «carpe diem» le seguenti parole: «quam minimum credula postero», ovvero: «confidando il meno possibile nel futuro ». Sembrano concetti coniati pensando ai crolli di Borsa o a obbligazioni che si trasformano nel volgere di poche ore in polvere. Certo, nei trenta titoli che dicevamo ci sono anche i tragici e gli storici greci, c'è Cicerone, non mancano San Paolo e tanti altri. In questa pagina, pur saltellando tra autori ed emozioni, non riusciamo che a ribadire la loro utilità per vivere e per capirsi. E a sorridere pensando che, nonostante gli sforzi dei professori, non sono ancora morti.
Per concludere: quando sentite i politici parlare di patria e di sacrifici necessari, quando taluni esaltano quelle urgenze che non fanno abbassare le tasse, ricordatevi che Aristofane nel suo Pluto scrisse: «Patria è sempre dove si prospera ». Manzoni riprese il concetto nell'ultimo capitolo de I promessi sposi e ribadì — in pieno Risorgimento — per bocca di don Abbondio: «La patria è dove si sta bene».

Corriere della Sera 7.12.08
Il partito fai da te
Timori del leader per la direzione del 19. Il dalemiano Cuperlo: partito da costruire
Veltroni e il rischio «balcanizzazione» Un sondaggio lo gela: Pd al 28%
Da Firenze ai 54 ribelli: ognuno fa per sé. Il segretario: ci vogliono all'angolo
di Maria Teresa Meli


Stava riuscendo a far risalire la china al partito. Tenacemente, un passo alla volta, ma sempre un passo avanti.
Ora però la bufera giudiziaria che si è abbattuta sul Pd rischia di vanificare il lavoro di Veltroni.
L'ultimo sondaggio riservato è arrivato a largo del Nazareno l'altro ieri e ha destato un primo, forte, segnale d'allarme. Dopo le vicende di Napoli e Firenze il partito è calato di due punti e mezzo in percentuale nel giro di una settimana: dal 30,5 è tornato a quel 28 da cui il segretario lo aveva allontanato già alla fine d'ottobre. Ed è vero che Velt roni continua ad avere un indice di gradimento più alto del suo partito — è sopra del 9,3 rispetto al Pd — ma questa è una magra consolazione per un segretario che aveva cominciato a vedere la luce fuori dal tunnel della sconfitta elettorale e che ora deve ricominciare tutto daccapo. E così anche la direzione del 19, che per il leader si profilava come una passeggiata, visto che i dalemiani sembravano propensi a non dare battaglia, ma, piuttosto, a siglare una tregua, potrebbe diventare più insidiosa del previsto.
Un sindaco grande amico di Veltroni che si incatena davanti a un giornale senza neanche avvertire il leader, un presidente di Regione che si rifiuta di dimettersi e di andare al chiarimento con il suo segretario, un candidato a primo cittadino di Firenze indagato che voleva ugualmente partecipare alle primarie (che però dopo gli ultimi fatti verranno sospese), un documento che chiede ai vertici del Pd di cambiare registro che è stato elaborato da alcuni parlamentari dalemiani, Gianni Cuperlo e Barbara Pollastrini in testa, ma è firmato anche da un gruppetto di deputati veltroniani... Ecco, questi sono i segnali allarmanti che prefigurano il rischio balcanizzazione o di partito «fai da te» per il Pd. Senza contare che la ormai stucchevole contesa Veltroni-D'Alema, invece di cedere il passo, viste le altre emergenze, resta lì sospesa sopra il Pd.
Ne è convinto Peppino Caldarola, il quale, anzi, ritiene che la guerra tra il segretario e l'ex ministro degli Esteri si svolga adesso anche a colpi di inchieste e indagini. E infatti sul Giornale
di ieri Caldarola scriveva che Veltroni, «quasi vent'anni dopo Mani Pulite », pensa di «costruire la propria fortuna e di liquidare il suo amico-nemico» D'Alema con «la definitiva battaglia per la questione morale». Una battaglia che a Caldarola ricorda quella «finale contro Bettino Craxi» che venne condotta da Achille Occhetto negli anni, appunto, di Tangentopoli.
In questo clima i dirigenti del Pd sembrano convincersi che dietro le loro sventure si celi una sorta di complotto. Come spiega il segretario organizzativo del partito Beppe Fioroni, che, dopo l'inevitabile premessa («i magistrati stanno facendo il loro mestiere»), si dice «preoccupato per le strumentalizzazioni pesantissime che vengono fatte su queste vicende ». E non si tratta solo delle dichiarazioni di Silvio Berlusconi, che l'esponente del Partito democratico liquida così: «Il Cavaliere è come il bue che dice cornuto all'asino». C'è anche Gelli, che «ha detto che bisogna eliminare Veltroni».
Dunque? Dunque, secondo Fioroni e tutti i più alti dirigenti del centrosinistra, «è in atto un'offensiva contro il Pd da parte dei poteri forti di questo paese a cui il nostro partito dà fastidio: loro vorrebbero che tornasse a essere una cosa tipo ex dc ed ex pci». Anche il segretario è convinto che ci sia chi voglia «attaccare il Pd e metterlo all'angolo». Ma è altrettanto convinto che il Pd non esploderà e che anzi c'è il modo e il tempo per farlo ripartire. A patto che si porti avanti «un'iniziativa politica innovatrice». Ed è questo che Veltroni proporrà alla direzione del 19, dettando la piattaforma programmatica del "suo" Pd, con «chiarezza», perché non possano esservi dei "ni", ma solo dei sì o dei no. Certo ora tutto è più difficile. Ed è probabile che in quella riunione si sentiranno le critiche di chi, come Gianni Cuperlo, ritiene che il partito non c'è ancora e che «bisognerebbe costruirlo».

Repubblica 7.12.08
Campane d’allarme e trombe stonate
di Eugenio Scalfari


Da un partito guidato da persone perbene ci si aspetta che le mele marce siano messe da parte
Non esisterà più un capitalismo come quello che abbiamo conosciuto, basato soprattutto sui consumi

Non c´è un solo allarme rosso sul quale occorra tener fisso lo sguardo per comprenderne le cause e prevederne gli effetti con quotidiano monitoraggio. Ce ne sono tre, che insidiano la nostra vita dei prossimi mesi alimentando le nostre incertezze e i nostri timori.
Due hanno dimensioni nazionali e sono l´allarme sul funzionamento della giustizia e quello che viene definito la questione morale. Il terzo ha dimensione mondiale ed è la crisi dell´economia, la recessione americana diffusa ormai su tutto il pianeta, il pericolo che la recessione si trasformi in deflazione e che questa degradi ulteriormente in depressione.
La stampa americana parla ormai correntemente di «great depression, part 2» riferendosi a quella del ´29, le cui conseguenze devastarono gli Stati Uniti e l´Europa per otto anni. Ce ne vollero poi altri due affinché cominciasse un nuovo ciclo di crescita economica il cui mostruoso motore fu l´industria degli armamenti e la guerra scoppiata nel 1939, con i suoi milioni e milioni di morti, compresi quelli di Hiroshima e Nagasaki e lo sterminio dell´Olocausto. Proprio per queste sue terrificanti dimensioni comincerò queste mie note domenicali dal terzo allarme rosso. Me ne sto occupando ormai da alcuni mesi ma ogni giorno accadono fatti nuovi e un aggiornamento critico è dunque necessario.
Negli undici mesi fin qui trascorsi dal gennaio 2008 gli Stati Uniti sono in recessione, dapprima sottotraccia, poi esplosa a giugno con la crisi immobiliare. I sei mesi passati da allora hanno visto i listini di Wall Street perdere più del 50 per cento del loro valore e poiché i cittadini di quel paese hanno una familiarità con la Borsa sconosciuta nel resto del mondo ne è derivato un impoverimento, in parte virtuale ma in parte reale, che ha inciso sui consumi e sugli investimenti.
L´effetto, in un paese ad economia liberista, si è ripercosso sull´occupazione ed è stato un crescendo di mese in mese. Allo stato attuale dei fatti sono andati distrutti in undici mesi un milione e centomila posti di lavoro, dei quali 200.000 in ottobre e 536.000 in novembre. Un´accelerazione spaventosa che, secondo le previsioni più aggiornate, supererà nel primo semestre del 2009 i quattro milioni di persone.
Quando Obama e i suoi consiglieri affermano che il peggio deve ancora venire pensano esattamente a questo: lo spettro della disoccupazione di massa e quindi una diminuzione del reddito, specie nei ceti e per le etnie più deboli, ma non soltanto. Il saldo tra questa distruzione del reddito e l´apparente beneficio della discesa dei prezzi (dovuta appunto al crollo della domanda) sarà fortemente negativo, deprimerà i consumi e gli investimenti, manderà in fallimento decine di migliaia di aziende come in parte sta già accadendo.
Tra tanti germi negativi che l´America ha già disseminato nel resto dell´Occidente, l´effetto principale sta nel fatto che il motore americano si è ingolfato e così resterà a dir poco fino al 2011. Ma poi ricomincerà a tirare come prima?
Joseph Stiglitz in un´intervista pubblicata ieri sul nostro giornale, dà risposta negativa a questa domanda. Il capitalismo americano (e sul suo modello tutto il capitalismo internazionale) ha vissuto da decenni sulle bolle speculative. Sono state le bolle a far battere al massimo i pistoni del motore americano, locomotiva di tutto il resto del mondo. Le bolle, cioè il credito facile, cioè la speculazione.
Ma le bolle, dice Stiglitz, dopo la durissima crisi che stiamo vivendo non si ripeteranno più. Non nella dimensione che abbiamo visto all´opera negli ultimi anni. E quindi non esisterà più un capitalismo come quello che abbiamo conosciuto, basato per quattro quinti sui consumi.
Subentrerà probabilmente un capitalismo basato sugli investimenti e su una redistribuzione della ricchezza mondiale e, all´interno dei vari paesi, della ricchezza tra i vari ceti sociali. Si capovolgerà lo schema (finora imperante) che vede la redistribuzione del reddito e della ricchezza come una conseguenza dipendente dalla produzione del reddito e dei profitti. Sarà invece la redistribuzione a mettere in moto la produzione e i pistoni del motore economico.
Ricordo a chi non lo sapesse o l´avesse dimenticato che fu l´allora giovane liberale Luigi Einaudi a propugnare (era il 1911) un´imposta unica basata sui consumi e un´imposta patrimoniale di successione che al di là d´una certa soglia di reddito passasse i patrimoni con un´aliquota del 50 per cento da impiegare per ridistribuire socialmente la ricchezza. Forse, con un secolo di ritardo, ci si sta dirigendo verso soluzioni di questo tipo. Lo chiameremo ancora capitalismo? Oppure come?
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Il nostro governo e il nostro ministro dell´Economia sostengono che in Italia le cose andranno meglio perché le banche qui da noi sono più solide che altrove e i conti pubblici «sono in sicurezza». Salvo il debito pubblico, ma la colpa di quella voragine fu creata negli anni Ottanta e quindi riguarda la precedente generazione.
Quest´ultimo punto del ragionamento è esatto; che le nostre banche siano solide è una fondata speranza; ma che le nostre prospettive siano migliori degli altri paesi è una bufala delle tante che il governo ci propina. Noi non stiamo meglio, stiamo decisamente peggio, ci tiene ancora a galla l´euro senza il quale staremmo da tempo sott´acqua. Stiamo peggio perché non abbiamo un soldo da spendere.
Quelli che avevamo venivano da una forte azione di recupero dell´evasione fiscale che ci dette nel 2006-7 più di 20 miliardi da spendere. Questa fonte si è inaridita. Il fabbisogno è aumentato, l´abolizione dell´Ici ha distrutto un reddito tributario di 3 miliardi e mezzo l´anno; l´Alitalia tricolore è costata all´erario 3 miliardi (se basteranno).
Sicché Tremonti non ha un soldo. Per mandare avanti il motorino italiano ha dovuto redigere nel luglio scorso una legge finanziaria gremita di tagli. Per far sopravvivere il sistema ha concesso la settimana scorsa un´elemosina di 6 miliardi "una tantum" alle famiglie e alle imprese; con qualche spicciolo aggiuntivo per far tacere le invettive del Papa e dei vescovi per i tagli alle scuole cattoliche (ma quelli alla scuola statale e all´Università sono rimasti tutti ferocemente in piedi).
Anche in Italia tuttavia, come altrove, la crisi finora ha soltanto graffiato la pelle ma non ha ferito né i muscoli né i tendini. Si consuma un po´ meno, si investe poco o nulla (ma questa latitanza degli investimenti privati e pubblici è da anni una costante).
Il peggio deve venire dice Tremonti ed ha purtroppo ragione. La diagnosi è giusta. La terapia non c´è per ragioni di forza maggiore determinati dagli errori commessi sei mesi fa. Come uscirne dovrebbero dircelo il premier e il ministro dell´Economia. Certo non se ne esce con gli inviti ai risparmiatori a sottoscrivere i Bot. Tanto meno facendone colpa all´opposizione. Per Tremonti la via d´uscita sembrerebbe quella di metter le mani sul risparmio postale della Cassa depositi e prestiti. Si sperava che il presidente della Cdp, Franco Bassanini, si opponesse a quel progetto così arrischiato, ma sento dire che ne è stato addirittura uno degli ispiratori. Se fosse vero ne sarei stupefatto.
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Tratterò insieme i due allarmi rossi nazionali: la crisi della giustizia e la questione morale.
Il presidente del Consiglio, in un comizio di ieri a Pescara, ha scandito che «nel Pd c´è una questione morale». Il Corriere della Sera con un articolo di fondo in prima pagina del vicedirettore Battista, ha inneggiato all´Espresso che ha pubblicato un´inchiesta sulle indagini giudiziarie di alcuni assessori del Comune di Firenze e alcune attendibili voci su una sorta di comitato d´affari sugli appalti in terra di Napoli. Il Tg1 di venerdì sera ha anch´esso registrato tra le primissime notizie l´inchiesta dell´Espresso ed ha intervistato in presa diretta il direttore di quel giornale, Daniela Hamaui.
Un´attenzione simile, del resto più che meritata dall´amica e collega che dirige il settimanale del nostro gruppo e dai suoi collaboratori, è del tutto insolita da parte d´un giornale che scia a slalom sui fatti e i misfatti e di un telegiornale che si fa giusto vanto di essere "super partes" anche se molti dei suoi ascoltatori non se ne accorgono.
Non ho mai letto un editoriale del Corriere e mai visto sugli schermi del Tg1 un collega di Repubblica o dell´Espresso complimentato o chiamato ad illustrare i servizi pubblicati, quando quei servizi documentavano la questione morale nei partiti e nei personaggi del centrodestra a cominciare dallo stesso Berlusconi. Non parlo di giudizi politici, parlo di inchieste sul malaffare. In questi anni ne abbiamo scritti a centinaia ma nessuno di essi ha avuto la possibilità di imporsi alla pubblica opinione al di fuori di quanti ci leggono (che per fortuna sono tanti).
È un vanto dei giornalisti del nostro gruppo di non guardare in faccia ai colori di bandiera di questo o di quello quando si parla di malaffare.
Giuseppe D´Avanzo è un nome per tutti. Ma è sospetto e sospettabile il rilievo che viene dato dalla stampa cosiddetta indipendente e dal servizio pubblico televisivo solo quando le inchieste riguardano la sinistra riformista e mai quando riguardano i personaggi del centrodestra.
Quanto ai giornali e ai giornalisti di centrodestra è inutile cercare qualche loro articolo che metta sotto esame i colori della propria parte. Non sono certo pagati per questo dai loro padroni.
C´è una questione morale che riguarda alcune persone del Pd che rivestono cariche pubbliche. Personalmente non ritengo che riguardi il sindaco di Firenze che per protestare la sua innocenza si è voluto incatenare davanti al cancello d´ingresso dell´edificio dove lavorano tutti i giornalisti del nostro gruppo. Incatenarsi mi sembra un gesto che sa di retorica ma capisco la sua sofferenza e le sue motivazioni. Ciò detto, sentenzieranno i magistrati la loro verità.
Il partito cui gli indagati appartengono non ha sovranità sugli incarichi istituzionali elettivi, non può obbligare alle dimissioni un governatore di Regione o un sindaco che derivano dagli elettori i propri poteri. Ma può (secondo me deve) sospendere dal partito in attesa di accertamenti le persone inquisite. A Firenze dovrebbe sospendere gli inquisiti dalle elezioni primarie alla carica di sindaco. A Napoli dovrebbe sospendere gli inquisiti, se e quando ne conosceremo i nomi, di un´inchiesta giudiziaria in corso. Così pure dovrebbe sospendere il governatore della Campania, anche lui da tempo sotto inchiesta.
Di quanto bolle in pentola alla Procura napoletana per ora non si sa molto. D´Avanzo ne ha ampiamente parlato in due recenti articoli dai quali deduco che ci sarebbe una sorta di "comitato d´affari" formato da politici tra i quali importanti nomi di centrodestra e di centrosinistra in combutta tra loro e, come referente napoletano, Antonio Saladino, che non ha niente a che vedere con il feroce Saladino delle gloriose figurine del cioccolato Perugina, ma è stato dal 1995 al 2006 (cioè per undici anni) il presidente per il Mezzogiorno della Società delle Opere, filiazione in affari di Comunione e Liberazione. Dove si vede che le (supposte) mele marce ci sono dovunque e quando si avvistano vanno messe da parte affinché non contagino le buone. Questo ci si aspetta da un partito guidato da persone perbene. Questo, anzi lo si reclama.
Dall´altra parte politica ci si aspetta poco o niente perché lì il malaffare sta al vertice il quale ovviamente non può bonificare gli altri suoi compagni di viaggio visto che, per definizione, non può bonificare se stesso.
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Delle Procure di Salerno e di Catanzaro e della crisi della giurisdizione che in quelle Procure ha avuto in questi giorni la sua immagine più inquietante, ha detto tutto con parole tanto sobrie quanto severe il presidente della Repubblica. Sembra che ci sia stata in quegli ambienti una sorta di ventata di follia, di vanità, di ripicca, di megalomania che ha fatto crollare in poche ore la credibilità dell´intero ordine giudiziario e del suo potere diffuso.
Il ministro Guardasigilli Alfano chiede ora una riforma costituzionale bipartisan. Vedremo come si condurrà nelle prossime settimane. Sarebbe auspicabile che l´aggettivo "bipartisan" non venisse confuso con l´incitamento all´opposizione di approvare un manufatto della maggioranza con la sola facoltà di cambiare un paio di virgole e qualche punto esclamativo. Finora è stato così e questo spiega la risposta sempre negativa dell´opposizione.
C´è un punto che non richiede modifiche costituzionali e che a mio avviso dovrebbe essere affrontato: riportare in capo al procuratore del tribunale e al procuratore della corte d´appello l´esercizio dell´azione penale oggi diffusa in capo ai sostituti. Buona parte delle discrasie in corso nella magistratura inquirente derivano da questa parcellizzazione estremamente pericolosa che va a mio avviso abolita.

il Riformista 7.12.08
Lettera aperta a D'Alema
di Peppino Caldarola


Lettera (seria) aperta a Massimo D'Alema. «Caro Massimo, siamo stati amici. Poi è andata come è andata. Ti scrivo nel momento di maggior pericolo per te e in fondo per tutti noi, apolidi di sinistra che non vogliamo ammainare la bandiera rossa. Il Pd è fallito. Non c'è niente di nuovo sotto quell'insegna. Non ho mai capito bene perché dal partito riformista al partito di Prodi sei finito nel Partito democratico che tanto aborrivi. Talvolta penso che le tue scelte siano state un po' costrette dagli eventi e che l'eterna battaglia per farti fuori ti abbia costretto a incamminarti lungo sentieri a te sgraditi per allontanare i cecchini e portare in salvo te stesso e l'esercito di militanti che ti segue. Ora siamo arrivati alla fine del percorso. Dopo c'è il burrone. Puoi fare come Thelma e Louise, accelerare e prepararti al grande salto suicida, Puoi fermarti e riprendere il cammino a ritroso. A ogni curva c'è Di Pietro e i suoi pm pronti a impalarti. Veltroni lo sa e lascia fare, felice e contento. Capitò a Giacomo Mancini, capitò a Bettino Craxi, rischia di capitare anche a te. Fatti coraggio e prendi l'iniziativa. Butta fuori dal partito del Sud i mercanti, promuovi una nuova generazione e parti all'assalto di Roma. Tu vuoi restare nel Pse, vuoi un partito che difenda gli svantaggiati, ti piace discutere con quelli che contano, non disprezzi il tuo avversario storico. È una linea. Se stai fermo, questa volta ti distruggono. Io, da ex amico, ti difenderò, ma forse non basterà, tuo Peppino».

il Riformista 7.12.08
Il Ps francese è spaccato in due
Il Pd in mille pezzi
di Giuliano da Empoli


L'ufo Ségolène, una comunicatrice molto ambiziosa che il vecchio establishment dei cosiddetti elefanti vede come il fumo negli occhi. Attorno a lei ci sono tutti i più brillanti esponenti della nuova guardia riformista del partito

I socialisti francesi - si sa - sono gli unici progressisti europei più sconclusionati e preistorici di quelli italiani. Lo psicodramma del Congresso di Reims, con le due candidate leader, Martine Aubry e Ségolène Royal, separate da una manciata di voti e sull'orlo di una crisi di nervi, non ha migliorato la situazione. Proprio come il nostro Pd, il Ps francese è spaccato - sull'orlo di una scissione, sostengono alcuni. Se non altro però, oltre le Alpi gli schieramenti hanno il merito di essere chiari. Da una parte c'è l'ufo Ségolène, una comunicatrice ambiziosissima che il vecchio establishment dei cosiddetti elefanti vede come il fumo negli occhi. Attorno a lei ci sono tutti i più brillanti esponenti della nuova guardia riformista del partito: primi tra tutti il braccio destro Vincent Peillon e il portavoce Manuel Valls.
Dall'altra parte, attorno a Martine Aubry, l'irsuta figlia di Jacques Delors, si sono riuniti tutti i dinosauri che paralizzano il Partito socialista da tre lustri: Lionel Jospin e Laurent Fabius, Dominique Strauss-Kahn e Michel Rocard, Pierre Mauroy e lo stesso François Hollande, ex consorte della Giovanna d'Arco del Poitou-Charente. Gente che si conosce (e si odia) da una vita, ma che preferisce unirsi all'insegna del "Tout sauf Ségolène", qualsiasi cosa tranne Ségolène, piuttosto che essere spazzata via da una nuova era glaciale.
In apparenza è prima di tutto una disputa personale - e il Figaro Magazine si è divertito, la scorsa settimana, a disegnare una mappa dell'odio in casa socialista. Ma la questione va ben al di là della dimensione personale. In gioco c'è l'identità stessa del Partito Socialista. Una formazione vecchia di un secolo, che non si è mai adeguata fino in fondo alle regole della quinta repubblica. Un partito d'apparato, fatto di parlamentari e di consiglieri comunali, di sezioni e di militanti, che ha sempre fatto fatica ad adattarsi alla logica presidenzialista introdotta da De Gaulle.
Ségolène vorrebbe trasformarlo in una formazione più leggera, aperta sull'esterno, dotata di una leadership carismatica, proiettata in una dimensione di comunicazione e di campagna permanente. La Aubry e gli elefanti non ci stanno. Per loro le radici contano. E non a caso Martine ha impiegato la tribuna di Reims per rievocare la classe operaia come classe generale, provocando un brivido di nostalgia nei tanti socialisti che non si sono mai rimessi dai quattordici anni di realpolitik di François Mitterand.
Al di là dell'organizzazione, la frattura tra Ségolène e Martine affonda nella cultura politica dei socialisti francesi. Quando, a metà degli anni novanta, l'era mitterandiana è giunta al capolinea, il PS si è trovato di fronte a un bivio. Da una parte, avrebbe potuto scegliere di adeguare il proprio (vetusto) bagaglio ideologico alla concreta pratica di governo riformista impostata da Mitterand partecipando al movimento europeo della Terza Via che, in quegli anni, si incarnava in Tony Blair, Gerhard Schroeder e Romano Prodi.
Ma Lionel Jospin scelse una strada diversa: quella, ipocrita, del riformismo implicito che fa le riforme senza dirlo mentre continua a sbandierare il vessillo del superamento del capitalismo e dell'avvento di un altro mondo. Una strada che ha condotto il partito nel vicolo cieco nel quale si trova attualmente, passando per la catastrofica sconfitta al primo turno delle presidenziali del 2002. La Aubry - pasionaria delle 35 ore, numero due di Jospin quando era Primo Ministro - incarna la totale continuità di questa linea; Ségolène, invece, una discontinuità ancora un po' confusa, ma indiscutibile, che apre la prospettiva di un'allenza strategica con il MoDem del centrista François Bayrou.
Alla luce di queste considerazioni, non si può dire che quella del Ps francese spaccato in due sia una condizione ideale. Eppure, ha il merito della chiarezza: le opzioni sono due, nettamente distinte e alternative tra loro. Una situazione invidiabile per chi - come i sostenitori del Pd nostrano - assiste ogni giorno ad uno scontro sotterraneo e inesplicabile come certe guerre civili africane che vanno avanti per inerzia, senza che nessuno ricordi più perché sono iniziate, né si aspetti alcun beneficio dalla loro eventuale conclusione.

sabato 6 dicembre 2008

l’Unità 6.12.08
Come la Cei comanda, arrivanomi fondi alle scuole cattoliche
Nessuna risposta agli studenti dell’Onda. Ma è bastato un alzare di ciglia Oltretevere che l’esecutivo ha messo mano alla borsa. Zanda (Pd): «A scuola, università e ricerca sottratti 10 miliardi».
di Roberto Monteforte


È bastato che i vescovi minacciassero una manifestazione di piazza contro il governo a difesa della scuola «paritaria», rafforzato dal richiamo di Benedetto XVI al «diritto inalienabile alla libera educazione dei figli e quindi agli aiuti per l’educazione religiosa, perché prontamente l’inflessibile Tremonti trovasse risorse per le «private». Almeno così è parso. Assicurare le risorse alle scuole gestite da religiosi, in primo luogo le «materne», è diventato «un primario impegno politico» del governo e della maggioranza. Ripristinare quasi totalmente, con 120 milioni su circa 134 milioni, lo stanziamento per le scuole private nel 2009: questo prevedeva un emendamento al disegno di legge di bilancio del relatore Maurizio Saia (Pdl) concordato col governo. Solo una «coincidenza» assicura il relatore: nessuna risposta immediata alla richiesta della Cei. Lo contraddice il sottosegretario all’Economia, Giuseppe Vegas, che rivolto alla Cei assicura: «Con questo stanziamento possono dormire su quattro cuscini». Finanziamento assicurato? Forse, visto che quell’emendamento è stato ritirato e modificato in un particolare: è stata cassata la destinazione a favore delle paritarie per attribuirlo genericamente al bilancio del ministero. Sarà il ministro Gelmini a deciderne l’uso: scuola pubblica, paritarie o opere per la sicurezza degli istituti. Quello che pare assodato è che questi 120 milioni saranno «l’unico» stanziamento di Tremonti per la scuola. Una rassicurazione a metà, quindi, quella data dalla maggioranza, divisa al suo interno. «Tremonti fa il gioco delle tre carte e non si assume le responsabilità della destinazione dei fondi che comunque sono troppo esigui» commenta la Bastico (Pd) che chiede di ridurre fortemente i tagli alle scuole pubbliche.
Certo è che è stato efficace l’«uno due» della Cei. Primo colpo: in mattinata una dichiarazione dai tuni duri e ultimativi del responsabile scuola della Cei, monsignor Stenco. Chiama direttamente in causa il ministro dell’Economia, Tremonti rimproverandogli «di colpire di nuovo la scuola cattolica». «Guarda caso nel 2008 ripete la stessa manovra del 2004: taglia per tre anni consecutivi 130 milioni di euro alla scuola cattolica - afferma -. È un film già visto: si continua a colpire il sistema paritario». Il direttore dell’Ufficio nazionale della Cei per l’educazione rifà un po’ di conti. «Nel 2000 - spiega - la legge sulla parità scolastica ha previsto un contributo di 530 milioni di euro per tutto il sistema delle scuole paritarie, mentre la spesa per la scuola statale è di 50 miliardi. Il contributo, dello 0,1 per cento, è quindi già irrisorio». «Nel 2004, - prosegue - per tre anni consecutivi Tremonti ha tagliato 154 milioni sui 530 di contributo totale, cioè il 33 per cento». «La scuola cattolica ha taciuto - conclude - e li abbiamo recuperati anno per anno con emendamenti, con fatica e con ritardi. Ora, però, il ministro ripete la stessa manovra». Come dire: la misura è colma. «La Chiesa adesso - conclude minaccioso - deve tirare le sue conseguenze perché senza contributi le scuole dell’infanzia di certo rischiano di chiudere». Il secondo colpo, più morbido, arriva dal portavoce della Cei monsignor Pompili. «Siamo preoccupati, per il destino delle scuole pubbliche non statali. Tuttavia - ha aggiunto - pur consapevoli del momento economico e sociale del Paese, confidiamo negli impegni che il Governo ha assunto pubblicamente». La risposta non si fa attendere. Non sono necessarie Onde di protesta e migliaia di studenti e docenti in piazza. Il governo pare pronto ad accogliere le richieste della Chiesa. Una «sensibilità» attesa e a lungo contrattata Oltretevere. Quello che il governo offre è troppo poco: lo rimarca dall’opposizione la Garavaglia, il ministro «ombra» alla scuola. «Questo è solo un primo segnale» sottolinea, ricordando l’allarme lanciato a suo tempo dal Pd «sui tagli alle scuole paritarie» a cui l’esecutivo è rimasto sordo. «Ora - osserva - il governo di fronte alle legittime proteste provenienti da più parti, inclusi i vescovi, ci ha ripensato e ha cercato di rimediare al danno». Ma è che l’esecutivo guarda all’istruzione come a un costo da contenere. «I 120 milioni? Si tratta di un granello di sabbia rispetto ai circa 10 miliardi, tagliati a scuola, università e ricerca» afferma il senatore Luigi Zanda, invitando a rimediare ai colpi assestati alla scuola pubblica. «È bastato un semplice comunicato della Cei e il governo si mette sull’attenti e ritrova i fondi per le scuole private» afferma Claudio Fava di Sinistra democratica.

Repubblica 6.12.08
Metà delle tredicimila scuole paritarie gestite da enti religiosi: che lo Stato aiuta con 280 milioni l´anno
Seimila istituti e quarantamila prof la galassia dell´istruzione cattolica
Un giro d´affari che supera ogni anno il miliardo. Mezzo milione di iscritti: solo alle materne quasi 300mila
di Sandro Intravaia


ROMA - Oltre 6 mila istituti, quasi mezzo milione di alunni, 40 mila insegnanti e 18 mila tra bidelli e personale di segreteria. Ecco i numeri della scuola cattolica italiana, attorno alla quale ruota ogni anno un giro d´affari superiore a un miliardo di euro. In Italia, quello delle scuole non statali è un mondo piuttosto complesso. Per comprenderlo basta dare uno sguardo a "La scuola italiana in cifre: anno 2007". La galassia delle scuole non statali è dapprima suddiviso in due grossi blocchi: quelle pubbliche e quelle private. Che a loro volta sono suddivise in altre due categorie: le paritarie e le non paritarie. Le prime partecipano alla spartizione di circa 537 milioni di euro che lo Stato assegna in base ad una legge del 2000. Le seconde devono cavarsela con mezzi propri.
Una scuola può essere pubblica ma non statale? Sì, basta che sia gestita da un ente locale o pubblico: Comune, Provincia o Regione. È il caso di molte scuole materne: su 10.709 non statali 1.690 sono gestite direttamente dai Comuni, 246 dalle Regioni (come in Sicilia), 3 dalle Province e 405 da altri enti pubblici. Per ottenere lo status di scuola paritaria il gestore (ente pubblico o soggetto privato) deve avanzare richiesta all´ufficio scolastico regionale di competenza e, soprattutto, rispettare i requisiti stabiliti dalla legge 62 del 2000. Su un totale di 14 mila e 600 istituti privati sparsi in tutte le regioni italiane quasi 13 mila (l´88 per cento) sono paritari: facenti, cioè, parte del "sistema nazionale di istruzione" ed equiparati alle scuole statali.
E le scuole cattoliche? Secondo una statistica dello stesso ministero, oltre metà delle 13 mila scuole paritarie che operano nel nostro territorio sono gestite da enti religiosi. La quota gestita da laici è pari ad un terzo del totale. Ma è nel settore dell´ex scuola materna (ora dell´infanzia) che la Chiesa può fare la voce grossa. Su 628 mila bambini italiani che ogni anno frequentano le scuole paritarie (il 38 per cento del totale), 280 mila sono iscritti in scuole religiose. Se queste ultime dovessero "fallire" sarebbe un dramma per migliaia di famiglie perché lo Stato non sarebbe in grado di provvedere: mancano locali e arredi. Anche nella scuola elementare e media non statale gli istituti confessionali prevalgono, con più del 70 per cento di iscritti.
In totale, 280 milioni di contributo statale annualmente vanno diritto nelle casse delle scuole paritarie cattoliche. Ecco perché il taglio di 134 milioni previsto dal ministro dell´Economia, Giulio Tremonti, ha fatto storcere il naso ai vescovi e indotto il governo a fare marcia indietro.

Repubblica 6.12.08
La Costituzione dimenticata
di Miriam Mafai


Giulio Tremonti era noto fino ad oggi come il più rigoroso, persino spietato ministro dell´Economia, tanto da essere soprannominato "signor no". Qualcuno, non solo dell´opposizione ma anche della maggioranza, gli chiedeva di allargare i cordoni della borsa a vantaggio dei pensionati, o dei licenziati, o dei precari? No, non si possono purtroppo sforare le cifre del bilancio, rispondeva il nostro ministro. La riposta fino a ieri era sempre la stessa: no. «Tagliare, tagliare le spese» era il suo mantra. Crolla il soffitto di una scuola a Rivoli e si scopre che molte altre scuole sono a rischio? Occorrono fondi per mettere le nostre scuole a norma? No, la risposta è sempre no. Il bilancio dello Stato non lo consente.
Eppure ieri, finalmente il ministro Tremonti ha detto sì. Nel giro di un paio d´ore ha trovato i soldi per soddisfare la richiesta che gli è venuta dal Vaticano di aumentare lo stanziamento già fissato in bilancio per le scuole cattoliche. Contro il taglio originario di circa 130 milioni di euro aveva tuonato monsignor Stenco, direttore dell´Ufficio Nazionale della Cei per l´educazione, minacciando una mobilitazione nazionale delle scuole cattoliche contro il governo Berlusconi e il suo ministro delle Finanze.
La minaccia ha avuto ragione delle preoccupazioni del ministro. Nel giro di poche ore il sottosegretario all´economia Giuseppe Vegas, a margine dei lavori della Commissione Bilancio del Senato sulla Finanziaria, rassicurava il rappresentante delle scuole cattoliche. «Abbiamo presentato un emendamento che ripristina il livello originario di finanziamento. Potete stare tranquilli. Dormire non su due ma su quattro cuscini?» .
Dunque il taglio previsto in finanziaria non ci sarà. E non ci sarà la minacciata mobilitazione delle scuole cattoliche contro Berlusconi e Tremonti. Soddisfatti, ma solo per ora, i vescovi italiani. Soddisfatto, per ora, il Pontefice che però alza il prezzo e chiede nuove misure «a favore dei genitori per aiutarli nel loro diritto inalienabile di educare i figli secondo le proprie convinzioni etiche e religiose». In parole più semplici, c´è qui la richiesta rivolta allo Stato italiano di smantellare il nostro sistema scolastico a favore della adozione del principio del "bonus" da assegnare ad ogni famiglia, da spendere, a seconda delle preferenze, nella scuola pubblica o nella scuola privata.
Naturalmente nessuno contesta il diritto «inalienabile» delle famiglie di educare i figli secondo le proprie convinzioni etiche e religiose. E non ci risulta che nella nostra scuola pubblica si faccia professione di ateismo. E l´insegnamento della religione non è affidato a docenti scelti dai rispettivi Vescovi? Cosa si vuole dunque di più?
Anche a costo di essere indicati come "laicisti" vale la pena di ricordare che l´articolo 33 della nostra Costituzione, ancora in vigore, afferma che «enti e privati hanno il diritto di istituire scuole e istituti di educazione senza oneri per lo Stato». E che nel lontano 1964 un governo presieduto da Aldo Moro, venne battuto alla Camera e messo in crisi proprio per aver proposto un modesto finanziamento alle scuole materne private. Bisognerà dunque aspettare quasi quarant´anni perché un governo e una maggioranza parlamentare prendano in esame la questione delle scuole private e della loro possibile regolamentazione e finanziamento. E saranno il governo D´Alema e il suo ministro dell´Istruzione Luigi Berlinguer a volere, e far approvare, una legge sulla parità scolastica che prevede, ma a precise condizioni, un finanziamento non a tutte le scuole private ma a quelle che verranno riconosciute come «paritarie». Tutta la materia in realtà, nonostante alcuni provvedimenti presi nel frattempo, è ancora da regolare (non tutte le scuole private, ad esempio, possono essere riconosciute come «paritarie»).
Anche per questo, per una certa incertezza della materia, ho trovato per lo meno singolare l´intervento di due autorevoli esponenti del Partito Democratico, a sostegno della richiesta delle gerarchie. Maria Pia Garavaglia, ministro dell´istruzione del governo ombra del Pd, e Antonio Rusconi, capogruppo del Pd in Commissione Istruzione al Senato hanno subito e con calore dichiarato di apprezzare le rassicurazioni fornite, a nome di Tremonti, dal sottosegretario Vegas. Ma non ne sono ancora soddisfatti. Chiedono di più. Sempre per le private. Chiedono cioè che vengano garantiti «pari diritti agli studenti e alle famiglie» È, quasi con le stesse parole, la rivendicazione già avanzata dalle gerarchie.
Ma è davvero questa, in materia scolastica, la posizione alla quale è giunto il Pd? E se sì, in quale sede è stata presa questa decisione? È giusto chiederselo, è indispensabile saperlo. Anche perché ha ragione chi, come don Macrì, presidente della Federazione che riunisce la scuole cattoliche, lamenta che la strada che porta al bonus trova un ostacolo «nell´articolo 33 della Costituzione che sancisce che le scuole private possono esistere senza oneri per lo Stato».
E allora, che facciamo? Per rispondere alle esigenze delle scuole cattoliche butteremo alle ortiche l´articolo 33 della Costituzione?

l’Unità 6.12.08
Caso Castello, il male oscuro di Firenze
di Sandra Bonsanti


Oggi si dice Castello e si pensa al disastro politico, civile e culturale di Firenze. Tutto comincia lì, ma dove finirà, questo “tutto”? È facile nel caos che stiamo vivendo seguire le tappe della vicenda storica, della Fondiaria, del costruttore Ligresti e della sua azienda sirena che sovrasta come un’ombra tante città italiane, spargendo cemento. È anche abbastanza facile documentare gli atti compiuti dalle varie giunte coinvolte. Ma quello che la gente sente è che ci sia qualcos’altro di sbagliato. Un male oscuro che ha pervaso i vari livelli del governo della città, che per ora non ha un nome preciso che forse è stato anche corruzione. È reato o non è reato ciò che fino ad oggi è emerso? I protagonisti si sentono sicuri, si difendono. Ma il ciclone rischia di trascinare con sé qualcosa di più che la buona fede o l’onestà dei singoli. Il ciclone Castello a Firenze rischia di dare un colpo fatale al futuro della città.
Quello che più ferisce è che ogni parola pronunciata dai politici coinvolti o solo chiamati in causa, prescinde da quella che dovrebbe essere l’unica preoccupazione del pubblico servitore: l’interesse della città. Il parco serve o no in quella piana destinata al cemento? C’è stata oppure no una vicinanza pericolosa tra servitori pubblici e imprese interessate? La trasparenza degli atti ufficiali è stata oppure no compromessa da intese riservate? Qualcuno ha inseguito un suo interesse privato? Se ciò è accaduto, allora non possiamo non chiedere agli esponenti di primo piano del Pd di correre ai ripari. Il problema è tanto più grave in quanto il ciclone si è mosso nei giorni di queste Primarie cittadine. I quattro scesi in campo si divincolano tra situazioni difficili da gestire. Cioni, il più anziano, ha costruito la sua storia politica con una vicinanza ad anziani e socialmente bisognosi ma anche con relazioni importanti tra professionisti e medici della città. Conosce ogni buca della città. Se lo costringono a dimettersi o lo cacciano dal Pd farà una sua lista civica. Renzi è nato rutelliano e ora naviga da solo, forte della sua giovane età. Pistelli ha una lunga storia di partito ed è visto come veltroniano di ferro. Daniela Lastri è nata e cresciuta nella parte più genuina della tradizione del Pci locale, ma a lei si chiede la prova che agli uomini nessuno chiede: saprà fare il sindaco? Fare il sindaco di Firenze: mio padre lo fu per un tempo breve, morì mentre era ancora a palazzo Vecchio. Per lui le chiarine suonarono l’addio più straziante. Quando era stato eletto aveva detto solo: «Spero di non fare danni a questa città». Allora si era modesti, troppo. Diceva di esser riuscito, dopo qualche mese, ad ottenere un gran risultato: che gli assessori stessero seduti a un tavolo, diverse ore, per studiare i problemi. I problemi della città, dei cittadini. Non i problemi di Ligresti o della spartizione del potere fra correnti del Pd.

Repubblica 6.12.08
Parla l'assessore fiorentino
Cioni: "Si diventa tutti cannibali quando un partito non esiste"
di Antonello Caporale


Non parla. Ringhia. Non ritira mai la gamba il Cioni, e prima di prenderle le dà.
«Rotoli di banconote sono atterrati su tante scrivanie. Io non solo non li ho arraffati, ma ho fatto arraffare dai carabinieri chi me le aveva fatte scivolare sotto il naso. E a me si viene ora a chiedere di affogare nel disonore».
Siete tutti dei cannibali.
«Cannibali ho detto, è vero. Un partito se esiste governa anche le vicende più nere e terribili. Se non esiste lascia divenire gli uni cannibali degli altri»
Graziano Cioni ha la stessa vitalità muscolare di Rino Gattuso quando è in forma. L´assessore di Firenze noto per la guerra a mendicanti e lavavetri, sta per essere spinto dal partito fuori dalla gara delle primarie a sindaco della città, causa un coinvolgimento nell´inchiesta su mattoni e appalti che sta allagando tutti i piani del palazzo di piazza della Signoria, sede del municipio.
Anche lei dentro questa storia.
«Ma cosa ho fatto, me lo dica? Me lo dica il magistrato se ho preso un euro, e dove e da chi. Se ho raccomandato qualcuno»
La sua amica, per esempio. Che ha ricevuto da Fondiaria, società di vaste proprietà immobiliari, un appartamento in affitto.
«E cosa sarebbe questa?».
I cannibali ritengono che qualcosina pur significhi.
«Conosco Fausto Rapisarda (rappresentante della società, ndr) e anche bene. Fondiaria ha sponsorizzato molti progetti comunali da me promossi. Però trovi un euro di Fondiaria nelle mie tasche»
Trovo suo figlio Emiliano nell´organico di Fondiaria.
«Emiliano aveva bisogno di lavorare. E io ho chiesto a chi conoscevo: fagli fare anche l´usciere, aiutalo però».
Che papà.
«Sono stato un papà di merda. Per una vita alle sei e mezza sono uscito di casa, e i figlioli dormivano. E a mezzanotte vi ho fatto ritorno, quando i figlioli avevano già preso sonno».
Adesso, a 62 anni, la politica la sta impiccando.
«La politica e´ tutto per me. Io non so vivere senza, capisce? E non posso lasciarla con questo sfregio sul volto. Feci arrestare anche un mio compagno che voleva far smerciare carne marcia. Ho dato prova di essere moralmente inattaccabile e il partito utilizza la convenienza di intercettazioni vuote di ogni significato corruttivo per chiedermi di fare un passo indietro. È una scusa per fottermi».
Cannibali.
«Forse esagero e sbaglio. Mia moglie mi chiede di staccare la spina, vorrei tanto accontentarla».
Non ce la fa.
«Mi sento stonato e stanco però dico e ripeto: la politica è troppo bella?».

Repubblica 6.12.08
Pd, l'allarme di 54 deputati "Lontani dal paese reale"
di Concetto Vecchio


ROMA - «Un grande progetto di unità e innovazione rischia di smarrirsi dentro logiche di rendita e logoramento. Prima di tutto al vertice, talvolta insofferente verso un confronto di merito sulle scelte che si compiono». È il passaggio cruciale del documento dei 54, battezzato "Per ripartire". Cinquantaquattro deputati del Pd, di osservanze le più diverse, denunciano «lo scarto esistente tra il paese reale e la vita democratica del Pd». La spia di un malessere profondo, che ha raggiunto anche le fila parlamentari. L´eterno dualismo Veltroni-D´Alema. Le polemiche sulle correnti. Ma soprattutto l´esplodere della questione morale a Napoli e Firenze, sintetizzata dalla copertina dell´Espresso "Compagni spa". «Di fronte a questa situazione ognuno deve rimboccarsi le maniche. Non basta più dire che siamo nati solo da un anno, che si sono fatte molte cose buone. Noi dobbiamo affrontare i risolvere e per farlo non è sufficiente ripetere che le correnti sono il male combattere», come ha detto Walter Veltroni a Repubblica giovedì scorso. Gli ispiratori del documento sono Paolo Corsini, Gianni Cuperlo, Barbara Pollastrini, Sandro Gozi, Walter Tocci. Tra i firmatari figurano Paola Concia, Antonio Boccuzzi, Furio Colombo. Un appello trasversale.
«Non è in discussione la segreteria, ma serve un pluralismo di segno nuovo che risvegli l´entusiasmo degli inizi», ha precisato la Pollastrini, scendendo le scale dell´Hotel Capranica dove ieri s´è tenuto l´undicesimo convegno di Red, l´associazione di D´Alema. Il tema era la salute nel trentennale della legge sull´aborto, culminato in un dibattito con D´Alema, Andreotti e Pisanu. Il presidente Paolo De Castro ha annunciato che l´obiettivo dei 7-8mila iscritti è vicino (la tessera costa 100 euro), ripetendo, prima di dare avvio ai lavori, «siamo un laboratorio, lavoriamo per dare un contributo al Pd, diventa difficile capire da cosa derivi l´ostilità che alcuni non esitano a manifestarci». L´attivismo di Red ? prossimo incontro il 18 dicembre a Bologna, sull´economia, con Luigi Spaventa ? è visto con diffidenza dalle altre anime del partito ed è oggetto di una vasta letteratura complottarda. «Rischiate di perdervi il meglio stando qua», ha detto D´Alema ai cronisti che lo tallonavano nell´anticamera della sala, riferendosi a quel che accadeva nell´aula, dove Marianna Madia, Maria Pia Garavaglia, Lidia Menapace, Emma Bonino, Margherita Boniver, Beatrice Lorenzin e Marisa Rodano discutevano di donne in politica. Moderatrice Lilli Gruber. In platea la Binetti. «Una gestione collegiale rafforzerà Veltroni» ha detto Rosy Bindi dopo il suo intervento. «Uffa, con sta storia della corrente», è sbottato De Castro, menzionando la partecipazione tra il pubblico della prodiana Sandra Zampa e dei mariniani Oliviero Nicodemo e Luigi Meduri. «La politica ha perso la sua dimensione culturale, e siamo qua per restituirgliela», ha precisato Guido Calvi. «A Napoli e Firenze bisogna prima fare i processi. Quelli di Tangentopoli li abbiamo tutti vinti». Livia Turco: «Ma ha visto chi c´era?. Le sembra una riunione di corrente? Era un incontro che può fornire un contributo al Pd. Io sono sempre stata una donna di partito, ma dopo tanti anni di politica non vorrei dover sottostare a degli esami».

l’Unità 6.12.08
Roma. Picasso nelle mani dei bambini


Chi meglio di Picasso e della sua opera può ispirare e stimolare i bambini ad esprimere liberamente il loro senso artistico attraverso disegni e manufatti artistici? L’eclettismo delle sue tecniche offre al pubblico dei più piccoli un vasto repertorio di opere originali che spaziano dalla pittura, alla scultura, dalla ceramica, fino alla scenografia teatrale.
Eclettismo anche nelle continue variazioni di stile dei suoi diversi periodi espressivi. I laboratori di manipolazione e di sperimentazione organizzati dalla Cooperativa Gioco del Lotto-Lottomatica in occasione della mostra “Picasso 1917/35.
PER SCOPRIRLO
«L’Arlecchino dell’arte» dedicata all’artista al Museo Vittoriano, sono un ottima occasione per conoscere l’artista e dare libera espressione alla fantasia di ognuno sulle tracce del grande maestro. Un divertente viaggio nel mondo del pittore spagnolo, attraverso giochi di gruppo, tattili e d’osservazione delle opere in mostra. Tutte le domeniche da domani al 28 dicembre i bambini più grandi, dai 7 ai 10 anni, potranno prendere parte dalle ore 10.00 alle ore 11.00 al laboratorio «Buffi materiali per l’arte..» come fare un bel quadro con materiali stravaganti e Osservare con gli occhi bendati, un laboratorio di riconoscimento del quadro misterioso.
PER I PIÙ PICCOLI
Dalle ore 11.30 alle 12.30 sarà la volta dei laboratori dedicati ai più piccoli, dai 4 ai 6 anni: l’Arlecchino arrotolato, un gioco di gruppo per travestire un bambino vero in Arlecchino e la Storia impazzita, un gioco di parole sul testo di una storia tratta dalla biografia dell’artista.
Ingresso libero anche ai genitori che potranno visitare gratuitamente la mostra.
Prenotazione obbligatoria fino ad esaurimento posti. Complesso del Vittoriano, Via San Pietro in Carcere
Prenotazione 06/51899537
www.exibart.com

Corriere della Sera 6.12.08
Maestri Le passioni, il nodo dello stile, il rapporto con la follia: Andrea Zanzotto si racconta
La poesia ha sempre una funzione civile (anche se è nascosta)
Una video-intervista allo scrittore proiettata oggi nell'ambito delle celebrazioni per Mario Tobino


Questi brani del poeta Andrea Zanzotto sono tratti da una video-intervista intitolata «Ferita e farmaco» curata da Laura Barile e Francesco Carbognin. L'incontro è stato realizzato il 9 ottobre a Pieve di Soligo, il paese di Zanzotto, e sarà proiettato oggi durante la seconda giornata del convegno «Il turbamento e la scrittura» (Palazzo Ducale, Lucca). Il convegno, a cura di Giulio Ferroni, inaugura le celebrazioni del centenario della nascita di Mario Tobino, lo scrittore toscano morto nel 1991. Tra gli studiosi, gli scrittori e i poeti che interverranno: Antonella Anedda, Alfonso Berardinelli, Eugenio Borgna, Marosia Castaldi, Milo De Angelis, Salvatore Ferlita, Raffaele Manica, Guido Paduano, Domenica Perrone.
Il convegno è organizzato dalla Fondazione Tobino, nata nel 2006 e presieduta da Andrea Tagliasacchi. Sempre a Palazzo Ducale di Lucca, resterà aperta fino al 14 dicembre una mostra dal titolo Il turbamento curato, in cui vengono esposti strumenti medici e oggetti scientifici dell'Ospedale Psichiatrico di Maggiano, il più antico manicomio italiano, diretto dallo scrittore- psichiatra Tobino per tanti anni.

ANDREA ZANZOTTO:
Direi che, per me, anche per le vicissitudini scombinate della mia vita, l'idea del manque, della richiesta senza risposta, è stata fin dai primi anni presente. Perché nella mia primissima giovinezza soffrivo di disturbi pesanti: si trattava di semplici allergie, però molto gravi. Questo fatto era da me interpretato in questi termini: «Magari ho la tubercolosi... » — visto che in quei tempi ce l'avevano in molti. E con questa idea sottintesa, mi sentivo... staccato dalla realtà, come uno che «durerà poco ». Questo profondo senso di incertezza e di manque ha rappresentato fin dall'inizio, per me, una presenza sempre incombente. Con l'andare del tempo è andato attenuandosi, ma quell'esperienza rimaneva (...). In certi momenti poteva manifestarsi come depressione; in altri, come uno stato ansioso. In altri ancora assumeva la forma di una ricerca febbrile (...). Era disponibile, per via di questa alternanza psichica, una tastiera di atteggiamenti mentali che mi portava a collocarmi, nello scrivere, in varie posizioni. E lo stile appariva sempre come un fatto necessario: un fatto necessario nel senso che nessuna cosa poteva aver valore, anche minimo, se non giungeva a condensarsi in un certo stile. Io non ricercavo lo stile; ma sentivo che, quando pensavo o scrivevo, lo stile si formava da sé (...). La cosa più importante era trovare delle ragioni anche a questo mio stato, che era semivuoto: si trattava, in un certo senso, di voler vivacizzare la buccia, cioè l'esterno, dell'esistenza, dato che la polpa interna non c'era
Poesia civile
Io credo che ci sia sempre una funzione civile nella poesia, anche se non manifesta, ma sottintesa, direi collegata a quello che è l'inconscio collettivo (...). Dopo la bomba atomica, parlando di una rosa non si può più parlare di una rosa soltanto, ma verrà fuori qualche cosa di diverso, che porta in sé la traccia di quest'altro mostruoso fatto del moltiplicarsi delle armi. Si può dire che non è mai finita la seconda guerra mondiale, perché hanno continuato a fabbricare bombe.
Psicoanalisi e psicanalisi
Gli studiosi si guardano «in cagnesco » tra quelli che dicono psicanalisi e quelli che dicono psicoanalisi (i «-coanalisi» sono i «tedeschi», quelli che vengono direttamente da Freud, mentre psychanalyse è una deformazione che si è diffusa con Lacan, forse anche prima. La Psychanalyse era infatti la rivista di Lacan). E qui mi viene davanti agli occhi il carissimo ricordo di Ottiero Ottieri... Era un piacere parlare con lui, perché purtroppo era approfondito in tutti i tipi di esperienza più o meno psicoanalitica. E se si pensa a un libro come l'Irrealtà
quotidiana (Guanda), che io ritengo uno dei capolavori del secondo Novecento, si può dire che Ottieri sia riuscito a condensare, con un'acutezza unica e anche con una sofferenza autentica, il succo di verità di tutte le sue esperienze, per quanto diverse.
La poesia-follia
La figura di Hölderlin, il nodo poesia- follia, mi ha sempre più che turbato, messo di fronte a un mistero che doveva essere perpetuamente indagato (...). Questo senso della stranezza poteva comportare, nella deriva della tristezza, periodi per me tali da essere costretto a assumere farmaci. Oppure, al contrario, periodi di allegria — e, per allegria, si intende la frequentazione dei vari personaggi che popolavano la campagna di allora. A partire da Nino, «poeta contadino», come stava scritto nel suo biglietto da visita: «Nino, poeta contadino, gastronomo, astronomo...». Nino (che è un personaggio della raccolta La beltà pubblicata da Zanzotto nel 1968, ndr) faceva giochi di parole dei vari titoli di professionalità che vantava... Posso dire che anche la strampaleria di Nino, che era però molto saggia, di quella vecchia saggezza contadina mi aiutava. Stando con lui, e con la compagnia, si creava un clima in cui non ci si limitava alle barzellette, ma da queste si ricavavano veri e propri giochi di parole. Esempio. Nino, vecchio, novantaseienne (poco dopo è morto), il 23 maggio festeggia il compleanno, il genetliaco di Duca di Dolle. Invita a pranzo gli amici, e poi scioglie un panegirico: «Basta con le guerre, basta... » — proprio lui che era stato miles gloriosus, autorizzato a fregiarsi della campagna d'Italia di Napoleone del 1803 — «Basta con le guerre, basta ricchi, basta poveri, tutti devono stare bene perché il mondo è bello». Si alza uno della compagnia, molto serio: «Fermi tutti! In questo momento sta nascendo il marxismo-ninismo». Queste divagazioni, anche adesso, ricordandole, mi tonificano...
Banche come dinosauri
Oggi tutto sta cambiando con un'enorme velocità. Ancora non sono state dette, «sparate» chiaramente, le vere ragioni, che sono la cupidigia cretina degli uomini di aver soldi in quantità illimitata, come se in natura esistessero piante che crescono all'infinito. Oggi siamo in una fase in cui tutto è simbolico. Come, per esempio, nell'economia: che cosa è il Pil? Il Pil rappresenta, come «guadagno », tanto chi costruisce quanto chi demolisce. Far su una casa, poi distruggerla perché non la si vende, fa aumentare comunque il Pil. Ci si basa su dati fantastici, di una fantasia folle, che però in un certo momento diviene più rapinosa che la realtà stessa. Resto meravigliato, in questi giorni, quando vedo una qualche bancona che fallisce... Perché le banche, tra loro, tendono a mangiarsi, a divorarsi. Sono arretrate all'età dei dinosauri, i quali si cibavano tra loro...
La follia dei Sommi Capi
Io non mi rendo nemmeno più conto di che cosa sia oggi la psichiatria. Ritengo che oggi la psichiatria dovrebbe assistere i Sommi Capi di questo mondo. Quelli, dovrebbero essere messi in sorveglianza speciale (...). Comunque, di quanto sta accadendo oggi nel mondo io ancora non capisco niente. Salvo di quello che ha detto il Papa: che il denaro è un'astrazione. Un'astrazione pericolosissima...
E poi, si renda il culto dovuto alla divinità vera, quella che mobilita milioni di persone in tutto il mondo: il Calcio. Dovrebbe essere collocato un immenso pallone nel cielo per ricordarci che il vero dio è quello...

C'è una cupidigia cretina per soldi illimitati: come se le piante potessero crescere all'infinito

il Riformista 6.12.08
L'Isola ha rovinato Luxuria
di Peppino Caldarola


Vladimir Luxuria dopo aver vinto l'Isola dei Famosi è stata la star di Annozero, la trasmissione di Michele Santoro. Mentre Belen, ospite anch'essa, si addormentava durante il dibattito nel suo splendore latino, Vladimir, Vlady la chiamava Piero Sansonetti, ha tenuto banco per tre ore. È veramente antipatica! Lo dico a malincuore perché la signora ha senso dell'umorismo, ma è totalmente priva di senso della misura e ha un ego ipertrofico disumano. Ha esordito insolentendo Norma Rangeri che sul "Manifesto" aveva censurato il pettegolio bigotto con cui Luxuria aveva rivelato i bacini honduregni tra Belen e Rossano Rubicondi. Ha maltrattato un perfettino giovane gay perché di destra, contrario ai travestimenti e amico della Carfagna. Ha respinto l'amicizia del Piotta quel cantante romano esagerato che cercava di conquistarle il cuore. Ha zittito il compagno di Rifondazione, corrente Ferrero, che dall'Emilia dissentiva dalla sua performance. Ha ignorato le intelligenti osservazioni di Fabrizio Rondolino. Gli interventi di Vladimir erano incentrati su un «io-io-io» ostentato come nelle peggiori comparsate tv di Brunetta. Vladimir è una persona di buone letture e avrebbe tante ragioni per darsi delle arie, ovvero per mostrare di essere superiore alla media dei prodotti televisivi, ma tutta questa arroganza per aver fatto qualche digiuno volontario in Honduras mi sembra esagerata. Anche il vittimismo per la vita parlamentare è eccessivo. Insomma Vladi, è sempre meglio che lavorare!

Bollettino Università e Ricerca 5.12.08
Follia e società. Franco Basaglia e la filosofia del '900


10 dicembre 2008, ore 9.00-17.00 Aula Crociera Alta Università degli Studi di Milano Via Festa del Perdono 7. Cosa c’entra uno psichiatra con una legge? E cosa unisce quella legge ai più grandi filosofi del novecento? I manicomi non esistono più da trent’anni. Il matto è tornato a casa, con il suo fardello di sofferenza e un destino di estraneità. Alieno nella propria terra, a disagio con i propri familiari.
Quanto sappiamo della malattia mentale? Come la si cura? Chi e in che modo cerca di combattere lo stigma? Il disagio psichico è un problema che, con gradazioni e intensità diverse, riguarda tutti. La città di Milano si da’ appuntamento a dicembre per discuterne con i più importanti esperti, per coinvolgere e sensibilizzare.
Poco o niente sappiamo della malattia mentale e poco o niente soprattutto sappiamo del malato, di come vive, delle difficoltà enormi che incontra, ma anche delle realtà di aiuto che pure esistono.
C’è un tempo per le riforme e uno per dare nuova forma alle riforme, ripensarle, comprenderle, farle comprendere.
Dicembre è l’ultimo mese per ricordare la legge 180, che compie trent’anni quest’anno. Con la chiusura dei manicomi il malato è tornato nelle nostre case, è stato compiuto un passo decisivo contro lo stigma, ma molte questioni sono rimaste in sospeso. Un’occasione importante di aggiornamento per gli operatori, gli utenti, i familiari, e di coinvolgimento e informazione per tutti gli individui e i gruppi interessati.

Repubblica 6.12.80
La solitudine dei malati mentali
risponde Corrado Augias


caro Augias, ho letto la rubrica “vivo l’inferno della malattia mentale”. sono una psicologa che lavora al 1980 in una asl a Roma. Mi dispiace capire che lei non è abbastanza informato della risposta che viene data dalla assistenza psichiatrica pubblica da lei definita “rudimentale”. del resto è raro leggere sui giornali qualcosa di approfondito che esca dai luoghi comuni o da fatti di cronaca. La psichiatria nel pubblico non è “rudimentale”vma molto “povera”. Io e i miei colleghi temiamo che con il nostro pensionamento i servizi territoriali chiuderanno. Il personale anche se preparato è scarsissimo e in via di estinzione. Informandosi meglio scoprirebbe che l’assistenza psichiatrica è tuttaltro che rudimentale e i professionisti che vi operano hanno strumenti e professionalità tali da rispondere al disagio descritto dalla lettrice.
Da molti anni le famiglie dei malati mentali non sono “costrette” al silenzio, anzi hanno molto più di prima possibilità nei servizi di esprimersi, per esempio nei Gruppi Multifamiliari esistenti in molte realtà territoriali: al silenzio è costretto solo chi non è informato o si isola come unica forma di difesa dal proprio dolore
Dolores Carli

Avevo scritto «I manicomi, luoghi di reclusione spesso violenti, vennero aboliti, ma l’assistenza sichiatrica è rimasta rudimentale». Non intendevo offendere gli operatori ma riferirmi solo alle condizioni in cui lavorano, che la dottoressa Carli conferma. Del resto questa lettera ne ha provocate molte altre, segno che il disagio c’è. Scrive Susanna Grigioni: «D’accordo che i manicomi erano un orrore, ma scaricare sulle famiglie il problema della malattia mentale (sottolineo malattia) non è orrore minore. Purtroppo le medicine sono necessarie ad evitare sia la sofferenza del malato sia la schiacciante sesazione di impotenza di chi gli è vicino. Le belle chiacchiere (con mia madre ammalata ho sperimentato negli anni varie situazioni e vari medici) l’aria fritta aiuta solo certi malati a suicidarsi, magari uccidendo anche i propri familiari». Scrive Claudio Alvgini: «Lei ha citato Basaglia, esponente di spicco della “nefasta” (definizione non mia ma di Jervis) corrente che prese il nome di “Antipsichiatria”. Basaglia disse tra l’altro: “in noi la follia esiste ed è presente come la ragione”. Affermazione terribile e falsa. Terribile perché la tragedia della psichiatria italiana (e non solo), incapace o impossibilitata a fare ricerca, nasce su affermazioni come questa. Falsa perché nell’uomo non convivono malattia e sanità: la malattia mentale (né più né meno di quelle fisiche) insorge per cause esterne e la sanità è recuperata solo eliminandola. I manicomi andavano chiusi, non andava chiusa la ricerca delle cause profonde che generano malattia mentale. Si può, però, anzi si deve non lasciar soli i malati e i loro disperati parenti». Era e rimane questo il punto: la solitudine dei malati e dei loro disperati parenti.

Qui di seguito la precedente risposta di Augias sullo stesso tema:
(clicca sull'immagine per renderla leggibile)




















COMUNICATO STAMPA CGIL
Iniziativa unitaria del 10 dicembre 2009 - Roma Piazza del Popolo

No alla chiusura dei Teatri e alla smobilitazione in Italia della produzione di Opera Lirica e Balletto

Il taglio previsto di oltre il 30 per cento delle risorse significa mettere in liquidazione il Settore ed evidenzia una chiara volontà di totale disinteresse per il nostro Patrimonio Culturale e lo Spettacolo concepiti come spesa e non come investimento e importante volano economico.
Quale azienda pubblica o privata che programma preventivamente può sopravvivere con un improvviso taglio di un terzo delle risorse previste?
Il nostro Paese si distingue in negativo poiché destina solo lo 0,16% del PIL alla Produzione Culturale e allo Spettacolo rispetto ad una media degli altri paesi intorno al 1,4% (Francia Germania ecc.), parimenti le retribuzioni delle masse artistiche sono inferiori alla media europea.
Basta con la diffusione di false informazioni e dati sbagliati o spot allarmistici di Ministri e dei relativi Dicasteri costruiti artificiosamente per legittimare provvedimenti destabilizzanti e non realmente efficaci.
I dati relativi alle Fondazioni Lirico Sinfoniche diffusi anche dal Mibac e ripresi con titoli scandalistici dai più autorevoli quotidiani nazionali non corrispondono assolutamente alla realtà; non sono veritieri né i dati sull’indice di produttività né sul costo del lavoro né sull’indebitamento delle Fondazioni Lirico Sinfoniche.

Quale nazione civile permette al Capo di Gabinetto del Ministero, nonché Direttore Generale dello Spettacolo dal vivo, di essere contemporaneamente Commissario in diversi teatri italiani, nei fatti controllore di se stesso?
E’ evidente che si vogliono trasformare i prestigiosi Teatri italiani da centri nazionali di produzioni culturale in vuoti contenitori di pura circuitazione finalizzata all’arricchimento di agenzie e impresari o ad altre attività di puro business.

Occorre come da molto tempo da noi sostenuto identificare titolarità e o prerogative con l’assunzione di responsabilità con la rispondenza in solido dei Sovrintendenti e degli Amministratori. (Si deve intervenire verso chi presenta bilanci di esercizio che non rispettano i bilanci previsionali approvati)

Il 10 Dicembre a Roma si terrà la manifestazione Nazionale con la presenza di tutte le Orchestre i Cori e i Corpi di Ballo dei Tecnici e delle Maestranze di tutte le 14 Fondazioni Lirico Sinfoniche per il reintegro del Fondo Unico dello Spettacolo alla quota precedentemente prevista
La manifestazione con esibizione pubblica si terrà a Piazza del Popolo dalle ore 14.30 alle ore 17.00 (il programma sarà comunicato nei prossimi giorni).

L’attacco portato alla produzione culturale e allo spettacolo, all’istruzione e alla ricerca equivale a distruggere il sapere critico.

Roma, 3 dicembre ’08

venerdì 5 dicembre 2008

l’Unità 5.12.08
Le staminali e il freno della politica
di Cristiana Pulcinelli


La ricerca sulle staminali in Italia è condizionata dalle pressioni di gruppi politici e religiosi. Questi gruppi hanno messo in piedi una campagna confondendo volutamente l’aspetto scientifico con quelli etico, religioso e politico, manipolando l’informazione e denigrando la ricerca sulle staminali embrionali. Parlando dei ricercatori come di persone che operano contro la legge. A scriverlo, sulla rivista scientifica inglese Nature è Elena Cattaneo, direttrice del Centro per la ricerca sulle cellule staminali dell’università di Milano. Cattaneo nell’articolo recensisce un libro di Armando Massarenti dal titolo «Staminalia: le cellule etiche e i nemici della ricerca» (Guanda editore, 2008). Il libro di Massarenti, giornalista del supplemento domenicale del Sole 24 ore, mette il dito nella piaga dei soprusi inflitti dalla politica alla ricerca. Un problema che in Italia è più grave che in altri paesi. Prendiamo l’esempio degli Stati Uniti: George Bush nel 2001 aveva vietato il finanziamento pubblico della ricerca sulle staminali embrionali, ma gli Usa hanno un fortissimo comparto privato che ha continuato fare ricerca in questo settore e il federalismo ha consentito a singoli stati, come la California, di fare scelte diverse dal governo centrale. Senza considerare che Obama ha detto che rivedrà la norma. In Italia, invece, dove non esiste altro che il finanziamento pubblico, il divieto ha avuto effetti deleteri. Per Cattaneo in Italia si sta minando la libertà scientifica. E forse la democrazia stessa. La manipolazione dell’informazione può avere sempre un effetto sulla scelta delle ricerche da finanziare, ma nei paesi in cui l’allocazione dei finanziamenti è basata sulla peer review, ovvero sulla valutazione delle ricerche da parte di altri ricercatori, questo effetto è limitato: la competizione tra ricercatori non dipende dalle loro idee politiche. In Italia, invece, dove manca una cultura della peer review e dove «i conflitti di interesse inquinano la gestione e il finanziamento della scienza», può accadere che si assegnino milioni di euro ogni anno «alle istituzioni preferite, secondo le opinioni dei ministri». Un problema che era stato sollevato a giugno anche dall’Accademia dei Lincei che in un documento aveva definito «a rischio di collasso» la ricerca biologica e medica italiana proprio per gli stessi motivi. «La possibilità di criticare e valutare i risultati delle ricerche è parte essenziale della scienza, ma anche della crescita morale e civile di una nazione - conclude Cattaneo - chi attacca questi valori e rappresenta gli scienziati come una minaccia per l’umanità esprime intolleranza e disprezzo per la democrazia». È un caso che la lettera di Elena Cattaneo arrivi pochi giorni dopo la notizia che un italiano emigrato in Spagna ha effettuato il primo trapianto di trachea grazie alle staminali, dichiarando che nel suo paese natale non avrebbe mai potuto farlo?

l’Unità 5.12.08
Quel no di Terracini a Lenin
di Bruno Gravagnuolo


A 25 anni dalla morte, con «l’Unità» la biografia di Renzo Gianotti riapre un capitolo chiave della storia Pci

Domani con l’Unità: Si chiama «Umberto Terracini. La passione di un padre della repubblica», il libro «Unità - Le Chiavi del Tempo», in edicola domani a euro 7,50 più il prezzo del giornale. Lo ha scrito Lorenzo Gianotti, già segretario del Pci di Torino e poi senatore, autore di saggi storici sull’Ottobre ungherese e sugli operai Fiat.

Imbattersi in Umberto Terracini, per quelli che si avvicinavano alla politica a fine anni 60 era esperienza assai singolare. Conferenziere perfetto, dall’eloquio forbito e millimetricamente preciso, senza sbavature. E dotato di una consequenzialità geometrica, che faceva scaturire le conclusioni del discorso da passaggi e approdi definiti. Mai appesantiti da citazioni retoriche, fatti salvi certi riferimenti indispensabili di storia o di dottrina giuridica.
Sembrava un professore di diritto, sbarcato per caso in una di quelle affollate e fumose sezioni di partito. Ma ancor più straordinario era il silenzio, che avvolgeva quelle parole. E la vena giuridizzante ma chiara, che faceva apparire quegli interventi come usciti dalla sapienza di un costituzionalista, benché del tutto congrui con l’urgenza del momento. Chi era quel «professore»? E come era capitato lì, in mezzo a operai, artigiani, commercianti, impiegati, militanti spesso riottosi, di là della devozione al Partito? E invece non era una bizzarria. Perché le cose che Terracini diceva, erano parte integrante della linea di quel partito, erano in fondo la sua anima formale di fondo, il suo metodo. Tradotti in linguaggio alto ma comprensibile a tutti. Erano la stessa «via italiana al socialismo», intesa come gradualismo costituzionale, attraverso le leggi e l’ampliamento sociale e sostanziale di esse.
E il tutto senza rinnegare l’antica filiazione rivoluzionaria che aveva visto nascere quel Pc tra le bufere del secolo e a partire dall’Ottobre 1917 e dal 1921, con la scissione di Livorno (di cui Terracini fu uno dei protagonisti). Certo tutto questo, allora per noi, non era affatto chiaro, e rimaneva l’effetto di «stranezza» dinanzi a quello stile. Lo stesso effetto di anomalia e anche di «eresia» un po’ indecifrata, che fecero poi di Terracini a lungo, un caso a sé, e a volte un isolato nel Pci. Non troppo interessante alla fine, nemmeno per noi giovani.
ANOMALIA DI LIBERTÀ
Destino ingiusto, che è venuto il momento di rovesciare per intero, per amore di verità e di memoria che è base di verità. E l’occasione è il venticinquennale della scomparsa del grande dirigente, Presidente comunista dell’Assemblea Costituente, nato a Genova nel 1895, e avvenuta il sei dicembre 1983 a Roma. In concomitanza con la quale uscirà domani il volume delle «Chiavi del tempo» de l’Unità a lui dedicato: Lorenzo Gianotti, Umberto Teracini. La passione civile di un padre della Repubblica (pp. 280, euro 7,50 più il prezzo del quotidiano). È un libro affascinante, un libro di storia del Pci, costruito sullo sfondo di un affresco più vasto: il passaggio sociale otto-novecentesco dell’Italia, il socialismo italiano, la nascita del Pci, il fascismo, l’antifascismo, le vicende tragiche dell’Internazionale comunista a Mosca. E poi l’antifascismo, il patto Molotov-Ribbentropp, la guerra, la Resistenza, e il radicarsi via via del Pci di Togliatti. Fino al compromesso storico e al’ascesa di Craxi. Un libro completo, che è di per sé un romanzo d’epoca, costruito attraverso una biografia straordinaria, quella di Terracini.
Impossibile riassumerlo tutto. E però possiamo darvene una chiave. Eccola: «l’eretico fedele». L’ostinato rivoluzionario sempre controcorrente, approdato con la sua testa e pagando di persona alla democrazia come rivoluzione. Senza l’ausilio di Gramsci e Togliatti, l’uno in carcere come lui (rispettivamente 20 e 22 anni di condanna dal Tribunale speciale), l’altro a Mosca o in Spagna.
Dunque, ecco la parabola di Terracini. Giovane intellettuale medioceto, ebreo laico, socialista, ordinovista. Poi comunista, ostile alla pace nel «fronte unico» coi socialisti, e avverso su questo a Lenin e Zinoviev. Quindi, da bordighista si avvicina a Gramsci e trascina con sé anche Togliatti. E ancora: ostile alla svolta staliniana del 1928 e alla teoria del social-fascismo, nonché favorevole alla fase intermedia democratica. Nemico nel 1939 del patto Molotovo-Ribbentropp, e cacciato dal partito per questo nel 1941. Vi verrà riammesso nel 1945, a patto di non fare storie sul passato, e benché dieci anni prima il VII Congresso dell’Ic gli avesse dato ragione in pieno. Riappproda al «suo» partito dopo l’isolamento in carcere dai compagni, e dopo essere stato segretario della Repubblica partigiana della Val d’Ossola. Togliatti lo riaccoglie a Roma, e gli fa poco a poco strada verso l’alto, fino a proiettarlo verso la Presidenza dell’Assemblea Costituente, contro i più settari Longo, Secchia e Scoccimarro che pure lo avevano espulso nel 1941. Ecco allora perché Teracini fu un «eretico fedele», sempre gravato dall’ombra del sospetto, malgrado la tempra e il suo valore immensi. Malgrado il sentirsi, e sempre, un comunista figlio dell’Ottobre. E non finisce qui. Perché Terracini non smise mai di «crearsi» problemi. Dissente infatti sul piano Marshall Usa, che voleva accogliere. Dissente sulla fedeltà geopolitica a Mosca nel 1947 e sui richiami ortodossi della «casa madre». Dissentirà sulla guerra dei sei giorni nel 1967, affermando il diritto di Israele. E dissentirà sia sul «compromesso storico», sia sulla «guerra» di Berlinguer con Craxi. Insomma un terremoto costante, pur nella assoluta fedeltà. Un ossimoro vivente. Interamente coincidente con quella anomalia che fu il Pci. Anomalia di libertà, malgrado tutto.

l’Unità Roma 5.12.08
La Sapienza, Frati chiede lo stop delle occupazioni


A quanto riferito dagli studenti dei Collettivi dell'università La Sapienza ieri mattina il rettore dell'ateneo, Luigi Frati, si sarebbe recato nelle facoltà di Fisica e di Chimica per chiedere di porre fine all'occupazione di parte dei due edifici. Gli studenti dell'«Onda», attualmente riuniti in assemblea all'interno della facoltà di Fisica, aggiungono anche che il rettore abbia lasciato intendere come la sua volontà sia quella di procedere al ritorno di una situazione di normalità all'interno della città universitaria, agevolando così il pieno svolgimento della didattica. «Il rettore ci ha detto sostanzialmente che entro domani (oggi, ndr) dovremo sgomberare» spiegano gli studenti «ma noi non ci lasciamo intimidire dalle sue parole. La nostra protesta non sta impedendo l'attività didattica».

l’Unità Roma 5.12.08
Viaggio in un tribunale a pezzi
Oggi il personale incrocia le braccia
di Livia Ermini


I cancellieri e gli ufficiali giudiziari sono scesi da 53mila a circa 43mila: «Il governo vuole la giustizia a costo zero e Berlusconi vorrebbe privatizzare anche questo importante settore della società».

Un'onda umana ci investe mentre varchiamo la soglia del numero 54b di Viale Giulio Cesare. E'una normale mattinata di lavoro al Tribunale Civile di Roma; avvocati, magistrati, praticanti si affrettano, cartelle alla mano, lungo i corridoi e per le scale che portano alle diverse sezioni. Fino a poche ore prima la fila interminabile dei creditori del fallimento Alitalia si assiepava ai due sportelli appositamente aperti da un mese per depositare le pratiche di risarcimento.
UNA STRUTTURA A PEZZI
Le condizioni e gli ambienti di lavoro, paragonabili a bolgie dantesche, appaiono in tutta la loro precarietà. A cominciare dalla struttura. Al piano terra i corridoi sono stretti e tortuosi e le finestre hanno le grate che ostacolano ogni eventuale fuga. Con il recente nubifragio i controsoffitti di due stanze della sezione fallimentare sono crollati e per fortuna che era notte e non c'era nessuno.
Nella stanza accanto l'unica porta di sfogo in caso di incendio è bloccata da un armadio. Salendo ai piani superiori gli stipi con le pratiche delle cause sono ancora lungo i corridoi, ma almeno ora non è più possibile leggere la documentazione poiché sono stati dotati di serrature. Quando entriamo nella sala della cancelleria però il discorso cambia.
FALDONI INCUSTODITI
Negli scaffali i faldoni sono ammucchiati alla meglio. Senza contare che gli archivi sono posizionati solo sull'ala destra del piano perché la sinistra poggiando su piloni ed essendo cava sotto rischia di crollare sotto un peso eccessivo. Legge 626: questa sconosciuta; sembra suggerire la passeggiata, perché di sicurezza sul lavoro paradossalmente qui se ne vede ben poca. I dipendenti si lamentano della situazione ormai al tracollo. Il Ministero della Giustizia, a causa della legge 133 per il risparmio nelle pubbliche amministrazioni, ha tagliato la pianta organica di 3.256 unità. Oggi a fronte di un numero di giudici che è cresciuto da 8mila a 18mila in dieci anni i cancellieri e gli ufficiali giudiziari sono scesi da 53mila a circa 43mila.
I TAGLI DEL GOVERNO
Ovvio che lo smaltimento delle pratiche sia intasato. Solo il 10% degli straordinari viene pagato, ma soprattutto nel penale c'è l'obbligo di farne secondo necessità, pena la denuncia. Dunque c'è chi invece di 36 ore ne lavora 50 e non riesce nemmeno a prendere i riposi compensativi per mancanza di sostituti. Le circolari del Ministero non arrivano e spesso quando cambia qualche norma si deve improvvisare. I computer sono obsoleti e i programmi non riescono a girare, quando non si rimane senza carta. A volte fogli e cancelleria vengono pignorati perché non è stata pagata la fornitura. Si acquistano stampanti a prezzo stracciato per poi scoprire che il solo ricambio del toner costa più dell'intera macchina.
GIUSTIZIA «PRIVATIZZATA»
«Ogni Governo - sostiene Daniela Rossone delegata sindacale Cub Rdb - ha fatto riforme a costo zero senza investire nella giustizia, Berlusconi ora vuole privatizzare anche questo importante settore della società». Moltissimi infatti sono ormai i servizi appaltati all'esterno. Quello informatico innanzitutto e poi quello delle intercettazioni telefoniche. Non c'è solo dunque un problema di organizzazione e di tempi ma anche di controllo delle informazioni che potrebbero finire in mani sbagliate. Non va meglio altrove. Negli uffici del giudice di Pace a Piazzale Clodio i faldoni con documentazione e sentenze stanno stipati nei bagni.
Dunque lo sciopero per questi lavoratori esasperati appare oggi, anche se un po' spuntata, l'unica arma per attirare l'attenzione.

Corriere della Sera 5.12.08
Sinistra e «questione morale»
Allarme rosso
di Pierluigi Battista


L'Espresso è un settimanale prestigioso che non ha mai camuffato la sua anima progressista e di sinistra: per questo assume un significato particolare quel titolo-choc, «Compagni spa», che campeggia sulla copertina del suo ultimo numero. Organo di punta della polemica anti- berlusconiana, allergico culturalmente e antropologicamente a tutto ciò che nell'Italia e nel mondo porti con sé un sentore di «destra», il giornale ora diretto da Daniela Hamaui ha scelto di non chiudere gli occhi sulle brutture che deturpano le vicinanze di casa. Recentemente ha rivelato i dati che denunciano la deriva oligarchico- corporativa in cui appare prigioniera la «casta » sindacale. Ora denuncia gli «intrallazzi», specchio di un invasivo e arrogante «potere dei comitati d'affari» in cui si stanno inabissando le giunte di sinistra, da Napoli a Firenze, da Genova a Perugia, da Crotone a Trento, dall'Aquila a Foggia. Un esempio raro di giornalismo libero: schierato ma refrattario all'omertà di schieramento, di parte ma capace di non occultare, nella foga della battaglia politica, i vizi che albergano nei partiti idealmente più vicini.
Una lezione. E un allarme: un allarme rosso. Un allarme per quel clima mefitico di sospetti, pratiche spregiudicate, relazioni pericolose, favoritismi, uso disinvolto delle regole che sembrano dilagare sulle giunte di sinistra, messe oramai nelle condizioni di non poter più decentemente rivendicare anche solo la parvenza di quella «diversità» rispetto all'avversario esibita in passato con smisurato orgoglio. Una condizione prossima alla rottura, a cominciare dalla città-simbolo di questo sprofondamento, Napoli, che ha strappato al presidente della Repubblica Napolitano l'angosciata esortazione a «reagire all'impoverimento della politica» che affligge le amministrazioni del Mezzogiorno in particolare. Una fonte di ansia e di allarme che ha indotto un costituzionalista certo mai indulgente con il centrodestra come Gustavo Zagrebelsky, a denunciare in un'intervista al Corriere l'infiltrazione di una nuova «questione morale» nel corpo periferico del Pd. E ha spinto Oscar Luigi Scalfaro alla richiesta di una pulizia tempestiva e radicale, anticipando le sempre più incombenti voci di devastanti terremoti giudiziari.
La risposta meno efficace e più controproducente a questo accavallarsi di moniti e di avvertimenti sarebbe l'adozione di una strategia della minimizzazione, come sembra affiorare dalle parole di Luciano Violante consegnate al
Riformista. E invece un'opposizione debole e messa all'angolo da un'inedita e velenosa «questione morale» rappresenterebbe lo scenario peggiore in un'Italia squassata dalla crisi e in presenza, per la prima volta dall'aprile scorso, di una regressione nella vasta messe di consensi accumulata dal governo. L'allarme rosso ha raggiunto oramai il livello di guardia e svanisce l'illusione di riaggiustare gli strappi confidando nelle virtù risanatrici del tempo che passa e cicatrizza ogni ferita. Se si persistesse in questa illusione, il senso di drammatica urgenza di una svolta ispirerebbe il terrore dell'abisso. Qualcosa di molto più grave della copertina di un giornale.

Repubblica 5.12.08
L'ex Fgci e il plurinquisito la maledizione fiorentina torna a colpire la sinistra
Ora il Pd rischia di perdere dove trionfava
di Alberto Statera


Al centro dell´inchiesta il progetto da più di un miliardo per la piana di Castello
L´uomo di Ligresti, Rapisarda, è un ex latitante: racconta di una cena anche con D´Alema
Nel 1989 i giovani del Pci indussero Occhetto a segare l´intera classe dirigente cittadina

FIRENZE Qui, tra queste sterpaglie, i ragazzi della Federazione giovanile comunista, quei «khomeinisti» tra i quali militava l´attuale sindaco uscente Leonardo Domenici, piantarono nel 1989 la tenda rossa che indusse il segretario del Pds Achille Occhetto a bloccare la speculazione immobiliare della Fondiaria sulla piana fiorentina del Castello. «Sento puzza di bruciato», disse nella notte tra il 26 e il 27 giugno di quell´anno di disgrazia in una telefonata al segretario provinciale Paolo Cantelli, che si schiantò sulla sedia. E un´intera classe dirigente locale comunista, forse l´avanguardia di quella definita oggi «sinistra immobiliare», fu di fatto segata in una notte, nonostante i riti consolatori di Fabio Mussi e Gavino Angius, spediti a Firenze a trattare i reprobi. Vent´anni sono passati, vent´anni e la storia, come in un´ineluttabile maledizione fiorentina, si ripete con un partito che si sfalda alla vigilia delle primarie per la designazione del candidato sindaco su quei 180 ettari di nulla, in un clima politico che adesso Occhetto definisce da «compagni di merendine». Mentre da Roma Walter Veltroni ammette che il Partito democratico, percorso da cacicchi di periferia, non è affatto al riparo dalla questione morale, sollevata da Giorgio Napolitano.
Al posto della tenda rossa dei khomeinisti della Fgci svettano oggi qui, a nord-ovest del centro di Firenze, decine di scheletri poggiati su cilindri di cemento armato che dovrebbero contenere dal luglio prossimo la scuola dei marescialli e dei brigadieri dei carabinieri. Dietro, tra i rovi, il nulla su cui la sinistra rischia di perdere alle prossime elezioni amministrative il miglior risultato elettorale in tutta Italia del neonato Pd veltroniano. La piana di Castello, l´unica area libera di Firenze ora sequestrata dalla magistratura, diciamolo, è uno schifo, accerchiata com´è dall´aeroporto di Peretola dei Benetton, dall´autostrada, dalla ferrovia e dal futuro inceneritore.
Difficilmente ci sarebbe qualcuno disposto a costruire lì qualcosa. Se non fosse che quell´area è di Salvatore Ligresti con la sua Fondiaria-Sai. E, si sa, quando c´è di mezzo don Salvatore da Paternò, tutto è possibile: anche un quartiere residenziale con migliaia di appartamenti, e soprattutto le sedi della Regione e della Provincia, concesse dalla politica, che valorizzano un´area alquanto infelice. Un affare da più di un miliardo, importante quasi come quello di Milano nell´area ex Fiera denominato City Life.
«Mors tua vita mea», sembra essere il motto della squadra ligrestiana che ogni volta che persegue un progetto speculativo da Craxi in poi, sembra far fuori un´intera classe politica. Per scelta? Per insipienza? Per arroganza del potere finanziario, che è certo di poter comprare sempre tutto e tutti? Per inadeguatezza di una classe politica di cacicchi locali irretiti dal «volto demoniaco del potere», come dice l´ex presidente della Corte Costituzionele Gustavo Zagrebelsky, citando Ritter? Si chiama Fausto Rapisarda l´uomo che ha messo a ferro e fuoco la sinistra fiorentina. Vecchia conoscenza delle polizie e delle procure d´Italia, nipote acquisito e plenipotenziario di Ligresti, plurinquisito, ex latitante, fu protagonista di Mani Pulite per lo scandalo Eni-Sai: 12 miliardi di lire pagati al Psi di Craxi e al segretario amministrativo della Dc Severino Citaristi per ottenere di assicurare con polizze-vita i 140 mila dipendenti dell´ente petrolifero. Allora si beccò 3 anni e otto mesi, meno di Craxi e Citaristi, ma quella condanna non servì a toglierlo dalla scena, sulla quale persiste peraltro immarcescibile, pur se pregiudicato, suo zio don Salvatore.
E´ lui, Fausto, che a Firenze gestisce l´affare Castello con i soliti metodi.
Intercettato il 10 ottobre racconta a Ligresti: «Stasera sono a cena con D´Alema. Sono al suo tavolo, mi ha messo lui al suo tavolo, quindi si è informato evidentemente». Degno di una gag di Totò il resoconto telefonico del suo incontro alla Taverna del Bronzino con il vicepresidente della Regione Federico Gelli, che - onore che annuncia futuri favori - gli dà persino del tu. E da oscar della «Brutta Italia» quello con Francesco Carrassi, il direttore ora dimissionario della "Nazione", feudo della famiglia Riffeser che cambia i direttori dei suoi giornali come le calze, scegliendo accuratamente quasi sempre i più disponibili a tutto, il quale rivendica favori in cambio di un editoriale gradito a Ligresti.
Un´Italia di millanterie, di debolezze, di degenerazioni piccole e grandi della politica e della società civile, già vista tante volte, se non fosse perché sembra contagiare in pieno nella sua roccaforte la sinistra più gradita d´Italia, alla vigilia delle elezioni per l´elezione del nuovo sindaco al posto di Leonardo Domenici, che, come persona informata dei fatti, ha subìto l´onta di quattro ore di interrogatorio da parte del procuratore Giuseppe Quattrocchi. Le primarie espressione di democrazia interna rispetto allo strapotere partitico? Sarà, ma qui si sono trasformate nel massacro di un´intera classe dirigente e nell´epitome della «brutta politica». Perché le istituzioni trattano confidenzialmente personaggi ben noti come Rapisarda? «Istituzioni e politica volgari, grottesche, approssimative e arruffone», ha scolpito Daniela Lastri, la ragazza, candidata alle primarie con Matteo Renzi, il giovane, Lapo Pistelli, il democristiano, e Graziano Cioni, il vecchio. «Se vince la Lastri è un disastro», dice Cioni, l´assessore-sceriffo autore dei provvedimenti anti-lavavetri, in una delle intercettazioni che hanno portato ad indagarlo per corruzione insieme al suo collega assessore all´Urbanistica Gianni Biagi. Cioni, comunista da sempre, «babbo cenciaio», come ricorda con orgoglio, sembra un po´ Plunkitt, quel politico novecentesco della New York di Tammany Hall che viveva la politica come un do ut des di reciproche fedeltà e favori. Accusato di avere un figlio che lavora da Ligresti, di avere un´amica stretta cui ha trovato una casa di Ligresti, di averle fornito una parabola Sky di Ligresti, di aver preso sponsorizzazioni da Ligresti, la sua concezione della politica è tutta contenuta nell´intercettazione di una telefonata con Sonia Innocenti, una fornaia rimasta senza lavoro con due bambini a carico, che si era rivolta a lui in cerca di un lavoro.
Cioni l´aveva fatta assumere dall´imprenditore Marco Bassilichi.
Ma viene a sapere che al momento di schierarsi per le primarie, Sonia sceglie Lapo Pistelli. E per telefono le fa una sfuriata: «Ascoltami, io mi posso ritirare, posso andare alle elezioni, posso vincere, ma la gente che è stata con me e poi se ne scorda, mi fa incazzare, mi fa incazzare, mi fa incazzare. Capito? Allora è bene che te ne ricordi. Ma che mi prendi per il culo?». Sono increduli nella Casa del Popolo di San Bartolo 300 iscritti, ma il figlio del «babbo cenciaio», mentre si dimette il capogruppo del Pd Alberto Formigli, socio di società di progettazione, per ora non molla di un centimetro sulla candidatura alle primarie, aggravando a Roma la gastrite di Veltroni.
Tutto questo forse non sarebbe mai avvenuto se Diego Della Valle, che tanti soldi ha investito nella Fiorentina, non avesse chiesto una novantina di ettari al comune per fare la sua Cittadella Viola, il suo stadio, naturalmente con qualche albergo e qualche centro fitness. Visto che non siamo a Phoenix, ai margini del deserto, l´unica area disponibile è alla piana del Castello, anche a costo di sacrificare segretamente gli 80 ettari previsti di parco, che peraltro al sindaco Domenici lo hanno sempre fatto «cagare», come racconta lui stesso in un´intercettazione telefonica.
Fateci l´abitudine, nella stanza di Clemente VII, a Palazzo Vecchio, sotto gli affreschi del Vasari, è questo ormai il lessico corrente. Forse perché persino qui la politica - ma speriamo di essere smentiti - non è ormai che «sangue e merda», come diceva l´indimenticato ministro socialista Rino Formica.

Corriere Fiorentino 5.12.08
Assemblea infuocata nella notte. La Lastri: una decisione va presa. Il Presidente della Provincia sei ore in Procura
«Fuori Cioni». E il Pd si spacca
di Mauro Bonciani


L'assemblea cittadina del Pd fa il bis della notte da resa dei conti di mercoledì. Ieri riunita al circolo Andreoni si è spaccata su un documento che chiede all'assessore Graziano Cioni di ritirarsi dalla corsa alla primarie per sindaco.
A battersi perché la competizione resti a quattro, non solo i sostenitori dello sceriffo, ma anche i supporter del presidente della Provincia Renzi (ieri a colloquio con i magistrati sul caso Castello per sei ore, così come il vicepresidente della Regione Gelli). «Una decisione va comunque presa, altrimenti ci commissariano », dice l'assessore, nonché candidata alle primarie, Daniela Lasti. Il vicesindaco Matulli ha tentato fino all'ultimo un'opera di mediazione fra le parti.
«Fuori dalle primarie» E il partito s'infiamma
Un documento per chiedere il ritiro dell'assessore indagato Matulli media. Lastri: «Se non decidiamo ci commissariano»
Anche i sostenitori di Renzi contrari all'esclusione. I Comunisti Italiani annunciano l'uscita dalla maggioranza e dalla giunta
«Graziano non correrà alle primarie per il bene del partito». L'assemblea bis del Partito democratico fiorentino è andata in scena ieri sera, questa volta al circolo Andreoni. I democratici si confrontano e lacerano su un documento che segna una svolta nel braccio di ferro in atto da giorni, quasi una «resa dei conti», in un'atmosfera accalorata che sfiora lo psicodramma.
Nero su bianco, il documento del Pd, rinnovando la fiducia al segretario cittadino Giacomo Billi («Non mi dimetto altrimenti le primarie sarebbero automaticamente azzerate»), recita: «L'assemblea chiede a Graziano Cioni, cui va la nostra solidarietà rispetto alle indagini in corso, di rinunciare alla candidatura nell'ambito delle primarie per la selezione del candidato sindaco del Pd, gesto utile per proseguire serenamente verso il prossimo appuntamento elettorale. Un atto di responsabilità personale perché non gravino sulle primarie elementi che possano fare risultare meno autorevole la voce del Pd nei confronti dei cittadini». Una posizione che ha acceso gli animi (i cioniani e renziani sono andati su tutte le furie), che ha fatto evocare cadute e suicidi politici e che ha monopolizzato il dibattito. Il vicesindaco Beppe Matulli si è schierato invece contro l'allontanamento di Cioni dalle primarie, tentando la mediazione e chiedendo all'assemblea di dare a Billi 15 giorni di tempo per affrontare la situazione, lo ha definito «un periodo di decantazione»; il presidente della Provincia Renzi si è detto d'accordo con lui.
Ma il terremoto politico, sotto forma di documento in sette punti, era già stato scatenato: la paginetta partorita dal Pd, dopo la conferma della piena fiducia al segretario, sottolinea il no all'autosufficienza politica, la richiesta alla magistratura di tempi brevi, il sì al piano strutturale, il cambiamento della politica «adottando in tutte le sue parti il codice etico del partito »; e alla fine il passaggio che Cioni voleva ad ogni costo evitare.
Parole pesanti, arrivate proprio al circolo Andreoni dove Leonardo Domenici invitò Matteo Renzi a non scendere in campo nelle primarie. Poi gli interventi; e quasi tutti, paradossalmente, hanno chiesto al partito di «non espellere » Cioni, di non dividere gli elettori in buoni e cattivi, di non «farsi dettare l'agenda politica dalla magistratura », evocando il rischio della spaccatura. Il testo «unitario» è rimasto così praticamente senza padri, mentre in fondo alla sala i capannelli si formavano e si disfacevano in continuazione e arrivavano anche i candidati Matteo Renzi e Daniela Lastri. Dopo gli appassionati interventi dei cioniani Riccardo Nencini — «una maggiornaza che espelle impoverisce il partito» — e di Tea Albini, Massimo Mattei coordinatore della campagna elettorale di Renzi ha chiesto a gran voce il ritiro del documento: «Il documento del gruppo dirigente è stato dato ai giornalisti prima che all'assemblea — ha detto indignato — e per serietà del gruppo dirigente e per rispetto dell'assemblea, tralasciando il fatto che 40 anni di politica non si possono liquidare in una paginetta, chiedo il ritiro del documento». Stefania Collesei esponente della sinistra interna, è stata la prima a spiegare il perché dell'appello a Cioni: «Serve un passo coraggioso, per risolvere la situazione ». La resa dei conti è stata anticipata, oltre che dal consueto vortice di telefonate e dalle voci di un azzeramento romano delle primarie, dalla riunione di coalizione che si è tenuta ieri pomeriggio in via Venezia. Una coalizione che ha già perso un pezzo. I Comunisti Italiani non si sono neppure presentati per riunirsi con il segretario nazionale Oliviero Diliberto e su invito di Diliberto hanno deciso che «non ci sono le condizioni per continuare l'esperienza in Palazzo Vecchio, nella coalizione». Una posizione annunciata, che sarà ratificata formalmente oggi dal consiglio federale del Pdci (che chiederà anche all'assessore ai lavori pubblici Paolo Coggiola di dimettersi dalla giunta comunale) e che vede i Comunisti guardare al futuro, alla sinistra nuova ma anche ai tanti fiorentini disorientati dalle recenti vicende.
I capigruppo di Palazzo Vecchio, i segretari cittadini e provinciali di Pd, Sinistra, Idv, Verdi e partito Socialista hanno solo certificato le diverse posizioni, tra gli imbarazzi di Giacomo Billi e Andrea Barducci che sulle primarie non potevano rispondere «a prescindere» dall'assemblea della serata. Verdi, Sinistra e Socialisti si sono presentati con una posizione unitaria basata su azzeramento delle primarie del Pd e primarie di coalizione a Firenze. Sinistra e Socialisti (i segretari regionali Giovanni Bellini e Pieraldo Ciucchi si sono visti prima dell'inizio del vertice) hanno sottolineato che senza un cambio di rotta del Pd, se prevalesse la tendenza all'autosufficienza, non solo è a rischio la maggioranza Domenici, ma lo sono anche le alleanze per il voto della primavera 2009. Non hanno posto il problema della permanenza in maggioranza nè dello stop alla consultazione del Pd sul candidato sindaco Verdi e Italia dei Valori, ma i primi hanno ribadito che Graziano Cioni dovrebbe fare un passo indietro anche da assessore, non solo dalle primarie, e i secondi hanno insistito su tavoli condivisi e rinnovamento. Dopo quasi tre ore gli alleati si sono lasciati con un unico punto di accordo: in Provincia si terranno primarie di coalizione (per il Ps potrebbe correre Tommaso Ciuffoletti, per la Sinistra Maurizio De Santis).

Corriere della Sera 5.12.08
Memoria Il nuovo numero dell'«Europeo» dedicato a dodici mesi densi di avvenimenti decisivi
1948, l'anno che divise l'Europa
Dal piano Marshall al colpo di Praga: così nacquero i blocchi
di Antonio Carioti


Per l'Italia e per l'Europa fu l'anno della stabilizzazione, dopo le incertezze di un dopoguerra convulso. Nel 1948, il 18 aprile, l'Italia scelse al tempo stesso lo Scudo crociato e l'Occidente, con un voto largamente maggioritario: si affermò così la centralità democristiana, connotato principale del nostro sistema politico fino al terremoto dei primi anni Novanta. E votare per il partito di Alcide De Gasperi significò anche approvare il piano Marshall, il programma di aiuti economici americani all'Europa che fu la premessa dell'Alleanza atlantica.
Per quarant'anni i giochi erano fatti, e non solo in Italia. Negli stessi mesi si costituiva infatti ad Est il blocco sovietico, con il colpo di Praga del febbraio 1948, che segnò l'instaurazione di un brutale regime stalinista anche nella civile e progredita Cecoslovacchia. Ma al tempo stesso in ambito comunista si affermava l'eresia jugoslava di Tito, scomunicato dal Cominform in giugno e tuttavia capace di resistere alle pressioni di Mosca. Il blocco di Berlino da parte dei sovietici, sventato dal ponte aereo americano, segnò il definitivo consolidarsi dei due schieramenti geopolitici contrapposti, con l'ex capitale del Reich a fare da teatro delle tensioni più acute.
Si giustifica quindi pienamente il titolo «1948. L'anno decisivo della nostra storia», con cui L'Europeo illustra il tema portante del numero di dicembre, da oggi in edicola con il Corriere della Sera. Introdotte da una riflessione dello storico Giuseppe Galasso, che delinea il quadro di un'Italia ancora povera e arretrata, ma pronta a spiccare il balzo per il «miracolo economico » degli anni Cinquanta, sfilano nella consueta parata antologica alcune delle firme più prestigiose della gloriosa testata: Nicola Adelfi, Tommaso Besozzi, Enzo Biagi, Camilla Cederna, Sandro De Feo, Ennio Flaiano, Vittorio Gorresio. C'è anche Mario Pannunzio, che l'anno successivo avrebbe fondato un altro prestigioso settimanale, Il Mondo.
Qui firma due splendide corrispondenze dall'estero: una da Madrid, nella quale traccia il quadro di un Paese chiuso nel fiero immobilismo della restaurazione feudale imposta dal «generalissimo» Francisco Franco; l'altra da Londra, incentrata sull'atteggiamento dei britannici, tanto diffidenti verso i progetti di unificazione dell'Europa quanto determinati nell'affrontare le dure incombenze della guerra fredda.
Godibilissime anche le corrispondenze dagli Stati Uniti di Ugo Stille, in particolare quella sulla campagna presidenziale americana — già allora un'incredibile prova di resistenza per i due candidati — di cui pubblichiamo un estratto qui a fianco. Oltre al duello fra Harry Truman e Thomas Dewey, vinto dal primo contro tutte le previsioni, Stille racconta alcuni momenti drammatici della guerra fredda, che era sempre a rischio di arroventarsi.
Straordinario, come al solito, l'apparato iconografico: c'è il presidente della Repubblica Luigi Einaudi, compito e galante; c'è Amintore Fanfani, giovane e volitivo in un comizio; ci sono le folle in tumulto dopo l'attentato a Palmiro Togliatti; c'è un'immagine di Biagi che intervista il criminale nazista di Marzabotto, Walter Reder. Ma il pezzo forte è il servizio di David Seymour intitolato «Sciuscià d'Europa», con impressionanti foto di un'infanzia misera, malnutrita, stremata, che porta ancora i segni della guerra, ma riesce di quando in quando a regalarci una risata o una smorfia sbarazzina.
Completa il fascicolo un ritratto dedicato dall'attuale direttore editoriale dell'Europeo, Daniele Protti, allo scrittore quarantottesco per eccellenza, Giovannino Guareschi, anche lui immortalato in una serie d'immagini da cui traspare per intero il carattere sanguigno dell'inventore di Peppone e don Camillo.

il Riformista 5.12.08
Safouan, il Corano è tollerante, siamo noi a non essere liberi
intervista di di Alessandra D'Andria


L'intellettuale franco-egiziano, psicanalista e traduttore arabo di Freud, ci racconta i legami tra politica della scrittura (sacra) e terrorismo religioso.

«Non è l'Islam ad essere incompatibile con la democrazia ma la strumentalizzazione di questa religione da parte delle elite al potere». Pronuncia ogni singola parola con lentezza Moustapha Safouan, come se volesse imprimerla nella mente di chi lo ascolta. Perché la sua è una convinzione profonda, che nasce da anni di studio sulla questione - sempre attuale - del rapporto tra Corano e libertà. Tema a cui lo psichiatra franco egiziano - famoso tra le altre cose per aver tradotto in arabo L'interpretazione dei sogni di Freud - ha dedicato il saggio Perché il mondo arabo non è libero, appena pubblicato da Spirali. Un titolo provocatorio. Del resto, Safouan - in Italia per un ciclo di presentazioni- non ha timore di turbare la sensibilità degli «oltranzisti del politicamente corretto«. L'anziano medico - abituato a indagare nei meandri dell'inconscio - ama demolire falsi miti e luoghi comuni. Safouan è un intellettuale "senza mezze misure". Proprio come il suo nuovo libro, dal titolo controcorrente.
Safouan, perché il mondo arabo non è libero?
Devo fare una puntualizzazione. Il titolo originario - con cui l'opera è stata pubblicata in Gran Bretagna - è Perché gli arabi non sono liberi. L'editore francese, temendo di ferire la sensibilità dei Paesi islamici, ha trovato questa forma edulcorata. La nuova traduzione araba si chiamerà Perché noi non siamo liberi - che mi sembra il nome più adatto - dato che è un arabo a parlare. Quanto alle motivazioni dell'assenza di libertà nel mondo arabo queste derivano da ragioni storiche. Ben più antiche della colonizzazione. Spesso i nostri governanti puntano il dito contro gli stranieri - che di certo hanno sfruttato le colonie per i loro interessi - ma non si assumono le loro responsabilità.
Quali sarebbero?
La religione islamica non delinea una forma di organizzazione politica. È, però, vero che il Corano lascia irrisolta una questione fondamentale: quella della successione. Maometto è l'ultimo Profeta, nessuno può sostituirlo. Tale affermazione si iscrive in un contesto politico in cui ancora esiste la "forma stato" come la conosciamo ora. I popoli della regione, dunque, si sono dovuti ispirare all'unica forma di governo che conoscevano, ovvero il modello persiano dell'Imperatore-Dio. Una modalità di organizzazione del potere importata da fuori e, dunque, estranea all'Islam come religione. Il punto è che la divinizzazione del potere s'è conservata nei secoli, ha plasmato la mentalità dei popoli musulmani. Grazie alla manipolazione dei testi sacri operata dai vertici dei regimi. In Egitto, ad esempio, da Nasser in poi, il presidente nomina i rappresentanti del potere religiosi, i responsabili della fatwa, i rettori universitari.
In che modo è stata realizzata questa mistificazione?
La lingua ha un ruolo fondamentale in questo. L'arabo è una lingua "duale". Da una parte c'è l'idioma dei testi sacri, quello letterario, fisso e immutabile, dall'altra c'è la lingua parlata dal popolo. La prima resta, però, inaccessibile per il popolo. D'altra parte, chi detiene il potere non ha interesse a diffonderne la conoscenza. «Il Corano dice questo», ripetono i governanti ma la gente ignora che cosa realmente affermino le scritture. Si realizza, così, quella che io definisco una "censura non dichiarata". Perché il Corano è molto più tollerante di come i regimi arabi ce lo fanno apparire.
Perché allora, specie negli ultimi tempi, sembra prevalere l'estremismo?
Il fondamentalismo è il prodotto della repressione operata dai governi islamici. L'opposizione non ha modo di esprimersi, l'unico canale che ha per affermarsi è la violenza. Una violenza assoluta e brutale quanto - o spesse volte di più - quella dei sistemi politici che si trovano a combattere. Anche questi movimenti di resistenza "manipolano" il Corano per legittimarsi. Utilizzano gli stessi meccanismi dei governi al potere. Che vengono definiti "infedeli", mentre gli estremisti si autoproclamano i detentori "dell'ortodossia". Non a caso, l'integralismo colpisce non solo l'Occidente ma anche i regimi arabi. La religione, tuttavia, non c'entra. È una lotta per il potere.

Repubblica 5.12.08
Dalla concezione della scienza al senso dello Stato
Arabi e Occidente gli ostacoli al dialogo
di Adonis


Nelle tre fedi Dio è presente attraverso un messaggio specifico e unico che esclude gli altri. Nella prassi tutto ciò è stato mutato in ideologia

Quattro ostacoli vanificano il dialogo umano, sincero e creativo tra le sponde orientale e occidentale del Mediterraneo, o per essere più precisi tra gli Arabi e l´Occidente. Questi ostacoli rappresentano la visione religiosa dell´uomo e del mondo, la concezione della conoscenza, della scienza e in particolare dell´aspetto tecnologico, del senso dello Stato e della prassi politica, dell´antico e reiterato conflitto tra il sacro ebraico e quello islamico, che adesso si manifesta sotto forma di conflitto tra Israele e Palestina.
Se veramente volessimo realizzare questo tipo di dialogo creativo, che non si basa sulla semplice tolleranza, per essere fondato invece sulla eguaglianza degli esseri umani, allora dovremmo innanzitutto eliminare questi ostacoli o almeno dovremmo adoperarci per rimuoverli nel dialogo e negli incontri. In questa sede è difficile analizzare nei particolari ciascun ostacolo per scoprirne le origini e predisporne il superamento. Perciò mi limito a fare alcuni accenni e a porre domande specifiche per ciascuno di essi.
In primis, per quanto concerne la visione religiosa dell´uomo e del mondo, e qui si intende la visione monoteista, sappiamo tutti che il monoteismo ha un suo modo esclusivo di concepire Dio. In ogni monoteismo Dio è presente attraverso un messaggio specifico e unico che esclude gli altri. Nella prassi è stato mutato in ideologia, facendo della sua interpretazione l´unica via per conoscere Dio ad esclusione delle altre. Così, per il monoteismo, la parola divina si trasforma in uno strumento per il potere. E l´interpretazione è un potere culturale che diventa mezzo per fondare il potere politico-sociale. Allora, prima di affrontare qualsiasi dialogo tra le religioni monoteiste, è necessario porre delle domande fondamentali: la rivelazione specifica di ogni monoteismo, la parola di Dio nella sua totalità, è da ora sino alla fine del mondo, o è parte del discorso di Dio capace di arrivare sino all´infinito? Si può circoscrivere la parola di Dio alla sola rivelazione, mentre si può affermare che Dio non parlerà né farà rivelazioni dopo quella ebraica, o quella cristiana o quella islamica, e ciò che ha detto - a ciascuna di loro - è l´ultima rivelazione e quindi il sigillo delle verità? È possibile che Dio doni una rivelazione migliore di quelle svelate alle religioni monoteiste, o no? Se la risposta fosse affermativa allora i testi monoteistici non sarebbero più assoluti. Se la risposta fosse negativa, allora noi limiteremmo la libertà di Dio: allo stesso Dio non resterebbe che quel che ha detto.
Sembra quindi che il cosiddetto dialogo tra le religioni monoteiste si fondi su una differenza radicale, che consiste nel fatto che ciascuna di esse esclude l´altro nella propria visione di Dio. Come è possibile che vi sia dialogo tra parti che si negano a vicenda? Vi è dunque una egemonia teologica sul pensiero e sulla vita a un tempo. Il monoteismo non è semplicemente una conoscenza religiosa che domina la mente e il pensiero ma è anche un modo per controllare lo stesso corpo dell´uomo e possederne la vita in quanto ne possiede il pensiero. Esso è un potere biologico oltre che un potere culturale-mitologico. Il pensiero mediterraneo si muove quindi in una prigione teologica. Ad esempio, i fondamentalisti ebrei definiscono la terra palestinese occupata come i «territori biblici liberati». I musulmani rispondono contestando questa definizione.
Se lo stesso Dio è prigioniero della rivelazione dei suoi libri all´uomo, a maggior ragione lo stesso uomo, in tutto il suo essere pensiero, azione, ragione e cuore, è prigioniero di questa rivelazione scritta. E ciò che complica la questione oggi, si cela nel divario crescente tra ciò che la terra umana chiede sia scritto da una parte, e dall´altra quello che ha scritto Dio, ossia tra il reale e il trascendente.
Sembra che la liberazione da questa prigione sia una condizione necessaria affinché emerga un dialogo sufficientemente razionale. In particolare noi osserviamo, storicamente e fattivamente, che ogni cosa nell´interpretazione dominante dell´egemonia teologica monoteista e nella sua prassi, non fa che confutare l´incertezza e il dubbio della ragione, il suo contraddirsi e interrogarsi, il fare ipotesi, rischiare e vincere. La negazione della natura stessa dell´uomo, del corpo, del sesso maschile e femminile e dei loro oceani di piacere, desiderio e passione. Oceani di vita nella sua essenza di festa ed unione, e nella sua essenza di supremo valore umano.
Le sponde del Mediterraneo sono state testimoni di fasi storiche in cui questa interpretazione e questa prassi hanno trasformato il monoteismo in un esercitazione di forza, di invasione e di egemonia, di cui le crociate non sono che una manifestazione. In questi momenti l´essere umano ha distrutto in nome della verità rivelata, e ha trasformato Dio in un semplice capo militare, e la teologia in una formula linguistica. E il monoteismo non è stato considerato una preghiera ma è diventato una spada.
La questione dunque non è semplicemente il declino della religione, come crede Steiner, o del declino del ruolo dell´istituzione religiosa nella vita, nel pensiero e nei rapporti umani, la questione è piuttosto correggere il difetto nella visione monoteista dell´uomo e del mondo. Ed esso è un difetto le cui cause si celano nella natura stessa di questa visione, molto di più che nei fattori esterni, come credono molti sociologi - e questo sia che i fattori si ricolleghino al movimento razionalista della rinascita (araba), o alla vocazione al dubbio e alla laicità dell´illuminismo, o al darwinismo e alla moderna tecnologia della rivoluzione industriale. In momenti come questi abbiamo assistito all´istituzione dei tribunali dell´inquisizione e al trattamento disumano dell´uomo accusato di avere violato il testo.
(traduzione Francesca M. Corrao)

Repubblica 5.12.08
Perché la D'Amico, prima telediva postberlusconiana, manda in crisi il premier
L'Ilaria che fa male al Cavaliere
di Francesco Merlo


E già Berlusconi la chiama con sgomento «quella là», la teme ben più di Veltroni e di Di Pietro, ordina sondaggi sugli spot di «quella là», dice che bisogna fermare «quella là», e progetta di reagire come nella canzone napoletana: "me ne piglio un´ata cchiù bella...". E subito bisogna ammettere che "la signora Quellalà" fa così male a Berlusconi perché sembra pensata dal miglior Berlusconi. Con una prima grande differenza, però. Magari sarà un´impressione, ma Ilaria D´Amico passa per una che non ha prezzo.
Si sa, per esempio, che durante Calciopoli, anche questa bruna specializzata nel giornalismo sportivo ? allora la chiamavano "lady pallone" ? finì nel pozzo nero delle intercettazioni del rampollo di Moggi, Alessandro: «Ho speso diecimila euro per portare la D´Amico a Parigi. Ma mi ha dato buca». La signora Quellalà commentò con gli amici: «O pago io, o non ci sono soldi che bastano».
Al contrario del gossip più o meno volgare e più o meno verosimile che accompagna la Carfagna, la Gelmini, la Brambilla nonché l´intero educandato di attrici, vallette e ballerine che sono ormai una degenerazione del potere italiano, il gossip alimentato da Ilaria D´Amico, 35 anni, romana, è sempre fatto di leggera e stravagante libertà, sino al rapporto con Monica Bellucci, un´amicizia forte e candida che i giornali di genere si ostinano a immaginare come se fosse uscita da un saggio di Camille Paglia, la sociologa femminista che pensa all´amore come a una scena affollata.
Di sicuro Quellalà ha alle spalle, come moltissimi altri, una lunga gavetta di giornalismo televisivo prima di arrivare agli attuali record di ascolti, ma senza riconoscibili padronati politici e senza essere la pupa di nessun capo. E difatti anche nella trasmissione "impegnata" Exit, inventata per lei da Giorgio Gori (berlusconismo di sinistra?), questa stangona senza trucco dà comunque l´impressione di non avere appartenenza, e difatti non colloquia ma incombe, non ha la falsa modestia del giornalista che sta in mezzo. Preferisce stare sopra, dolcemente e magari anche sensualmente.
Perciò Berlusconi la invidia a Sky ma non la capisce: vagamente intravede in lei la prima telediva postberlusconiana. E forse anche a sinistra piace perché, soda ma ingenua, suggerisce alla sinistra che il futuro non è contro Berlusconi ma oltre Berlusconi, non in solidarietà oppositiva ma su un piano sghembo di indifferenza infastidita. La D´Amico difende la tv che le dà lavoro e dunque difende se stessa ma senza urlare, senza "michelesantoriare", senza cantare in diretta "Bella ciao", ma invitando i telespettatori a farsi onda teledemocratica (berlusconismo di sinistra?) e a inviare email di dissenso. Insomma, non ha pesantezza storica, non è una guerriera, non è stagionata nelle lotte studentesche o negli scontri sindacali, e le sue battute sono forse banali ma spesso sorprendenti.
Del resto, chiamarla Quellalà è già sonoramente geniale. Berlusconi dice così perché non ce la fa a definirla. Lo confonde la pericolosa professionalità "berlusconiana" della D´Amico che sempre intrattiene, anche quando protesta. E´ insomma una realtà alla quale non sa dare nome. Se infatti il fuoriclasse Santoro lo conferma perché è fazioso, esagerato e iperpolitico, la D´Amico lo spiazza perché, come si dice nel giornalismo calcistico, non gli dà punti di riferimento, non si lascia marcare: Quellalà, che conquista la sinistra in nome della televisione della destra mondiale, si pone fuori dai suoi schemi.
Perciò Quellalà è molto più affascinante sia del nome Ilaria sia del cognome D´amico, magari perché oscuramente ricorda "Tralala", la terribile e leggera "eroina" ? donna e droga, maschio e femmina ? di Hubert Selby, autore cult della radicalità a-ideologica e postcomunista appunto, la sinistra che non se la beve, la sinistra che vorremmo.
Berlusconi, che non conosce niente di "Tralalà", non può certo dare della comunista né alla D´Amico né alla tv di Murdoch e dunque non sa come comportarsi davanti alla bella giornalista che non si è formata nei fumosi locali del Manifesto e nella militanza, che non si riconosce nel catechismo democratico ma è un fiore di quella società di massa che finalmente non è più disprezzata a sinistra.
Bellezza abbondante ma senza l´ossessione estetica di rifarsi, Ilaria D´amico sta dunque conquistando una sinistra italiana che mai era stata così povera di simboli, così appiedata smarrita. Si può sorriderne e si può moraleggiare quanto si vuole. Ma più che della Parietti e della Ferilli, Quellalà sembra ? e speriamo che sia ? l´evoluzione moderna delle signore del giornalismo radicale italiano, la Cederna e la Rossanda innanzitutto, e magari anche di quelle altre donne che in passato volevano essere tutte testa, le cacasenno d´antan, quelle che non tolleravano che la bellezza fosse un´espansione dell´intelligenza, che diventasse la lingua della carne.
Professione e fascino, dunque. Coscia e lingua lunghe. E poi un´inchiesta sul degrado degli scavi di Pompei e, in un altro giorno della settimana, per raccontare il calcio con tutti i suoi bicipiti, Quellalà torna ad appollaiarsi sul solito alto sgabello come la «donna che mi piace tanto» di Fred Buscaglione «sofisticata e un po´ trasognata», proprio come appare negli spot che passeranno alla storia mediatica d´Italia come la più bella e la più seducente ma anche la più misurata e la più efficace campagna contro Berlusconi.
E anche la più inaspettata e forse la più gravida di insegnamenti, tutti racchiusi nello smarrimento berlusconiano, nella definizione Quellalà appunto, che ricorda la pop dance e il succeso internazionale di Gunter e delle sue Sunshine girls, Ding Dong Song,: «you touch my tralalà... ». Quellalà, Tralalà, Liolà...: sono suoni divertenti e scanzonati per una sinistra che la finisce con i francofortesi e il pensiero negativo, con le catastrofi e con l´ideologia, e diventa gioiosa, fatta di vocali aperte e consonanti liquide, belle donne, scrosci d’acqua e d’allegria: una, cento, mille Quellelà.

Repubblica 5.12.08
Ricerca Usa durata 20 anni su cinquemila persone: serve il contatto fisico
Le mille lingue delle emozioni. La felicità è contagiosa
di Franco La Cecla


Da quando esistono le scienze umane due sono state le tendenze per spiegare come si propagano le credenze, le mentalità, gli usi e gli stati emotivi. Una sostiene che l´umanità ha una maniera universale di procedere, di fronte a certe situazioni ed in certi contesti risponde nello stesso modo, che sia un villaggio di indios quechua delle Ande, un gruppo di manager di Chicago o una tribù del Benin. Si può chiamare teoria analogica. La seconda è la teoria del contagio, la teoria diffusionista. Gli aztechi costruivano città che somigliavano a quelle cinesi, allora è possibile che qualche cinese sia arrivato via mare fino in Messico.
Più banalmente è la teoria del contatto, quella per cui se due persone o due gruppi umani si incontrano finiranno per imitarsi. La mimesi sembra essere una delle molle fondamentali dell´umanità, quella per cui persone che vivono insieme finiscono per esempio per somigliarsi. L´idea che la felicità sia contagiosa e l´infelicità no presuppone che entrambe le teorie siano sbagliate Per i neuroscienziati che la sostengono ci sarebbero dei fattori particolari nelle sinapsi del cervello che aiutano il contagio felice e inibiscono quello depresso.
Intanto cosa significa felicità? Un conto è la felicità promessa nella Costituzione americana, un altro quella del kamikaze convinto che se muore per la causa giusta va in Paradiso, un conto è la felicità come assenza di dolore - e nel caso della nostra ricerca la felicità è misurata su parametri negativi, l´assenza di depressione - e un altro è la felicità come ricerca di un senso nella vita, un senso che può passare anche attraverso prove dolorose, come il ragazzino indio che si deve perdere nella foresta e soffrirvi per essere iniziato all´asceta. Il punto chiave è che l´umanità è legata al contesto, al tempo, alla geografia e alle motivazioni generali del gruppo dentro cui vive o a cui anche idealmente appartiene e la felicità dipende da queste circostanze. Ogni approccio clinico all´umanità ha bisogno di ridurla al un minimo comun denominatore con la scusa di essere una scienza empirica. Ma è la stessa disumanità che sta oggi alla base della medicina ufficiale, per cui l´uomo è un fascio di nervi e di sinapsi ed il cervello una bella macchina che tra poco avremo "totalmente" capito (dicono loro).
Le cose in realtà stanno in modo differente. Intanto l´idea che la depressione, o l´infelicità, non siano contagiose va contro il più banale buon senso. Vi siete mai trovati a convivere con un depresso? Vi sembra davvero che il suo stato d´animo non aleggi intorno a lui come un´aura pervasiva? Il fatto è che un esperimento in laboratorio è diverso dalla vita reale. E poi è sicuro che la depressione sia un sintomo di infelicità? Per gli psicanalisti la depressione è il momento di presa di coscienza della necessità di un cambiamento. Ma più in generale le discipline antropologiche che si occupano di emozioni hanno fatto passi da gigante tutti dovuti a dei pazienti ricercatori che si sono dati la briga di stare mesi, anni presso popolazioni diverse del mondo. Quelle che questi studi ci raccontano che ogni piccolo mondo ha la sua "tavolozza" di emozioni che hanno senso all´interno di un sistema che "si tiene" per rimandi. La collera, l´ira, la rabbia, e la risata, l´allegria, la gioia sono sì esperienze universali, ma si manifestano spesso in presenze di fenomeni opposti e con intensità diverse. Quello che per noi è uno stato di agitazione per gli antichi greci era il sentire del giovane perfetto. Per i polinesiani ogni eccesso di allegria o di rabbia viene rimproverato e quindi l´intero gruppo vive in una "moderazione" costante che ha bisogno, per non scoppiare, di momenti di follia collettiva. Per le mamme delle favelas brasiliane in cui la mortalità infantile è altissima il lutto deve essere trasformato in allegria. In generale però le emozioni sono un patrimonio locale, sono un linguaggio che si può capire solo dopo un bel po´ di tempo che si è convissuto in quel villaggio, in quel paese. L´umanità, quando si tratta di emozioni, è molto complessa, e come ci ha insegnato Bateson, le emozioni sono come un sistema ecologico, presuppongono un equilibrio di dinamiche. Felicità - infelicità sono parametri molto consumisti di lettura delle emozioni, pretendono di ridurre gli stati d´animo a bisogni, a soddisfazioni, a un vuoto da riempire, ad una carenza da colmare.

Repubblica 5.12.08
Se sull’amore parla Lacan
Escono ora le sue lezioni sul "transfert"
di Nadia Fusini


Sono pagine accessibili e interesseranno anche i classicisti, gli studiosi del mondo antico e della letteratura
"Il seminario. Libro VIII" parla dell´eros tra l´analista e il paziente indispensabile alla cura
Si tratta del corso tenuto dal maestro francese tra il 1960 e l´anno successivo al Sainte-Anne
Grande competenze nella lettura del "Simposio" di Platone, come su Arcimboldo o Swift

Nell´inverno 1960 Jacques Lacan riprende le sue lezioni all´ospedale di Sainte-Anne, secondo una cadenza settimanale, e cioè ogni mercoledì, fino al giugno 1961: un anno accademico, come ai vecchi tempi. Quest´anno a tema sarà il transfert, termine chiave per la comunità di attenti allievi cui il maestro si rivolge, essendo l´amore del paziente e per contro quello dell´analista il carburante necessario al viaggio in psicoanalisi. La coppia analista-analizzando come potrà stare insieme sulla stessa carrozza, se non amandosi e odiandosi, come ogni coppia?
Il testo di quelle lezioni stabilito da Jacques-Alain Miller e tradotto da Antonio Di Ciaccia, che cura l´edizione italiana, è raccolto ne Il Seminario, Libro VIII, uscito da Einaudi (pagg. 436, euro 34,00). Il libro è immensamente interessante: non esagero. Interesserà non solo i ricercatori della psiche, gli adepti del mestiere. Ma coinvolgerà gli studiosi del mondo antico, i classicisti, che vi troveranno un´analisi approfondita di indubbia intelligenza e competenza del Simposio di Platone; e gli studiosi in genere della letteratura, che vi troveranno una lettura del mito di Edipo oggi, così come risorge nella trilogia dei Coufontaine di Paul Claudel. E infinite altre acute, stranianti osservazioni su artisti e scrittori, da Arcimboldo a Swift: tutte pertinenti e insieme impertinenti, eccitanti come punture di uno spillo.
Per mesi Lacan guida i suoi uditori. E a noi leggendo pare di stare lì, di partecipare all´evento. Merito, questo, di una perfetta alleanza tra chi ha curato il passaggio dall´oralità alla scrittura, e ciò che era phoné ha trasformato in gramma, stabilizzando così un testo instabile. E chi nel tradurre ha saputo mantenere quel brusio ininterrotto, quell´infinito intrattenimento di una parola che, nello sforzo di acchiapparsi in quel che prova a dire, discorre secondo un moto ondoso. Non si era mai letto così bene Lacan. In un italiano altrettanto chiaro, limpido, mosso, secondo un movimento allegro andante con misura che allena la mente di chi legge all´esercizio del pensiero. Il che dovrebbe, chissà!, demolire le false resistenze di chi si protegge dall´incontro con Lacan invocando a pretesto difficoltà astruse, impervi concettismi.
Non c´è niente di astruso qui, provare per credere. C´è invece la straordinaria impresa di qualcuno che legge il mistero della nostra esistenza di uomini e donne ora e sempre nel mistero della lingua, nella dimensione creativa della parola umana. Per questo Lacan riconosce che la cultura classica gli è essenziale. Se legge il Simposio, se di questo testo filosofico fa la materia del suo insegnamento, invece che, non so, di un trattato sul funzionamento delle cellule del cervello, è perché gli è chiaro che chi voglia anche un poco sbrogliare la complessità della mente umana dovrà ricorrere al pensiero. Nel riconoscimento del fondo emotivo in cui si innesta. Ci vuole Platone, per pensare il desiderio. Come ci vuole Apuleio per cogliere «il punto di nascita dell´anima».
E se rilegge Claudel è perché crede che nella lingua della letteratura può "cadere" qualcosa che altrove non si lascia afferrare. La lingua poetica è un rete che tira su molti pesci, per chi la sappia ascoltare. Se non altro per la sua specialissima dote di misurarsi con l´indicibile, l´inesplicabile - che non sono affatto paroloni, ma esperienze assai comuni della nostra esistenza - mantenendone il carattere di enigma. Dimostrando così, con semplicità, la profonda verità dei limiti del linguaggio, e con coraggio assumendosi, sempre la letteratura, la passione della "capacità negativa" di sopportare l´incondizionato, come avrebbe detto Heidegger. La lingua poetica attrae Lacan per lo stesso motivo.
Non a caso, qualche anno prima di queste lezioni, e precisamente nel 1955, tramite l´amico e paziente Beaufret, Lacan ha incontrato Heidegger. A quanto pare, e la cosa non stupisce, visti i complessi legami di cui Beaufret si fece perno, parlarono di transfert, come quella condizione a priori dell´esperienza analitica, a cui in queste lezioni Lacan torna. E sempre in quell´incontro si decise che Lacan avrebbe tradotto Logos, il commento di Heidegger a un frammento di Eraclito, dove a tema è la ricerca da parte del filosofo tedesco di un modo prefilosofico del pensiero. Il testo di Lacan apparirà nel primo numero de La Psychanalyse, da lui diretto, dedicato per l´appunto alla parola, così come opera nel campo della psicoanalisi.
Il linguaggio - è qui che cerca Lacan l´inizio di ogni cosa. In principio era il verbo, ripete al suo uditorio più volte durante queste lezioni. E´ il linguaggio che lega, ci lega: la creatura umana vi sta immersa come nel liquido amniotico. Un segno noi siamo, scriveva Hölderlin, che nulla indica; e Heidegger commentava: un segno senza interpretazione, nell´ambigua posizione di chi nel proprio cammino è attratto da quel che gli sfugge, gli si sottrae.
E´ questo l´enigma della nostra condizione, riconosce Lacan. C´è chi la sostiene, c´è chi ne patisce più di altri. Ogni patologia umana nasce di lì, più o meno. E se è vero che la psicoanalisi ruota intorno agli affetti rimossi, è anche vero che quegli affetti li coglierà come effetti del significante. Nel linguaggio.
Però, attenzione: per lo più l´affetto si slega dal suo proprio significante, perché è proprio dell´espressione umana l´equivoco carattere di mostrare e insieme di nascondere. Sì che l´intrinseca teatralità della parola andrà di volta in volta velata e rivelata. Interpretata, dunque. Non è lì per questo l´analista?
Ma perché l´interpretazione acchiappi qualcosa, chi ascolta dovrà essere istruito a farsi apparecchio uditivo che non registra quel che ode come fosse nel posto della legge. Per regolarne cioè l´iscrizione entro una classificazione di malattie, in cui risolve la sua maestria come fosse padronanza.
L´analista non è questo, per Lacan. Né uno psicoterapeuta, né un medico. Semmai, un chirurgo. O ancora meglio, in questo seminario si chiarisce che se v´è una figura a cui Lacan si ispira, un´immagine in cui si specchia, è quella di Socrate. Socrate - il sileno ricco di tesori - è la sua controfigura: il maestro senza maestro è lui. E come tutti sappiamo il vanto di Socrate è di non insegnare niente. Lui non ha altro desiderio che la domanda dell´altro.
Lacan parla. A chi? Perché? E´ lì per insegnare come si conduce un´analisi? O c´è dell´altro? Mai come in questo seminario, centrato sul transfert, la domanda sul desiderio campeggia, prendendo la forma di atti e movimenti quali ascoltare, lasciarsi trasformare; lasciare aperta in sé, dentro di sé, la disponibilità perché un altro essere entri, questa la scommessa e il rischio dell´analisi. Una situazione erotica, senz´altro. Che andrà a buon fine se l´analista e il paziente sapranno scambiarsi le posizioni di amante e amato, se il paziente saprà farsi amante, e lo psicoanalista saprà decadere dalla posizione di amato; e soprattutto se accoglierà in sé «una mutazione nell´economia del suo desiderio». Mutation - proprio questa parola usa Lacan. E fedelmente Di Ciaccia traduce "mutazione", trattenendo il senso biologico che Lacan intende. Se di una mutazione biologica si tratta, di essa è soggetto lo psicoanalista: un nuovo tipo d´uomo, capace di un «desiderio più forte». Più forte, viene da chiedere, di quello sessuale?
Ma se esiste un desiderio più forte, essendo Lacan freudiano, non potrà che essere quello di morte; ovvero, un desiderio che abolisce l´analista in quanto desiderante, e lo fa sparire come soggetto. E´ di questa morte - la morte dell´analista - che alla fine Lacan celebra il lutto in pagine meste, e coraggiose. La posizione dell´analista, rivela nell´ultima seduta del 28 giugno 1961, è al cuore della questione del transfert: e se prima l´ha descritta dal punto di vista del desiderio, perché di amore si tratta, ora la guarda da un altro verso e denuncia la «perfetta distruttività» del desiderio più forte, di cui ha dotato lo psicoanalista. Chi si avvinghia al transfert come fosse un potere, chi si arrocca nella posizione di colui che sa come si fa a mettere a posto l´altro, a dargli il suo bene, non ha compiuto il giusto percorso. Se c´è un epilogo, è dell´ordine del suicidio.
Da parte dell´analista.

Repubblica Roma 5.12.08
Giulio Cesare, liceali a lezione da Scalfari
"Il maestro unico? È una controriforma". Il valore della lettura
di Carlo Picozza


Il maestro unico, gli incontri importanti della sua vita, da Italo Calvino a Ugo La Malfa, la continua evoluzione dell´uomo, l´impoverimento del linguaggio, l´insostituibilità della lettura. E l´invito a guardare al futuro fiduciosi, nonostante tutto. Il fondatore di Repubblica, Eugenio Scalfari, ha parlato di società, filosofia e politica raccontando delle sue esperienze di studente a San Remo. Tornando, «con la memoria», allo status dei 300 studenti delle ultime classi che lo hanno ascoltato per due ore nell´aula magna del liceo classico Giulio Cesare, «incuriositi e rapiti», come li hanno visti gli insegnanti Marina Sambiagio e Mario Gaetano Fabrocile.
«Le mie elementari cominciano 77 anni fa», ha raccontato Scalfari, portandosi al di qua della cattedra e parlando in piedi «per poter guardare tutti». «Il grembiulino per i maschietti finiva con l´ingresso al ginnasio, le femminucce lo portavano anche al liceo. C´era il fascismo e tutto era conformato. Avevamo un solo insegnante che ci faceva un po´ da papà». «Quando negli anni Ottanta si ricominciò a parlare di maestro unico», ha continuato, «il nostro giornale era favorevole. Ora no, perché questo ritorno piomberebbe su una scuola completamente cambiata: ci sono ragazzi di etnie, tradizioni e fedi diverse e ci sono i disabili che ai miei tempi restavano chiusi in casa. Si sono fatti grandi passi in avanti, ma la presenza di un portatore di handicap impone un insegnante di sostegno e la convivenza con altre culture richiede risposte multidisciplinari. Anche per questo quella che viene indicata come riforma è in realtà un passo indietro, una controriforma».
Tanto più che per Scalfari, «la cultura generale si comincia a intuire alle elementari per essere acquisita nelle scuole secondarie superiori: il cattivo funzionamento di queste ultime è una concausa del pessimo andamento dell´università». Quindi l´invito a «leggere e rileggere»: «Fino agli anni Settanta le grandi letture formative, da Guerra e pace a Madame Bovary, si facevano dai 16 ai 23 anni. Tra l´adolescenza e la giovinezza si divoravano libri per conoscere e conoscersi. Poi la televisione ha preso il sopravvento. La cultura oggi arriva più per immagini. Ritengo che questo ottunda la memoria, impoverisca il lessico. Restringe il nostro vocabolario e fa perdere il gusto dell´uso della parola come mezzo primario per parlare, leggere, scrivere. Per capire, capirci e farci capire». «Certo, non ci si può accanire contro la rivoluzione che c´è stata nei processi di apprendimento e nei comportamenti. Ma va detto che se l´immagine può colpire le nostre emozioni molto più della parola - perché questa ha bisogno di momenti di riflessione - è difficile che sviluppi lo stesso spirito critico».
«Si può rimediare all´impoverimento del lessico?», ha chiesto Vincenzo De Carolis della III H. «Temo di no», la risposta di Scalfari. «La parola è il mezzo che distingue la nostra specie. Un loro linguaggio lo hanno persino le piante che con il loro movimento dicono qual è il vento che tira. Ma mentre l´animale ha solo istinti a ripetere non evolutivi, l´uomo ha la memoria». Una memoria, però, «insidiata dalla comunicazione per immagini che non stimola alla lettura». Flaminia Fiorentino, anche lei in terza liceo, ha domandato a Scalfari del suo rapporto con Italo Calvino. «Siamo stati compagni di banco per tre anni», ha raccontato l´ex direttore di Repubblica. «Dopo il liceo continuammo a vederci anche se lui era a Torino e io a Roma. Ci frequentammo, ora più ora meno, dal 1938 all´8 settembre del ´43. Poi riallacciammo i contatti nel '45 attraverso le lettere. Nel 1984, tre anni prima della sua scomparsa, chiesi a Calvino di collaborare con Repubblica. Una sera venne a cena. "Italo", gli chiesi, "non ho più riletto le tue lettere che conservo in un pacchetto, vogliamo farlo ora?" "Per carità", mi rispose, "Non siamo più quelli". Aveva ragione. Come scrisse Montaigne, si muovono persino le piramidi, come pensare che noi non cambiamo momento per momento?».

Unità on line 5.12.08 ore 23
Bocciati emendamenti editoria. Fnsi: "Operazione disastrosa"


La Commissione Bilancio del Senato ha azzerato tutti gli emendamenti (bipartisan) per ripristinare i fondi dell’Editoria. Dopo tante promesse da parte del sottosegretario Bonaiuti, siamo al punto di partenza: in Finanziaria è di nuovo previsto un taglio indiscriminato ai fondi destinato ai giornali, un vero nodo scorsoio al collo della libera informazione: non si sa chi prenderà i soldi, quanto, quando. O meglio: li prenderà chi sarà scelto dal Principe. E non vale solo per i giornali. Sono saltati anche gli emendamenti destinati a ripristinare il Fondo unico per lo spettacolo.
Per il senatore del Pd Vincenzo Vita è la conferma che «governo e maggioranza sono contro la libertà d'informazione e la cultura. Del resto è il governo dell'Isola dei Famosi. Il centrodestra in commissione Bilancio ha infatti bocciato sistematicamente tutti gli emendamenti, le tabelle dei beni culturali e - con le firme anche di diversi esponenti della maggioranza - quelli tesi a ripristinare le risorse per l'editoria. E così nelle prossime settimane chiuderanno numerosi quotidiani e tante attività musicali, teatrali, dell'audiovisivo. C'è da chiedersi cosa andranno a raccontare Bondi e Bonaiuti ai tanti operatori delle attività interessate».
Severissima la Federazione della Stampa: che definisce la bocciatura una “operazione disastrosa”.«È urgentissimo che, prima del passaggio per il voto in aula – è scritto in una nota della Fnsi - il Governo tenga fede agli impegni e presenti in aula una manovra correttiva. Ove ciò non accadesse l'esecutivo e la maggioranza diventerebbero responsabili della chiusura di diversi giornali
e di un aggravamento degli stati di crisi nel settore».
Eppure (lo ricorda anche la Fnsi), gli emendamenti al voto oggi in Commissione Bilancio erano il frutto di intese tra maggioranza e minoranza parlamentare, per consentire risparmi progressivi e consistenti, ma anche per garantire che quella parte dell’editoria più tutelata dalla nostra Costituzione – l’editoria no-profit, quella in cooperativa, quella di idee e di partito – non venisse soffocata. Ecco perché oggi appare tanto più «incomprensibile la scelta di bocciare emendamenti frutto di un lavoro condiviso da tutte le forze politiche, impegnati ad evitare chiusure di giornali e
licenziamenti di massa. Una cosa è fare una ricognizione e riqualificare la spesa nel settore – continua la Fnsi - , altra cosa è cancellarla. È di tutta evidenza che a nulla servirebbe riordinare gli interventi se, nel frattempo, si sarà fatto il deserto delle voci del pluralismo e se sarà stata già messa in ginocchio anche l'editoria industriale».
Mediacoop, che rappresenta i giornali in cooperativa, aveva persino considerato «impresentabile» il nuovo testo del regolamento dell'editoria presentato dal sottosegretario Paolo Bonaiuti alle Commissioni parlamentari, perché «non corrisponde alle esigenze di rigore ed esclude i giornali di partito dalla nuova normativa ripristinando, per loro, l'erogazione dei contributi in base alle copie tirate e non a quelle diffuse. Sopprime il tetto del 30% della pubblicità come condizione di accesso al sostegno pubblico, che costituiva la motivazione principale per la sua erogazione».
Secondo Mediacoop il regolamento «invece di semplificare il processo ed i criteri per la definizione dei contributi, rende ancor più ingiusta, distorta e farraginosa la normativa». «Lo scenario di Farheneit 451 - è invece la conclusione di Vita - nel quale la società non aveva più bisogno di libri e sapere, peccava per ottimismo. Per quanto ci riguarda continueremo la battaglia in aula a partire da martedì prossimo».