lunedì 8 dicembre 2008

Repubblica 8.12.08
La Grecia e l’ombra nera della crisi
di Sandro Viola


Fra due giorni l´annunciato sciopero generale diventerà una giornata cruciale per il futuro del Paese

I gravi disordini che agitano da due giorni la Grecia, rappresentano la prima reazione violenta verificatasi in Occidente a causa della crisi economico-finanziaria e delle misure restrittive adottate da vari governi.
La Grecia era sembrata, specie dopo il suo ingresso nell´Euro, un paese abbastanza progredito dopo il suo lungo passato di povertà. Non proprio solido, ma capace di tenersi in piedi. E anche politicamente, l´epoca del populismo sfrenato degli anni Novanta, del muro contro muro tra sinistra e destra, sembrava ormai trascorso.
Gli scontri tra manifestanti e polizia di sabato e di ieri sono quindi, da un lato, una brutta, inquietante sorpresa, e dall´altro il segno di come la crisi possa pesare, agitandoli fino alle battaglie di strada, i paesi economicamente più deboli. Ed è quindi nel contesto della crisi e delle paure che essa suscita nelle classi più disagiate, che va posto il tragico episodio di sabato sera, quando un agente di polizia ha ucciso con un colpo di rivoltella un ragazzo di quindici anni.
Le manifestazioni erano iniziate nel pomeriggio, e avevano subito assunto una violenza mai vista in Grecia dall´autunno ´73, dai giorni in cui gli studenti del Politecnico, al costo terribile d´una quarantina di morti, avevano fatto cadere la dittatura dei colonnelli che durava dall´aprile ´67. Soprattutto nel quartiere di Exarchia, dove si trovano alloggi, caffè e librerie frequentate dai giovani ateniesi, gli scontri tra manifestanti e polizia s´erano fatti già sabato durissimi. E l´uccisione dell´adolescente aveva poi messo fuoco alle polveri, rendendo la battaglia ancora più accanita e spostandola da Exarchia (un quartiere recentemente risanato, divenuto uno dei palcoscenici della notte ateniese) verso il centro della città. Vetri delle banche infranti, negozi saccheggiati, incendi d´automobili e cassonetti.
Ma si trattava ancora di un inizio, perché il peggio è venuto ieri. Mentre il centro di Atene era coperto dai fumi degli incendi appiccati con il lancio di bottiglie Molotov, le manifestazioni si sono estese in varie città del paese.
A Salonicco è stato assaltato il municipio, a Patrasso ci sono stati una ventina di feriti tra dimostranti e forze dell´ordine, gravi disordini si sono avuti anche a Iannina. Come nelle manifestazioni del ´73 e dell´85 (quando morì un altro studente) si può forse parlare di moti studenteschi, visto che grossi gruppi di manifestanti si sono asserragliati come allora negli edifici del Politecnico. Ma è probabile che agli studenti - che protestano, anche lì, per i tagli alla spese per l´istruzione - si siano aggiunte col passare delle ore altre categorie di giovani: disoccupati, precari appena licenziati, agitatori.
Il ministero degli Interni il cui titolare, Prokopis Pavlopulos, aveva già sabato notte presentato le dimissioni, respinte dal primo ministro Costas Karamanlis, parla d´un movimento anarchico e di piani prestabiliti, non improvvisati, per scuotere alle radici la stabilità politica greca. Ed è vero che la presenza d´un nucleo anarchico molto agguerrito era stato accertato all´inizio dei Duemila, con un clamoroso processo che aveva messo in luce dopo molti anni da chi fossero partiti i numerosi attentati contro i rappresentanti degli Usa (addetti militari, consiglieri culturali) ad Atene. Ma la versione del gruppo anarchico all´attacco, soffre della sospetta frettolosità con cui le polizie usano indicare, nei momenti difficili, un capro espiatorio.
Certo, la sinistra greca non dimentica che la dittatura dei colonnelli venne incoraggiata nel ´67 dalla Cia, e infatti l´antiamericanismo è ancora molto diffuso tra i giovani. Ma per capire se c´è un preciso orientamento, o addirittura una regia politica, nei disordini di queste due drammatiche giornate greche, bisognerà ancora attendere. Il fatto è che l´eruzione della violenza avviene sullo sfondo d´una profonda fragilità delle istituzioni, con il governo Karamanlis che si regge in Parlamento su un solo voto di maggioranza, ed è stato investito nei mesi scorsi dai sospetti di gravi scandali finanziari. Né questo è tutto. Per il 10 dicembre, fra due giorni, è infatti convocato dai sindacati uno sciopero generale contro il peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori. Il prossimo mercoledì la Grecia potrebbe perciò vivere una giornata cruciale, la prima profonda convulsione in Occidente riferibile alla bufera economica che stiamo vivendo.

Repubblica 8.12.08
La crisi interna
Parla l'ex leader del Partito socialista Mihalis Hrisohoidis che ha guidato il ministero degli Interni
"Temo un ritorno al regime dei colonnelli"
Il governo ha voluto ghettizzare l'estrema sinistra, non c´è un piano per affrontare il malessere crescente
di Cristina Nadotti


«Andrà sempre peggio, la situazione è esplosiva. La Grecia rischia di tornare ai tempi in cui i cittadini vedevano un nemico nelle forze di polizia». Mihalis Hrisohoidis è stato segretario generale del Pasok e ministro dell´Interno fino alle elezioni del settembre 2007. Ora teme il ritorno alla Grecia dei colonnelli.
Che cosa ha portato ai disordini di questi giorni?
«Il governo ha voluto ghettizzare l´estrema sinistra e ne ha fatto il capro espiatorio di ogni disordine o problema. Non c´è stato alcun piano operativo per affrontare il malessere crescente, si sono individuate alcune aree politiche, soprattutto quella anarchica, e le si è indicate come il pericolo numero uno. Basti pensare che l´organismo preposto alla lotta al terrorismo, che era riuscito ad ottenere risultati importanti contro la rete internazionale di attentatori, si occupa adesso di fare indagini sugli anarchici».
Ritiene che il poliziotto abbia sparato seguendo indicazioni dall´alto?
«No, ma è chiaro che se il governo individua una parte politica come pericolosa, le forze dell´ordine agiscono di conseguenza. Il poliziotto non aveva ordini precisi, ma ha seguito il vecchio orientamento per cui le forze dell´ordine sono contro i cittadini e non al loro fianco. Da ministro dell´Interno avevo cercato proprio di cambiare questo atteggiamento, favorendo il dialogo perché la responsabilità dei disordini e delle azioni contro il bene comune ricadesse sui singoli individui e non sugli schieramenti politici. Adesso tutto sarà vanificato».
Da cosa nascono le proteste?
«La situazione delle nostre università è simile a quella degli atenei italiani. Sono istituzioni vecchie, che non sanno dare ai giovani le risposte e l´istruzione che serve. Inoltre chi è sceso in strada sa cosa sta accadendo nel resto dell´Europa e, anche se la crisi non ha ancora investito in pieno la Grecia, ha paura e vuole mostrare dar voce al malcontento generale. Coinvolti nei disordini ci sono gli emarginati della società, quelli che hanno più paura per il futuro e ai quali il governo non dà alcuna risposta».
Cosa teme possa accadere nei prossimi giorni?
«Le proteste si estenderanno in altre università e ho paura che la situazione possa degenerare ancora durante il funerale del ragazzo ucciso. Il governo si sente colpevole perché ci sono stati molti danni e non è riuscito a proteggere la proprietà dei cittadini. Sono pessimista, se non si cercherà un dialogo, se si reagirà solo con intransigenza, la Grecia si troverà sull´orlo di una crisi senza precedenti».

Repubblica 8.12.08
Allarme di uno studio inglese: "Cambia la natura del maschio"
Ciao, ciao maschio lo smog minaccia il potere della virilità. Il potere ora è femmina
di Enrico Franceschini


Dagli uccelli ai mammiferi fino all´uomo: il sesso sta mutando per colpa dell´inquinamento Pene sempre più piccolo, ermafroditismo, sterilità crescente. L´allarme degli scienziati
Gli effetti su balene, orsi, daini e coccodrilli. Ma anche la nostra specie è a rischio Calano gli spermatozoi

CIAO maschio, stai diventando una maschia. Non è una battuta di spirito. È la conclusione del più ampio studio mai condotto sul cambiamento di genere sessuale, da cui risulta che l´esposizione a una serie di agenti chimici ha "femminizzato" gli esemplari maschili di ogni classe di vertebrati, dai pesci ai mammiferi, compreso l´uomo.
Gli studiosi hanno compilato un elenco di daini senza testicoli, pesci maschi che ovulano, orsi ermafroditi, alligatori con il pene sempre più piccolo, orche e balene a corto di spermatozoi. La ricerca afferma che il fenomeno minaccia di mutare precipitosamente il corso dell´evoluzione, rischia di provocare la scomparsa di numerose specie animali e fa suonare un campanello d´allarme anche per gli esseri umani. «Se vediamo problemi di questo tipo negli animali selvatici, dobbiamo preoccuparci seriamente che qualcosa di simile stia accadendo a una rilevante proporzione di uomini», dice il professor Lou Gillette della Florida University, uno degli scienziati coinvolti nello studio.
Commissionato dalla ChemTrust, un´associazione britannica che si batte per denunciare gli effetti nefasti dell´inquinamento chimico, e anticipato ieri dal quotidiano Independent di Londra, il rapporto riunisce i risultati di oltre 250 studi accademici sull´argomento condotti in tutto il mondo. Si concentra principalmente sugli animali che vivono in libertà, ma cita anche casi specifici riguardanti l´uomo, come una ricerca della University of Rochester che ha dimostrato come i bambini nati da madri con un aumentato livello di ftalato, un acido chimico, hanno maggiori probabilità di avere il pene più piccolo e i testicoli che non scendono. Altre ricerche di questo tipo hanno evidenziato che i maschi di madri esposte a certi agenti chimici crescono col desiderio di giocare con le bambole e col servizio da tè invece che con giocattoli «maschili». Inoltre varie comunità inquinate con fattori chimici ritenuti fonte di cambiamento di genere sessuale, in Canada, in Russia e in Italia, hanno dato nascita a un numero di femmine doppio della norma. Per tacere del fatto che il numero di spermatozoi sta scendendo su tutta la linea. «Sommando tutti questi dati», commenta il professor Nil Basu della Michigan University, «abbiamo prove piuttosto evidenti degli effetti che esistono anche sull´uomo».
Ma i dati sugli animali sono ancora più impressionanti. Il rapporto parla di coccodrilli maschi, esposti a pesticidi nelle paludi delle Everglades in Florida, con un minore livello di testosterone, un maggiore livello di estrogeni, anomalie nei testicoli, pene più corto del normale e problemi di riproduzione. Parla di maschi di tartaruga nella regione dei Grandi Laghi con caratteristiche genitali femminili. Rivela che a due terzi dei daini dell´Alaska non scendono i testicoli, che al Polo sono stati trovati orsi ermafroditi, e quelli che restano maschi hanno uno sperma ridotto e il pene più piccolo. Metà dei pesci di sesso maschile nei fiumi britannici hanno un´ovulazione nei testicoli. Per tutto questo, il rapporto accusa più di 100 mila agenti chimici, presenti nel cibo, nei prodotti elettronici, nei cosmetici, nei pesticidi, che «indeboliscono» il genere maschile, femminizzandolo.

Repubblica 8.12.08
Fontana. Il giocoliere del Novecento

di Fabrizio D'Amico

Ogni dato cromatico attinge a un concetto. Dalla nudità al barocco
Le sale del palazzo Ducale dedicate ora al nero, ora al bianco, ora all´oro al giallo e al rosso
Una rassegna a Genova privilegia il tema del colore così come lo ha interpretato uno dei grandi del secolo scorso

GENOVA. «Un´opera che detiene (e impone) il silenzio in chi la considera, come me, non un argomento e tanto meno un pretesto sul quale discutere, ma un´isola da avvistare e contemplare a distanza, dove sia opportuno e riguardoso astenersi dal fare commenti: un approdo inaccessibile», scrive Paolini. E Zorio: «È leggero, è profondo, è esploratore di pianure curve, è forgiatore di vasi inutili, è la clessidra che inverte il tempo, è amico della terra, è amico dell´acqua». O Mattiacci: «Il bello è che è sempre sorprendente». E ancora, insieme alle loro, altre brevi parole di tanti artisti, di tante patrie e generazioni: parole diverse, ma tutte emozionate al ricordo.
Sono raccolte, quelle testimonianze, nel catalogo della mostra («Fontana. Luce e colore», a cura di Sergio Casoli e Elena Geuna, catalogo Skira), aperta a Palazzo Ducale fino al 15 febbraio 2009, che Genova dedica al più grande artista italiano della seconda metà del ventesimo secolo. Raccolte a dire quanto grande e molteplice sia stato il lascito di Fontana alla pittura, e alla scultura, d´ogni latitudine. Accolto con animo trepido o sognante, quel lascito, memore («è stato un padre», scrive ad esempio Arnaldo Pomodoro), a volte quasi sgomento, ma soprattutto come un esempio gravido ancora di futuro.
È stata un´idea giusta dei curatori, raccogliere queste tanto diverse parole; come giusta è la mostra che Genova ha promosso, e che cade quasi per caso in giorni strani, rannuvolati, forse pericolosi per l´arte contemporanea nel nostro paese. Strano paese, detto per inciso: che si batte da tempo, mettendo in campo tutte le sue sparse energie (quasi mai statuali, purtroppo), per un riconoscimento internazionalmente più equo della propria creatività, e poi si dà allegramente la zappa sui piedi e propone, tout court, di abolire il contemporaneo.
Allora alzare oggi, un´altra volta, la bandiera di Fontana non risulterà pleonastico né ridondante. Rivolgersi ancora a lui, è andare a un porto sicuro, ormai tetragono alle mode, agli scandali, all´insipienza di chi ha preteso che l´età dell´oro finisca, da noi, con Tiepolo. Nel contempo, si riscopre in Fontana più che una roccia immutabile, una miniera infinita. Vi si troveranno materia e idea, ingombro e rarefazione, turgore e trasparenza, rigoglio e asprezza, prassi e progetto, nudità e incanto: stretti assieme, senza ansia di rigore linguistico.
Quante secolari antinomie ha incarnato e poi disperso, quante aporie ha frastornato, Fontana: che è stato insieme laico e sacrale, dissacratore e custode, memore e nuovissimo, classico, neoclassico, concettuale, futurista, barocco. «Come di fronte a un giocoliere», diceva Edoardo Persico di sentirsi dinanzi alla sua opera, già ai primi anni eroici della galleria del Milione e del primo avvio dell´astrattismo italiano, nella Milano anni Trenta. Poi tanti decenni d´intenso lavoro sono venuti: ad Albissola e a Sèvres, dove egli apprese quella tecnica ceramica praticata intensamente fino al ´49, ma che mai avrebbe del tutto accantonato; in Argentina, dove nacque una prima formulazione teorica dello spazialismo; poi ancora a lungo a Milano, fino alla morte occorsa nel 1968. Un giocoliere - alle volte gioioso, alle volte malinconico, come tutti i giocolieri che si rispettino - perfettamente consapevole che il suo andare senza bussola, senza un ordine precostituito, senza gerarchia, l´avrebbe posto a rischio dell´incomprensione; ma disposto ogni volta a sacrificare il rigore cui avrebbe potuto facilmente attingere per correre l´alea di una vertigine creativa cui abbandonarsi, e ove quelle antinomie che il suo lavoro aveva evocato avrebbero infine imparato a convivere, nutrendosi l´una dell´altra, in un rapporto osmotico di reciproco scambio vitale.
È stato così ricco e molteplice, Fontana, che tante mostre ne hanno sottolineato ora l´una ora l´altra natura e vocazione: s´è scelto allora di avvicinare il Fontana "spaziale" o quello "barocco", quello più devoto alla trasparenza della luce ovvero al prestigio della materia, e così via. Per poi scoprire, infine, che nessun modo ne esauriva interamente le ragioni, e che Fontana rimaneva soprattutto il luogo della meraviglia e della complessità.
Anche la mostra odierna ha un tema prevalente che sviluppa, ed è quello del colore: le grandi sale del Palazzo Ducale sono dedicate, ciascuna, a uno dei colori più amati da Fontana: il nero, il bianco, l´oro, il giallo, il rosso. Accanto ad esse, la Cappella accoglie le Nature in terracotta e in bronzo del ´59-´60, e l´"acquario" ospita numerose le splendide ceramiche di soggetto marino: per lo più compiute appena varcata la metà degli anni Trenta, esse furono lette con straordinaria preveggenza già nel ´39 da Argan, che riconosceva in esse, e nel loro riflettersi e lampeggiare attorno nello spazio circostante, un indizio della vocazione profonda (né ancora allo stesso Fontana emersa a livello teorico), appunto "spaziale", dell´artista. Argan parlava anche, in quel suo saggio, del colore delle piccole sculture, che «non è un fenomeno di superficie, una determinazione o una variazione tonale del chiaroscuro inerente alla solidità materiale della cosa scolpita, ma è il principio plastico, spaziale, della scultura».
Dopo d´allora, il colore avrebbe attinto tante valenze: da quella della nudità concettuale insita nel bianco, a quella barocca dell´oro, a quella prestigiosa e clamante del rosso, a quella d´un rosa nuovissimo per la pittura, inatteso e quasi disagiato. Ma sempre sarebbe rimasto soprattutto, il colore, quel che lo storico, in anni così lontani, aveva intuito: non una proprietà della materia, asserita una volta per tutte e ad essa connaturata, ma uno spalto da cui l´opera potesse slanciarsi oltre i propri confini, riflettendo nello spazio la sua mutevole eco.

Repubblica 8.12.08
La lettera. Storia dell’arte maltrattata
di Giulia Maria Crespi


Gentile Ministro Gelmini, perché decine di milioni di turisti vengono ogni anno in Italia? Oltre che per godersi il dolce clima e per ammirare quanto rimane del nostro paesaggio, i turisti vengono per vedere la nostra archeologia, i palazzi, i nostri musei. Ma per poter amministrare e conservare con competenza il nostro patrimonio, non soltanto sono necessari esperti studiosi dell´arte, ma la stessa storia dell´arte deve essere conosciuta e assorbita dall´intero settore di popolazione che si occupa del bene pubblico o che ha anche marginalmente da fare in questo settore perché nulla è separato e tutto è collegato. Mi riferisco a politici, assessori e tecnici, come pure imprenditori, finanzieri, uomini di chiesa e parroci, ecc. Ed è soltanto attraverso lo studio scolastico che la cultura artistica può penetrare e far parte del Dna di tutti gli italiani.
Questa è la ragione per cui Le chiediamo di assicurare agli studenti un insegnamento della storia dell´arte adeguato! Ci riferiamo in primo luogo agli studenti del liceo classico, scientifico e artistico, la cui formazione non può prescindere da tale insegnamento. L´allungamento dell´ora di storia dell´arte anche ai primi due anni del liceo classico, così come Lei ha indicato, è intanto un primo, indispensabile passo di questo percorso, ma deve necessariamente essere accompagnato da un ulteriore incremento del monte ore totale.
Con altrettanta sollecitudine, ci preme sottolineare la necessità di introdurre la storia dell´arte anche nelle scuole tecniche legate ai temi artistici e ambientali, quali Grafica e Comunicazione e Costruzioni, Ambiente, Territorio: anche loro sono tra quelli che domani verranno chiamati in prima persona a difendere i principi enunciati nell´art. 9 della Costituzione, e potranno farlo consapevolmente solo se educati alla conoscenza e alla tutela storico-artistica. Dobbiamo ben sapere chi era Churchill o chi era Tarquinio Prisco o Guido Guinizzelli, ma è altrettanto indispensabile che conosciamo il nome e l´opera di Palladio e Sansovino, di Hayez e De Pisis!
L´autrice è presidente del Fai, Fondo Ambiente Italiano

Corriere della Sera 8.12.08
Genealogie Da Napoleone al Generale all'attuale presidente: un saggio di Riccardo Brizzi e Michele Marchi
Democrazia alla de Gaulle eterna tentazione francese
Carisma mediatico e populismo: le radici del «modello Parigi»
di Massimo Nava


«Come volete governare un Paese che ha trecento formaggi?», si chiedeva il generale

Nessuna figura politica ha influenzato la storia contemporanea della Francia come Charles de Gaulle. Forse più di Napoleone I e Napoleone III, se i criteri di questa possibile classifica sono la durata nel tempo e l'attualità di un progetto di Stato e di governo. Morto de Gaulle, è rimasto il «gollismo» nelle istituzioni, nei cromosomi della destra, nella mentalità della maggioranza dei francesi, nell'eterno dibattito sul senso della Nazione.
E a distanza di quasi quarant'anni (il generale si spense nel 1970) continua a rinnovarsi una generazione politica di eredi, continuatori, simpatizzanti e imitatori, compreso l'ultimo presidente, Nicolas Sarkozy. Salito alla ribalta come uomo di rottura e profeta di un neoliberismo antitetico all'ultima vecchia guardia del gollismo (Chirac), il giovane Sarkozy ha cominciato, fin dagli ultimi giorni della campagna elettorale, a far propria la lezione del generale in vari ambiti economici, sociali e diplomatici, fino ad esaltarla recentemente, di fronte alla crisi finanziaria internazionale, per rimettere l'accento sul ruolo essenziale (addirittura sulla missione) dello Stato.
Per comprendere la continuità e l'attualità del gollismo che, almeno nella versione «sarkozista», comincia a trovare forti simpatie anche in Italia, giunge opportunamente in libreria il saggio di Riccardo Brizzi e Michele Marchi (Charles de Gaulle, il Mulino, pp. 246, e 18,50), ricercatori presso la facoltà di storia contemporanea all'università di Bologna.
Il libro è interessante perché, ripercorrendo in maniera agile la biografia e l'immenso materiale di memorie del generale, si concentra soprattutto sulle tappe fondamentali e sulle radici culturali di un progetto politico nato all'indomani della Resistenza, perseguito con altissimo spirito di servizio ed elaborato con il supremo scopo di garantire governabilità, stabilità e unità nazionale.
Se il semipresidenzialismo «alla francese», pur con correttivi e manchevolezze, funziona ancora oggi, al punto che trova sostenitori e potenziali imitatori anche all'estero (Italia compresa), le ragioni non vanno cercate nelle ambizioni personali di de Gaulle, bensì nelle sue intuizioni politiche, nella sua esperienza storica di combattente (a Verdun), resistente (Londra) e patriota, nella modernità del suo linguaggio. Fu infatti il primo leader mediatico, nel senso che oggi diamo a questo termine: l'uso della radio, l'avvento della televisione, il gusto per la battuta al momento giusto fecero del generale de Gaulle il primo autentico campione dell'opinione pubblica.
La grande operazione politica di de Gaulle — spiegano gli autori — fu quella di costruire un sistema che all'inizio sembrava ritagliato sulla sua persona e sul personale carisma e che subito dopo legittimò gli interpreti successivi, compreso un presidente di sinistra, François Mitterrand. L'uomo che aveva denunciato la rivoluzione istituzionale come «un colpo di stato permanente» si trovò perfettamente a suo agio come inquilino dell'Eliseo, al punto che molti critici gli attribuirono atteggiamenti da «monarca».
«Alla mia età — disse de Gaulle — non si possono avere mire dittatoriali». Eppure, per molto tempo, osservatori francesi e internazionali ritennero di vedere nel tentativo del generale una deriva autoritaria o addirittura l'anticamera del fascismo, associando l'immagine del militare a quella di uno Stato verticale e centralista per tradizione. Secondo gli autori, la storia recente della Francia e l'esperienza gollista dimostrano in larga misura il contrario.
Non soltanto de Gaulle legò in modo permanente le radici repubblicane all'antifascismo e alla Resistenza, ma inoltre il gollismo — o meglio la Costituzione della V Repubblica voluta dal generale — permise l'alternanza di governo e funzionò anche con la sinistra al potere.
Il fatto che la Francia abbia tratto grandi benefici dal proprio sistema (quando in altri Paesi è stato spesso il sistema a frenare sviluppo e modernizzazione) non impedisce naturalmente di vederne i limiti — già insiti nella concezione del generale — di cui in Francia si continua a discutere. Se oggi Sarkozy è a volte definito l'«omnipresidente» e se alcuni critici intravedono nel suo agire una deriva bonapartista (riferita al populismo di Napoleone III), ciò è dovuto, più che ai suoi comportamenti, in larga misura alla concezione stessa del sistema francese: l'unico — fra i sistemi democratici — a garantire ampi poteri decisionali e addirittura discrezionali al presidente, non soltanto in politica estera (come voleva de Gaulle), ma anche nelle nomine di sottogoverno e nell'apparato. L'unico, inoltre, a prevedere una figura di primo ministro che coordina l'attività di governo, ma che equivale a una sorta di segretario di Stato alle dipendenze di un Pontefice. Giustamente, si parla in Francia di «monarchia repubblicana» ed è probabile che anche de Gaulle tenesse conto della storia del Paese. Anche se non c'è «presidentissimo» che riesca a moltiplicare le licenze dei taxi o a garantire il servizio minimo nei trasporti in caso di sciopero..

Corriere della Sera 8.12.08
Lo storico «girotondino» «Da Blair in poi la forza di massa cede il posto allo staff del leader: con D'Alema andò così»
«Questo partito può finire come il Psi»
Ginsborg: nelle amministrazioni pd clientelismo e nepotismo, Cioni un uomo di destra
intervista di Aldo Cazzullo


FIRENZE — Paul Ginsborg è appena tornato nella sua casa d'Oltrarno, dopo quattro mesi a Berkeley. Ha davanti il titolo dell'Espresso — Compagni Spa — che ha fatto infuriare il sindaco di Firenze, e i quotidiani con la foto di Domenici in catene. Cultore di storia repubblicana, «ideologo» della fase nascente dei girotondi e protagonista dell'episodio-simbolo, la disputa con D'Alema al Palasport davanti a migliaia di fiorentini: «Vinsi io, 3 gol a 1. Anche se D'Alema forse non la pensa così».
Professor Ginsborg, Cordova dice al «Corriere» che gli scandali di oggi chiudono, sul versante sinistro, il cerchio di Tangentopoli. È così?
«Non c'è dubbio che la cronaca di questi giorni vada inquadrata in un contesto storico che comincia nell'89. Allora i postcomunisti non riuscirono ad elaborare un progetto forte che spezzasse l'intreccio tra l'azione politica e il clientelismo. Uno storico male italiano: il rapporto verticale tra patrono e cliente. Gli antichi romani l'avevano codificato. Andreotti lo teorizzò nel '57, quando disse che la domenica mattina, anziché riposare, lui e gli altri democristiani si prendevano cura delle famiglie disagiate».
La sinistra aveva un atteggiamento diverso?
«Non ho mai mitizzato il Pci. E non amo parlare di questione morale. Ma a sinistra questo male veniva studiato: penso al lavoro di Mario Caciagli su Catania, di Percy Allum su Napoli, di Amalia Signorelli sul Salernitano; Chi può e chi aspetta era il felice titolo del suo libro. E a sinistra c'era l'orgoglio della diversità, della fibra morale, della connessione tra etica e politica».
C'era. E adesso?
«Oggi il rapporto tra patrono e cliente non viene più studiato. In compenso, è fiorito. Il patrono non è più il proprietario terriero che dispone delle cose proprie; è il politico che dispone delle cose pubbliche. Anche molti politici di sinistra».
Berlusconi dice che la questione morale riguarda il Pd.
«Berlusconi è un grande patrono. Lo dimostra anche con il linguaggio del corpo: ha sempre le mani sulle spalle di qualcuno. Ma il clientelismo e il nepotismo si ritrovano anche nelle amministrazioni del Pd. E non vedo tensione su questo tema al suo interno. Neppure il Pd affronta il grave problema della forma e del ruolo dei partiti. Molti meno iscritti, molto meno consenso. Il partito di massa cede il posto allo staff del leader. Il primo è stato Tony Blair».
Si disse qualcosa di simile del governo D'Alema nel 2000, con Velardi e Latorre.
«L'impressione era quella. D'Alema aveva quell'atteggiamento. Ma non solo D'Alema. Se il centrosinistra non cambia direzione, può fare la fine dei socialisti craxiani negli anni '90».
Addirittura?
«Se il Pd non si apre alla democrazia partecipata, se non si rivolge ai cittadini e si limita a fare da mediatore, a tenere i contatti con i poteri forti economici, diventa indistinguibile dagli altri partiti. Il clientelismo di Cioni nei suoi meccanismi non è diverso da quello della destra».
Che succede a Firenze?
«Le racconto un episodio. Quando Domenici fu eletto, fondammo un comitato per lo sviluppo sostenibile dell'Oltrarno. Andammo dal sindaco, portammo proposte per migliorare il traffico e la vita. Lui sembrò disponibile. Distinse tra le cose da fare subito, quelle di medio e quelle di lungo termine. Decise la chiusura temporanea di due strade, un'ora al giorno, per fare andare i bambini a scuola. Buon inizio. Ma tutto finì lì. Fu commissionato a Carlo Trigilia un piano strategico per la città; ma nel 2005 l'intero comitato scientifico si dimise, e oggi l'inquinamento a Firenze è sopra il livello di guardia. Se non hai una visione complessiva della città, finisci per occuparti solo di edilizia, project-financing, poteri forti. Domenici si è comportato come gli altri politici di sinistra con cui abbiamo discusso, da D'Alema a Chiti: ascoltano; spesso ci danno ragione; e poi fanno come se nulla fosse stato. Un muro di gomma ».
Domenici si è incatenato sotto «Repubblica».
«Mi dispiace, ma non lo vedo come vittima. Preferisco prenderla con leggerezza. Non a caso si è incatenato a Roma; se l'avesse fatto a Firenze avrebbe violato il regolamento del suo assessore Cioni. Vietato disturbare la pubblica quiete, vietato esporre targhe e bacheche senza autorizzazione... C'è però una cosa che mi ha colpito molto del caso Domenici. Il cartello che inalberava».
«Sì alla difesa della dignità e dell'onorabilità».
«Ecco, la parola chiave è onore. Sento un'eco della vecchia Italia, della profonda cultura mediterranea. L'Italia ha grandi meriti che il mondo anglosassone non ha; ma nei Paesi anglosassoni non ci si appella all'onore maschile. Ci si difende laicamente in tribunale. La stessa eco la sento nel tragico suicidio di Nugnes: un'altra storia che ci riporta agli anni di Tangentopoli. Perché reagire così? Perché non dimostrare la propria innocenza, oppure patteggiare la pena? Siamo tutti esseri umani, non dei, e possiamo tutti sbagliare».
Lo scontro tra procure?
«Brutto. I giudici non dovrebbero comportarsi così. Molte cose nella magistratura come casta vanno criticate. Ma la sua autonomia è preziosa e va salvaguardata. E gestita in modo responsabile ».
Bassolino deve andarsene?
«Qualsiasi politico indagato, compreso Berlusconi, dovrebbe andarsene. Figurarsi quelli rinviati a giudizio ».
Dove sono però i girotondi? E che fine hanno fatto i «ceti medi riflessivi» da lei teorizzati?
«I ceti medi riflessivi non sono il Pensatore di Rodin. Si muovono. Ma faticano quando vengono sistematicamente irrisi, come fanno anche molti giornali. In tanti sono caduti nel cinismo, e non si impegnano più. Sarà difficile rianimarli, ma non impossibile».
Può riuscirci Di Pietro?
«Ho sempre pensato che Di Pietro doveva restare in magistratura. Ora ho cambiato idea. Non appartengo al gruppo di Travaglio, Flores, Di Pietro, ma condivido le loro battaglie. Voi giornalisti lo considerate noiosissimo, ma all'estero il conflitto di interesse resta il primo argomento quando si parla d'Italia ».
Quindi Veltroni non deve rompere l'alleanza?
«Veltroni ha già commesso un grave errore a rompere con la sinistra radicale. Ha ottenuto un vantaggio immediato. Ma poi la sua apertura a Berlusconi non ha portato a nulla. Ora è in arrivo una crisi economica globale di grande drammaticità. O il Pd trova una progettualità forte e ricostruisce un'alleanza alternativa; o entra in un governo d'emergenza nazionale, e allora diventa indistinguibile dalla destra».

domenica 7 dicembre 2008

l’Unità 7.12.08
Decrescita
Un’occasione che non si deve perdere
di Loretta Napoleoni


Il movimento della decrescita è entrato in rotta di collisione con il verbo economico tradizionale, che incita gli abitanti del villaggio globale a consumare per uscire dalla crisi. Eppure la decrescita sembra essere la risposta istintiva di un'economia al collasso, che si riassesta attraverso i meccanismi classici della domanda e dell'offerta. A conferma i dati della disoccupazione, in netto aumento dovunque. Il Financial Times ha addirittura iniziato una prassi nuova: ogni sabato elenca i posti di lavoro «svaniti» durante la settimana. Nella City di Londra siamo ormai a quota 100 mila. La decrescita non è però circoscritta al settore finanziario - che ha perso negli ultimi due mesi 1.300 miliardi di dollari - ma coinvolge tutti, anche i settori più disparati: questa settimana a New York l'editoria ha tagliato il 25% dei posti di lavoro e Honda ha annunciato il ritiro dalla Formula Uno. Queste notizie apocalittiche ci devono far riflettere sul fallimento delle politiche anti-congiunturali dei governi: non è servito a nulla pompare più di 2 mila miliardi di dollari nel settore bancario internazionale.
E se la contrazione dell'economia fosse semplicemente un processo di assestamento necessario, che riporta l'economia ai valori reali, quelli veri, non più inflazionati dalla zavorra dei derivati e dalla bolla finanziaria? Più che di decrescita bisognerebbe parlare di economia sostenibile, senza sprechi. Latouche, il suo inventore, ce lo accenna quando scrive che il capitalismo non può convivere con una contrazione permanente dell'economia. Ma questo è vero per qualsiasi sistema economico, incluso quello marxista. La crisi del credito è dunque un'occasione da non perdere per rilanciare attraverso la decrescita una visione dell'economia sostenibile, che sfrutti e consumi le risorse ad un ritmo inferiore al loro rinnovamento. Un principio applicabile anche alle banche, poiché l'eccessivo indebitamento distrugge più denaro di quanto viene creato. Ed ecco un esempio illuminante: la simbiosi tra credito cooperativo e settore agricolo sostenibile. Il primo raccoglie il denaro tra i consumatori e lo investe nel secondo, che produce per la comunità in base ai bisogni di questa. Niente sprechi quindi; banca, produttore e consumatore sono a tutti gli effetti soci in affari. Peccato che la cooperazione economica piaccia poco ai nostri politici.

l’Unità 7.12.08
Tagli all’editoria. Un problema drammatico
di Vincenzo Vita


L’allarme è di quelli seri. Senza retorica. Dopo la bocciatura da parte del governo e della maggioranza degli emendamenti delle opposizioni tesi a ripristinare il Fondo per l’editoria e quello per lo spettacolo nel corso dei lavori sulla legge finanziaria nella commissione bilancio del Senato, il rischio chiusura per i settori più deboli è concreto. Dai teatri, alle attività musicali, alla produzione cinematografica e audiovisiva, alla danza. Ai giornali di cooperative, di editori non profit o di partito, ivi comprese le testate delle minoranze linguistiche e degli italiani all’estero. In quest’ultimo caso, poi, la maggioranza ha smentito sé stessa, bocciando gli emendamenti che aveva presentato o sottoscritto, resi pubblici in una conferenza stampa il 3 dicembre scorso. Sono 26 i quotidiani che rischiano davvero di chiudere subito, da Il Manifesto, a Liberazione, a Europa, a La Padania, al Secolo d’Italia, a Il Corriere Mercantile, a Bari sera, a La Voce di Mantova, a Carta, a Left, a Il salvagente; o che subiranno ridimensionamenti forti. Un centinaio entro un anno. Speriamo di sbagliare, ma c’è da temere che la realtà sia esattamente questa. Dopo il taglio del decreto Tremonti di luglio, che tra l’altro eliminava lo stesso diritto soggettivo delle testate ad avere i contributi, ripristinato in prima lettura dalla Camera dei deputati nel disegno di legge n. 1195 sullo sviluppo, ora in seconda lettura al Senato e tuttora a rischio. Taglio di 83 milioni di euro per il 2009 su 387 disponibili (già sotto la sufficienza, stimata in 589), di cui «solo» 305 predestinati a coprire i contributi indiretti - tariffe agevolate varie - sui quali la parte del leone viene fatta dai grandi gruppi editoriali quotati in borsa: Sole 24 ore, Corriere della Sera, Repubblica, ad esempio. Quindi, se non passa l’emendamento volto a rimettere un po’ di risorse nel Fondo, la capienza è -1, meno di zero. Mentre si sta discutendo nelle commissioni parlamentari competenti del regolamento di attuazione previsto dal citato decreto 112 (legge 133), che prefigura una sorta di riforma dell’editoria, auspicata dal sottosegretario Bonaiuti. Ma quale regolamento o quali evocati Stati generali dell’editoria di fronte alla scomparsa dei giornali, senza neppure aver provato a risparmiare davvero eliminando le provvidenze date ai presunti giornali di «movimenti politici», che sono tutt’altro o non vanno neanche in edicola? L’ultimo appello sarà tra qualche giorno, a partire da martedì prossimo, nel dibattito nell’aula del Senato sulla Finanziaria. Gli emendamenti su editoria, spettacolo e beni culturali saranno ripresentati. Mobilitiamoci. Il diritto all’informazione e al sapere è decisivo, è la premessa - come la libertà personale - per poter esercitare anche gli altri diritti. Che non finisca con la scena della distruzione della cultura di «Fahrenheit 451», ambientata magari sull’«Isola dei famosi».

Repubblica 7.12.08
Neonazisti e ultrà La nuova Europa ha un cuore nero
di Andrea Tarquini


La "Guardia ungherese" punta a raggiungere settemila adepti A Praga l´ultradestra vuole la "soluzione finale della questione zingara", evocando impunemente l´ideologia dell´Olocausto
Ungheria, Repubblica cèca, Slovacchia: tre giovani democrazie risorte dopo mezzo secolo di comunismo, da poco diventate Paesi membri della Ue, nelle quali l´estremismo di destra gode di crescente popolarità È organizzato in milizie, manifesta sentimenti antisemiti e razzisti. E a Bratislava è già insediato al governo

A Budapest sfilano in centro indossando l´uniforme nera, sventolano i gagliardetti delle Croci frecciate alleate di Hitler, giurano di salvare la patria dagli zingari, dal capitalismo e dagli ebrei. A Praga contattano ogni giorno i loro camerati tedeschi della Npd neonazista, e spesso affrontano la polizia in violenti scontri di guerriglia urbana. A Bratislava il loro partito è addirittura al governo, partner preferito ai democristiani per formare una coalizione dal premier socialdemocratico-populista Robert Fico.
Europa centrale, inverno 2008: mentre il più importante dei nuovi membri dell´Unione Europea, la Polonia, è una solida democrazia, una società dalla cultura democratica diffusa nella sua coscienza collettiva e dall´economia ancora in boom, in altri tre paesi membri della Ue, tre giovani democrazie risorte dopo mezzo secolo di comunismo e di colonialismo sovietico (Ungheria, Repubblica Cèca, Slovacchia), il neonazismo non è più solo uno spettro, né la minaccia violenta di minoranze arrabbiate ma marginali: è realtà quotidiana, è un modo di pensare che si diffonde nei salotti buoni, è una forza politica che ha imparato a sfidare la libertà sia con la violenza di piazza sia con successi elettorali e coalizioni. Diciannove anni dopo la caduta della Cortina di ferro, quelle tre giovani democrazie appaiono infettate da una voglia di ordine diventata mostro. E il mostro è un virus contagioso: nell´Europa senza frontiere, i successi magiari, cèchi e slovacchi possono dare esempio e forza ai suoi adepti ovunque nell´Unione.
L´Ungheria è il caso più appariscente della nuova sfida all´Europa. Jobbik, cioè "i migliori", si chiama il partito. Come sempre accade al fascismo, due volti vi convivono, il doppiopetto e il manganello. Il doppiopetto sono l´elegante look sportivo - camicia button down e pullover inglese - del suo leader Gábor Vona, o gli abiti chic della bionda, giovane, attraente Krisztina Morvai, avvocato e docente di giurisprudenza, ex attivista per i diritti delle donne e delle minoranze, convertita al sogno della destra nazionale. Il manganello si chiama Magyar Gárda, "guardia ungherese". È la milizia paramilitare del partito, conta oltre duemila aderenti, ma presto supererà i settemila. È organizzata in compagnie e reggimenti, i suoi membri entrandovi prestano giuramento di fedeltà assoluta come si fa in un esercito regolare. E si addestrano alle arti marziali e al tiro con le armi da fuoco.
Lo sfondo nazionale è desolante. Diciannove anni dopo la fine del comunismo, l´Ungheria è un´economia in crisi e soprattutto uno Stato sulla soglia della bancarotta. Solo iniezioni di liquidità somministrate in extremis dal Fondo monetario internazionale e dall´Unione Europea hanno salvato il governo socialdemocratico (postcomunista) del premier Péter Gyurcsany, ma il malcontento rimane. Fa da sedimento a una simpatia sempre più diffusa per l´ultradestra, ha avvertito di recente Paul Lendvai, decano dei corrispondenti del Financial Times, gentiluomo ungherese fuggito a Occidente durante il comunismo che da Vienna, nei decenni della Guerra fredda, era una delle fonti più attendibili su qualsiasi cosa accadesse o si preparasse nell´"altra Europa". Altre voci autorevoli sono purtroppo d´accordo: odio xenofobo, discriminazione, diffidenza verso minoranze e diversi, spiega la sociologa Maria Vasarhely, sono sempre più diffusi in ampi strati della popolazione. Venti ungheresi su cento, avverte il suo collega Pal Tamás, sui grandi temi della politica e della vita la pensano come l´ultradestra, e trenta su cento, secondo una sua indagine scientifica, sono da considerare antisemiti.
Manganello e doppiopetto agiscono in sinergia, nell´Ungheria della crisi, conquistano la ribalta ogni giorno nella Budapest splendida ma dove la nuova povertà e il degrado urbano, con troppe facciate di palazzi asburgici diroccate anziché risanate come in Polonia, mostrano che qualcosa non va. A Hoesoek Tére, la piazza degli eroi, luogo-simbolo della nazione, la Magyar Gárda sfila spesso e volentieri. Oppure conduce giorno e notte pattuglie, per intimidire gli zingari. O suoi simpatizzanti lanciano escrementi, pietre e uova marce contro il teatro della comunità ebraica. «Il problema dei senzatetto e degli zingari si può risolvere diffondendo batteri della tubercolosi», affermano i suoi ultrà, «perché dobbiamo difenderci». Vona e la signora Morvai no, non giungono a tanto. Ma affermano a ogni comizio: «Chi sono gli zingari? Amano l´Ungheria o no? Hanno voglia di lavorare? Vogliono adattarsi e assimilarsi o no? Possiamo fidarci?». E più spesso ancora diffondono l´idea che nel dopo Guerra fredda i politici dei partiti democratici hanno «trasformato l´Ungheria in un Paese sconfitto, una colonia dell´Occidente». Siamo a un passo dal mito mussoliniano della "vittoria mutilata".
La Grande Ungheria è il loro sogno, il rifiuto del Trattato di Trianon che nel 1918 tolse ai magiari (parte dell´Impero asburgico) i territori ora slovacchi o romeni è slogan e bandiera. Erano le idee-forza della dittatura dell´ammiraglio Miklos Horthy, alleato di Hitler, e degli estremisti delle Croci frecciate di Imre Szalasi.
Ma nell´ex Europa asburgica il nuovo fascismo si diffonde anche dove le tradizioni democratiche dovrebbero essere più solide. Guardiamo poco più a ovest, nella splendida, prospera Praga, capitale di un Paese devastato dal mezzo secolo bolscevico e ora tornato al capitalismo ma anche segnato dalla corruzione e dall´instabilità politica. Il Partito dei lavoratori (Ds, guidato da Tomás Vandas) ha chiare matrici neonaziste e contatti con la Npd tedesca. Qualche settimana fa nella città di Litvinov ci sono voluti oltre mille poliziotti in assetto di guerra per affrontare in una notte di guerriglia urbana almeno settecento squadristi del Ds decisi a dare l´assalto a un quartiere abitato da gitani.
I loro slogan sono ancor più duramente anti-occidentali di quelli dei camerati ungheresi: «Alzati, lotta contro il liberalismo», titolava uno degli ultimi numeri di Delnické listy, il loro organo. Il partito neofascista cèco è in prima fila, come i comunisti nostalgici dell´occupazione sovietica, contro i piani Nato sullo scudo difensivo in Cèchia e Polonia per affrontare i missili iraniani. E sull´esempio magiaro, anche nella Repubblica cèca un altro gruppo, il Partito nazionale, ha fondato una sua milizia paramilitare. Guidato da Petra Edelmannova, il partito vuole presentarsi alle elezioni politiche del 2010 proponendo la «soluzione finale della questione degli zingari». Linguaggio senza pudore, che evoca esplicitamente quello del nazismo hitleriano nella «soluzione finale», cioè l’Olocausto.
Il governo cèco non vuole restare a guardare, anzi non può permetterselo anche perché tra poco gli toccherà la presidenza di turno dell´Unione Europea. Per cui sta studiando la possibilità giuridica di una messa al bando dei nuovi fascisti. Una possibilità del genere è lontana anni luce a Bratislava, la capitale della Slovacchia. Perché qui Robert Fico, primo ministro e leader del locale partito socialdemocratico (schierato su posizioni di sinistra nazionalpopulista, era stato persino temporaneamente sospeso dal gruppo socialista all’Europarlamento), ha scelto di governare e garantirsi il potere alleandosi non con i democristiano-conservatori bensì con lo Sns, il Partito nazionalista slovacco di estrema destra. Lo guida Jan Slota, politico di provincia che ama abbandonarsi a eccessi alcolici per poi scatenarsi ancor meglio nei comizi. Propone «la frusta» per risolvere (rieccoci) «il problema degli zingari», sogna di diventare europarlamentare per «rendere di nuovo vive le acque marce e sporche di Bruxelles e di Strasburgo». I suoi bersagli preferiti sono, oltre ai gitani, la minoranza ungherese e gli omosessuali.
Il premier Fico tace, volta la testa dall´altra parte. Si preoccupa solo di litigare col governo ungherese, perché l´ultima partita di calcio tra squadre dei due paesi, a Dunajska Streda, si è conclusa con una notte di duri scontri tra teppisti magiari e slovacchi, tutti legati alle due ultradestre. E alla fine la polizia slovacca per una volta è intervenuta duramente, ma pestando quasi soltanto i violenti ungheresi.
L´unica, debole speranza dell´Unione Europea è questa: che la furia nazionalista dei nuovi fascisti nell´Europa ex asburgica sia talmente virulenta da indurli a volte a considerarsi tra loro nemici mortali anziché alleati. Ma anche in questo il rovescio della medaglia è l´abdicazione del potere statale. Dopo la notte di sangue a Dunajska Streda, la Magyar Gárda ha presidiato e chiuso i valichi di frontiera con la Slovacchia; nessuno glielo ha impedito. I nuovi radicalismi, denunciava l´altro giorno Joseph Croitoru sulla Frankfurter Allgemeine, sono un´ipoteca grave e imprevista sul futuro delle tre giovani democrazie europee. L´epidemia è scoppiata non in paesi lontani, ma all’interno dei confini aperti della Ue e della Nato.

Repubblica 7.12.08
Una deriva avviata dai nazionalisti russi
di Leonardo Coen


MOSCA. Terzo vagone di un convoglio della metropolitana, in viaggio verso la stazione della Biblioteca Lenin, 22 novembre. Tre giovani skinhead circondano un passeggero, sui trentacinque anni. Si chiama Mikhail Altshuller, un cantautore abbastanza noto nella comunità ebraica di Mosca: è infatti il solista e il direttore del "Dona Yiddish Song Group", che gode di ottima reputazione nell´ambiente musicale internazionale, ha pure vinto qualche festival. Uno dei tre si rivolge al barbuto Altshuller e lo apostrofa. Subito dopo, comincia un sistematico e feroce pestaggio: i tre picchiano e gridano slogan nazionalisti. Altshuller finisce all´ospedale. La polizia ferma due sospetti.
Pochi giorni dopo, il primo di dicembre, viene trovato il cadavere di un azero di venticinque anni: ucciso a coltellate vicino alla stazione Universitiet, non lontano dalla Collina dei Passeri. Ultimo delitto di una lunga serie di attacchi xenofobi che sinora hanno causato 114 vittime e ferito 357 persone (bilancio aggiornato alla fine di ottobre). Nei primi dieci mesi di quest´anno il numero delle aggressioni a sfondo razzista è cresciuto di una volta e mezzo rispetto al 2007.
L´attività di prevenzione della polizia e dell´Fsb, i servizi federali di sicurezza, dunque, non basta ad arginare il fenomeno. I media danno grande risalto al processo che in questi giorni, proprio a Mosca, vede alla sbarra una gang di neonazisti accusati di ventidue omicidi e dodici attentati. La Russia post-comunista è animata da virulenti movimenti di estrema destra che raggruppano un largo spettro ideologico: alcuni fanno riferimento al nazismo, altri al fascismo o al nazional-bolscevismo. Su questi filoni si innescano i movimenti degli skinhead e quelli che si riconoscono nella controcultura giovanile di estrema destra, sino alle correnti neopagane e ariane. Lungi dall´essere arcaica, l´estrema destra russa rivela indirettamente i profondi sconvolgimenti con cui ha a che fare il Paese da due decenni, a partire dalla necessità di riformare una nuova identità collettiva. Secondo alcune stime, i naziskin in Russia sono circa sessantacinquemila: la loro ideologia è profondamente permeata di razzismo, l´attività principale è la caccia all´immigrato (diciassette milioni, di cui cinque clandestini). Gli «intrusi», come vengono bollati gli immigrati, rappresentano la forza lavoro più sfruttata e indifesa. «Uzbeki, kirghizi e tagiki - si legge in un recente rapporto Unicef - sono gruppi a rischio la cui situazione è molto prossima alla schiavitù». Per forza: nella logica xenofoba russa sono i «non slavi», anzi, i «nemici della razza superiore slava». Poco importa se sino a diciotto anni fa facevano parte dell´Unione Sovietica: emancipandosi dalla Russia sono diventati stranieri di serie B perché asiatici. Anche gli stessi cittadini della Federazione Russa, come i daghestani e i ceceni, condividono questo destino di prede.
Più della metà degli omicidi a sfondo razziale sono stati commessi a Mosca e nella sua regione. L´altro grande polo xenofobo è rappresentato da Pietroburgo e dalla sua regione, che ha conservato il nome sovietico di Leningrado. Tuttavia, poco alla volta, la piaga si è estesa: dopo aver raggiunto Volgograd, Nizhnij Novgorod, Jaroslav, Kaliningrad, la violenza razzista ha infettato le grandi città della Siberia e dell´Estremo Oriente, dove l´immigrazione è massiccia. Il tamtam è Internet, la "bibbia" era sino a metà degli anni Novanta la rivista Rasato a zero. Oggi le pubblicazioni si sono moltiplicate: Combattente di strada, La volontà russa, La resistenza russa, La resistenza bianca, Martelli, Screwdriver, La Cosa 88 (il numero che in gergo identifica Hitler). Titoli che sono un programma.

Corriere della Sera 7.12.08
La guerra e la morte, l'amore e l'odio: i trenta capolavori della letteratura antica proposti in una nuova veste
Da Omero a Orazio, i padri dell'Occidente
L'attualità degli autori che hanno dato un pensiero (e una coscienza) all'uomo
di Armando Torno


Walter Benjamin sosteneva nel saggio dedicato al collezionismo dei libri che non sono i lettori a preservarli nel tempo ma, al contrario, i tomi accantonati conserveranno la memoria degli uomini che li hanno raccolti. Non salviamo i libri ma siamo salvati dal ricordo che abbiamo lasciato tra le pagine, perché noi «viviamo in loro ». Applicando questo felice paradosso al mondo greco e latino, potremmo credere che tutti quegli autori che vanno da Omero alla caduta dell'impero romano, fioriti nell'aureo millennio e mezzo dell'intelligenza occidentale, consentono ancora a noi oggi di avere un pensiero, un gusto, un'anima. Senza saperlo, ogni giorno ripercorriamo le strade battute dalle loro emozioni che misteriosamente non riescono a svanire. Chi desidera fare a meno della letteratura antica assomiglia a un tale che ha deciso di non credere più a se stesso.
Per questi semplici motivi, e per altri più complessi, una collana di autori greci e latini che riproponga trenta volumi essenziali, che vanno cronologicamente dall'Iliade di Omero al Libro dei sogni di Artemidoro di Daldi, non rappresenta un recupero archeologico di curiosità o di ricordi scolastici ma più semplicemente uno specchio dove è possibile osservare noi stessi. Quando vi capiterà di leggere nell'Odissea la vicenda dei compagni di Ulisse trasformati in porci da Circe, ricordatevi che non è avvenuto alcun sortilegio: la dea-maga ha semplicemente riconosciuto la loro natura. E se siete innamorati, avrete senz'altro rivissuto l'impulso egoistico che Catullo trasformò nei Carmina in poesia per sempre: «Vivamus, mea Lesbia, atque amemus, /rumoresque senum severiorum/ omnes unius aestimemus assis.
/Soles occidere et redire possunt: / nobis cum semel occidit brevis lux, / nox est perpetua una dormienda». Parole che diventano, tradotte senza poter ricreare i sussurri e gli ammiccamenti del testo latino: «Viviamo, mia Lesbia, e amiamo,/ e le prediche dei vecchi severi/ stimiamole, tutte, quanto un soldo bucato./ I soli possono tramontare e tornare;/ noi, una volta caduta la nostra breve luce,/ abbiamo davanti il sonno di una notte perpetua» (V, 1-6).
E che dire di Petronio e di quel Satyricon che Nietzsche amava più dei Vangeli? In quelle pagine non si descrivono gli uomini come angioletti, anzi questo narratore latino di cui sono rimaste scarsissime notizie biografiche e che aveva scelto di vivere di notte, ritrae impietosamente — tra le infinite situazioni — gli arricchiti di ogni tempo, dei quali Trimalcione resta patrono e simbolo. La volgarità riesce a tracimare dalle pagine, diventa lingua, odore, ideologia. Alla fine dell'episodio della cena un lettore potrebbe concludere: senza il porco non si ragiona, se manca il maiale per intere categorie sociali è la fine.
Non c'è stato grande spirito dell'Occidente che abbia ignorato i classici. Niccolò Machiavelli messo in disparte trovò le sue ragioni di vita in Tito Livio, Napoleone viaggiava sempre con un'edizione portatile delle Vite di Plutarco, Voltaire aveva nella sua biblioteca tutti i possibili classici antichi e si dimenticò di completare l'Encyclopédie, alla quale diede idee e articoli. E che dire di Beethoven? Teneva sul suo tavolo un busto di Bruto, pugnalatore di Cesare, come simbolo di libertà. Michel de Montaigne, una delle più fascinose anime del Rinascimento, rinunciò alle cariche pubbliche e agli onori di corte per chiudersi nel suo castello a meditare i classici antichi. Credeva, quasi sicuramente con ragione, che in essi fossero presenti tutte le notizie necessarie per conoscere l'uomo.
Ma per quanto possa continuare il nostro elenco non sarà possibile esaurirlo. Copernico ebbe l'intuizione che fonda il mondo moderno in alcuni scritti greci che non sono ancora ben identificati; quasi sicuramente egli partì dai testi pitagorici, da Archita in particolare, dove il sistema eliocentrico era una realtà. Non potremmo immaginare né Shakespeare né Leopardi né Erasmo senza le loro letture di autori antichi, né pensare alla filosofia contemporanea senza far ricorso a quello che si discusse ad Atene circa due millenni e mezzo fa. E quando ascoltiamo discorsi di persone tronfie che si credono indispensabili, vale la pena meditare su quanto scrisse l'imperatore Marco Aurelio in quella breve operetta privata che conosciamo impropriamente con il nome di Ricordi: «Tra poco avrò dimenticato tutto, tra poco tutti mi avranno dimenticato». E chi non ha verificato almeno una volta nella vita quei singhiozzi che un deluso Ovidio lasciò con impareggiabile grazia nelle sue pagine? Se volessimo riassumerli in una frase per compendiare le diverse situazioni, potremmo scrivere: finché sarai fortunato conterai molti amici, quando le cose cambieranno resterai solo.
Poi c'è Orazio, con quella sua morale autosufficiente che nelle
Odi invita l'uomo a cogliere l'attimo fuggente. È lui l'inventore di quel «carpe diem» che non riesce a tramontare (e che ispira ancora pellicole di successo). Di più: a volte irrita il lettore per taluni atteggiamenti deliziosamente insulsi, ma è attualissimo quando scrive dopo «carpe diem» le seguenti parole: «quam minimum credula postero», ovvero: «confidando il meno possibile nel futuro ». Sembrano concetti coniati pensando ai crolli di Borsa o a obbligazioni che si trasformano nel volgere di poche ore in polvere. Certo, nei trenta titoli che dicevamo ci sono anche i tragici e gli storici greci, c'è Cicerone, non mancano San Paolo e tanti altri. In questa pagina, pur saltellando tra autori ed emozioni, non riusciamo che a ribadire la loro utilità per vivere e per capirsi. E a sorridere pensando che, nonostante gli sforzi dei professori, non sono ancora morti.
Per concludere: quando sentite i politici parlare di patria e di sacrifici necessari, quando taluni esaltano quelle urgenze che non fanno abbassare le tasse, ricordatevi che Aristofane nel suo Pluto scrisse: «Patria è sempre dove si prospera ». Manzoni riprese il concetto nell'ultimo capitolo de I promessi sposi e ribadì — in pieno Risorgimento — per bocca di don Abbondio: «La patria è dove si sta bene».

Corriere della Sera 7.12.08
Il partito fai da te
Timori del leader per la direzione del 19. Il dalemiano Cuperlo: partito da costruire
Veltroni e il rischio «balcanizzazione» Un sondaggio lo gela: Pd al 28%
Da Firenze ai 54 ribelli: ognuno fa per sé. Il segretario: ci vogliono all'angolo
di Maria Teresa Meli


Stava riuscendo a far risalire la china al partito. Tenacemente, un passo alla volta, ma sempre un passo avanti.
Ora però la bufera giudiziaria che si è abbattuta sul Pd rischia di vanificare il lavoro di Veltroni.
L'ultimo sondaggio riservato è arrivato a largo del Nazareno l'altro ieri e ha destato un primo, forte, segnale d'allarme. Dopo le vicende di Napoli e Firenze il partito è calato di due punti e mezzo in percentuale nel giro di una settimana: dal 30,5 è tornato a quel 28 da cui il segretario lo aveva allontanato già alla fine d'ottobre. Ed è vero che Velt roni continua ad avere un indice di gradimento più alto del suo partito — è sopra del 9,3 rispetto al Pd — ma questa è una magra consolazione per un segretario che aveva cominciato a vedere la luce fuori dal tunnel della sconfitta elettorale e che ora deve ricominciare tutto daccapo. E così anche la direzione del 19, che per il leader si profilava come una passeggiata, visto che i dalemiani sembravano propensi a non dare battaglia, ma, piuttosto, a siglare una tregua, potrebbe diventare più insidiosa del previsto.
Un sindaco grande amico di Veltroni che si incatena davanti a un giornale senza neanche avvertire il leader, un presidente di Regione che si rifiuta di dimettersi e di andare al chiarimento con il suo segretario, un candidato a primo cittadino di Firenze indagato che voleva ugualmente partecipare alle primarie (che però dopo gli ultimi fatti verranno sospese), un documento che chiede ai vertici del Pd di cambiare registro che è stato elaborato da alcuni parlamentari dalemiani, Gianni Cuperlo e Barbara Pollastrini in testa, ma è firmato anche da un gruppetto di deputati veltroniani... Ecco, questi sono i segnali allarmanti che prefigurano il rischio balcanizzazione o di partito «fai da te» per il Pd. Senza contare che la ormai stucchevole contesa Veltroni-D'Alema, invece di cedere il passo, viste le altre emergenze, resta lì sospesa sopra il Pd.
Ne è convinto Peppino Caldarola, il quale, anzi, ritiene che la guerra tra il segretario e l'ex ministro degli Esteri si svolga adesso anche a colpi di inchieste e indagini. E infatti sul Giornale
di ieri Caldarola scriveva che Veltroni, «quasi vent'anni dopo Mani Pulite », pensa di «costruire la propria fortuna e di liquidare il suo amico-nemico» D'Alema con «la definitiva battaglia per la questione morale». Una battaglia che a Caldarola ricorda quella «finale contro Bettino Craxi» che venne condotta da Achille Occhetto negli anni, appunto, di Tangentopoli.
In questo clima i dirigenti del Pd sembrano convincersi che dietro le loro sventure si celi una sorta di complotto. Come spiega il segretario organizzativo del partito Beppe Fioroni, che, dopo l'inevitabile premessa («i magistrati stanno facendo il loro mestiere»), si dice «preoccupato per le strumentalizzazioni pesantissime che vengono fatte su queste vicende ». E non si tratta solo delle dichiarazioni di Silvio Berlusconi, che l'esponente del Partito democratico liquida così: «Il Cavaliere è come il bue che dice cornuto all'asino». C'è anche Gelli, che «ha detto che bisogna eliminare Veltroni».
Dunque? Dunque, secondo Fioroni e tutti i più alti dirigenti del centrosinistra, «è in atto un'offensiva contro il Pd da parte dei poteri forti di questo paese a cui il nostro partito dà fastidio: loro vorrebbero che tornasse a essere una cosa tipo ex dc ed ex pci». Anche il segretario è convinto che ci sia chi voglia «attaccare il Pd e metterlo all'angolo». Ma è altrettanto convinto che il Pd non esploderà e che anzi c'è il modo e il tempo per farlo ripartire. A patto che si porti avanti «un'iniziativa politica innovatrice». Ed è questo che Veltroni proporrà alla direzione del 19, dettando la piattaforma programmatica del "suo" Pd, con «chiarezza», perché non possano esservi dei "ni", ma solo dei sì o dei no. Certo ora tutto è più difficile. Ed è probabile che in quella riunione si sentiranno le critiche di chi, come Gianni Cuperlo, ritiene che il partito non c'è ancora e che «bisognerebbe costruirlo».

Repubblica 7.12.08
Campane d’allarme e trombe stonate
di Eugenio Scalfari


Da un partito guidato da persone perbene ci si aspetta che le mele marce siano messe da parte
Non esisterà più un capitalismo come quello che abbiamo conosciuto, basato soprattutto sui consumi

Non c´è un solo allarme rosso sul quale occorra tener fisso lo sguardo per comprenderne le cause e prevederne gli effetti con quotidiano monitoraggio. Ce ne sono tre, che insidiano la nostra vita dei prossimi mesi alimentando le nostre incertezze e i nostri timori.
Due hanno dimensioni nazionali e sono l´allarme sul funzionamento della giustizia e quello che viene definito la questione morale. Il terzo ha dimensione mondiale ed è la crisi dell´economia, la recessione americana diffusa ormai su tutto il pianeta, il pericolo che la recessione si trasformi in deflazione e che questa degradi ulteriormente in depressione.
La stampa americana parla ormai correntemente di «great depression, part 2» riferendosi a quella del ´29, le cui conseguenze devastarono gli Stati Uniti e l´Europa per otto anni. Ce ne vollero poi altri due affinché cominciasse un nuovo ciclo di crescita economica il cui mostruoso motore fu l´industria degli armamenti e la guerra scoppiata nel 1939, con i suoi milioni e milioni di morti, compresi quelli di Hiroshima e Nagasaki e lo sterminio dell´Olocausto. Proprio per queste sue terrificanti dimensioni comincerò queste mie note domenicali dal terzo allarme rosso. Me ne sto occupando ormai da alcuni mesi ma ogni giorno accadono fatti nuovi e un aggiornamento critico è dunque necessario.
Negli undici mesi fin qui trascorsi dal gennaio 2008 gli Stati Uniti sono in recessione, dapprima sottotraccia, poi esplosa a giugno con la crisi immobiliare. I sei mesi passati da allora hanno visto i listini di Wall Street perdere più del 50 per cento del loro valore e poiché i cittadini di quel paese hanno una familiarità con la Borsa sconosciuta nel resto del mondo ne è derivato un impoverimento, in parte virtuale ma in parte reale, che ha inciso sui consumi e sugli investimenti.
L´effetto, in un paese ad economia liberista, si è ripercosso sull´occupazione ed è stato un crescendo di mese in mese. Allo stato attuale dei fatti sono andati distrutti in undici mesi un milione e centomila posti di lavoro, dei quali 200.000 in ottobre e 536.000 in novembre. Un´accelerazione spaventosa che, secondo le previsioni più aggiornate, supererà nel primo semestre del 2009 i quattro milioni di persone.
Quando Obama e i suoi consiglieri affermano che il peggio deve ancora venire pensano esattamente a questo: lo spettro della disoccupazione di massa e quindi una diminuzione del reddito, specie nei ceti e per le etnie più deboli, ma non soltanto. Il saldo tra questa distruzione del reddito e l´apparente beneficio della discesa dei prezzi (dovuta appunto al crollo della domanda) sarà fortemente negativo, deprimerà i consumi e gli investimenti, manderà in fallimento decine di migliaia di aziende come in parte sta già accadendo.
Tra tanti germi negativi che l´America ha già disseminato nel resto dell´Occidente, l´effetto principale sta nel fatto che il motore americano si è ingolfato e così resterà a dir poco fino al 2011. Ma poi ricomincerà a tirare come prima?
Joseph Stiglitz in un´intervista pubblicata ieri sul nostro giornale, dà risposta negativa a questa domanda. Il capitalismo americano (e sul suo modello tutto il capitalismo internazionale) ha vissuto da decenni sulle bolle speculative. Sono state le bolle a far battere al massimo i pistoni del motore americano, locomotiva di tutto il resto del mondo. Le bolle, cioè il credito facile, cioè la speculazione.
Ma le bolle, dice Stiglitz, dopo la durissima crisi che stiamo vivendo non si ripeteranno più. Non nella dimensione che abbiamo visto all´opera negli ultimi anni. E quindi non esisterà più un capitalismo come quello che abbiamo conosciuto, basato per quattro quinti sui consumi.
Subentrerà probabilmente un capitalismo basato sugli investimenti e su una redistribuzione della ricchezza mondiale e, all´interno dei vari paesi, della ricchezza tra i vari ceti sociali. Si capovolgerà lo schema (finora imperante) che vede la redistribuzione del reddito e della ricchezza come una conseguenza dipendente dalla produzione del reddito e dei profitti. Sarà invece la redistribuzione a mettere in moto la produzione e i pistoni del motore economico.
Ricordo a chi non lo sapesse o l´avesse dimenticato che fu l´allora giovane liberale Luigi Einaudi a propugnare (era il 1911) un´imposta unica basata sui consumi e un´imposta patrimoniale di successione che al di là d´una certa soglia di reddito passasse i patrimoni con un´aliquota del 50 per cento da impiegare per ridistribuire socialmente la ricchezza. Forse, con un secolo di ritardo, ci si sta dirigendo verso soluzioni di questo tipo. Lo chiameremo ancora capitalismo? Oppure come?
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Il nostro governo e il nostro ministro dell´Economia sostengono che in Italia le cose andranno meglio perché le banche qui da noi sono più solide che altrove e i conti pubblici «sono in sicurezza». Salvo il debito pubblico, ma la colpa di quella voragine fu creata negli anni Ottanta e quindi riguarda la precedente generazione.
Quest´ultimo punto del ragionamento è esatto; che le nostre banche siano solide è una fondata speranza; ma che le nostre prospettive siano migliori degli altri paesi è una bufala delle tante che il governo ci propina. Noi non stiamo meglio, stiamo decisamente peggio, ci tiene ancora a galla l´euro senza il quale staremmo da tempo sott´acqua. Stiamo peggio perché non abbiamo un soldo da spendere.
Quelli che avevamo venivano da una forte azione di recupero dell´evasione fiscale che ci dette nel 2006-7 più di 20 miliardi da spendere. Questa fonte si è inaridita. Il fabbisogno è aumentato, l´abolizione dell´Ici ha distrutto un reddito tributario di 3 miliardi e mezzo l´anno; l´Alitalia tricolore è costata all´erario 3 miliardi (se basteranno).
Sicché Tremonti non ha un soldo. Per mandare avanti il motorino italiano ha dovuto redigere nel luglio scorso una legge finanziaria gremita di tagli. Per far sopravvivere il sistema ha concesso la settimana scorsa un´elemosina di 6 miliardi "una tantum" alle famiglie e alle imprese; con qualche spicciolo aggiuntivo per far tacere le invettive del Papa e dei vescovi per i tagli alle scuole cattoliche (ma quelli alla scuola statale e all´Università sono rimasti tutti ferocemente in piedi).
Anche in Italia tuttavia, come altrove, la crisi finora ha soltanto graffiato la pelle ma non ha ferito né i muscoli né i tendini. Si consuma un po´ meno, si investe poco o nulla (ma questa latitanza degli investimenti privati e pubblici è da anni una costante).
Il peggio deve venire dice Tremonti ed ha purtroppo ragione. La diagnosi è giusta. La terapia non c´è per ragioni di forza maggiore determinati dagli errori commessi sei mesi fa. Come uscirne dovrebbero dircelo il premier e il ministro dell´Economia. Certo non se ne esce con gli inviti ai risparmiatori a sottoscrivere i Bot. Tanto meno facendone colpa all´opposizione. Per Tremonti la via d´uscita sembrerebbe quella di metter le mani sul risparmio postale della Cassa depositi e prestiti. Si sperava che il presidente della Cdp, Franco Bassanini, si opponesse a quel progetto così arrischiato, ma sento dire che ne è stato addirittura uno degli ispiratori. Se fosse vero ne sarei stupefatto.
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Tratterò insieme i due allarmi rossi nazionali: la crisi della giustizia e la questione morale.
Il presidente del Consiglio, in un comizio di ieri a Pescara, ha scandito che «nel Pd c´è una questione morale». Il Corriere della Sera con un articolo di fondo in prima pagina del vicedirettore Battista, ha inneggiato all´Espresso che ha pubblicato un´inchiesta sulle indagini giudiziarie di alcuni assessori del Comune di Firenze e alcune attendibili voci su una sorta di comitato d´affari sugli appalti in terra di Napoli. Il Tg1 di venerdì sera ha anch´esso registrato tra le primissime notizie l´inchiesta dell´Espresso ed ha intervistato in presa diretta il direttore di quel giornale, Daniela Hamaui.
Un´attenzione simile, del resto più che meritata dall´amica e collega che dirige il settimanale del nostro gruppo e dai suoi collaboratori, è del tutto insolita da parte d´un giornale che scia a slalom sui fatti e i misfatti e di un telegiornale che si fa giusto vanto di essere "super partes" anche se molti dei suoi ascoltatori non se ne accorgono.
Non ho mai letto un editoriale del Corriere e mai visto sugli schermi del Tg1 un collega di Repubblica o dell´Espresso complimentato o chiamato ad illustrare i servizi pubblicati, quando quei servizi documentavano la questione morale nei partiti e nei personaggi del centrodestra a cominciare dallo stesso Berlusconi. Non parlo di giudizi politici, parlo di inchieste sul malaffare. In questi anni ne abbiamo scritti a centinaia ma nessuno di essi ha avuto la possibilità di imporsi alla pubblica opinione al di fuori di quanti ci leggono (che per fortuna sono tanti).
È un vanto dei giornalisti del nostro gruppo di non guardare in faccia ai colori di bandiera di questo o di quello quando si parla di malaffare.
Giuseppe D´Avanzo è un nome per tutti. Ma è sospetto e sospettabile il rilievo che viene dato dalla stampa cosiddetta indipendente e dal servizio pubblico televisivo solo quando le inchieste riguardano la sinistra riformista e mai quando riguardano i personaggi del centrodestra.
Quanto ai giornali e ai giornalisti di centrodestra è inutile cercare qualche loro articolo che metta sotto esame i colori della propria parte. Non sono certo pagati per questo dai loro padroni.
C´è una questione morale che riguarda alcune persone del Pd che rivestono cariche pubbliche. Personalmente non ritengo che riguardi il sindaco di Firenze che per protestare la sua innocenza si è voluto incatenare davanti al cancello d´ingresso dell´edificio dove lavorano tutti i giornalisti del nostro gruppo. Incatenarsi mi sembra un gesto che sa di retorica ma capisco la sua sofferenza e le sue motivazioni. Ciò detto, sentenzieranno i magistrati la loro verità.
Il partito cui gli indagati appartengono non ha sovranità sugli incarichi istituzionali elettivi, non può obbligare alle dimissioni un governatore di Regione o un sindaco che derivano dagli elettori i propri poteri. Ma può (secondo me deve) sospendere dal partito in attesa di accertamenti le persone inquisite. A Firenze dovrebbe sospendere gli inquisiti dalle elezioni primarie alla carica di sindaco. A Napoli dovrebbe sospendere gli inquisiti, se e quando ne conosceremo i nomi, di un´inchiesta giudiziaria in corso. Così pure dovrebbe sospendere il governatore della Campania, anche lui da tempo sotto inchiesta.
Di quanto bolle in pentola alla Procura napoletana per ora non si sa molto. D´Avanzo ne ha ampiamente parlato in due recenti articoli dai quali deduco che ci sarebbe una sorta di "comitato d´affari" formato da politici tra i quali importanti nomi di centrodestra e di centrosinistra in combutta tra loro e, come referente napoletano, Antonio Saladino, che non ha niente a che vedere con il feroce Saladino delle gloriose figurine del cioccolato Perugina, ma è stato dal 1995 al 2006 (cioè per undici anni) il presidente per il Mezzogiorno della Società delle Opere, filiazione in affari di Comunione e Liberazione. Dove si vede che le (supposte) mele marce ci sono dovunque e quando si avvistano vanno messe da parte affinché non contagino le buone. Questo ci si aspetta da un partito guidato da persone perbene. Questo, anzi lo si reclama.
Dall´altra parte politica ci si aspetta poco o niente perché lì il malaffare sta al vertice il quale ovviamente non può bonificare gli altri suoi compagni di viaggio visto che, per definizione, non può bonificare se stesso.
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Delle Procure di Salerno e di Catanzaro e della crisi della giurisdizione che in quelle Procure ha avuto in questi giorni la sua immagine più inquietante, ha detto tutto con parole tanto sobrie quanto severe il presidente della Repubblica. Sembra che ci sia stata in quegli ambienti una sorta di ventata di follia, di vanità, di ripicca, di megalomania che ha fatto crollare in poche ore la credibilità dell´intero ordine giudiziario e del suo potere diffuso.
Il ministro Guardasigilli Alfano chiede ora una riforma costituzionale bipartisan. Vedremo come si condurrà nelle prossime settimane. Sarebbe auspicabile che l´aggettivo "bipartisan" non venisse confuso con l´incitamento all´opposizione di approvare un manufatto della maggioranza con la sola facoltà di cambiare un paio di virgole e qualche punto esclamativo. Finora è stato così e questo spiega la risposta sempre negativa dell´opposizione.
C´è un punto che non richiede modifiche costituzionali e che a mio avviso dovrebbe essere affrontato: riportare in capo al procuratore del tribunale e al procuratore della corte d´appello l´esercizio dell´azione penale oggi diffusa in capo ai sostituti. Buona parte delle discrasie in corso nella magistratura inquirente derivano da questa parcellizzazione estremamente pericolosa che va a mio avviso abolita.

il Riformista 7.12.08
Lettera aperta a D'Alema
di Peppino Caldarola


Lettera (seria) aperta a Massimo D'Alema. «Caro Massimo, siamo stati amici. Poi è andata come è andata. Ti scrivo nel momento di maggior pericolo per te e in fondo per tutti noi, apolidi di sinistra che non vogliamo ammainare la bandiera rossa. Il Pd è fallito. Non c'è niente di nuovo sotto quell'insegna. Non ho mai capito bene perché dal partito riformista al partito di Prodi sei finito nel Partito democratico che tanto aborrivi. Talvolta penso che le tue scelte siano state un po' costrette dagli eventi e che l'eterna battaglia per farti fuori ti abbia costretto a incamminarti lungo sentieri a te sgraditi per allontanare i cecchini e portare in salvo te stesso e l'esercito di militanti che ti segue. Ora siamo arrivati alla fine del percorso. Dopo c'è il burrone. Puoi fare come Thelma e Louise, accelerare e prepararti al grande salto suicida, Puoi fermarti e riprendere il cammino a ritroso. A ogni curva c'è Di Pietro e i suoi pm pronti a impalarti. Veltroni lo sa e lascia fare, felice e contento. Capitò a Giacomo Mancini, capitò a Bettino Craxi, rischia di capitare anche a te. Fatti coraggio e prendi l'iniziativa. Butta fuori dal partito del Sud i mercanti, promuovi una nuova generazione e parti all'assalto di Roma. Tu vuoi restare nel Pse, vuoi un partito che difenda gli svantaggiati, ti piace discutere con quelli che contano, non disprezzi il tuo avversario storico. È una linea. Se stai fermo, questa volta ti distruggono. Io, da ex amico, ti difenderò, ma forse non basterà, tuo Peppino».

il Riformista 7.12.08
Il Ps francese è spaccato in due
Il Pd in mille pezzi
di Giuliano da Empoli


L'ufo Ségolène, una comunicatrice molto ambiziosa che il vecchio establishment dei cosiddetti elefanti vede come il fumo negli occhi. Attorno a lei ci sono tutti i più brillanti esponenti della nuova guardia riformista del partito

I socialisti francesi - si sa - sono gli unici progressisti europei più sconclusionati e preistorici di quelli italiani. Lo psicodramma del Congresso di Reims, con le due candidate leader, Martine Aubry e Ségolène Royal, separate da una manciata di voti e sull'orlo di una crisi di nervi, non ha migliorato la situazione. Proprio come il nostro Pd, il Ps francese è spaccato - sull'orlo di una scissione, sostengono alcuni. Se non altro però, oltre le Alpi gli schieramenti hanno il merito di essere chiari. Da una parte c'è l'ufo Ségolène, una comunicatrice ambiziosissima che il vecchio establishment dei cosiddetti elefanti vede come il fumo negli occhi. Attorno a lei ci sono tutti i più brillanti esponenti della nuova guardia riformista del partito: primi tra tutti il braccio destro Vincent Peillon e il portavoce Manuel Valls.
Dall'altra parte, attorno a Martine Aubry, l'irsuta figlia di Jacques Delors, si sono riuniti tutti i dinosauri che paralizzano il Partito socialista da tre lustri: Lionel Jospin e Laurent Fabius, Dominique Strauss-Kahn e Michel Rocard, Pierre Mauroy e lo stesso François Hollande, ex consorte della Giovanna d'Arco del Poitou-Charente. Gente che si conosce (e si odia) da una vita, ma che preferisce unirsi all'insegna del "Tout sauf Ségolène", qualsiasi cosa tranne Ségolène, piuttosto che essere spazzata via da una nuova era glaciale.
In apparenza è prima di tutto una disputa personale - e il Figaro Magazine si è divertito, la scorsa settimana, a disegnare una mappa dell'odio in casa socialista. Ma la questione va ben al di là della dimensione personale. In gioco c'è l'identità stessa del Partito Socialista. Una formazione vecchia di un secolo, che non si è mai adeguata fino in fondo alle regole della quinta repubblica. Un partito d'apparato, fatto di parlamentari e di consiglieri comunali, di sezioni e di militanti, che ha sempre fatto fatica ad adattarsi alla logica presidenzialista introdotta da De Gaulle.
Ségolène vorrebbe trasformarlo in una formazione più leggera, aperta sull'esterno, dotata di una leadership carismatica, proiettata in una dimensione di comunicazione e di campagna permanente. La Aubry e gli elefanti non ci stanno. Per loro le radici contano. E non a caso Martine ha impiegato la tribuna di Reims per rievocare la classe operaia come classe generale, provocando un brivido di nostalgia nei tanti socialisti che non si sono mai rimessi dai quattordici anni di realpolitik di François Mitterand.
Al di là dell'organizzazione, la frattura tra Ségolène e Martine affonda nella cultura politica dei socialisti francesi. Quando, a metà degli anni novanta, l'era mitterandiana è giunta al capolinea, il PS si è trovato di fronte a un bivio. Da una parte, avrebbe potuto scegliere di adeguare il proprio (vetusto) bagaglio ideologico alla concreta pratica di governo riformista impostata da Mitterand partecipando al movimento europeo della Terza Via che, in quegli anni, si incarnava in Tony Blair, Gerhard Schroeder e Romano Prodi.
Ma Lionel Jospin scelse una strada diversa: quella, ipocrita, del riformismo implicito che fa le riforme senza dirlo mentre continua a sbandierare il vessillo del superamento del capitalismo e dell'avvento di un altro mondo. Una strada che ha condotto il partito nel vicolo cieco nel quale si trova attualmente, passando per la catastrofica sconfitta al primo turno delle presidenziali del 2002. La Aubry - pasionaria delle 35 ore, numero due di Jospin quando era Primo Ministro - incarna la totale continuità di questa linea; Ségolène, invece, una discontinuità ancora un po' confusa, ma indiscutibile, che apre la prospettiva di un'allenza strategica con il MoDem del centrista François Bayrou.
Alla luce di queste considerazioni, non si può dire che quella del Ps francese spaccato in due sia una condizione ideale. Eppure, ha il merito della chiarezza: le opzioni sono due, nettamente distinte e alternative tra loro. Una situazione invidiabile per chi - come i sostenitori del Pd nostrano - assiste ogni giorno ad uno scontro sotterraneo e inesplicabile come certe guerre civili africane che vanno avanti per inerzia, senza che nessuno ricordi più perché sono iniziate, né si aspetti alcun beneficio dalla loro eventuale conclusione.

sabato 6 dicembre 2008

l’Unità 6.12.08
Come la Cei comanda, arrivanomi fondi alle scuole cattoliche
Nessuna risposta agli studenti dell’Onda. Ma è bastato un alzare di ciglia Oltretevere che l’esecutivo ha messo mano alla borsa. Zanda (Pd): «A scuola, università e ricerca sottratti 10 miliardi».
di Roberto Monteforte


È bastato che i vescovi minacciassero una manifestazione di piazza contro il governo a difesa della scuola «paritaria», rafforzato dal richiamo di Benedetto XVI al «diritto inalienabile alla libera educazione dei figli e quindi agli aiuti per l’educazione religiosa, perché prontamente l’inflessibile Tremonti trovasse risorse per le «private». Almeno così è parso. Assicurare le risorse alle scuole gestite da religiosi, in primo luogo le «materne», è diventato «un primario impegno politico» del governo e della maggioranza. Ripristinare quasi totalmente, con 120 milioni su circa 134 milioni, lo stanziamento per le scuole private nel 2009: questo prevedeva un emendamento al disegno di legge di bilancio del relatore Maurizio Saia (Pdl) concordato col governo. Solo una «coincidenza» assicura il relatore: nessuna risposta immediata alla richiesta della Cei. Lo contraddice il sottosegretario all’Economia, Giuseppe Vegas, che rivolto alla Cei assicura: «Con questo stanziamento possono dormire su quattro cuscini». Finanziamento assicurato? Forse, visto che quell’emendamento è stato ritirato e modificato in un particolare: è stata cassata la destinazione a favore delle paritarie per attribuirlo genericamente al bilancio del ministero. Sarà il ministro Gelmini a deciderne l’uso: scuola pubblica, paritarie o opere per la sicurezza degli istituti. Quello che pare assodato è che questi 120 milioni saranno «l’unico» stanziamento di Tremonti per la scuola. Una rassicurazione a metà, quindi, quella data dalla maggioranza, divisa al suo interno. «Tremonti fa il gioco delle tre carte e non si assume le responsabilità della destinazione dei fondi che comunque sono troppo esigui» commenta la Bastico (Pd) che chiede di ridurre fortemente i tagli alle scuole pubbliche.
Certo è che è stato efficace l’«uno due» della Cei. Primo colpo: in mattinata una dichiarazione dai tuni duri e ultimativi del responsabile scuola della Cei, monsignor Stenco. Chiama direttamente in causa il ministro dell’Economia, Tremonti rimproverandogli «di colpire di nuovo la scuola cattolica». «Guarda caso nel 2008 ripete la stessa manovra del 2004: taglia per tre anni consecutivi 130 milioni di euro alla scuola cattolica - afferma -. È un film già visto: si continua a colpire il sistema paritario». Il direttore dell’Ufficio nazionale della Cei per l’educazione rifà un po’ di conti. «Nel 2000 - spiega - la legge sulla parità scolastica ha previsto un contributo di 530 milioni di euro per tutto il sistema delle scuole paritarie, mentre la spesa per la scuola statale è di 50 miliardi. Il contributo, dello 0,1 per cento, è quindi già irrisorio». «Nel 2004, - prosegue - per tre anni consecutivi Tremonti ha tagliato 154 milioni sui 530 di contributo totale, cioè il 33 per cento». «La scuola cattolica ha taciuto - conclude - e li abbiamo recuperati anno per anno con emendamenti, con fatica e con ritardi. Ora, però, il ministro ripete la stessa manovra». Come dire: la misura è colma. «La Chiesa adesso - conclude minaccioso - deve tirare le sue conseguenze perché senza contributi le scuole dell’infanzia di certo rischiano di chiudere». Il secondo colpo, più morbido, arriva dal portavoce della Cei monsignor Pompili. «Siamo preoccupati, per il destino delle scuole pubbliche non statali. Tuttavia - ha aggiunto - pur consapevoli del momento economico e sociale del Paese, confidiamo negli impegni che il Governo ha assunto pubblicamente». La risposta non si fa attendere. Non sono necessarie Onde di protesta e migliaia di studenti e docenti in piazza. Il governo pare pronto ad accogliere le richieste della Chiesa. Una «sensibilità» attesa e a lungo contrattata Oltretevere. Quello che il governo offre è troppo poco: lo rimarca dall’opposizione la Garavaglia, il ministro «ombra» alla scuola. «Questo è solo un primo segnale» sottolinea, ricordando l’allarme lanciato a suo tempo dal Pd «sui tagli alle scuole paritarie» a cui l’esecutivo è rimasto sordo. «Ora - osserva - il governo di fronte alle legittime proteste provenienti da più parti, inclusi i vescovi, ci ha ripensato e ha cercato di rimediare al danno». Ma è che l’esecutivo guarda all’istruzione come a un costo da contenere. «I 120 milioni? Si tratta di un granello di sabbia rispetto ai circa 10 miliardi, tagliati a scuola, università e ricerca» afferma il senatore Luigi Zanda, invitando a rimediare ai colpi assestati alla scuola pubblica. «È bastato un semplice comunicato della Cei e il governo si mette sull’attenti e ritrova i fondi per le scuole private» afferma Claudio Fava di Sinistra democratica.

Repubblica 6.12.08
Metà delle tredicimila scuole paritarie gestite da enti religiosi: che lo Stato aiuta con 280 milioni l´anno
Seimila istituti e quarantamila prof la galassia dell´istruzione cattolica
Un giro d´affari che supera ogni anno il miliardo. Mezzo milione di iscritti: solo alle materne quasi 300mila
di Sandro Intravaia


ROMA - Oltre 6 mila istituti, quasi mezzo milione di alunni, 40 mila insegnanti e 18 mila tra bidelli e personale di segreteria. Ecco i numeri della scuola cattolica italiana, attorno alla quale ruota ogni anno un giro d´affari superiore a un miliardo di euro. In Italia, quello delle scuole non statali è un mondo piuttosto complesso. Per comprenderlo basta dare uno sguardo a "La scuola italiana in cifre: anno 2007". La galassia delle scuole non statali è dapprima suddiviso in due grossi blocchi: quelle pubbliche e quelle private. Che a loro volta sono suddivise in altre due categorie: le paritarie e le non paritarie. Le prime partecipano alla spartizione di circa 537 milioni di euro che lo Stato assegna in base ad una legge del 2000. Le seconde devono cavarsela con mezzi propri.
Una scuola può essere pubblica ma non statale? Sì, basta che sia gestita da un ente locale o pubblico: Comune, Provincia o Regione. È il caso di molte scuole materne: su 10.709 non statali 1.690 sono gestite direttamente dai Comuni, 246 dalle Regioni (come in Sicilia), 3 dalle Province e 405 da altri enti pubblici. Per ottenere lo status di scuola paritaria il gestore (ente pubblico o soggetto privato) deve avanzare richiesta all´ufficio scolastico regionale di competenza e, soprattutto, rispettare i requisiti stabiliti dalla legge 62 del 2000. Su un totale di 14 mila e 600 istituti privati sparsi in tutte le regioni italiane quasi 13 mila (l´88 per cento) sono paritari: facenti, cioè, parte del "sistema nazionale di istruzione" ed equiparati alle scuole statali.
E le scuole cattoliche? Secondo una statistica dello stesso ministero, oltre metà delle 13 mila scuole paritarie che operano nel nostro territorio sono gestite da enti religiosi. La quota gestita da laici è pari ad un terzo del totale. Ma è nel settore dell´ex scuola materna (ora dell´infanzia) che la Chiesa può fare la voce grossa. Su 628 mila bambini italiani che ogni anno frequentano le scuole paritarie (il 38 per cento del totale), 280 mila sono iscritti in scuole religiose. Se queste ultime dovessero "fallire" sarebbe un dramma per migliaia di famiglie perché lo Stato non sarebbe in grado di provvedere: mancano locali e arredi. Anche nella scuola elementare e media non statale gli istituti confessionali prevalgono, con più del 70 per cento di iscritti.
In totale, 280 milioni di contributo statale annualmente vanno diritto nelle casse delle scuole paritarie cattoliche. Ecco perché il taglio di 134 milioni previsto dal ministro dell´Economia, Giulio Tremonti, ha fatto storcere il naso ai vescovi e indotto il governo a fare marcia indietro.

Repubblica 6.12.08
La Costituzione dimenticata
di Miriam Mafai


Giulio Tremonti era noto fino ad oggi come il più rigoroso, persino spietato ministro dell´Economia, tanto da essere soprannominato "signor no". Qualcuno, non solo dell´opposizione ma anche della maggioranza, gli chiedeva di allargare i cordoni della borsa a vantaggio dei pensionati, o dei licenziati, o dei precari? No, non si possono purtroppo sforare le cifre del bilancio, rispondeva il nostro ministro. La riposta fino a ieri era sempre la stessa: no. «Tagliare, tagliare le spese» era il suo mantra. Crolla il soffitto di una scuola a Rivoli e si scopre che molte altre scuole sono a rischio? Occorrono fondi per mettere le nostre scuole a norma? No, la risposta è sempre no. Il bilancio dello Stato non lo consente.
Eppure ieri, finalmente il ministro Tremonti ha detto sì. Nel giro di un paio d´ore ha trovato i soldi per soddisfare la richiesta che gli è venuta dal Vaticano di aumentare lo stanziamento già fissato in bilancio per le scuole cattoliche. Contro il taglio originario di circa 130 milioni di euro aveva tuonato monsignor Stenco, direttore dell´Ufficio Nazionale della Cei per l´educazione, minacciando una mobilitazione nazionale delle scuole cattoliche contro il governo Berlusconi e il suo ministro delle Finanze.
La minaccia ha avuto ragione delle preoccupazioni del ministro. Nel giro di poche ore il sottosegretario all´economia Giuseppe Vegas, a margine dei lavori della Commissione Bilancio del Senato sulla Finanziaria, rassicurava il rappresentante delle scuole cattoliche. «Abbiamo presentato un emendamento che ripristina il livello originario di finanziamento. Potete stare tranquilli. Dormire non su due ma su quattro cuscini?» .
Dunque il taglio previsto in finanziaria non ci sarà. E non ci sarà la minacciata mobilitazione delle scuole cattoliche contro Berlusconi e Tremonti. Soddisfatti, ma solo per ora, i vescovi italiani. Soddisfatto, per ora, il Pontefice che però alza il prezzo e chiede nuove misure «a favore dei genitori per aiutarli nel loro diritto inalienabile di educare i figli secondo le proprie convinzioni etiche e religiose». In parole più semplici, c´è qui la richiesta rivolta allo Stato italiano di smantellare il nostro sistema scolastico a favore della adozione del principio del "bonus" da assegnare ad ogni famiglia, da spendere, a seconda delle preferenze, nella scuola pubblica o nella scuola privata.
Naturalmente nessuno contesta il diritto «inalienabile» delle famiglie di educare i figli secondo le proprie convinzioni etiche e religiose. E non ci risulta che nella nostra scuola pubblica si faccia professione di ateismo. E l´insegnamento della religione non è affidato a docenti scelti dai rispettivi Vescovi? Cosa si vuole dunque di più?
Anche a costo di essere indicati come "laicisti" vale la pena di ricordare che l´articolo 33 della nostra Costituzione, ancora in vigore, afferma che «enti e privati hanno il diritto di istituire scuole e istituti di educazione senza oneri per lo Stato». E che nel lontano 1964 un governo presieduto da Aldo Moro, venne battuto alla Camera e messo in crisi proprio per aver proposto un modesto finanziamento alle scuole materne private. Bisognerà dunque aspettare quasi quarant´anni perché un governo e una maggioranza parlamentare prendano in esame la questione delle scuole private e della loro possibile regolamentazione e finanziamento. E saranno il governo D´Alema e il suo ministro dell´Istruzione Luigi Berlinguer a volere, e far approvare, una legge sulla parità scolastica che prevede, ma a precise condizioni, un finanziamento non a tutte le scuole private ma a quelle che verranno riconosciute come «paritarie». Tutta la materia in realtà, nonostante alcuni provvedimenti presi nel frattempo, è ancora da regolare (non tutte le scuole private, ad esempio, possono essere riconosciute come «paritarie»).
Anche per questo, per una certa incertezza della materia, ho trovato per lo meno singolare l´intervento di due autorevoli esponenti del Partito Democratico, a sostegno della richiesta delle gerarchie. Maria Pia Garavaglia, ministro dell´istruzione del governo ombra del Pd, e Antonio Rusconi, capogruppo del Pd in Commissione Istruzione al Senato hanno subito e con calore dichiarato di apprezzare le rassicurazioni fornite, a nome di Tremonti, dal sottosegretario Vegas. Ma non ne sono ancora soddisfatti. Chiedono di più. Sempre per le private. Chiedono cioè che vengano garantiti «pari diritti agli studenti e alle famiglie» È, quasi con le stesse parole, la rivendicazione già avanzata dalle gerarchie.
Ma è davvero questa, in materia scolastica, la posizione alla quale è giunto il Pd? E se sì, in quale sede è stata presa questa decisione? È giusto chiederselo, è indispensabile saperlo. Anche perché ha ragione chi, come don Macrì, presidente della Federazione che riunisce la scuole cattoliche, lamenta che la strada che porta al bonus trova un ostacolo «nell´articolo 33 della Costituzione che sancisce che le scuole private possono esistere senza oneri per lo Stato».
E allora, che facciamo? Per rispondere alle esigenze delle scuole cattoliche butteremo alle ortiche l´articolo 33 della Costituzione?

l’Unità 6.12.08
Caso Castello, il male oscuro di Firenze
di Sandra Bonsanti


Oggi si dice Castello e si pensa al disastro politico, civile e culturale di Firenze. Tutto comincia lì, ma dove finirà, questo “tutto”? È facile nel caos che stiamo vivendo seguire le tappe della vicenda storica, della Fondiaria, del costruttore Ligresti e della sua azienda sirena che sovrasta come un’ombra tante città italiane, spargendo cemento. È anche abbastanza facile documentare gli atti compiuti dalle varie giunte coinvolte. Ma quello che la gente sente è che ci sia qualcos’altro di sbagliato. Un male oscuro che ha pervaso i vari livelli del governo della città, che per ora non ha un nome preciso che forse è stato anche corruzione. È reato o non è reato ciò che fino ad oggi è emerso? I protagonisti si sentono sicuri, si difendono. Ma il ciclone rischia di trascinare con sé qualcosa di più che la buona fede o l’onestà dei singoli. Il ciclone Castello a Firenze rischia di dare un colpo fatale al futuro della città.
Quello che più ferisce è che ogni parola pronunciata dai politici coinvolti o solo chiamati in causa, prescinde da quella che dovrebbe essere l’unica preoccupazione del pubblico servitore: l’interesse della città. Il parco serve o no in quella piana destinata al cemento? C’è stata oppure no una vicinanza pericolosa tra servitori pubblici e imprese interessate? La trasparenza degli atti ufficiali è stata oppure no compromessa da intese riservate? Qualcuno ha inseguito un suo interesse privato? Se ciò è accaduto, allora non possiamo non chiedere agli esponenti di primo piano del Pd di correre ai ripari. Il problema è tanto più grave in quanto il ciclone si è mosso nei giorni di queste Primarie cittadine. I quattro scesi in campo si divincolano tra situazioni difficili da gestire. Cioni, il più anziano, ha costruito la sua storia politica con una vicinanza ad anziani e socialmente bisognosi ma anche con relazioni importanti tra professionisti e medici della città. Conosce ogni buca della città. Se lo costringono a dimettersi o lo cacciano dal Pd farà una sua lista civica. Renzi è nato rutelliano e ora naviga da solo, forte della sua giovane età. Pistelli ha una lunga storia di partito ed è visto come veltroniano di ferro. Daniela Lastri è nata e cresciuta nella parte più genuina della tradizione del Pci locale, ma a lei si chiede la prova che agli uomini nessuno chiede: saprà fare il sindaco? Fare il sindaco di Firenze: mio padre lo fu per un tempo breve, morì mentre era ancora a palazzo Vecchio. Per lui le chiarine suonarono l’addio più straziante. Quando era stato eletto aveva detto solo: «Spero di non fare danni a questa città». Allora si era modesti, troppo. Diceva di esser riuscito, dopo qualche mese, ad ottenere un gran risultato: che gli assessori stessero seduti a un tavolo, diverse ore, per studiare i problemi. I problemi della città, dei cittadini. Non i problemi di Ligresti o della spartizione del potere fra correnti del Pd.

Repubblica 6.12.08
Parla l'assessore fiorentino
Cioni: "Si diventa tutti cannibali quando un partito non esiste"
di Antonello Caporale


Non parla. Ringhia. Non ritira mai la gamba il Cioni, e prima di prenderle le dà.
«Rotoli di banconote sono atterrati su tante scrivanie. Io non solo non li ho arraffati, ma ho fatto arraffare dai carabinieri chi me le aveva fatte scivolare sotto il naso. E a me si viene ora a chiedere di affogare nel disonore».
Siete tutti dei cannibali.
«Cannibali ho detto, è vero. Un partito se esiste governa anche le vicende più nere e terribili. Se non esiste lascia divenire gli uni cannibali degli altri»
Graziano Cioni ha la stessa vitalità muscolare di Rino Gattuso quando è in forma. L´assessore di Firenze noto per la guerra a mendicanti e lavavetri, sta per essere spinto dal partito fuori dalla gara delle primarie a sindaco della città, causa un coinvolgimento nell´inchiesta su mattoni e appalti che sta allagando tutti i piani del palazzo di piazza della Signoria, sede del municipio.
Anche lei dentro questa storia.
«Ma cosa ho fatto, me lo dica? Me lo dica il magistrato se ho preso un euro, e dove e da chi. Se ho raccomandato qualcuno»
La sua amica, per esempio. Che ha ricevuto da Fondiaria, società di vaste proprietà immobiliari, un appartamento in affitto.
«E cosa sarebbe questa?».
I cannibali ritengono che qualcosina pur significhi.
«Conosco Fausto Rapisarda (rappresentante della società, ndr) e anche bene. Fondiaria ha sponsorizzato molti progetti comunali da me promossi. Però trovi un euro di Fondiaria nelle mie tasche»
Trovo suo figlio Emiliano nell´organico di Fondiaria.
«Emiliano aveva bisogno di lavorare. E io ho chiesto a chi conoscevo: fagli fare anche l´usciere, aiutalo però».
Che papà.
«Sono stato un papà di merda. Per una vita alle sei e mezza sono uscito di casa, e i figlioli dormivano. E a mezzanotte vi ho fatto ritorno, quando i figlioli avevano già preso sonno».
Adesso, a 62 anni, la politica la sta impiccando.
«La politica e´ tutto per me. Io non so vivere senza, capisce? E non posso lasciarla con questo sfregio sul volto. Feci arrestare anche un mio compagno che voleva far smerciare carne marcia. Ho dato prova di essere moralmente inattaccabile e il partito utilizza la convenienza di intercettazioni vuote di ogni significato corruttivo per chiedermi di fare un passo indietro. È una scusa per fottermi».
Cannibali.
«Forse esagero e sbaglio. Mia moglie mi chiede di staccare la spina, vorrei tanto accontentarla».
Non ce la fa.
«Mi sento stonato e stanco però dico e ripeto: la politica è troppo bella?».

Repubblica 6.12.08
Pd, l'allarme di 54 deputati "Lontani dal paese reale"
di Concetto Vecchio


ROMA - «Un grande progetto di unità e innovazione rischia di smarrirsi dentro logiche di rendita e logoramento. Prima di tutto al vertice, talvolta insofferente verso un confronto di merito sulle scelte che si compiono». È il passaggio cruciale del documento dei 54, battezzato "Per ripartire". Cinquantaquattro deputati del Pd, di osservanze le più diverse, denunciano «lo scarto esistente tra il paese reale e la vita democratica del Pd». La spia di un malessere profondo, che ha raggiunto anche le fila parlamentari. L´eterno dualismo Veltroni-D´Alema. Le polemiche sulle correnti. Ma soprattutto l´esplodere della questione morale a Napoli e Firenze, sintetizzata dalla copertina dell´Espresso "Compagni spa". «Di fronte a questa situazione ognuno deve rimboccarsi le maniche. Non basta più dire che siamo nati solo da un anno, che si sono fatte molte cose buone. Noi dobbiamo affrontare i risolvere e per farlo non è sufficiente ripetere che le correnti sono il male combattere», come ha detto Walter Veltroni a Repubblica giovedì scorso. Gli ispiratori del documento sono Paolo Corsini, Gianni Cuperlo, Barbara Pollastrini, Sandro Gozi, Walter Tocci. Tra i firmatari figurano Paola Concia, Antonio Boccuzzi, Furio Colombo. Un appello trasversale.
«Non è in discussione la segreteria, ma serve un pluralismo di segno nuovo che risvegli l´entusiasmo degli inizi», ha precisato la Pollastrini, scendendo le scale dell´Hotel Capranica dove ieri s´è tenuto l´undicesimo convegno di Red, l´associazione di D´Alema. Il tema era la salute nel trentennale della legge sull´aborto, culminato in un dibattito con D´Alema, Andreotti e Pisanu. Il presidente Paolo De Castro ha annunciato che l´obiettivo dei 7-8mila iscritti è vicino (la tessera costa 100 euro), ripetendo, prima di dare avvio ai lavori, «siamo un laboratorio, lavoriamo per dare un contributo al Pd, diventa difficile capire da cosa derivi l´ostilità che alcuni non esitano a manifestarci». L´attivismo di Red ? prossimo incontro il 18 dicembre a Bologna, sull´economia, con Luigi Spaventa ? è visto con diffidenza dalle altre anime del partito ed è oggetto di una vasta letteratura complottarda. «Rischiate di perdervi il meglio stando qua», ha detto D´Alema ai cronisti che lo tallonavano nell´anticamera della sala, riferendosi a quel che accadeva nell´aula, dove Marianna Madia, Maria Pia Garavaglia, Lidia Menapace, Emma Bonino, Margherita Boniver, Beatrice Lorenzin e Marisa Rodano discutevano di donne in politica. Moderatrice Lilli Gruber. In platea la Binetti. «Una gestione collegiale rafforzerà Veltroni» ha detto Rosy Bindi dopo il suo intervento. «Uffa, con sta storia della corrente», è sbottato De Castro, menzionando la partecipazione tra il pubblico della prodiana Sandra Zampa e dei mariniani Oliviero Nicodemo e Luigi Meduri. «La politica ha perso la sua dimensione culturale, e siamo qua per restituirgliela», ha precisato Guido Calvi. «A Napoli e Firenze bisogna prima fare i processi. Quelli di Tangentopoli li abbiamo tutti vinti». Livia Turco: «Ma ha visto chi c´era?. Le sembra una riunione di corrente? Era un incontro che può fornire un contributo al Pd. Io sono sempre stata una donna di partito, ma dopo tanti anni di politica non vorrei dover sottostare a degli esami».

l’Unità 6.12.08
Roma. Picasso nelle mani dei bambini


Chi meglio di Picasso e della sua opera può ispirare e stimolare i bambini ad esprimere liberamente il loro senso artistico attraverso disegni e manufatti artistici? L’eclettismo delle sue tecniche offre al pubblico dei più piccoli un vasto repertorio di opere originali che spaziano dalla pittura, alla scultura, dalla ceramica, fino alla scenografia teatrale.
Eclettismo anche nelle continue variazioni di stile dei suoi diversi periodi espressivi. I laboratori di manipolazione e di sperimentazione organizzati dalla Cooperativa Gioco del Lotto-Lottomatica in occasione della mostra “Picasso 1917/35.
PER SCOPRIRLO
«L’Arlecchino dell’arte» dedicata all’artista al Museo Vittoriano, sono un ottima occasione per conoscere l’artista e dare libera espressione alla fantasia di ognuno sulle tracce del grande maestro. Un divertente viaggio nel mondo del pittore spagnolo, attraverso giochi di gruppo, tattili e d’osservazione delle opere in mostra. Tutte le domeniche da domani al 28 dicembre i bambini più grandi, dai 7 ai 10 anni, potranno prendere parte dalle ore 10.00 alle ore 11.00 al laboratorio «Buffi materiali per l’arte..» come fare un bel quadro con materiali stravaganti e Osservare con gli occhi bendati, un laboratorio di riconoscimento del quadro misterioso.
PER I PIÙ PICCOLI
Dalle ore 11.30 alle 12.30 sarà la volta dei laboratori dedicati ai più piccoli, dai 4 ai 6 anni: l’Arlecchino arrotolato, un gioco di gruppo per travestire un bambino vero in Arlecchino e la Storia impazzita, un gioco di parole sul testo di una storia tratta dalla biografia dell’artista.
Ingresso libero anche ai genitori che potranno visitare gratuitamente la mostra.
Prenotazione obbligatoria fino ad esaurimento posti. Complesso del Vittoriano, Via San Pietro in Carcere
Prenotazione 06/51899537
www.exibart.com

Corriere della Sera 6.12.08
Maestri Le passioni, il nodo dello stile, il rapporto con la follia: Andrea Zanzotto si racconta
La poesia ha sempre una funzione civile (anche se è nascosta)
Una video-intervista allo scrittore proiettata oggi nell'ambito delle celebrazioni per Mario Tobino


Questi brani del poeta Andrea Zanzotto sono tratti da una video-intervista intitolata «Ferita e farmaco» curata da Laura Barile e Francesco Carbognin. L'incontro è stato realizzato il 9 ottobre a Pieve di Soligo, il paese di Zanzotto, e sarà proiettato oggi durante la seconda giornata del convegno «Il turbamento e la scrittura» (Palazzo Ducale, Lucca). Il convegno, a cura di Giulio Ferroni, inaugura le celebrazioni del centenario della nascita di Mario Tobino, lo scrittore toscano morto nel 1991. Tra gli studiosi, gli scrittori e i poeti che interverranno: Antonella Anedda, Alfonso Berardinelli, Eugenio Borgna, Marosia Castaldi, Milo De Angelis, Salvatore Ferlita, Raffaele Manica, Guido Paduano, Domenica Perrone.
Il convegno è organizzato dalla Fondazione Tobino, nata nel 2006 e presieduta da Andrea Tagliasacchi. Sempre a Palazzo Ducale di Lucca, resterà aperta fino al 14 dicembre una mostra dal titolo Il turbamento curato, in cui vengono esposti strumenti medici e oggetti scientifici dell'Ospedale Psichiatrico di Maggiano, il più antico manicomio italiano, diretto dallo scrittore- psichiatra Tobino per tanti anni.

ANDREA ZANZOTTO:
Direi che, per me, anche per le vicissitudini scombinate della mia vita, l'idea del manque, della richiesta senza risposta, è stata fin dai primi anni presente. Perché nella mia primissima giovinezza soffrivo di disturbi pesanti: si trattava di semplici allergie, però molto gravi. Questo fatto era da me interpretato in questi termini: «Magari ho la tubercolosi... » — visto che in quei tempi ce l'avevano in molti. E con questa idea sottintesa, mi sentivo... staccato dalla realtà, come uno che «durerà poco ». Questo profondo senso di incertezza e di manque ha rappresentato fin dall'inizio, per me, una presenza sempre incombente. Con l'andare del tempo è andato attenuandosi, ma quell'esperienza rimaneva (...). In certi momenti poteva manifestarsi come depressione; in altri, come uno stato ansioso. In altri ancora assumeva la forma di una ricerca febbrile (...). Era disponibile, per via di questa alternanza psichica, una tastiera di atteggiamenti mentali che mi portava a collocarmi, nello scrivere, in varie posizioni. E lo stile appariva sempre come un fatto necessario: un fatto necessario nel senso che nessuna cosa poteva aver valore, anche minimo, se non giungeva a condensarsi in un certo stile. Io non ricercavo lo stile; ma sentivo che, quando pensavo o scrivevo, lo stile si formava da sé (...). La cosa più importante era trovare delle ragioni anche a questo mio stato, che era semivuoto: si trattava, in un certo senso, di voler vivacizzare la buccia, cioè l'esterno, dell'esistenza, dato che la polpa interna non c'era
Poesia civile
Io credo che ci sia sempre una funzione civile nella poesia, anche se non manifesta, ma sottintesa, direi collegata a quello che è l'inconscio collettivo (...). Dopo la bomba atomica, parlando di una rosa non si può più parlare di una rosa soltanto, ma verrà fuori qualche cosa di diverso, che porta in sé la traccia di quest'altro mostruoso fatto del moltiplicarsi delle armi. Si può dire che non è mai finita la seconda guerra mondiale, perché hanno continuato a fabbricare bombe.
Psicoanalisi e psicanalisi
Gli studiosi si guardano «in cagnesco » tra quelli che dicono psicanalisi e quelli che dicono psicoanalisi (i «-coanalisi» sono i «tedeschi», quelli che vengono direttamente da Freud, mentre psychanalyse è una deformazione che si è diffusa con Lacan, forse anche prima. La Psychanalyse era infatti la rivista di Lacan). E qui mi viene davanti agli occhi il carissimo ricordo di Ottiero Ottieri... Era un piacere parlare con lui, perché purtroppo era approfondito in tutti i tipi di esperienza più o meno psicoanalitica. E se si pensa a un libro come l'Irrealtà
quotidiana (Guanda), che io ritengo uno dei capolavori del secondo Novecento, si può dire che Ottieri sia riuscito a condensare, con un'acutezza unica e anche con una sofferenza autentica, il succo di verità di tutte le sue esperienze, per quanto diverse.
La poesia-follia
La figura di Hölderlin, il nodo poesia- follia, mi ha sempre più che turbato, messo di fronte a un mistero che doveva essere perpetuamente indagato (...). Questo senso della stranezza poteva comportare, nella deriva della tristezza, periodi per me tali da essere costretto a assumere farmaci. Oppure, al contrario, periodi di allegria — e, per allegria, si intende la frequentazione dei vari personaggi che popolavano la campagna di allora. A partire da Nino, «poeta contadino», come stava scritto nel suo biglietto da visita: «Nino, poeta contadino, gastronomo, astronomo...». Nino (che è un personaggio della raccolta La beltà pubblicata da Zanzotto nel 1968, ndr) faceva giochi di parole dei vari titoli di professionalità che vantava... Posso dire che anche la strampaleria di Nino, che era però molto saggia, di quella vecchia saggezza contadina mi aiutava. Stando con lui, e con la compagnia, si creava un clima in cui non ci si limitava alle barzellette, ma da queste si ricavavano veri e propri giochi di parole. Esempio. Nino, vecchio, novantaseienne (poco dopo è morto), il 23 maggio festeggia il compleanno, il genetliaco di Duca di Dolle. Invita a pranzo gli amici, e poi scioglie un panegirico: «Basta con le guerre, basta... » — proprio lui che era stato miles gloriosus, autorizzato a fregiarsi della campagna d'Italia di Napoleone del 1803 — «Basta con le guerre, basta ricchi, basta poveri, tutti devono stare bene perché il mondo è bello». Si alza uno della compagnia, molto serio: «Fermi tutti! In questo momento sta nascendo il marxismo-ninismo». Queste divagazioni, anche adesso, ricordandole, mi tonificano...
Banche come dinosauri
Oggi tutto sta cambiando con un'enorme velocità. Ancora non sono state dette, «sparate» chiaramente, le vere ragioni, che sono la cupidigia cretina degli uomini di aver soldi in quantità illimitata, come se in natura esistessero piante che crescono all'infinito. Oggi siamo in una fase in cui tutto è simbolico. Come, per esempio, nell'economia: che cosa è il Pil? Il Pil rappresenta, come «guadagno », tanto chi costruisce quanto chi demolisce. Far su una casa, poi distruggerla perché non la si vende, fa aumentare comunque il Pil. Ci si basa su dati fantastici, di una fantasia folle, che però in un certo momento diviene più rapinosa che la realtà stessa. Resto meravigliato, in questi giorni, quando vedo una qualche bancona che fallisce... Perché le banche, tra loro, tendono a mangiarsi, a divorarsi. Sono arretrate all'età dei dinosauri, i quali si cibavano tra loro...
La follia dei Sommi Capi
Io non mi rendo nemmeno più conto di che cosa sia oggi la psichiatria. Ritengo che oggi la psichiatria dovrebbe assistere i Sommi Capi di questo mondo. Quelli, dovrebbero essere messi in sorveglianza speciale (...). Comunque, di quanto sta accadendo oggi nel mondo io ancora non capisco niente. Salvo di quello che ha detto il Papa: che il denaro è un'astrazione. Un'astrazione pericolosissima...
E poi, si renda il culto dovuto alla divinità vera, quella che mobilita milioni di persone in tutto il mondo: il Calcio. Dovrebbe essere collocato un immenso pallone nel cielo per ricordarci che il vero dio è quello...

C'è una cupidigia cretina per soldi illimitati: come se le piante potessero crescere all'infinito

il Riformista 6.12.08
L'Isola ha rovinato Luxuria
di Peppino Caldarola


Vladimir Luxuria dopo aver vinto l'Isola dei Famosi è stata la star di Annozero, la trasmissione di Michele Santoro. Mentre Belen, ospite anch'essa, si addormentava durante il dibattito nel suo splendore latino, Vladimir, Vlady la chiamava Piero Sansonetti, ha tenuto banco per tre ore. È veramente antipatica! Lo dico a malincuore perché la signora ha senso dell'umorismo, ma è totalmente priva di senso della misura e ha un ego ipertrofico disumano. Ha esordito insolentendo Norma Rangeri che sul "Manifesto" aveva censurato il pettegolio bigotto con cui Luxuria aveva rivelato i bacini honduregni tra Belen e Rossano Rubicondi. Ha maltrattato un perfettino giovane gay perché di destra, contrario ai travestimenti e amico della Carfagna. Ha respinto l'amicizia del Piotta quel cantante romano esagerato che cercava di conquistarle il cuore. Ha zittito il compagno di Rifondazione, corrente Ferrero, che dall'Emilia dissentiva dalla sua performance. Ha ignorato le intelligenti osservazioni di Fabrizio Rondolino. Gli interventi di Vladimir erano incentrati su un «io-io-io» ostentato come nelle peggiori comparsate tv di Brunetta. Vladimir è una persona di buone letture e avrebbe tante ragioni per darsi delle arie, ovvero per mostrare di essere superiore alla media dei prodotti televisivi, ma tutta questa arroganza per aver fatto qualche digiuno volontario in Honduras mi sembra esagerata. Anche il vittimismo per la vita parlamentare è eccessivo. Insomma Vladi, è sempre meglio che lavorare!

Bollettino Università e Ricerca 5.12.08
Follia e società. Franco Basaglia e la filosofia del '900


10 dicembre 2008, ore 9.00-17.00 Aula Crociera Alta Università degli Studi di Milano Via Festa del Perdono 7. Cosa c’entra uno psichiatra con una legge? E cosa unisce quella legge ai più grandi filosofi del novecento? I manicomi non esistono più da trent’anni. Il matto è tornato a casa, con il suo fardello di sofferenza e un destino di estraneità. Alieno nella propria terra, a disagio con i propri familiari.
Quanto sappiamo della malattia mentale? Come la si cura? Chi e in che modo cerca di combattere lo stigma? Il disagio psichico è un problema che, con gradazioni e intensità diverse, riguarda tutti. La città di Milano si da’ appuntamento a dicembre per discuterne con i più importanti esperti, per coinvolgere e sensibilizzare.
Poco o niente sappiamo della malattia mentale e poco o niente soprattutto sappiamo del malato, di come vive, delle difficoltà enormi che incontra, ma anche delle realtà di aiuto che pure esistono.
C’è un tempo per le riforme e uno per dare nuova forma alle riforme, ripensarle, comprenderle, farle comprendere.
Dicembre è l’ultimo mese per ricordare la legge 180, che compie trent’anni quest’anno. Con la chiusura dei manicomi il malato è tornato nelle nostre case, è stato compiuto un passo decisivo contro lo stigma, ma molte questioni sono rimaste in sospeso. Un’occasione importante di aggiornamento per gli operatori, gli utenti, i familiari, e di coinvolgimento e informazione per tutti gli individui e i gruppi interessati.

Repubblica 6.12.80
La solitudine dei malati mentali
risponde Corrado Augias


caro Augias, ho letto la rubrica “vivo l’inferno della malattia mentale”. sono una psicologa che lavora al 1980 in una asl a Roma. Mi dispiace capire che lei non è abbastanza informato della risposta che viene data dalla assistenza psichiatrica pubblica da lei definita “rudimentale”. del resto è raro leggere sui giornali qualcosa di approfondito che esca dai luoghi comuni o da fatti di cronaca. La psichiatria nel pubblico non è “rudimentale”vma molto “povera”. Io e i miei colleghi temiamo che con il nostro pensionamento i servizi territoriali chiuderanno. Il personale anche se preparato è scarsissimo e in via di estinzione. Informandosi meglio scoprirebbe che l’assistenza psichiatrica è tuttaltro che rudimentale e i professionisti che vi operano hanno strumenti e professionalità tali da rispondere al disagio descritto dalla lettrice.
Da molti anni le famiglie dei malati mentali non sono “costrette” al silenzio, anzi hanno molto più di prima possibilità nei servizi di esprimersi, per esempio nei Gruppi Multifamiliari esistenti in molte realtà territoriali: al silenzio è costretto solo chi non è informato o si isola come unica forma di difesa dal proprio dolore
Dolores Carli

Avevo scritto «I manicomi, luoghi di reclusione spesso violenti, vennero aboliti, ma l’assistenza sichiatrica è rimasta rudimentale». Non intendevo offendere gli operatori ma riferirmi solo alle condizioni in cui lavorano, che la dottoressa Carli conferma. Del resto questa lettera ne ha provocate molte altre, segno che il disagio c’è. Scrive Susanna Grigioni: «D’accordo che i manicomi erano un orrore, ma scaricare sulle famiglie il problema della malattia mentale (sottolineo malattia) non è orrore minore. Purtroppo le medicine sono necessarie ad evitare sia la sofferenza del malato sia la schiacciante sesazione di impotenza di chi gli è vicino. Le belle chiacchiere (con mia madre ammalata ho sperimentato negli anni varie situazioni e vari medici) l’aria fritta aiuta solo certi malati a suicidarsi, magari uccidendo anche i propri familiari». Scrive Claudio Alvgini: «Lei ha citato Basaglia, esponente di spicco della “nefasta” (definizione non mia ma di Jervis) corrente che prese il nome di “Antipsichiatria”. Basaglia disse tra l’altro: “in noi la follia esiste ed è presente come la ragione”. Affermazione terribile e falsa. Terribile perché la tragedia della psichiatria italiana (e non solo), incapace o impossibilitata a fare ricerca, nasce su affermazioni come questa. Falsa perché nell’uomo non convivono malattia e sanità: la malattia mentale (né più né meno di quelle fisiche) insorge per cause esterne e la sanità è recuperata solo eliminandola. I manicomi andavano chiusi, non andava chiusa la ricerca delle cause profonde che generano malattia mentale. Si può, però, anzi si deve non lasciar soli i malati e i loro disperati parenti». Era e rimane questo il punto: la solitudine dei malati e dei loro disperati parenti.

Qui di seguito la precedente risposta di Augias sullo stesso tema:
(clicca sull'immagine per renderla leggibile)




















COMUNICATO STAMPA CGIL
Iniziativa unitaria del 10 dicembre 2009 - Roma Piazza del Popolo

No alla chiusura dei Teatri e alla smobilitazione in Italia della produzione di Opera Lirica e Balletto

Il taglio previsto di oltre il 30 per cento delle risorse significa mettere in liquidazione il Settore ed evidenzia una chiara volontà di totale disinteresse per il nostro Patrimonio Culturale e lo Spettacolo concepiti come spesa e non come investimento e importante volano economico.
Quale azienda pubblica o privata che programma preventivamente può sopravvivere con un improvviso taglio di un terzo delle risorse previste?
Il nostro Paese si distingue in negativo poiché destina solo lo 0,16% del PIL alla Produzione Culturale e allo Spettacolo rispetto ad una media degli altri paesi intorno al 1,4% (Francia Germania ecc.), parimenti le retribuzioni delle masse artistiche sono inferiori alla media europea.
Basta con la diffusione di false informazioni e dati sbagliati o spot allarmistici di Ministri e dei relativi Dicasteri costruiti artificiosamente per legittimare provvedimenti destabilizzanti e non realmente efficaci.
I dati relativi alle Fondazioni Lirico Sinfoniche diffusi anche dal Mibac e ripresi con titoli scandalistici dai più autorevoli quotidiani nazionali non corrispondono assolutamente alla realtà; non sono veritieri né i dati sull’indice di produttività né sul costo del lavoro né sull’indebitamento delle Fondazioni Lirico Sinfoniche.

Quale nazione civile permette al Capo di Gabinetto del Ministero, nonché Direttore Generale dello Spettacolo dal vivo, di essere contemporaneamente Commissario in diversi teatri italiani, nei fatti controllore di se stesso?
E’ evidente che si vogliono trasformare i prestigiosi Teatri italiani da centri nazionali di produzioni culturale in vuoti contenitori di pura circuitazione finalizzata all’arricchimento di agenzie e impresari o ad altre attività di puro business.

Occorre come da molto tempo da noi sostenuto identificare titolarità e o prerogative con l’assunzione di responsabilità con la rispondenza in solido dei Sovrintendenti e degli Amministratori. (Si deve intervenire verso chi presenta bilanci di esercizio che non rispettano i bilanci previsionali approvati)

Il 10 Dicembre a Roma si terrà la manifestazione Nazionale con la presenza di tutte le Orchestre i Cori e i Corpi di Ballo dei Tecnici e delle Maestranze di tutte le 14 Fondazioni Lirico Sinfoniche per il reintegro del Fondo Unico dello Spettacolo alla quota precedentemente prevista
La manifestazione con esibizione pubblica si terrà a Piazza del Popolo dalle ore 14.30 alle ore 17.00 (il programma sarà comunicato nei prossimi giorni).

L’attacco portato alla produzione culturale e allo spettacolo, all’istruzione e alla ricerca equivale a distruggere il sapere critico.

Roma, 3 dicembre ’08