martedì 9 dicembre 2008

l’Unità 9.12.08
Intervista a Gugliemo Epifani
«Il 12 in sciopero per cambiare le scelte del governo»
di Laura Matteucci


Il leader della Cgil: «Manifestiamo perché quello dell’esecutivo non è
un piano anti-crisi. Manca un progetto per uscire dalle difficoltà, non si
sostengono i ceti produttivi, non si riformano gli ammortizzatori sociali»

Il governo brilla per assenza di ragionamento. Manca un’idea, un’analisi, un progetto alto in grado di farci uscire da una crisi inedita, la prima del mondo globalizzato, che colpisce tutti e colpisce duro. Quello del governo non è un piano, restano fuori le scelte a sostegno dei ceti produttivi, non c’è una riforma degli ammortizzatori sociali. Quello che ha fatto è solo un’operazione di garanzia per le banche. Così non può funzionare. Anche perchè il punto non è se usciremo dalla crisi, ma quando e come». È la settimana dello sciopero per la Cgil: venerdì 12, milioni di lavoratori resteranno a casa. Niente paga per quel giorno, mica facile per i tempi che viviamo. Sciopero generale, sciopero separato: Cisl e Uil non ci saranno, l’unità sindacale corre il rischio di restare un irrealizzabile desiderata molto a lungo. E il segretario generale della Cgil Guglielmo Epifani, che l’unità l’ha sempre fortemente voluta, adesso dice: «Non sono ottimista su questo, il governo è forte e ha molti poteri di persuasione, nei confronti del sindacato come anche delle imprese». Il governo è forte, l’opposizione (leggi Pd) troppo debole. «Tanto più di fronte a una crisi di questa portata, ha bisogno di ritrovare identità e autorevolezza, altrimenti invece che dare risposte diventa a sua volta uno dei fattori di crisi. Una democrazia non può funzionare così». Realista come sempre, ma niente affatto rassegnato.
Lo sciopero si farà. Che risposta si aspetta dai lavoratori?
«Si farà, e sarà una prova molto impegnativa. Ci stiamo preparando con migliaia di assemblee in tutti i luoghi di lavoro, abbiamo il polso della situazione. C’è una condivisione forte delle nostre proposte, del giudizio critico nei confronti del governo, dell’esigenza di contrastare la crisi con interventi più forti di quelli messi in campo. E questo è un primo dato confortante. Poi, registriamo una grandissima preoccupazione, logica ma davvero molto pesante. Del resto, questa è una crisi che colpisce tutti, da chi entra in cassa integrazione e rischia il posto di lavoro, al giovane precario cui non verrà rinnovato l’incarico, all’anziano che sul serio non riesce a tirare la fine del mese».
Servirà a ottenere qualcosa? C’è qualche vaga possibilità che il governo cambi marcia?
«Domanda fondata, stante che il governo ha una grandissima maggioranza nel paese. La risposta che diamo è che se non facessimo nulla, se la più grande forza sindacale rimanesse inerte, e in sostanza facesse come la Cisl e la Uil, il segno che daremmo sarebbe che non c’è dissenso con le scelte del governo. Mentre per noi sono profondamente insufficienti. Io penso ci siano dei margini per far cambiare idea al governo, sia sulla gravità della crisi, finora sottovalutata, sia sulle risposte da fornire, finora inadeguate».
Il governo italiano non ha un’idea forte. E gli altri governi d’Europa?
«Tutti seguono un indirizzo preciso, tranne noi. E tranne la Germania, anche, che comunque ha una sua forza economica che resta molto maggiore rispetto alla nostra. Perchè ricordiamoci che l’Italia nel 2008 farà peggio di quasi tutti i paesi d’Europa. C’è chi fa scelte forti a favore dei consumi, come la Gran Bretagna, chi ha deciso di sostenere gli investimenti, come intende fare Sarkozy soprattutto per auto, edilizia e scuola. C’è chi pensa a entrambe le cose: Zapatero in Spagna e, ovviamente su diverse dimensioni, Obama negli Stati Uniti».
E c’è chi dice “consumate, gente, consumate”, come Berlusconi. Che senso ha far credere che la gravità della crisi sia nelle mani dei cittadini?
«È un segno di impotenza e di rassegnazione da parte di un governo che vuole apparire decisionista e che invece di decisioni forti non ne sa prendere. Uno scarico di responsabilità. Ormai tutti gli economisti convergono su alcuni punti: per esempio, il fatto che ci vuole un grande intervento sugli ammortizzatori sociali. Anche Francesco Giavazzi l’ha scritto sul Corriere (ieri in un editoriale dal titolo programmatico “Trovare il coraggio”, ndr). Intendiamoci: è vero che i cittadini devono avere un ruolo attivo, così com’è vero che i consumi sono un elemento importante dell’economia. Ma i problemi più gravi sono quelli del manifatturiero e dei servizi, e invece di questi si tace. Anche la logica del bonus, delle una tantum, non serve. Per essere davvero efficaci, per ridare fiato a una domanda asfittica, gli interventi devono avere un certo tasso di strutturalità, cioè di permanenza nel tempo. Invece, nella logica delle una tantum c’è solo l’idea di prendere quello che si può, qui e subito, senza poter scommettere sul futuro. E senza futuro non si fa nulla: è chiaro che una parte del paese di soldi non ne ha proprio, ma un’altra è spinta a tenerseli stretti perchè naviga nell’incertezza. I segnali psicologici positivi non si danno con le parole ma con i fatti. Dalla crisi usciremo di sicuro, il punto è quando e come, con quali margini di povertà, di disperazione anche, con quali assetti produttivi e quali reti pubbliche, visto che l’unica cosa che è stata fatta sono i tagli a sanità, enti pubblici, scuola. Qual è il progetto sociale? A recessione terminata, rischiamo di avere molti più poveri, in un paese attraversato da più divisioni, più conflitti, più xenofobia. Anche questa è una ragione importante dello sciopero».
Il governo sta cercando 3 miliardi in più, il fondo per gli ammortizzatori sociali verrà rafforzato.
«Per forza: lo scheletro delle misure è debole, quindi è costretto a correggere continuamente il tiro, in modo occasionale. Tremonti ha sbagliato la Finanziaria e non lo vuole ammettere. Diceva che non l’avrebbe toccata, e invece è già accaduto tre volte. C’è una somma di contraddizioni che il governo si è portato dietro e che determinano la situazione attuale, dai tagli alla spesa all’eliminazione totale dell’Ici, promessa in campagna elettorale. È mancato il coraggio di correggersi».
E adesso sta arrivando una valanga di cassa integrazione.
«Da gennaio sarà anche peggio. Per la prima volta in 10 anni riguarderà tutta la meccanica, non solo l’auto e la Fiat, ma la siderurgia, la robotica, ovvero il nerbo dell’industria italiana che ha assoluto bisogno di aiuti in grado di sostenere gli investimenti. Tutto il 2009 sarà segnato dalla crisi, i tempi dipenderanno molto dall’efficacia delle risposte».
Il sindacato è diviso, di conseguenza più debole. Pezzotta, ex leader Cisl, ieri sul nostro giornale spingeva per l’unità tra le confederazioni. Bonanni dà segnali contraddittori. Lei ci crede ancora?
«Noi continueremo a ricercarla. Dovremmo essere in grado di concentrarci, insieme, sulla crisi. Ma vedo una forte volontà da parte del governo di dividere, e di certo ha molti poteri di persuasione. Chiaro, non dovrebbero prefigurarsi accordi separati sulla riforma del modello contrattuale...Ma io sono realista. E non so se questo sarà possibile».
Lei ha esortato anche il Pd ad avere più coraggio rispetto alla crisi, in relazione allo sciopero ma non solo.
«Dovrebbe avere più coraggio, e stare più vicino alle persone. Andare in giro a vedere come stanno davvero, farsi un’idea di quale sia la situazione del paese. Il Pd non può restare fermo, altrimenti implode, dev’essere in grado non solo di avere un progetto ma anche di attuarlo. È chiaro che, per farlo, deve avere un profilo identitario molto netto. Non avere un’opposizione forte è un problema per tutti, per la democrazia stessa. Deve recuperare autorevolezza».
L’autorevolezza rischia di sbriciolarsi di fronte alla cosiddetta questione morale. Che idea s’è fatto di quanto sta accadendo in questi giorni?
«Credo nell’onestà della stragrande maggioranza degli amministratori. Se c’è qualche mela marcia, va isolata. Ma il problema è che il Pd ha una struttura debole, sia al centro sia in periferia. Sconta anche un po’ di approssimazione nel processo con cui è stato costruito. A questo punto, oltretutto di fronte a una situazione così grave, le uniche cose da fare sono rafforzarlo e consentire a Veltroni di continuare il suo lavoro».
Opposizione fragile, sindacato diviso: la Cgil si sente isolata?
«La Cgil ha un sovrappiù di responsabilità. La crisi politica ha effetti anche sul sistema della rappresentanza sociale. C’è il bisogno urgente che le persone che non condividono le scelte del governo trovino un progetto di cambiamento sul terreno politico. In un clima in cui si perde la speranza, il bisogno diventa più forte. È per questo - la questione dell’autonomia è ampiamente superata - che non possiamo essere indifferenti a quanto avviene in politica».

Corriere della Sera 9.12.08
Passoni: il partito non perda quest'occasione visibile di dissenso. Sì da Fassino, Bersani e Finocchiaro
Il Pd nell'angolo tentato dalla carta Cgil
Ex ds in piazza con Epifani per lo sciopero di venerdì. Ma gli ex dl disertano
di Enrico Marro


Tra gli ex Margherita manifesta solo la Bindi.
Cofferati sì, Chiamparino no. E il leader cgil spera di convincere D'Alema

ROMA — Una piazza, l'unica piazza offerta a una sinistra frastornata dalla questione morale. Anzi, 100 piazze. Sono quelle che la Cgil occuperà venerdì con altrettante manifestazioni provinciali per lo sciopero generale contro il governo. «È l'unica iniziativa visibile di dissenso», osserva Achille Passoni, ora senatore del Pd, l'uomo che nel 2002, come segretario organizzativo della Cgil, fu protagonista della grande mobilitazione solitaria di allora. Oltretutto, aggiunge, «il partito farebbe bene a concentrarsi su queste tematiche mentre, purtroppo, mi pare che stia discutendo d'altro ». Ma l'occasione che pure si offre al Pd di dirottare l'attenzione sull'emergenza economica non pare in grado di far superare al partito la divisione che ormai si è creata tra la componente che viene dai Ds, schierata con la Cgil, e gli ex margheritini, che stanno con la Cisl di Raffaele Bonanni, contraria allo sciopero.
«Io non sarò in piazza — dice l'ex ministro del Lavoro Tiziano Treu — perché penso che, anche se i provvedimenti del governo sono insufficienti, uno sciopero isolato non sia utile». Tra i manifestanti non ci saranno neppure Enrico Letta, Beppe Fioroni, Franco Marini e un altro ex Cisl come Pier Paolo Baretta, solo per fare alcuni nomi. In piazza, invece, hanno detto che andranno Pier Luigi Bersani,Piero Fassino, Cesare Damiano, Anna Finocchiaro e Rosi Bindi (eccezione rispetto alla componente margheritina), oltre agli ex Cgil come lo stesso Passoni e Paolo Nerozzi. In questa situazione, Walter Veltroni, segretario del Pd, non potrà che «astenersi ». Del resto, spiegano al quartier generale dei democratici, «il partito in quanto tale non aderisce a manifestazioni del sindacato ». Ciò non toglie, aggiungono, che i singoli esponenti possano partecipare a titolo personale.
Una prova difficile anche per la Cgil, quella di venerdì, perché il sindacato rosso ha deciso di affrontarla senza la Cisl e la Uil. Per Epifani è la seconda volta: era alla guida della confederazione da meno di un mese quando, il 18 ottobre 2002, la Cgil andò allo sciopero generale da sola. C'era sempre il governo Berlusconi e si trattava di difendere l'articolo 18. Anche allora ci furono un centinaio di manifestazioni, la più importante a Torino, dove in piazza c'era il segretario dei Ds, Piero Fassino. Questa volta, invece, Epifani terrà il comizio a Bologna. Ma appunto Veltroni non ci sarà. Scontata invece la presenza del sindaco Sergio Cofferati, che guidò la Cgil fino al settembre 2002. A Torino, al contrario, non ci sarà il sindaco Sergio Chiamparino, ma per una questione di forma, spiega: «Anche se trovo condivisibili i temi sollevati dalla Cgil, non partecipo a manifestazioni, anche quando sono unitarie, se non su tematiche riguardanti la città». Tra i big della segreteria Cgil, Susanna Camusso parlerà a Mestre, Fulvio Fammoni a Bari, Morena Piccinini a Milano, Nicoletta Rocchi a Genova.
Ci sono ancora alcuni nodi importanti da sciogliere. Come quello di Massimo D'Alema. Epifani vedrà l'ex leader dei Ds mercoledì a Napoli in occasione di un convegno e non dispera di avere D'Alema in piazza, come nel 2002. Restando a Napoli, dove parlerà il segretario della Fiom Gianni Rinaldini, c'è l'incognita Antonio Bassolino. Nessuno, fino a qualche settimana fa, avrebbe messo in dubbio la partecipazione del presidente della Regione alla manifestazione della Cgil, ma ora, con la tempesta giudiziaria in corso, perfino il segretario della Cgil campana, Michele Gravano, non si sbilancia: «Non mi ha ancora detto niente. Ma aspettiamo qualche giorno, di solito gli scioperi montano nell'ultima settimana ». Solo che in un Pd scosso dalla questione morale, se c'è chi spera che la mobilitazione per lo sciopero della Cgil monti e diventi un'occasione di rivincita, altri temono che si trasformi in un ulteriore fattore di divisione. Chi non ha invece dubbi è Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione comunista. Lui di manifestazioni cercherà di farsene due, a Roma: «Sicuramente quella della Cgil, ma se ci riesco anche quella dei sindacati di base».

l’Unità 9.12.08
Intervista a Theo Angelopoulos
«I manganelli non servono. Nel Paese c’è vero disagio»
di Malcom Pagani


Il tema nascosto di tutto il suo cinema, l’enfasi di un potere inadeguato a relazionarsi col circostante, deflagra in immagini disperanti. Oltre i fumi delle barricate, i 73 anni di Theo Angelopoulos appaiono una convenzione. La voce toccata, l’attenzione desta. «Sono molto preoccupato, triste, spaventato, deluso. Passano i decenni, non impariamo nulla». A Monaco di Baviera per lavoro, il maestro greco già palma d’oro a Cannes nel ‘98, segue senza sospensioni il passo degli eventi. «La responsabilità di ciò che sta accadendo è interamente del governo greco e del Premier Karamanlis. Impressiona l’universalità della risposta, sempre la stessa, dai tempi dei colonnelli. Davanti a un disagio reale, ecco entrare in scena manganelli e lacrimogeni. Una grande nazione, quando possiede anticorpi che derivano dalla sua stessa storia, utilizza altri sistemi».
La protesta sta travalicando i confini.
«Non poteva essere altrimenti. A Berlino hanno occupato il consolato, osservo in tv fotogrammi spaventosi. La faccia di quel ragazzino a terra, Grigoropulos, i suoi quindici anni buttati via, i sogni sul selciato, la violenza che non sa ascoltare altra ragione che la propria. Elementi che getterebbero nella preoccupazione chiunque, non soltanto chi ha lottato per la democrazia».
Gli scontri sono ripresi anche a Salonicco, set di tanti suoi film.
«Mi hanno chiamato anche da lì, la rivolta non finirà in poche ore, questo è certo. Ma l’aggressività giovanile va letta in controluce. È la spia di una collera che trova radici nella situazione economica della Grecia, nella sua classe politica squalificata, nella cristallizzazione dell’esistente. Per recedere da quest’immobilità, invece degli idranti, bisognerebbe mettere in campo una proposta, una concreta volontà di cambiamento, un segnale di discontinuità».
Come spesso accade, i primi fuochi si sono accesi tra i banchi di scuola.
«L’università e l’educazione sono le radici su cui edificare il sentire comune. Pensare di derubricarli a questioni secondarie, denuncia la miopia e l’arroganza di chi è abituato a trattare ambiti così importanti con consumato disprezzo».
C’è, in queste ore difficili, un dato che la inquieta più di altri?
«L’incapacità di capire la gioventù. Dovrebbe essere la discussione prìncipe su cui pianificare il futuro, la problematica che soppianta la vacuità del quotidiano e l’inseguirsi scontato di notizie inutili. Invece nulla, solo parole vuote e imbarazzato silenzio. Una sconfitta totale, l’ennesima cui assisto nella mia vita».

Corriere della Sera 9.12.08
Vassilis Vassilikos: «E' la rabbia di un Paese intero»
Lo scrittore Vassilikos: «Un test per il governo e per la sinistra»
di Antonio Ferrari


ATENE — È stato un assassinio, Vassilis? Il poliziotto ha sparato per uccidere?
«Sì, Antonio. È stato un assassinio».
Ne è sicuro?
«Non solo. Annoti bene: assassinio a sangue freddo. Per questa ragione Alexis Grigoropoulos, neppure 16 anni, un bel ragazzo ribelle, è diventato un eroe. Non so cosa accadrà nel mio paese».
Non ha perso la passione civile Vassilis Vassilikos, il celebre scrittore greco autore del libro «Z, l'orgia del potere», la storia vera dei soprusi che precedettero la dittatura dei colonnelli, culminati con l'assassinio di Grigoris Lambrakis. Storia resa popolare dall'omonimo film di Kostas Gravas, interpretato da Yves Montand, Irene Papas e Jean Louis Trintignant. A 72 anni, dopo decine di libri di successo e l'incarico di ambasciatore all'Unesco di Parigi, Vassilikos si specchia nelle reazioni di sua figlia, non ancora maggiorenne e per nulla estremista, che partecipa alle proteste dopo l'uccisione di Alexis, diventato l'icona di tutti i blog della Grecia.
Qual è la principale ragione della rivolta degli anarchici del quartiere di Exarchia?
«Non mi risulta che vi sia stata una rivolta. Vi è stato un episodio gravissimo, una fiammata improvvisa. Insomma, l'assassinio di Alexis è stato il detonatore di una frustrazione, di una rabbia compressa che tutti avvertivamo ma che non eravamo in grado di esprimere ».
Rabbia contro chi?
«Sa bene che cos'è accaduto nell'ultimo anno. Il tentativo di suicidio di Zachopoulos, il potente direttore generale del ministero della cultura che si è lanciato dal quarto piano ed è ancora vivo; il caso di Vatopedi, con proprietà dello stato cedute, con uno scambio derisorio, al monastero di padre Efrem; e poi quei 22 milioni di euro dati alle banche invece di darli a chi soffre per la crisi. Accumula oggi, accumula domani, alla fine vi è stato il detonatore dell'assassinio ».
Lei continua a chiamarlo assassinio.
«Giudichi lei. Arriva l'auto della polizia, sabato alle 21, nel quartiere di Exarchia. La gente, nei bar, beve il caffè o l'ouzo. I poliziotti avvistano tre ragazzi, che li affrontano, vola qualche insulto».
Tre o trenta ragazzi?
«Tre! Tra loro c'è Alexis. Forse è un po' esagitato. Appartiene a una famiglia delle medio-alta borghesia ateniese. Il padre è un noto gioielliere. Il ragazzo, con idee rivoluzionarie, studiava al liceo Moraitis, uno dei più prestigiosi della capitale. Aveva combinato qualcosa, gli avevano dato 3 giorni di sospensione. Ha il sangue caldo, indirizza agli agenti parole sconvenienti. I due poliziotti vanno a parcheggiare l'auto e, a piedi, inseguono i tre. Volano parolacce, d'accordo. Però nulla giustifica che uno degli agenti estragga la rivoltella e spari, ad altezza d'uomo. Le testimonianze di chi ha seguito la scena dai bar sono precise. "Visto tutto. Pensavamo si trattasse di colpi a salve". Il ragazzo cade, i compagni credono che sia scivolato sul selciato, ma dopo un attimo si rendono conto che è stato colpito a morte. I due agenti se ne vanno, apparentemente tranquilli. Si attiva Internet, la democrazia dell'immediato, che arriva prima della tv. Partono i primi sms. In un attimo la Grecia sa quanto è accaduto. Il ministro dell'Interno Prokopis Pavlopoulos, presenta immediatamente le dimissioni, che il premier rifiuta. Karamanlis ha fatto bene a rifiutarle».
Perché?
«Perché Pavlopoulos è un uomo onesto, un galantuomo! Da un anno gli era stato assegnato, oltre all'Interno, il ministero dell'Ordine pubblico che era guidato dal discusso Vyron Polidoras».
In che senso?
«Nel senso che aveva definito i poliziotti "pretoriani dello stato", convincendoli che, se affrontati, avrebbero potuto reagire severamente, tanto nessuno li avrebbe messi sotto accusa».
Lei va sul pesante.
«È la verità. Pavlopoulos, che si è caricato il fardello sulle spalle, è un galantuomo».
Il governo rischia di doversi dimettere?
«Non deve. Ma Karamanlis sia più presente».
E l'opposizione? E la sinistra?
«La sinistra! Ha problemi dappertutto. In Francia, in Italia, e anche il Grecia. Quanto accadrà è imprevedibile. Non penso agli anarchici, non solo agli studenti. Penso che ormai sia coinvolta l'intera società, anche i giovani del partito di governo, Nuova democrazia. L'assassinio di Alexis è stato il detonatore di un serio disagio. Nessun paragone con il passato. È il presente che dobbiamo studiare e dal quale dobbiamo imparare e capire ».

l’Unità 9.12.08
Rivolte e disoccupazione
La crisi scuote la Cina


Il 2009 in Cina potrebbe essere l’anno delle grandi rivolte sociali.
Quelle destinate a cambiare faccia al Paese e. Sono previsioni diffuse e alimentate dalle notizie che in questi giorni arrivano dalla Cina. Poche settimane fa a Longnan, nel Gansu, è scoppiata una rivolta violentissima dopo che le autorità avevano annunciato l’intenzione di spostare altrove gli uffici amministrativi locali. Secondo i dati ufficiali di Pechino ogni anno in Cina scoppiano circa sessantamila rivolte di questo tipo. Ma ora le proteste si moltiplicano. Così i giornali hanno dovuto occuparsi della recente rivolta dei tassisti di Chongqing che hanno protestato contro la concessione di nuove licenze. E di quella di Shenzhen, dove la polizia è stata aggredita per aver tentato di fermare un motociclista causandone la morte. Dietro le migliaia di micce pronte ad accendersi ci sono i primi effetti della crisi economica mondiale. La riduzione della domanda di prodotti cinesi dall’estero ha già creato un milione di disoccupati.
Non sarà dunque la domanda di democrazia a far scoppiare la Cina, ma il primo duro colpo al boom economico. Anche se le occasioni che potrebbero scatenare rivolte più importanti sono tutte politiche: il ventesimo anniversario degli scontri di piazza Tiananmen il 4 giugno. E il cinquantesimo dell’occupazione del Tibet il prossimo 10 marzo.

l’Unità 9.12.08
L’occidente che tace
Diritti umani, domani sono 60 anni dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e Amnesty denuncia: l’Occidente ha imparato a tapparsi il naso pur di mantenere rapporti economici con le dittature. Così con la Cina o con l’Iran che minaccia di chiudere i rubinetti del petrolio
di Gabriel Bertinetto


DA GUANTANAMO ALLA CINA LA SCIA DEI DIRITTI VIOLATI
Il mondo occidentale, dopo essere stato la culla dei diritti, non dà l'impressione di esserne ora la patria nella quale vengono universalmente sostenuti. C’è sempre un motivo per spiegare l’ignavia dell’Occi-
dente. Il caso del premio Nobel mai assegnato per motivi diplomatici al dissidente cinese Hu Jia

Il coraggio a volte uno se lo può dare. Nicolas Sarkozy sabato scorso ha incontrato il Dalai Lama, nonostante pochi giorni prima, come forma di protesta preventiva, Pechino avesse annullato un vertice con la Francia. Risalendo nel tempo, ecco il Parlamento europeo, il 23 ottobre, conferire al dissidente cinese Hu Jia il premio Sakharov per la libertà di pensiero. Il giorno dopo a Pechino si apriva il vertice Asia-Europa, con la partecipazione dei capi di Stato e di governo di 43 Paesi. Le autorità della Repubblica popolare hanno contestato a viva voce l'iniziativa degli eurodeputati, ma non risulta che i commerci internazionali ne abbiano sofferto e gli imprenditori del vecchio continente abbiano perso importantissime commesse.
Eppure proprio questo è l'argomento che spesso viene portato a giustificazione della timidezza con cui i dirigenti dei Paesi democratici affrontano il tema dei diritti umani violati con i leader degli Stati in cui quelle violazioni avvengono: attenzione, potrebbero andarci di mezzo i nostri interessi economici. Oppure -si sente dire anche questo- ne verrebbero compromessi i rapporti politici a tutto danno degli equilibri strategici generali. A questo tipo di logica si era probabilmente piegato, ad esempio, sempre in ottobre, il comitato di Oslo evitando di assegnare il Nobel per la pace allo stesso Hu Jia, favoritissimo alla vigilia.
Oscillazioni opportunistiche. Comportamenti diversi od opposti rispetto a situazioni analoghe. Nell'ultimo rapporto annuale Amnesty International (A.I.) ricorda con rammarico come «nel 1948 gli Stati membri delle neonate Nazioni Unite con un atto di straordinaria leadership senza neanche un voto di dissenso adottarono la Dichiarazione universale dei diritti umani». Della quale domani ricorre il 60° anniversario. Purtroppo, constata A.I., presto «i diritti umani divennero un elemento di divisione tra le due superpotenze impegnate in un lotta ideologica e geopolitica per stabilire la propria supremazia». Archiviata la guerra fredda, i diritti umani sono tornati ad essere ostaggio di logiche di parte. «Gli attacchi terroristici dell'11 settembre 2001 hanno trasformato ancora una volta il dibattito sui diritti umani in uno scontro frontale e distruttivo tra Occidente e non Occidente». E c'è poco da essere ottimisti se la più influente democrazia del mondo, gli Usa, ha giustificato in quel contesto i crimini di Guantanamo o Bagram.
Relativismo e atteggiamenti pilateschi sono largamente diffusi. Il balletto pre-olimpico ne è stato una «penosa e prolungata esibizione», dice Luigi Bonanate, docente di relazioni internazionali. «Un capo di Stato o di governo va alla cerimonia inaugurale, un altro no. Uno dice che non ci va e poi ci ripensa, e così via. Ora, secondo me, la questione non era tanto il disertare oppure no quel'evento, ma prendere una posizione comune. Si poteva anche decidere di andarci, ma tutti insieme, dopo avere fatto vedere chiaro al mondo che l'Occidente si rende conto che le cose in Cina dal punto di vista dei diritti umani e democratici non vanno affatto bene». Invece ci si muove in ordine sparso, e questo consente ai Paesi che sono in difetto, di giocare di sponda fra i vari livelli di severità e di coerenza da parte dei «virtuosi». Manca un governo mondiale, ma questa non può essere una scusa. In realtà, aggiunge Bonanante, «sono i Paesi che potrebbero avere un ruolo trainante all'interno dell'Onu a minarne l'autorevolezza, come avvenne quando Bush mandò il povero Powell a fare la figura del clown a Palazzo di Vetro mostrando false prove sulla disponibilità di armi di sterminio da parte di Saddam come pretesto per attaccare l'Iraq. Così l'Onu finisce per somigliare a una vecchietta che tenta di attraversare sulle strisce pedonali, senza che le auto (gli Stati membri) si fermino per farla passare».Si è timidi con la Cina, perché è una potenza politica ed un formidabile partner commerciale. Con l’Iran perché potrebbe chiudere i rubinetti del petrolio e aprire le cataratte dell’estremismo integralista fuori dai propri confini. Con la Libia, perché può soffiare sulle vele dei vascelli carichi di emigranti clandestini. C’è sempre un motivo, non gridato, per lo più mormorato a mezza voce, per spiegare l’ignavia dell’Occidente. Ma capita persino che nessuna di queste ragioni si imponga davvero, e sia piuttosto l’indifferenza o un «riflesso etnocentrico» a fare da freno. Bonanate cita il caso birmano. Un anno fa, le violenze del regime attirarono per qualche settimana l’attenzione mondiale. L’Onu e la Ue promossero iniziative diplomatiche. Ma senza il sostegno dell’opinione pubblica e dei governi, quelle missioni hanno potuto incidere poco.

l’Unità Lettere 9.12.08
Libertà vera di culto

Dopo aver letto delle pretese dei vescovi italiani che hanno chiesto e (subito) ottenuto di esentare le scuole cattoliche dai tagli, chiedo anch'io una moratoria come quella proposta dalla Lega per i musulmani. Vorrei che per due anni non si costruissero nuove chiese con i soldi nostri, vorrei che per due anni non pagassimo i catechisti nella scuola pubblica con i soldi nostri, vorrei che per due anni la Chiesa pagasse le imposte sugli immobili e sulle attività economiche, mascherate da attività religiose (come i pellegrinaggi). Sarebbe un bel risparmio e notevoli introiti per lo stato! Ovviamente i cattolici che volessero supplire, pagando di tasca loro tutte queste attività, sono liberissimi di farlo.
di Anna Maria Quattromini

l’Unità 9.12.08
A Lucca due giorni di confronto sul tema «Il turbamento e la scrittura»
L’intreccio singolare tra sanità e disagio in una città che ha convissuto col «suo» manicomio
Narratori e Follia, storia antica. Ma il patto oggi non c’è più
di Maria Serena Palieri


Dai Greci a Beckett qual è il filo che lega disagio psichico e creazione letteraria? Nel centenario d’uno straordinario scrittore-psichiatra, Mario Tobino, un incontro. Che fa anche il punto sul presente.

In principio, spiega Milo de Angelis, c’è il turbamento: «È lì che nasce il passaggio dal silenzio alla parola. Poi comincia un cammino lunghissimo, pieno di posti di blocco e sabbie mobili». Per il cinquantasettenne poeta milanese, premio Viareggio nel 2005 per Tema dell’addio, opera che intagliò interamente dentro il dolore per la perdita della moglie, la poesia nasce, dunque, dal «turbamento». Parola che, spiega, lo fa sentire in uno stesso vortice interiore in compagnia con Tasso e Musil. De Angelis rifiuta invece di vedersi collocato nell’area del disagio, termine che sarà l’equivalente, ma, osserva, è «sociale»: sì, conveniamo, in effetti il termine «disagio» non entra negli animi, serve a classificare, per esempio, col Censis, coorti di disagiati teen-ager o immigrati.
Marosia Castaldi ha scritto le 716 pagine di Dentro le mie mani le tue, maestosa celebrazione di un delirio, pensando a sua madre, perché «la scrittura ha a che fare con i morti e con la Morte». La scrittura, poi, aggiunge, «dev’essere turbamento anche per chi legge». E, se anche tutto questo significa smerciare poco i propri libri, ma vederli durare, lo scopo è raggiunto: «Se pensassi che un mio libro vende un milione di copie ma dopo tre mesi non c’è più, starei male» precisa. E, senza arrossire, aggiunge: «Scrivere risponde al desiderio di immortalità».
CASI CLINICI O LETTERARI?
In tempi di «intrattenimento» - scrittori che ci fanno divertire, che ci stupiscono, che cazzeggiano, che, bambini non cresciuti, ci fanno ridiventare infanti - per fare discorsi così ci vogliono alcune condizioni. Ci vuole una sala dentro il Palazzo Ducale di Lucca, città di 83.000 abitanti, che fuori dalle sue mura arancio, su un colle, ha custodito il più antico manicomio italiano, dal 1773 al 1978 della legge Basaglia che i manicomi li aprì: millequattrocento posti-letto, più o meno uno per ogni dieci abitanti della Lucchesia e, per i restanti lucchesi sani, posti di lavoro come infermieri, custodi, pulitori, coltivatori degli orti. Ci vuole, in questa sala, un convegno sulla struggente e magnifica figura di psichiatra e scrittore che dentro l’ospedale psichiatrico di Maggiano, internato come i suoi «matti» (lui, pratico, li chiamava così), è vissuto per più di quarant’anni, Mario Tobino. E ci vuole, per finire, il bel coraggio con cui, per la Fondazione Tobino, Giulio Ferroni ha chiamato alcuni scrittori «turbati» a dire di sé: Castaldi, De Angelis, Anedda. E l’impagabile Andrea Zanzotto che, intervistato in video da Laura Barile, fa l’elenco dei suoi mali giovanili, ansia, depressione, mania febbrile... O gli altri, morti, evocati dai relatori: l’Ottieri affetto da disturbo bipolare e in dialogo col gran mago dei farmaci Cassano - fulmineo il distico da Il palazzo e il pazzo: «Scusi, posso essere un caso letterario,/invece di un caso clinico?» - dipinto da Raffaele Manica, o la Fabrizia Ramondino che combatte la depressione con taccuino e bottiglia ritratta da Beatrice Alfonzetti.
Viva la malattia? Era il credo neo-romantico degli anni ’70. Una eco ce n’è ancora nel culto di massa che nei festival letterari viene tributato oggi non alla poesia - alta - ma alla vicenda psichiatrica di Alda Merini: pure qui, in una saletta accanto addobbata di viola, la sua voce registrata accompagna la mostra degli strumenti clinici usati a Maggiano come in tutti i manicomi, prima dell’invenzione del primo psicofarmaco, il Largactyl, nel 1952. Sono camicie di forza, il piccolo macchinario per l’elettrochoc, il giaciglio di alghe in cui dormivano i malati agitati.
Ma, complice questa singolare città, dove gli utenti psichiatrici della Asl2, organizzati nel gruppo di teatro-terapia «Il gambero rosso», irrompono in spazi pubblici come questo tintinnando minacciosi mazzi di chiavi per farci «sentire» con le nostre orecchie cos’erano i manicomi, il tema che prende banco è un altro. È la prossimità tra malattia e salute, è l’alchimia tra disagio e creatività ed è il singolare nesso che, da tremila anni, corre tra «fiction» e follia: gli scrittori sono spesso disagiati, ma anche i loro personaggi non scherzano...
In origine furono l’Aiace di Sofocle e l’Ercole di Euripide: il primo fa strage di vacche credendo di uccidere Agamennone, il secondo ammazza moglie e figli convinto di far fuori il Tiranno di Tebe e i suoi parenti; poi c’è l’Orlando di Ariosto con la sua furia amorosa, c’è Torquato Tasso che è matto lui, ci sono i «fools» di Shakespeare, c’è Don Chisciotte che, col suo delirio di lettore, è la quintessenza pura di questo tema, c’è Hölderlin che scrive indossando la museruola nel manicomio di Tubinga, c’è il forastico sublime Heathcliff di Cime tempestose, c’è la compulsiva e suicida Emma di Flaubert, ci sono i personaggi di Dostoievskij tutti a dir poco borderline, i «maudits» francesi, c’è Nietzsche, e col Novecento e con l’inconscio - post Freud - sotto la luce dei riflettori è un tripudio, Mattia Pascal e tutto Pirandello, Celan, Beckett...
A sentirla raccontare così, da Guido Paduano, Giulio Ferroni, Alfonso Berardinelli, la storia della «fiction» in Occidente è una secolare storia della follia. Di una follia - quella dei personaggi - analizzata e messa in scena o - quella degli autori - che ha saputo trovare strade per oggettivarsi.
E oggi? Ferroni osserva che per narrare bisogna fare esperienza. Non virtuale, reale. Ma l’esperienza è in corso altrove, quella, fa l’esempio, degli Oz e i Grossman in Israele. E la «fantasia folle» si è rifugiata altrove: dalla sua casa di Pieve di Soligo, Andrea Zanzotto dice è che è nella divinità attribuita a Pil, finanza e banche. Dalle nostre parti la divina follia del narrare non è una malattia corrente. La narrativa è intrattenimento... Però la follia che è «disagio» ed è solo segreta sofferenza sotto sotto è in crescita: a Lucca la monitorano, un ottavo della popolazione, cioè diecimila cittadini, sono in cura alla Asl, metà sono giovani. E in Gran Bretagna registrano una crescita di autismi «settoriali»: nella società della comunicazione cresce il numero di persone che, per pezzi di sé, congelano il rapporto col mondo. Per narrarlo chi ci vorrebbe ora, Cervantes?
l’Unità 9.12.08
Mario Tobino e la legge 180. La sua verità nel diario inedito
non disponibile on line

Corriere della Sera 9.12.08
Arte e politica, la Kirchner salva Siqueiros
Il governo argentino recupera il mural «maledetto» dell'artista messicano
di Alessandra Coppola


Conteso da più proprietari, l'affresco sarà ora restaurato e esposto nel giardino della Casa Rosada

Non è solo la storia di uno strato di intonaco nella cantina di una villa in decadenza alla periferia di Buenos Aires. Nel recupero di «Ejercicio Plástico», capolavoro che il messicano David Alfaro Siqueiros dipinse durante il soggiorno argentino, c'entrano l'arte e la letteratura, si inserisce la rivoluzione, si intravedono gelosie e tradimenti, cala uno strato di calce moralista, si ritorna alla politica e si arriva infine alla straordinaria vicenda di un mural che qualche critico si è spinto a definire la Cappella Sistina dell'arte moderna.
L'effetto è quello di un acquario. Così l'aveva immaginato l'artista imprigionando la moglie Blanca Luz in un cubo trasparente a fargli da modella. Una bolla d'aria dentro un mare di donne nude e forti che nuotano e spingono alle parenti: sulla volta, sul fondo, sul pavimento. Da 18 anni sezionata in sei parti e conservata in condizioni precarie, l'opera tornerà a essere ricomposta e restaurata per decisione della «presidenta» Cristina Kirchner. In attesa che si risolvano le dispute sulla proprietà, sarà esposta nei giardini della Casa Rosada, la sede del governo di Buenos Aires.
Leggenda vuole che Siqueiros l'avesse pensato come bar sotterraneo. «Ma non è vero», smentisce al quotidiano El País l'esperto messicano Manuel Serrano, che nel '90 ebbe il compito di applicare lo strato di resina ai pezzi di intonaco da conservare e che ora ha riaperto le casse che li custodivano. L'obiettivo del muralista, secondo Serrano, era quello del titolo: un «esercizio plastico», condotto, come usava allora, con la collaborazione di amici artisti.
È il 1933: dopo la rivoluzione di Pancho Villa ed Emiliano Zapata, e subito prima del coinvolgimento nella guerra di Spagna, del ritorno in Messico, del-l'attentato a Trotsky, con Siqueiros che spara colpi in aria (e alle finestre) alla guida del «commando ». Il muralista ha quasi 37 anni, ha già dipinto Sepoltura di un lavoratore e ha una discreta fama nel Continente. Accompagnato dalla inquieta moglie, la poetessa uruguayana Blanca Luz Brum, arriva a Buenos Aires su invito di Victoria Ocampo, per animare le conversazioni della Società degli Amici dell'Arte. Siqueiros il dibattito lo turba, lo scuote, lo infiamma con discorsi sull'arte rivoluzionaria che deve parlare direttamente al popolo, poco adatti agli aristocratici circoli intellettuali argentini. La serie di incontri viene sospesa.
È a questo punto che l'artista messicano accetta l'invito di un editore uruguayano, Natalio Botana, fondatore della rivista
Crítica (alla quale collaborò anche Borges): vitto e alloggio alle porte di Buenos Aires, in cambio di un mural. «Il frutto forzato della nostra condizione di salariati », lo definirà Siqueiros.
Della palazzina un po' kitsch, mezza araba mezza coloniale, dimora di Botana e dell'eccentrica moglie Salvadora Medina Onrubia, pittrice e veggente, Siqueiros sceglie la piccola cantina a volta. E lì si mette al lavoro, su un tema per una volta non politico. L'intesa tra Bianca Luz e l'ospite mecenate, però, dicono sia particolarmente forte. Troppo per il sangue di Siqueiros, che rinnega la model-la, cambia i volti delle donne dipinte e lascia l'Argentina per la Spagna della Guerra Civil.
Il mural viene abbandonato al suo destino: la villa venduta a lotti, la cantina con parte della casa acquistata da Alvaro Alsogaray, ministro dell'Economia negli anni '60, la cui moglie considera l'opera scabrosa per gli occhi dei propri bimbi e la fa ricoprire di calce. Arriva un terzo proprietario, un quarto, un quinto. Il mural, ripulito, passa di mano in mano. Viene staccato, sezionato, conservato, rivenduto al prezzo di 820 mila dollari. Conteso in una complicata vicenda legale ancora in corso. Nell'attesa, la cappella riprenderà forma. E per la prima volta sarà accessibile al pubblico: non sarebbe dispiaciuto al sanguigno, umorale, geniale, violento ma soprattutto rivoluzionario Siqueiros.

Corriere della Sera 9.12.08
Su «Nature Nanotechnology» Secondo la rivista, la religione costituirebbe una sorta di filtro nell'affrontare le nuove frontiere
I dati Studio sui Paesi della Ue: Italia e Irlanda le nazioni più contrarie, Belgio e Olanda le più favorevoli
Se la fede frena le nanotecnologie
di Giovanni Caprara


Il confronto. «Abbiamo constatato quanto il credo religioso sia in grado di mettere in cattiva luce le nanotecnologie». Gli esperti italiani: «Ma più della fede incide la cultura che rifiuta la scienza»

MILANO — Le popolazioni più religiose vedono male la nuova frontiera delle nanotecnologie. Alla singolare conclusione che lascia perplessi e pone domande, è giunta un'indagine condotta dai ricercatori dell'Università americana del Wisconsin in dodici Paesi europei, più gli Stati Uniti, e pubblicata sulla rivista Nature Nanotechnology
.
Classificando le risposte delle persone intervistate secondo una scala battezzata «Religosity » ritengono di aver misurato l'influsso della religione sugli atteggiamenti mostrati nei confronti delle tecnologie con cui dobbiamo fare i conti ormai quotidianamente. «Così abbiamo constatato quanto il credo religioso sia in grado di mettere in cattiva luce le nanotecnologie — dice il professor Dietram Scheufele del dipartimento Life Science Communication responsabile dello studio — Il motivo è che la religione agisce come un filtro e chi ha una fede legge le informazioni in modo diverso ed è sempre portato a farla prevalere nelle scelte che compie».
In Europa le nazioni più contrarie si sono rivelate l'Italia e l'Irlanda «che sono più religiose ». Più favorevoli, invece, si dimostrano il Belgio e i Paesi Bassi, nota l'indagine la quale proponeva un giudizio su varie tecnologie comprendenti pure quelle legate alla biologia (Ogm), all'informazione (Internet), alla cognizione e al nucleare. Ciò che tuttavia preoccupa non sono tanto gli aspetti sconosciuti quanto le questioni morali poste dall'uso delle nuove conoscenze e la loro ingerenza nella vita. L'atteggiamento negativo è in particolare legato ai rischi, versante sul quale si interrogano insistentemente da tempo in uno dei templi più illustri della tecnologia mondiale come il MIT di Boston.
Le nanotecnologie sono frutto delle manipolazioni della materia a livello nanometrico, cioè nella microscopica dimensione del miliardesimo di metro, riuscendo a produrre sostanze utili in vari campi di applicazione: dalla medicina (farmaci che arrivano sul male da curare) all'abbigliamento (tessuti antibatterici con particelle d'argento), dall'industria alimentare (sostanze per migliorare la conservazione di cibi, le loro doti nutritive oppure la digeribilità) alla cosmetica (prodotti più efficaci perché agiscono più in profondità). Per dare un'idea delle grandezze di cui parliamo il virus dell'epatite C è grande 50 nanometri e una molecola di idrogeno è quasi mezzo nanometro. Altrettanto, sono particelle nanometriche le polveri sottili emesse dalla combustione delle automobili e che respiriamo.
«E' vero che ignoriamo quasi tutto del ciclo di vita delle particelle nanometriche, della loro destinazione e degli eventuali effetti dopo l'impiego come l'accumulo nell'organismo — nota Paolo Milani esperto della materia all'Università di Milano — Questi sono argomenti da chiarire, ma non ho mai riscontrato nel nostro Paese un atteggiamento decisamente contrario salvo alcuni estremismi a priori come può accadere con gli Ogm o il nucleare. Di sicuro anche davanti al rifiuto non ho mai visto una connessione con la religione».
«Più che la fede religiosa, semmai, in Italia — aggiunge Carlo Bottani, specialista nanotecnologico del Politecnico di Milano — ad agire è il substrato culturale più generale che produce simili reazioni negative e che portano al rifiuto della scienza e della tecnologia. E' l'antico dibattito sulle scoperte: le particelle nanometriche usate come farmaci sono ad esempio concepite per colpire solo i tumori e non distruggere i tessuti circostanti. E' evidente che bisogna gestire in modo appropriato ogni innovazione umana perché il vantaggio che genera non si trasformi in danno».
Comunque, avverte il professor Scheufele, i politici devono tener conto delle ragioni espresse dalla società sulle nanotecnologie per poter scrivere regole appropriate, altrimenti saranno inapplicabili.

Corriere della Sera 9.12.08
Il genetista: «Sì, siamo indietro c'è troppa paura»
di Edoardo Boncinelli


Le nanotecnologie sono quel complesso di conoscenze scientifiche e di metodologie che permettono di studiare e modificare la materia, agendo dalle sue fondamenta, cioè al livello degli atomi e delle piccole molecole, che sono appunto delle dimensioni di qualche nanometro, che è un miliardesimo di metro, cioè un milionesimo di millimetro. In questa maniera si può arrivare direttamente al cuore del problema e costruire o preparare materiali esattamente nella maniera desiderata. Queste conoscenze e queste tecniche possono essere applicati alla materia inorganica — per produrre materiali più duri, più isolanti o più conduttori, resistenti alle temperature più elevate o con altre proprietà sempre più avveniristiche — o alla materia organica — per preparare strumenti diagnostici sempre più sensibili, per mettere in circolazione farmaci sempre più potenti o per mettere a punto vere proprie «nanosonde» che entrino direttamente all'interno delle cellule, ad esempio cancerose, per «dare un'occhiata» e informarci su ciò che osservano.
Dal punto di vista produttivo si tratta certamente dello strumento più potente che ci può offrire il mondo di oggi e di domani. Dal punto di vista della biologia e della biomedicina poi, occorre notare che tutti i processi biologici avvengono al livello «nano»: la biologia è nanotecnologica da sempre ed è con questo strumento che la si può controllare meglio. Dispiace quindi profondamente che il nostro Paese sia così indietro anche in questo campo. Perché? Perché siamo molto, troppo, prudenti e diciamo apertamente o sotterraneamente No ad ogni novità, perché la scienza è poco considerata e la cultura scientifica talvolta trascurata se non vituperata e perché non abbiamo una cultura del brevetto. Ci piaccia o meno, il mondo scientifico procede per ricerca, brevettazione, nuova ricerca e infine commercializzazione, specialmente in certi campi. Chiamarci fuori è follia e autentico masochismo. Ciascuno faccia il suo esame di coscienza e veda quanto contribuisce a creare questo clima.

Corriere della Sera 9.12.08
Pd, quelle due verità su Prodi
La discontinuità del nuovo partito rispetto al governo uscente e la scelta di correre da soli senza stringere alleanze a sinistra
di Michele Salvati


Non ha funzionato l'idea di sfondare al centro, ma resta valida la scelta di un forte rinnovamento culturale

Per fare una buona analisi di una elezione nazionale occorre tempo. Passato questo tempo l'elezione non è più una notizia: i suoi risultati e le sue conseguenze sono stati digeriti dai media e la politica au jour le jour
prosegue inarrestabile il suo corso.
Sarebbe però un vero peccato se questo comprensibile effetto mediatico attenuasse l'interesse per Il ritorno di Berlusconi, la ricerca Itanes (acronimo per Italian National Elections Studies dell'Istituto Carlo Cattaneo di Bologna) sulle elezioni del 13-14 aprile, da poco pubblicata dal Mulino. I prodotti periodici di questo gruppo di lavoro sfidano le leggi della stretta attualità, fissano interpretazioni difficilmente confutabili e soprattutto identificano problemi che continuano a riemergere e contro i quali gli attori del gioco politico continuano a sbattere la testa. Così è stato per le ricerche dedicate alle precedenti elezioni politiche, del 2001 e del 2006, e a maggior ragione lo è per quelle di quest'anno: un vero cataclisma, che ha visto una drastica riduzione dei gruppi politici presenti in Parlamento (da 15 a 9, rispetto alla precedente legislatura); la scomparsa della sinistra estrema, dei verdi e dei socialisti; un divario di quattro milioni di voti tra i due poli del nostro bipolarismo, che erano grosso modo equivalenti nelle elezioni del 2006.
Che cosa spiega questo cataclisma? Prima dei tentativi di spiegazione l'Itanes assolve un compito di descrizione accurata dei risultati elettorali: il centrosinistra ha perso perché i suoi precedenti elettori si sono astenuti di più di quelli del centrodestra; perché gli elettori guadagnati dal Partito democratico per effetto del voto utile, molti, hanno ovviamente un effetto nullo sul totale del centrosinistra essendo stati strappati ad altre componenti di questo stesso schieramento; perché il Partito democratico non è riuscito a guadagnare verso il centro e il centrodestra ed anzi perde a favore dei partiti del polo avverso circa il 10 per cento di coloro che nel 2006 avevano votato per l'Ulivo, soprattutto nel Sud.
Questi i dati principali, peraltro noti da tempo. Ma l'Itanes combina i dati elettorali con un'indagine campionaria svolta nelle settimane successive alle elezioni e li confronta con i risultati di indagini precedenti: da questo insieme nascono gli spunti interpretativi più interessanti. Sulla persistenza e variazione delle tradizioni politiche regionali. Su come ha giocato la percezione di insicurezza, e di quali tipi di insicurezza. Sul voto dei cattolici praticanti. Sulla disaffezione verso la politica. Sugli orientamenti in tema di Stato/mercato in campo economico e di tradizionalismo/individualismo in campo etico. Sulla personalizzazione dell'offerta politica e l'effetto leader.
L'analisi di questi spunti dobbiamo lasciarla ad una lettura più dettagliata di quella che è possibile svolgere qui. Ora vorrei limitare il mio commento a un solo problema, sul quale le riflessioni conclusive del rapporto possono provocare qualche perplessità.
Poco prima delle elezioni, da poco costituito il Partito democratico, Walter Veltroni calava sul piatto l'asso dell'«andare da soli» (con Di Pietro, in realtà); a questa mossa Berlusconi rispondeva con il «Popolo della Libertà» — un patto organico con Alleanza nazionale in vista della costituzione di un nuovo partito — e con un'alleanza elettorale con la Lega. Sono state queste mosse a produrre la semplificazione dei gruppi parlamentari, perché i partiti in precedenza inclusi nell'alleanza di centrosinistra, costretti ad andare da soli, non sono riusciti a superare la soglia di sbarramento. Anche se quest'ultimo esito non era prevedibile, Walter Veltroni non poteva non sapere che la macchina da guerra rapidamente messa insieme da Silvio Berlusconi era poderosa: persino sulla base dei risultati delle precedenti elezioni, sfavorevoli per il centrodestra, questo schieramento prevaleva nettamente su Ds e Margherita, ora fusi nel Partito democratico; inoltre, dato il discredito del governo (meritato o immeritato che fosse) e la traumatica interruzione della legislatura, i suoi consensi erano in forte crescita. In queste condizioni «il Pd è sceso in campo cercando di trovare un difficile equilibrio tra la necessità di non dissipare il patrimonio di voti dell'area della sinistra allargata e di presentarsi come una formazione in grado di ampliare al centro il proprio bacino elettorale».
Nessuno dei due scopi è stato raggiunto. Persuaso che il giudizio negativo sul governo Prodi fosse irreversibile, Walter Veltroni ha insistito soprattutto sulla discontinuità del Partito democratico rispetto alla precedente coalizione di centrosinistra, nella convinzione che la popolarità di cui personalmente godeva potesse essere la risorsa strategica della campagna elettorale. Ora, sostiene il rapporto sulla base dei dati di sondaggio, l'impopolarità del governo Prodi non era in realtà maggiore di quella del governo Berlusconi alle soglie delle elezioni del 2006. E il tentativo di affermare una discontinuità allettante per gli elettori del centro non ha funzionato. Assai più efficace era stata la campagna di Silvio Berlusconi del 2006, largamente basata su una orgogliosa rivendicazione dei risultati del suo governo: la vittoria gli sfuggì per un soffio.
La domanda implicita è: perché Walter Veltroni non ha fatto lo stesso? Dopo tutto i risultati del governo Prodi erano almeno altrettanto difendibili (o indifendibili) di quelli del governo Berlusconi e dal passato non ci si può staccare con una semplice ridefinizione di contenitori politici (il Partito democratico) e con una pura operazione di immagine.
Ma è veramente confrontabile il Berlusconi del 2006 con il Veltroni del 2008? È confrontabile — per solidità, coerenza, e soprattutto forza della leadership — l'alleanza di centrodestra con quella di centrosinistra? E quale alternativa era disponibile per il Partito democratico: un'alleanza tipo Unione, ma questa volta tutta sbilanciata a sinistra? Forse la sconfitta sarebbe stata meno bruciante, ma non si sarebbe annullato ogni elemento di novità culturale e programmatica del neonato partito?
Senza affrontare problemi di questo genere la critica alla strategia elettorale del Partito democratico — implicita ma ben percepibile — non può essere sostenuta sulla base dei soli risultati della ricerca e rischia di dare al capitolo conclusivo un'accentuazione partigiana, da dibattito interno al Pd, che per fortuna è assente nel resto della ricerca.

l’Unità 9.12.08
Etica e politica. La strada obbligata del Pd
di Nando Dalla Chiesa


Se non si affronta la questione morale il rischio sarà quello
di una caduta libera dei consensi dei Democratici
È un paese un po' cialtrone questo, lo sappiamo. Intriso di trasformismi e di soccorsi ai vincitori. Che scrive spesso la sua autobiografia nei demagoghi politici di cui si innamora. Che prova l'orticaria verso la parola «legalità». Ma, appunto, «un po'», non del tutto cialtrone. E nemmeno sempre nella stessa misura.
Sicché capita che anche in un paese così la questione morale decreti la fine, il declino o, al contrario, la tenuta dei partiti. Perché c'è sempre un'ampia minoranza di cittadini che alla qualità dei rapporti civili, al pubblico decoro, al senso delle istituzioni tiene e crede. Un pezzo importante del paese che non sta, politicamente, tutto di qua o di là; ma che certo tende a collocarsi in modo significativo in quello che oggi chiamiamo centrosinistra. Un popolo paziente ma disposto alla rivolta soprattutto quando sente che l'immoralità di governo lo colpisce nei suoi interessi materali. Il crollo della prima repubblica ha suggellato in fondo un'etica pubblica che offendeva il decoro delle istituzioni, salassava le finanze dello Stato e ingessava la vitalità della società civile. E infatti non i magistrati, ma il voto del '92 e ancor prima il referendum del '91 hanno affondato Dc e Psi, simboli di una specifica idea di governo e di politica. E, per converso, il Pci ha scavalcato le macerie del Muro (autentico paradosso della storia) grazie all'immagine alternativa che aveva. Conservando un patrimonio di consensi cresciuto non certo in nome dell'ideale comunista, ma per accumulazione multiforme intorno a un'idea di buon governo. Come cantava Gaber, la gente era diventata comunista perché la Dc era il partito degli scandali. O perché qui c'era il peggiore partito socialista d'Europa. O perché Berlinguer «era una brava persona».
Insomma, nonostante quel che si crede, la questione morale in politica conta, tanto più che in genere essa è intreccio, sintesi di molte questioni. E se è vero che a volte «più rubi e più prendi voti», arriva sempre il momento in cui paghi la perdita della reputazione e del prestigio, anche in modi ingiusti e spietati. Di più: senza un elettorato pronto a difenderti, poiché di norma lo smarrimento della bussola etica si accompagna a una sonnolenza progressiva su tutti i temi ideali che danno senso a un partito. Da qui la domanda: quale demone, quale virus della ragione ha portato a pensare nel centrosinistra che la questione morale faccia perdere voti, che l'etica pubblica sia una materia complementare, un optional, nella formazione e nella identità di un gruppo dirigente politico? La prima risposta è: senz'altro la perdita del senso della realtà. Ossia la convinzione che la realtà sia fatta del proprio mondo partitico-mediatico-clientelare. Che si possa diventare solida maggioranza annettendo, con disutilità marginali crescenti, i Mastella e i Villari, anziché offrendo buoni progetti sostenuti da un'alta e riconoscibile serietà di partito o schieramento. Escogitando operazioni di ceto politico, che - a livello centrale come a livello locale (si ricordi la vicenda Fortugno in Calabria) - diventano inevitabilmente corollario e legittimazione di micidiali pratiche clientelari e corruttive. Naturalmente questa perdita di senso della realtà ha alle sue spalle processi storici. La crisi del partito di massa, anzitutto. Ma ancor più l'esaurimento dell'onda lunga in cui si sono formate le classi dirigenti politiche della prima Repubblica. Ossia dello spirito fondativo della Resistenza e della Costituzione. E la conseguente sostituzione di leadership nate nel fuoco di grandi battaglie sociali, sindacali, politiche, culturali con leadership nate prevalentemente negli accordi interni di partito, e alle quali le liste bloccate hanno reciso ogni cordone ombelicale con sentimenti e domande popolari. Grande, oggi, è il compito del Pd. Grande e difficile. Denunciare l'immoralità dell'avversario al governo e, al tempo stesso, costruire la propria moralità di partito nuovo. Ma deve svolgerlo, sapendo che dovrà pagare duri prezzi. Altrimenti sarà condannato a pagare il prezzo più duro. Ossia la caduta libera dei suoi consensi, l'implosione del progetto per le tante promesse non mantenute. Ancora una volta la questione morale si presenta - anziché come addentellato - come riassunto della politica. Sarà una strada lunga e spinosa. Ma forse sarà l'unica strada possibile per realizzare finalmente il Pd promesso agli italiani.

il Riformista 9.12.08
La vera questione morale
Il problema morale del Pd è che non sa più fare politica
di Peppino Calderola, ex direttore dell’Unità


La "questione morale" a sinistra nasce dal mito più inesplorato. Il vero fine del comunismo non era la società giusta, quella in cui liberi ed eguali si concorre al bene comune, ma la creazione dell'"uomo nuovo" liberato dai bisogni e soddisfatto nelle necessità. Un cittadino parco e parsimonioso, dedito al bene generale, pronto al sacrificio per la collettività, immerso nelle arti che tendono a decantare la nuova società.
La politica moderna, invece, puzza di soldi, di carriere, di consumi smodati e il militante di sinistra (anche lui ansioso di carriera, di avanzamenti salariali, di sprechi privati) scopre che la questione morale è l'unica arma che lo ripaga dall'allontanamento dal governo. La forza altrui, del vecchio democristiano o del nuovo socialista, sta nell'allontanamento dal mito collettivista. La nuova classe di mediatori che nella società affluente occupa la politica è il segno del degrado della politica. Ieri Paul Ginsborg sul Corriere della Sera fra i tanti esempi di immoralità della politica sceglie non casualmente Andreotti «quando disse che la domenica mattina, anziché riposare, lui e gli altri democristiani si prendevano cura delle famiglie disagiate».
Assieme a "pizza" e "mafia", il "clientelismo" diventa la parola chiave del linguaggio universale degli italiani. La politica come suddivisione dei resti, della spesa statale, della cattura del consenso attraverso benefici distribuiti erga omnes. Per una lunghissima stagione della politica italiana la spesa pubblica finanzia il contenimento del Partito comunista. Per una stagione altrettanto lunga il comunismo si fa finanziare dalle salamelle e dai soldi dei sovietici. Immensi apparati lavorano per cercare voti e potere adoperando denaro pubblico o fondi che vengono dall'Est.
Poi arriva Bettino Craxi, il capo di un piccolo partito in declino che vuole parlare a nome di una borghesia del Nord arrembante che deve ancora scoprire la Lega. Craxi capisce che una grande politica ha bisogno di molto denaro e che uno statista deve finanziare i suoi amici, in Cile o in Palestina. Nell'oliato sistema di potere democristiano si inserisce prepotentemente il protagonismo socialista convinto di poter sradicare la Balena bianca e il Colosso d'argilla rosso. Il sistema non regge questo nuovo gravame, cade il muro di Berlino, all'occidente non serve più il baluardo Nato italiano e si scopre che Mario Chiesa prende tangenti e può trascinare nella rovina il vecchio mondo.
Gli orfani, ovvero i parricidi, del Partito comunista italiano credono di esserne fuori. Del comunismo mantengono l'ideologia dell'"uomo nuovo" che è impersonato dal sindaco, poi dal governatore di Regione, e da una classe di ferro efficiente e solidale. La questione morale diventa il "conflitto di interesse" dell'avversario più temibile e sottovalutato. Su Silvio Berlusconi si scatena l'inferno mentre muoiono i vecchi partiti, si rafforza la Lega e nasce la Nuova Destra che governerà il Paese. Il giustizialismo diventa l'ideologia dell'"uomo nuovo" che non crede al comunismo ma pensa che il potere sia corruzione, puzza di soldi e affari.
Accade alla sinistra quello che è accaduto all'Unione Sovietica con Ronald Reagan. La rincorsa dell'avversario - in quel caso del riarmo stellare dell'avversario - rivela le crepe interne, la mancanza di risorse, il traguardo posto sempre più avanti. Berlusconi investe nella politica la sua vita e il suo patrimonio, innova il linguaggio, scopre vecchi altarini, rompe antiche regole e abitudini. La sinistra lo rincorre e capisce che deve diventare altro da sé ma soprattutto che non ce la fa con i vecchi mezzi. Scopre che non ha risorse. Potrebbe combattere rovesciando il tavolo di gioco, affrontando una revisione coraggiosa dei propri principi, a cominciare dall'antropologia della diversità e dell'"uomo nuovo", per diventare partito della modernizzazione, della rottura dei vecchi schemi, del riformismo coraggioso. Sceglie invece il prezzo minimo e accettando la società di mercato la sinistra si mercatizza.
Qui avviene il più radicale mutamento genetico. Il professionista della politica diventa imprenditore politico, nasce la politica come "impresa". Un po' vecchi mediatori dc , un po' spregiudicati post-craxiani i leader, grandi e piccoli, della sinistra si buttano nell'affare. Il dalemismo al Sud, il veltronismo a Roma. Non si mettono al servizio dell'impresa, ma fanno nascere una nuova soggettività imprenditorial-politica. Le amministrazioni, le strutture statali diventano il luogo in cui l'impresa incontra il nuovo mediatore politico che si fa garante di interessi e chiede di partecipare alla redistribuzione di due profitti, il consenso e le risorse economiche per creare consenso.
È un salto di qualità che non riguarda più Mario Chiesa, di Mario Chiesa è piena la storia della politica, ma di Mario Chiesa non è mai morta la politica. La morte della politica inizia quando nella ragione sociale della politica prende il sopravvento la compartecipazione all'affare. Se l'imprenditore combina il suo matrimonio con la politica, caso Berlusconi, la politica di sinistra combina il suo matrimonio con gli affari. Fra l'onesto e il disonesto il confine diventa sempre più sottile. Probabilmente sono tutti onesti. Sicuramente l'economia e il territorio diventano il terreno vero della ricerca del potere e del consenso.
È per questo che non serve Mani Pulite, che il giustizialismo ha le ore contate. Il vero nodo della questione morale oggi è il primato del progetto, del "per", della crescita sociale, della partecipazione. Se la Prima Repubblica è morta di tangenti, la Seconda sta morendo perché la politica è diventata impresa autoreferenziale. La Grande Crisi la spazzerà via.

il Riformista 9.12.08
Parla Furio Colombo «la superiorità morale della sinistra non c'è più»
«Questione Pd? Stavolta il Cav. non dice bugie»
di Tommaso Labate


Berlusconi parla di una questione morale per il Pd? E Furio Colombo, intervistato dal Riformista, risponde: «Berlusconi fa politica e ha diritto di dire quello che vuole, comprese le bugie. Se però oggi il premier accusa alcuni dei Ds (dice proprio cosi: «dei Ds», ndr) di agire al di fuori delle regole dell'onestà e in alcuni casi al di fuori della legge, beh... probabilmente questa volta non dice una bugia».
L'ex direttore dell'Unità, oggi deputato del Pd, aggiunge: «Se invece il Cavaliere sostiene che, a sinistra, c'è qualcuno che vanta una specie di "superiorità morale", ecco: questa è una balla».
Colombo, sulla questione morale del Pd lei dà ragione al «nemico numero uno»?
Io dico che la questione morale è sempre stata viva. Berlinguer aveva i titoli per sollevarla "da sinistra". Molto semplicemente, oggi, vuol dire che non ci sono altri Berlinguer che possono sollevarla.
Lo dice proprio lei, che da direttore dell'Unità...
Attenzione. Negli anni in cui io e Padellaro abbiamo diretto l'Unità, nessuno, su quelle pagine, ha scritto che la sinistra era moralmente superiore alla destra. Ci siamo limitati a sostenere che, dall'altra parte, c'erano inquisiti e condannati. Ma tutto ciò non stava certo a significare che a sinistra erano tutti bravi e buoni.
E oggi che gli inquisiti, come a Firenze, stanno nel Pd? Che dovrebbero fare?
Tutti coloro che sono indagati dovrebbero valutare l'ipotesi di farsi da parte.
Intanto Veltroni ha difeso Domenici e Iervolino. E il sindaco di Firenze s'è incatenato davanti a Repubblica.
Il gioco delle dichiarazioni "in difesa" me lo sarei risparmiato. Quanto a Domenici, so che è un buon amministratore. Al posto suo, però, avrei fatto a meno degli assessori indagati e avrei annunciato sin d'ora, in caso di processo, la costituzione parte civile del Comune di Firenze. Putroppo Domenici ha scelto altre strade: quella della «questione umorale», ad esempio. S'è andato a incatenare in un posto dove non passa mai nessuno.
Chi è indagato si deve dimettere, insomma.
Suggerisco l'esempio della destra americana. Trent Lott, ex capo dei senatori repubblicani, si è dimesso l'anno scorso dopo le indiscrezioni giornalistiche sulle inchieste che lo riguardavano. Badi bene: non era una seconda fila. Avrebbe più chance di McCain di correre per la Casa Bianca. Eppure s'è fatto da parte.
Occhetto dice che la sinistra ha preferito la lezione di Craxi a quella di Berlinguer.
Quella di Occhetto è una posizione politica, non storica. Io, che non sono un ex Ds, non vedo un nesso tra il Pd e Craxi. Il nostro problema, adesso, è un altro.
Quale?
Fare opposizione. Il Pd, più che fare cose «di sinistra», dovrebbe fare cose «di opposizione». Invece ci limitiamo a fare i bravi scolaretti: garantiamo in Aula il numero legale alla maggioranza e quelli, di contro, votano ciò che arriva preconfezionato dal governo. I poteri sono tre. Berlusconi vuole ridurli a uno.
Intanto, nel Pd, c'è chi si dice disponibile a trattare sulla riforma della giustizia. D'Alema, Finocchiaro...
Non sono per niente d'accordo. Finocchiaro dice che trattiamo? E su che cosa trattiamo? Non mi pare che Obama tratti con Bush. O sbaglio? Noi dobbiamo avere un nostro piano, non sposare quello degli altri.
I magistrati, però, hanno troppo potere. L'ha detto anche Violante...
L'affermazione di Violante è priva di senso. Lui, che è un ex magistrato, ci dica se la magistratura agisce al di fuori della Costituzione. Ma se non è così, come sono convinto, smettiamola con certe uscite. La magistratura va difesa nonostante alcuni suoi difetti.
De Magistris compreso?
Come cittadino mi sento più vicino a De Magistris che al pg di Catanzaro. C'era anche la Forleo: al posto suo avrei evitato di rilasciare dei commenti prima della fine della sua inchieste (si riferisce a Unipol, ndr). Detto questo, però, si vede che quel giudice dava fastidio e infatti è stata messa da parte. A mio avviso, però, bisognava farla lavorare in pace.
Colombo, in vista della direzione del Pd, lei si è già schierato: ha firmato il documento di Cuperlo «per ripartire».
L'ho firmato perché il Pd ha bisogno di una scossa. È un partito troppo verticale. Facciamo riunioni in cui, come fossimo scolaretti, c'è sempre qualcuno che ci spiega la politica, l'economia, la giustizia. In queste riunioni, poi, quello che fa l'introduzione traccia pure le conclusioni. Non c'è mai tempo per intervenire, per discutere. Nel Pd è tutto così asettico, disciplinato... No, così non va più bene.

il Riformista 9.12.08
Caro Veltroni, dovresti rileggere almeno Orwell
di Andrea Romano


Così scriveva in una Londra sotto le bombe: «La principale attività degli scrittori di sinistra è un criticare cavilloso che si trasforma in una sorta di delusione quando l'Inghilterra ottiene una vittoria, perché contraddice le loro previsioni»

Ognuno si sceglie i modelli che preferisce, spesso senza confessarlo nemmeno a se stesso. E chiunque si trovi a scrivere qualcosa (non necessariamente un romanzo, basta una notizia d'agenzia o una rubrichetta come questa) in cuor suo vorrebbe incarnare qualche penna molto più celebre. Io ho sempre voluto essere George Orwell. Né più né meno che lui: l'autore della "Fattoria degli Animali" e di "1984", ma soprattutto il saggista immortale che ha raccontato il socialismo, gli intellettuali e l'Inghilterra del Novecento.
Tra me e me l'ho sempre saputo e oggi voglio confessarlo pubblicamente. So bene di espormi al ridicolo ma non posso farci niente. Ho anche un'attenuante, che spero verrà tenuta in debito conto. Il vero nome di Orwell era Eric Arthur Blair e si capisce che la mistica circostanza mi ha impedito da tempo di resistere alla tentazione.
In ogni caso avevo quasi dimenticato questa mia perversione, come fortunatamente tendo a fare di tanto in tanto, quando mi sono imbattuto in alcuni passaggi dei suoi scritti di guerra. In particolare le sue corrispondenze per la Partisan Review, rivista della sinistra libertaria e anticomunista statunitense per la quale scrisse dal 1941 al 1946. Nel gennaio 1941, sotto le bombe tedesche e ben prima che le sorti del conflitto volgessero a favore della Gran Bretagna, Orwell raccontava ai suoi lettori americani l'umore che si respirava nelle strade di Londra e nei circoli che si trovava a frequentare.
E in una pagina scriveva: «La principale attività degli scrittori di sinistra è un criticare cavilloso che si trasforma in una sorta di delusione quando l'Inghilterra ottiene una vittoria, perché contraddice le loro previsioni. Durante l'estate l'intellighenzia di sinistra era totalmente disfattista, molto più di quanto si permettesse di dimostrare sulla stampa. Nel momento in cui sembrava probabile l'invasione dell'Inghilterra, un noto intellettuale di sinistra in realtà avrebbe voluto scoraggiare la resistenza di massa, sostenendo che i tedeschi sarebbero stati più indulgenti se non avessero incontrato opposizione. Era anche allo studio una mossa, in previsione della futura occupazione nazista, che avrebbe convinto la sezione speciale di Scotland Yard a distruggere i dossier politici che sicuramente possiede su molti di noi. Tutto questo in forte contrasto con la gente comune, che o non si era resa conto del pericolo incombente sull'Inghilterra o era determinata a resistere fino all'ultima trincea» (da George Orwell, "Diari di guerra", Mondadori 2007, pagina 246).
Non so cosa ne avrebbe pensato Eric Blair, ma quel disfattismo mi ricorda da vicino la retorica della questione morale che si respira in questi giorni ai vertici della sinistra italiana. Soprattutto nel suo contrastare il buon senso della "gente comune", che nell'Inghilterra del 1941 era pronta a resistere in trincea contro un'eventuale invasione tedesca e che nell'Italia di oggi si accontenterebbe del rinnovamento politico e personale del principale partito d'opposizione. Sarebbe tra l'altro un'operazione assai meno rischiosa del combattere con le armi in pugno contro i nazisti, ma come quella avrebbe in sé il potere di contrastare una deriva impotente. Perché continuare a dirsi diversi e a reclamare la dimostrazione di quella diversità contro i guasti prodotti dalla mancanza di ricambio equivale ad attendere la catastrofe con le mani in mano.
Come gli "intellettuali di sinistra" che Orwell tanto detestava, e che oggi chiamiamo "opinion makers", abbondano coloro che bacchettano il Partito democratico per la mancanza di discontinuità dal berlusconismo e per la contiguità con le perversioni del potere. Senza accorgersi che la più autentica discontinuità sarebbe il coraggio di non dare niente di scontato per quanto riguarda la propria indole morale (imponderabile e ininfluente se non in privato) ma di pretendere il massimo della responsabilità nell'esercizio della leadership politica. E dunque il coraggio di mettersi in discussione e di restituire la parola alla vita democratica di un partito che si dice democratico, lasciando la sedia quando si è stati sconfitti o quando non si ha più niente da dire. Il risultato è invece il disfattismo di chi, ai vertici del Pd, vorrebbe lasciare le cose esattamente come stanno, cavandosela con qualche ramanzina personale unita alla promessa che prima o poi sarà ritrovata la strada della superiorità morale. Pensando ancora una volta che è meglio perdere che perdersi, mentre si avvicinano le bombe della prova elettorale.

il Riformista 9.12.08
Se scoppia la guerra tra Rep. e Pd
Lo scontro impari tra il Pd e il partito di Repubblica
di Giampaolo Pansa


Prima o poi, anche Veltroni andrà a incatenarsi davanti a Repubblica, a Roma. Visto il successo mediatico del lucchetto di Leonardo Domenici, sindaco di Firenze, Veltroni farà come lui quando il giornale di Ezio Mauro smetterà di sostenere il Pd con l'entusiasmo di oggi. A quel punto Walter non potrà che lucchettarsi e protestare.
Ma credo che i suoi lamenti non serviranno a nulla.
Schierarsi a favore di un partito non è mai una buona scelta per un quotidiano generalista come Repubblica. Il risultato è un prodotto monocorde, prevedibile, noioso. Quand'anche si scoprisse che il vertice del Pd fa il narcotraffico, i lettori sanno che il giornale non smetterebbe di appoggiarlo. Mentre i fondisti alla Giannini e i rubrichisti come Messina, Longo, Serra e Maltese seguiterebbero a cantare la gloria del partito di Super Walter e a sparare contro il Caimano delle Libertà.
Tuttavia questo rapporto amoroso non è destinato a durare ancora per molto. L'editore assiste sempre più perplesso al corso politico del proprio giornale. "Repubblica" sta perdendo lettori in misura superiore agli altri quotidiani del suo rango. E non è arbitrario pensare che l'emorragia dipenda soprattutto dal pensiero unico di largo Fochetti.
Tutti gli editorialisti la vedono nello stesso modo e scrivono il medesimo articolo. Le opinioni in contrasto con il coro non sono ammesse. Anche il lettore più distratto sa in partenza che cosa leggerà l'indomani. Un bel guaio in questi tempi di crisi, quando è facile rinunciare all'acquisto di una testata che non ti dà nessun brivido. A cominciare dal brivido dell'imprevisto.
In più oggi "Repubblica" rischia di perdere per strada i lettori di stretta osservanza diessina e adesso democratica. La questione morale sta devastando il Pd. Molte procure hanno aperto indagini su esponenti del partito di Veltroni. Tutte queste inchieste generano verbali e intercettazioni, pane quotidiano per i giornali. La direzione di "Repubblica" non rinuncerà mai a pubblicare quanto hanno scoperto i suoi cronisti giudiziari, eccellenti cani da tartufo. Gettando nello sconforto chi è sempre stato convinto della superiorità etica della sinistra. Ma dallo sconforto al rifiuto di leggere, il passo può essere breve.
Sto descrivendo uno scenario che in parte abbiamo già sotto gli occhi, grazie alle catene del sindaco di Firenze. In questa vicenda folle, s'intravede quanto avverrà. E che oggi possiamo definire la nemesi non di un potere, ma di due poteri.
Il primo è quello di un giornale diventato l'alleato insostituibile di un partito. Per citare un esempio solo, l'edizione toscana di Repubblica è sempre stata il sostegno robusto dei Ds e oggi del Pd. Non era una scelta obbligata neppure in una regione rossa. Ma così è avvenuto, e non solo per volontà del responsabile dell'edizione, Pietro Jozzelli. Nessun capo redattore può muoversi come si è mosso lui senza il placet del direttore, ossia di Mauro.
A Firenze questo ha reso Repubblica un potere alla pari del sindaco Domenici e del governatore toscano Claudio Martini. Dall'alleanza fra il giornale e la sinistra locale è nato un asse informativo-politico che ha reso intoccabile la giunta fiorentina. Ma dopo anni e anni di cordiale amicizia, nelle ultime settimane questo blocco si è rotto su un terreno delicato e scivoloso: l'inchiesta giudiziaria sugli affari edilizi del gruppo Ligresti e sulle presunte connivenze di esponenti del Pd.
Del resto, che cosa poteva fare Repubblica? Lasciare che le carte e le intercettazioni di quell'indagine finissero in bocca alla Nazione e all'edizione fiorentina del Corriere della Sera? Il giornale di Mauro ha deciso di no. E per la prima volta è entrato in conflitto con il Pd, il potere travolto dall'inchiesta giudiziaria.
Il partito di Veltroni si è visto ripudiato di colpo da Repubblica. La crisi da abbandono ha trovato la propria raffigurazione nel sindaco Domenici che s'incatena di fronte al giornale traditore. E urla contro il palazzo dove si è stabilito di lasciarlo alla mercè degli accusatori. Anzi che è diventato uno dei suoi persecutori.
Il risultato è uno scontro impari, perché Repubblica, oggi, sembra pronta a sopportare anche cento sindaci rossi in catene. Lo testimonia la replica secca del giornale ai lamenti di Domenici. In poche righe, il palazzo di largo Fochetti ha bollato come «una piccola oligarchia» i dirigenti del Pd fiorentini coinvolti nell'inchiesta. E ha garantito ai lettori che continuerà a scoprire gli altarini della sinistra a Firenze e altrove.
A questo punto gli sviluppi possibili sono due. Il potere perdente, quello del Pd fiorentino e nazionale, potrebbe dichiarare guerra al giornale di Mauro. Per esempio rivelando i retroscena della lunga alleanza fra Repubblica e la sinistra, non solo a Firenze. Ma è un'ipotesi irrealistica, viste le condizioni disastrose del partito di Veltroni.
La seconda ipotesi è che Repubblica, soprattutto per volere dell'editore, dichiari sciolta un'alleanza che ormai può recarle soltanto danno. Se questo accadrà, si riapriranno molti giochi nella stampa italiana, un mondo in crisi per le arcinote ragioni. Dunque, non resta che vedere come finirà.

Caro Augias,
le scrivo colpito dalla lettera di Maria Annasi sulla malattia del suo (presumo) figliolo. Nella sua risposta al grido della signora, lei cita Basaglia, esponente di spicco di quella "nefasta" (la definizione non è mia ma di Jervis ) corrente che prese il nome di "Antipsichiatria" il quale, tra le altre cose afferma:«..In noi la follia esiste ed è presente come la ragione... etc.» Affermazione terribile e del tutto falsa. Terribile perchè la tragedia della pschiatria italiana (e non solo), incapace da sempre di sviluppare ricerca, nasce su affermazioni come questa. Falsa perchè nell'uomo non convivono malattia e sanità; la malattia mentalle (nè più nè meno di quanto accade per le malattie fisiche) insorge per cause esterne e toglie la sanità che sarà recuperata solo togliendo la malattia. Se si torizza che la malattia mentale è natura umana non resta che assistere i più sfortunati, quelli cui la stampella della ragione non ha fornito sufficiente controllo. I manicomi erano lager, è vero, andavano chiusi ma non andava chiusa la ricerca delle cause profonde (inconsce) che generano malattia mentale. Si può, però, non lasciare soli i malati e i loro disperati parenti, dicendo quello che invece altri, (mi riferisco in particolare all'Analisi Collettiva di Massimo Fagioli) non credendo alla malattia mentale come peccato originale e destino ineluttabile dell'uomo, fa da decenni; portando avanti una ricerca positiva e riuscita sull'origine inconscia della malattia mentale e sulla conseguente cura d'essa. Per la guarigione.
Un carissimo saluto
Claudio Alvigini

Longo Sofista, Le avventure pastorali di Dafni e Cloe, Garzanti Milano,1997
Longo Sofista, Dafni e Cloe, Oscar Mondadori Milano, 1991


Dafni e Cloe è una favola pastorale scritta probabilmente nel II secolo d.C., lo stesso in cui Apuleio scrisse Le metamorfosi.
E’ la storia d’amore limpida e sensuale di due trovatelli, adottati neonati da pastori di Lesbo, l’isola che fu culla della lirica d’amore dell’età arcaica. Scritta in lingua greca, evoca nello stile semplice e musicale atmosfere di incanto primitivo. Sullo sfondo propizio della natura rigogliosa dell’isola si svolge la lenta e progressiva scoperta dei turbamenti del desiderio da parte dei due adolescenti, cresciuti insieme a pascolare greggi di pecore e capre. Assieme alla Favola di Amore e Psiche, Dafni e Cloe costituisce un prezioso esempio di quello che è stato definito un romanzo di iniziazione ai “misteri” dell’amore eterosessuale, memoria di un mondo arcaico libero, senza padri e senza madri, travolto in epoca classica dall’assai diversa concezione di eros della tragedia, del platonismo e poi del cristianesimo.

« ...si sedettero sul tronco di una quercia e controllarono che Dafni, in seguito alla caduta, non avesse qualche parte del corpo sporca di sangue. Non era ferito né insanguinato, ma aveva i capelli e il resto del corpo incrostati di terra e di fango. Decise dunque di farsi il bagno...
Una volta giunto in compagnia di Cloe alla grotta delle Ninfe, le diede da tenere la tunica e la bisaccia, poi in piedi, davanti alla fonte, si lavò i capelli ed il corpo per intero. I suoi capelli erano neri e folti, il corpo bruciato dal sole: si sarebbe potuto pensare che avesse quel colore scuro perché i capelli facevano ombra. A Cloe, intenta a guardare, Dafni sembrava bello, e poiché era la prima volta che le appariva così, attribuì al bagno il motivo di quella bellezza. E mentre gli lavava la schiena, sentendo la carne cedere morbida al tocco delle sue dita, spesso, senza che lui se ne accorgesse, palpava la propria per sentire se fosse più tenera. Il sole era ormai al tramonto: i due giovani ricondussero allora le greggi all’ovile, mentre Cloe non provava altra sensazione che il desiderio di rivedere Dafni farsi il bagno. Il giorno seguente, giunti al pascolo, Dafni si sedette sotto la solita quercia e iniziò a suonare, sorvegliando nel contempo le sue capre che, accovacciate ai suoi piedi, sembravano quasi ascoltare la musica; Cloe intanto, seduta lì vicino, teneva lo sguardo rivolto alle pecore, ma ancor più aveva occhi per Dafni: e di nuovo le pareva bello mentre suonava, e per la seconda volta si convinse che causa di quella bellezza fosse la musica. Così, dopo di lui, prese anch’essa il flauto, per vedere se diventava bella pure lei, e lo indusse a farsi un altro bagno e lo guardò mentre si bagnava; dopo averlo osservato, lo toccò con le dita, poi, congedandosi un’altra volta da lui, gli fece mille complimenti.
Quei complimenti erano già un primo segno d’amore. Ciò che provava allora non lo capiva, giovane com’era e cresciuta in campagna: non aveva mai sentito pronunciare la parola “amore”» (libro I, capp. 12-13)

(scheda di Noemi Ghetti)

Il Venerdì di Repubblica 5.12.08
Un piccolo film prima stroncato e ora celebrato

di Irene Bignardi
Escono in questi giorni in dvd tre film dagli opposti destini cinematografici...
Il terzo (ancora 01 Distribution) è Nessuna qualità agli eroi, il film che Paolo Franchi ha presentato l'anno scorso alla Mostra del cinema di Venezia. Il film ha avuto, in mezzo al cancan mediatico e alle luci di quella corrida che sono tutti i festival, un'assurda accoglienza negativa, per essere poi recuperato e rivalutato più tardi, quando si è placata la marea delle polemiche, anche bislacche (perché da noi si continuano a sottolineare alcuni momenti legati al sesso, dalla "scopata senza cerniera" di Caos calmo al nudo di Elio Germano nel film di Franchi?). La critica, che si era accanita anche contro alcune dichiarazioni del regista si è, per così dire (giustamente) pentita, restituendo al film quello che è del film: uno stile, una visione, un modo di girare di rara intensità tragica...
(Citando i giudizi dei critici), vi posso dire che Nessuna qualità agli eroi (storia delle vite incrociate di un ragazzo che odia suo padre e di un giovane uomo che non riesce a diventare padre) è un noir kafkiano e dostoevskjiano, vola alto, traghetta il nostro cinemanel mondo adulto e, se racconta il tema del padre, così lontano dai canoni del nostro cinema per lo più adolescenziale, è anche quasi un thriller alla Delitto per delitto.
Aggiungo di mio che è elegante, forte, unico nel nostro panorama recente. La parola alla giuria popolare.

lunedì 8 dicembre 2008

Repubblica 8.12.08
La Grecia e l’ombra nera della crisi
di Sandro Viola


Fra due giorni l´annunciato sciopero generale diventerà una giornata cruciale per il futuro del Paese

I gravi disordini che agitano da due giorni la Grecia, rappresentano la prima reazione violenta verificatasi in Occidente a causa della crisi economico-finanziaria e delle misure restrittive adottate da vari governi.
La Grecia era sembrata, specie dopo il suo ingresso nell´Euro, un paese abbastanza progredito dopo il suo lungo passato di povertà. Non proprio solido, ma capace di tenersi in piedi. E anche politicamente, l´epoca del populismo sfrenato degli anni Novanta, del muro contro muro tra sinistra e destra, sembrava ormai trascorso.
Gli scontri tra manifestanti e polizia di sabato e di ieri sono quindi, da un lato, una brutta, inquietante sorpresa, e dall´altro il segno di come la crisi possa pesare, agitandoli fino alle battaglie di strada, i paesi economicamente più deboli. Ed è quindi nel contesto della crisi e delle paure che essa suscita nelle classi più disagiate, che va posto il tragico episodio di sabato sera, quando un agente di polizia ha ucciso con un colpo di rivoltella un ragazzo di quindici anni.
Le manifestazioni erano iniziate nel pomeriggio, e avevano subito assunto una violenza mai vista in Grecia dall´autunno ´73, dai giorni in cui gli studenti del Politecnico, al costo terribile d´una quarantina di morti, avevano fatto cadere la dittatura dei colonnelli che durava dall´aprile ´67. Soprattutto nel quartiere di Exarchia, dove si trovano alloggi, caffè e librerie frequentate dai giovani ateniesi, gli scontri tra manifestanti e polizia s´erano fatti già sabato durissimi. E l´uccisione dell´adolescente aveva poi messo fuoco alle polveri, rendendo la battaglia ancora più accanita e spostandola da Exarchia (un quartiere recentemente risanato, divenuto uno dei palcoscenici della notte ateniese) verso il centro della città. Vetri delle banche infranti, negozi saccheggiati, incendi d´automobili e cassonetti.
Ma si trattava ancora di un inizio, perché il peggio è venuto ieri. Mentre il centro di Atene era coperto dai fumi degli incendi appiccati con il lancio di bottiglie Molotov, le manifestazioni si sono estese in varie città del paese.
A Salonicco è stato assaltato il municipio, a Patrasso ci sono stati una ventina di feriti tra dimostranti e forze dell´ordine, gravi disordini si sono avuti anche a Iannina. Come nelle manifestazioni del ´73 e dell´85 (quando morì un altro studente) si può forse parlare di moti studenteschi, visto che grossi gruppi di manifestanti si sono asserragliati come allora negli edifici del Politecnico. Ma è probabile che agli studenti - che protestano, anche lì, per i tagli alla spese per l´istruzione - si siano aggiunte col passare delle ore altre categorie di giovani: disoccupati, precari appena licenziati, agitatori.
Il ministero degli Interni il cui titolare, Prokopis Pavlopulos, aveva già sabato notte presentato le dimissioni, respinte dal primo ministro Costas Karamanlis, parla d´un movimento anarchico e di piani prestabiliti, non improvvisati, per scuotere alle radici la stabilità politica greca. Ed è vero che la presenza d´un nucleo anarchico molto agguerrito era stato accertato all´inizio dei Duemila, con un clamoroso processo che aveva messo in luce dopo molti anni da chi fossero partiti i numerosi attentati contro i rappresentanti degli Usa (addetti militari, consiglieri culturali) ad Atene. Ma la versione del gruppo anarchico all´attacco, soffre della sospetta frettolosità con cui le polizie usano indicare, nei momenti difficili, un capro espiatorio.
Certo, la sinistra greca non dimentica che la dittatura dei colonnelli venne incoraggiata nel ´67 dalla Cia, e infatti l´antiamericanismo è ancora molto diffuso tra i giovani. Ma per capire se c´è un preciso orientamento, o addirittura una regia politica, nei disordini di queste due drammatiche giornate greche, bisognerà ancora attendere. Il fatto è che l´eruzione della violenza avviene sullo sfondo d´una profonda fragilità delle istituzioni, con il governo Karamanlis che si regge in Parlamento su un solo voto di maggioranza, ed è stato investito nei mesi scorsi dai sospetti di gravi scandali finanziari. Né questo è tutto. Per il 10 dicembre, fra due giorni, è infatti convocato dai sindacati uno sciopero generale contro il peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori. Il prossimo mercoledì la Grecia potrebbe perciò vivere una giornata cruciale, la prima profonda convulsione in Occidente riferibile alla bufera economica che stiamo vivendo.

Repubblica 8.12.08
La crisi interna
Parla l'ex leader del Partito socialista Mihalis Hrisohoidis che ha guidato il ministero degli Interni
"Temo un ritorno al regime dei colonnelli"
Il governo ha voluto ghettizzare l'estrema sinistra, non c´è un piano per affrontare il malessere crescente
di Cristina Nadotti


«Andrà sempre peggio, la situazione è esplosiva. La Grecia rischia di tornare ai tempi in cui i cittadini vedevano un nemico nelle forze di polizia». Mihalis Hrisohoidis è stato segretario generale del Pasok e ministro dell´Interno fino alle elezioni del settembre 2007. Ora teme il ritorno alla Grecia dei colonnelli.
Che cosa ha portato ai disordini di questi giorni?
«Il governo ha voluto ghettizzare l´estrema sinistra e ne ha fatto il capro espiatorio di ogni disordine o problema. Non c´è stato alcun piano operativo per affrontare il malessere crescente, si sono individuate alcune aree politiche, soprattutto quella anarchica, e le si è indicate come il pericolo numero uno. Basti pensare che l´organismo preposto alla lotta al terrorismo, che era riuscito ad ottenere risultati importanti contro la rete internazionale di attentatori, si occupa adesso di fare indagini sugli anarchici».
Ritiene che il poliziotto abbia sparato seguendo indicazioni dall´alto?
«No, ma è chiaro che se il governo individua una parte politica come pericolosa, le forze dell´ordine agiscono di conseguenza. Il poliziotto non aveva ordini precisi, ma ha seguito il vecchio orientamento per cui le forze dell´ordine sono contro i cittadini e non al loro fianco. Da ministro dell´Interno avevo cercato proprio di cambiare questo atteggiamento, favorendo il dialogo perché la responsabilità dei disordini e delle azioni contro il bene comune ricadesse sui singoli individui e non sugli schieramenti politici. Adesso tutto sarà vanificato».
Da cosa nascono le proteste?
«La situazione delle nostre università è simile a quella degli atenei italiani. Sono istituzioni vecchie, che non sanno dare ai giovani le risposte e l´istruzione che serve. Inoltre chi è sceso in strada sa cosa sta accadendo nel resto dell´Europa e, anche se la crisi non ha ancora investito in pieno la Grecia, ha paura e vuole mostrare dar voce al malcontento generale. Coinvolti nei disordini ci sono gli emarginati della società, quelli che hanno più paura per il futuro e ai quali il governo non dà alcuna risposta».
Cosa teme possa accadere nei prossimi giorni?
«Le proteste si estenderanno in altre università e ho paura che la situazione possa degenerare ancora durante il funerale del ragazzo ucciso. Il governo si sente colpevole perché ci sono stati molti danni e non è riuscito a proteggere la proprietà dei cittadini. Sono pessimista, se non si cercherà un dialogo, se si reagirà solo con intransigenza, la Grecia si troverà sull´orlo di una crisi senza precedenti».

Repubblica 8.12.08
Allarme di uno studio inglese: "Cambia la natura del maschio"
Ciao, ciao maschio lo smog minaccia il potere della virilità. Il potere ora è femmina
di Enrico Franceschini


Dagli uccelli ai mammiferi fino all´uomo: il sesso sta mutando per colpa dell´inquinamento Pene sempre più piccolo, ermafroditismo, sterilità crescente. L´allarme degli scienziati
Gli effetti su balene, orsi, daini e coccodrilli. Ma anche la nostra specie è a rischio Calano gli spermatozoi

CIAO maschio, stai diventando una maschia. Non è una battuta di spirito. È la conclusione del più ampio studio mai condotto sul cambiamento di genere sessuale, da cui risulta che l´esposizione a una serie di agenti chimici ha "femminizzato" gli esemplari maschili di ogni classe di vertebrati, dai pesci ai mammiferi, compreso l´uomo.
Gli studiosi hanno compilato un elenco di daini senza testicoli, pesci maschi che ovulano, orsi ermafroditi, alligatori con il pene sempre più piccolo, orche e balene a corto di spermatozoi. La ricerca afferma che il fenomeno minaccia di mutare precipitosamente il corso dell´evoluzione, rischia di provocare la scomparsa di numerose specie animali e fa suonare un campanello d´allarme anche per gli esseri umani. «Se vediamo problemi di questo tipo negli animali selvatici, dobbiamo preoccuparci seriamente che qualcosa di simile stia accadendo a una rilevante proporzione di uomini», dice il professor Lou Gillette della Florida University, uno degli scienziati coinvolti nello studio.
Commissionato dalla ChemTrust, un´associazione britannica che si batte per denunciare gli effetti nefasti dell´inquinamento chimico, e anticipato ieri dal quotidiano Independent di Londra, il rapporto riunisce i risultati di oltre 250 studi accademici sull´argomento condotti in tutto il mondo. Si concentra principalmente sugli animali che vivono in libertà, ma cita anche casi specifici riguardanti l´uomo, come una ricerca della University of Rochester che ha dimostrato come i bambini nati da madri con un aumentato livello di ftalato, un acido chimico, hanno maggiori probabilità di avere il pene più piccolo e i testicoli che non scendono. Altre ricerche di questo tipo hanno evidenziato che i maschi di madri esposte a certi agenti chimici crescono col desiderio di giocare con le bambole e col servizio da tè invece che con giocattoli «maschili». Inoltre varie comunità inquinate con fattori chimici ritenuti fonte di cambiamento di genere sessuale, in Canada, in Russia e in Italia, hanno dato nascita a un numero di femmine doppio della norma. Per tacere del fatto che il numero di spermatozoi sta scendendo su tutta la linea. «Sommando tutti questi dati», commenta il professor Nil Basu della Michigan University, «abbiamo prove piuttosto evidenti degli effetti che esistono anche sull´uomo».
Ma i dati sugli animali sono ancora più impressionanti. Il rapporto parla di coccodrilli maschi, esposti a pesticidi nelle paludi delle Everglades in Florida, con un minore livello di testosterone, un maggiore livello di estrogeni, anomalie nei testicoli, pene più corto del normale e problemi di riproduzione. Parla di maschi di tartaruga nella regione dei Grandi Laghi con caratteristiche genitali femminili. Rivela che a due terzi dei daini dell´Alaska non scendono i testicoli, che al Polo sono stati trovati orsi ermafroditi, e quelli che restano maschi hanno uno sperma ridotto e il pene più piccolo. Metà dei pesci di sesso maschile nei fiumi britannici hanno un´ovulazione nei testicoli. Per tutto questo, il rapporto accusa più di 100 mila agenti chimici, presenti nel cibo, nei prodotti elettronici, nei cosmetici, nei pesticidi, che «indeboliscono» il genere maschile, femminizzandolo.

Repubblica 8.12.08
Fontana. Il giocoliere del Novecento

di Fabrizio D'Amico

Ogni dato cromatico attinge a un concetto. Dalla nudità al barocco
Le sale del palazzo Ducale dedicate ora al nero, ora al bianco, ora all´oro al giallo e al rosso
Una rassegna a Genova privilegia il tema del colore così come lo ha interpretato uno dei grandi del secolo scorso

GENOVA. «Un´opera che detiene (e impone) il silenzio in chi la considera, come me, non un argomento e tanto meno un pretesto sul quale discutere, ma un´isola da avvistare e contemplare a distanza, dove sia opportuno e riguardoso astenersi dal fare commenti: un approdo inaccessibile», scrive Paolini. E Zorio: «È leggero, è profondo, è esploratore di pianure curve, è forgiatore di vasi inutili, è la clessidra che inverte il tempo, è amico della terra, è amico dell´acqua». O Mattiacci: «Il bello è che è sempre sorprendente». E ancora, insieme alle loro, altre brevi parole di tanti artisti, di tante patrie e generazioni: parole diverse, ma tutte emozionate al ricordo.
Sono raccolte, quelle testimonianze, nel catalogo della mostra («Fontana. Luce e colore», a cura di Sergio Casoli e Elena Geuna, catalogo Skira), aperta a Palazzo Ducale fino al 15 febbraio 2009, che Genova dedica al più grande artista italiano della seconda metà del ventesimo secolo. Raccolte a dire quanto grande e molteplice sia stato il lascito di Fontana alla pittura, e alla scultura, d´ogni latitudine. Accolto con animo trepido o sognante, quel lascito, memore («è stato un padre», scrive ad esempio Arnaldo Pomodoro), a volte quasi sgomento, ma soprattutto come un esempio gravido ancora di futuro.
È stata un´idea giusta dei curatori, raccogliere queste tanto diverse parole; come giusta è la mostra che Genova ha promosso, e che cade quasi per caso in giorni strani, rannuvolati, forse pericolosi per l´arte contemporanea nel nostro paese. Strano paese, detto per inciso: che si batte da tempo, mettendo in campo tutte le sue sparse energie (quasi mai statuali, purtroppo), per un riconoscimento internazionalmente più equo della propria creatività, e poi si dà allegramente la zappa sui piedi e propone, tout court, di abolire il contemporaneo.
Allora alzare oggi, un´altra volta, la bandiera di Fontana non risulterà pleonastico né ridondante. Rivolgersi ancora a lui, è andare a un porto sicuro, ormai tetragono alle mode, agli scandali, all´insipienza di chi ha preteso che l´età dell´oro finisca, da noi, con Tiepolo. Nel contempo, si riscopre in Fontana più che una roccia immutabile, una miniera infinita. Vi si troveranno materia e idea, ingombro e rarefazione, turgore e trasparenza, rigoglio e asprezza, prassi e progetto, nudità e incanto: stretti assieme, senza ansia di rigore linguistico.
Quante secolari antinomie ha incarnato e poi disperso, quante aporie ha frastornato, Fontana: che è stato insieme laico e sacrale, dissacratore e custode, memore e nuovissimo, classico, neoclassico, concettuale, futurista, barocco. «Come di fronte a un giocoliere», diceva Edoardo Persico di sentirsi dinanzi alla sua opera, già ai primi anni eroici della galleria del Milione e del primo avvio dell´astrattismo italiano, nella Milano anni Trenta. Poi tanti decenni d´intenso lavoro sono venuti: ad Albissola e a Sèvres, dove egli apprese quella tecnica ceramica praticata intensamente fino al ´49, ma che mai avrebbe del tutto accantonato; in Argentina, dove nacque una prima formulazione teorica dello spazialismo; poi ancora a lungo a Milano, fino alla morte occorsa nel 1968. Un giocoliere - alle volte gioioso, alle volte malinconico, come tutti i giocolieri che si rispettino - perfettamente consapevole che il suo andare senza bussola, senza un ordine precostituito, senza gerarchia, l´avrebbe posto a rischio dell´incomprensione; ma disposto ogni volta a sacrificare il rigore cui avrebbe potuto facilmente attingere per correre l´alea di una vertigine creativa cui abbandonarsi, e ove quelle antinomie che il suo lavoro aveva evocato avrebbero infine imparato a convivere, nutrendosi l´una dell´altra, in un rapporto osmotico di reciproco scambio vitale.
È stato così ricco e molteplice, Fontana, che tante mostre ne hanno sottolineato ora l´una ora l´altra natura e vocazione: s´è scelto allora di avvicinare il Fontana "spaziale" o quello "barocco", quello più devoto alla trasparenza della luce ovvero al prestigio della materia, e così via. Per poi scoprire, infine, che nessun modo ne esauriva interamente le ragioni, e che Fontana rimaneva soprattutto il luogo della meraviglia e della complessità.
Anche la mostra odierna ha un tema prevalente che sviluppa, ed è quello del colore: le grandi sale del Palazzo Ducale sono dedicate, ciascuna, a uno dei colori più amati da Fontana: il nero, il bianco, l´oro, il giallo, il rosso. Accanto ad esse, la Cappella accoglie le Nature in terracotta e in bronzo del ´59-´60, e l´"acquario" ospita numerose le splendide ceramiche di soggetto marino: per lo più compiute appena varcata la metà degli anni Trenta, esse furono lette con straordinaria preveggenza già nel ´39 da Argan, che riconosceva in esse, e nel loro riflettersi e lampeggiare attorno nello spazio circostante, un indizio della vocazione profonda (né ancora allo stesso Fontana emersa a livello teorico), appunto "spaziale", dell´artista. Argan parlava anche, in quel suo saggio, del colore delle piccole sculture, che «non è un fenomeno di superficie, una determinazione o una variazione tonale del chiaroscuro inerente alla solidità materiale della cosa scolpita, ma è il principio plastico, spaziale, della scultura».
Dopo d´allora, il colore avrebbe attinto tante valenze: da quella della nudità concettuale insita nel bianco, a quella barocca dell´oro, a quella prestigiosa e clamante del rosso, a quella d´un rosa nuovissimo per la pittura, inatteso e quasi disagiato. Ma sempre sarebbe rimasto soprattutto, il colore, quel che lo storico, in anni così lontani, aveva intuito: non una proprietà della materia, asserita una volta per tutte e ad essa connaturata, ma uno spalto da cui l´opera potesse slanciarsi oltre i propri confini, riflettendo nello spazio la sua mutevole eco.

Repubblica 8.12.08
La lettera. Storia dell’arte maltrattata
di Giulia Maria Crespi


Gentile Ministro Gelmini, perché decine di milioni di turisti vengono ogni anno in Italia? Oltre che per godersi il dolce clima e per ammirare quanto rimane del nostro paesaggio, i turisti vengono per vedere la nostra archeologia, i palazzi, i nostri musei. Ma per poter amministrare e conservare con competenza il nostro patrimonio, non soltanto sono necessari esperti studiosi dell´arte, ma la stessa storia dell´arte deve essere conosciuta e assorbita dall´intero settore di popolazione che si occupa del bene pubblico o che ha anche marginalmente da fare in questo settore perché nulla è separato e tutto è collegato. Mi riferisco a politici, assessori e tecnici, come pure imprenditori, finanzieri, uomini di chiesa e parroci, ecc. Ed è soltanto attraverso lo studio scolastico che la cultura artistica può penetrare e far parte del Dna di tutti gli italiani.
Questa è la ragione per cui Le chiediamo di assicurare agli studenti un insegnamento della storia dell´arte adeguato! Ci riferiamo in primo luogo agli studenti del liceo classico, scientifico e artistico, la cui formazione non può prescindere da tale insegnamento. L´allungamento dell´ora di storia dell´arte anche ai primi due anni del liceo classico, così come Lei ha indicato, è intanto un primo, indispensabile passo di questo percorso, ma deve necessariamente essere accompagnato da un ulteriore incremento del monte ore totale.
Con altrettanta sollecitudine, ci preme sottolineare la necessità di introdurre la storia dell´arte anche nelle scuole tecniche legate ai temi artistici e ambientali, quali Grafica e Comunicazione e Costruzioni, Ambiente, Territorio: anche loro sono tra quelli che domani verranno chiamati in prima persona a difendere i principi enunciati nell´art. 9 della Costituzione, e potranno farlo consapevolmente solo se educati alla conoscenza e alla tutela storico-artistica. Dobbiamo ben sapere chi era Churchill o chi era Tarquinio Prisco o Guido Guinizzelli, ma è altrettanto indispensabile che conosciamo il nome e l´opera di Palladio e Sansovino, di Hayez e De Pisis!
L´autrice è presidente del Fai, Fondo Ambiente Italiano

Corriere della Sera 8.12.08
Genealogie Da Napoleone al Generale all'attuale presidente: un saggio di Riccardo Brizzi e Michele Marchi
Democrazia alla de Gaulle eterna tentazione francese
Carisma mediatico e populismo: le radici del «modello Parigi»
di Massimo Nava


«Come volete governare un Paese che ha trecento formaggi?», si chiedeva il generale

Nessuna figura politica ha influenzato la storia contemporanea della Francia come Charles de Gaulle. Forse più di Napoleone I e Napoleone III, se i criteri di questa possibile classifica sono la durata nel tempo e l'attualità di un progetto di Stato e di governo. Morto de Gaulle, è rimasto il «gollismo» nelle istituzioni, nei cromosomi della destra, nella mentalità della maggioranza dei francesi, nell'eterno dibattito sul senso della Nazione.
E a distanza di quasi quarant'anni (il generale si spense nel 1970) continua a rinnovarsi una generazione politica di eredi, continuatori, simpatizzanti e imitatori, compreso l'ultimo presidente, Nicolas Sarkozy. Salito alla ribalta come uomo di rottura e profeta di un neoliberismo antitetico all'ultima vecchia guardia del gollismo (Chirac), il giovane Sarkozy ha cominciato, fin dagli ultimi giorni della campagna elettorale, a far propria la lezione del generale in vari ambiti economici, sociali e diplomatici, fino ad esaltarla recentemente, di fronte alla crisi finanziaria internazionale, per rimettere l'accento sul ruolo essenziale (addirittura sulla missione) dello Stato.
Per comprendere la continuità e l'attualità del gollismo che, almeno nella versione «sarkozista», comincia a trovare forti simpatie anche in Italia, giunge opportunamente in libreria il saggio di Riccardo Brizzi e Michele Marchi (Charles de Gaulle, il Mulino, pp. 246, e 18,50), ricercatori presso la facoltà di storia contemporanea all'università di Bologna.
Il libro è interessante perché, ripercorrendo in maniera agile la biografia e l'immenso materiale di memorie del generale, si concentra soprattutto sulle tappe fondamentali e sulle radici culturali di un progetto politico nato all'indomani della Resistenza, perseguito con altissimo spirito di servizio ed elaborato con il supremo scopo di garantire governabilità, stabilità e unità nazionale.
Se il semipresidenzialismo «alla francese», pur con correttivi e manchevolezze, funziona ancora oggi, al punto che trova sostenitori e potenziali imitatori anche all'estero (Italia compresa), le ragioni non vanno cercate nelle ambizioni personali di de Gaulle, bensì nelle sue intuizioni politiche, nella sua esperienza storica di combattente (a Verdun), resistente (Londra) e patriota, nella modernità del suo linguaggio. Fu infatti il primo leader mediatico, nel senso che oggi diamo a questo termine: l'uso della radio, l'avvento della televisione, il gusto per la battuta al momento giusto fecero del generale de Gaulle il primo autentico campione dell'opinione pubblica.
La grande operazione politica di de Gaulle — spiegano gli autori — fu quella di costruire un sistema che all'inizio sembrava ritagliato sulla sua persona e sul personale carisma e che subito dopo legittimò gli interpreti successivi, compreso un presidente di sinistra, François Mitterrand. L'uomo che aveva denunciato la rivoluzione istituzionale come «un colpo di stato permanente» si trovò perfettamente a suo agio come inquilino dell'Eliseo, al punto che molti critici gli attribuirono atteggiamenti da «monarca».
«Alla mia età — disse de Gaulle — non si possono avere mire dittatoriali». Eppure, per molto tempo, osservatori francesi e internazionali ritennero di vedere nel tentativo del generale una deriva autoritaria o addirittura l'anticamera del fascismo, associando l'immagine del militare a quella di uno Stato verticale e centralista per tradizione. Secondo gli autori, la storia recente della Francia e l'esperienza gollista dimostrano in larga misura il contrario.
Non soltanto de Gaulle legò in modo permanente le radici repubblicane all'antifascismo e alla Resistenza, ma inoltre il gollismo — o meglio la Costituzione della V Repubblica voluta dal generale — permise l'alternanza di governo e funzionò anche con la sinistra al potere.
Il fatto che la Francia abbia tratto grandi benefici dal proprio sistema (quando in altri Paesi è stato spesso il sistema a frenare sviluppo e modernizzazione) non impedisce naturalmente di vederne i limiti — già insiti nella concezione del generale — di cui in Francia si continua a discutere. Se oggi Sarkozy è a volte definito l'«omnipresidente» e se alcuni critici intravedono nel suo agire una deriva bonapartista (riferita al populismo di Napoleone III), ciò è dovuto, più che ai suoi comportamenti, in larga misura alla concezione stessa del sistema francese: l'unico — fra i sistemi democratici — a garantire ampi poteri decisionali e addirittura discrezionali al presidente, non soltanto in politica estera (come voleva de Gaulle), ma anche nelle nomine di sottogoverno e nell'apparato. L'unico, inoltre, a prevedere una figura di primo ministro che coordina l'attività di governo, ma che equivale a una sorta di segretario di Stato alle dipendenze di un Pontefice. Giustamente, si parla in Francia di «monarchia repubblicana» ed è probabile che anche de Gaulle tenesse conto della storia del Paese. Anche se non c'è «presidentissimo» che riesca a moltiplicare le licenze dei taxi o a garantire il servizio minimo nei trasporti in caso di sciopero..

Corriere della Sera 8.12.08
Lo storico «girotondino» «Da Blair in poi la forza di massa cede il posto allo staff del leader: con D'Alema andò così»
«Questo partito può finire come il Psi»
Ginsborg: nelle amministrazioni pd clientelismo e nepotismo, Cioni un uomo di destra
intervista di Aldo Cazzullo


FIRENZE — Paul Ginsborg è appena tornato nella sua casa d'Oltrarno, dopo quattro mesi a Berkeley. Ha davanti il titolo dell'Espresso — Compagni Spa — che ha fatto infuriare il sindaco di Firenze, e i quotidiani con la foto di Domenici in catene. Cultore di storia repubblicana, «ideologo» della fase nascente dei girotondi e protagonista dell'episodio-simbolo, la disputa con D'Alema al Palasport davanti a migliaia di fiorentini: «Vinsi io, 3 gol a 1. Anche se D'Alema forse non la pensa così».
Professor Ginsborg, Cordova dice al «Corriere» che gli scandali di oggi chiudono, sul versante sinistro, il cerchio di Tangentopoli. È così?
«Non c'è dubbio che la cronaca di questi giorni vada inquadrata in un contesto storico che comincia nell'89. Allora i postcomunisti non riuscirono ad elaborare un progetto forte che spezzasse l'intreccio tra l'azione politica e il clientelismo. Uno storico male italiano: il rapporto verticale tra patrono e cliente. Gli antichi romani l'avevano codificato. Andreotti lo teorizzò nel '57, quando disse che la domenica mattina, anziché riposare, lui e gli altri democristiani si prendevano cura delle famiglie disagiate».
La sinistra aveva un atteggiamento diverso?
«Non ho mai mitizzato il Pci. E non amo parlare di questione morale. Ma a sinistra questo male veniva studiato: penso al lavoro di Mario Caciagli su Catania, di Percy Allum su Napoli, di Amalia Signorelli sul Salernitano; Chi può e chi aspetta era il felice titolo del suo libro. E a sinistra c'era l'orgoglio della diversità, della fibra morale, della connessione tra etica e politica».
C'era. E adesso?
«Oggi il rapporto tra patrono e cliente non viene più studiato. In compenso, è fiorito. Il patrono non è più il proprietario terriero che dispone delle cose proprie; è il politico che dispone delle cose pubbliche. Anche molti politici di sinistra».
Berlusconi dice che la questione morale riguarda il Pd.
«Berlusconi è un grande patrono. Lo dimostra anche con il linguaggio del corpo: ha sempre le mani sulle spalle di qualcuno. Ma il clientelismo e il nepotismo si ritrovano anche nelle amministrazioni del Pd. E non vedo tensione su questo tema al suo interno. Neppure il Pd affronta il grave problema della forma e del ruolo dei partiti. Molti meno iscritti, molto meno consenso. Il partito di massa cede il posto allo staff del leader. Il primo è stato Tony Blair».
Si disse qualcosa di simile del governo D'Alema nel 2000, con Velardi e Latorre.
«L'impressione era quella. D'Alema aveva quell'atteggiamento. Ma non solo D'Alema. Se il centrosinistra non cambia direzione, può fare la fine dei socialisti craxiani negli anni '90».
Addirittura?
«Se il Pd non si apre alla democrazia partecipata, se non si rivolge ai cittadini e si limita a fare da mediatore, a tenere i contatti con i poteri forti economici, diventa indistinguibile dagli altri partiti. Il clientelismo di Cioni nei suoi meccanismi non è diverso da quello della destra».
Che succede a Firenze?
«Le racconto un episodio. Quando Domenici fu eletto, fondammo un comitato per lo sviluppo sostenibile dell'Oltrarno. Andammo dal sindaco, portammo proposte per migliorare il traffico e la vita. Lui sembrò disponibile. Distinse tra le cose da fare subito, quelle di medio e quelle di lungo termine. Decise la chiusura temporanea di due strade, un'ora al giorno, per fare andare i bambini a scuola. Buon inizio. Ma tutto finì lì. Fu commissionato a Carlo Trigilia un piano strategico per la città; ma nel 2005 l'intero comitato scientifico si dimise, e oggi l'inquinamento a Firenze è sopra il livello di guardia. Se non hai una visione complessiva della città, finisci per occuparti solo di edilizia, project-financing, poteri forti. Domenici si è comportato come gli altri politici di sinistra con cui abbiamo discusso, da D'Alema a Chiti: ascoltano; spesso ci danno ragione; e poi fanno come se nulla fosse stato. Un muro di gomma ».
Domenici si è incatenato sotto «Repubblica».
«Mi dispiace, ma non lo vedo come vittima. Preferisco prenderla con leggerezza. Non a caso si è incatenato a Roma; se l'avesse fatto a Firenze avrebbe violato il regolamento del suo assessore Cioni. Vietato disturbare la pubblica quiete, vietato esporre targhe e bacheche senza autorizzazione... C'è però una cosa che mi ha colpito molto del caso Domenici. Il cartello che inalberava».
«Sì alla difesa della dignità e dell'onorabilità».
«Ecco, la parola chiave è onore. Sento un'eco della vecchia Italia, della profonda cultura mediterranea. L'Italia ha grandi meriti che il mondo anglosassone non ha; ma nei Paesi anglosassoni non ci si appella all'onore maschile. Ci si difende laicamente in tribunale. La stessa eco la sento nel tragico suicidio di Nugnes: un'altra storia che ci riporta agli anni di Tangentopoli. Perché reagire così? Perché non dimostrare la propria innocenza, oppure patteggiare la pena? Siamo tutti esseri umani, non dei, e possiamo tutti sbagliare».
Lo scontro tra procure?
«Brutto. I giudici non dovrebbero comportarsi così. Molte cose nella magistratura come casta vanno criticate. Ma la sua autonomia è preziosa e va salvaguardata. E gestita in modo responsabile ».
Bassolino deve andarsene?
«Qualsiasi politico indagato, compreso Berlusconi, dovrebbe andarsene. Figurarsi quelli rinviati a giudizio ».
Dove sono però i girotondi? E che fine hanno fatto i «ceti medi riflessivi» da lei teorizzati?
«I ceti medi riflessivi non sono il Pensatore di Rodin. Si muovono. Ma faticano quando vengono sistematicamente irrisi, come fanno anche molti giornali. In tanti sono caduti nel cinismo, e non si impegnano più. Sarà difficile rianimarli, ma non impossibile».
Può riuscirci Di Pietro?
«Ho sempre pensato che Di Pietro doveva restare in magistratura. Ora ho cambiato idea. Non appartengo al gruppo di Travaglio, Flores, Di Pietro, ma condivido le loro battaglie. Voi giornalisti lo considerate noiosissimo, ma all'estero il conflitto di interesse resta il primo argomento quando si parla d'Italia ».
Quindi Veltroni non deve rompere l'alleanza?
«Veltroni ha già commesso un grave errore a rompere con la sinistra radicale. Ha ottenuto un vantaggio immediato. Ma poi la sua apertura a Berlusconi non ha portato a nulla. Ora è in arrivo una crisi economica globale di grande drammaticità. O il Pd trova una progettualità forte e ricostruisce un'alleanza alternativa; o entra in un governo d'emergenza nazionale, e allora diventa indistinguibile dalla destra».