mercoledì 10 dicembre 2008

l’Unità 10.9.08
Lo sciopero generale della Cgil interroga il Pd: partecipare o no?
Chi partecipa e chi no. Sereni chiede una presa di posizione unitaria, per Treu invece il partito deve starne fuori. Epifani vuole più coraggio, lo sciopero sarà uno spartiacque nei rapporti con la Cgil.
di Laura Matteucci


Alla fine l’unica outsider rispetto alla propria famiglia d’origine sarà Rosy Bindi. Lei allo sciopero generale della Cgil, venerdì, ci sarà. «Davanti alle prese in giro del governo è chiaro che ci deve essere una forma di reazione forte - dice - Io ci andrò, quantomeno per ascoltare, per capire e vedere». Guglielmo Epifani chiede al Pd più coraggio, più chiarezza e un profilo identitario più netto. Il Pd si presenta all’appuntamento provato dall’ennesimo sforzo di autocontenimento. L’adesione è esclusa. Ma c’è la partecipazione, il sostegno, oppure la netta contrarietà. E l’ordine non è sparso.
Tra i partecipanti e i sostenitori Fassino, Bersani (a Bologna con Epifani), l’ex ministro Cesare Damiano, il senatore Pietro Marcenaro, il capogruppo al Senato Anna Finocchiaro. Nomi di peso, tutti ex Ds. Tra i contrari, Enrico Letta, Tiziano Treu, l’ex vicesegretario della Cisl Paolo Baretta, il coordinatore dell’area organizzativa del Pd Beppe Fioroni. Nomi di peso, tutti ex Margherita. L’eccezione è, appunto, Rosy Bindi.
La componente ex Margherita non può accettare che il partito abbia un rapporto privilegiato con la Cgil, la componente ex Ds non può accettare il contrario. Le due anime di nuovo a confronto, un altro banco di prova per Veltroni.
Ci sarà anche Achille Passoni, che da ex segretario confederale della Cgil (oggi senatore), potrebbe sembrare scontato: «Non è per nostalgia - dice lui - È che i contenuti della piattaforma del Pd sono identici a quelli della piattaforma Cgil. Se si è contrari alla forma sciopero, si può discuterne. Non accetterei invece l’idea che lo sciopero sia sbagliato nei contenuti».
Epifani prova a smorzare: «Pare ci sia un sostanziale accordo sulle ragioni, la differenza che vedo riguarda lo strumento ma non il merito». Ma è davvero solo questo?
«Lo sciopero in questo momento è sbagliato - dice Baretta - Non discuto alcuni dei motivi, ma da una grande realtà com’è la Cgil mi aspetto uno sforzo di aggregazione unitaria». Treu fa tanti auguri di buona riuscita, ma non lo ritiene utile. E, soprattutto, il Pd deve starne fuori. «Piena autonomia. Il Pd non deve prendere posizione. Abbiamo il nostro programma, valutiamo sulla base di questo».
Sulla base del programma, la partecipazione di Damiano: «Le ragioni dello sciopero si fanno sempre più fondate, che l’azione del governo di fronte alla crisi sia fragile è evidente. Come partito dobbiamo lanciare una grande proposta politico-sociale». La sintesi la fa Marina Sereni, vicecapogruppo alla Camera: «Non mi convince l’idea che alcuni partecipino e altri no. Sarebbe meglio decidere se avere o no una delegazione».

il Riformista 10.12.08
Mentre si prepara la manifestazione del 12, in Cgil si riapre il dossier successione
Dopo lo sciopero generale Epifani prepara la conta per far largo alla Camusso
Strategie. Il leader userà il direttivo del 22 sul contratto degli artigiani per misurare la maggioranza favorevole al cambio di guardia.
di Luca Monticelli


Lo sciopero generale del 12 sarà un successo: Guglielmo Epifani ne è sicuro e forte di questo si prepara a un blitz prenatalizio per capire se ha ancora una maggioranza all'interno della Cgil. Il 22 dicembre, infatti, a Corso Italia è convocato il Direttivo che ha all'ordine del giorno l'analisi sull'esito della mobilitazione, ma soprattutto l'odg chiama il sindacato a «sciogliere la riserva» sul documento che definisce le linee guida per la riforma della contrattazione del settore artigiano che Cisl, Uil e le organizzazioni imprenditoriali hanno già condiviso. Un appuntamento che, secondo qualche bene informato, servirà a Epifani a capire lo stato dei rapporti di forza dentro la Cgil dopo mesi di divisioni e a verificare, forse per l'ultima volta, se esiste una vera maggioranza che lo sostiene. Il segretario vuole vedere se "i suoi" hanno i numeri per accompagnare la sua uscita dal sindacato, con un anno di anticipo rispetto alla scadenza naturale del mandato, assecondando la nomina alla successione di Susanna Camusso.
A Epifani il colpo di mano è già riuscito una volta e ora ci riprova. Nel giugno scorso aveva azzerato la segreteria allontanando gli ex cofferatiani e stoppando le ambizioni di chi in vista del 2010 stava iniziando a farsi due conti, come Nicoletta Rocchi e Carlo Podda. Allora riuscì a far fuori Marigia Maulucci e Mauro Guzzonato (i primi a opporsi a una segreteria a sua immagine e somiglianza) e Carla Cantone, spedendola al vertice dei pensionati. Tre caselle libere che si andarono a sommare alle due lasciate scoperte da Paolo Nerozzi e Achille Passoni, eletti in Parlamento per il Pd. Questo rinnovamento forzato portò nell'esecutivo Vera Lamonica, segretaria della Cgil Calabria, Agostino Megale, presidente del centro studi Ires, Enrico Panini, capo della Scuola, Fabrizio Solari dei Trasporti e, naturalmente, la sua preferita: Susanna Camusso, al vertice della Cgil Lombardia.
Proprio la vicenda della Cantone è emblematica della tenace volontà di Epifani di farsi succedere dalla compagna socialista Camusso. La Cantone, scoperta da Sergio Cofferati, è stata la prima donna a guidare una categoria maschile come quella degli edili e la prima ad assumere l'incarico di segretario organizzativo della Cgil per volontà di Epifani, inducendo qualche osservatore, e anche la stessa Cantone, a pensare che sarebbe stata anche la prima leader rosa di Corso Italia. Ma, evidentemente, le cose sono andate in modo diverso e oggi Carla Cantone non è certo da annoverare tra i dirigenti vicini ad Epifani. Così come Carlo Podda, rimasto fuori dalla girandola delle poltrone di giugno e ora leader del Pubblico impiego. In questi mesi Podda ha logorato il leader grazie a un patto di ferro stretto con Gianni Rinaldini della Fiom, un'alleanza capace di condizionare gli orientamenti generali di Corso Italia. Lui è tra i primi a correre da segretario generale se Epifani molla nel 2009 per andare a Strasburgo con il Pd. Gli altri candidati sono Agostino Megale, veltroniano ex presidente dell'Ires, e Fulvio Fammoni, responsabile delle politiche attive del lavoro. Sono dunque in tanti dentro la Cgil a non voler recitare la parte dei comprimari mentre la Camusso viene nominata prima attrice per far contento il segretario uscente. Epifani è attanagliato dai soliti mille dubbi e al Direttivo del 22 dicembre è intenzionato a chiedere al parlamentino della Cgil di dare l'ok alla firma sulla riforma del contratto degli artigiani nonostante molte delle federazioni coinvolte sembrano orientate a dire di no. Gianni Cremaschi della Fiom conferma al Riformista che sulla materia «non c'è un grande gradimento all'interno della Cgil». «Nella Fiom - prosegue - abbiamo fatto un coordinamento che giudica molto negativa la proposta condivisa da Cisl, Uil e imprenditori. Secondo noi questo documento è peggio di quello della Confidustria, quindi se non abbiamo firmato quello non vedo perché dovremmo firmare questo».
A Corso Italia c'è chi immagina una vera e propria conta tra correnti, ma molto dipenderà dal ruolo che giocherà Susanna Camusso che, come responsabile delle politiche dei Settori produttivi, si è già esposta parlando di «avanzamenti positivi» sul contratto degli artigiani. Il Direttivo di Natale sarà soprattutto un referendum su di lei.

il Riformista 10.12.08
Dramma silenzioso Dall'inizio dell'anno ne sono stati uccisi trentacinque
Caccia agli albini
Le ultime streghe sono in Tanzania
di Raffaele Cazzola Hofman


Magia e discriminazione. Rapiti, assassinati e fatti a pezzi: i loro arti vengono usati per riti magici utili ad allontanare la fatica e la sfortuna. Non solo un fenomeno di segregazione al contrario, ma una vera e propria persecuzione. Il governo dice di voler correre ai ripari. Una campagna internazionale dell'Independent.

Un dramma silenzioso si consuma da decenni nell'Africa orientale. Si tratta della spietata persecuzione a cui sono sottoposte, in molte aree della Tanzania, le persone albine che, a causa della carenza di melanina, hanno la pelle bianca, gli occhi chiarissimi e capelli più che biondi. L'albinismo crea anzitutto gravi problemi di salute. La melanina, infatti, è il pigmento che protegge la pelle e gli occhi dai raggi solari.
In Tanzania, però, essere albini è anzitutto un dramma umano. A causa di un perverso combinato di vecchie superstizioni tribali, presenti soprattutto a nord vicino ai confini con Kenya e Uganda, gli albini vengono perseguitati e assassinati. Pur se in modo meno evidente, la «caccia agli albini» è presente anche in altri Paesi africani come la Nigeria o il Malawi. Quanto questo dramma sia purtroppo attuale è confermato dalla scelta come tema dell'annuale campagna umanitaria lanciata dall'Independent. Le luci accese su questo fenomeno tanto sconosciuto dal quotidiano britannico - che in una sconvolgente inchiesta rivela come l'unica speranza di salvezza per molti albini sia la fuga a Ukewere, una remota isola nel mezzo del Lago Vittoria, una sorta di rifugio per questi perseguitati - sono un'ulteriore motivo di riflessione.
Nell'anno in corso, fino ad ora, gli albini uccisi in Tanzania sono stati trentacinque. Nel 2007 erano stati venticinque, ma si stima che il numero dei casi registrati sia ben al di sotto di quelli realmente accaduti.
In Africa non tutto ciò che avviene, soprattutto se a fare da scenario sono aree molto remote e isolate, può essere conosciuto. E bisogna pensare che i tanzaniani nati con l'albinismo sono molto numerosi. Si calcola che siano uno ogni quattromila persone con punte di uno ogni mille in alcune tribù. Una media incredibilmente più alta rispetto a quella nel resto del mondo, dove nasce un albino ogni ventimila.
In Tanzania gli albini sono conosciuti con un appellativo da brividi, «zeru zeru», che significa «fantasmi». In altre parole, gli albini sono considerati come incarnazioni di spiriti maligni che, usciti dai corpi dei morti, tornano sulla Terra per tormentare con i loro influssi negativi la vita del nostro mondo. Ma purtroppo c'è anche altro. Infatti è emerso come quasi sempre i corpi degli albini uccisi siano stati smembrati. I loro arti, i loro capelli e il loro sangue vengono usati da stregoni o, cosa ancora più raccapricciante, da medici regolari per preparare delle "pozioni magiche" destinate a due scopi: da una parte dare sollievo ai lavoratori delle miniere alle prese con dolori reumatici; dall'altra portare fortuna e ricchezza ai poveri che in Tanzania, uno degli ultimi dieci Paesi del mondo dal punto di vista economico, non mancano. Inoltre, come documentano ancora le drammatiche testimonianze registrate dall'Independent nel rifugio di Ukewere, sono stati scoperti molti casi in cui neonati albini finiscono venduti agli stregoni. In questo modo i loro genitori hanno la possibilità sia di guadagnare soldi, sia di liberarsi dai possibili influssi negativi di cui li credono portatori.
Il governo della Tanzania ha recentemente annunciato di voler attuare nuove misure a protezione degli albini. Il presidente, Jakaya Kikwete, ha ordinato che la polizia e le autorità giudiziarie lancino delle operazioni per bloccare gli assassini e arrestare i mercanti di braccia e gambe degli albini. In effetti quest'anno sono state arrestate circa 170 persone con svariate accuse. Ma poi è calato il silenzio. E alla fine, secondo un giornalista del Daily Mail che ha indagato sulla vicenda, nessuno dei fermati sarebbe stato rinviato a giudizio.
In questo contesto si spiega il pressing sul governo di Dar es Salaam da parte di numerose campagne per i diritti umani avviate sia all'estero che in Tanzania. Qui operano soprattutto due organizzazioni: la National Organization of Albinism and Hypopigmentation e la Tanzania Albino Society. Lo stesso presidente Kikwete ha inoltre lanciato un segnale politico nominando d'ufficio un'attivista albina, la signora Al-Shymaa Kway-Geer, a membro del Parlamento. Il racconto della sua infanzia, fatto in aprile dopo la notizia della nomina, è più eloquente di qualsiasi commento. «Nella scuola primaria i compagni mi deridevano ed evitavano di toccarmi dicendo che, se lo avessero fatto, sarebbero diventati anche loro bianchi. Una volte cresciuta, venivo maltrattata dalla gente in strada che mi picchiava gridandomi: "zeru zeru"».

l’Unità Roma 10.9.08
Il corteo indetto per la visita di Brunetta che però diserta l’evento
Gli studenti: «Fanno i tagli e poi spendono milioni per il Vaticano»
L’Onda travolge Tor Vergata e «spiega» ai prof la corruzione
di Paola Natalicchio


L’imponente sbarramento di polizia è stato superato grazie al fatto che tutti avevano il libretto universitario che dà diritto all’accesso. «I tagli del governo ledono il nostro diritto allo studio».

Era atteso ieri mattina a Giurisprudenza, a un convegno sul tema della corruzione. Alla fine, però, Renato Brunetta ha preferito passare la giornata altrove. Eppure ad aspettarlo c’era il pubblico delle grandi occasioni. Un centinaio di studenti dell’Assemblea di Tor Vergata, in occupazione dal 24 ottobre, aveva infatti riservato al ministro della Funzione Pubblica - tra gli artefici dei contestatissimi tagli all’Università - una caldissima accoglienza. Prima un volantinaggio interno alla facoltà di Scienze, tappezzata da giorni con volantini e striscioni: lezioni di chimica, matematica, ingegneria e biologia interrotte al coro di «Brunetta pagaci la retta». Poi un corteo fino all’aula magna di Giurisprudenza, aperto da uno striscione di solidarietà dedicato ad Andreas, il ragazzo ucciso dalla polizia ad Atene. Massiccia la presenza delle forze dell’ordine, che inizialmente hanno sbarrato l’ingresso nel palazzo dove era atteso l’arrivo del ministro. «Abbiamo tutti il libretto universitario in tasca», hanno protestato gli studenti. E a quel punto l’Onda ha pacificamente sforato gli argini ed ha travolto il convegno, conquistando il palco, sotto lo sguardo rassegnato dei relatori, che in gran parte sono passati in platea.
IL BLITZ NEL CONVEGNO
«Brunetta fa parte di un Governo che sulla corruzione non ha niente da insegnare», ha spiegato Edoardo,23 anni. «Cosa pensano gli organizzatori del convegno dei tagli all’università promossi dalla sua maggioranza?», ha infierito Valentina, 21 anni. «Sono al terzo anno di ingegneria, ho gli esami in regola, ma guadagno 500 euro al mese, da cui pago anche l’affitto. Con l’aumento delle tasse, dovrò abbandonare gli studi?», ha chiesto Ivan, 22 anni. E via così, per oltre un’ora, con un vivace botta e risposta tra studenti, professori e pubblico in platea. «Avevamo invitato Brunetta solo perchè il dipartimento sulla corruzione fa parte del suo Ministero», si è giustificato Luciano Hinna, economista e, prima del blitz, moderatore del convegno. «Sulla corruzione tutta la classe accademica dovrebbe fare autocritica», ha replicato Mario, 29 anni, dottorando di ricerca in Fisica. Spazio anche alla polemica interna contro il Cda dell’università. «In piena crisi economica dell’ateneo e con i tagli in arrivo, finanzierà con oltre 3 milioni di euro un monumento alla memoria bimillenaria cristiana», ha tuonato Andrea, portavoce dell’Assemblea. All’uscita, in mancanza dell’obiettivo principale, l’Onda ha travolto qualche minuto Carlo Taormina, che a Giurisprudenza insegna Procedura Penale, che passava da quelle parti. Per infrangersi, infine, nel vicino centro commerciale, tra commessi increduli e addobbi natalizi.

Repubblica 9.10.08
Gli scienziati di "Nature" la sdoganano: legittimo usarla
La pillola per il cervello che rende più intelligenti
di Elena Dusi


La rivista Nature sdogana l´impiego di farmaci psichiatrici per potenziare le prestazioni cerebrali Prescritti per demenze e narcolessia, oggi sono usati illegalmente da migliaia di studenti americani
"Prendete le pillole dell´intelligenza" gli scienziati rompono il tabù

Se esistessero pillole in grado di rafforzare la memoria, migliorare la concentrazione e ridurre il bisogno di sonno, perché non usarle? Se queste pasticche permettessero agli studenti di bruciare le tappe con gli esami, ai loro professori di pubblicare più articoli scientifici, ai chirurghi di aumentare il numero di interventi quotidiani e ai lavoratori notturni di evitare pericolosi colpi di sonno, perché porsi dubbi etici sul loro uso?
La domanda non è oziosa, dal momento che queste pillole esistono. Sono nate per trattare alcune malattie psichiatriche, ma si sono diffuse un po´ ovunque nella società, in particolare all´interno delle università. Il Narcotic control board delle Nazioni Unite ha registrato un aumento del 300 per cento nell´uso di farmaci stimolanti negli Stati Uniti tra il 1995 e il 2006. E un sondaggio condotto dalla rivista scientifica inglese Nature ha mostrato che il 7 per cento degli studenti americani (con picchi del 25 per cento in alcuni campus particolarmente competitivi) ha fatto uso di una o più di queste medicine, procurandosele spesso via internet. Per evitare che il "doping della mente" alterasse i risultati degli esami di fine anno, a maggio l'Academy of medical sciences di Londra aveva perfino suggerito di estendere anche agli studenti l´esame delle urine usato per gli atleti.
«Ma il miglioramento di una prestazione sportiva non ha nessun effetto sul benessere del mondo. Il miglioramento delle prestazioni intellettuali invece sì». Per questo tutti dovrebbero usare le pillole dell´intelligenza, sostiene Nature in un editoriale che mette i piedi sul tavolo. A firmare l´articolo diviso in sette capitoli (equivalenti ad altrettante buone ragioni per cui sarebbe giusto ricorrere al doping del cervello) sono sette autorevoli neuroscienziati di università americane e britanniche, che dopo aver messo in guardia contro eventuali effetti collaterali di lungo termine, ingiustizie sociali dovute al costo dei farmaci o pressioni dei genitori per migliorare le prestazioni scolastiche dei figli, sposano con convinzione la causa delle "pillole dell´intelligenza". «Come tutte le tecnologie, anche i farmaci per il miglioramento delle performance intellettuali possono essere usate in modo positivo o negativo. Ma dovremmo essere contenti di avere nuovi metodi per rendere più efficiente il funzionamento del nostro cervello» scrivono gli statunitensi Henry Greely, Ronald Kessler, Michael Gazzaniga, Martha Jarah e Philip Campbell (direttore di Nature) e gli inglesi Barbara Sahakian e John Harris.
Le pillole che promettono voti più alti agli esami sono degli stimolanti analoghi alle anfetamine usate per il disturbo da deficit dell´attenzione e iperattività (Ritalin e Adderall), capaci di accrescere le capacità di concentrazione. Poi ci sono un farmaco che combatte la sonnolenza usato nei pazienti che soffrono di narcolessia (Provigil) e un preparato contro l´Alzheimer e altri tipi di demenza (Aricept) che aumenta nel cervello i livelli di acetilcolina, un neurotrasmettitore importante per la trasmissione degli impulsi nervosi. Figurano anche vari tipi di beta-bloccanti che sono usati normalmente per combattere le aritmie cardiache, ma consentono agli studenti di arrivare più tranquilli al momento dell´esame.
Usare queste pasticche al di fuori delle prescrizioni mediche, negli Stati Uniti è un crimine punibile con la prigione. Ma come per il doping sportivo, le restrizioni legali non sembrano capaci di cancellare l´abitudine. «E allora, rendiamoci conto che è meglio accettare i benefici di questi prodotti studiandone meglio gli eventuali effetti collaterali e prendendo le giuste misure contro gli abusi» suggeriscono i sette esperti di Nature. Ricordando che già oggi «i soldati americani ricevono anfetamine e Provigil e che negli Stati Uniti i militari hanno l´obbligo di assumere farmaci per migliorare le loro performance, se ricevono l´ordine di un superiore». Quanto all´ingiustizia di dover affrontare un esame o un concorso in cui il compagno di banco ha fatto ricorso all´aiuto della chimica, esiste una soluzione democratica, suggerita dall´editoriale: applicare un prezzo speciale per l´occasione e dare per un giorno a ogni candidato, anche il più povero, libero accesso alle pillole dell´intelligenza.

Repubblica 9.10.08
Silvio Garattini, direttore dell'Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano
"Non servono, meglio contare solo su se stessi"


ROMA. Poiché nessuno è mai riuscito a definire l´intelligenza, è difficile creare delle pillole che migliorino questa sfuggente prerogativa. Silvio Garattini, direttore dell´Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano, non crede ai benefici del "doping della mente".
Ma queste pillole sono usate da anni per alcune malattie psichiatriche.
«Il consenso sui risultati è tutt´altro che unanime. Per esempio i medicinali contro l´Alzheimer sembrano essere attivi solo in una piccola parte dei pazienti».
Le medicine contro la narcolessia fanno restare svegli. Su questo ci sono pochi dubbi.
«E da quando restare svegli fa aumentare l´intelligenza? Il sonno ha una funzione fisiologica essenziale. Cancellarlo non può certo fare bene».
Quindi sarebbero tutti prodotti inutili?
«Se esistono pillole che migliorano la memoria, lo fanno in maniera marginale. Può darsi che chi le prende sia in grado di ricordare qualche numero in più. Ma l´intelligenza è un´altra cosa».
Decenni fa l´uso delle anfetamine fra gli studenti era abbastanza comune.
«È vero, perché ancora non sapevamo quanto fossero dannose. Queste sostanze sul momento allontanano la fatica, ma in seconda battuta provocano una fase di depressione pericolosa, se capita al momento dell´esame».
Quindi lei non prenderebbe nulla del genere?
«Se ne avessi bisogno per colpa di una malattia. Ma le persone sane non hanno bisogno di ricorrere ai farmaci. Meglio affidarsi alle proprie risorse».
(e. d.)

Repubblica 9.10.08
"Tutto il paese è con noi. Karamanlis non ci fermerà"
Il capo dei sindacati: mobilitazione confermata
di Cristina Nadotti


Il primo ministro Costas Karamanlis ha chiesto ai sindacati di cancellare lo sciopero generale di 24 ore e la manifestazione prevista per oggi, per «non fornire altre occasioni ad atti di violenza», ma le confederazioni dei lavoratori hanno rifiutato e saranno in piazza Costituzione questa mattina ad Atene. A spiegare perché è Costas Issichos, vice presidente della Athens Labour Trade Union e principale negoziatore al tavolo della trattativa per la crisi della compagnia aerea di bandiera Olympic Airways.
Perché non avete rimandato lo sciopero?
«Lo sciopero era stato proclamato da mesi e i lavoratori non sono responsabili di quanto sta accadendo nelle nostre città. Oggi la nostra protesta sarà arricchita da migliaia di giovani delle scuole e delle università, per condannare insieme quanto è successo negli ultimi giorni. Il nostro sciopero sarà pacifico ma allo stesso tempo sarà un duro atto di accusa contro il governo e le sue politiche economiche, colpevoli di aver danneggiato giovani, lavoratori, precari e immigrati».
Avete paura di altri atti di violenza?
«Purtroppo c´è la possibilità di provocazioni, ma abbiamo preso ogni precauzione perché sia una grande manifestazione pacifica. In questi giorni ci sono stati tanti cittadini che hanno subìto danni, noi siamo con loro e non vogliamo che cose del genere accadano ancora. L´incapacità dell´esecutivo di affrontare le vere ragioni del malcontento è palese: abbiamo sentito tante parole di condanna, ma non un accenno è stato fatto su come prevenire la violenza. La società greca vive un momento di grande crisi e le confederazioni sindacali vogliono ribadire la loro unità per ottenere la salvaguardia del posto di lavoro, l´istruzione per tutti e la tutela dei diritti dei lavoratori».
Qual è la vostra posizione sull´operato della polizia in questi giorni?
«All´interno della polizia negli ultimi anni si sono rafforzate le componenti fasciste e sono ormai fuori controllo. Lo abbiamo visto anche ieri, sono stati aggrediti professori e studenti che manifestavano in modo pacifico. Soprattutto le unità anti-terrorismo cercano sempre lo scontro fisico, fanno di tutto per provocare i manifestanti perché non sono più al servizio dei cittadini, ma contro di loro».
Teme un ritorno del regime?
«Spero che la coscienza democratica del Paese sia in grado di contrastare le tendenze di una buona parte della società greca, una società che diventa sempre più omofoba e xenofoba e sempre meno disposta al dialogo a causa della paura del futuro che la attanaglia. È la filosofia di vita derivata dalla politica economica neoliberista: ci si concentra solo sulle necessità individuale, non c´è alcuna solidarietà sociale».
Si sta occupando della crisi di Olympic Airways. Vede analogie con la situazione italiana?
«La crisi del settore aereo è generale ed è un problema europeo. Finiremo per avere due soli grandi gruppi che controllano tutto il traffico e questo significherà meno servizi pubblici e soprattutto meno sicurezza. Per questo dico agli italiani: viviamo nello stesso continente, sotto attacco di politiche che definirei inumane. Dobbiamo lavorare insieme per assicurare un futuro migliore all´Europa».

Corriere della Sera 10.12.08
Le accuse del Kke
I comunisti: «Le violenze? Opera dei servizi segreti»
di V.Ma.


I disordini in Grecia non sarebbero spontanei, ma «organizzati e coordinati», dice Aleka Papariga, «dai corpi segreti dello Stato». La leader del Partito comunista greco (il Kke, 22 seggi in Parlamento) ha parlato lunedì ad un corteo nel centro di Atene. Anche Syriza (Coalizione della sinistra radicale, 14 seggi, rivale del Kke) teneva un corteo, separato. Entrambi dovevano essere pacifici, ma il centro di Atene è stato messo a ferro e fuoco da giovani incappucciati. E ora i due partiti d'opposizione si dividono nel giudizio sugli scontri. «I continui scontri che si svolgono parallelamente alle enormi mobilitazioni di protesta hanno poco a che fare con l'espressione spontanea di rabbia», ha detto Papariga. «Sono provocazioni aperte e saranno usati come scusa per aumentare le misure repressive». Mentre Syriza, pur condannando le violenze, parla di «rivoluzione spontanea» della gioventù, Papariga accusa forze «invisibili» di usare i giovani radicali per spaccare il movimento operaio. Il Kke, anticapitalista e antieuropeista, è la roccaforte del verbo marxista-leninista. «È da sempre molto dogmatico — spiega Nikos Konstandaras, direttore del quotidiano
Kathimerini —. Crede da sempre che l'estrema sinistra e gli anarchici siano strumenti del sistema per rovinare la loro immagine». Ma dietro le sue parole c'è anche un attacco ai rivali di Syriza: «Li sta accusando di assecondare le violenze». I socialisti e Syriza hanno chiesto il voto anticipato. I comunisti no. «Temono che i disordini portino la gente a votare conservatore o per l'estrema sinistra».

Repubblica 10.12.08
Un miliardo di affamati nel mondo
Rapporto shock della Fao: 40 milioni in più del 2007, colpa della crisi economica
di Giampaolo Cadalanu


L´aumento dei prezzi ha ridotto la quantità del cibo a disposizione dei Paesi più poveri

ROMA - Mancano solo sei anni, poi finalmente l´ipocrisia sarà svelata: gli Obiettivi del Millennio, la formula-slogan con cui i potenti della terra avevano preso l´impegno di dimezzare la fame nel mondo, non saranno realizzati. Il nuovo rapporto 2008 sulla "insicurezza alimentare" presentato ieri dalla Fao è ormai più un grido di dolore che un allarme. Invece che diminuire, la quota complessiva degli esseri umani sottonutriti aumenta: ora sfiora il miliardo. Il conteggio si ferma a 963 milioni, quasi che la cifra tonda sia un´oscenità insostenibile. Ma anche questo gradino sarà superato presto: l´ultimo salto, pari a 40 milioni di persone, è stato registrato nel solo 2008. Due anni fa erano 115 milioni in meno, nel 1996 erano 832 milioni.
Per salvare gli affamati servono 30 miliardi di dollari l´anno, poca cosa in confronto alle spese per armamenti, o alle somme stanziate per la crisi economica, ribadisce per l´ennesima volta Jacques Diouf, direttore dell´agenzia Onu. Il tema è ben noto, ma stavolta non è un ritornello stantìo. C´è una nota nuova, l´unica, ma significativa. Nel 2009 l´Occidente, e dunque il mondo intero, sarà diverso. Yes, we can: deve valere anche per gli altri, chiede Diouf. Deve allargarsi al pianeta intero la speranza di cambiamento suscitata negli Stati Uniti dall´avvento del primo presidente nero. «Ho chiesto ad Obama di farsi promotore di un´iniziativa per un summit che abbia come obiettivo sradicare la povertà dal pianeta», annuncia il direttore della Fao. Insomma, «possiamo farcela».
L´alternativa è già nel panorama struggente descritto da Jacques Diouf. Il 65 per cento degli affamati vive in soli sette paesi, dice il responsabile dell´agenzia. Nell´Africa subshariana una persona su tre è cronicamente affamata e nei mesi scorsi rivolte per il cibo sono scoppiate in 25 paesi. L´escalation delle emergenze è in parte legata all´andamento perverso dei mercati: quando le quotazioni degli alimentari sono alte, i consumatori più poveri non possono permettersi la spesa. Se invece i prezzi si abbassano, allora sono i contadini poveri a non poter sopravvivere, anche perché le sementi restano care. E con i prezzi alti, i paesi in via di sviluppo non sono stati nemmeno in grado di aumentare la produzione.
Di fronte al disastro, non è più tabù mettere in discussione il modello di sviluppo e contestare il feticcio dell´agricoltura intensiva per l´esportazione. «È urgente aiutare lo sviluppo dell´agricoltura nel Sud del mondo: basterebbe meno di un decimo dei sussidi agricoli ai paesi dell´Ocse», sintetizza Marco De Ponte di Action Aid. Ma oltre ad accogliere i richiami degli esperti e restituire dignità ai piccoli produttori, bisogna intervenire subito dove i meccanismi del mercato stanno stritolando i più deboli: la popolazione di paesi "difficili" come la Corea del nord, lo Zimbabwe, il Congo. Oppure le fasce più basse di altre società: i poveri di città e campagna, i braccianti senza terra, le donne sole con bambini.
È vero che i meccanismi di controllo delle emergenze, con gli interventi del World Food Programme, riescono in genere a togliere dai telegiornali le immagini dei bambini scheletrici coperti di mosche, con la pancia piena d´aria. Ma c´è un´altra fame, che mina le esistenze e sgretola la capacità produttiva, più insidiosa perché meno visibile. Non è quella che uccide in pochi mesi, è quella che nega agli esseri umani un apporto calorico adeguato e dunque schiavizza i pensieri, indebolisce il sistema immunitario, impedisce il lavoro. È quella che nega anche le speranze. E allora? Allora, ripete ancora una volta Jacques Diouf, serve la solidarietà internazionale. «Non ci stanchiamo di pregare, non ci scoraggiamo. È tutta questione di priorità politica».

Repubblica 10.12.08
Dove nascono i nazisti
Il celebre romanzo di Hans Fallada sulle radici della tragedia tedesca
Gente comune prima dell´abisso
di Ralf Dahrendorf


Scritto tra il 1931 e il 1932, "E adesso pover'uomo?" racconta la genesi del dramma, cogliendone i segnali premonitori. Fu un bestseller
L´autore scioglie un enigma intorno a cui s´arrovellano Heinrich Böll e Günter Grass
Il segreto è in quel tratto unificante che identifica "das Volk"

In Germania entrambe le guerre mondiali hanno dato luogo a una notevolissima attività letteraria, i cui esiti - i romanzi in modo particolare - sono tuttavia diversi come diversi furono i due conflitti. Dopo la seconda guerra mondiale il tema dominante era: «Come è potuto accadere?». L´Olocausto era sempre sullo sfondo dei romanzi di Heinrich Böll, Günter Grass, Uwe Johnson, Sigfried Lenz ed altri ancora. I raduni degli scrittori del Gruppo 47 in giro per il paese costituivano una sorta di centro itinerante della cultura tedesca, dove si incoraggiava uno stile letterario che mettesse insieme la descrizione dettagliata e l´immaginazione storica. Grass, probabilmente il maggiore scrittore del gruppo, ha descritto quel momento in L´incontro di Telgte.
Dopo la prima guerra mondiale la scena era molto più confusa. Alcuni dei protagonisti della fase neoclassica erano ancora attivi, sebbene scossi da quanto era accaduto. Il contrasto tra la parte pre-bellica e quella post-bellica della Montagna incantata di Thomas Mann è alquanto indicativo. La guerra provocò idealizzazione estetica a Destra (Ernst Jünger) e indignazione morale a Sinistra (Erich Maria Remarque). Ma con la breve e drammatica vicenda della Repubblica di Weimar (1919-1933) un altro tema diverrà dominante. Philip Brady, nella sua profonda introduzione a E adesso pover´uomo? di Hans Fallada, ricorda la Nuova Oggettività (Neue Sachlichkeit), quella forma di neorealismo che regolò i conti con l´emotività senza limiti dell´Espressionismo tanto nelle arti figurative che in letteratura, e che era «contrassegnata dalla sobrietà del gesto, dal linguaggio contenuto, dal mettere in primo piano il fatto e l´autenticità, dal culto del reportage».
Hans Fallada (pseudonimo di Rudolf Ditzen) aveva ventisei anni nel 1919, allorché l´assemblea costituente di Weimar portava a termine le sue deliberazioni. Nato in una tipica famiglia borghese tedesca, figlio di un alto funzionario statale (un magistrato), condivideva con altri intellettuali dell´epoca una vulnerabile inquietudine che nel suo caso sarebbe sfociata nella cocaina e nei tentativi di suicidio, nella delinquenza e in temporanei internamenti, e altresì in alcuni libri di una certa importanza, tutti pervasi da una curiosa miscela di motivi. Fallada ebbe a scrivere di Erich Kästner: «Consegna ai suoi lettori un segmento del loro universo quotidiano: preciso, sobrio, senza illusioni. O forse un´illusione c´è: infanzia, madre, cresima, alberi. E infine un monito: se stai male, non far stare male pure gli altri. Ognuno deve fare quello che può». Reportage e insieme una cauta speranza di ordine morale, leggermente romantica: il neorealismo non fu mai solo realismo, né per Kästner, né per Fallada, né per Alfred Döblin, Lion Feuchtwanger, Heinrich Mann.
Questi scrittori non formarono il loro Gruppo 47: bastava loro Berlino, quel «simbolo degli anni Venti, dello scambio di idee e del dibattito letterario» (come la descrisse poi Walter Jens). Berlino negli anni Venti possedeva una «forza magnetica» perché, quantomeno per gli scrittori, esemplificava quella sfuggente «realtà» da loro ricercata e al contempo promossa, la Groástadtromantik («romanticismo metropolitano») - più sentimentalismo che romanticismo - che ne divenne indispensabile ingrediente. Il ventitreenne Johannes Pinneberg, fragile eroe di questo bestseller del 1932, inizia la sua carriera in Pomerania, ma il nucleo della sua vicenda ha luogo a Berlino, nei grandi magazzini dove, in qualità di commesso, dal senso di sicurezza e dal successo iniziali scivolerà nel pantano della crisi economica, vivrà l´atmosfera di invidia e di «ansia da status» tra colleghi di lavoro, la disonestà dei padroncini e l´arbitrio dei grandi padroni. E finirà daccapo in provincia, a pochi chilometri dalla città ma di fatto senza opportunità né speranze.
Questa però è soltanto metà della storia, quella triste (o quella realistica?). L´altra metà è Lämmchen, la proletaria che Pinneberg ha la fortuna di incontrare, e poi il loro bambino, il «piccolo». In qualche modo Lämmchen rappresenta l´illusione: infanzia, madre, alberi (ma niente cresima). Lei non si arrende mai. Rimane un mistero da dove prenda la forza per affrontare la povertà, le tentazioni criminali, la mancanza di qualsiasi prospettiva. Forse è proprio la sua visione terra-terra di un mondo alquanto orribile, nel quale piccoli uomini e piccole donne hanno ben poco in cui sperare, a spingerla verso l´amore, la lealtà e l´onestà. Alla fine, quando Pinneberg è messo male davvero, non solo povero ma anche umiliato e scoraggiato, Lämmchen e Johannes sprofondano l´uno nelle amorose braccia dell´altra mentre il piccolo grida felice «pepp-pepp». Nuova Oggettività?
Fallada racconta una bella storia, e la racconta bene. Non sorprende perciò l´immediato successo nel 1932 e le numerose traduzioni in lingue straniere fra cui - ma solo in versione ridotta - l´inglese. Il romanzo risulta avvincente per la combinazione di turbolenze storiche, misere condizioni di vita e intensi rapporti umani, il che è già una buona ragione per ripubblicarlo. Ma la ragione principale è di altro ordine. Intorno all´enigma del Sonderweg («eccezionale percorso storico») della Germania si sono arrovellati non soltanto Böll, Grass e il Gruppo 47, ma anche un´intera generazione di storici tedeschi attivi dopo il 1945. La soluzione dell´enigma dipende quantomeno in parte dalla visione che si ha della Germania prima dell´Olocausto, prima dell´apogeo hitleriano delle Olimpiadi del 1936, prima della presa del potere da parte dei nazisti nel 1933. E qui i neorealisti, e Fallada in particolare, hanno parecchie cose da dire.
Johannes Pinneberg è in larga misura un apolitico, ma certo non voterebbe mai per i centristi cattolici, né sosterrebbe i nazional-liberali di Stresemann. Quando è particolarmente arrabbiato con i suoi datori di lavoro prende in considerazione l´idea di iscriversi al Partito Comunista. Lämmchen condivide in un primo momento queste tendenze, ma dopo la nascita del piccolo lascia perdere l´attivismo anche per paura della violenza tanto diffusa a Berlino durante l´ultima fase di Weimar. Al negozio di abbigliamento presso cui lavora Pinneberg viene accusato di aver scribacchiato degli slogan di marca nazista, ivi inclusi attacchi al principale ebreo, sui muri del gabinetto degli uomini. Intorno a lui si muovono personaggi di ogni sorta: nazisti e nudisti, socialdemocratici catacombali e codardi veri e propri. Il suo primo datore di lavoro, in Pomerania, è un certo Kleinholz, riluttante a licenziare un impiegato buonannulla che milita nelle fila naziste, perché non si sa mai (ricordiamo che il libro fu scritto tra il 1931 e il 1932, prima dunque del fatidico 30 gennaio 1933: ma i segnali premonitori erano chiari). (...)
Fallada - così come Döblin e Mann, come Kracauer e Geiger - si sforza di comprendere gli eventi in termini di classe: nel suo caso ne risulta una panoramica sociale dai tratti alquanto standardizzati. (...) Ne restano sostanzialmente esclusi i contadini, i lavoratori autonomi e le altre categorie che avrebbero complicato l´affresco sociale. Che in ogni caso è già abbastanza complicato così com´è, perché da dove esattamente vengono fuori i nazisti? Non sono proprio come tutti gli altri? Qui occorre esaminare più da vicino il concetto del «pover´uomo» del titolo, letteralmente il «piccolo uomo», che non è semplicemente «piccolo» a paragone dei pezzi grossi. Le parole tedesche kleiner Mann presentano le sfumature di significato più differenti. Si riferiscono anche ai bambini, ai «piccoli» per antonomasia, e la domanda «e adesso?» del titolo potrebbe benissimo riguardare la prole dei Pinneberg. Ma nel linguaggio quotidiano, «piccolo uomo» significa soprattutto la gente comune, l´uomo della strada. Questo non comprende tutti, ovviamente, ma comprende la grande maggioranza, e per certi aspetti «siamo tutti piccoli uomini», pover´uomini. Il Leitmotiv della storia tedesca non è la classe e il conflitto di classe, bensì quel comune denominatore che identifica das Volk, il popolo. Qua e là il reportage di Fallada tradisce questo «segreto» della società tedesca.

Repubblica 10.12.08
Un saggio di Massimo Teodori e un'antologia curata da Michele Ciliberto
Il declino dei laici dal dopoguerra in poi
di Nello Ajello


Sugli integralismi confessionali è uscito anche "Contro l´aldilà" di Franco Crespi

Dove sono, nella politica e nella società italiana, i liberali, quelli veri, cioè in pari tempo antifascisti e anticomunisti? Che ne è di loro? Chi ha congiurato per ridurli al silenzio? Ecco le domande che circolano nel volume di Massimo Teodori, Storia dei laici (Marsilio, pagg. 364, euro 19,50). Il lettore vi troverà il racconto di un´assenza, la diagnosi d´un disinganno. La parabola attraversata da quella corrente di pensiero che animò tante figure di alto rilievo, è nota per sommi capi a chiunque abbia in mente i capitoli salienti della recente vicenda italiana. Ora Teodori li percorre, quei capitoli, in pagine così ricche di eventi, date e personaggi da offrire sul tema un promemoria ragionato.
Le avventure che ha incontrato la cultura laica nel nostro Paese coinvolgono, a volerle storicamente inseguire, tutto un mondo che risale indietro nei secoli offrendo insegnamenti sempre attuali. In un gioco di progeniture e di rimandi ideali verranno così alla luce i più disparati saperi e valori, volta per volta difesi o contestati: dalla religione al diritto, dalla vita associata alla tutela dell´individuo. E´ appena apparso, per fare un esempio, in edizione Laterza e a cura di Michele Ciliberto, un volume intitolato Biblioteca laica, con un sottotitolo esplicativo, Il pensiero libero dell´Italia moderna. Vi si raccolgono, in una stimolante antologia tematica, testi che vanno dal Rinascimento agli albori dell´Unità: da Leon Battista Alberti (per citare solo alcuni degli autori), attraverso Machiavelli e Guicciardini, fino a Manzoni, Cavour e Cattaneo. Una lettura prelibata e, a tratti, di sorprendente freschezza. In un teso dissenso dai nuovi e vecchi integralismi confessionali appare schierato un altro saggio anch´esso recentissimo, Contro l´aldilà, di Franco Crespi (Il Mulino.)
Diversa, per tono e intenzione, è ovviamente la ricerca di Teodori, avendo egli scelto come suo sfondo iniziale i decenni politici che vanno dal primo Novecento alla caduta del fascismo. Già con l´introduzione, nel 1919, del sistema proporzionale, che impone sulla scena i movimenti cattolico e socialista, appare incrinata la supremazia di quella classe dirigente elitaria che, fatta l´Italia, sembrava indefinitamente destinata a governarla. Poi il regime littorio, con la sua demagogia intollerante, sposterà la società italiana in una dimensione di massa impraticabile dagli esponenti dell´universo liberale. Molte personalità istituzionali sono costrette al ritiro. Altre, da Matteotti ad Amendola, da Gobetti a Carlo Rosselli, pagheranno con la vita la fedeltà agli ideali.
L´antifascismo non totalitario ha così perso i propri leader più ispirati, e già si prepara ad essere incluso in quella categoria dell´«Italia di minoranza» che gli procurerà i mesti elogi di Giovanni Spadolini.
Mascherato, sotto il regime fascista, dalla supremazia culturale del crocianesimo fra le menti libere e poi dall´interesse rivolto dal filosofo al formarsi dei nuclei antifascisti nati, spesso in suo nome, sulla propria sinistra, il declino liberale diventerà esplicito fin dai primi confronti elettorali del dopoguerra, aggravandosi ancora negli anni della Guerra Fredda. Nato appunto da una costola di Croce, il partito d´Azione se ne differenzia ora su un punto decisivo: la continuità del nuovo assetto politico con l´Italia prefascista. Questo disconoscimento di paternità, da una parte, e dall´altra le critiche mosse dal pensatore abruzzese alla fumosità ideologica di quel nobile partito di intellettuali che s´è forgiato nella lotta armata, creano una delle tante dicotomie destinate a sfoltire le file liberaldemocratiche. Fra i notabili «vecchio stile» e i borghesi rivoluzionari del nuovo partito si leva una barriera. E´ solo la scarsa rispondenza popolare il dato che accomuna le due parti. Al suicidio del partito d´Azione fa riscontro il tenue richiamo esercitato da quello liberale in un mondo dominato da un drastico manicheismo: i comunisti all´assalto e i democristiani al contrattacco, con il supporto di una borghesia più interessata alla conservazione che ai destini della Fede. Quando, alle elezioni del 1946, i liberali si presentano sotto l´insegna di un´Unione democratica nazionale, è facile appiopparle la sigla «ONB», in ricordo dell´Opera nazionale balilla, utilizzando le iniziali di Orlando, Nitti e Bonomi con un derisorio richiamo alla loro grave età.
Al polo opposto dello schieramento c´è quel «partito nuovo», al quale Togliatti imprime una strategia di movimento. Il frontismo, che il Pci capeggia nel 1948 - «annus horribilis», lo definisce l´autore - indossa «una rassicurante maschera semiborghese» e cerca di «confondersi tra la folla», come denunzia già da tempo, sul Risorgimento liberale quel Mario Pannunzio che nessuno potrà accusare di maccartismo. Con l´avanzare della prima Repubblica, le tecniche del Pci nel fare incetta di intellettuali diventano più raffinate, sulle ali di uno slogan capzioso ed efficace: «i veri liberali siamo noi».
Sono proprio i laici, o ciò che ne resta, le vittime principali di una simile tattica. «Siamo certamente in una penosa situazione», chioserà Croce. «Da una parte i preti, "ingorda e crudele canaglia", come li chiama Ariosto, e dall´altra i comunisti che, oltre ad essere comunisti e russi, sono sempre pronti a negoziare e accordarsi con i loro avversari ai danni della libertà d´Italia». Ma anche le masse cattoliche subiscono, da sinistra, una vivace offensiva concorrenziale, alla quale tuttavia essi trovano nel proprio integralismo la forza per reagire; mentre le avance del Pci nella sfera religiosa si racchiudono in una quartina a firma di Mino Maccari: «L´articolo sette - Togliatti ce lo dette, - disse al marito la moglie, - e guai a chi ce lo toglie».
I liberali passano intanto da una scissione all´altra, e il campo anticomunista è sempre più lacerato: l´anticomunismo fascistoide, o confessionale - strumentalizzato e insieme arginato da De Gasperi al vertice della Dc vittoriosa - finisce per avere la meglio su quello, assai meno orecchiabile, praticato dalla sinistra liberaldemocratica, lamalfiana e terzaforzista, della quale nel libro si sottolinea la nobiltà nella sconfitta.
La parte celebrativa del volume si nutre di medaglioni biografici più o meno corposi, intestati a Mario Pannunzio e Gaetano Salvemini, Ernesto Rossi e Vittorio De Caprariis, Adriano Olivetti, Nicola Matteucci, Altiero Spinelli; fino ai radicali di varia specie e perciò a Marco Pannella i cui rilevanti meriti storici in materia laica sembrano talvolta appannarsi di fronte a quella religione di sé che al laicismo poco somiglia. Con il dovuto rispetto ci si sofferma su una casistica politico-culturale che va dal Mondo all´Espresso, da Nord e Sud al Mulino e a Comunità, dall´Associazione per la Libertà della Cultura di Ignazio Silone a Tempo presente di Nicola Chiaromonte. Istituzioni, queste ultime, a proposito delle quali l´autore s´impegna a contestare quei supposti legami con l´Intelligence americana che, anche se provati, non scandalizzerebbero ormai nessuno o quasi. Ciò che conta è, comunque, l´assunto centrale di quest´opera, eloquente elegia su un mondo scomparso o frantumato.

Corriere della sera 10.12.08
Dissidenza Il regime costretto all'autocritica sul giornale ufficiale: pratica sbagliata
Cina, una clinica psichiatrica per chi scrive le petizioni
La denuncia di «Beijing News», imbarazzo a Pechino
di Marco Del Corona


Tra gli internati c'è chi ha presentato richieste, lamentele, denunce di espropri e torti agli uffici pubblici

PECHINO — «Perseguitare chi presenta una petizione non è un modo di governare né di rispondere alle sue lamentele». Un anonimo commentatore ha scandito su China Daily un giudizio lapidario su una vicenda che ha evidentemente molto imbarazzato Pechino. Lunedì, un ampio reportage del quotidiano Beijing News aveva raccontato l'esistenza di (almeno) una clinica psichiatrica dove vengono rinchiusi i postulanti che si rivolgono agli uffici pubblici per depositare richieste, rivendicazioni, invocazioni di aiuto, denunce di espropri e torti. Ieri la reazione del regime, con quella che pare una condanna senza appello dell'uso dei manicomi.
Il China Daily, il quotidiano con cui la Cina comunica al mondo quanto reputa importante, ieri indicava anche che è stata avviata un'inchiesta nello Shandong, la regione costiera dove ha sede l'ospedale in causa. Tutto nasce da un esercizio di giornalismo acre e abbastanza inusuale. In due pagine Beijing News sgrana dettagli e circostanze, fa nomi. Descrive la struttura di Xintai dove, secondo la testimonianza di un «paziente», sono almeno 18 i postulanti rinchiusi, intercettati dalle autorità locali sulla via degli uffici preposti alla raccolta delle lamentele (la più alta è a Pechino). Chi ha parlato, riferisce di pillole fatte ingoiare per forza, di «mente annebbiata e corpo pesante», di un medico che spiegava agli internati di non sapere «se siete malati mentali o no, le autorità vi mandano da noi e io vi curo». Le dimissioni — o meglio: il rilascio — avvengono anche dopo mesi, e solo dopo aver firmato una dichiarazione nella quale il questuante promette di non provarci più.
Le lamentele sono una via di sfogo sociale che le istituzioni hanno previsto e regolamentato, ma la gestione pratica è cronicamente esposta agli abusi. I capetti locali vogliono evitare imbarazzi davanti a istanze più alte, magari addirittura a Pechino. I loro emissari braccano i cittadini che partono con la petizione in mano e sono tutt'altro che rare le aggressioni. A metà ottobre un avvocato aveva denunciato l'esistenza a Pechino di hotel dove i postulanti vengono rinchiusi fuori da ogni procedura legale. A rendere più scabrosa l'intera questione, anche l'impiego dei postulanti per screditare l'operato di dirigenti avversari nelle faide di potere in provincia.
La lotta per via psichiatrica alla dissidenza era un classico dell'Urss che la Cina ha praticato. Il regime ieri ha impiegato parole ferme: il ricorso ai manicomi «è barbaro», «illegale» e «inumano », scriveva il commentatore, «difficile credere che questo possa accadere in una società sana». Proprio ieri, vigilia del 60˚ anniversario della Carta universale dei diritti dell'uomo, il capo della propaganda del governo ammetteva che, in materia, in Cina «rimangono sì molti problemi», ma si sono registrati «progressi epocali». Nella storia dei manicomi c'è posto per gli uni e gli altri.

Corriere della Sera 10.12.08
Personaggi La biografia del deputato comunista che passò con Mussolini e fu al suo fianco fino a Dongo
Il destino di Bombacci da bolscevico a fascista sempre rivoluzionario
di Giovanni Belardinelli


L'illusione di Salò
Aderì con entusiasmo alla Rsi e morì fucilato dai partigiani gridando «Viva il socialismo!» Nicola Bombacci, uno dei fondatori del Pci, aderì al fascismo e alla Rsi

«Con la barba di Bombacci / ci farem gli spazzolini / per lucidar le scarpe / di Benito Mussolini»: così cantavano gli squadristi al principio degli anni Venti, ironizzando appunto su chi sembrava personificare più di chiunque altro il rivoluzionarismo massimalista caratteristico dell'Italia del primo dopoguerra. Su Nicola Bombacci, sulla sua inclinazione a una retorica terribilista e inconcludente, fiorì del resto una ricca aneddotica: dalla battuta che si diceva avesse pronunciato nella campagna elettorale del novembre 1919, invitando gli elettori «a tagliargli pure la testa se, entro un mese, non avesse costretto il re a fare le valigie», all'episodio che si verificò nel gennaio 1921 durante il congresso socialista di Livorno. In quell'occasione Bombacci (che con Gramsci, Bordiga, Terracini si apprestava a lasciare il Psi per fondare il Partito comunista), sentitosi definire sprezzantemente da un socialista riformista come «rivoluzionario del temperino», rispose mostrando minacciosamente una rivoltella. Rimasto abbacinato dalla rivoluzione bolscevica, fu lui che nel 1919 fece adottare dal Psi, di cui era divenuto segretario, un simbolo importato dalla Russia di Lenin: falce e martello incrociati affiancati da due spighe di grano. A confermarne l'immagine di rivoluzionario tanto verboso quanto inconcludente contribuì la proposta che nel 1920 presentò al Consiglio nazionale del partito, proposta che Salvemini definì con qualche ragione un «capolavoro di idiozia »: Bombacci chiese che, entro il perentorio termine di due mesi, venissero costituiti i soviet in tutto il Paese.
A questa figura a suo modo rappresentativa dell'Italia del primo dopoguerra Guglielmo Salotti ha dedicato un bel libro (Nicola Bombacci: un comunista a Salò, Mursia), che ha il merito di sottoporre alla nostra attenzione anche la fase successiva della biografia di Bombacci, fino alla tragica fine dell'aprile 1945, quando venne fucilato a Dongo dove si trovava per aver voluto seguire fino all'ultimo Mussolini. Romagnolo e maestro anche lui, Bombacci — nel Psi di prima della guerra — si era trovato su posizioni intransigenti analoghe a quelle del futuro «Duce». Di Mussolini non approvò la svolta interventista del '14 e tuttavia si dichiarò allora contrario al suo allontanamento dalla direzione dell'Avanti!. Un anno dopo la marcia su Roma, intervenne alla Camera in favore del riconoscimento dello Stato sovietico da parte dell'Italia, adducendo una motivazione che fece scandalo, soprattutto a sinistra: «La Russia — disse rivolto a Mussolini — è su un piano rivoluzionario: se avete, come dite, una mentalità rivoluzionaria non vi debbono essere per voi difficoltà per una definitiva alleanza fra i due Paesi». Dopo un primo provvedimento di espulsione dal Partito comunista, in parte rientrato grazie all'intervento in suo favore dei russi, ne venne definitivamente allontanato nel 1927, quando ormai il Paese si trovava nel pieno della dittatura. Comincia allora il suo percorso di avvicinamento al fascismo e soprattutto al compagno di un tempo, Mussolini. Un percorso che sembra completarsi alla fine del 1933 quando, scrivendo al Duce, lo definisce «l'interprete felice e fedele di un ordine nuovo politico ed economico che nasce e si sviluppa col decadere del capitalismo e con la morte della socialdemocrazia ». Il corporativismo fascista, infatti, pare a Bombacci — come a tutto il fascismo «di sinistra» — la soluzione ai problemi di un assetto economico- sociale incrinato definitivamente dalla grande crisi del '29. Le sue ripetute avances, la richiesta di poter «marciare al fianco» di Mussolini producono però scarsi risultati: per i fascisti il suo nome è ancora così strettamente legato alla sinistra massimalista e comunista del dopoguerra che un avvicinamento ufficiale al regime creerebbe imbarazzi. Tutto ciò che Bombacci ottiene è di pubblicare una rivista — La verità — i cui collaboratori, quasi tutti ex sindacalisti ed ex socialisti, cercano di interpretare la politica fascista in chiave anticapitalistica. La stessa fondazione dell'impero, nel 1936, viene letta da Bombacci come una «conquista proletaria» in chiave antinglese. Affermazioni del genere oggi appariranno bizzarre, ma all'epoca non facevano che riprendere alcuni dei temi più diffusi della propaganda fascista. Del resto, da una lettera pubblicata da Salotti si ricava come alla rivista di Bombacci guardasse con simpatia anche Enrico De Nicola, futuro capo provvisorio dello Stato nel 1946.
La guerra mondiale trova l'ex socialista rivoluzionario decisamente dalla parte dell'Asse, non esclusi certi riferimenti antiebraici che traspaiono dai suoi scritti. Se un tempo Bombacci, come molti fascisti «di sinistra», aveva cercato di accreditare il regime sovietico e quello mussoliniano come risultato di rivoluzioni in qualche modo parallele, ora si scaglia contro l'Urss comunista, in cui il governo è in mano a «una nuova classe (…) assai peggiore della stessa classe capitalistica ». Nonostante la sua dedizione al regime, il sogno di incontrare Mussolini si poté realizzare soltanto dopo la nascita della Repubblica sociale, in un contesto in cui il capo del fascismo, ora repubblicano, sembrava voler dare spazio a tutta una serie di personaggi di matrice socialista. Adesso Bombacci ha un ruolo di qualche rilievo: va in giro a far conferenze agli operai, scrive articoli sul Corriere della Sera, sostenendo — ancora l'11 marzo 1945 — che «il socialismo non lo farà mai Stalin ma lo farà Mussolini». Impossibile dire se, ridivenuto di nuovo un capopopolo che arringa le folle, Bombacci credesse davvero a quel che diceva. Fatto sta che al momento d'essere fucilato le sue ultime parole, segno di una coerenza insieme patetica e tragica, furono: «Viva il socialismo!».

il Riformista 10.12.08
Ferrero dà i giorni a Piero Vladi Sansonetti
Liberazione. Il segretario prepara il cambio di direttore. Il giornalista: «Lo facesse e non rompesse le palle».
di Francesco Nardi


«Se l'editore di un giornale vuole cambiare il direttore, lo facesse e non rompesse le palle». La reazione di Sansonetti alle voci che ne danno la direzione del quotidiano Liberazione in bilico è forte e chiara: «L'ingerenza dei partiti politici nella direzione dei giornali è una pratica alla quale siamo tristemente abituati, non trovo quindi di che sorprendermi». E ancora: «Tutta la questione, comunque, non m'interessa neanche un po'».
Interessa però a Paolo Ferrero, almeno a sentire quanto insistentemente si continua a dire dalla parti di Rifondazione, o quello che dice il segretario stesso: «L'ho già detto tante volte e lo ribadisco oggi. Semplicemente, vista l'enorme quantità di denaro che il quotidiano del partito costa al partito, sarebbe utile e necessario avere un giornale che riesca ad aumentare le vendite e la sua presenza tra i lettori». Poi, dopo le prime risposte polemiche dalla minoranza guidata da Nichi Vendola, cui Sansonetti è vicino, Ferrero ha precisato:«Nessuno, tantomeno io, ha intenzione di trasformare Liberazione in un megafono del partito».
La causa occasionaledi quest'ennesimo scontro, che va avanti da mesi, è la scarsa copertura che il quotidiano riserva alla proposta del partito a fronte delle paginate su Luxuria e l'Isola dei famosi, prese a esempio della linea frou-frou di Sansonetti. In particolare Ferrero non avrebbe perdonato a Sansonetti l'aver dedicato poco spazio al suo incontro a Venezia con il leader della Linke tedesca, Oskar Lafontaine: «Un fatto editorialmente e politicamente significativo è stato trattato da Liberazione come un fatto di secondaria importanza».
Argomento che però non convince affatto Sansonetti, certo invece che il malumore di Ferrero nei suoi confronti si debba all'apertura del giornale dedicata all'anniversario degli operai morti alla Thyssen, dove il segretario non c'era.
Insomma è guerra aperta e il vero attacco di Ferrero è atteso per il prossimo fine settimana quando, in occasione del Comitato politico nazionale del partito, il segretario chiederà a Sansonetti una diversa gestione del giornale. I rumours intanto riferiscono che non abbia ancora pronto un sostituto e che quindi la partita sia ancora tutta da giocare. È rispuntato per l'ennesima volta il nome di Giovanni Russo Spena che però assicura di non essere assolutamente interessato alla direzione: «Non ci penso nemmeno, fosse per me al posto del quotidiano farei un settimanale».

martedì 9 dicembre 2008

l’Unità 9.12.08
Intervista a Gugliemo Epifani
«Il 12 in sciopero per cambiare le scelte del governo»
di Laura Matteucci


Il leader della Cgil: «Manifestiamo perché quello dell’esecutivo non è
un piano anti-crisi. Manca un progetto per uscire dalle difficoltà, non si
sostengono i ceti produttivi, non si riformano gli ammortizzatori sociali»

Il governo brilla per assenza di ragionamento. Manca un’idea, un’analisi, un progetto alto in grado di farci uscire da una crisi inedita, la prima del mondo globalizzato, che colpisce tutti e colpisce duro. Quello del governo non è un piano, restano fuori le scelte a sostegno dei ceti produttivi, non c’è una riforma degli ammortizzatori sociali. Quello che ha fatto è solo un’operazione di garanzia per le banche. Così non può funzionare. Anche perchè il punto non è se usciremo dalla crisi, ma quando e come». È la settimana dello sciopero per la Cgil: venerdì 12, milioni di lavoratori resteranno a casa. Niente paga per quel giorno, mica facile per i tempi che viviamo. Sciopero generale, sciopero separato: Cisl e Uil non ci saranno, l’unità sindacale corre il rischio di restare un irrealizzabile desiderata molto a lungo. E il segretario generale della Cgil Guglielmo Epifani, che l’unità l’ha sempre fortemente voluta, adesso dice: «Non sono ottimista su questo, il governo è forte e ha molti poteri di persuasione, nei confronti del sindacato come anche delle imprese». Il governo è forte, l’opposizione (leggi Pd) troppo debole. «Tanto più di fronte a una crisi di questa portata, ha bisogno di ritrovare identità e autorevolezza, altrimenti invece che dare risposte diventa a sua volta uno dei fattori di crisi. Una democrazia non può funzionare così». Realista come sempre, ma niente affatto rassegnato.
Lo sciopero si farà. Che risposta si aspetta dai lavoratori?
«Si farà, e sarà una prova molto impegnativa. Ci stiamo preparando con migliaia di assemblee in tutti i luoghi di lavoro, abbiamo il polso della situazione. C’è una condivisione forte delle nostre proposte, del giudizio critico nei confronti del governo, dell’esigenza di contrastare la crisi con interventi più forti di quelli messi in campo. E questo è un primo dato confortante. Poi, registriamo una grandissima preoccupazione, logica ma davvero molto pesante. Del resto, questa è una crisi che colpisce tutti, da chi entra in cassa integrazione e rischia il posto di lavoro, al giovane precario cui non verrà rinnovato l’incarico, all’anziano che sul serio non riesce a tirare la fine del mese».
Servirà a ottenere qualcosa? C’è qualche vaga possibilità che il governo cambi marcia?
«Domanda fondata, stante che il governo ha una grandissima maggioranza nel paese. La risposta che diamo è che se non facessimo nulla, se la più grande forza sindacale rimanesse inerte, e in sostanza facesse come la Cisl e la Uil, il segno che daremmo sarebbe che non c’è dissenso con le scelte del governo. Mentre per noi sono profondamente insufficienti. Io penso ci siano dei margini per far cambiare idea al governo, sia sulla gravità della crisi, finora sottovalutata, sia sulle risposte da fornire, finora inadeguate».
Il governo italiano non ha un’idea forte. E gli altri governi d’Europa?
«Tutti seguono un indirizzo preciso, tranne noi. E tranne la Germania, anche, che comunque ha una sua forza economica che resta molto maggiore rispetto alla nostra. Perchè ricordiamoci che l’Italia nel 2008 farà peggio di quasi tutti i paesi d’Europa. C’è chi fa scelte forti a favore dei consumi, come la Gran Bretagna, chi ha deciso di sostenere gli investimenti, come intende fare Sarkozy soprattutto per auto, edilizia e scuola. C’è chi pensa a entrambe le cose: Zapatero in Spagna e, ovviamente su diverse dimensioni, Obama negli Stati Uniti».
E c’è chi dice “consumate, gente, consumate”, come Berlusconi. Che senso ha far credere che la gravità della crisi sia nelle mani dei cittadini?
«È un segno di impotenza e di rassegnazione da parte di un governo che vuole apparire decisionista e che invece di decisioni forti non ne sa prendere. Uno scarico di responsabilità. Ormai tutti gli economisti convergono su alcuni punti: per esempio, il fatto che ci vuole un grande intervento sugli ammortizzatori sociali. Anche Francesco Giavazzi l’ha scritto sul Corriere (ieri in un editoriale dal titolo programmatico “Trovare il coraggio”, ndr). Intendiamoci: è vero che i cittadini devono avere un ruolo attivo, così com’è vero che i consumi sono un elemento importante dell’economia. Ma i problemi più gravi sono quelli del manifatturiero e dei servizi, e invece di questi si tace. Anche la logica del bonus, delle una tantum, non serve. Per essere davvero efficaci, per ridare fiato a una domanda asfittica, gli interventi devono avere un certo tasso di strutturalità, cioè di permanenza nel tempo. Invece, nella logica delle una tantum c’è solo l’idea di prendere quello che si può, qui e subito, senza poter scommettere sul futuro. E senza futuro non si fa nulla: è chiaro che una parte del paese di soldi non ne ha proprio, ma un’altra è spinta a tenerseli stretti perchè naviga nell’incertezza. I segnali psicologici positivi non si danno con le parole ma con i fatti. Dalla crisi usciremo di sicuro, il punto è quando e come, con quali margini di povertà, di disperazione anche, con quali assetti produttivi e quali reti pubbliche, visto che l’unica cosa che è stata fatta sono i tagli a sanità, enti pubblici, scuola. Qual è il progetto sociale? A recessione terminata, rischiamo di avere molti più poveri, in un paese attraversato da più divisioni, più conflitti, più xenofobia. Anche questa è una ragione importante dello sciopero».
Il governo sta cercando 3 miliardi in più, il fondo per gli ammortizzatori sociali verrà rafforzato.
«Per forza: lo scheletro delle misure è debole, quindi è costretto a correggere continuamente il tiro, in modo occasionale. Tremonti ha sbagliato la Finanziaria e non lo vuole ammettere. Diceva che non l’avrebbe toccata, e invece è già accaduto tre volte. C’è una somma di contraddizioni che il governo si è portato dietro e che determinano la situazione attuale, dai tagli alla spesa all’eliminazione totale dell’Ici, promessa in campagna elettorale. È mancato il coraggio di correggersi».
E adesso sta arrivando una valanga di cassa integrazione.
«Da gennaio sarà anche peggio. Per la prima volta in 10 anni riguarderà tutta la meccanica, non solo l’auto e la Fiat, ma la siderurgia, la robotica, ovvero il nerbo dell’industria italiana che ha assoluto bisogno di aiuti in grado di sostenere gli investimenti. Tutto il 2009 sarà segnato dalla crisi, i tempi dipenderanno molto dall’efficacia delle risposte».
Il sindacato è diviso, di conseguenza più debole. Pezzotta, ex leader Cisl, ieri sul nostro giornale spingeva per l’unità tra le confederazioni. Bonanni dà segnali contraddittori. Lei ci crede ancora?
«Noi continueremo a ricercarla. Dovremmo essere in grado di concentrarci, insieme, sulla crisi. Ma vedo una forte volontà da parte del governo di dividere, e di certo ha molti poteri di persuasione. Chiaro, non dovrebbero prefigurarsi accordi separati sulla riforma del modello contrattuale...Ma io sono realista. E non so se questo sarà possibile».
Lei ha esortato anche il Pd ad avere più coraggio rispetto alla crisi, in relazione allo sciopero ma non solo.
«Dovrebbe avere più coraggio, e stare più vicino alle persone. Andare in giro a vedere come stanno davvero, farsi un’idea di quale sia la situazione del paese. Il Pd non può restare fermo, altrimenti implode, dev’essere in grado non solo di avere un progetto ma anche di attuarlo. È chiaro che, per farlo, deve avere un profilo identitario molto netto. Non avere un’opposizione forte è un problema per tutti, per la democrazia stessa. Deve recuperare autorevolezza».
L’autorevolezza rischia di sbriciolarsi di fronte alla cosiddetta questione morale. Che idea s’è fatto di quanto sta accadendo in questi giorni?
«Credo nell’onestà della stragrande maggioranza degli amministratori. Se c’è qualche mela marcia, va isolata. Ma il problema è che il Pd ha una struttura debole, sia al centro sia in periferia. Sconta anche un po’ di approssimazione nel processo con cui è stato costruito. A questo punto, oltretutto di fronte a una situazione così grave, le uniche cose da fare sono rafforzarlo e consentire a Veltroni di continuare il suo lavoro».
Opposizione fragile, sindacato diviso: la Cgil si sente isolata?
«La Cgil ha un sovrappiù di responsabilità. La crisi politica ha effetti anche sul sistema della rappresentanza sociale. C’è il bisogno urgente che le persone che non condividono le scelte del governo trovino un progetto di cambiamento sul terreno politico. In un clima in cui si perde la speranza, il bisogno diventa più forte. È per questo - la questione dell’autonomia è ampiamente superata - che non possiamo essere indifferenti a quanto avviene in politica».

Corriere della Sera 9.12.08
Passoni: il partito non perda quest'occasione visibile di dissenso. Sì da Fassino, Bersani e Finocchiaro
Il Pd nell'angolo tentato dalla carta Cgil
Ex ds in piazza con Epifani per lo sciopero di venerdì. Ma gli ex dl disertano
di Enrico Marro


Tra gli ex Margherita manifesta solo la Bindi.
Cofferati sì, Chiamparino no. E il leader cgil spera di convincere D'Alema

ROMA — Una piazza, l'unica piazza offerta a una sinistra frastornata dalla questione morale. Anzi, 100 piazze. Sono quelle che la Cgil occuperà venerdì con altrettante manifestazioni provinciali per lo sciopero generale contro il governo. «È l'unica iniziativa visibile di dissenso», osserva Achille Passoni, ora senatore del Pd, l'uomo che nel 2002, come segretario organizzativo della Cgil, fu protagonista della grande mobilitazione solitaria di allora. Oltretutto, aggiunge, «il partito farebbe bene a concentrarsi su queste tematiche mentre, purtroppo, mi pare che stia discutendo d'altro ». Ma l'occasione che pure si offre al Pd di dirottare l'attenzione sull'emergenza economica non pare in grado di far superare al partito la divisione che ormai si è creata tra la componente che viene dai Ds, schierata con la Cgil, e gli ex margheritini, che stanno con la Cisl di Raffaele Bonanni, contraria allo sciopero.
«Io non sarò in piazza — dice l'ex ministro del Lavoro Tiziano Treu — perché penso che, anche se i provvedimenti del governo sono insufficienti, uno sciopero isolato non sia utile». Tra i manifestanti non ci saranno neppure Enrico Letta, Beppe Fioroni, Franco Marini e un altro ex Cisl come Pier Paolo Baretta, solo per fare alcuni nomi. In piazza, invece, hanno detto che andranno Pier Luigi Bersani,Piero Fassino, Cesare Damiano, Anna Finocchiaro e Rosi Bindi (eccezione rispetto alla componente margheritina), oltre agli ex Cgil come lo stesso Passoni e Paolo Nerozzi. In questa situazione, Walter Veltroni, segretario del Pd, non potrà che «astenersi ». Del resto, spiegano al quartier generale dei democratici, «il partito in quanto tale non aderisce a manifestazioni del sindacato ». Ciò non toglie, aggiungono, che i singoli esponenti possano partecipare a titolo personale.
Una prova difficile anche per la Cgil, quella di venerdì, perché il sindacato rosso ha deciso di affrontarla senza la Cisl e la Uil. Per Epifani è la seconda volta: era alla guida della confederazione da meno di un mese quando, il 18 ottobre 2002, la Cgil andò allo sciopero generale da sola. C'era sempre il governo Berlusconi e si trattava di difendere l'articolo 18. Anche allora ci furono un centinaio di manifestazioni, la più importante a Torino, dove in piazza c'era il segretario dei Ds, Piero Fassino. Questa volta, invece, Epifani terrà il comizio a Bologna. Ma appunto Veltroni non ci sarà. Scontata invece la presenza del sindaco Sergio Cofferati, che guidò la Cgil fino al settembre 2002. A Torino, al contrario, non ci sarà il sindaco Sergio Chiamparino, ma per una questione di forma, spiega: «Anche se trovo condivisibili i temi sollevati dalla Cgil, non partecipo a manifestazioni, anche quando sono unitarie, se non su tematiche riguardanti la città». Tra i big della segreteria Cgil, Susanna Camusso parlerà a Mestre, Fulvio Fammoni a Bari, Morena Piccinini a Milano, Nicoletta Rocchi a Genova.
Ci sono ancora alcuni nodi importanti da sciogliere. Come quello di Massimo D'Alema. Epifani vedrà l'ex leader dei Ds mercoledì a Napoli in occasione di un convegno e non dispera di avere D'Alema in piazza, come nel 2002. Restando a Napoli, dove parlerà il segretario della Fiom Gianni Rinaldini, c'è l'incognita Antonio Bassolino. Nessuno, fino a qualche settimana fa, avrebbe messo in dubbio la partecipazione del presidente della Regione alla manifestazione della Cgil, ma ora, con la tempesta giudiziaria in corso, perfino il segretario della Cgil campana, Michele Gravano, non si sbilancia: «Non mi ha ancora detto niente. Ma aspettiamo qualche giorno, di solito gli scioperi montano nell'ultima settimana ». Solo che in un Pd scosso dalla questione morale, se c'è chi spera che la mobilitazione per lo sciopero della Cgil monti e diventi un'occasione di rivincita, altri temono che si trasformi in un ulteriore fattore di divisione. Chi non ha invece dubbi è Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione comunista. Lui di manifestazioni cercherà di farsene due, a Roma: «Sicuramente quella della Cgil, ma se ci riesco anche quella dei sindacati di base».

l’Unità 9.12.08
Intervista a Theo Angelopoulos
«I manganelli non servono. Nel Paese c’è vero disagio»
di Malcom Pagani


Il tema nascosto di tutto il suo cinema, l’enfasi di un potere inadeguato a relazionarsi col circostante, deflagra in immagini disperanti. Oltre i fumi delle barricate, i 73 anni di Theo Angelopoulos appaiono una convenzione. La voce toccata, l’attenzione desta. «Sono molto preoccupato, triste, spaventato, deluso. Passano i decenni, non impariamo nulla». A Monaco di Baviera per lavoro, il maestro greco già palma d’oro a Cannes nel ‘98, segue senza sospensioni il passo degli eventi. «La responsabilità di ciò che sta accadendo è interamente del governo greco e del Premier Karamanlis. Impressiona l’universalità della risposta, sempre la stessa, dai tempi dei colonnelli. Davanti a un disagio reale, ecco entrare in scena manganelli e lacrimogeni. Una grande nazione, quando possiede anticorpi che derivano dalla sua stessa storia, utilizza altri sistemi».
La protesta sta travalicando i confini.
«Non poteva essere altrimenti. A Berlino hanno occupato il consolato, osservo in tv fotogrammi spaventosi. La faccia di quel ragazzino a terra, Grigoropulos, i suoi quindici anni buttati via, i sogni sul selciato, la violenza che non sa ascoltare altra ragione che la propria. Elementi che getterebbero nella preoccupazione chiunque, non soltanto chi ha lottato per la democrazia».
Gli scontri sono ripresi anche a Salonicco, set di tanti suoi film.
«Mi hanno chiamato anche da lì, la rivolta non finirà in poche ore, questo è certo. Ma l’aggressività giovanile va letta in controluce. È la spia di una collera che trova radici nella situazione economica della Grecia, nella sua classe politica squalificata, nella cristallizzazione dell’esistente. Per recedere da quest’immobilità, invece degli idranti, bisognerebbe mettere in campo una proposta, una concreta volontà di cambiamento, un segnale di discontinuità».
Come spesso accade, i primi fuochi si sono accesi tra i banchi di scuola.
«L’università e l’educazione sono le radici su cui edificare il sentire comune. Pensare di derubricarli a questioni secondarie, denuncia la miopia e l’arroganza di chi è abituato a trattare ambiti così importanti con consumato disprezzo».
C’è, in queste ore difficili, un dato che la inquieta più di altri?
«L’incapacità di capire la gioventù. Dovrebbe essere la discussione prìncipe su cui pianificare il futuro, la problematica che soppianta la vacuità del quotidiano e l’inseguirsi scontato di notizie inutili. Invece nulla, solo parole vuote e imbarazzato silenzio. Una sconfitta totale, l’ennesima cui assisto nella mia vita».

Corriere della Sera 9.12.08
Vassilis Vassilikos: «E' la rabbia di un Paese intero»
Lo scrittore Vassilikos: «Un test per il governo e per la sinistra»
di Antonio Ferrari


ATENE — È stato un assassinio, Vassilis? Il poliziotto ha sparato per uccidere?
«Sì, Antonio. È stato un assassinio».
Ne è sicuro?
«Non solo. Annoti bene: assassinio a sangue freddo. Per questa ragione Alexis Grigoropoulos, neppure 16 anni, un bel ragazzo ribelle, è diventato un eroe. Non so cosa accadrà nel mio paese».
Non ha perso la passione civile Vassilis Vassilikos, il celebre scrittore greco autore del libro «Z, l'orgia del potere», la storia vera dei soprusi che precedettero la dittatura dei colonnelli, culminati con l'assassinio di Grigoris Lambrakis. Storia resa popolare dall'omonimo film di Kostas Gravas, interpretato da Yves Montand, Irene Papas e Jean Louis Trintignant. A 72 anni, dopo decine di libri di successo e l'incarico di ambasciatore all'Unesco di Parigi, Vassilikos si specchia nelle reazioni di sua figlia, non ancora maggiorenne e per nulla estremista, che partecipa alle proteste dopo l'uccisione di Alexis, diventato l'icona di tutti i blog della Grecia.
Qual è la principale ragione della rivolta degli anarchici del quartiere di Exarchia?
«Non mi risulta che vi sia stata una rivolta. Vi è stato un episodio gravissimo, una fiammata improvvisa. Insomma, l'assassinio di Alexis è stato il detonatore di una frustrazione, di una rabbia compressa che tutti avvertivamo ma che non eravamo in grado di esprimere ».
Rabbia contro chi?
«Sa bene che cos'è accaduto nell'ultimo anno. Il tentativo di suicidio di Zachopoulos, il potente direttore generale del ministero della cultura che si è lanciato dal quarto piano ed è ancora vivo; il caso di Vatopedi, con proprietà dello stato cedute, con uno scambio derisorio, al monastero di padre Efrem; e poi quei 22 milioni di euro dati alle banche invece di darli a chi soffre per la crisi. Accumula oggi, accumula domani, alla fine vi è stato il detonatore dell'assassinio ».
Lei continua a chiamarlo assassinio.
«Giudichi lei. Arriva l'auto della polizia, sabato alle 21, nel quartiere di Exarchia. La gente, nei bar, beve il caffè o l'ouzo. I poliziotti avvistano tre ragazzi, che li affrontano, vola qualche insulto».
Tre o trenta ragazzi?
«Tre! Tra loro c'è Alexis. Forse è un po' esagitato. Appartiene a una famiglia delle medio-alta borghesia ateniese. Il padre è un noto gioielliere. Il ragazzo, con idee rivoluzionarie, studiava al liceo Moraitis, uno dei più prestigiosi della capitale. Aveva combinato qualcosa, gli avevano dato 3 giorni di sospensione. Ha il sangue caldo, indirizza agli agenti parole sconvenienti. I due poliziotti vanno a parcheggiare l'auto e, a piedi, inseguono i tre. Volano parolacce, d'accordo. Però nulla giustifica che uno degli agenti estragga la rivoltella e spari, ad altezza d'uomo. Le testimonianze di chi ha seguito la scena dai bar sono precise. "Visto tutto. Pensavamo si trattasse di colpi a salve". Il ragazzo cade, i compagni credono che sia scivolato sul selciato, ma dopo un attimo si rendono conto che è stato colpito a morte. I due agenti se ne vanno, apparentemente tranquilli. Si attiva Internet, la democrazia dell'immediato, che arriva prima della tv. Partono i primi sms. In un attimo la Grecia sa quanto è accaduto. Il ministro dell'Interno Prokopis Pavlopoulos, presenta immediatamente le dimissioni, che il premier rifiuta. Karamanlis ha fatto bene a rifiutarle».
Perché?
«Perché Pavlopoulos è un uomo onesto, un galantuomo! Da un anno gli era stato assegnato, oltre all'Interno, il ministero dell'Ordine pubblico che era guidato dal discusso Vyron Polidoras».
In che senso?
«Nel senso che aveva definito i poliziotti "pretoriani dello stato", convincendoli che, se affrontati, avrebbero potuto reagire severamente, tanto nessuno li avrebbe messi sotto accusa».
Lei va sul pesante.
«È la verità. Pavlopoulos, che si è caricato il fardello sulle spalle, è un galantuomo».
Il governo rischia di doversi dimettere?
«Non deve. Ma Karamanlis sia più presente».
E l'opposizione? E la sinistra?
«La sinistra! Ha problemi dappertutto. In Francia, in Italia, e anche il Grecia. Quanto accadrà è imprevedibile. Non penso agli anarchici, non solo agli studenti. Penso che ormai sia coinvolta l'intera società, anche i giovani del partito di governo, Nuova democrazia. L'assassinio di Alexis è stato il detonatore di un serio disagio. Nessun paragone con il passato. È il presente che dobbiamo studiare e dal quale dobbiamo imparare e capire ».

l’Unità 9.12.08
Rivolte e disoccupazione
La crisi scuote la Cina


Il 2009 in Cina potrebbe essere l’anno delle grandi rivolte sociali.
Quelle destinate a cambiare faccia al Paese e. Sono previsioni diffuse e alimentate dalle notizie che in questi giorni arrivano dalla Cina. Poche settimane fa a Longnan, nel Gansu, è scoppiata una rivolta violentissima dopo che le autorità avevano annunciato l’intenzione di spostare altrove gli uffici amministrativi locali. Secondo i dati ufficiali di Pechino ogni anno in Cina scoppiano circa sessantamila rivolte di questo tipo. Ma ora le proteste si moltiplicano. Così i giornali hanno dovuto occuparsi della recente rivolta dei tassisti di Chongqing che hanno protestato contro la concessione di nuove licenze. E di quella di Shenzhen, dove la polizia è stata aggredita per aver tentato di fermare un motociclista causandone la morte. Dietro le migliaia di micce pronte ad accendersi ci sono i primi effetti della crisi economica mondiale. La riduzione della domanda di prodotti cinesi dall’estero ha già creato un milione di disoccupati.
Non sarà dunque la domanda di democrazia a far scoppiare la Cina, ma il primo duro colpo al boom economico. Anche se le occasioni che potrebbero scatenare rivolte più importanti sono tutte politiche: il ventesimo anniversario degli scontri di piazza Tiananmen il 4 giugno. E il cinquantesimo dell’occupazione del Tibet il prossimo 10 marzo.

l’Unità 9.12.08
L’occidente che tace
Diritti umani, domani sono 60 anni dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e Amnesty denuncia: l’Occidente ha imparato a tapparsi il naso pur di mantenere rapporti economici con le dittature. Così con la Cina o con l’Iran che minaccia di chiudere i rubinetti del petrolio
di Gabriel Bertinetto


DA GUANTANAMO ALLA CINA LA SCIA DEI DIRITTI VIOLATI
Il mondo occidentale, dopo essere stato la culla dei diritti, non dà l'impressione di esserne ora la patria nella quale vengono universalmente sostenuti. C’è sempre un motivo per spiegare l’ignavia dell’Occi-
dente. Il caso del premio Nobel mai assegnato per motivi diplomatici al dissidente cinese Hu Jia

Il coraggio a volte uno se lo può dare. Nicolas Sarkozy sabato scorso ha incontrato il Dalai Lama, nonostante pochi giorni prima, come forma di protesta preventiva, Pechino avesse annullato un vertice con la Francia. Risalendo nel tempo, ecco il Parlamento europeo, il 23 ottobre, conferire al dissidente cinese Hu Jia il premio Sakharov per la libertà di pensiero. Il giorno dopo a Pechino si apriva il vertice Asia-Europa, con la partecipazione dei capi di Stato e di governo di 43 Paesi. Le autorità della Repubblica popolare hanno contestato a viva voce l'iniziativa degli eurodeputati, ma non risulta che i commerci internazionali ne abbiano sofferto e gli imprenditori del vecchio continente abbiano perso importantissime commesse.
Eppure proprio questo è l'argomento che spesso viene portato a giustificazione della timidezza con cui i dirigenti dei Paesi democratici affrontano il tema dei diritti umani violati con i leader degli Stati in cui quelle violazioni avvengono: attenzione, potrebbero andarci di mezzo i nostri interessi economici. Oppure -si sente dire anche questo- ne verrebbero compromessi i rapporti politici a tutto danno degli equilibri strategici generali. A questo tipo di logica si era probabilmente piegato, ad esempio, sempre in ottobre, il comitato di Oslo evitando di assegnare il Nobel per la pace allo stesso Hu Jia, favoritissimo alla vigilia.
Oscillazioni opportunistiche. Comportamenti diversi od opposti rispetto a situazioni analoghe. Nell'ultimo rapporto annuale Amnesty International (A.I.) ricorda con rammarico come «nel 1948 gli Stati membri delle neonate Nazioni Unite con un atto di straordinaria leadership senza neanche un voto di dissenso adottarono la Dichiarazione universale dei diritti umani». Della quale domani ricorre il 60° anniversario. Purtroppo, constata A.I., presto «i diritti umani divennero un elemento di divisione tra le due superpotenze impegnate in un lotta ideologica e geopolitica per stabilire la propria supremazia». Archiviata la guerra fredda, i diritti umani sono tornati ad essere ostaggio di logiche di parte. «Gli attacchi terroristici dell'11 settembre 2001 hanno trasformato ancora una volta il dibattito sui diritti umani in uno scontro frontale e distruttivo tra Occidente e non Occidente». E c'è poco da essere ottimisti se la più influente democrazia del mondo, gli Usa, ha giustificato in quel contesto i crimini di Guantanamo o Bagram.
Relativismo e atteggiamenti pilateschi sono largamente diffusi. Il balletto pre-olimpico ne è stato una «penosa e prolungata esibizione», dice Luigi Bonanate, docente di relazioni internazionali. «Un capo di Stato o di governo va alla cerimonia inaugurale, un altro no. Uno dice che non ci va e poi ci ripensa, e così via. Ora, secondo me, la questione non era tanto il disertare oppure no quel'evento, ma prendere una posizione comune. Si poteva anche decidere di andarci, ma tutti insieme, dopo avere fatto vedere chiaro al mondo che l'Occidente si rende conto che le cose in Cina dal punto di vista dei diritti umani e democratici non vanno affatto bene». Invece ci si muove in ordine sparso, e questo consente ai Paesi che sono in difetto, di giocare di sponda fra i vari livelli di severità e di coerenza da parte dei «virtuosi». Manca un governo mondiale, ma questa non può essere una scusa. In realtà, aggiunge Bonanante, «sono i Paesi che potrebbero avere un ruolo trainante all'interno dell'Onu a minarne l'autorevolezza, come avvenne quando Bush mandò il povero Powell a fare la figura del clown a Palazzo di Vetro mostrando false prove sulla disponibilità di armi di sterminio da parte di Saddam come pretesto per attaccare l'Iraq. Così l'Onu finisce per somigliare a una vecchietta che tenta di attraversare sulle strisce pedonali, senza che le auto (gli Stati membri) si fermino per farla passare».Si è timidi con la Cina, perché è una potenza politica ed un formidabile partner commerciale. Con l’Iran perché potrebbe chiudere i rubinetti del petrolio e aprire le cataratte dell’estremismo integralista fuori dai propri confini. Con la Libia, perché può soffiare sulle vele dei vascelli carichi di emigranti clandestini. C’è sempre un motivo, non gridato, per lo più mormorato a mezza voce, per spiegare l’ignavia dell’Occidente. Ma capita persino che nessuna di queste ragioni si imponga davvero, e sia piuttosto l’indifferenza o un «riflesso etnocentrico» a fare da freno. Bonanate cita il caso birmano. Un anno fa, le violenze del regime attirarono per qualche settimana l’attenzione mondiale. L’Onu e la Ue promossero iniziative diplomatiche. Ma senza il sostegno dell’opinione pubblica e dei governi, quelle missioni hanno potuto incidere poco.

l’Unità Lettere 9.12.08
Libertà vera di culto

Dopo aver letto delle pretese dei vescovi italiani che hanno chiesto e (subito) ottenuto di esentare le scuole cattoliche dai tagli, chiedo anch'io una moratoria come quella proposta dalla Lega per i musulmani. Vorrei che per due anni non si costruissero nuove chiese con i soldi nostri, vorrei che per due anni non pagassimo i catechisti nella scuola pubblica con i soldi nostri, vorrei che per due anni la Chiesa pagasse le imposte sugli immobili e sulle attività economiche, mascherate da attività religiose (come i pellegrinaggi). Sarebbe un bel risparmio e notevoli introiti per lo stato! Ovviamente i cattolici che volessero supplire, pagando di tasca loro tutte queste attività, sono liberissimi di farlo.
di Anna Maria Quattromini

l’Unità 9.12.08
A Lucca due giorni di confronto sul tema «Il turbamento e la scrittura»
L’intreccio singolare tra sanità e disagio in una città che ha convissuto col «suo» manicomio
Narratori e Follia, storia antica. Ma il patto oggi non c’è più
di Maria Serena Palieri


Dai Greci a Beckett qual è il filo che lega disagio psichico e creazione letteraria? Nel centenario d’uno straordinario scrittore-psichiatra, Mario Tobino, un incontro. Che fa anche il punto sul presente.

In principio, spiega Milo de Angelis, c’è il turbamento: «È lì che nasce il passaggio dal silenzio alla parola. Poi comincia un cammino lunghissimo, pieno di posti di blocco e sabbie mobili». Per il cinquantasettenne poeta milanese, premio Viareggio nel 2005 per Tema dell’addio, opera che intagliò interamente dentro il dolore per la perdita della moglie, la poesia nasce, dunque, dal «turbamento». Parola che, spiega, lo fa sentire in uno stesso vortice interiore in compagnia con Tasso e Musil. De Angelis rifiuta invece di vedersi collocato nell’area del disagio, termine che sarà l’equivalente, ma, osserva, è «sociale»: sì, conveniamo, in effetti il termine «disagio» non entra negli animi, serve a classificare, per esempio, col Censis, coorti di disagiati teen-ager o immigrati.
Marosia Castaldi ha scritto le 716 pagine di Dentro le mie mani le tue, maestosa celebrazione di un delirio, pensando a sua madre, perché «la scrittura ha a che fare con i morti e con la Morte». La scrittura, poi, aggiunge, «dev’essere turbamento anche per chi legge». E, se anche tutto questo significa smerciare poco i propri libri, ma vederli durare, lo scopo è raggiunto: «Se pensassi che un mio libro vende un milione di copie ma dopo tre mesi non c’è più, starei male» precisa. E, senza arrossire, aggiunge: «Scrivere risponde al desiderio di immortalità».
CASI CLINICI O LETTERARI?
In tempi di «intrattenimento» - scrittori che ci fanno divertire, che ci stupiscono, che cazzeggiano, che, bambini non cresciuti, ci fanno ridiventare infanti - per fare discorsi così ci vogliono alcune condizioni. Ci vuole una sala dentro il Palazzo Ducale di Lucca, città di 83.000 abitanti, che fuori dalle sue mura arancio, su un colle, ha custodito il più antico manicomio italiano, dal 1773 al 1978 della legge Basaglia che i manicomi li aprì: millequattrocento posti-letto, più o meno uno per ogni dieci abitanti della Lucchesia e, per i restanti lucchesi sani, posti di lavoro come infermieri, custodi, pulitori, coltivatori degli orti. Ci vuole, in questa sala, un convegno sulla struggente e magnifica figura di psichiatra e scrittore che dentro l’ospedale psichiatrico di Maggiano, internato come i suoi «matti» (lui, pratico, li chiamava così), è vissuto per più di quarant’anni, Mario Tobino. E ci vuole, per finire, il bel coraggio con cui, per la Fondazione Tobino, Giulio Ferroni ha chiamato alcuni scrittori «turbati» a dire di sé: Castaldi, De Angelis, Anedda. E l’impagabile Andrea Zanzotto che, intervistato in video da Laura Barile, fa l’elenco dei suoi mali giovanili, ansia, depressione, mania febbrile... O gli altri, morti, evocati dai relatori: l’Ottieri affetto da disturbo bipolare e in dialogo col gran mago dei farmaci Cassano - fulmineo il distico da Il palazzo e il pazzo: «Scusi, posso essere un caso letterario,/invece di un caso clinico?» - dipinto da Raffaele Manica, o la Fabrizia Ramondino che combatte la depressione con taccuino e bottiglia ritratta da Beatrice Alfonzetti.
Viva la malattia? Era il credo neo-romantico degli anni ’70. Una eco ce n’è ancora nel culto di massa che nei festival letterari viene tributato oggi non alla poesia - alta - ma alla vicenda psichiatrica di Alda Merini: pure qui, in una saletta accanto addobbata di viola, la sua voce registrata accompagna la mostra degli strumenti clinici usati a Maggiano come in tutti i manicomi, prima dell’invenzione del primo psicofarmaco, il Largactyl, nel 1952. Sono camicie di forza, il piccolo macchinario per l’elettrochoc, il giaciglio di alghe in cui dormivano i malati agitati.
Ma, complice questa singolare città, dove gli utenti psichiatrici della Asl2, organizzati nel gruppo di teatro-terapia «Il gambero rosso», irrompono in spazi pubblici come questo tintinnando minacciosi mazzi di chiavi per farci «sentire» con le nostre orecchie cos’erano i manicomi, il tema che prende banco è un altro. È la prossimità tra malattia e salute, è l’alchimia tra disagio e creatività ed è il singolare nesso che, da tremila anni, corre tra «fiction» e follia: gli scrittori sono spesso disagiati, ma anche i loro personaggi non scherzano...
In origine furono l’Aiace di Sofocle e l’Ercole di Euripide: il primo fa strage di vacche credendo di uccidere Agamennone, il secondo ammazza moglie e figli convinto di far fuori il Tiranno di Tebe e i suoi parenti; poi c’è l’Orlando di Ariosto con la sua furia amorosa, c’è Torquato Tasso che è matto lui, ci sono i «fools» di Shakespeare, c’è Don Chisciotte che, col suo delirio di lettore, è la quintessenza pura di questo tema, c’è Hölderlin che scrive indossando la museruola nel manicomio di Tubinga, c’è il forastico sublime Heathcliff di Cime tempestose, c’è la compulsiva e suicida Emma di Flaubert, ci sono i personaggi di Dostoievskij tutti a dir poco borderline, i «maudits» francesi, c’è Nietzsche, e col Novecento e con l’inconscio - post Freud - sotto la luce dei riflettori è un tripudio, Mattia Pascal e tutto Pirandello, Celan, Beckett...
A sentirla raccontare così, da Guido Paduano, Giulio Ferroni, Alfonso Berardinelli, la storia della «fiction» in Occidente è una secolare storia della follia. Di una follia - quella dei personaggi - analizzata e messa in scena o - quella degli autori - che ha saputo trovare strade per oggettivarsi.
E oggi? Ferroni osserva che per narrare bisogna fare esperienza. Non virtuale, reale. Ma l’esperienza è in corso altrove, quella, fa l’esempio, degli Oz e i Grossman in Israele. E la «fantasia folle» si è rifugiata altrove: dalla sua casa di Pieve di Soligo, Andrea Zanzotto dice è che è nella divinità attribuita a Pil, finanza e banche. Dalle nostre parti la divina follia del narrare non è una malattia corrente. La narrativa è intrattenimento... Però la follia che è «disagio» ed è solo segreta sofferenza sotto sotto è in crescita: a Lucca la monitorano, un ottavo della popolazione, cioè diecimila cittadini, sono in cura alla Asl, metà sono giovani. E in Gran Bretagna registrano una crescita di autismi «settoriali»: nella società della comunicazione cresce il numero di persone che, per pezzi di sé, congelano il rapporto col mondo. Per narrarlo chi ci vorrebbe ora, Cervantes?
l’Unità 9.12.08
Mario Tobino e la legge 180. La sua verità nel diario inedito
non disponibile on line

Corriere della Sera 9.12.08
Arte e politica, la Kirchner salva Siqueiros
Il governo argentino recupera il mural «maledetto» dell'artista messicano
di Alessandra Coppola


Conteso da più proprietari, l'affresco sarà ora restaurato e esposto nel giardino della Casa Rosada

Non è solo la storia di uno strato di intonaco nella cantina di una villa in decadenza alla periferia di Buenos Aires. Nel recupero di «Ejercicio Plástico», capolavoro che il messicano David Alfaro Siqueiros dipinse durante il soggiorno argentino, c'entrano l'arte e la letteratura, si inserisce la rivoluzione, si intravedono gelosie e tradimenti, cala uno strato di calce moralista, si ritorna alla politica e si arriva infine alla straordinaria vicenda di un mural che qualche critico si è spinto a definire la Cappella Sistina dell'arte moderna.
L'effetto è quello di un acquario. Così l'aveva immaginato l'artista imprigionando la moglie Blanca Luz in un cubo trasparente a fargli da modella. Una bolla d'aria dentro un mare di donne nude e forti che nuotano e spingono alle parenti: sulla volta, sul fondo, sul pavimento. Da 18 anni sezionata in sei parti e conservata in condizioni precarie, l'opera tornerà a essere ricomposta e restaurata per decisione della «presidenta» Cristina Kirchner. In attesa che si risolvano le dispute sulla proprietà, sarà esposta nei giardini della Casa Rosada, la sede del governo di Buenos Aires.
Leggenda vuole che Siqueiros l'avesse pensato come bar sotterraneo. «Ma non è vero», smentisce al quotidiano El País l'esperto messicano Manuel Serrano, che nel '90 ebbe il compito di applicare lo strato di resina ai pezzi di intonaco da conservare e che ora ha riaperto le casse che li custodivano. L'obiettivo del muralista, secondo Serrano, era quello del titolo: un «esercizio plastico», condotto, come usava allora, con la collaborazione di amici artisti.
È il 1933: dopo la rivoluzione di Pancho Villa ed Emiliano Zapata, e subito prima del coinvolgimento nella guerra di Spagna, del ritorno in Messico, del-l'attentato a Trotsky, con Siqueiros che spara colpi in aria (e alle finestre) alla guida del «commando ». Il muralista ha quasi 37 anni, ha già dipinto Sepoltura di un lavoratore e ha una discreta fama nel Continente. Accompagnato dalla inquieta moglie, la poetessa uruguayana Blanca Luz Brum, arriva a Buenos Aires su invito di Victoria Ocampo, per animare le conversazioni della Società degli Amici dell'Arte. Siqueiros il dibattito lo turba, lo scuote, lo infiamma con discorsi sull'arte rivoluzionaria che deve parlare direttamente al popolo, poco adatti agli aristocratici circoli intellettuali argentini. La serie di incontri viene sospesa.
È a questo punto che l'artista messicano accetta l'invito di un editore uruguayano, Natalio Botana, fondatore della rivista
Crítica (alla quale collaborò anche Borges): vitto e alloggio alle porte di Buenos Aires, in cambio di un mural. «Il frutto forzato della nostra condizione di salariati », lo definirà Siqueiros.
Della palazzina un po' kitsch, mezza araba mezza coloniale, dimora di Botana e dell'eccentrica moglie Salvadora Medina Onrubia, pittrice e veggente, Siqueiros sceglie la piccola cantina a volta. E lì si mette al lavoro, su un tema per una volta non politico. L'intesa tra Bianca Luz e l'ospite mecenate, però, dicono sia particolarmente forte. Troppo per il sangue di Siqueiros, che rinnega la model-la, cambia i volti delle donne dipinte e lascia l'Argentina per la Spagna della Guerra Civil.
Il mural viene abbandonato al suo destino: la villa venduta a lotti, la cantina con parte della casa acquistata da Alvaro Alsogaray, ministro dell'Economia negli anni '60, la cui moglie considera l'opera scabrosa per gli occhi dei propri bimbi e la fa ricoprire di calce. Arriva un terzo proprietario, un quarto, un quinto. Il mural, ripulito, passa di mano in mano. Viene staccato, sezionato, conservato, rivenduto al prezzo di 820 mila dollari. Conteso in una complicata vicenda legale ancora in corso. Nell'attesa, la cappella riprenderà forma. E per la prima volta sarà accessibile al pubblico: non sarebbe dispiaciuto al sanguigno, umorale, geniale, violento ma soprattutto rivoluzionario Siqueiros.

Corriere della Sera 9.12.08
Su «Nature Nanotechnology» Secondo la rivista, la religione costituirebbe una sorta di filtro nell'affrontare le nuove frontiere
I dati Studio sui Paesi della Ue: Italia e Irlanda le nazioni più contrarie, Belgio e Olanda le più favorevoli
Se la fede frena le nanotecnologie
di Giovanni Caprara


Il confronto. «Abbiamo constatato quanto il credo religioso sia in grado di mettere in cattiva luce le nanotecnologie». Gli esperti italiani: «Ma più della fede incide la cultura che rifiuta la scienza»

MILANO — Le popolazioni più religiose vedono male la nuova frontiera delle nanotecnologie. Alla singolare conclusione che lascia perplessi e pone domande, è giunta un'indagine condotta dai ricercatori dell'Università americana del Wisconsin in dodici Paesi europei, più gli Stati Uniti, e pubblicata sulla rivista Nature Nanotechnology
.
Classificando le risposte delle persone intervistate secondo una scala battezzata «Religosity » ritengono di aver misurato l'influsso della religione sugli atteggiamenti mostrati nei confronti delle tecnologie con cui dobbiamo fare i conti ormai quotidianamente. «Così abbiamo constatato quanto il credo religioso sia in grado di mettere in cattiva luce le nanotecnologie — dice il professor Dietram Scheufele del dipartimento Life Science Communication responsabile dello studio — Il motivo è che la religione agisce come un filtro e chi ha una fede legge le informazioni in modo diverso ed è sempre portato a farla prevalere nelle scelte che compie».
In Europa le nazioni più contrarie si sono rivelate l'Italia e l'Irlanda «che sono più religiose ». Più favorevoli, invece, si dimostrano il Belgio e i Paesi Bassi, nota l'indagine la quale proponeva un giudizio su varie tecnologie comprendenti pure quelle legate alla biologia (Ogm), all'informazione (Internet), alla cognizione e al nucleare. Ciò che tuttavia preoccupa non sono tanto gli aspetti sconosciuti quanto le questioni morali poste dall'uso delle nuove conoscenze e la loro ingerenza nella vita. L'atteggiamento negativo è in particolare legato ai rischi, versante sul quale si interrogano insistentemente da tempo in uno dei templi più illustri della tecnologia mondiale come il MIT di Boston.
Le nanotecnologie sono frutto delle manipolazioni della materia a livello nanometrico, cioè nella microscopica dimensione del miliardesimo di metro, riuscendo a produrre sostanze utili in vari campi di applicazione: dalla medicina (farmaci che arrivano sul male da curare) all'abbigliamento (tessuti antibatterici con particelle d'argento), dall'industria alimentare (sostanze per migliorare la conservazione di cibi, le loro doti nutritive oppure la digeribilità) alla cosmetica (prodotti più efficaci perché agiscono più in profondità). Per dare un'idea delle grandezze di cui parliamo il virus dell'epatite C è grande 50 nanometri e una molecola di idrogeno è quasi mezzo nanometro. Altrettanto, sono particelle nanometriche le polveri sottili emesse dalla combustione delle automobili e che respiriamo.
«E' vero che ignoriamo quasi tutto del ciclo di vita delle particelle nanometriche, della loro destinazione e degli eventuali effetti dopo l'impiego come l'accumulo nell'organismo — nota Paolo Milani esperto della materia all'Università di Milano — Questi sono argomenti da chiarire, ma non ho mai riscontrato nel nostro Paese un atteggiamento decisamente contrario salvo alcuni estremismi a priori come può accadere con gli Ogm o il nucleare. Di sicuro anche davanti al rifiuto non ho mai visto una connessione con la religione».
«Più che la fede religiosa, semmai, in Italia — aggiunge Carlo Bottani, specialista nanotecnologico del Politecnico di Milano — ad agire è il substrato culturale più generale che produce simili reazioni negative e che portano al rifiuto della scienza e della tecnologia. E' l'antico dibattito sulle scoperte: le particelle nanometriche usate come farmaci sono ad esempio concepite per colpire solo i tumori e non distruggere i tessuti circostanti. E' evidente che bisogna gestire in modo appropriato ogni innovazione umana perché il vantaggio che genera non si trasformi in danno».
Comunque, avverte il professor Scheufele, i politici devono tener conto delle ragioni espresse dalla società sulle nanotecnologie per poter scrivere regole appropriate, altrimenti saranno inapplicabili.

Corriere della Sera 9.12.08
Il genetista: «Sì, siamo indietro c'è troppa paura»
di Edoardo Boncinelli


Le nanotecnologie sono quel complesso di conoscenze scientifiche e di metodologie che permettono di studiare e modificare la materia, agendo dalle sue fondamenta, cioè al livello degli atomi e delle piccole molecole, che sono appunto delle dimensioni di qualche nanometro, che è un miliardesimo di metro, cioè un milionesimo di millimetro. In questa maniera si può arrivare direttamente al cuore del problema e costruire o preparare materiali esattamente nella maniera desiderata. Queste conoscenze e queste tecniche possono essere applicati alla materia inorganica — per produrre materiali più duri, più isolanti o più conduttori, resistenti alle temperature più elevate o con altre proprietà sempre più avveniristiche — o alla materia organica — per preparare strumenti diagnostici sempre più sensibili, per mettere in circolazione farmaci sempre più potenti o per mettere a punto vere proprie «nanosonde» che entrino direttamente all'interno delle cellule, ad esempio cancerose, per «dare un'occhiata» e informarci su ciò che osservano.
Dal punto di vista produttivo si tratta certamente dello strumento più potente che ci può offrire il mondo di oggi e di domani. Dal punto di vista della biologia e della biomedicina poi, occorre notare che tutti i processi biologici avvengono al livello «nano»: la biologia è nanotecnologica da sempre ed è con questo strumento che la si può controllare meglio. Dispiace quindi profondamente che il nostro Paese sia così indietro anche in questo campo. Perché? Perché siamo molto, troppo, prudenti e diciamo apertamente o sotterraneamente No ad ogni novità, perché la scienza è poco considerata e la cultura scientifica talvolta trascurata se non vituperata e perché non abbiamo una cultura del brevetto. Ci piaccia o meno, il mondo scientifico procede per ricerca, brevettazione, nuova ricerca e infine commercializzazione, specialmente in certi campi. Chiamarci fuori è follia e autentico masochismo. Ciascuno faccia il suo esame di coscienza e veda quanto contribuisce a creare questo clima.

Corriere della Sera 9.12.08
Pd, quelle due verità su Prodi
La discontinuità del nuovo partito rispetto al governo uscente e la scelta di correre da soli senza stringere alleanze a sinistra
di Michele Salvati


Non ha funzionato l'idea di sfondare al centro, ma resta valida la scelta di un forte rinnovamento culturale

Per fare una buona analisi di una elezione nazionale occorre tempo. Passato questo tempo l'elezione non è più una notizia: i suoi risultati e le sue conseguenze sono stati digeriti dai media e la politica au jour le jour
prosegue inarrestabile il suo corso.
Sarebbe però un vero peccato se questo comprensibile effetto mediatico attenuasse l'interesse per Il ritorno di Berlusconi, la ricerca Itanes (acronimo per Italian National Elections Studies dell'Istituto Carlo Cattaneo di Bologna) sulle elezioni del 13-14 aprile, da poco pubblicata dal Mulino. I prodotti periodici di questo gruppo di lavoro sfidano le leggi della stretta attualità, fissano interpretazioni difficilmente confutabili e soprattutto identificano problemi che continuano a riemergere e contro i quali gli attori del gioco politico continuano a sbattere la testa. Così è stato per le ricerche dedicate alle precedenti elezioni politiche, del 2001 e del 2006, e a maggior ragione lo è per quelle di quest'anno: un vero cataclisma, che ha visto una drastica riduzione dei gruppi politici presenti in Parlamento (da 15 a 9, rispetto alla precedente legislatura); la scomparsa della sinistra estrema, dei verdi e dei socialisti; un divario di quattro milioni di voti tra i due poli del nostro bipolarismo, che erano grosso modo equivalenti nelle elezioni del 2006.
Che cosa spiega questo cataclisma? Prima dei tentativi di spiegazione l'Itanes assolve un compito di descrizione accurata dei risultati elettorali: il centrosinistra ha perso perché i suoi precedenti elettori si sono astenuti di più di quelli del centrodestra; perché gli elettori guadagnati dal Partito democratico per effetto del voto utile, molti, hanno ovviamente un effetto nullo sul totale del centrosinistra essendo stati strappati ad altre componenti di questo stesso schieramento; perché il Partito democratico non è riuscito a guadagnare verso il centro e il centrodestra ed anzi perde a favore dei partiti del polo avverso circa il 10 per cento di coloro che nel 2006 avevano votato per l'Ulivo, soprattutto nel Sud.
Questi i dati principali, peraltro noti da tempo. Ma l'Itanes combina i dati elettorali con un'indagine campionaria svolta nelle settimane successive alle elezioni e li confronta con i risultati di indagini precedenti: da questo insieme nascono gli spunti interpretativi più interessanti. Sulla persistenza e variazione delle tradizioni politiche regionali. Su come ha giocato la percezione di insicurezza, e di quali tipi di insicurezza. Sul voto dei cattolici praticanti. Sulla disaffezione verso la politica. Sugli orientamenti in tema di Stato/mercato in campo economico e di tradizionalismo/individualismo in campo etico. Sulla personalizzazione dell'offerta politica e l'effetto leader.
L'analisi di questi spunti dobbiamo lasciarla ad una lettura più dettagliata di quella che è possibile svolgere qui. Ora vorrei limitare il mio commento a un solo problema, sul quale le riflessioni conclusive del rapporto possono provocare qualche perplessità.
Poco prima delle elezioni, da poco costituito il Partito democratico, Walter Veltroni calava sul piatto l'asso dell'«andare da soli» (con Di Pietro, in realtà); a questa mossa Berlusconi rispondeva con il «Popolo della Libertà» — un patto organico con Alleanza nazionale in vista della costituzione di un nuovo partito — e con un'alleanza elettorale con la Lega. Sono state queste mosse a produrre la semplificazione dei gruppi parlamentari, perché i partiti in precedenza inclusi nell'alleanza di centrosinistra, costretti ad andare da soli, non sono riusciti a superare la soglia di sbarramento. Anche se quest'ultimo esito non era prevedibile, Walter Veltroni non poteva non sapere che la macchina da guerra rapidamente messa insieme da Silvio Berlusconi era poderosa: persino sulla base dei risultati delle precedenti elezioni, sfavorevoli per il centrodestra, questo schieramento prevaleva nettamente su Ds e Margherita, ora fusi nel Partito democratico; inoltre, dato il discredito del governo (meritato o immeritato che fosse) e la traumatica interruzione della legislatura, i suoi consensi erano in forte crescita. In queste condizioni «il Pd è sceso in campo cercando di trovare un difficile equilibrio tra la necessità di non dissipare il patrimonio di voti dell'area della sinistra allargata e di presentarsi come una formazione in grado di ampliare al centro il proprio bacino elettorale».
Nessuno dei due scopi è stato raggiunto. Persuaso che il giudizio negativo sul governo Prodi fosse irreversibile, Walter Veltroni ha insistito soprattutto sulla discontinuità del Partito democratico rispetto alla precedente coalizione di centrosinistra, nella convinzione che la popolarità di cui personalmente godeva potesse essere la risorsa strategica della campagna elettorale. Ora, sostiene il rapporto sulla base dei dati di sondaggio, l'impopolarità del governo Prodi non era in realtà maggiore di quella del governo Berlusconi alle soglie delle elezioni del 2006. E il tentativo di affermare una discontinuità allettante per gli elettori del centro non ha funzionato. Assai più efficace era stata la campagna di Silvio Berlusconi del 2006, largamente basata su una orgogliosa rivendicazione dei risultati del suo governo: la vittoria gli sfuggì per un soffio.
La domanda implicita è: perché Walter Veltroni non ha fatto lo stesso? Dopo tutto i risultati del governo Prodi erano almeno altrettanto difendibili (o indifendibili) di quelli del governo Berlusconi e dal passato non ci si può staccare con una semplice ridefinizione di contenitori politici (il Partito democratico) e con una pura operazione di immagine.
Ma è veramente confrontabile il Berlusconi del 2006 con il Veltroni del 2008? È confrontabile — per solidità, coerenza, e soprattutto forza della leadership — l'alleanza di centrodestra con quella di centrosinistra? E quale alternativa era disponibile per il Partito democratico: un'alleanza tipo Unione, ma questa volta tutta sbilanciata a sinistra? Forse la sconfitta sarebbe stata meno bruciante, ma non si sarebbe annullato ogni elemento di novità culturale e programmatica del neonato partito?
Senza affrontare problemi di questo genere la critica alla strategia elettorale del Partito democratico — implicita ma ben percepibile — non può essere sostenuta sulla base dei soli risultati della ricerca e rischia di dare al capitolo conclusivo un'accentuazione partigiana, da dibattito interno al Pd, che per fortuna è assente nel resto della ricerca.

l’Unità 9.12.08
Etica e politica. La strada obbligata del Pd
di Nando Dalla Chiesa


Se non si affronta la questione morale il rischio sarà quello
di una caduta libera dei consensi dei Democratici
È un paese un po' cialtrone questo, lo sappiamo. Intriso di trasformismi e di soccorsi ai vincitori. Che scrive spesso la sua autobiografia nei demagoghi politici di cui si innamora. Che prova l'orticaria verso la parola «legalità». Ma, appunto, «un po'», non del tutto cialtrone. E nemmeno sempre nella stessa misura.
Sicché capita che anche in un paese così la questione morale decreti la fine, il declino o, al contrario, la tenuta dei partiti. Perché c'è sempre un'ampia minoranza di cittadini che alla qualità dei rapporti civili, al pubblico decoro, al senso delle istituzioni tiene e crede. Un pezzo importante del paese che non sta, politicamente, tutto di qua o di là; ma che certo tende a collocarsi in modo significativo in quello che oggi chiamiamo centrosinistra. Un popolo paziente ma disposto alla rivolta soprattutto quando sente che l'immoralità di governo lo colpisce nei suoi interessi materali. Il crollo della prima repubblica ha suggellato in fondo un'etica pubblica che offendeva il decoro delle istituzioni, salassava le finanze dello Stato e ingessava la vitalità della società civile. E infatti non i magistrati, ma il voto del '92 e ancor prima il referendum del '91 hanno affondato Dc e Psi, simboli di una specifica idea di governo e di politica. E, per converso, il Pci ha scavalcato le macerie del Muro (autentico paradosso della storia) grazie all'immagine alternativa che aveva. Conservando un patrimonio di consensi cresciuto non certo in nome dell'ideale comunista, ma per accumulazione multiforme intorno a un'idea di buon governo. Come cantava Gaber, la gente era diventata comunista perché la Dc era il partito degli scandali. O perché qui c'era il peggiore partito socialista d'Europa. O perché Berlinguer «era una brava persona».
Insomma, nonostante quel che si crede, la questione morale in politica conta, tanto più che in genere essa è intreccio, sintesi di molte questioni. E se è vero che a volte «più rubi e più prendi voti», arriva sempre il momento in cui paghi la perdita della reputazione e del prestigio, anche in modi ingiusti e spietati. Di più: senza un elettorato pronto a difenderti, poiché di norma lo smarrimento della bussola etica si accompagna a una sonnolenza progressiva su tutti i temi ideali che danno senso a un partito. Da qui la domanda: quale demone, quale virus della ragione ha portato a pensare nel centrosinistra che la questione morale faccia perdere voti, che l'etica pubblica sia una materia complementare, un optional, nella formazione e nella identità di un gruppo dirigente politico? La prima risposta è: senz'altro la perdita del senso della realtà. Ossia la convinzione che la realtà sia fatta del proprio mondo partitico-mediatico-clientelare. Che si possa diventare solida maggioranza annettendo, con disutilità marginali crescenti, i Mastella e i Villari, anziché offrendo buoni progetti sostenuti da un'alta e riconoscibile serietà di partito o schieramento. Escogitando operazioni di ceto politico, che - a livello centrale come a livello locale (si ricordi la vicenda Fortugno in Calabria) - diventano inevitabilmente corollario e legittimazione di micidiali pratiche clientelari e corruttive. Naturalmente questa perdita di senso della realtà ha alle sue spalle processi storici. La crisi del partito di massa, anzitutto. Ma ancor più l'esaurimento dell'onda lunga in cui si sono formate le classi dirigenti politiche della prima Repubblica. Ossia dello spirito fondativo della Resistenza e della Costituzione. E la conseguente sostituzione di leadership nate nel fuoco di grandi battaglie sociali, sindacali, politiche, culturali con leadership nate prevalentemente negli accordi interni di partito, e alle quali le liste bloccate hanno reciso ogni cordone ombelicale con sentimenti e domande popolari. Grande, oggi, è il compito del Pd. Grande e difficile. Denunciare l'immoralità dell'avversario al governo e, al tempo stesso, costruire la propria moralità di partito nuovo. Ma deve svolgerlo, sapendo che dovrà pagare duri prezzi. Altrimenti sarà condannato a pagare il prezzo più duro. Ossia la caduta libera dei suoi consensi, l'implosione del progetto per le tante promesse non mantenute. Ancora una volta la questione morale si presenta - anziché come addentellato - come riassunto della politica. Sarà una strada lunga e spinosa. Ma forse sarà l'unica strada possibile per realizzare finalmente il Pd promesso agli italiani.

il Riformista 9.12.08
La vera questione morale
Il problema morale del Pd è che non sa più fare politica
di Peppino Calderola, ex direttore dell’Unità


La "questione morale" a sinistra nasce dal mito più inesplorato. Il vero fine del comunismo non era la società giusta, quella in cui liberi ed eguali si concorre al bene comune, ma la creazione dell'"uomo nuovo" liberato dai bisogni e soddisfatto nelle necessità. Un cittadino parco e parsimonioso, dedito al bene generale, pronto al sacrificio per la collettività, immerso nelle arti che tendono a decantare la nuova società.
La politica moderna, invece, puzza di soldi, di carriere, di consumi smodati e il militante di sinistra (anche lui ansioso di carriera, di avanzamenti salariali, di sprechi privati) scopre che la questione morale è l'unica arma che lo ripaga dall'allontanamento dal governo. La forza altrui, del vecchio democristiano o del nuovo socialista, sta nell'allontanamento dal mito collettivista. La nuova classe di mediatori che nella società affluente occupa la politica è il segno del degrado della politica. Ieri Paul Ginsborg sul Corriere della Sera fra i tanti esempi di immoralità della politica sceglie non casualmente Andreotti «quando disse che la domenica mattina, anziché riposare, lui e gli altri democristiani si prendevano cura delle famiglie disagiate».
Assieme a "pizza" e "mafia", il "clientelismo" diventa la parola chiave del linguaggio universale degli italiani. La politica come suddivisione dei resti, della spesa statale, della cattura del consenso attraverso benefici distribuiti erga omnes. Per una lunghissima stagione della politica italiana la spesa pubblica finanzia il contenimento del Partito comunista. Per una stagione altrettanto lunga il comunismo si fa finanziare dalle salamelle e dai soldi dei sovietici. Immensi apparati lavorano per cercare voti e potere adoperando denaro pubblico o fondi che vengono dall'Est.
Poi arriva Bettino Craxi, il capo di un piccolo partito in declino che vuole parlare a nome di una borghesia del Nord arrembante che deve ancora scoprire la Lega. Craxi capisce che una grande politica ha bisogno di molto denaro e che uno statista deve finanziare i suoi amici, in Cile o in Palestina. Nell'oliato sistema di potere democristiano si inserisce prepotentemente il protagonismo socialista convinto di poter sradicare la Balena bianca e il Colosso d'argilla rosso. Il sistema non regge questo nuovo gravame, cade il muro di Berlino, all'occidente non serve più il baluardo Nato italiano e si scopre che Mario Chiesa prende tangenti e può trascinare nella rovina il vecchio mondo.
Gli orfani, ovvero i parricidi, del Partito comunista italiano credono di esserne fuori. Del comunismo mantengono l'ideologia dell'"uomo nuovo" che è impersonato dal sindaco, poi dal governatore di Regione, e da una classe di ferro efficiente e solidale. La questione morale diventa il "conflitto di interesse" dell'avversario più temibile e sottovalutato. Su Silvio Berlusconi si scatena l'inferno mentre muoiono i vecchi partiti, si rafforza la Lega e nasce la Nuova Destra che governerà il Paese. Il giustizialismo diventa l'ideologia dell'"uomo nuovo" che non crede al comunismo ma pensa che il potere sia corruzione, puzza di soldi e affari.
Accade alla sinistra quello che è accaduto all'Unione Sovietica con Ronald Reagan. La rincorsa dell'avversario - in quel caso del riarmo stellare dell'avversario - rivela le crepe interne, la mancanza di risorse, il traguardo posto sempre più avanti. Berlusconi investe nella politica la sua vita e il suo patrimonio, innova il linguaggio, scopre vecchi altarini, rompe antiche regole e abitudini. La sinistra lo rincorre e capisce che deve diventare altro da sé ma soprattutto che non ce la fa con i vecchi mezzi. Scopre che non ha risorse. Potrebbe combattere rovesciando il tavolo di gioco, affrontando una revisione coraggiosa dei propri principi, a cominciare dall'antropologia della diversità e dell'"uomo nuovo", per diventare partito della modernizzazione, della rottura dei vecchi schemi, del riformismo coraggioso. Sceglie invece il prezzo minimo e accettando la società di mercato la sinistra si mercatizza.
Qui avviene il più radicale mutamento genetico. Il professionista della politica diventa imprenditore politico, nasce la politica come "impresa". Un po' vecchi mediatori dc , un po' spregiudicati post-craxiani i leader, grandi e piccoli, della sinistra si buttano nell'affare. Il dalemismo al Sud, il veltronismo a Roma. Non si mettono al servizio dell'impresa, ma fanno nascere una nuova soggettività imprenditorial-politica. Le amministrazioni, le strutture statali diventano il luogo in cui l'impresa incontra il nuovo mediatore politico che si fa garante di interessi e chiede di partecipare alla redistribuzione di due profitti, il consenso e le risorse economiche per creare consenso.
È un salto di qualità che non riguarda più Mario Chiesa, di Mario Chiesa è piena la storia della politica, ma di Mario Chiesa non è mai morta la politica. La morte della politica inizia quando nella ragione sociale della politica prende il sopravvento la compartecipazione all'affare. Se l'imprenditore combina il suo matrimonio con la politica, caso Berlusconi, la politica di sinistra combina il suo matrimonio con gli affari. Fra l'onesto e il disonesto il confine diventa sempre più sottile. Probabilmente sono tutti onesti. Sicuramente l'economia e il territorio diventano il terreno vero della ricerca del potere e del consenso.
È per questo che non serve Mani Pulite, che il giustizialismo ha le ore contate. Il vero nodo della questione morale oggi è il primato del progetto, del "per", della crescita sociale, della partecipazione. Se la Prima Repubblica è morta di tangenti, la Seconda sta morendo perché la politica è diventata impresa autoreferenziale. La Grande Crisi la spazzerà via.

il Riformista 9.12.08
Parla Furio Colombo «la superiorità morale della sinistra non c'è più»
«Questione Pd? Stavolta il Cav. non dice bugie»
di Tommaso Labate


Berlusconi parla di una questione morale per il Pd? E Furio Colombo, intervistato dal Riformista, risponde: «Berlusconi fa politica e ha diritto di dire quello che vuole, comprese le bugie. Se però oggi il premier accusa alcuni dei Ds (dice proprio cosi: «dei Ds», ndr) di agire al di fuori delle regole dell'onestà e in alcuni casi al di fuori della legge, beh... probabilmente questa volta non dice una bugia».
L'ex direttore dell'Unità, oggi deputato del Pd, aggiunge: «Se invece il Cavaliere sostiene che, a sinistra, c'è qualcuno che vanta una specie di "superiorità morale", ecco: questa è una balla».
Colombo, sulla questione morale del Pd lei dà ragione al «nemico numero uno»?
Io dico che la questione morale è sempre stata viva. Berlinguer aveva i titoli per sollevarla "da sinistra". Molto semplicemente, oggi, vuol dire che non ci sono altri Berlinguer che possono sollevarla.
Lo dice proprio lei, che da direttore dell'Unità...
Attenzione. Negli anni in cui io e Padellaro abbiamo diretto l'Unità, nessuno, su quelle pagine, ha scritto che la sinistra era moralmente superiore alla destra. Ci siamo limitati a sostenere che, dall'altra parte, c'erano inquisiti e condannati. Ma tutto ciò non stava certo a significare che a sinistra erano tutti bravi e buoni.
E oggi che gli inquisiti, come a Firenze, stanno nel Pd? Che dovrebbero fare?
Tutti coloro che sono indagati dovrebbero valutare l'ipotesi di farsi da parte.
Intanto Veltroni ha difeso Domenici e Iervolino. E il sindaco di Firenze s'è incatenato davanti a Repubblica.
Il gioco delle dichiarazioni "in difesa" me lo sarei risparmiato. Quanto a Domenici, so che è un buon amministratore. Al posto suo, però, avrei fatto a meno degli assessori indagati e avrei annunciato sin d'ora, in caso di processo, la costituzione parte civile del Comune di Firenze. Putroppo Domenici ha scelto altre strade: quella della «questione umorale», ad esempio. S'è andato a incatenare in un posto dove non passa mai nessuno.
Chi è indagato si deve dimettere, insomma.
Suggerisco l'esempio della destra americana. Trent Lott, ex capo dei senatori repubblicani, si è dimesso l'anno scorso dopo le indiscrezioni giornalistiche sulle inchieste che lo riguardavano. Badi bene: non era una seconda fila. Avrebbe più chance di McCain di correre per la Casa Bianca. Eppure s'è fatto da parte.
Occhetto dice che la sinistra ha preferito la lezione di Craxi a quella di Berlinguer.
Quella di Occhetto è una posizione politica, non storica. Io, che non sono un ex Ds, non vedo un nesso tra il Pd e Craxi. Il nostro problema, adesso, è un altro.
Quale?
Fare opposizione. Il Pd, più che fare cose «di sinistra», dovrebbe fare cose «di opposizione». Invece ci limitiamo a fare i bravi scolaretti: garantiamo in Aula il numero legale alla maggioranza e quelli, di contro, votano ciò che arriva preconfezionato dal governo. I poteri sono tre. Berlusconi vuole ridurli a uno.
Intanto, nel Pd, c'è chi si dice disponibile a trattare sulla riforma della giustizia. D'Alema, Finocchiaro...
Non sono per niente d'accordo. Finocchiaro dice che trattiamo? E su che cosa trattiamo? Non mi pare che Obama tratti con Bush. O sbaglio? Noi dobbiamo avere un nostro piano, non sposare quello degli altri.
I magistrati, però, hanno troppo potere. L'ha detto anche Violante...
L'affermazione di Violante è priva di senso. Lui, che è un ex magistrato, ci dica se la magistratura agisce al di fuori della Costituzione. Ma se non è così, come sono convinto, smettiamola con certe uscite. La magistratura va difesa nonostante alcuni suoi difetti.
De Magistris compreso?
Come cittadino mi sento più vicino a De Magistris che al pg di Catanzaro. C'era anche la Forleo: al posto suo avrei evitato di rilasciare dei commenti prima della fine della sua inchieste (si riferisce a Unipol, ndr). Detto questo, però, si vede che quel giudice dava fastidio e infatti è stata messa da parte. A mio avviso, però, bisognava farla lavorare in pace.
Colombo, in vista della direzione del Pd, lei si è già schierato: ha firmato il documento di Cuperlo «per ripartire».
L'ho firmato perché il Pd ha bisogno di una scossa. È un partito troppo verticale. Facciamo riunioni in cui, come fossimo scolaretti, c'è sempre qualcuno che ci spiega la politica, l'economia, la giustizia. In queste riunioni, poi, quello che fa l'introduzione traccia pure le conclusioni. Non c'è mai tempo per intervenire, per discutere. Nel Pd è tutto così asettico, disciplinato... No, così non va più bene.

il Riformista 9.12.08
Caro Veltroni, dovresti rileggere almeno Orwell
di Andrea Romano


Così scriveva in una Londra sotto le bombe: «La principale attività degli scrittori di sinistra è un criticare cavilloso che si trasforma in una sorta di delusione quando l'Inghilterra ottiene una vittoria, perché contraddice le loro previsioni»

Ognuno si sceglie i modelli che preferisce, spesso senza confessarlo nemmeno a se stesso. E chiunque si trovi a scrivere qualcosa (non necessariamente un romanzo, basta una notizia d'agenzia o una rubrichetta come questa) in cuor suo vorrebbe incarnare qualche penna molto più celebre. Io ho sempre voluto essere George Orwell. Né più né meno che lui: l'autore della "Fattoria degli Animali" e di "1984", ma soprattutto il saggista immortale che ha raccontato il socialismo, gli intellettuali e l'Inghilterra del Novecento.
Tra me e me l'ho sempre saputo e oggi voglio confessarlo pubblicamente. So bene di espormi al ridicolo ma non posso farci niente. Ho anche un'attenuante, che spero verrà tenuta in debito conto. Il vero nome di Orwell era Eric Arthur Blair e si capisce che la mistica circostanza mi ha impedito da tempo di resistere alla tentazione.
In ogni caso avevo quasi dimenticato questa mia perversione, come fortunatamente tendo a fare di tanto in tanto, quando mi sono imbattuto in alcuni passaggi dei suoi scritti di guerra. In particolare le sue corrispondenze per la Partisan Review, rivista della sinistra libertaria e anticomunista statunitense per la quale scrisse dal 1941 al 1946. Nel gennaio 1941, sotto le bombe tedesche e ben prima che le sorti del conflitto volgessero a favore della Gran Bretagna, Orwell raccontava ai suoi lettori americani l'umore che si respirava nelle strade di Londra e nei circoli che si trovava a frequentare.
E in una pagina scriveva: «La principale attività degli scrittori di sinistra è un criticare cavilloso che si trasforma in una sorta di delusione quando l'Inghilterra ottiene una vittoria, perché contraddice le loro previsioni. Durante l'estate l'intellighenzia di sinistra era totalmente disfattista, molto più di quanto si permettesse di dimostrare sulla stampa. Nel momento in cui sembrava probabile l'invasione dell'Inghilterra, un noto intellettuale di sinistra in realtà avrebbe voluto scoraggiare la resistenza di massa, sostenendo che i tedeschi sarebbero stati più indulgenti se non avessero incontrato opposizione. Era anche allo studio una mossa, in previsione della futura occupazione nazista, che avrebbe convinto la sezione speciale di Scotland Yard a distruggere i dossier politici che sicuramente possiede su molti di noi. Tutto questo in forte contrasto con la gente comune, che o non si era resa conto del pericolo incombente sull'Inghilterra o era determinata a resistere fino all'ultima trincea» (da George Orwell, "Diari di guerra", Mondadori 2007, pagina 246).
Non so cosa ne avrebbe pensato Eric Blair, ma quel disfattismo mi ricorda da vicino la retorica della questione morale che si respira in questi giorni ai vertici della sinistra italiana. Soprattutto nel suo contrastare il buon senso della "gente comune", che nell'Inghilterra del 1941 era pronta a resistere in trincea contro un'eventuale invasione tedesca e che nell'Italia di oggi si accontenterebbe del rinnovamento politico e personale del principale partito d'opposizione. Sarebbe tra l'altro un'operazione assai meno rischiosa del combattere con le armi in pugno contro i nazisti, ma come quella avrebbe in sé il potere di contrastare una deriva impotente. Perché continuare a dirsi diversi e a reclamare la dimostrazione di quella diversità contro i guasti prodotti dalla mancanza di ricambio equivale ad attendere la catastrofe con le mani in mano.
Come gli "intellettuali di sinistra" che Orwell tanto detestava, e che oggi chiamiamo "opinion makers", abbondano coloro che bacchettano il Partito democratico per la mancanza di discontinuità dal berlusconismo e per la contiguità con le perversioni del potere. Senza accorgersi che la più autentica discontinuità sarebbe il coraggio di non dare niente di scontato per quanto riguarda la propria indole morale (imponderabile e ininfluente se non in privato) ma di pretendere il massimo della responsabilità nell'esercizio della leadership politica. E dunque il coraggio di mettersi in discussione e di restituire la parola alla vita democratica di un partito che si dice democratico, lasciando la sedia quando si è stati sconfitti o quando non si ha più niente da dire. Il risultato è invece il disfattismo di chi, ai vertici del Pd, vorrebbe lasciare le cose esattamente come stanno, cavandosela con qualche ramanzina personale unita alla promessa che prima o poi sarà ritrovata la strada della superiorità morale. Pensando ancora una volta che è meglio perdere che perdersi, mentre si avvicinano le bombe della prova elettorale.

il Riformista 9.12.08
Se scoppia la guerra tra Rep. e Pd
Lo scontro impari tra il Pd e il partito di Repubblica
di Giampaolo Pansa


Prima o poi, anche Veltroni andrà a incatenarsi davanti a Repubblica, a Roma. Visto il successo mediatico del lucchetto di Leonardo Domenici, sindaco di Firenze, Veltroni farà come lui quando il giornale di Ezio Mauro smetterà di sostenere il Pd con l'entusiasmo di oggi. A quel punto Walter non potrà che lucchettarsi e protestare.
Ma credo che i suoi lamenti non serviranno a nulla.
Schierarsi a favore di un partito non è mai una buona scelta per un quotidiano generalista come Repubblica. Il risultato è un prodotto monocorde, prevedibile, noioso. Quand'anche si scoprisse che il vertice del Pd fa il narcotraffico, i lettori sanno che il giornale non smetterebbe di appoggiarlo. Mentre i fondisti alla Giannini e i rubrichisti come Messina, Longo, Serra e Maltese seguiterebbero a cantare la gloria del partito di Super Walter e a sparare contro il Caimano delle Libertà.
Tuttavia questo rapporto amoroso non è destinato a durare ancora per molto. L'editore assiste sempre più perplesso al corso politico del proprio giornale. "Repubblica" sta perdendo lettori in misura superiore agli altri quotidiani del suo rango. E non è arbitrario pensare che l'emorragia dipenda soprattutto dal pensiero unico di largo Fochetti.
Tutti gli editorialisti la vedono nello stesso modo e scrivono il medesimo articolo. Le opinioni in contrasto con il coro non sono ammesse. Anche il lettore più distratto sa in partenza che cosa leggerà l'indomani. Un bel guaio in questi tempi di crisi, quando è facile rinunciare all'acquisto di una testata che non ti dà nessun brivido. A cominciare dal brivido dell'imprevisto.
In più oggi "Repubblica" rischia di perdere per strada i lettori di stretta osservanza diessina e adesso democratica. La questione morale sta devastando il Pd. Molte procure hanno aperto indagini su esponenti del partito di Veltroni. Tutte queste inchieste generano verbali e intercettazioni, pane quotidiano per i giornali. La direzione di "Repubblica" non rinuncerà mai a pubblicare quanto hanno scoperto i suoi cronisti giudiziari, eccellenti cani da tartufo. Gettando nello sconforto chi è sempre stato convinto della superiorità etica della sinistra. Ma dallo sconforto al rifiuto di leggere, il passo può essere breve.
Sto descrivendo uno scenario che in parte abbiamo già sotto gli occhi, grazie alle catene del sindaco di Firenze. In questa vicenda folle, s'intravede quanto avverrà. E che oggi possiamo definire la nemesi non di un potere, ma di due poteri.
Il primo è quello di un giornale diventato l'alleato insostituibile di un partito. Per citare un esempio solo, l'edizione toscana di Repubblica è sempre stata il sostegno robusto dei Ds e oggi del Pd. Non era una scelta obbligata neppure in una regione rossa. Ma così è avvenuto, e non solo per volontà del responsabile dell'edizione, Pietro Jozzelli. Nessun capo redattore può muoversi come si è mosso lui senza il placet del direttore, ossia di Mauro.
A Firenze questo ha reso Repubblica un potere alla pari del sindaco Domenici e del governatore toscano Claudio Martini. Dall'alleanza fra il giornale e la sinistra locale è nato un asse informativo-politico che ha reso intoccabile la giunta fiorentina. Ma dopo anni e anni di cordiale amicizia, nelle ultime settimane questo blocco si è rotto su un terreno delicato e scivoloso: l'inchiesta giudiziaria sugli affari edilizi del gruppo Ligresti e sulle presunte connivenze di esponenti del Pd.
Del resto, che cosa poteva fare Repubblica? Lasciare che le carte e le intercettazioni di quell'indagine finissero in bocca alla Nazione e all'edizione fiorentina del Corriere della Sera? Il giornale di Mauro ha deciso di no. E per la prima volta è entrato in conflitto con il Pd, il potere travolto dall'inchiesta giudiziaria.
Il partito di Veltroni si è visto ripudiato di colpo da Repubblica. La crisi da abbandono ha trovato la propria raffigurazione nel sindaco Domenici che s'incatena di fronte al giornale traditore. E urla contro il palazzo dove si è stabilito di lasciarlo alla mercè degli accusatori. Anzi che è diventato uno dei suoi persecutori.
Il risultato è uno scontro impari, perché Repubblica, oggi, sembra pronta a sopportare anche cento sindaci rossi in catene. Lo testimonia la replica secca del giornale ai lamenti di Domenici. In poche righe, il palazzo di largo Fochetti ha bollato come «una piccola oligarchia» i dirigenti del Pd fiorentini coinvolti nell'inchiesta. E ha garantito ai lettori che continuerà a scoprire gli altarini della sinistra a Firenze e altrove.
A questo punto gli sviluppi possibili sono due. Il potere perdente, quello del Pd fiorentino e nazionale, potrebbe dichiarare guerra al giornale di Mauro. Per esempio rivelando i retroscena della lunga alleanza fra Repubblica e la sinistra, non solo a Firenze. Ma è un'ipotesi irrealistica, viste le condizioni disastrose del partito di Veltroni.
La seconda ipotesi è che Repubblica, soprattutto per volere dell'editore, dichiari sciolta un'alleanza che ormai può recarle soltanto danno. Se questo accadrà, si riapriranno molti giochi nella stampa italiana, un mondo in crisi per le arcinote ragioni. Dunque, non resta che vedere come finirà.

Caro Augias,
le scrivo colpito dalla lettera di Maria Annasi sulla malattia del suo (presumo) figliolo. Nella sua risposta al grido della signora, lei cita Basaglia, esponente di spicco di quella "nefasta" (la definizione non è mia ma di Jervis ) corrente che prese il nome di "Antipsichiatria" il quale, tra le altre cose afferma:«..In noi la follia esiste ed è presente come la ragione... etc.» Affermazione terribile e del tutto falsa. Terribile perchè la tragedia della pschiatria italiana (e non solo), incapace da sempre di sviluppare ricerca, nasce su affermazioni come questa. Falsa perchè nell'uomo non convivono malattia e sanità; la malattia mentalle (nè più nè meno di quanto accade per le malattie fisiche) insorge per cause esterne e toglie la sanità che sarà recuperata solo togliendo la malattia. Se si torizza che la malattia mentale è natura umana non resta che assistere i più sfortunati, quelli cui la stampella della ragione non ha fornito sufficiente controllo. I manicomi erano lager, è vero, andavano chiusi ma non andava chiusa la ricerca delle cause profonde (inconsce) che generano malattia mentale. Si può, però, non lasciare soli i malati e i loro disperati parenti, dicendo quello che invece altri, (mi riferisco in particolare all'Analisi Collettiva di Massimo Fagioli) non credendo alla malattia mentale come peccato originale e destino ineluttabile dell'uomo, fa da decenni; portando avanti una ricerca positiva e riuscita sull'origine inconscia della malattia mentale e sulla conseguente cura d'essa. Per la guarigione.
Un carissimo saluto
Claudio Alvigini

Longo Sofista, Le avventure pastorali di Dafni e Cloe, Garzanti Milano,1997
Longo Sofista, Dafni e Cloe, Oscar Mondadori Milano, 1991


Dafni e Cloe è una favola pastorale scritta probabilmente nel II secolo d.C., lo stesso in cui Apuleio scrisse Le metamorfosi.
E’ la storia d’amore limpida e sensuale di due trovatelli, adottati neonati da pastori di Lesbo, l’isola che fu culla della lirica d’amore dell’età arcaica. Scritta in lingua greca, evoca nello stile semplice e musicale atmosfere di incanto primitivo. Sullo sfondo propizio della natura rigogliosa dell’isola si svolge la lenta e progressiva scoperta dei turbamenti del desiderio da parte dei due adolescenti, cresciuti insieme a pascolare greggi di pecore e capre. Assieme alla Favola di Amore e Psiche, Dafni e Cloe costituisce un prezioso esempio di quello che è stato definito un romanzo di iniziazione ai “misteri” dell’amore eterosessuale, memoria di un mondo arcaico libero, senza padri e senza madri, travolto in epoca classica dall’assai diversa concezione di eros della tragedia, del platonismo e poi del cristianesimo.

« ...si sedettero sul tronco di una quercia e controllarono che Dafni, in seguito alla caduta, non avesse qualche parte del corpo sporca di sangue. Non era ferito né insanguinato, ma aveva i capelli e il resto del corpo incrostati di terra e di fango. Decise dunque di farsi il bagno...
Una volta giunto in compagnia di Cloe alla grotta delle Ninfe, le diede da tenere la tunica e la bisaccia, poi in piedi, davanti alla fonte, si lavò i capelli ed il corpo per intero. I suoi capelli erano neri e folti, il corpo bruciato dal sole: si sarebbe potuto pensare che avesse quel colore scuro perché i capelli facevano ombra. A Cloe, intenta a guardare, Dafni sembrava bello, e poiché era la prima volta che le appariva così, attribuì al bagno il motivo di quella bellezza. E mentre gli lavava la schiena, sentendo la carne cedere morbida al tocco delle sue dita, spesso, senza che lui se ne accorgesse, palpava la propria per sentire se fosse più tenera. Il sole era ormai al tramonto: i due giovani ricondussero allora le greggi all’ovile, mentre Cloe non provava altra sensazione che il desiderio di rivedere Dafni farsi il bagno. Il giorno seguente, giunti al pascolo, Dafni si sedette sotto la solita quercia e iniziò a suonare, sorvegliando nel contempo le sue capre che, accovacciate ai suoi piedi, sembravano quasi ascoltare la musica; Cloe intanto, seduta lì vicino, teneva lo sguardo rivolto alle pecore, ma ancor più aveva occhi per Dafni: e di nuovo le pareva bello mentre suonava, e per la seconda volta si convinse che causa di quella bellezza fosse la musica. Così, dopo di lui, prese anch’essa il flauto, per vedere se diventava bella pure lei, e lo indusse a farsi un altro bagno e lo guardò mentre si bagnava; dopo averlo osservato, lo toccò con le dita, poi, congedandosi un’altra volta da lui, gli fece mille complimenti.
Quei complimenti erano già un primo segno d’amore. Ciò che provava allora non lo capiva, giovane com’era e cresciuta in campagna: non aveva mai sentito pronunciare la parola “amore”» (libro I, capp. 12-13)

(scheda di Noemi Ghetti)

Il Venerdì di Repubblica 5.12.08
Un piccolo film prima stroncato e ora celebrato

di Irene Bignardi
Escono in questi giorni in dvd tre film dagli opposti destini cinematografici...
Il terzo (ancora 01 Distribution) è Nessuna qualità agli eroi, il film che Paolo Franchi ha presentato l'anno scorso alla Mostra del cinema di Venezia. Il film ha avuto, in mezzo al cancan mediatico e alle luci di quella corrida che sono tutti i festival, un'assurda accoglienza negativa, per essere poi recuperato e rivalutato più tardi, quando si è placata la marea delle polemiche, anche bislacche (perché da noi si continuano a sottolineare alcuni momenti legati al sesso, dalla "scopata senza cerniera" di Caos calmo al nudo di Elio Germano nel film di Franchi?). La critica, che si era accanita anche contro alcune dichiarazioni del regista si è, per così dire (giustamente) pentita, restituendo al film quello che è del film: uno stile, una visione, un modo di girare di rara intensità tragica...
(Citando i giudizi dei critici), vi posso dire che Nessuna qualità agli eroi (storia delle vite incrociate di un ragazzo che odia suo padre e di un giovane uomo che non riesce a diventare padre) è un noir kafkiano e dostoevskjiano, vola alto, traghetta il nostro cinemanel mondo adulto e, se racconta il tema del padre, così lontano dai canoni del nostro cinema per lo più adolescenziale, è anche quasi un thriller alla Delitto per delitto.
Aggiungo di mio che è elegante, forte, unico nel nostro panorama recente. La parola alla giuria popolare.