giovedì 11 dicembre 2008

l’Unità 11.12.08
Il lutto Nelle iniziative sindacali di domani saranno ricordati i morti sul lavoro
Epifani Il governo sta facendo poco e male contro la crisi economica
Bandiere a lutto allo sciopero
Oltre un milione nelle piazze
di Felicia Masocco


La Cgil va allo sciopero generale di domani «in ottima e abbondante compagnia» dice il responsabile organizzativo Panini. Manifestazioni in tutte le regioni, comizio di Epifani a Bologna.
Un milione di persone piazza, più di cento iniziative tra cortei e comizi, 5 le manifestazioni regionali, le altre a carattere provinciale. Ovunque un minuto di silenzio per ricordare i morti sul lavoro e denunciare lo smantellamento strisciante delle leggi sulla sicurezza. Nelle città dove ci sono stati incidenti, ormai moltissime, le bandiere saranno listate a lutto. Alla vigila dello sciopero generale, il primo contro questo governo, indetto dalla sola Cgil, l’organizzazione del sindacato traccia il bilancio di una macchina che ha lavorato a pieno ritmo, cercando innanzitutto il consenso in quasi 40mila assemblee che si sono tenute nei luoghi di lavoro. «Abbiamo registrato il sostegno dei nostri iscritti ma anche di quelli di altre organizzazioni e di chi non ha la tessera - ha spiegato il segretario confederale Enrico Panini -. A chi pensa che la Cgil sia sola dico che si trova in ottima e abbondante compagnia».
Più lavoro, più salario, più diritti. Messo in positivo il filo della protesta è questo e poggia su richieste che la Cgil ha da tempo girato al governo. I «contro», stanno nelle risposte che non sono arrivate, a quel pacchetto anticrisi «con poche risorse, per pochi, per poco tempo visto che si tratta di una-tantum e di strutturale non c’è niente», viene spiegato. In pratica la crisi viene scaricata sui lavoratori,i pensionati e le famiglie. Per questo si sciopera. «La critica che rivolgo al governo è quella di non voler affrontare la crisi con le forze necessarie che altri Paesi hanno messo in campo», attacca Epifani. «Si deve fare di più e meglio», «la valanga sta arrivando».
In molti tra gli opinionisti, i politici e nella altre sigle sindacali, non capiscono la scelta di Epifani, le critiche piovono d’ogni dove, fino all’accusa di essere «antichi». «Lo sciopero è legittimo», afferma la presidente di Confindustria Emma Marcegaglia, «non capisco a cosa serva - aggiunge - sarebbe meglio che la cgil, con Cisl, Uil, noi e le banche facesse fronte comune contro la crisi». Nonostante l’esercito di detrattori, il dubbio di un flop neanche sfiora il sindacato. «Un milione di persone in piazza è il dato minimo che noi prevediamo dalle prenotazioni dei treni, dei pullman e dei contatti che abbiamo avuto, ma sarà sicuramente superiore», ha continuato Panini. Diretti a Bologna, dove parlerà Guglielmo Epifani, si muoveranno più di 500 pullman, 2 i treni speciali. In piazza non ci sarà Sergio Cofferati. L’ex leader della Cgil oggi è il sindaco «di tutti, anche di chi non sciopera», ragioni istituzionali, dunque. «Il mio cuore, poi, va dove vuole lui», aggiunge. L’incontro con Epifani ci sarà, ma al termine della manifestazione a Palazzo d’Accursio.
Lo sciopero è di quattro ore, ma in molti settori sarà di otto come pure in alcune regioni come l’Emilia, le Marche, la Puglia. I lavoratori delle ferrovie si fermeranno dalle 14 alle 18, quelli del trasporto urbano le ultime quattro ore del turno. Il trasporto aereo sarà regolare.

l’Unità Roma 11.12.08
La manifestazione partirà da piazza Santa Croce in Gerusalemme
Trasporti: quattro le sigle sindacali che hanno aderito alla protesta
Sciopero, istruzioni per l’uso
Domani bus fermi e cortei
di Luciana Cimino


Filt Cgil e Sult si asterranno dal lavoro dalle 9.30 alle 13.30, mentre Sdl intercategoriale e Cobas hanno proclamato uno sciopero di 24 ore, dalle 8.30 alle 17 e dalle 20 a fine servizio.
«Più lavoro, più salario, più pensioni, più diritti», è questo lo slogan scelto dalla Cgil per lo sciopero generale di 4 ore proclamato per protestare contro le risposte negative e insufficienti del governo alla dura crisi economica che ha colpito il paese. Saranno 108 le manifestazioni in tutta Italia nelle quali il sindacato si aspetta complessivamente oltre un milione di persone. Le bandiere saranno listate a lutto in ricordo «dei tanti, troppi morti sul lavoro» e in tutte piazze i manifestanti osserveranno anche un minuto di silenzio in ricordo dello studente di Torino morto per il crollo del soffitto della scuola.
I CORTEI
A Roma un corteo partirà da piazza Santa Croce in Gerusalemme alle ore 9.30 per poi snodarsi lungo via Carlo Felice e via Labicana. Concentramento al Colosseo dove parleranno Carla Cantone, segretaria Spi Cgil Nazionale e Caludio di Berardino, segretario generale Cgil Roma e Lazio. Sul palco anche le testimonianze di lavoratori e pensionati. Inoltre altri cortei sono previsti a Viterbo, Rieti a Latina.
I TRASPORTI
E disagi sono possibili per gli utenti del trasporto pubblico. In questo settore sono infatti 4 le sigle sindacali che hanno aderito alla protesta. La Filt Cgil e il Sult, un sindacato autonomo, si asterranno dal lavoro dalle 9.30 alle 13.30, mentre Sdl intercategoriale e e Cobas hanno proclamato uno sciopero di 24 ore, dalle 8.30 alle 17 e dalle 20 a fine servizio. Domani dunque potrebbero essere diverse le corse soppresse per bus, filobus, tram, metropolitana A e B e ferrovie regionali (la Roma – Lido, la Roma – Giardinetti e la Roma – Viterbo). Ripercussioni dell'agitazione potrebbero verificarsi anche sulle 27 linee notturne sia stanotte che tra il 12 e il 13 dicembre.

l’Unità 11.12.08
La denuncia di Mario Colucci responsabile del Dsm di Trieste
Le paroledel più grande psichiatra del secolo non hanno patria
L’Università non ama Basaglia. I suoi scritti ignorati dai prof
di Luigina Venturelli


Lunedì prossimo verrà presentato a Napoli, alle ore 17 nella straordinaria cornice del Conservatorio di Musica di San Pietro a Majella il volume «Centottanta», antologia a cura di Emilio Lupo e Salvatore di Fede realizzata per il trentennale della Legge Basaglia. Informazioni sul sito psichiatriademocratica.it

Dicembre è l’ultimo mese per ricordare la legge 180 che compie 30 anni. Un convegno a Milano è stato un’occasione per indagare le nuove prospettive del rapporto fra disagio psichico e società.
Il suo più grande successo è stata anche la sua condanna. Franco Basaglia riuscì nell’impresa impossibile: trasformò l’utopia in realizzazione politica, la sua visione teorica diventò norma dello stato, ma questa conquista relegò il suo pensiero a mera circostanza. Fatta la storia - l’approvazione della legge 180, che trent’anni fa sancì la chiusura dei manicomi - l’idea è passata in secondo piano.
«Invece gli scritti di Basaglia sono di profondissima attualità, non solo per il percorso politico - ha spiegato lo psichiatra Mario Colucci, del Dipartimento di salute mentale di Trieste - ma anche per la posizione etica di fronte alle persone con disagio psichico, tesa non al controllo della libertà dell’altro, ma alla capacità di far esprimere l’altro». Un principio etico che nella pratica diventa anche principio terapeutico, «ma queste sono parole senza patria, oggi gli scritti del più grande psichiatra del secolo scorso non trovano spazio in molti corsi universitari».
Per questo va segnalato il convegno organizzato ieri all’Università statale di Milano dalla fondazione Bertini Malgarini, Franco Basaglia e la filosofia del ‘900: un’occasione per riaprire il confronto sullo studioso e per indagare le nuove prospettive del rapporto fra disagio psichico e società, per opporsi ai tentativi di revisione ideoligica della 180 e per promuoverne una migliore applicazione sul territorio. «È una legge meravigliosa che tutta l’Europa ci invidia, purtroppo applicata a macchia di leopardo perchè poco conosciuta dagli stessi operatori. Il suo fondamento è sempre valido: la psichiatria deve ridare diritto di cittadinanza alle persone con disagio psichico» ha affermato Carmen Mellado, direttore del Dipartimento di salute mentale dell’ospedale milanese Sacco.
«Basaglia è un’anomalia nella nostra cultura, non è mai stato letto davvero, nemmeno dai suoi allievi» ha sottolineato Massimo Recalcati, docente di Psicopatologia presso l’Università degli Studi di Pavia. «Nella sua elaborazione teorica, ad esempio, è centrale il problema dell’integrazione: lo psichiatra triestino si poneva già negli anni Settanta il tema del confine, che delimita l’identità del singolo, ma che non si deve inspessire fino a trasformarsi in barriera di segregazione». Un confine poroso, dunque, in grado di comunicare con l’esterno e assorbirne gli stimoli.

l’Unità 11.12.08
Spaziani: «La poesia? Un movimento clandestino di resistenza»
di Francesca De Sanctis


«È tutta la vita che lotto per la poesia, così anacronistica, così vilipesa. Per i bambini e i ragazzi risulta quasi indifferente...». La sua battaglia per diffondere il messaggio di Montale - «la profonda laicità della poesia salva la bellezza» - Maria Luisa Spaziani la porta avanti da una vita, attraverso la scrittura, i convegni, i seminari. Stavolta, per il quinto anno, la poesia sfonda la porta della Camera dei Deputati, «il famoso Palazzo, come lo chiamava Pasolini», ricorda la poetessa nonché presidente della Universitas Montaliana. Cambia il nome (da «Inediti in Biblioteca» a «Seminari di Maria Luisa Spaziani»), ma l’idea di fondo resta la stessa: aprirsi alla poesia, «questo movimento clandestino di resistenza», spiega l’autrice di La luna è già alta, «clandestino quanto le religioni: la gente si fa sbudellare pur di non dire sono cristiano o sono islamico». La poesia deve continuamente lottare contro l’indifferenza, e dunque, ecco perché organizzare un ciclo di incontri.
Sette precisamente, a partire da oggi pomeriggio (Biblioteca della Camera dei Deputati, palazzo San San Macuto, via del Seminario 78, Roma, ore 17) fino al 22 maggio, unico appuntamento in programma nell’Aula Magna dell’Università La Sapienza, dove Maria Luisa Spaziani parlerà al suo pubbblico dell’«Orizzontale e del verticale, della simmetria e dell’asimmetria». «Solitamente noi tutti parliamo dell’orizzontale - spiega - cioè degli amori terreni e dei sentimenti, poi però è l’asse verticale che collega tutte queste cose verso l’alto, qualcuno lo chiama Dio, qualcun altro no».
Tra i relatori chiamati a parlare di «spiritualità» o di futurismo» Valerio Magrelli, Franco Loi, Alberto Toni, Marco Guzzi. Letture di Walter Maestosi, Pamela Villoresi, Paola Gassman. «Il primo incontro (quello di oggi, ndr) sarà dedicato a due grandi figure femminili del Novecento - spiega la Spaziani -: Marie Noël Rouget e Antonia Pozzi, due donne molto diverse ma legate da un filo di fraterna spiritualità».

l’Unità 11.12.08
Rebibbia. La libera uscita dei bambini dietro le sbarre
di Maria Zegarelli


Al Capone mette le mani bagnate di saliva sul finestrino e lo sporca. Leggermente. Cento metri ed è fuori dal carcere di Rebibbia. Al Capone ha 3 anni. Sta in carcere da diciotto mesi. Shakira ha due anni e 5 mesi e sta imparando adesso a fare da sola le bolle di sapone. Elasha ne ha quasi 3. Esmeralda ha imparato a camminare dietro le sbarre, ha un anno ed è la terza volta che esce da Rebibbia. Non giocano con i fratelli più grandi, il papà lo vedono durante il colloquio, se non è clandestino, se non sta in un altro istituto di pena, se non è rimasto nel paese di origine, se non è l’uomo da cui cercano di non tornare più le madri, perché sfruttate, picchiate, vessate. Oppure usate come corrieri di droga. Su questo piccolo scuolabus blu ci sono otto bambini da zero a tre anni: gli altri hanno la febbre, o sono così piccoli che le mamme ancora non se la sentono di farli uscire. Sono i bambini reclusi, in cella a causa dei reati commessi dalla propria madre. Furto, traffico di droga, spaccio. Nel carcere romano ce ne sono 25. Sono privilegiati, perché stanno nella sezione nido di Rebibbia femminile. Una specie di isola, se così si può definire una struttura di detenzione. E ce ne sono poche di isole nei penitenziari italiani. Per loro, da qualche anno, si sono aperte le porte di Castel Porziano, per decisione del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. E quelle del Circolo Montecitorio, per decisione dei parlamentari. E molte altre ancora, grazie all’associazione di volontari «Roma Insieme».
Il sabato è il giorno della festa Si va in gita. Ogni settimana un luogo diverso, il bioparco, una casa con il giardino, squarci di vita normale. Il sabato è finalmente un giorno normale, nella vita di chi non per sua scelta è nato recluso, vive e gioca dietro un muro troppo alto per vedere cosa c’è oltre. Nell’agenda - piena di inviti fino a tutto gennaio - sotto sabato 8 novembre c’è scritto «Fattoria didattica “Il Gelsomino”. Sta appena dietro via Gregorio VII, là dove non te lo aspetteresti mai ci sono boschi, capre, pecore, una mucca, un pony, le galline. Federica è una ragazzona alta e dalle forme generose. Aspetta l’autobus all’ingresso e saluta alzando la mano. «Facciamo parte della “rete”», dice. Cioè di un gruppo sempre più folto di famiglie e istituzioni che «aprono le loro case all’associazione di Leda», spiega Federica. Leda è Leda Colombini, debutto in politica nel 1970, vent’anni di attività durante i quali è stata assessore regionale, deputata. Sempre a sinistra, sempre dalla parte delle donne. Poi, nel 1992 ha mollato tutto per questa battaglia. Nella “rete” figurano, tra gli altri, Enrico e Laura Maria Salerno, Vincenzo e Valeria Salemme, l’associazione Barruchello e l’associazione Sant’Egidio. Quindici anni «per compiere una vera e propria rivoluzione culturale», spiega Leda Colombini. Racconta Valeria Salemme che una sera, a cena da amici, incontrò Leda e scoprì, così, per caso, del progetto che ormai va avanti da anni. «Per me e Vincenzo fu spontaneo dire: “Vogliamo entrare nelle rete, ospitare i bambini a casa nostra”». Lei impresario teatrale e produttore esecutivo, lui attore, una bellissima villa sull’Aurelia, appena fuori dal caos, un grande parco. Una casa pensata e vissuta da adulti. Come ci si prepara all’arrivo di dieci, quindici bambini da zero a tre anni? «Con grande serenità - spiega Valeria -, perché sono bambini speciali, con un grande spirito di adattamento, che quando hanno sonno si addormentano ovunque, su un cuscino, un divano, una sdraio». Le porte di casa Salemme si apriranno sabato prossimo, «ci saranno l’albero di Natale e i doni, le polpette fatte in casa, il sugo di pomodoro, il panettone, i giochi nel giardino». E si aprirà la piscina d’inverno («sarebbe meglio chiamarla grande vasca», spiega ridendo) con l’acqua calda per i piccoli ospiti. Ha comprato paperelle, ciambelle gonfiabili e braccioli. Non c’è bisogno di «adattare la casa», perché «anche se sono tanti e piccolissimi si muovono con attenzione, ognuno di loro ha un angelo custode- spiega Valeria -. Il momento più duro è quando se ne vanno». Poi, a volte capita che «arriva il colpo di fulmine, per uno di loro. Ti cattura un sorriso, uno sguardo», e quando è il momento di salutarsi vorresti dirgli, “ok, prolunghiamo fino a cena, ti racconto la fiaba» e invece a Rebibbia aspettano, meglio dire «ciao» facendo finta che va tutto bene. Succede ogni volta. Anche stavolta, qui nella Fattoria del Gelsomino, fotografia di un sabato «normale». Piove, le altalene e gli scivoli sono fuori uso. Si ripiega nei grandi spazi coperti, armati di giochi e pannolini, biberon e colori. Il gruppo è organizzato, gli operatori sono una allegra macchina da guerra. Gelsomina ha 53 anni, è un’impiegata che ha tre nipotini appena nati; Giovanni Giustiniani è un pensionato, ex dipendente Italtel, una vita in politica, «e poi ho capito che la vera rivoluzione passa attraverso iniziative come questa: fai vedere al mondo ciò che il mondo fa finta di non vedere, bambini in carcere, figli di donne che spesso non hanno alternative al furto». Alessandra Bellucci, 30 anni, lavora nel marketing di una grande multinazionale; Elisa Rigoni lavora in una casa di produzione cinematografica e pubblicitaria, single, 34 anni, da quattro non salta un fine settimana, «perché il resto non mi manca, c’è dal lunedì al venerdì». Non sono angeli: sono persone in carne e ossa, giovani e meno giovani, che prestano un giorno della settimana alla «rete». Elisa ha anche imparato da una detenuta il «romanì bosniaco», per comunicare con i rom; Maurizio, invece, è ricercatore universitario alla facoltà di Giurisprudenza, avvocato. Esperienza con i bambini: zero. Ma il feeling scatta immediato con Ivana, due anni, carattere di ferro che non vuole mangiare e serra la bocca. Il menù è ricco: pasta con burro e parmigiano, timballo di verdure, polpette, cotolette alla milanese, dolci. Ivana è la prima a cedere alla stanchezza e si addormenta in braccio a Maurizio. Nel giro di benti minuti dormono quasi tutti: su due sedie accostate, su un piccolo divano, adagiati su una panca. Quando si svegliano è pronta la merenda. Torte, cioccolata e succhi di frutta.
Leda Colombini si concede una pausa, si siede e racconta l’inizio di questa storia: «Presentammo un progetto al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ponendo come obiettivo l’uscita dei bambini dal carcere per fargli frequentare i luoghi normali, come un parco, un giardino di una casa, il mare. Dal Comune di Roma abbiamo ottenuto uno scuolabus e un autista. Fu Walter Tocci, allora assessore ai Trasporti, a inaugurare la prima uscita: fummo ospitati dall’educatrice del carcere, Eugenia Fiorillo, nella sua villa in campagna». I capitoli successivi si sono scritti nel corso degli anni, fino ad arrivare alla legge Finocchiaro, all’iscrizione e alla frequentazione dei nidi comunali, ai corsi di musicoterapia. «Ma ancora non basta - spiega Colombini - perché ancora oggi, infatti, ci sono bambini reclusi con le loro mamme, soprattutto extracomunitarie, spesso dentro per furto, o per traffico internazionale di droga». In Italia, secondo l’ultimo rapporto Antigone di Luglio 2008, le detenute sono 2385, di cui 68 con figli da zero a tre anni. Sono 70 i minori reclusi.
«La maggior parte delle madri detenute non rappresenta un pericolo sociale - spiega Leda Colombini, presidente di Roma Insieme -, le loro storie sono storie di povertà e disperazione. Molte di loro se avessero la possibilità di un lavoro e di una casa romperebbero con la vita che le ha portate dentro». La legge Finocchiaro ha introdotto norme più umane, misure alternative per le madri che fino al compimento del decimo anno di vita del proprio figlio hanno diritto alla sospensione della pena: anziché «dentro» possono pareggiare il conto la società in casa o in strutture protette. A non poterne usufruire sono le extracomunitarie che al momento dell’arresto non hanno una fissa dimora. È così per le rom, costrette già da bambine a rubare e quindi destinate ad essere recidive, è così per le tantissime colombiane bloccate all’aeroporto con il loro carico di droga. «Queste donne hanno bisogno di un percorso che le aiuti a ricominciare in modo diverso la loro vita», spiega Colombini.
È Marco a ricordare che è ora di tornare. Tornare dentro. Marco, 39 anni, dipendente dell’azienda comunale di trasporto, ci tiene moltissimo al turno del sabato. Perché una volta che arriva a destinazione, scende dall’autobus e sta tutto il giorno con i bambini. Non è previsto dal contratto, ma chissene frega.

l’Unità 11.12.08
La Grecia bloccata dallo sciopero generale


La Grecia è stata paralizzata da uno sciopero generale. Atene bloccata dai cortei. Quinto giorno di scontri dopo l’uccisione di un giovane studente. Giallo sulla perizia balistica. Il primo ministro ottimista.
Hanno incriminato per omicidio volontario l’agente che gli ha sparato, nel giorno in cui la Grecia si è fermata per chiedere giustizia per Alexis Grigoriopoulos. Ieri Epaminondas Korkoneas, il 37enne poliziotto che sabato scorso ha ucciso ad Atene lo studente di 15 anni, è stato formalmente incriminato e rimarrà in carcere. Così hanno deciso i giudici, che l’hanno accusato anche di uso illecito dell’arma di ordinanza. Resta in carcere anche Vassilios Saraliotis, 31 anni, il collega che era con Korkoneas al momento dell’omicidio, e che dovrà rispondere di complicità. Così si è appreso in serata, dopo il quinto giorno consecutivo di disordini in Grecia. Incidenti in tono minore, anche per lo sciopero generale che ha bloccato il Paese ma che si è svolto senza gravi incidenti. E il premier greco Costas Karamanlis è apparso per la prima volta ottimista, vede una luce in fondo al tunnel della protesta radicale seguita all’uccisione di un giovane studente da parte della polizia. «I violenti che puntano solo alla distruzione sono stati isolati» annuncia il premier al termine di una riunione di governo dove la valutazione è stata che «la situazione sta tornando alla normalità». E Karamanlis ha confermato per oggi la presenza a Bruxelles per il vertice Ue. A sostenere l’ottimismo dell’esecutivo c’è la giornata relativamente tranquilla di ieri, con uno sciopero generale contro la politica economica del governo di centrodestra turbato da scontri tra alcune centinaia di radicali e la polizia davanti al Parlamento e al Politecnico.
Atene paralizzata
Tafferugli non gravi anche a Salonicco. Ma la tensione di piazza ha comunque fatto passare in secondo piano le rivendicazioni dei lavoratori che reclamano un cambiamento della politica economica neoliberale, di fronte ai danni causati dalla crisi finanziaria internazionale. Karamanlis ha annunciato un piano di aiuti ai commercianti danneggiati dai disordini. Il piano prevede sussidi fino a 200.000 euro, prestiti agevolati, moratoria sui debiti con le banche e garanzie a chi ha perso il lavoro. Ad aiutare il premier anche l’informazione filtrata dalla difesa dell’agente accusato per la morte di Alexis.
Giallo sulla perizia
Secondo tale informazione, la perizia balistica avrebbe indicato che il proiettile sarebbe entrato nel corpo della vittima dall’alto in basso. Una conferma alle dichiarazioni dell’agente e del suo collega, secondo cui egli avrebbe sparato in aria e in terra ma non direttamente contro il giovane. Il proiettile per avere un’inclinazione dall’alto in basso dovrebbe aver colpito il muro di una casa o un palo. Ma la notizia dell’incriminazione va in segno opposto. E la calma apparente non significa la fine della crisi. Questa, se è cominciata come una rivolta contro l’uccisione di un ragazzo, è diventata qualcosa di più, assorbendo la rabbia e la protesta di una società impoverita e impaurita dalla crisi di cui i giovani e gli studenti sentono in particolare il peso. E sicuramente non è la fine dei problemi di Karamanlis che ha una fragilissima maggioranza di un deputato, continua a scontrarsi con una fronda in seno al suo partito ND, all’assedio degli scandali, alle proteste di sindacati e opposizione per l’impoverimento crescente della popolazione ed ai sondaggi che danno ND cinque punti dietro il socialista Pasok. Ma il baratro sembra essersi allontanato, almeno un po’. E se l’altro ieri Giorgio Papandreou leader del Pasok, aveva chiesto elezioni anticipate, ieri ha rivolto un appello alla calma.

il Riformista 11.12.08
L'Onda ellenica dilaga
Il Governo greco trema
di Luca Sebastiani


Grecia Nel giorno dello sciopero generale migliaia in piazza contro Karamanlis, Paese paralizzato
Lotta continua. Scontri e molotov nella quinta giornata di guerriglia urbana. La prima perizia balistica infiamma l'ira dei manifestanti. Poi arriva l'incriminazione per omicidio volontario dell'agente che ha sparato a Alexis. E quando il premier alza la voce, nessuno l'ascolta.
Un manifestante ieri ad Atene

Il primo ministro Costas Karamanlis ostenta sicurezza, brandisce il pugno di ferro e la tolleranza zero, ma più passano le ore e più sembra oltrepassato da eventi che non riesce a controllare. Di fronte alla quinta giornata di proteste finite in guerriglia urbana, il potere del governo appare sempre più fragile e, insieme ai giovani in rivolta, ora è la piazza che chiede a piena voce l'uscita di scena dell'esecutivo.
Sullo sfondo intanto va avanti l'indagine sulla morte di Alexis Grigoropoulos, il giovane 15enne ucciso sabato sera da un proiettile esploso dalla polizia. E ora il rischio è che le notizie sulle perizie balistiche e le autopsie infiammino ancor di più la collera dei giovani, innescata proprio da questa vicenda. Dai primi riscontri risulterebbe infatti che Alexis sia stato colpito a morte di rimbalzo, visto che il proiettile rinvenuto «è leggermente deformato». Una versione che confermerebbe quella del poliziotto incriminato, che ha sempre affermato di aver sparato due colpi in aria e uno a terra per disperdere il gruppo di studenti che li aveva accerchiati. I giovani che hanno esploso la loro collera contro la polizia e lo Stato al grido di «assassini», sono invece convinti che l'agente abbia volontariamente sparato ad altezza d'uomo. Per questo ieri hanno preso di mira i due poliziotti incriminati e il loro avvocato lanciandogli contro delle molotov all'entrata del tribunale di Atene.
Ad aumentare la sensazione di trovarsi in pieno clima insurrezionale, ieri ha contribuito anche lo sciopero generale indetto dai maggiori sindacati contro le politiche del governo. Non è la prima volta che i lavoratori scendono in piazza negli ultimi mesi contro le misure di rigore, le privatizzazioni e gli scandali che colpiscono gli esponenti dell'esecutivo. Ma quello di ieri era uno sciopero ad alta tensione per Karamanlis, che ha visto trasformarsi la rivolta anarchica in crisi sociale e politica.
«Il Paese è paralizzato», ha lanciato ieri il leader del Gsee, la più importante confederazione sindacale che, insieme all'altra sigla, Adedy, rappresenta più della metà dei 5 milioni di lavoratori greci. Tra scuole, banche e uffici chiusi, ieri al corteo principale di Atene hanno sfilato 10mila persone, da cui si sono ben presto distaccate frange estremiste che hanno attaccato la polizia antisommossa schierata davanti al Parlamento. Alle molotov e alle pietre le forze dell'ordine hanno risposto con gas lacrimogeni e leggere cariche di contenimento. La paura è infatti che negli scontri rimanga a terra qualche altro giovane e che il clima esploda definitivamente.
A Salonicco il corteo organizzato dai comunisti si è svolto pacificamente, ma un'altra manifestazione anarchica è finita con le scene di guerriglia che si sono visti negli ultimi giorni.
Karamanlis però, è convinto che stia tornando l'ordine e ieri dalla tv si è rivolto direttamente ai cittadini per rassicurarli. «I violenti sono stati isolati», ha detto, e ha promesso che i negozianti colpiti saranno risarciti. Secondo i calcoli, nella sola capitale sono 435 gli esercizi danneggiati o totalmente distrutti.
Certo la violenza urbana ha subito una fisiologica diminuzione rispetto alle scorse giornate. Ma quello che rimane è la collera che ha guadagnato settori sempre più grandi della società greca. Di destra o di sinistra, i giornali non fanno che denunciare l'impotenza del governo di fronte agli avvenimenti di questi giorni e alle sfide politiche che ha davanti.
Eletto nel 2004 con la promessa che avrebbe modernizzato lo Stato, Karamanlis non ha saputo rispondere ai problemi del Paese e ha lasciato che la situazione degenerasse nella corruzione e il clientelismo. Il suo esecutivo è stato al centro di vari scandali, e nell'estate del 2007 ha mostrato tutta la sua imperizia durante gli incendi che hanno bruciato 200mila ettari di territorio e ucciso 70 persone. Dopo quegli eventi Karamanlis è stato rieletto di corta misura, ma ora gli resta un solo voto di maggioranza al Parlamento e sono in molti a scommettere che l'onda della «generazione 600 euro» gli darà la spallata definitiva.

Repubblica 11.12.08
Dai trionfi di Stalin al disfacimento
Ecco come è fiunita l’Urss
Graziosi ha concluso la monumentale storia da Lenin a Gorbaciov
di Massimo L. Salvadori


Dopo la morte del dittatore, al di là delle mistificazioni il sistema sovietico mostrò di non essere in grado neppure di assicurare un tenore di vita decente alla sua popolazione
Molte cose furono impreviste, dalla stessa rivoluzione alle riforme di Gorbaciov
Il prezzo pagato per tenere in piedi una gigantesca macchina militare fu enorme

Nella sua Storia dell´impero di Russia sotto Pietro il Grande Voltaire levò un altissimo elogio all´opera dello zar modernizzatore, che aveva compiuto una di quelle «rivoluzioni folgoranti che hanno cambiato i costumi e le leggi dei grandi Stati». Quando morì, il 5 marzo 1953, Stalin venne celebrato come il più grande Pietro, che aveva creato un nuovo ordine sociale e politico, innalzato l´Urss a potenza mondiale, schiacciato l´idra nazista, offerto un´immensa speranza di riscatto a masse sterminate di oppressi e di umili, sfidato in maniera vincente l´iniquo capitalismo. E a esaltarne figura e lascito non furono soltanto i comunisti; tra quanti espressero ammirazione si annoverarono anche molti tra i più eminenti leader dei paesi occidentali.
Andrea Graziosi ha raccontato la parabola del comunismo al potere nel più grande Stato del mondo in due corposi volumi editi dal Mulino rispettivamente nel 2007 e nel 2008. Il primo, L´Urss di Lenin e di Stalin (pagg. 630, euro 30), tratta del periodo dal 1914 al 1945, il secondo, L´Urss dal trionfo al degrado (pagg. 741, euro 32), quello dal 1945 al 1991. Una vera miniera, uno strumento di conoscenza importante, un´occasione di continue riflessioni su una storia che l´autore giustamente definisce «tragica». Ci si consenta di osservare però di sfuggita che il titolo del secondo volume non pare del tutto pertinente, poiché nella parabola sovietica al degrado - come d´altronde mette bene in luce l´autore nel testo - fece seguito il crollo, la dissoluzione dell´Unione Sovietica.
L´analisi di Graziosi è pressoché interamante centrata sulle vicende interne dell´Urss, e non affronta «se non di passaggio, la questione dei rapporti tra storia sovietica e storia del movimento comunista internazionale». È una scelta legittima, ma credo sarebbe stato opportuno non tenerla tanto stretta, poiché la seconda di queste storie costituì una componente troppo organica e determinante della prima. In ogni caso, quel che ci dà l´autore è davvero moltissimo. Chi poi abbia interesse per i nessi tra l´Urss e il movimento comunista mondiale può prendere in mano il libro di Robert Service, Compagni. Storia globale del comunismo nel XX secolo, appena pubblicata dalla Laterza (pagg. 690, euro 28).
Graziosi prende le mosse del suo lungo racconto citando un bellissimo passo di Herzen del 1850, tutto guicciardiniano, e insieme antihegeliano, antipositivista e antimarxiano, dove si dice, contro l´idea che il cammino dell´umanità possa essere previsto e pianificato, che «se l´umanità marciasse diritta verso qualche risultato, non vi sarebbe storia, solo logica» e che la storia invece «è tutta improvvisazione, tutta volontà, tutta estemporanea - non ha limiti, né rotte». Un tale citazione ha un gran senso in relazione alla storia dell´Urss, proprio perché questa mostra uno straordinario contrasto tra l´armamentario teorico dei vari leader sovietici, che ebbero la convinzione e presunzione di poter mettere in atto una «politica scientifica», e la loro pratica, intessuta di illusioni smentite, frutto di situazioni storiche quanto mai impreviste e finita, al di là di ogni immaginazione, nell´implosione del mondo che avevano costruito in luogo di quella del capitalismo da essi iscritta, seguendo il dettato marxiano, in una incontrastabile necessità storica. E ciò l´autore ci mostra nella sua analisi, ricca fino alla minuziosità e basata su un´imponente documentazione, di una vicenda durata oltre settant´anni.
Fu imprevista la rivoluzione di febbraio nel 1917; fu imprevisto che il neonato potere bolscevico sopravvivesse agli attacchi di tedeschi, delle potenze interventiste, dei bianchi, agli acuti conflitti interni, alle immense devastazioni che tra il 1918 e il 1922 minacciavano di provocare ogni giorno il precoce collasso di un sistema economico che generava miseria, alla morte di milioni di uomini uccisi dalle armi, dalla fame e dalle epidemie; fu imprevisto che nella lotta per il potere dopo la morte di Lenin a vincere la partita fosse Stalin; fu imprevisto dai bolscevichi che il loro ideale di dare finalmente il potere alle masse (la democrazia proletaria) avesse come esito la dittatura di un solo uomo attorniato da una ristretta oligarchia e la costruzione di un sistema di repressione e di terrore culminato nell´universo concentrazionario del Gulag; fu imprevisto che lo Stato sovietico resistesse all´invasione del più potente esercito che si fosse mai visto in Europa fino a sconfiggerlo; fu imprevisto che il moto di riforma intrapreso da Gorbaciov, inteso a rigenerare il comunismo, culminasse nella rovina e nella dissoluzione dell´Urss.
Il secondo volume di questa storia, che è quello su cui qui intendiamo soffermarci, va dal massimo trionfo conseguito da Stalin nel 1945 sui suoi nemici al massimo trionfo ottenuto dagli Stati Uniti e dai loro alleati nel 1991 sull´Urss, guidata dall´ultimo di quei "gattini ciechi" che il dittatore aveva temuto avrebbero portato per la loro inettitudine al disfacimento del gigante da lui creato. Graziosi identifica lucidamente i due versanti della medaglia. Nell´uno si leggeva il successo conseguito sia nella più grande battaglia mai combattuta e vinta dal «popolo russo» contro i nemici esterni sia in quella che aveva opposto i veri ai falsi bolscevichi e a tutti i nemici interni, la legittimazione quindi del regime staliniano e della costruzione del sistema del terrore; la conferma che tutte le prove drammatiche attraverso cui era passata l´Unione sotto la guida di Lenin il fondatore e di Stalin l´erede avevano un senso infine pienamente disvelato; l´ascesa dell´Urss a superpotenza mondiale; l´estensione delle frontiere del socialismo; «la popolarità straordinaria» del regime sovietico nel Terzo Mondo e presso i comunisti e i loro simpatizzanti di tutti i paesi.
Nell´altro, lo stato di immane prostrazione in cui la nuova superpotenza si trovava in seguito alle immense distruzioni materiali, alla strage di militari e civili (probabilmente intorno ai 26-27 milioni di morti), al prezzo tremendo da pagare al mantenimento di una enorme macchina militare in attesa della terza guerra mondiale (che comportava - scrive l´autore - «un fardello quasi insostenibile» per un paese in rovina e il cui sistema economico era «inefficiente»); il «dramma della identificazione» del trionfo sovietico «con un despota terribile» elevato a «un idolo vivente»; il dilagare di un nazionalismo dai tratti grotteschi; il potere affidato a un dittatore onnipotente, circondato da «un´élite chiusa», in cui gli stessi maggiori capi vivevano nella costante paura di poter perdere i loro privilegi e anche la vita.
Dalla morte di Stalin al crollo sovietico corse più o meno lo stesso tempo che dal crollo zarista al trionfo del dittatore. Fu il periodo in cui, al di là delle illusioni, delle mistificazioni alimentate da statistiche ufficiali sui progressi del paese sistematicamente falsificate, dei timori nutriti dall´Occidente specie quando assistette ai traguardi conseguiti dall´Urss nella conquista dello spazio, venne dimostrato a mano a mano più chiaramente che il sistema sovietico - contrariamente alla baldanza retorica portata agli eccessi da Kruscev - non era in alcun modo in grado non solo di superare nell´economia, nella scienza e nella tecnologia il mondo capitalistico, ma neppure di assicurare un appena decente tenore di vita alla popolazione. Le forze armate pompavano enormi risorse, l´agricoltura era un punto debolissimo senza rimedio, i contadini restavano condannati ad un nuovo servaggio, gli operai erano una massa semimilitarizzata, i dissidenti sorvegliati quando non imprigionati e deportati, e i campi di concentramento costituivano un mondo parallelo.
Graziosi chiude la sua assai rimarchevole fatica con due citazioni di Lenin e di Trockij. Il primo nel 1919 aveva affermato che il capitalismo sarebbe stato sconfitto perché il socialismo avrebbe «creato una produttività del lavoro assai più alta»; il secondo nel 1919 che, «se fosse dimostrato» che la pianificazione conduceva «ad un abbassamento della vita economica, ciò significherebbe la distruzione di tutta la nostra cultura».
Orbene, la dimostrazione definitiva è avvenuta con il riformismo di Gorbaciov, cui, dopo aver creduto di poter compiere l´impossibile, toccò, preso in un mare di contraddizioni ingovernabili («l´indecisione, la fiducia accordata a persone che lo tradirono, il tempo perso in politica e in economia cercando di conciliare l´inconciliabile - il partito unico e la democrazia, la pianificazione e il mercato) di farsi notaio di una immane disfatta storica. E alla vicenda dell´ultimo segretario del Pcus, che ebbe il merito di non tentare la carta estrema della violenza per salvare un regime e un impero corrosi dai tarli della loro storia (ma chi aveva in quel sistema in disfacimento la volontà e la determinazione di combattere per la sua difesa?), Graziosi dedica una acuta e persuasiva analisi.

l’Unità Roma 11.12.08
Da tutte le parti d’Italia a Roma per protestare contro i tagli al Fus: non meritiamo tutto questo
Alla rabbia contro il governo, in alcuni teatri si aggiunge quella verso direttori e sovrintendenti
La classica in rivolta: «Il governo ci tratta come costi da tagliare»
di Luca del Frà


«Ho fatto oltre 50 concorsi per trovare un posto stabile: contrabbassista di fila alla Haydn, una realtà bellissima dove la musica, nella tradizione Mitteleuropea e in particolare austriaca è al centro della cultura»: Corrado è nato a Salerno, si è diplomato in contrabbasso al Conservatorio di Roma, ha ricoperto il ruolo di aggiunto, leggi precario, a Torino, Firenze e Roma. Totale, 8 anni di studio e 15 di precariato in giro per l'Italia, prima di trovare il posto fisso tra Trento e Bolzano. Ieri era alla manifestazione contro i tagli alle attività culturali previsti dalla finanziaria 2009 del Governo Berlusconi: orchestre e cori da tutta Italia hanno suonato assieme all'Opera di Roma addobbata di striscioni come non si vedeva dal 1980, quando Joan Sutherland cantò Lucrezia Borgia. La manifestazione indetta dai sindacati unitari e dalla Fials, ha coinvolto le fondazioni lirico sinfoniche, i maggiori teatri italiani, ma anche delle orchestre regionali: è proprio Corrado nato in Campania rappresentava la compagine con la sede più settentrionale: l'Orchestra Haydn delle province di Trento e Bolzano, una compagine regionale, ma che si dà parecchio da fare: oltre alla stagione in sede, è ospite del Rossini Opera Festival, va spesso a esibirsi al Mozarteum di Salisburgo ed è stata di recente in tournèe in Giappone. «Sono risultati che i tagli dello governo mettono in forse -spiega-, e vorrei ricordare che al contrario di molti altri settori legati alla pubblica amministrazione in Trentino Alto Adige, nell'orchestra non ci sono posti riservati ai cittadini di lingua tedesca e ladina. Con noi suonano musicisti argentini, canadesi, tedeschi come di altri paesi europei». In fondo rappresentate un momento di incontro e di apertura in una zona d'Italia che è considerata un po' chiusa verso l'esterno? «A Bolzano sono molto meno chiusi di quanto si dice, ma la nostra speranza è che l'orchestra rappresenti anche la fusione di persone e culture diverse». Quanto guadagna al mese? «Paga base meno di 1500, ma se va tutto bene, cioè se lavoriamo parecchio, arrivo anche 1700». In questi giorni c'è stato da più parti un attacco contro le compagini stabili, accusate di guadagnare troppo, ma in realtà le cifre delle buste paga si aggirano tutte intorno a questa cifra: da Bolzano a Palermo. «Non ho mai smesso di studiare, perché se a un violinista si rompe l'archetto lo può ricomprare ma se un cantante si rovina la voce ha chiuso», precisa Paolo, corista al Massimo di Palermo: «Noi lavoriamo 26 ore, e non 16 come dice il ministro Bondi, ma si dovrebbe aggiungere il tempo del riscaldamento, perché se canti a freddo ti rovini la voce: comunque percepiamo 1800 euro, tutto compreso. Per capirci, in questo periodo studiamo Lohengrin di Wagner la mattina ed eseguiamo Aida di Verdi la sera: non mi pare una passeggiata». Se è ovvio che tutti qui sono contro i tagli del governo, serpeggia anche una notevole rabbia nei confronti di molte dirigenze dei teatri: «Da Gardaland è arrivato un manager che ha fatto un un piano di rilancio per superare il deficit di una ventina di milioni di euro -dice Marco dell'Arena di Verona-, ma nessuno lo ha messo in pratica perché la Fondazione è stata commissariata»: peraltro su richiesta del sindaco leghista Flavio Tosi. Ma i soldi li ha presi il manager? «Bisognerebbe chiedere alla direzione, ma credo proprio di sì». La voce di Marco è quella dello stomaco dei teatri, è infatti un attrezzista, le maestranze che raramente trovano spazio sui giornali: «La passione me la ha trasmessa mio padre, che mi portava a vedere l'opera da bambino. Oggi dopo 27 anni di lavoro prendo 1400 euro, ma raggiungo 1700 l'estate quando c'è la stagione all'aperto. Perché lavoriamo di notte, ogni sera si fa un titolo diverso e quindi bisogna smontare e rimontare ogni volta”.
Claudio, Chiara e Andrea sono nel Corpo di Ballo dell'Opera di Roma, ma sono aggiunti vale a dire precari. Sono grati alla direzione che gli garantisce lavoro tutto l'anno ma è un'eccezione: «Sono diplomata alla scuola del Teatro di San Carlo, ma sono dovuta scappare da Napoli per poter lavorare -spiega Chiara-. A Roma divido un appartamento con un'amica che studia». Insomma una vita da studente fuori sede: «Ed essendo aggiunti ci sono dei periodi in cui devi interrompere: qui a Roma sono brevi, ma altrove possono durare anche mesi, poi ti chiamano magari tre giorni prima». Secondo voi quanto ci vorrà prima che vi assumano in pianta stabile? «Con l'aria che tira è impossibile dirlo... -risponde Claudio- Già è tanto che riusciamo ad avere da lavorare». Ma per i periodi in cui dovete restare fermi avete dei sussidi: «Abbiamo i genitori, questa è la verità -replica secco Claudio-. E anche quando sei fermo non puoi mollare, se perdi la forma fisica ci vogliono mesi per ritrovarla e sono dolori». È vero che gli aggiunti si danno più da fare degli stabili? «In certo senso sì» dice Chiara e gli fa eco Andrea «Come si dice, hai più pepe al culo», ma conclude sempre Chiara «Dall'altra parte però sei sempre psicologicamente insicuro». A che età avete deciso di diventare danzatori: «Quando non sapevamo cosa ci aspettava», rispondono ridendo in coro, poi Chiara sbotta «A 7 anni ho sentito che era predisposta...»; «Io a 14» dice Andrea, «A 15» conclude Claudio. La loro prospettiva di vita la racconta Silvia, stabile al Maggiodanza: «Con 9 scatti di anzianità guadagno 1700 euro al mese e il mio contratto prevede che possa interpretare anche parti da prima ballerina». È molto orgogliosa del suo lavoro: «Maggiodanza è il secondo teatro in Italia per produzioni, i nostri spettacoli vanno esauriti, la gente viene, si diverte, e ci riusciamo anche se da anni siamo sotto organico: non mi pare proprio uno spreco».

Corriere della Sera 11.12.08
La protesta Gli orchestrali di 12 teatri insieme sul palco
Maxi-concerto a Roma contro i tagli alla lirica «Non siamo privilegiati»
di Valerio Cappelli


Nel mirino anche Pizzi e Zeffirelli: cachet eccessivi
Mancavano soltanto i rappresentanti della Scala, perché il loro pullman è tornato indietro per il maltempo

ROMA — È lo scatto d'orgoglio degli artisti «fannulloni». Nella Finanziaria si parla oggi dei tagli per lo Spettacolo: 200 milioni per il 2009 con un taglio del 30 per cento. E il palco dell'Opera di Roma, dove campeggia la scritta pucciniana
Nessun dorma, è invaso da diverse centinaia di musicisti da tutt'Italia, Cagliari, Trieste, Verona, Firenze, Palermo, Genova, Venezia... Dai palchi le ballerine espongono tutù e scarpette come i panni dalle case a Trastevere; striscioni contro la sforbiciata e contro i registi Pier Luigi Pizzi e Franco Zeffirelli che sono stati critici sui teatri: «Vampiri senza vergogna, dichiarate i vostri cachet».
Rispolverato il motto risorgimentale
Viva Verdi con doppio significato per l'allusione a Vittorio Emanuele, suonato l'inno nazionale e tutti in piedi, ma gli orchestrali lo erano già: non bastavano certo le sedie per contenere le rappresentanze dei 12 teatri lirici (mancava solo la Scala, il pullman è tornato indietro causa maltempo). Insomma non è mancata la solennità alla manifestazione del mondo della lirica, ondeggiante tra cuore e protesta e per la prima volta unita , trasferita per la pioggia da piazza del Popolo al chiuso dell'Opera.
Il sovrintendente Francesco Ernani: «Stiamo vivendo un momento di delirio, si dicono cose e se ne fanno altre, i teatri sono un bene importante per il Paese». Ci sono i deputati dell'opposizione Vincenzo Vita («Senza la cultura l'Italia non sarebbe l'Italia, ho scongiurato Bondi di riparlarne con Tremonti») ed Emilia De Biasi («A Tremonti dico che l'economia non è solo finanza e tagli, la lirica non è il tempo libero del re ma impresa culturale »). I tagli, visti da qui, faranno chiudere i teatri: «Ci sarà la messa in liquidazione».
Si suona e si parla. Ecco i sindacalisti, che chiedono il ripristino integrale del fondo statale e, chiamando in causa il burocratichese, «un tavolo di confronto» col governo. Se la prendono con i sovrintendenti che fanno i cartelloni con le agenzie dei cantanti e i costi si gonfiano. Il problema però è altrove, è la spesa dei dipendenti che assorbe il 70 per cento dei budget.
Siete accusati di essere privilegiati... Risponde Francesco Melis segretario territoriale della Uil: «La media degli stipendi, tra portiere e primo violino, è di 1400 euro al mese, cifra inferiore agli altri teatri europei». S'è detto che le regole devono cambiare: «Dai tre contratti degli ultimi 10 anni abbiamo avuto 150 euro lordi, meno della rivalutazione Istat».
E i conti in rosso? «Sono dovuti ai tagli e al ritardo nell'erogazione dei soldi. A Roma abbiamo 800 mila euro di interessi passivi con l'Unicredit, uno dei nostri sponsor». Un momento: i soldi dello sponsor si prosciugano col debito allo stesso sponsor? «Esatto». E gli sprechi? «A coloro che hanno fallito parlando di costi esorbitanti, e mi spiace mettere Cofferati per Bologna, dico che all'Opera di Roma abbiamo dimostrato che è possibile alzare il sipario 220 volte a stagione e avere il pareggio di bilancio». Loris Grossi della Cgil: «Siamo tornati ai valori del 1986. A Roma nel 2007 abbiamo avuto un milione di euro in meno. Sfido qualunque azienda a sopravvivere con un danno del 35 per cento». Lorella Pieralli della Fials-Cisal: «C'è una cordata trasversale di faccendieri che vuole impadronirsi dei teatri ».

Corriere della Sera 11.12.08
In piazza. Fermati tutti i manifestanti
Pechino, protesta al ministero degli Esteri
di Marco Del Corona


PECHINO — Ognuno ha festeggiato a suo modo i 60 anni della Dichiarazione universale dei diritti umani, in Cina. La stampa ufficiale ha pubblicato per intero le dichiarazioni del ministro Wang Chen, capo della propaganda. Una pagina per celebrare i «progressi storici» di Pechino senza nascondere i «fattori di disarmonia » che rimangono. E ieri mattina, nella capitale, una ventina di persone o poco più ha azzardato una protesta pubblica. Normale il gelo, 3 sottozero. Meno normale il luogo della manifestazione, il ministero degli Esteri. La piccola folla aveva storie da raccontare, case demo-lite, terreni confiscati, parenti per cui chiedere giustizia, una madre ammazzata a bastonate. Invece di andare davanti all'ufficio preposto ad accogliere le petizioni, i postulanti hanno scelto deliberatamente il ministero, una donna aveva con sé una copia della Costituzione, altri invocavano il rispetto dei diritti umani nel giorno a loro dedicato. La polizia ha lasciato fare per un po', quindi ha caricato tutti su un bus.
C'era anche la Cina, nel 1948, tra gli estensori della Dichiarazione. Era quella nazionalista del Kuomintang, un anno prima della Repubblica Popolare di Mao Zedong, e contribuì alla sua stesura Chang Peng-chun, diplomatico cui erano familiari Confucio e Voltaire. La Cina di oggi, che annuncia un documento sullo stato dei diritti in Cina, ha però vissuto con nervosismo la preparazione dell'anniversario. Lunedì la polizia ha fermato due dissidenti storici, Liu Xiaobo e Zhang Zuhua, più altri critici del regime. Liu e Zhang avevano messo on line un documento chiamato «Carta 08», con un'allusione allo storico gruppo del dissenso cecoslovacco «Charta 77». Il testo menziona tutti i tentativi del regime di incorporare i diritti umani nelle leggi. Ma «i progressi politici restano fermi sulla carta. C'è la legge ma non l'amministrazione della legge. C'è la Costituzione ma non una politica costituzionale». In calce alla richiesta di democrazia, 303 firme, dalla ecologista Dai Qing all'economista Mao Yushi, all'avvocato Mo Shaoping.
Il testo è stato purgato da Internet, ma ancora ieri sera riappariva in angoli protetti del web. Uno scrittore di Chengdu, Ran Yunfei, ha aggiunto un suo testo, appoggiando la «Carta 08». Non si è addentrato nell'articolazione teorica. Si è limitato alle cose semplici: «E' nella natura dell'uomo esprimersi e difendere i propri diritti».

Repubblica 11.12.08
L'ex docente arrestato ieri a Pechino In un appello difendeva i diritti umani
Da Tienanmen a Carta 08 la lunga marcia di Xiaobo
di Federico Rampini


Lo hanno sottoscritto in trecento tra scrittori, artisti e avvocati
"Chiediamo libertà di stampa e di religione, e una giustizia indipendente"

Più di trecento intellettuali cinesi hanno firmato un appello per chiedere riforme politiche, una democrazia pluralista e uno Stato di diritto. Sotto la sigla "Difensori cinesi dei diritti umani", i firmatari che hanno sfidato le ire del regime sono scrittori, artisti e avvocati. Hanno pubblicato ieri il loro manifesto intitolato Carta 08, nello stesso giorno in cui il mondo intero celebrava il sessantesimo anniversario della Dichiarazione dei diritti umani delle Nazioni Unite. I due più noti promotori dell´iniziativa sono stati arrestati dalla polizia e incriminati del reato di "cospirazione sovversiva contro la sicurezza dello Stato".
Proprio ieri a Parigi si teneva una celebrazione solenne dell´anniversario della Carta universale, organizzata sotto l´egida dell´Onu, della Commissione europea e di numerose organizzazioni non governative. Anche Pechino ha festeggiato l´evento, a modo suo. Mettendo in scena un teatro dell´assurdo, un dialogo impossibile fra il regime autoritario più potente del mondo e le voci del dissenso interno. Per il governo ha parlato Wang Chen, alto dirigente del Consiglio di Stato per l´Informazione. Il gerarca dell´apparato di propaganda ha rilasciato un´intervista alla rivista Diritti Umani edita dallo stesso partito comunista. "La Repubblica Popolare - ha dichiarato Wang - ha realizzato uno storico sviluppo dei diritti umani. Il partito comunista e il governo hanno fatto sforzi strenui per rafforzare e proteggere i diritti dei cittadini, hanno creato una via allo sviluppo dei diritti umani con caratteristiche cinesi, a cominciare dal diritto alla sopravvivenza e alla crescita economica. La condizione dei diritti umani è giunta al suo stadio più avanzato nella storia del nostro paese".
La posizione ufficiale del regime di Pechino è ambivalente. Da una parte c´è un residuo di linguaggio comunista, il retaggio dell´èra maoista: si continua a insistere sulla "via cinese" ai diritti umani dove l´accento è sui diritti di tipo materiale, cioè la guerra alla povertà, lo sviluppo economico e la diffusione di standard di vita decenti per la popolazione. D´altra parte la leadership comunista afferma di rispettare anche la Carta dell´Onu. Esibisce come prova la Costituzione della Repubblica Popolare, che sulla carta garantisce libertà di espressione, libertà religiosa, e tutte le caratteristiche di un moderno Stato di diritto. Purtroppo la Costituzione è la più inapplicata e la meno rilevante delle leggi cinesi. E´ a questi diritti proclamati e disattesi, che si aggrappano con tenacia gli attivisti democratici. «Nel nostro appello - ha dichiarato il giurista Mo Shaoping, uno dei trecento firmatari - non c´è nulla che vada contro la Costituzione della Cina. La nostra Carta 08 promuove gli stessi valori della Carta universale dei diritti umani: la libertà di stampa, di associazione, una giustizia indipendente, la libertà religiosa, la protezione dell´ambiente». L´appello, che è apparso brevemente su Internet prima di essere oscurato dalla censura, elenca 19 proposte per creare un sistema giudiziario imparziale, promuovere un´informazione pluralista, e superare il monopolio di potere del partito unico.
Impugnando la stessa Costituzione cinese ieri anche alcune decine di manifestanti si sono radunati a Pechino davanti al palazzo del ministero degli Esteri. Hanno dato vita a un breve sit-in, come non se ne vedevano più dal periodo pre-olimpico, quando sulle manifestazioni di protesta era calata una repressione più pesante del solito. Tra i manifestanti inginocchiati davanti al cancello d´ingresso del ministero c´erano contadini venuti dalle campagne a portare le "petizioni", le proteste tradizionali contro gli abusi subìti ad opera della nomenklatura delle provincie. Vittime di espropri illegali delle terre, di concussioni, estorsioni e gabelle illegali, i contadini affluiscono a Pechino nella speranza (quasi sempre vana) di ottenere ascolto presso il governo centrale. Una donna agitava proprio il libretto rosso della Costituzione. Un´altra ha srotolato uno striscione in inglese, con la scritta "Human rights". Qualcuno aveva portato con sé le foto di parenti torturati nei laogai, i campi di detenzione e "rieducazione ideologica".
La reazione più pesante è scattata contro Liu Xiaobo, una delle menti organizzative della Carta 08. Ex docente dell´Università Normale di Pechino, 53enne, Liu fu uno dei leader del movimento democratico di Piazza Tienanmen nel 1989 e lo ha pagato con venti mesi di carcere. Ieri decine di poliziotti hanno fatto irruzione in casa sua, hanno tagliato la linea del telefono, hanno confiscato i suoi computer e tutti i suoi scritti, e lo hanno arrestato con l´accusa di sovversione. La stessa sorte è toccata a Zhang Zuhua, anche lui un ex di Piazza Tienanmen. Interrogato dai giornalisti stranieri, il portavoce del ministero degli esteri Liu Jianchao ha detto di non essere al corrente dei due arresti e si è dichiarato "scettico" su queste notizie. «La nostra Costituzione - ha aggiunto Liu - garantisce la libertà di espressione e nessun cinese verrebbe punito per l´esercizio di un diritto».

il Riformista 11.12.08
Sansonetti, ultimo round
Domenica Ferrero all'attacco
di A.D.A.


E ora dentro Rifondazione la parola «scissione» non è più un tabù. Dice Alfonso Gianni, fedelissimo di Bertinotti: «Se toccano Sansonetti ci cominciamo a salutare. Ferrero sa che questo per noi rappresenta una forzatura non priva di conseguenze».
L'ultimo atto della guerra tra Ferrero e l'area di Rifondazione che fa riferimento a Nichi Vendola si svolgerà domenica, al comitato politico nazionale di Rifondazione. Dove Ferrero ha preparato l'attacco finale a Piero Sansonetti, il direttore di Liberazione. La sua linea non gli è mai piaciuta. Ma negli ultimi giorni, per i suoi, la situazione si è fatta insostenibile. E al parlamentino di Rifondazione il leader del Prc chiederà un indirizzo del giornale conforme alla linea del partito. Spiega Ferrero al Riformista: «Il rapporto tra autonomia del giornale e obbedienza al partito non c'entra. Il punto è che Liberazione si muove su un altro progetto politico rispetto a Rifondazione. Poi in questa fase di crisi ha uno sguardo iperpoliticista e poco dentro i movimenti nella società italiana. Aggiungo che il giornale va male, non funziona come vendite. E un terzo del bilancio di Rifondazione è assorbito dalle sue perdite». È lo strappo. Lo sa Ferrero, che ha scelto di forzare la resa dei conti. Lo sanno i vendoliani che parlano di «stalinismo» di «margini inesistenti di agibilità politica». E che alla scorsa direzione del partito avevano avvertito: «Se si tocca Sansonetti si mette a rischio la sopravvivenza della nostra comunità politica». Loro sabato saranno all'Ambra Jovinelli con Claudio Fava di Sd, Grazia Francescato dei Verdi a lanciare la «Sinistra», un nuovo soggetto politico a sinistra del Pd. Ma sulla scissione - dopo la frenata di Bertinotti - avevano rimandato tutto a dopo le europee. Anche se sul territorio i gruppi unitari della «Sinistra» nella varie amministrazioni si stanno formando: Firenze, Torino, Genova, alla regione Lazio. E Fava chiarisce che sabato si fa sul serio: «Sabato nasce un partito. È il punto di partenza per costruire il soggetto di sinistra che serve in questo paese».
La partita dentro Rifondazione è appesa a un filo. O meglio a un ordine del giorno. Se sarà presentato un documento che chiede al giornale un cambio di rotta - ovvero la testa di Sansonetti - i vendoliani prepareranno i bagagli. Dice l'ex segretario Franco Giordano: «La scissione deve essere bandita ma è evidente che toccare il direttore di Liberazione mette in discussione per intero le forme del nostro stare insieme». È l'ultimo avviso. Ma l'ordine del giorno ci sarà. Parola di Claudio Grassi, il responsabile dell'organizzazione: «Il caso Liberazione va discusso, eccome. C'è una evidente sfasatura tra quello che sostiene il partito e il giornale. Noi presenteremo un documento che sarà votato. Un giornale di partito deve muoversi all'interno di una linea politica».

mercoledì 10 dicembre 2008

l’Unità 10.9.08
Lo sciopero generale della Cgil interroga il Pd: partecipare o no?
Chi partecipa e chi no. Sereni chiede una presa di posizione unitaria, per Treu invece il partito deve starne fuori. Epifani vuole più coraggio, lo sciopero sarà uno spartiacque nei rapporti con la Cgil.
di Laura Matteucci


Alla fine l’unica outsider rispetto alla propria famiglia d’origine sarà Rosy Bindi. Lei allo sciopero generale della Cgil, venerdì, ci sarà. «Davanti alle prese in giro del governo è chiaro che ci deve essere una forma di reazione forte - dice - Io ci andrò, quantomeno per ascoltare, per capire e vedere». Guglielmo Epifani chiede al Pd più coraggio, più chiarezza e un profilo identitario più netto. Il Pd si presenta all’appuntamento provato dall’ennesimo sforzo di autocontenimento. L’adesione è esclusa. Ma c’è la partecipazione, il sostegno, oppure la netta contrarietà. E l’ordine non è sparso.
Tra i partecipanti e i sostenitori Fassino, Bersani (a Bologna con Epifani), l’ex ministro Cesare Damiano, il senatore Pietro Marcenaro, il capogruppo al Senato Anna Finocchiaro. Nomi di peso, tutti ex Ds. Tra i contrari, Enrico Letta, Tiziano Treu, l’ex vicesegretario della Cisl Paolo Baretta, il coordinatore dell’area organizzativa del Pd Beppe Fioroni. Nomi di peso, tutti ex Margherita. L’eccezione è, appunto, Rosy Bindi.
La componente ex Margherita non può accettare che il partito abbia un rapporto privilegiato con la Cgil, la componente ex Ds non può accettare il contrario. Le due anime di nuovo a confronto, un altro banco di prova per Veltroni.
Ci sarà anche Achille Passoni, che da ex segretario confederale della Cgil (oggi senatore), potrebbe sembrare scontato: «Non è per nostalgia - dice lui - È che i contenuti della piattaforma del Pd sono identici a quelli della piattaforma Cgil. Se si è contrari alla forma sciopero, si può discuterne. Non accetterei invece l’idea che lo sciopero sia sbagliato nei contenuti».
Epifani prova a smorzare: «Pare ci sia un sostanziale accordo sulle ragioni, la differenza che vedo riguarda lo strumento ma non il merito». Ma è davvero solo questo?
«Lo sciopero in questo momento è sbagliato - dice Baretta - Non discuto alcuni dei motivi, ma da una grande realtà com’è la Cgil mi aspetto uno sforzo di aggregazione unitaria». Treu fa tanti auguri di buona riuscita, ma non lo ritiene utile. E, soprattutto, il Pd deve starne fuori. «Piena autonomia. Il Pd non deve prendere posizione. Abbiamo il nostro programma, valutiamo sulla base di questo».
Sulla base del programma, la partecipazione di Damiano: «Le ragioni dello sciopero si fanno sempre più fondate, che l’azione del governo di fronte alla crisi sia fragile è evidente. Come partito dobbiamo lanciare una grande proposta politico-sociale». La sintesi la fa Marina Sereni, vicecapogruppo alla Camera: «Non mi convince l’idea che alcuni partecipino e altri no. Sarebbe meglio decidere se avere o no una delegazione».

il Riformista 10.12.08
Mentre si prepara la manifestazione del 12, in Cgil si riapre il dossier successione
Dopo lo sciopero generale Epifani prepara la conta per far largo alla Camusso
Strategie. Il leader userà il direttivo del 22 sul contratto degli artigiani per misurare la maggioranza favorevole al cambio di guardia.
di Luca Monticelli


Lo sciopero generale del 12 sarà un successo: Guglielmo Epifani ne è sicuro e forte di questo si prepara a un blitz prenatalizio per capire se ha ancora una maggioranza all'interno della Cgil. Il 22 dicembre, infatti, a Corso Italia è convocato il Direttivo che ha all'ordine del giorno l'analisi sull'esito della mobilitazione, ma soprattutto l'odg chiama il sindacato a «sciogliere la riserva» sul documento che definisce le linee guida per la riforma della contrattazione del settore artigiano che Cisl, Uil e le organizzazioni imprenditoriali hanno già condiviso. Un appuntamento che, secondo qualche bene informato, servirà a Epifani a capire lo stato dei rapporti di forza dentro la Cgil dopo mesi di divisioni e a verificare, forse per l'ultima volta, se esiste una vera maggioranza che lo sostiene. Il segretario vuole vedere se "i suoi" hanno i numeri per accompagnare la sua uscita dal sindacato, con un anno di anticipo rispetto alla scadenza naturale del mandato, assecondando la nomina alla successione di Susanna Camusso.
A Epifani il colpo di mano è già riuscito una volta e ora ci riprova. Nel giugno scorso aveva azzerato la segreteria allontanando gli ex cofferatiani e stoppando le ambizioni di chi in vista del 2010 stava iniziando a farsi due conti, come Nicoletta Rocchi e Carlo Podda. Allora riuscì a far fuori Marigia Maulucci e Mauro Guzzonato (i primi a opporsi a una segreteria a sua immagine e somiglianza) e Carla Cantone, spedendola al vertice dei pensionati. Tre caselle libere che si andarono a sommare alle due lasciate scoperte da Paolo Nerozzi e Achille Passoni, eletti in Parlamento per il Pd. Questo rinnovamento forzato portò nell'esecutivo Vera Lamonica, segretaria della Cgil Calabria, Agostino Megale, presidente del centro studi Ires, Enrico Panini, capo della Scuola, Fabrizio Solari dei Trasporti e, naturalmente, la sua preferita: Susanna Camusso, al vertice della Cgil Lombardia.
Proprio la vicenda della Cantone è emblematica della tenace volontà di Epifani di farsi succedere dalla compagna socialista Camusso. La Cantone, scoperta da Sergio Cofferati, è stata la prima donna a guidare una categoria maschile come quella degli edili e la prima ad assumere l'incarico di segretario organizzativo della Cgil per volontà di Epifani, inducendo qualche osservatore, e anche la stessa Cantone, a pensare che sarebbe stata anche la prima leader rosa di Corso Italia. Ma, evidentemente, le cose sono andate in modo diverso e oggi Carla Cantone non è certo da annoverare tra i dirigenti vicini ad Epifani. Così come Carlo Podda, rimasto fuori dalla girandola delle poltrone di giugno e ora leader del Pubblico impiego. In questi mesi Podda ha logorato il leader grazie a un patto di ferro stretto con Gianni Rinaldini della Fiom, un'alleanza capace di condizionare gli orientamenti generali di Corso Italia. Lui è tra i primi a correre da segretario generale se Epifani molla nel 2009 per andare a Strasburgo con il Pd. Gli altri candidati sono Agostino Megale, veltroniano ex presidente dell'Ires, e Fulvio Fammoni, responsabile delle politiche attive del lavoro. Sono dunque in tanti dentro la Cgil a non voler recitare la parte dei comprimari mentre la Camusso viene nominata prima attrice per far contento il segretario uscente. Epifani è attanagliato dai soliti mille dubbi e al Direttivo del 22 dicembre è intenzionato a chiedere al parlamentino della Cgil di dare l'ok alla firma sulla riforma del contratto degli artigiani nonostante molte delle federazioni coinvolte sembrano orientate a dire di no. Gianni Cremaschi della Fiom conferma al Riformista che sulla materia «non c'è un grande gradimento all'interno della Cgil». «Nella Fiom - prosegue - abbiamo fatto un coordinamento che giudica molto negativa la proposta condivisa da Cisl, Uil e imprenditori. Secondo noi questo documento è peggio di quello della Confidustria, quindi se non abbiamo firmato quello non vedo perché dovremmo firmare questo».
A Corso Italia c'è chi immagina una vera e propria conta tra correnti, ma molto dipenderà dal ruolo che giocherà Susanna Camusso che, come responsabile delle politiche dei Settori produttivi, si è già esposta parlando di «avanzamenti positivi» sul contratto degli artigiani. Il Direttivo di Natale sarà soprattutto un referendum su di lei.

il Riformista 10.12.08
Dramma silenzioso Dall'inizio dell'anno ne sono stati uccisi trentacinque
Caccia agli albini
Le ultime streghe sono in Tanzania
di Raffaele Cazzola Hofman


Magia e discriminazione. Rapiti, assassinati e fatti a pezzi: i loro arti vengono usati per riti magici utili ad allontanare la fatica e la sfortuna. Non solo un fenomeno di segregazione al contrario, ma una vera e propria persecuzione. Il governo dice di voler correre ai ripari. Una campagna internazionale dell'Independent.

Un dramma silenzioso si consuma da decenni nell'Africa orientale. Si tratta della spietata persecuzione a cui sono sottoposte, in molte aree della Tanzania, le persone albine che, a causa della carenza di melanina, hanno la pelle bianca, gli occhi chiarissimi e capelli più che biondi. L'albinismo crea anzitutto gravi problemi di salute. La melanina, infatti, è il pigmento che protegge la pelle e gli occhi dai raggi solari.
In Tanzania, però, essere albini è anzitutto un dramma umano. A causa di un perverso combinato di vecchie superstizioni tribali, presenti soprattutto a nord vicino ai confini con Kenya e Uganda, gli albini vengono perseguitati e assassinati. Pur se in modo meno evidente, la «caccia agli albini» è presente anche in altri Paesi africani come la Nigeria o il Malawi. Quanto questo dramma sia purtroppo attuale è confermato dalla scelta come tema dell'annuale campagna umanitaria lanciata dall'Independent. Le luci accese su questo fenomeno tanto sconosciuto dal quotidiano britannico - che in una sconvolgente inchiesta rivela come l'unica speranza di salvezza per molti albini sia la fuga a Ukewere, una remota isola nel mezzo del Lago Vittoria, una sorta di rifugio per questi perseguitati - sono un'ulteriore motivo di riflessione.
Nell'anno in corso, fino ad ora, gli albini uccisi in Tanzania sono stati trentacinque. Nel 2007 erano stati venticinque, ma si stima che il numero dei casi registrati sia ben al di sotto di quelli realmente accaduti.
In Africa non tutto ciò che avviene, soprattutto se a fare da scenario sono aree molto remote e isolate, può essere conosciuto. E bisogna pensare che i tanzaniani nati con l'albinismo sono molto numerosi. Si calcola che siano uno ogni quattromila persone con punte di uno ogni mille in alcune tribù. Una media incredibilmente più alta rispetto a quella nel resto del mondo, dove nasce un albino ogni ventimila.
In Tanzania gli albini sono conosciuti con un appellativo da brividi, «zeru zeru», che significa «fantasmi». In altre parole, gli albini sono considerati come incarnazioni di spiriti maligni che, usciti dai corpi dei morti, tornano sulla Terra per tormentare con i loro influssi negativi la vita del nostro mondo. Ma purtroppo c'è anche altro. Infatti è emerso come quasi sempre i corpi degli albini uccisi siano stati smembrati. I loro arti, i loro capelli e il loro sangue vengono usati da stregoni o, cosa ancora più raccapricciante, da medici regolari per preparare delle "pozioni magiche" destinate a due scopi: da una parte dare sollievo ai lavoratori delle miniere alle prese con dolori reumatici; dall'altra portare fortuna e ricchezza ai poveri che in Tanzania, uno degli ultimi dieci Paesi del mondo dal punto di vista economico, non mancano. Inoltre, come documentano ancora le drammatiche testimonianze registrate dall'Independent nel rifugio di Ukewere, sono stati scoperti molti casi in cui neonati albini finiscono venduti agli stregoni. In questo modo i loro genitori hanno la possibilità sia di guadagnare soldi, sia di liberarsi dai possibili influssi negativi di cui li credono portatori.
Il governo della Tanzania ha recentemente annunciato di voler attuare nuove misure a protezione degli albini. Il presidente, Jakaya Kikwete, ha ordinato che la polizia e le autorità giudiziarie lancino delle operazioni per bloccare gli assassini e arrestare i mercanti di braccia e gambe degli albini. In effetti quest'anno sono state arrestate circa 170 persone con svariate accuse. Ma poi è calato il silenzio. E alla fine, secondo un giornalista del Daily Mail che ha indagato sulla vicenda, nessuno dei fermati sarebbe stato rinviato a giudizio.
In questo contesto si spiega il pressing sul governo di Dar es Salaam da parte di numerose campagne per i diritti umani avviate sia all'estero che in Tanzania. Qui operano soprattutto due organizzazioni: la National Organization of Albinism and Hypopigmentation e la Tanzania Albino Society. Lo stesso presidente Kikwete ha inoltre lanciato un segnale politico nominando d'ufficio un'attivista albina, la signora Al-Shymaa Kway-Geer, a membro del Parlamento. Il racconto della sua infanzia, fatto in aprile dopo la notizia della nomina, è più eloquente di qualsiasi commento. «Nella scuola primaria i compagni mi deridevano ed evitavano di toccarmi dicendo che, se lo avessero fatto, sarebbero diventati anche loro bianchi. Una volte cresciuta, venivo maltrattata dalla gente in strada che mi picchiava gridandomi: "zeru zeru"».

l’Unità Roma 10.9.08
Il corteo indetto per la visita di Brunetta che però diserta l’evento
Gli studenti: «Fanno i tagli e poi spendono milioni per il Vaticano»
L’Onda travolge Tor Vergata e «spiega» ai prof la corruzione
di Paola Natalicchio


L’imponente sbarramento di polizia è stato superato grazie al fatto che tutti avevano il libretto universitario che dà diritto all’accesso. «I tagli del governo ledono il nostro diritto allo studio».

Era atteso ieri mattina a Giurisprudenza, a un convegno sul tema della corruzione. Alla fine, però, Renato Brunetta ha preferito passare la giornata altrove. Eppure ad aspettarlo c’era il pubblico delle grandi occasioni. Un centinaio di studenti dell’Assemblea di Tor Vergata, in occupazione dal 24 ottobre, aveva infatti riservato al ministro della Funzione Pubblica - tra gli artefici dei contestatissimi tagli all’Università - una caldissima accoglienza. Prima un volantinaggio interno alla facoltà di Scienze, tappezzata da giorni con volantini e striscioni: lezioni di chimica, matematica, ingegneria e biologia interrotte al coro di «Brunetta pagaci la retta». Poi un corteo fino all’aula magna di Giurisprudenza, aperto da uno striscione di solidarietà dedicato ad Andreas, il ragazzo ucciso dalla polizia ad Atene. Massiccia la presenza delle forze dell’ordine, che inizialmente hanno sbarrato l’ingresso nel palazzo dove era atteso l’arrivo del ministro. «Abbiamo tutti il libretto universitario in tasca», hanno protestato gli studenti. E a quel punto l’Onda ha pacificamente sforato gli argini ed ha travolto il convegno, conquistando il palco, sotto lo sguardo rassegnato dei relatori, che in gran parte sono passati in platea.
IL BLITZ NEL CONVEGNO
«Brunetta fa parte di un Governo che sulla corruzione non ha niente da insegnare», ha spiegato Edoardo,23 anni. «Cosa pensano gli organizzatori del convegno dei tagli all’università promossi dalla sua maggioranza?», ha infierito Valentina, 21 anni. «Sono al terzo anno di ingegneria, ho gli esami in regola, ma guadagno 500 euro al mese, da cui pago anche l’affitto. Con l’aumento delle tasse, dovrò abbandonare gli studi?», ha chiesto Ivan, 22 anni. E via così, per oltre un’ora, con un vivace botta e risposta tra studenti, professori e pubblico in platea. «Avevamo invitato Brunetta solo perchè il dipartimento sulla corruzione fa parte del suo Ministero», si è giustificato Luciano Hinna, economista e, prima del blitz, moderatore del convegno. «Sulla corruzione tutta la classe accademica dovrebbe fare autocritica», ha replicato Mario, 29 anni, dottorando di ricerca in Fisica. Spazio anche alla polemica interna contro il Cda dell’università. «In piena crisi economica dell’ateneo e con i tagli in arrivo, finanzierà con oltre 3 milioni di euro un monumento alla memoria bimillenaria cristiana», ha tuonato Andrea, portavoce dell’Assemblea. All’uscita, in mancanza dell’obiettivo principale, l’Onda ha travolto qualche minuto Carlo Taormina, che a Giurisprudenza insegna Procedura Penale, che passava da quelle parti. Per infrangersi, infine, nel vicino centro commerciale, tra commessi increduli e addobbi natalizi.

Repubblica 9.10.08
Gli scienziati di "Nature" la sdoganano: legittimo usarla
La pillola per il cervello che rende più intelligenti
di Elena Dusi


La rivista Nature sdogana l´impiego di farmaci psichiatrici per potenziare le prestazioni cerebrali Prescritti per demenze e narcolessia, oggi sono usati illegalmente da migliaia di studenti americani
"Prendete le pillole dell´intelligenza" gli scienziati rompono il tabù

Se esistessero pillole in grado di rafforzare la memoria, migliorare la concentrazione e ridurre il bisogno di sonno, perché non usarle? Se queste pasticche permettessero agli studenti di bruciare le tappe con gli esami, ai loro professori di pubblicare più articoli scientifici, ai chirurghi di aumentare il numero di interventi quotidiani e ai lavoratori notturni di evitare pericolosi colpi di sonno, perché porsi dubbi etici sul loro uso?
La domanda non è oziosa, dal momento che queste pillole esistono. Sono nate per trattare alcune malattie psichiatriche, ma si sono diffuse un po´ ovunque nella società, in particolare all´interno delle università. Il Narcotic control board delle Nazioni Unite ha registrato un aumento del 300 per cento nell´uso di farmaci stimolanti negli Stati Uniti tra il 1995 e il 2006. E un sondaggio condotto dalla rivista scientifica inglese Nature ha mostrato che il 7 per cento degli studenti americani (con picchi del 25 per cento in alcuni campus particolarmente competitivi) ha fatto uso di una o più di queste medicine, procurandosele spesso via internet. Per evitare che il "doping della mente" alterasse i risultati degli esami di fine anno, a maggio l'Academy of medical sciences di Londra aveva perfino suggerito di estendere anche agli studenti l´esame delle urine usato per gli atleti.
«Ma il miglioramento di una prestazione sportiva non ha nessun effetto sul benessere del mondo. Il miglioramento delle prestazioni intellettuali invece sì». Per questo tutti dovrebbero usare le pillole dell´intelligenza, sostiene Nature in un editoriale che mette i piedi sul tavolo. A firmare l´articolo diviso in sette capitoli (equivalenti ad altrettante buone ragioni per cui sarebbe giusto ricorrere al doping del cervello) sono sette autorevoli neuroscienziati di università americane e britanniche, che dopo aver messo in guardia contro eventuali effetti collaterali di lungo termine, ingiustizie sociali dovute al costo dei farmaci o pressioni dei genitori per migliorare le prestazioni scolastiche dei figli, sposano con convinzione la causa delle "pillole dell´intelligenza". «Come tutte le tecnologie, anche i farmaci per il miglioramento delle performance intellettuali possono essere usate in modo positivo o negativo. Ma dovremmo essere contenti di avere nuovi metodi per rendere più efficiente il funzionamento del nostro cervello» scrivono gli statunitensi Henry Greely, Ronald Kessler, Michael Gazzaniga, Martha Jarah e Philip Campbell (direttore di Nature) e gli inglesi Barbara Sahakian e John Harris.
Le pillole che promettono voti più alti agli esami sono degli stimolanti analoghi alle anfetamine usate per il disturbo da deficit dell´attenzione e iperattività (Ritalin e Adderall), capaci di accrescere le capacità di concentrazione. Poi ci sono un farmaco che combatte la sonnolenza usato nei pazienti che soffrono di narcolessia (Provigil) e un preparato contro l´Alzheimer e altri tipi di demenza (Aricept) che aumenta nel cervello i livelli di acetilcolina, un neurotrasmettitore importante per la trasmissione degli impulsi nervosi. Figurano anche vari tipi di beta-bloccanti che sono usati normalmente per combattere le aritmie cardiache, ma consentono agli studenti di arrivare più tranquilli al momento dell´esame.
Usare queste pasticche al di fuori delle prescrizioni mediche, negli Stati Uniti è un crimine punibile con la prigione. Ma come per il doping sportivo, le restrizioni legali non sembrano capaci di cancellare l´abitudine. «E allora, rendiamoci conto che è meglio accettare i benefici di questi prodotti studiandone meglio gli eventuali effetti collaterali e prendendo le giuste misure contro gli abusi» suggeriscono i sette esperti di Nature. Ricordando che già oggi «i soldati americani ricevono anfetamine e Provigil e che negli Stati Uniti i militari hanno l´obbligo di assumere farmaci per migliorare le loro performance, se ricevono l´ordine di un superiore». Quanto all´ingiustizia di dover affrontare un esame o un concorso in cui il compagno di banco ha fatto ricorso all´aiuto della chimica, esiste una soluzione democratica, suggerita dall´editoriale: applicare un prezzo speciale per l´occasione e dare per un giorno a ogni candidato, anche il più povero, libero accesso alle pillole dell´intelligenza.

Repubblica 9.10.08
Silvio Garattini, direttore dell'Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano
"Non servono, meglio contare solo su se stessi"


ROMA. Poiché nessuno è mai riuscito a definire l´intelligenza, è difficile creare delle pillole che migliorino questa sfuggente prerogativa. Silvio Garattini, direttore dell´Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano, non crede ai benefici del "doping della mente".
Ma queste pillole sono usate da anni per alcune malattie psichiatriche.
«Il consenso sui risultati è tutt´altro che unanime. Per esempio i medicinali contro l´Alzheimer sembrano essere attivi solo in una piccola parte dei pazienti».
Le medicine contro la narcolessia fanno restare svegli. Su questo ci sono pochi dubbi.
«E da quando restare svegli fa aumentare l´intelligenza? Il sonno ha una funzione fisiologica essenziale. Cancellarlo non può certo fare bene».
Quindi sarebbero tutti prodotti inutili?
«Se esistono pillole che migliorano la memoria, lo fanno in maniera marginale. Può darsi che chi le prende sia in grado di ricordare qualche numero in più. Ma l´intelligenza è un´altra cosa».
Decenni fa l´uso delle anfetamine fra gli studenti era abbastanza comune.
«È vero, perché ancora non sapevamo quanto fossero dannose. Queste sostanze sul momento allontanano la fatica, ma in seconda battuta provocano una fase di depressione pericolosa, se capita al momento dell´esame».
Quindi lei non prenderebbe nulla del genere?
«Se ne avessi bisogno per colpa di una malattia. Ma le persone sane non hanno bisogno di ricorrere ai farmaci. Meglio affidarsi alle proprie risorse».
(e. d.)

Repubblica 9.10.08
"Tutto il paese è con noi. Karamanlis non ci fermerà"
Il capo dei sindacati: mobilitazione confermata
di Cristina Nadotti


Il primo ministro Costas Karamanlis ha chiesto ai sindacati di cancellare lo sciopero generale di 24 ore e la manifestazione prevista per oggi, per «non fornire altre occasioni ad atti di violenza», ma le confederazioni dei lavoratori hanno rifiutato e saranno in piazza Costituzione questa mattina ad Atene. A spiegare perché è Costas Issichos, vice presidente della Athens Labour Trade Union e principale negoziatore al tavolo della trattativa per la crisi della compagnia aerea di bandiera Olympic Airways.
Perché non avete rimandato lo sciopero?
«Lo sciopero era stato proclamato da mesi e i lavoratori non sono responsabili di quanto sta accadendo nelle nostre città. Oggi la nostra protesta sarà arricchita da migliaia di giovani delle scuole e delle università, per condannare insieme quanto è successo negli ultimi giorni. Il nostro sciopero sarà pacifico ma allo stesso tempo sarà un duro atto di accusa contro il governo e le sue politiche economiche, colpevoli di aver danneggiato giovani, lavoratori, precari e immigrati».
Avete paura di altri atti di violenza?
«Purtroppo c´è la possibilità di provocazioni, ma abbiamo preso ogni precauzione perché sia una grande manifestazione pacifica. In questi giorni ci sono stati tanti cittadini che hanno subìto danni, noi siamo con loro e non vogliamo che cose del genere accadano ancora. L´incapacità dell´esecutivo di affrontare le vere ragioni del malcontento è palese: abbiamo sentito tante parole di condanna, ma non un accenno è stato fatto su come prevenire la violenza. La società greca vive un momento di grande crisi e le confederazioni sindacali vogliono ribadire la loro unità per ottenere la salvaguardia del posto di lavoro, l´istruzione per tutti e la tutela dei diritti dei lavoratori».
Qual è la vostra posizione sull´operato della polizia in questi giorni?
«All´interno della polizia negli ultimi anni si sono rafforzate le componenti fasciste e sono ormai fuori controllo. Lo abbiamo visto anche ieri, sono stati aggrediti professori e studenti che manifestavano in modo pacifico. Soprattutto le unità anti-terrorismo cercano sempre lo scontro fisico, fanno di tutto per provocare i manifestanti perché non sono più al servizio dei cittadini, ma contro di loro».
Teme un ritorno del regime?
«Spero che la coscienza democratica del Paese sia in grado di contrastare le tendenze di una buona parte della società greca, una società che diventa sempre più omofoba e xenofoba e sempre meno disposta al dialogo a causa della paura del futuro che la attanaglia. È la filosofia di vita derivata dalla politica economica neoliberista: ci si concentra solo sulle necessità individuale, non c´è alcuna solidarietà sociale».
Si sta occupando della crisi di Olympic Airways. Vede analogie con la situazione italiana?
«La crisi del settore aereo è generale ed è un problema europeo. Finiremo per avere due soli grandi gruppi che controllano tutto il traffico e questo significherà meno servizi pubblici e soprattutto meno sicurezza. Per questo dico agli italiani: viviamo nello stesso continente, sotto attacco di politiche che definirei inumane. Dobbiamo lavorare insieme per assicurare un futuro migliore all´Europa».

Corriere della Sera 10.12.08
Le accuse del Kke
I comunisti: «Le violenze? Opera dei servizi segreti»
di V.Ma.


I disordini in Grecia non sarebbero spontanei, ma «organizzati e coordinati», dice Aleka Papariga, «dai corpi segreti dello Stato». La leader del Partito comunista greco (il Kke, 22 seggi in Parlamento) ha parlato lunedì ad un corteo nel centro di Atene. Anche Syriza (Coalizione della sinistra radicale, 14 seggi, rivale del Kke) teneva un corteo, separato. Entrambi dovevano essere pacifici, ma il centro di Atene è stato messo a ferro e fuoco da giovani incappucciati. E ora i due partiti d'opposizione si dividono nel giudizio sugli scontri. «I continui scontri che si svolgono parallelamente alle enormi mobilitazioni di protesta hanno poco a che fare con l'espressione spontanea di rabbia», ha detto Papariga. «Sono provocazioni aperte e saranno usati come scusa per aumentare le misure repressive». Mentre Syriza, pur condannando le violenze, parla di «rivoluzione spontanea» della gioventù, Papariga accusa forze «invisibili» di usare i giovani radicali per spaccare il movimento operaio. Il Kke, anticapitalista e antieuropeista, è la roccaforte del verbo marxista-leninista. «È da sempre molto dogmatico — spiega Nikos Konstandaras, direttore del quotidiano
Kathimerini —. Crede da sempre che l'estrema sinistra e gli anarchici siano strumenti del sistema per rovinare la loro immagine». Ma dietro le sue parole c'è anche un attacco ai rivali di Syriza: «Li sta accusando di assecondare le violenze». I socialisti e Syriza hanno chiesto il voto anticipato. I comunisti no. «Temono che i disordini portino la gente a votare conservatore o per l'estrema sinistra».

Repubblica 10.12.08
Un miliardo di affamati nel mondo
Rapporto shock della Fao: 40 milioni in più del 2007, colpa della crisi economica
di Giampaolo Cadalanu


L´aumento dei prezzi ha ridotto la quantità del cibo a disposizione dei Paesi più poveri

ROMA - Mancano solo sei anni, poi finalmente l´ipocrisia sarà svelata: gli Obiettivi del Millennio, la formula-slogan con cui i potenti della terra avevano preso l´impegno di dimezzare la fame nel mondo, non saranno realizzati. Il nuovo rapporto 2008 sulla "insicurezza alimentare" presentato ieri dalla Fao è ormai più un grido di dolore che un allarme. Invece che diminuire, la quota complessiva degli esseri umani sottonutriti aumenta: ora sfiora il miliardo. Il conteggio si ferma a 963 milioni, quasi che la cifra tonda sia un´oscenità insostenibile. Ma anche questo gradino sarà superato presto: l´ultimo salto, pari a 40 milioni di persone, è stato registrato nel solo 2008. Due anni fa erano 115 milioni in meno, nel 1996 erano 832 milioni.
Per salvare gli affamati servono 30 miliardi di dollari l´anno, poca cosa in confronto alle spese per armamenti, o alle somme stanziate per la crisi economica, ribadisce per l´ennesima volta Jacques Diouf, direttore dell´agenzia Onu. Il tema è ben noto, ma stavolta non è un ritornello stantìo. C´è una nota nuova, l´unica, ma significativa. Nel 2009 l´Occidente, e dunque il mondo intero, sarà diverso. Yes, we can: deve valere anche per gli altri, chiede Diouf. Deve allargarsi al pianeta intero la speranza di cambiamento suscitata negli Stati Uniti dall´avvento del primo presidente nero. «Ho chiesto ad Obama di farsi promotore di un´iniziativa per un summit che abbia come obiettivo sradicare la povertà dal pianeta», annuncia il direttore della Fao. Insomma, «possiamo farcela».
L´alternativa è già nel panorama struggente descritto da Jacques Diouf. Il 65 per cento degli affamati vive in soli sette paesi, dice il responsabile dell´agenzia. Nell´Africa subshariana una persona su tre è cronicamente affamata e nei mesi scorsi rivolte per il cibo sono scoppiate in 25 paesi. L´escalation delle emergenze è in parte legata all´andamento perverso dei mercati: quando le quotazioni degli alimentari sono alte, i consumatori più poveri non possono permettersi la spesa. Se invece i prezzi si abbassano, allora sono i contadini poveri a non poter sopravvivere, anche perché le sementi restano care. E con i prezzi alti, i paesi in via di sviluppo non sono stati nemmeno in grado di aumentare la produzione.
Di fronte al disastro, non è più tabù mettere in discussione il modello di sviluppo e contestare il feticcio dell´agricoltura intensiva per l´esportazione. «È urgente aiutare lo sviluppo dell´agricoltura nel Sud del mondo: basterebbe meno di un decimo dei sussidi agricoli ai paesi dell´Ocse», sintetizza Marco De Ponte di Action Aid. Ma oltre ad accogliere i richiami degli esperti e restituire dignità ai piccoli produttori, bisogna intervenire subito dove i meccanismi del mercato stanno stritolando i più deboli: la popolazione di paesi "difficili" come la Corea del nord, lo Zimbabwe, il Congo. Oppure le fasce più basse di altre società: i poveri di città e campagna, i braccianti senza terra, le donne sole con bambini.
È vero che i meccanismi di controllo delle emergenze, con gli interventi del World Food Programme, riescono in genere a togliere dai telegiornali le immagini dei bambini scheletrici coperti di mosche, con la pancia piena d´aria. Ma c´è un´altra fame, che mina le esistenze e sgretola la capacità produttiva, più insidiosa perché meno visibile. Non è quella che uccide in pochi mesi, è quella che nega agli esseri umani un apporto calorico adeguato e dunque schiavizza i pensieri, indebolisce il sistema immunitario, impedisce il lavoro. È quella che nega anche le speranze. E allora? Allora, ripete ancora una volta Jacques Diouf, serve la solidarietà internazionale. «Non ci stanchiamo di pregare, non ci scoraggiamo. È tutta questione di priorità politica».

Repubblica 10.12.08
Dove nascono i nazisti
Il celebre romanzo di Hans Fallada sulle radici della tragedia tedesca
Gente comune prima dell´abisso
di Ralf Dahrendorf


Scritto tra il 1931 e il 1932, "E adesso pover'uomo?" racconta la genesi del dramma, cogliendone i segnali premonitori. Fu un bestseller
L´autore scioglie un enigma intorno a cui s´arrovellano Heinrich Böll e Günter Grass
Il segreto è in quel tratto unificante che identifica "das Volk"

In Germania entrambe le guerre mondiali hanno dato luogo a una notevolissima attività letteraria, i cui esiti - i romanzi in modo particolare - sono tuttavia diversi come diversi furono i due conflitti. Dopo la seconda guerra mondiale il tema dominante era: «Come è potuto accadere?». L´Olocausto era sempre sullo sfondo dei romanzi di Heinrich Böll, Günter Grass, Uwe Johnson, Sigfried Lenz ed altri ancora. I raduni degli scrittori del Gruppo 47 in giro per il paese costituivano una sorta di centro itinerante della cultura tedesca, dove si incoraggiava uno stile letterario che mettesse insieme la descrizione dettagliata e l´immaginazione storica. Grass, probabilmente il maggiore scrittore del gruppo, ha descritto quel momento in L´incontro di Telgte.
Dopo la prima guerra mondiale la scena era molto più confusa. Alcuni dei protagonisti della fase neoclassica erano ancora attivi, sebbene scossi da quanto era accaduto. Il contrasto tra la parte pre-bellica e quella post-bellica della Montagna incantata di Thomas Mann è alquanto indicativo. La guerra provocò idealizzazione estetica a Destra (Ernst Jünger) e indignazione morale a Sinistra (Erich Maria Remarque). Ma con la breve e drammatica vicenda della Repubblica di Weimar (1919-1933) un altro tema diverrà dominante. Philip Brady, nella sua profonda introduzione a E adesso pover´uomo? di Hans Fallada, ricorda la Nuova Oggettività (Neue Sachlichkeit), quella forma di neorealismo che regolò i conti con l´emotività senza limiti dell´Espressionismo tanto nelle arti figurative che in letteratura, e che era «contrassegnata dalla sobrietà del gesto, dal linguaggio contenuto, dal mettere in primo piano il fatto e l´autenticità, dal culto del reportage».
Hans Fallada (pseudonimo di Rudolf Ditzen) aveva ventisei anni nel 1919, allorché l´assemblea costituente di Weimar portava a termine le sue deliberazioni. Nato in una tipica famiglia borghese tedesca, figlio di un alto funzionario statale (un magistrato), condivideva con altri intellettuali dell´epoca una vulnerabile inquietudine che nel suo caso sarebbe sfociata nella cocaina e nei tentativi di suicidio, nella delinquenza e in temporanei internamenti, e altresì in alcuni libri di una certa importanza, tutti pervasi da una curiosa miscela di motivi. Fallada ebbe a scrivere di Erich Kästner: «Consegna ai suoi lettori un segmento del loro universo quotidiano: preciso, sobrio, senza illusioni. O forse un´illusione c´è: infanzia, madre, cresima, alberi. E infine un monito: se stai male, non far stare male pure gli altri. Ognuno deve fare quello che può». Reportage e insieme una cauta speranza di ordine morale, leggermente romantica: il neorealismo non fu mai solo realismo, né per Kästner, né per Fallada, né per Alfred Döblin, Lion Feuchtwanger, Heinrich Mann.
Questi scrittori non formarono il loro Gruppo 47: bastava loro Berlino, quel «simbolo degli anni Venti, dello scambio di idee e del dibattito letterario» (come la descrisse poi Walter Jens). Berlino negli anni Venti possedeva una «forza magnetica» perché, quantomeno per gli scrittori, esemplificava quella sfuggente «realtà» da loro ricercata e al contempo promossa, la Groástadtromantik («romanticismo metropolitano») - più sentimentalismo che romanticismo - che ne divenne indispensabile ingrediente. Il ventitreenne Johannes Pinneberg, fragile eroe di questo bestseller del 1932, inizia la sua carriera in Pomerania, ma il nucleo della sua vicenda ha luogo a Berlino, nei grandi magazzini dove, in qualità di commesso, dal senso di sicurezza e dal successo iniziali scivolerà nel pantano della crisi economica, vivrà l´atmosfera di invidia e di «ansia da status» tra colleghi di lavoro, la disonestà dei padroncini e l´arbitrio dei grandi padroni. E finirà daccapo in provincia, a pochi chilometri dalla città ma di fatto senza opportunità né speranze.
Questa però è soltanto metà della storia, quella triste (o quella realistica?). L´altra metà è Lämmchen, la proletaria che Pinneberg ha la fortuna di incontrare, e poi il loro bambino, il «piccolo». In qualche modo Lämmchen rappresenta l´illusione: infanzia, madre, alberi (ma niente cresima). Lei non si arrende mai. Rimane un mistero da dove prenda la forza per affrontare la povertà, le tentazioni criminali, la mancanza di qualsiasi prospettiva. Forse è proprio la sua visione terra-terra di un mondo alquanto orribile, nel quale piccoli uomini e piccole donne hanno ben poco in cui sperare, a spingerla verso l´amore, la lealtà e l´onestà. Alla fine, quando Pinneberg è messo male davvero, non solo povero ma anche umiliato e scoraggiato, Lämmchen e Johannes sprofondano l´uno nelle amorose braccia dell´altra mentre il piccolo grida felice «pepp-pepp». Nuova Oggettività?
Fallada racconta una bella storia, e la racconta bene. Non sorprende perciò l´immediato successo nel 1932 e le numerose traduzioni in lingue straniere fra cui - ma solo in versione ridotta - l´inglese. Il romanzo risulta avvincente per la combinazione di turbolenze storiche, misere condizioni di vita e intensi rapporti umani, il che è già una buona ragione per ripubblicarlo. Ma la ragione principale è di altro ordine. Intorno all´enigma del Sonderweg («eccezionale percorso storico») della Germania si sono arrovellati non soltanto Böll, Grass e il Gruppo 47, ma anche un´intera generazione di storici tedeschi attivi dopo il 1945. La soluzione dell´enigma dipende quantomeno in parte dalla visione che si ha della Germania prima dell´Olocausto, prima dell´apogeo hitleriano delle Olimpiadi del 1936, prima della presa del potere da parte dei nazisti nel 1933. E qui i neorealisti, e Fallada in particolare, hanno parecchie cose da dire.
Johannes Pinneberg è in larga misura un apolitico, ma certo non voterebbe mai per i centristi cattolici, né sosterrebbe i nazional-liberali di Stresemann. Quando è particolarmente arrabbiato con i suoi datori di lavoro prende in considerazione l´idea di iscriversi al Partito Comunista. Lämmchen condivide in un primo momento queste tendenze, ma dopo la nascita del piccolo lascia perdere l´attivismo anche per paura della violenza tanto diffusa a Berlino durante l´ultima fase di Weimar. Al negozio di abbigliamento presso cui lavora Pinneberg viene accusato di aver scribacchiato degli slogan di marca nazista, ivi inclusi attacchi al principale ebreo, sui muri del gabinetto degli uomini. Intorno a lui si muovono personaggi di ogni sorta: nazisti e nudisti, socialdemocratici catacombali e codardi veri e propri. Il suo primo datore di lavoro, in Pomerania, è un certo Kleinholz, riluttante a licenziare un impiegato buonannulla che milita nelle fila naziste, perché non si sa mai (ricordiamo che il libro fu scritto tra il 1931 e il 1932, prima dunque del fatidico 30 gennaio 1933: ma i segnali premonitori erano chiari). (...)
Fallada - così come Döblin e Mann, come Kracauer e Geiger - si sforza di comprendere gli eventi in termini di classe: nel suo caso ne risulta una panoramica sociale dai tratti alquanto standardizzati. (...) Ne restano sostanzialmente esclusi i contadini, i lavoratori autonomi e le altre categorie che avrebbero complicato l´affresco sociale. Che in ogni caso è già abbastanza complicato così com´è, perché da dove esattamente vengono fuori i nazisti? Non sono proprio come tutti gli altri? Qui occorre esaminare più da vicino il concetto del «pover´uomo» del titolo, letteralmente il «piccolo uomo», che non è semplicemente «piccolo» a paragone dei pezzi grossi. Le parole tedesche kleiner Mann presentano le sfumature di significato più differenti. Si riferiscono anche ai bambini, ai «piccoli» per antonomasia, e la domanda «e adesso?» del titolo potrebbe benissimo riguardare la prole dei Pinneberg. Ma nel linguaggio quotidiano, «piccolo uomo» significa soprattutto la gente comune, l´uomo della strada. Questo non comprende tutti, ovviamente, ma comprende la grande maggioranza, e per certi aspetti «siamo tutti piccoli uomini», pover´uomini. Il Leitmotiv della storia tedesca non è la classe e il conflitto di classe, bensì quel comune denominatore che identifica das Volk, il popolo. Qua e là il reportage di Fallada tradisce questo «segreto» della società tedesca.

Repubblica 10.12.08
Un saggio di Massimo Teodori e un'antologia curata da Michele Ciliberto
Il declino dei laici dal dopoguerra in poi
di Nello Ajello


Sugli integralismi confessionali è uscito anche "Contro l´aldilà" di Franco Crespi

Dove sono, nella politica e nella società italiana, i liberali, quelli veri, cioè in pari tempo antifascisti e anticomunisti? Che ne è di loro? Chi ha congiurato per ridurli al silenzio? Ecco le domande che circolano nel volume di Massimo Teodori, Storia dei laici (Marsilio, pagg. 364, euro 19,50). Il lettore vi troverà il racconto di un´assenza, la diagnosi d´un disinganno. La parabola attraversata da quella corrente di pensiero che animò tante figure di alto rilievo, è nota per sommi capi a chiunque abbia in mente i capitoli salienti della recente vicenda italiana. Ora Teodori li percorre, quei capitoli, in pagine così ricche di eventi, date e personaggi da offrire sul tema un promemoria ragionato.
Le avventure che ha incontrato la cultura laica nel nostro Paese coinvolgono, a volerle storicamente inseguire, tutto un mondo che risale indietro nei secoli offrendo insegnamenti sempre attuali. In un gioco di progeniture e di rimandi ideali verranno così alla luce i più disparati saperi e valori, volta per volta difesi o contestati: dalla religione al diritto, dalla vita associata alla tutela dell´individuo. E´ appena apparso, per fare un esempio, in edizione Laterza e a cura di Michele Ciliberto, un volume intitolato Biblioteca laica, con un sottotitolo esplicativo, Il pensiero libero dell´Italia moderna. Vi si raccolgono, in una stimolante antologia tematica, testi che vanno dal Rinascimento agli albori dell´Unità: da Leon Battista Alberti (per citare solo alcuni degli autori), attraverso Machiavelli e Guicciardini, fino a Manzoni, Cavour e Cattaneo. Una lettura prelibata e, a tratti, di sorprendente freschezza. In un teso dissenso dai nuovi e vecchi integralismi confessionali appare schierato un altro saggio anch´esso recentissimo, Contro l´aldilà, di Franco Crespi (Il Mulino.)
Diversa, per tono e intenzione, è ovviamente la ricerca di Teodori, avendo egli scelto come suo sfondo iniziale i decenni politici che vanno dal primo Novecento alla caduta del fascismo. Già con l´introduzione, nel 1919, del sistema proporzionale, che impone sulla scena i movimenti cattolico e socialista, appare incrinata la supremazia di quella classe dirigente elitaria che, fatta l´Italia, sembrava indefinitamente destinata a governarla. Poi il regime littorio, con la sua demagogia intollerante, sposterà la società italiana in una dimensione di massa impraticabile dagli esponenti dell´universo liberale. Molte personalità istituzionali sono costrette al ritiro. Altre, da Matteotti ad Amendola, da Gobetti a Carlo Rosselli, pagheranno con la vita la fedeltà agli ideali.
L´antifascismo non totalitario ha così perso i propri leader più ispirati, e già si prepara ad essere incluso in quella categoria dell´«Italia di minoranza» che gli procurerà i mesti elogi di Giovanni Spadolini.
Mascherato, sotto il regime fascista, dalla supremazia culturale del crocianesimo fra le menti libere e poi dall´interesse rivolto dal filosofo al formarsi dei nuclei antifascisti nati, spesso in suo nome, sulla propria sinistra, il declino liberale diventerà esplicito fin dai primi confronti elettorali del dopoguerra, aggravandosi ancora negli anni della Guerra Fredda. Nato appunto da una costola di Croce, il partito d´Azione se ne differenzia ora su un punto decisivo: la continuità del nuovo assetto politico con l´Italia prefascista. Questo disconoscimento di paternità, da una parte, e dall´altra le critiche mosse dal pensatore abruzzese alla fumosità ideologica di quel nobile partito di intellettuali che s´è forgiato nella lotta armata, creano una delle tante dicotomie destinate a sfoltire le file liberaldemocratiche. Fra i notabili «vecchio stile» e i borghesi rivoluzionari del nuovo partito si leva una barriera. E´ solo la scarsa rispondenza popolare il dato che accomuna le due parti. Al suicidio del partito d´Azione fa riscontro il tenue richiamo esercitato da quello liberale in un mondo dominato da un drastico manicheismo: i comunisti all´assalto e i democristiani al contrattacco, con il supporto di una borghesia più interessata alla conservazione che ai destini della Fede. Quando, alle elezioni del 1946, i liberali si presentano sotto l´insegna di un´Unione democratica nazionale, è facile appiopparle la sigla «ONB», in ricordo dell´Opera nazionale balilla, utilizzando le iniziali di Orlando, Nitti e Bonomi con un derisorio richiamo alla loro grave età.
Al polo opposto dello schieramento c´è quel «partito nuovo», al quale Togliatti imprime una strategia di movimento. Il frontismo, che il Pci capeggia nel 1948 - «annus horribilis», lo definisce l´autore - indossa «una rassicurante maschera semiborghese» e cerca di «confondersi tra la folla», come denunzia già da tempo, sul Risorgimento liberale quel Mario Pannunzio che nessuno potrà accusare di maccartismo. Con l´avanzare della prima Repubblica, le tecniche del Pci nel fare incetta di intellettuali diventano più raffinate, sulle ali di uno slogan capzioso ed efficace: «i veri liberali siamo noi».
Sono proprio i laici, o ciò che ne resta, le vittime principali di una simile tattica. «Siamo certamente in una penosa situazione», chioserà Croce. «Da una parte i preti, "ingorda e crudele canaglia", come li chiama Ariosto, e dall´altra i comunisti che, oltre ad essere comunisti e russi, sono sempre pronti a negoziare e accordarsi con i loro avversari ai danni della libertà d´Italia». Ma anche le masse cattoliche subiscono, da sinistra, una vivace offensiva concorrenziale, alla quale tuttavia essi trovano nel proprio integralismo la forza per reagire; mentre le avance del Pci nella sfera religiosa si racchiudono in una quartina a firma di Mino Maccari: «L´articolo sette - Togliatti ce lo dette, - disse al marito la moglie, - e guai a chi ce lo toglie».
I liberali passano intanto da una scissione all´altra, e il campo anticomunista è sempre più lacerato: l´anticomunismo fascistoide, o confessionale - strumentalizzato e insieme arginato da De Gasperi al vertice della Dc vittoriosa - finisce per avere la meglio su quello, assai meno orecchiabile, praticato dalla sinistra liberaldemocratica, lamalfiana e terzaforzista, della quale nel libro si sottolinea la nobiltà nella sconfitta.
La parte celebrativa del volume si nutre di medaglioni biografici più o meno corposi, intestati a Mario Pannunzio e Gaetano Salvemini, Ernesto Rossi e Vittorio De Caprariis, Adriano Olivetti, Nicola Matteucci, Altiero Spinelli; fino ai radicali di varia specie e perciò a Marco Pannella i cui rilevanti meriti storici in materia laica sembrano talvolta appannarsi di fronte a quella religione di sé che al laicismo poco somiglia. Con il dovuto rispetto ci si sofferma su una casistica politico-culturale che va dal Mondo all´Espresso, da Nord e Sud al Mulino e a Comunità, dall´Associazione per la Libertà della Cultura di Ignazio Silone a Tempo presente di Nicola Chiaromonte. Istituzioni, queste ultime, a proposito delle quali l´autore s´impegna a contestare quei supposti legami con l´Intelligence americana che, anche se provati, non scandalizzerebbero ormai nessuno o quasi. Ciò che conta è, comunque, l´assunto centrale di quest´opera, eloquente elegia su un mondo scomparso o frantumato.

Corriere della sera 10.12.08
Dissidenza Il regime costretto all'autocritica sul giornale ufficiale: pratica sbagliata
Cina, una clinica psichiatrica per chi scrive le petizioni
La denuncia di «Beijing News», imbarazzo a Pechino
di Marco Del Corona


Tra gli internati c'è chi ha presentato richieste, lamentele, denunce di espropri e torti agli uffici pubblici

PECHINO — «Perseguitare chi presenta una petizione non è un modo di governare né di rispondere alle sue lamentele». Un anonimo commentatore ha scandito su China Daily un giudizio lapidario su una vicenda che ha evidentemente molto imbarazzato Pechino. Lunedì, un ampio reportage del quotidiano Beijing News aveva raccontato l'esistenza di (almeno) una clinica psichiatrica dove vengono rinchiusi i postulanti che si rivolgono agli uffici pubblici per depositare richieste, rivendicazioni, invocazioni di aiuto, denunce di espropri e torti. Ieri la reazione del regime, con quella che pare una condanna senza appello dell'uso dei manicomi.
Il China Daily, il quotidiano con cui la Cina comunica al mondo quanto reputa importante, ieri indicava anche che è stata avviata un'inchiesta nello Shandong, la regione costiera dove ha sede l'ospedale in causa. Tutto nasce da un esercizio di giornalismo acre e abbastanza inusuale. In due pagine Beijing News sgrana dettagli e circostanze, fa nomi. Descrive la struttura di Xintai dove, secondo la testimonianza di un «paziente», sono almeno 18 i postulanti rinchiusi, intercettati dalle autorità locali sulla via degli uffici preposti alla raccolta delle lamentele (la più alta è a Pechino). Chi ha parlato, riferisce di pillole fatte ingoiare per forza, di «mente annebbiata e corpo pesante», di un medico che spiegava agli internati di non sapere «se siete malati mentali o no, le autorità vi mandano da noi e io vi curo». Le dimissioni — o meglio: il rilascio — avvengono anche dopo mesi, e solo dopo aver firmato una dichiarazione nella quale il questuante promette di non provarci più.
Le lamentele sono una via di sfogo sociale che le istituzioni hanno previsto e regolamentato, ma la gestione pratica è cronicamente esposta agli abusi. I capetti locali vogliono evitare imbarazzi davanti a istanze più alte, magari addirittura a Pechino. I loro emissari braccano i cittadini che partono con la petizione in mano e sono tutt'altro che rare le aggressioni. A metà ottobre un avvocato aveva denunciato l'esistenza a Pechino di hotel dove i postulanti vengono rinchiusi fuori da ogni procedura legale. A rendere più scabrosa l'intera questione, anche l'impiego dei postulanti per screditare l'operato di dirigenti avversari nelle faide di potere in provincia.
La lotta per via psichiatrica alla dissidenza era un classico dell'Urss che la Cina ha praticato. Il regime ieri ha impiegato parole ferme: il ricorso ai manicomi «è barbaro», «illegale» e «inumano », scriveva il commentatore, «difficile credere che questo possa accadere in una società sana». Proprio ieri, vigilia del 60˚ anniversario della Carta universale dei diritti dell'uomo, il capo della propaganda del governo ammetteva che, in materia, in Cina «rimangono sì molti problemi», ma si sono registrati «progressi epocali». Nella storia dei manicomi c'è posto per gli uni e gli altri.

Corriere della Sera 10.12.08
Personaggi La biografia del deputato comunista che passò con Mussolini e fu al suo fianco fino a Dongo
Il destino di Bombacci da bolscevico a fascista sempre rivoluzionario
di Giovanni Belardinelli


L'illusione di Salò
Aderì con entusiasmo alla Rsi e morì fucilato dai partigiani gridando «Viva il socialismo!» Nicola Bombacci, uno dei fondatori del Pci, aderì al fascismo e alla Rsi

«Con la barba di Bombacci / ci farem gli spazzolini / per lucidar le scarpe / di Benito Mussolini»: così cantavano gli squadristi al principio degli anni Venti, ironizzando appunto su chi sembrava personificare più di chiunque altro il rivoluzionarismo massimalista caratteristico dell'Italia del primo dopoguerra. Su Nicola Bombacci, sulla sua inclinazione a una retorica terribilista e inconcludente, fiorì del resto una ricca aneddotica: dalla battuta che si diceva avesse pronunciato nella campagna elettorale del novembre 1919, invitando gli elettori «a tagliargli pure la testa se, entro un mese, non avesse costretto il re a fare le valigie», all'episodio che si verificò nel gennaio 1921 durante il congresso socialista di Livorno. In quell'occasione Bombacci (che con Gramsci, Bordiga, Terracini si apprestava a lasciare il Psi per fondare il Partito comunista), sentitosi definire sprezzantemente da un socialista riformista come «rivoluzionario del temperino», rispose mostrando minacciosamente una rivoltella. Rimasto abbacinato dalla rivoluzione bolscevica, fu lui che nel 1919 fece adottare dal Psi, di cui era divenuto segretario, un simbolo importato dalla Russia di Lenin: falce e martello incrociati affiancati da due spighe di grano. A confermarne l'immagine di rivoluzionario tanto verboso quanto inconcludente contribuì la proposta che nel 1920 presentò al Consiglio nazionale del partito, proposta che Salvemini definì con qualche ragione un «capolavoro di idiozia »: Bombacci chiese che, entro il perentorio termine di due mesi, venissero costituiti i soviet in tutto il Paese.
A questa figura a suo modo rappresentativa dell'Italia del primo dopoguerra Guglielmo Salotti ha dedicato un bel libro (Nicola Bombacci: un comunista a Salò, Mursia), che ha il merito di sottoporre alla nostra attenzione anche la fase successiva della biografia di Bombacci, fino alla tragica fine dell'aprile 1945, quando venne fucilato a Dongo dove si trovava per aver voluto seguire fino all'ultimo Mussolini. Romagnolo e maestro anche lui, Bombacci — nel Psi di prima della guerra — si era trovato su posizioni intransigenti analoghe a quelle del futuro «Duce». Di Mussolini non approvò la svolta interventista del '14 e tuttavia si dichiarò allora contrario al suo allontanamento dalla direzione dell'Avanti!. Un anno dopo la marcia su Roma, intervenne alla Camera in favore del riconoscimento dello Stato sovietico da parte dell'Italia, adducendo una motivazione che fece scandalo, soprattutto a sinistra: «La Russia — disse rivolto a Mussolini — è su un piano rivoluzionario: se avete, come dite, una mentalità rivoluzionaria non vi debbono essere per voi difficoltà per una definitiva alleanza fra i due Paesi». Dopo un primo provvedimento di espulsione dal Partito comunista, in parte rientrato grazie all'intervento in suo favore dei russi, ne venne definitivamente allontanato nel 1927, quando ormai il Paese si trovava nel pieno della dittatura. Comincia allora il suo percorso di avvicinamento al fascismo e soprattutto al compagno di un tempo, Mussolini. Un percorso che sembra completarsi alla fine del 1933 quando, scrivendo al Duce, lo definisce «l'interprete felice e fedele di un ordine nuovo politico ed economico che nasce e si sviluppa col decadere del capitalismo e con la morte della socialdemocrazia ». Il corporativismo fascista, infatti, pare a Bombacci — come a tutto il fascismo «di sinistra» — la soluzione ai problemi di un assetto economico- sociale incrinato definitivamente dalla grande crisi del '29. Le sue ripetute avances, la richiesta di poter «marciare al fianco» di Mussolini producono però scarsi risultati: per i fascisti il suo nome è ancora così strettamente legato alla sinistra massimalista e comunista del dopoguerra che un avvicinamento ufficiale al regime creerebbe imbarazzi. Tutto ciò che Bombacci ottiene è di pubblicare una rivista — La verità — i cui collaboratori, quasi tutti ex sindacalisti ed ex socialisti, cercano di interpretare la politica fascista in chiave anticapitalistica. La stessa fondazione dell'impero, nel 1936, viene letta da Bombacci come una «conquista proletaria» in chiave antinglese. Affermazioni del genere oggi appariranno bizzarre, ma all'epoca non facevano che riprendere alcuni dei temi più diffusi della propaganda fascista. Del resto, da una lettera pubblicata da Salotti si ricava come alla rivista di Bombacci guardasse con simpatia anche Enrico De Nicola, futuro capo provvisorio dello Stato nel 1946.
La guerra mondiale trova l'ex socialista rivoluzionario decisamente dalla parte dell'Asse, non esclusi certi riferimenti antiebraici che traspaiono dai suoi scritti. Se un tempo Bombacci, come molti fascisti «di sinistra», aveva cercato di accreditare il regime sovietico e quello mussoliniano come risultato di rivoluzioni in qualche modo parallele, ora si scaglia contro l'Urss comunista, in cui il governo è in mano a «una nuova classe (…) assai peggiore della stessa classe capitalistica ». Nonostante la sua dedizione al regime, il sogno di incontrare Mussolini si poté realizzare soltanto dopo la nascita della Repubblica sociale, in un contesto in cui il capo del fascismo, ora repubblicano, sembrava voler dare spazio a tutta una serie di personaggi di matrice socialista. Adesso Bombacci ha un ruolo di qualche rilievo: va in giro a far conferenze agli operai, scrive articoli sul Corriere della Sera, sostenendo — ancora l'11 marzo 1945 — che «il socialismo non lo farà mai Stalin ma lo farà Mussolini». Impossibile dire se, ridivenuto di nuovo un capopopolo che arringa le folle, Bombacci credesse davvero a quel che diceva. Fatto sta che al momento d'essere fucilato le sue ultime parole, segno di una coerenza insieme patetica e tragica, furono: «Viva il socialismo!».

il Riformista 10.12.08
Ferrero dà i giorni a Piero Vladi Sansonetti
Liberazione. Il segretario prepara il cambio di direttore. Il giornalista: «Lo facesse e non rompesse le palle».
di Francesco Nardi


«Se l'editore di un giornale vuole cambiare il direttore, lo facesse e non rompesse le palle». La reazione di Sansonetti alle voci che ne danno la direzione del quotidiano Liberazione in bilico è forte e chiara: «L'ingerenza dei partiti politici nella direzione dei giornali è una pratica alla quale siamo tristemente abituati, non trovo quindi di che sorprendermi». E ancora: «Tutta la questione, comunque, non m'interessa neanche un po'».
Interessa però a Paolo Ferrero, almeno a sentire quanto insistentemente si continua a dire dalla parti di Rifondazione, o quello che dice il segretario stesso: «L'ho già detto tante volte e lo ribadisco oggi. Semplicemente, vista l'enorme quantità di denaro che il quotidiano del partito costa al partito, sarebbe utile e necessario avere un giornale che riesca ad aumentare le vendite e la sua presenza tra i lettori». Poi, dopo le prime risposte polemiche dalla minoranza guidata da Nichi Vendola, cui Sansonetti è vicino, Ferrero ha precisato:«Nessuno, tantomeno io, ha intenzione di trasformare Liberazione in un megafono del partito».
La causa occasionaledi quest'ennesimo scontro, che va avanti da mesi, è la scarsa copertura che il quotidiano riserva alla proposta del partito a fronte delle paginate su Luxuria e l'Isola dei famosi, prese a esempio della linea frou-frou di Sansonetti. In particolare Ferrero non avrebbe perdonato a Sansonetti l'aver dedicato poco spazio al suo incontro a Venezia con il leader della Linke tedesca, Oskar Lafontaine: «Un fatto editorialmente e politicamente significativo è stato trattato da Liberazione come un fatto di secondaria importanza».
Argomento che però non convince affatto Sansonetti, certo invece che il malumore di Ferrero nei suoi confronti si debba all'apertura del giornale dedicata all'anniversario degli operai morti alla Thyssen, dove il segretario non c'era.
Insomma è guerra aperta e il vero attacco di Ferrero è atteso per il prossimo fine settimana quando, in occasione del Comitato politico nazionale del partito, il segretario chiederà a Sansonetti una diversa gestione del giornale. I rumours intanto riferiscono che non abbia ancora pronto un sostituto e che quindi la partita sia ancora tutta da giocare. È rispuntato per l'ennesima volta il nome di Giovanni Russo Spena che però assicura di non essere assolutamente interessato alla direzione: «Non ci penso nemmeno, fosse per me al posto del quotidiano farei un settimanale».