domenica 14 dicembre 2008

Corriere della Sera 14.12.08
Pubblicato il corso accademico del 1934 in cui il filosofo eliminò i riferimenti alla politica
Heidegger, l'uscita di sicurezza
Le lezioni su logica e linguaggio che segnano il distacco dal nazismo
di Armando Torno


Il 21 aprile 1933 Martin Heidegger diventa rettore all'Università di Friburgo. Wilhelm von Möllendorf, noto socialdemocratico, appena eletto a quella responsabilità accademica, è costretto dal partito nazista a dimettersi. La votazione che conferirà l'alta dignità al filosofo, ormai noto in tutto il mondo (Essere e tempo è del 1927), avrà una sola astensione: dei 93 professori, 13 furono esclusi perché ebrei; dei restanti parteciparono in 56. Heidegger sarà tesserato. Il fatto avviene il 3 maggio, ma con una retrodatazione di due giorni. In suo favore c'è una clausola: sarà esonerato dal partecipare alle attività di militanza del partito nazista.
Inizia così quell'impegno che durerà tutto il 1933 e una parte del 1934. Terrà, tra l'altro, il 30 giugno la conferenza L'università nel nuovo Reich, subito seguita da un incontro con Karl Jaspers. Il vecchio amico scriverà nella sua Autobiografia filosofica: «Non gli dissi che era sulla strada sbagliata. Non avevo più nessuna fiducia in lui, dopo questa trasformazione. Sentii me stesso minacciato di fronte a quella potenza, di cui ora Heidegger faceva parte». Durante l'estate il neorettore entra in contatto con Carl Schmitt, allora giurista di riferimento del Terzo Reich; in ottobre si rivolge agli studenti esaltando il Führer, mentre l'atteggiamento verso le disposizioni razziali non è monolitico: aiuta il suo assistente Werner Brock, redige però un parere su un docente di Gottinga scrivendo che «ebbe relazioni assai vivaci con l'ebreo Fränkel». Infine, tra le molte cose di quell'anno, l'11 novembre a Lipsia, in occasione del «Proclama della Scienza tedesca per Adolf Hitler», Heidegger pone il suo pensiero al servizio del Führer.
Poi accade qualcosa. Tra i colleghi di Friburgo si fa largo un'opposizione prima strisciante e poi evidente; Ernst Krieck, che vorrebbe diventare l'ideologo di punta del nazismo, lo attacca con un articolo. Il suo rettorato dura dieci mesi; quindi, tra il maggio e il giugno del 1934, Heidegger si allontana dalla politica militante e il corso annunciato per il semestre estivo, Lo Stato e la scienza, decide di non tenerlo, anche se erano già stati fissati giorni e orari: martedì e giovedì, 17-18. Nel primo incontro, di fronte a un'aula gremita nella quale spiccavano le hitleriane camicie brune, egli dichiarò di aver mutato idea e che quelle lezioni le avrebbe dedicate a un nuovo argomento: Logica come problema dell'essenza del linguaggio.
Bene: ora quel corso, con il titolo Logica e linguaggio, vede la luce nella prima traduzione italiana, a cura di Ugo Ugazio (Christian Marinotti Edizioni, pp. 256, e 23). I riferimenti espliciti alla politica vengono abbandonati; Heidegger propone un percorso intensissimo che comincia con una serie di precisazioni su struttura, origine, significato e «necessario turbamento» della logica. Il filosofo sembra quasi che voglia ripensare le sue idee, senza mai perdere di vista gli adorati greci; sovente offre prospettive di grande effetto e di notevole attualità, come quando si chiede che cosa sia la logica. Tra le risposte che scrive: «Non è mai una sterile polverosa disciplina scolastica»; o ancora: «Logica è per noi invece il nome dato ad un compito, al compito di preparare la prossima generazione perché sia di nuovo una generazione costruita sul sapere, tale cioè che sappia e voglia sapere, tale che sia davvero in condizione di sapere. Per questo compito non occorre la scienza».
Ma quanto abbiamo citato è un cenno di un discorso infinito. Il curatore dell'edizione tedesca, Günter Seubold, nella nota posta in calce al testo, ricorda lo straordinario interesse di queste lezioni giacché presentano in modo comprensibile una problematica attuale: le cattedre di logica sono tenute dai matematici che trattano dei loro problemi, cioè di cose scientifiche, e da filosofi di professione che in genere si limitano a corsi introduttivi per lo studio di base. Per Heidegger la logica «è tutt'altro che indisciplinata chiacchiera proposta come visione del mondo, ma è sobrio lavoro congiunto allo stimolo genuino e al bisogno essenziale». Non a caso due capitoli di queste lezioni sono dedicati alle domande sull'essenza dell'uomo e sull'essenza della storia. Qua e là si leggono dei periodi su cui val la pena riflettere: «Sebbene un popolo faccia la sua storia, questa storia non è certo il prodotto del popolo; per parte sua, il popolo è fatto dalla storia»; e ancora: «Il linguaggio è mezzo capace di formare e conservare il mondo ». La logica diventa il bisturi che Heidegger utilizza in queste lezioni per entrare nel corpo del sapere e per eliminare i mali incontrati. Il lettore segue il lavoro del filosofo attraverso dense riflessioni sul tempo oltre che sul linguaggio (quest'ultimo, scrive Ugazio nella sua preziosa nota all'edizione italiana, «è esso stesso il mondo in cui avviene la comunicazione»). Le pagine si chiudono trattando «la poesia come linguaggio originario».
L'editore Marinotti, che nel 2007 aveva pubblicato di Heidegger l'Avviamento alla filosofia,
ha reso un notevole servizio ai chiarimenti in corso. Li ricorda lo stesso Günter Seubold, dopo aver sottolineato il ruolo di pietra miliare di queste lezioni del 1934, che segnano il passaggio dalla fase ontologica fondamentale a quella della storia dell'essere: «Sono importanti per una sufficiente comprensione della situazione di Heidegger all'Università subito dopo l'abbandono della carica di rettore. Molto di quello che è stato scritto troppo in fretta sull'impegno nazionalsocialista di Heidegger dovrà essere rivisto e sottoposto ad una nuova interpretazione in base a queste lezioni». Insomma, esse aiutano a capire cosa cambiava in lui e in quali scenari si collocherà il suo pensiero. Dopo un anno di nazismo militante.

In libreria
Gli interrogativi teologici e le polemiche di Farias
In Italia ci sono circa 300 titoli «di e su» Heidegger. Ricordiamo tra gli ultimi, edito da Marinotti, Jean Beaufret In cammino con Heidegger (pp. 204, e 18). Giancarla Sola ha scritto per il melangolo Heidegger e la pedagogia (pp. 198, e 16). Le implicazioni teologiche: curato da A. Molinaro, Heidegger e San Paolo. (Urbaniana University Press, pp. 160, e 14) e di Duilio Albarello La libertà e l'evento. Percorsi di teologia filosofica dopo Heidegger (Glossa, pp. 328, e 28).
Sossio Giametta dedica un ampio saggio ad Heidegger nel volume I pazzi di Dio (La città del sole, pp. 664, e 36), mentre di Bernhard Casper c'è l'importante Rosenzweig e Heidegger. Essere ed evento (Morcelliana, pp. 176, e 12,50).
Victor Farias ne L'eredità di Heidegger (Medusa, pp. 230, 14,80) radicalizza la vecchia tesi: fra il nazismo e il filosofo ci fu molto di più di occasionali convergenze (Ar.To.).

l’Unità 14.12.08
L’onda anomala e il Parlamento
di Furio Colombo


Come alla catena di montaggio, da mesi si approvano leggi una peggio dell’altra: tutte scelte che non servono al Paese
Tra un premier arrogante e le paure indotte dalla Lega
La solitudine dei cittadini

Arriverà la folla e non sarà gentile. Arriverà d’impulso, persone sole perché la fabbrica è chiusa, il precariato è finito, il partito non parla, il telegiornale non si capisce, i talk show esasperano, il capo del governo ride, credendo di incutere ottimismo solo perché lui è personalmente al sicuro, protetto sia dalla ricchezza che dal Lodo Alfano. Ma non illudetevi. La folla incupita e disorientata non andrà a cercare il capo che ride. Sanno che si fa gli affari suoi e li fa benissimo. Il punto di sfida e di rabbia sarà il Parlamento. Da mesi il Parlamento approva, come in una strana catena di montaggio, una legge peggiore dell’altra. Non sono leggi parlamentari, sono decreti, cioè decisioni del governo che sono già entrate in vigore quando il Parlamento le approva. C’è una opposizione in Parlamento. È una opposizione educata e civile. Presenta tante obiezioni che vengono svillaneggiate, tanti emendamenti che vengono bocciati a decine, a centinaia, uno dopo l’altro, persino quando (accade spesso) la maggioranza non è in numero legale. Ricordo che quando eravamo maggioranza (piccola maggioranza) in Senato venivamo continuamente fermati, anche dieci volte in un giorno, dalla richiesta di verificare il numero legale. Non so spiegare perché, ma l’opposizione a cui appartengo questa richiesta non la fa quasi mai. E decide di non far notare che i nostri colleghi di destra riescono a votare, di fronte a tutti e senza sotterfugi, anche cinque volte, con un solo, attivissimo deputato presente al banco. «Saranno cattive leggi ma l’Italia deve avere le sue leggi, e noi, parlamentari italiani di opposizione, pur dicendo il nostro “no” punto per punto, non dobbiamo fermare la macchina», è la persuasione della nostra opposizione.
E così la macchina lavora, alacre, infaticabile, respinge tonnellate di emendamenti contrari, ascolta discorsi di dissenso come certi studenti ascoltano gli ammonimenti del preside, prima e dopo gli atti di vandalismo. E questo la gente sa: è il Parlamento che ci fa vivere male, che ci spaventa con i suoi «provvedimenti sulla sicurezza», che ci toglie la scuola, che ci taglia gli ospedali, che abbandona i disabili, che non si cura delle retribuzioni divenute piccolissime e del costo della vita sempre meno raggiungibile. Se mai propone di intervenire in modo punitivo su quel che resta dei contratti di lavoro. È il Parlamento che si imbarca in lunghe e incomprensibili discussioni sulla riforma della Giustizia (vuol dire che un potere dello Stato tenta di eliminarne un altro) e in lunghe e incomprensibili discussioni sul federalismo fiscale ( vuole dire fare largo alla Lega e alla riscossione dei suoi diritti alla cassa di Berlusconi, che però incarica del pagamento la Camera e il Senato della Repubblica italiana, opposizione inclusa).
La Repubblica rischia di sciogliersi nell’acido della Lega che propone l'isolamento dei bambini immigrati nelle scuole, le impronte digitali dei piccoli Rom, l’aggravante della clandestinità, l’esercito incaricato di tenere a bada la paura verso coloro che appaiono diversi, il divieto di ricongiungimento familiare, il permesso di soggiorno a punti che apre la strada al peggiore caporalato e ai peggiori ricatti, l’espulsione senza ascolto e senza diritto di chi - se espulso - viene consegnato alla tortura e all’impiccagione.
No, lo sappiamo, non sarà per queste squallide crudeltà, che ormai segnano la vita italiana, che ci sarà rigetto e che questo rigetto sarà contro il Parlamento.
La ragione è l’incomprensibilità di ciò che avviene in Parlamento. Spaventa il non capire ciò che il Parlamento discute e ciò che il Parlamento approva. E tutto nella morsa di due paure, quella che ti incutono ogni giorno contro gli immigrati, e quella di cui ti rendi conto da solo e senza alcun sostegno: il lavoro vale sempre meno e potrebbe scomparire del tutto.
La tensione cresce nel vedere privilegi che non corrispondono a nulla, non nella tua vita. Fra i decreti urgenti che il governo impone a una maggioranza obbediente e a una opposizione che dissente in modo soft, educato, indistinguibile, non ce n’è uno che riguardi la vita, le pene, le ansie, le preoccupazioni, le attese dei cittadini.
La gran parte di coloro che aspettano là fuori che qualcuno governi o che qualcuno dica come si dovrebbe governare, non ha un partito e non ha un sindacato. Anzi viene scoraggiato e dileggiato se si unisce a una protesta o partecipa a uno sciopero. Il più delle volte non ha una speranza, nel senso di una legittima attesa per qualcosa di ragionevole che potrebbe essere deciso oggi o domani. Ma non succede niente. Niente che riguardi i cittadini e dia un po’ di fiducia o almeno di sollievo. Pochi stanno svegli la notte interrogandosi sulla separazione delle carriere dei magistrati, pochi si tormentano angosciati sul tipo di federalismo che si deciderà di adottare. Tutti sanno che tutto riguarda alcuni, dentro quei costosi palazzi. Il fatto è che, la linea di demarcazione che distingue e separa aspetti diversi della vita politica non passa più fra una coalizione e l’altra. A forza di dire che niente più «è di destra o di sinistra», la frase assurda è diventata vera. La linea di confine, adesso, passa fra le due parti roventi e visibili del Paese. Di qua il Parlamento, né di destra né di sinistra, però costoso, dentro il quale sembrano tutti uguali. Di là i cittadini. La Lega li ha resi cattivi verso gli immigrati, ma questo non è che il primo sintomo. Si esprime in sequenze di gesti e di aggressioni violente dei quali diciamo subito: «sono solo episodi isolati». Sarà un preannuncio o forse solo un presentimento. Ma la solitudine dei cittadini, il silenzio dell’opposizione, l’arroganza autistica del capo del governo, che parla solo di stesso, sono cattivi consiglieri. L’onda potrebbe diventare una immensa, violenta onda anomala. Contro il solo ostacolo visibile: il Parlamento.

Repubblica 14.12.08
Oltre la democrazia
di Ilvo Diamanti


LA DEMOCRAZIA. Molti ne osservano in modo scettico l´evoluzione. In Italia, ma non solo. Così è diffusa la tendenza ad associarne il termine al prefisso "post". Come ha fatto il politologo Colin Crouch alcuni anni fa.
Definendo la fase attuale fase post-democratica. Non "anti" democratica, ma "oltre" la democrazia. O, ancora, "dopo" la democrazia, come suggerisce il socio-demografo Emmanuel Todd in un recente saggio di grande capacità suggestiva ("Après la démocratie", pubblicato da Gallimard).
Eppure pochi, in Italia, la mettono in discussione. Lo sottolinea l´XI rapporto su "gli italiani e lo Stato" di Demos - la Repubblica (www.demos.it), proposto due giorni fa sul Venerdì. Quasi tre persone su quattro la considerano il "migliore dei mondi possibili". Un dato in crescita (4 punti percentuali in più) rispetto all´anno scorso. Tuttavia, vi sono categorie sociali che la pensano diversamente. I più giovani, in particolare: oltre un terzo di chi ha meno di 35 anni ritiene che rinunciare alla democrazia, magari per un certo periodo, in fondo, non sarebbe male. Oppure, non cambierebbe nulla. E il peso della componente scettica sale fino a circa il 40% fra gli operai e i disoccupati. A rammentarci che il consenso alla democrazia declina quando manca il lavoro e le condizioni di vita quotidiana degradano. Peraltro, il significato della democrazia appare profondamente cambiato rispetto al modello originario del dopoguerra. Fondato sulla partecipazione e sui partiti di massa, garantito dal bilanciamento fra poteri. In particolare: dal controllo del potere giudiziario su quello politico (legislativo ed esecutivo). Il rapporto di Demos - la Repubblica rileva, anzitutto, come, ormai, i partiti siano guardati con diffidenza generalizzata. Non solo: appena la metà dei cittadini ritiene che "senza partiti non vi sia democrazia". D´altronde, i due terzi degli italiani pensano che i partiti siano tutti uguali, dicano le stesse cose. Non riescono a coglierne le differenze di progetto e di azione. Ne considerano i programmi e il linguaggio strumentali. Più dei partiti, secondo il 40% degli italiani, oggi contano i leader. I partiti, di conseguenza, appaiono organismi personalizzati, talora "personali", al servizio del Capo. Una percezione generale che, peraltro, coincide largamente con la realtà. Richiama un´idea della democrazia fortemente semplificata e populista. Alimentata dalla svalutazione dei tradizionali soggetti di partecipazione e rappresentanza. I partiti. Mentre i canali di mediazione degli interessi ? organizzazioni imprenditoriali e ancor più sindacali ? raccolgono consensi minimi nella società. Non che la partecipazione sia svanita. Anzi, nell´ultimo anno è perfino cresciuta, ma nelle forme meno convenzionali e istituzionali, oltre che antipolitiche. Quanto alle istituzioni e ai poteri di controllo, la magistratura è valutata con fiducia dal 37% dei cittadini. Più o meno come un anno fa. Ma circa la metà rispetto ai primi anni Novanta. Anche per questo motivo oggi il presidente del Consiglio afferma di voler procedere alla riforma del sistema giudiziario anche da solo, se necessario. Perché si sente più forte e socialmente legittimato dei giudici.
Da ciò il dibattito, meglio, il contrasto che investe il significato stesso di democrazia, nella pratica politica ma anche nella percezione sociale. Stressata fra due opposte tendenze, largamente complementari.
Da un lato, si afferma una democrazia formale, che trae legittimazione, quasi unicamente, dal voto personalizzato della maggioranza. I partiti, sempre più oligarchici, racchiusi nelle istituzioni e nei centri di potere. La piazza, l´agorà: riassunta dai media e dalla televisione. Una democrazia elettorale. Il potere dei cittadini si esercita e si esaurisce in trenta secondi, una volta ogni 4-5 anni. Quanto basta per fondare l´autorità degli eletti, o meglio, dell´Eletto. Che, per questo, considera illegittimo ogni vincolo posto da poteri non elettivi. E sopporta a fatica e con fastidio ogni critica al suo operato che provenga da giudici, giornalisti, comici e intellettuali. Non eletti dal popolo. è su questa base, con questo argomento che, da sempre, Silvio Berlusconi (e la sua parte) rifiuta le critiche al conflitto di interessi e i tentativi di regolarlo. Su questa stessa base contesta l´azione della magistratura nei suoi confronti, anche quando si tratta di accuse relative a reati esterni alla pratica di governo e all´attività politica. Perché si tratterebbe di limiti imposti da soggetti "non democraticamente eletti" a un leader "votato dal popolo". Nonostante tutte le accuse e tutti i conflitti di interesse, da cui ? è il ragionamento implicito ? il "popolo sovrano", con il voto, l´avrebbe assolto, oltre ad avergli attribuito il mandato di governare. è la post-democrazia, denunciata da molti critici, non solo di sinistra. Una democrazia elettorale e personalizzata. Spogliata delle mediazioni e dei controlli. La comunicazione al posto della partecipazione. L´equilibrio dei poteri, finalmente, modificato. Attraverso la riforma della giustizia, mettendo mano alla Costituzione - come ha annunciato il presidente del Consiglio - anche senza dialogare con l´opposizione. Si tratterebbe, come ha scritto Ezio Mauro nei giorni scorsi, del "passaggio?da una meccanica istituzionale con poteri divisi ad un aggregato post-costituzionale che prefigura un potere sempre più unico". Post. Appunto. Una democrazia in preda a un degrado organico e quasi biologico. Una sorta di "mucca pazza della democrazia", come l´ha definita Alfio Mastropaolo.
D´altro canto, questa tendenza post-democratica e post-costituzionale sta insinuando, nell´area di opposizione, un sentimento di sfiducia nella democrazia. Riflette e moltiplica il senso di riprovazione verso quella parte di elettori, molto ampia, che, da quindici anni, continua a votare per Berlusconi. Nonostante i suoi stravizi o, forse, proprio per questo. Verso quegli elettori che nel Nord si ostinano ? in gran numero ? a premiare la Lega. Nonostante il suo linguaggio intollerante e le sue iniziative xenofobe o, forse, proprio per questo. Mentre nel Sud continuano a votare per oligarchie clientelari e corrotte. Senza porsi problemi. Da ciò, come osserva Emmanuel Todd, l´idea, latente e diffusa (a sinistra), che "il popolo è per natura cattivo giudice". E il pensiero ? inconfessato e represso ? che occorra, per questo, "ritirargli il diritto di voto o, almeno, limitarne seriamente l´esercizio".
Difendere la democrazia dal popolo e perfino dal voto popolare. Oppure usare il popolo e il voto per limitare le garanzie democratiche. Questa alternativa insidiosa racchiude tutto il malessere che oggi attraversa la nostra democrazia rappresentativa.

Repubblica 14.12.08
Il primato degli annunci all’Italia del cavaliere
di Eugenio Scalfari


LA POLITICA degli annunci è ormai diventata non soltanto una tattica ma la strategia di tutto l´Occidente, dagli Stati Uniti all´Europa.
L´Italia ha fatto da apripista e ne conserva il primato. Da questo punto di vista è corretto riconoscerne il merito a Silvio Berlusconi.
La giornata di venerdì è indicativa di questo stato di cose. Dopo il rifiuto del Senato americano di soccorrere le compagnie automobilistiche di Detroit con nuove erogazioni di denaro federale, il presidente eletto ma non ancora insediato, Barack Obama, ha esortato Bush ad intervenire scavalcando il voto del Congresso e il presidente scaduto ma ancora governante ha annunciato che troverà il modo di stornare 15 miliardi di dollari dai fondi destinati al sostegno delle banche indirizzando quella cifra verso l´industria dell´auto.
Le Borse che avevano lasciato sul terreno fino a quel momento cifre da capogiro, in pochi minuti hanno invertito la tendenza chiudendo tutte al rialzo. Se e quando all´annuncio seguiranno i fatti si vedrà nei prossimi giorni ma intanto il crollo è stato per ora scongiurato.
Nella stessa giornata di venerdì il vertice europeo guidato da Sarkozy e dal presidente della commissione di Bruxelles, José Manuel Barroso, ha approvato all´unanimità due documenti definiti storici: quello sul clima e quello sulle misure economiche che dovrebbero arginare la recessione e rimettere in moto la crescita.
Definiti storici, quei due documenti che in realtà sono puri e semplici annunci, generici nella formulazione e privi di ogni sia pur minimo accenno a procedure esecutive, tempistica, sanzioni per eventuali inadempienze dei Paesi membri.
Il documento antirecessione prevede la mobilitazione di un punto e mezzo del Pil europeo pari a 200 miliardi di euro, ma si affretta a chiarire che si tratta di una previsione e lascia liberi i governi dei Paesi membri di agire ciascuno secondo le proprie strategie e le proprie disponibilità. Il documento sul clima si muove sulla stessa linea: l´Europa abbasserà le emissioni di gas inquinanti del 20 per cento entro il 2020, ma i Paesi membri ottengono importanti flessibilità nella vendita dei diritti di emissione nonché sostegno europeo per le imprese manifatturiere in difficoltà congiunturale. L´Europa a sua volta sosterrà questi oneri aggiuntivi utilizzando risorse stanziate per altri obiettivi che perdono in tal modo priorità. Si sveste un altare per vestirne un altro.
L´importante è che Sarkozy, Barroso e l´intera compagnia convitata per l´occasione possano annunciare che i due storici documenti sono stati approvati dai 27 governi i quali a loro volta rivendicano d´aver ottenuto importanti concessioni senza le quali molti di loro avrebbero posto il veto paralizzando sia la lotta all´inquinamento sia quella alla recessione. Per quanto riguarda il clima se ne riparlerà tra dodici anni, ma una tappa intermedia è prevista nel 2010 e farà il punto della situazione. Se le imprese stenteranno a procedere verranno chieste nuove concessioni e nuovi aiuti all´Europa. Per quanto riguarda invece la recessione, sarà l´andamento dell´economia a dirci fino a che punto i singoli governi avranno operato per arginare la catastrofe oppure avranno giocato con le parole anziché realizzare i fatti necessari. Nel qual caso saremo al collasso con conseguenze imprevedibili.
* * *
Ho già detto che nella strategia degli annunci l´Italia berlusconiana detiene un primato di cui il suo inventore va giustamente fiero. Ha annunciato un programma economico anti-recessione di 4 miliardi e mezzo di euro, poi l´hanno aumentato a 6 miliardi; adesso stanno giostrando per trovare ancora qualche spicciolo in più, magari prelevandone una parte dagli stanziamenti per infrastrutture. Si tratta di cifre evidentemente insufficienti; tutte le stime attendibili sostengono la necessità di un intervento non inferiore ad un punto e mezzo di Pil e cioè qualche cosa come 25 miliardi da mobilitare e spendere entro il 2009.
Interventi di quest´ordine di grandezza produrrebbero un aumento del debito pubblico e del deficit, visto che il governo sperperò fin dal suo insediamento sei mesi fa ben 7 miliardi di euro tra Ici e Alitalia e ne perse poi un´altra dozzina a causa d´una preoccupante flessione del gettito tributario. In queste condizioni Tremonti non ha spazio per operare se non sfondando le colonne d´Ercole dei parametri di Maastricht sia per quanto riguarda il deficit e sia per il debito pubblico. Oppure spostando risorse da altri usi come del resto sta già facendo. Sottrarrà altri fondi alle aree sottosviluppate e chiederà all´Ue di autorizzarlo ad usare le risorse europee destinate a infrastrutture per rafforzare gli ammortizzatori sociali destinati a fronteggiare l´onda dei licenziamenti in arrivo tra febbraio e marzo. Anche qui si sveste un altare per vestirne un altro. Così fece il nostro ministro dell´Economia con la finanza creativa, gli swap, i condoni, le cartolarizzazioni, nella legislatura 2001-2005. Lasciò i conti pubblici nel baratro ed ora ripete la stessa manovra con segno invertito. Ne vedremo i risultati al più tardi tra due mesi.
Nessuno più di noi spera di essere smentito dai fatti, ma certo non si combatte questa durissima battaglia invitando i consumatori a largheggiare nei regali natalizi e i risparmiatori a investire i propri denari comprando titoli del Tesoro e azioni Enel e Eni. Questi non sono neppure annunci, ma buffonate.
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Altri annunci roboanti che faranno «flop» e che in buona parte lo hanno già fatto riguardano la riforma delle pensioni e quella delle scuole elementari e secondarie. Sulla prima, il ministro Brunetta si avventura in un´altra crociata inutile, chiedendo un innalzamento a 65 anni dell´età pensionabile delle donne sul quale dissente palesemente mezzo governo. Sulla seconda, la Gelmini ha concordato con Cisl e Uil il rinvio di un anno delle riforme previste per la scuola superiore e ha rimesso alla libera scelta delle famiglie l´orario delle lezioni nelle scuole dell´infanzia nonché la scelta del maestro unico o quella di un «team» di insegnanti. Con tali modifiche la cosiddetta riforma Gelmini si riduce al minimo. Personalmente credo sia un bene. Si trattava infatti, e ancora si tratta per la parte residuale rimasta in piedi, di provvedimenti destinati più alla funzione di spot televisivi e mediatici che a riformare strutturalmente gli istituti scolastici. Secondo me la Gelmini va lodata per essersi resa conto che il suo approccio era praticamente insostenibile. Ha dimostrato saggezza anche se ora si ostina a sostenere che nulla è cambiato. Allora i sindacati hanno firmato una pagina bianca? Una delle due parti mente. Nei prossimi giorni sapremo quale, ma intanto i rinvii al 2010 sono già stati effettuati e il ministro si è impegnato ad aprire subito un tavolo di concertazione con i lavoratori precari della scuola. Non sono cambiamenti importanti? Che c´è di male, signora ministro, a riconoscere d´avere sbagliato?
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Il federalismo fiscale è nato come annuncio e tale resterà per un bel pezzo. Per ora è stata approvata una legge-quadro dove ricorre molte volte la parola federalismo ma non è indicata alcuna cifra, alcuna procedura, alcuna organizzazione concreta delle future istituzioni. La Lega vorrebbe che la legge-delega fosse approvata entro dicembre costi quel che costi. Forse si contenterebbe di gennaio ma non un mese di più altrimenti minaccia sfracelli.
Sta di fatto che il Parlamento è intasato e il presidente Fini non sembra nel «mood» di strozzarne i dibattiti. Bisogna approvare i decreti sulle banche e quello in arrivo anti-recessione, poi il decreto Alfano sulla giustizia, altre decretazioni del ministero dell´Interno e di quello della Difesa, le leggi sulla scuola, la legge elettorale per le elezioni europee. Sicché il federalismo, per essere infilato in mezzo a questa super- produzione legislativa, dovrà limitarsi ad un´altra genericità rinviando la sostanza ai regolamenti attuativi dove però entra in gioco la conferenza Stato-Regioni con poteri rilevanti.
In sostanza: la politica degli annunci sta facendo «flop». Se continuerà così diventerà assai poco credibile. Lo pensa anche Galli Della Loggia.
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Si dice: la Cgil ha fatto uno sciopero inutile. In una fase che richiede compattezza ha mandato in scena un vetusto rituale antagonista, perciò zero in condotta ad Epifani e ai lavoratori che l´hanno seguito rimettendoci anche una giornata di salario. Va detto che quei lavoratori erano parecchi. Hanno fatto uno sciopero politico senza alcun obiettivo pratico: così affermano i loro critici.
Secondo me questo modo di ragionare è sbagliato per le seguenti ragioni.
1. Lo sciopero generale è politico per definizione. Non ha come obiettivo la firma di un contratto di lavoro ma il rovesciamento di una politica economica che sfavorisce (secondo l´opinione del sindacato) i lavoratori.
2. Nel caso specifico la Cgil si schiera contro una politica che a suo avviso non tutela i lavoratori dagli effetti devastanti della crisi economica.
3. Lo sciopero generale ha un duplice obiettivo: premere sul governo e dare voce ad una protesta sociale che va al di là dei lavoratori rappresentati dal quel sindacato.
Se la Cisl e la Uil sono riuscite a realizzare alcuni risultati importanti per quanto riguarda la scuola ciò è in parte dovuto alla spinta del movimento degli studenti, alla protesta sociale mobilitata dalla Cgil e alla costante pressione dell´opposizione politica e parlamentare. Sta insomma prendendo forma una controffensiva molto articolata dove convergono con modalità e intenti diversi tutti i settori penalizzati, feriti, delusi e offesi della società sotto la spinta d´una tempesta economica che ha già sradicato gli equilibri esistenti fino a pochi mesi fa. A questa convergenza partecipano anche i sindacati «trattativisti» che riescono dal canto loro a tradurre in aggiustamenti parziali ma significativi gli effetti della protesta generale. La massima «marciare separati e colpire uniti» sembrerebbe esser stata fatta propria in questi ultimi giorni dai tre sindacati confederali.
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L´annuncio al quale invece seguiranno i fatti è quello sulla riforma costituzionale della giustizia. Alcuni osservatori sostengono che anch´esso alla fine si rivelerà uno spot tra i tanti e finirà dimenticato in un cassetto, come accadde alla Lega per la sua campagna di tolleranza zero contro i «rom» e contro l´immigrazione clandestina, cadute entrambe nel dimenticatoio dopo i rilievi e le censure formulate dalla Ue.
La riforma costituzionale della giustizia non è dunque uno dei tanti spot dei quali è lastricato il percorso berlusconiano allo scopo di tenere alti i sondaggi con i fuochi d´artificio degli annunci che si susseguono uno all´altro. Berlusconi vuole costruire una Costituzione della maggioranza. In Parlamento i numeri li ha, nella società spera di averli. La Costituzione della maggioranza infatti ha bisogno di un referendum confermativo che Berlusconi non teme ed anzi desidera pensando di trasformarlo in un referendum su se stesso, sul suo decisionismo, sul suo carisma, sul suo costante appello ai fantasmi d´una destra e regoli una volta per tutte i conti con la sinistra «comunista», con la giustizia «corporativa», con il Parlamento «parolaio» e con la «casta» identificata con i partiti di opposizione.
Questo è il suo progetto e questo il suo futuro. Di fronte ci sono tutte le forze che non vogliono il cesarismo plebiscitario, la monarchia che coopta i successori, la fine dello Stato di diritto, il Capo illuminato e populista cui delegare i poteri con una cambiale firmata una volta per tutte.
La contesa è aperta, la prognosi è riservata. Ma al centro del campo c´è il Presidente della Repubblica, l´elemento di massima garanzia che si batterà fino all´ultimo per impedire che possa esistere una Costituzione di maggioranza che abrogherebbe di fatto la Costituzione democratica, lo Stato di diritto, la politica dell´inclusione e non quella dell´esclusione e della prevaricazione.
Si batterà fino all´ultimo, di questo possiamo esser certi, non per spirito di parte ma per preservare i principi fondamentali della Carta costituzionale dai quali discendono quei diritti e doveri di cittadinanza che sono il tessuto civile dell´Europa e del mondo intero.

Repubblica 14.12.08
Il giovane Mussolini al soldo della Francia
Il dittatore fece chiudere in manicomio un testimone di quei fatti
di Massimo Novelli


Un libro basato su carte trovate negli Archives Nationales racconta una storia inquietante. La storia di un anarchico sospettato, nella Savoia del 1904, di vendere i compagni alla polizia; la storia di un politico interventista foraggiato da Parigi nel 1914; e la storia di un dittatore che fece chiudere in manicomio un testimone di quei fatti
Ho trovato "alcune tue missive", scrisse l´avvocato Donatini al duce, e "mi parve offesa la proposta fattami di disfarmene per cinquecento sterline"

Nel novembre del 1922, a pochi giorni dalla marcia su Roma, due informatori della Sureté Nationale trasmettevano ai loro superiori alcune indiscrezioni, raccolte negli ambienti politici di Parigi, sui rapporti intercorsi fra Benito Mussolini e esponenti del governo francese nel 1914, subito dopo lo scoppio della Prima guerra mondiale. Si faceva riferimento, in particolare, alle ingenti somme di denaro, circa dieci milioni di franchi, che il futuro duce avrebbe incassato dal deputato Charles Dumas, capo di gabinetto del ministro Jules Guesdes, per caldeggiare sul suo Popolo d´Italia l´entrata in guerra dell´Italia al fianco delle potenze alleate. In un´altra nota riservata, poi, Mussolini veniva addirittura indicato come «un agente del Ministero francese a Roma».
I documenti inediti, che rimettono in discussione il giudizio di Renzo De Felice, massimo biografo di Mussolini, sui legami di quest´ultimo con la Francia, sono stati scoperti dallo storico piemontese Roberto Gremmo agli Archives Nationales di Parigi. Li ha pubblicati nel suo libro Mussolini e il soldo infame (edito da Storia Ribelle, casella postale 292, Biella). Oltre a riaprire il capitolo sullo spionaggio, ridando valore alle accuse rilanciate, dopo la Liberazione, dall´ex anarchica Maria Rygier, Gremmo testimonia che nel 1941, nella Francia occupata dai tedeschi, gli emissari fascisti fecero sparire i dossier di polizia su Filippo Naldi, uno dei finanziatori de Il Popolo d´Italia. È pertanto impossibile, annota lo storico, che gli agenti non avessero esaminato e sottratto gli incartamenti intestati a Mussolini, che in effetti non sono mai stati ritrovati nella loro interezza. Che cosa si temeva? Non solo che emergessero le vicende connesse all´interventismo, ma pure quelle sulla frequentazione della polizia francese fin dal 1904, durante i suoi viaggi oltre confine?
è su questi aspetti che Gremmo svolge le sue indagini. E lo fa occupandosi anche dell´avvocato Salvatore Donatini, del quale si serbava una vaga memoria in qualche citazione sugli anni giovanili di Mussolini. Nato nel 1877, militante socialista, senese, lo aveva aiutato e ospitato ad Annemasse, in Savoia, fra il gennaio e il febbraio del 1904. È il periodo in cui «i rapporti dei poliziotti di Annemasse furono stranamente benevoli nei confronti di un individuo come Mussolini, fotografato e schedato come un delinquente» dai servizi di sicurezza di altri paesi. Come mai? Forse perché aveva cominciato a fare l´informatore della polizia, spiando i suoi compagni «sovversivi»? Di Donatini non si era saputo più niente. Consultando i fascicoli che lo riguardano conservati all´Archivio centrale dello Stato di Roma, l´autore del libro ha scoperto che «un robusto filo nero» lega le vicende dell´avvocato toscano a quelle di Ida Dalser, la donna trentina che aveva dato un figlio a Mussolini e che questi fece rinchiudere in manicomio.
Pure Donatini finì in un ospedale psichiatrico. E a mandarcelo fu il duce. Di mezzo, come nel caso Dalser, c´erano le accuse per i suoi legami con i francesi. La sua amante di Trento aveva denunciato che si era venduto a loro all´epoca della Grande guerra, e venne dunque internata. Il socialista senese, alle prese nel 1930 con gravi difficoltà finanziarie, ebbe invece la malaugurata idea di scrivere a Mussolini, confidandogli di avere trovato alcune sue lettere risalenti al soggiorno in Savoia: «Nel frugare le carte per riordinarle trovai alcune tue missive che mi fece piacere averle ritrovate. (...) Non avevo alcuna idea di disfarmene per cui mi parve offesa la proposta fattami da un affarista di disfarmene per Cinquecento sterline. Oggi la cosa non mi pare così offensiva ne (sic) bassa cosa il venderle». Aveva premesso che nelle lettere «non vi è niente che ti faccia torto», ma la sua iniziativa, che aveva lo scopo di farsi dare del denaro, allarmò il duce.
Bisognava agire e recuperare quella corrispondenza che, per una ragione o per l´altra, era considerata compromettente. Erano le prove del «soldo infame»? Può essere. Certo è che Mussolini ordinò di mettere Donatini nelle condizioni di non nuocere. Fu disposta perciò la traduzione in manicomio. Vennero cercate le lettere, ma senza trovarle. Si scoprì però una pistola nello studio del legale. Dimesso dopo poche ore, venne tuttavia minacciato di essere inviato al confino e condannato per il possesso dell´arma. La lezione non gli bastò. Riprese a scrivere a Mussolini e, nel febbraio del 1931, firmò la sua morte civile: denunciò alla magistratura nientemeno che il duce «nella sua qualità di Ministro dell´interno pro tempore del Regno d´Italia», chiedendo inoltre il risarcimento dei danni subiti. Fu spedito ancora in manicomio, questa volta per diversi mesi. Neppure la rivelazione del contenuto delle famose lettere, che non erano quelle ritenute compromettenti, lo salvò. Sospeso dall´esercizio della professione, malato, morì nell´aprile del 1933. Aveva fatto una fine analoga alla Dalser. E sempre nel nome, «proibito», della Francia.

Repubblica Roma 14.12.08
Dal regio decreto ai lager, l'abominio in mostra
di Alessandra Rota


Immagini, filmati ricostruzioni che raccontano la cancellazione dei diritti civili
Al Vittoriano la ricostruzione dei sette anni che culminarono con la deportazione degli ebrei italiani

I binari li trovi appena esci dal tunnel: diciassette metri di rotaie vere che portano direttamente all´ingresso del campo di sterminio di Auschwitz. La porta dell´inferno, la fine di un percorso. Si conclude così, con il viaggio verso la morte raccontato da un grande maxischermo dove la "vita" degli internati e dei loro aguzzini scorre per immagini e suoni, la mostra "Leggi razziali, una tragedia italiana", che sarà inaugurata martedì (aperta al pubblico il giorno dopo) nel Complesso del Vittoriano presso la sala Gipsoteca con ingresso lato Ara Coeli.
A settant´anni dal Regio Decreto («È tempo che gli italiani si proclamino francamente razzisti. La concezione del razzismo in Italia deve essere essenzialmente italiana e l´indirizzo arianonordico» è il proclama uscito il 5 agosto 1938 sul primo numero della rivista La difesa della razza), un modo per non dimenticare, nascondere, edulcorare, falsificare la realtà, ce lo offre questa iniziativa promossa dal ministero per i Beni culturali, in collaborazione con l´Unione comunità ebraiche italiane e curata da Marcello Pezzetti, Bruno Vespa, Alessandro Nicosia.
Sette anni di storia - 1938-1945 - durante i quali i diritti civili scompaiono lasciando il posto alla disperazione e alla deportazione di cittadini italiani ebrei. Come nel film di Ettore Scola Concorrenza sleale il primo impatto con la mostra è "familiare"; scene di vita quotidiana, matrimoni, festività, lavoro. Immagini di persone qualunque prese da archivi privati. È solo il prologo di una tragedia annunciata dalla Notte dei Cristalli in Germania. Tre sezioni della mostra per spiegare meglio i fatti, tre capitoli per arrivare a quelle traversine di ferro: "Fascismo", poi "Le leggi" e infine "Arresti e sterminio".
C´è una voglia di spettacolarizzazione nell´allestimento, che non ha niente della fiction, ovviamente: «Si vedono sempre troppi documenti, carte, fogli. Stancano, distraggono: volevamo tenere l´attenzione sempre vigile» spiega Alessandro Nicosia. E allora ecco la stanza buia dove risuona come un ritornello spettrale la voce di Benito Mussolini, i suoi discorsi. Le parole, i proclami, le minacce, le promesse. In una bacheca vicina sono raccolte le "eccellenze", i nomi di ebrei che hanno ottenuto medaglie, menzioni d´onore, come il generale Umberto Pugliese pluridecorato della prima Guerra Mondiale, come il sindaco di Roma Ernesto Nathan.
Le leggi razziali con un colpo di spugna fecero sparire tutto perché, si legge: «Gli ebrei non appartengono alla razza italiana». Un curioso oggetto ci parla di "pari opportunità"; è un fermacarte che, a guardarlo bene, nella stella di Davide contiene un minuscolo fascio. Dai faldoni delle federazioni sportive sono usciti molti inediti, come i verbali del Coni nei quali il suo presidente (nonché segretario del partito fascista) Achille Starace chiedeva le circolari per espellere tutti gli atleti ebrei.
Divieto di fare sport, divieto di vendere gioielli o stracci, divieto di fare i notai, i giornalisti. Leone Efrati, pugile, campione dei pesi piuma tornò dall´America per stare vicino alla sua famiglia: rastrellato a Roma, finì ad Auschwitz dove venne costretto a combattere per il divertimento dei nazisti. Arpad Weisz, allenatore del Bologna calcio, subì la stessa sorte. Insieme alle foto, all´intera raccolta della Difesa della razza (l´ultimo numero uscì nel giugno 1943) ai manifesti, alle lettere, ci sono anche le cartoline di auguri dalle colonie, nelle quali i ragazzini di colore indossano uno zaino a forma di uovo di Pasqua: un´altra forma di razzismo. C´è anche, ricostruita, un´aula di scuola elementare con i banchi e le seggiole d´epoca, la cattedra. Le due piantine geografiche appese, che provengono dalla Biblioteca Isontina di Gorizia, non segnalano i continenti ma le razze. Sul registro di classe i nomi degli studenti "ritirati": Spizzichino, De Seta, Di Veroli, Di Segni. Sono un elenco premonitore.
Dal lunedì al giovedì 9.30-19.30, venerdì e sabato fino alle 23.30, domenica 9.30-20.30, info 06.69202049

Corriere della Sera 14.12.08
Il progetto Pronta una struttura da 13 mila metri quadrati
Shoah, anche in Italia un grande museo
di Aldo Cazzullo


L'Italia avrà il suo primo grande Museo dell'ebraismo e della Shoah, e sarà un museo aperto, «un antighetto»: un quartiere di Ferrara dove i cittadini potranno entrare liberamente; un volo di ventidue secoli, dall'arrivo degli ebrei a Roma alla rinascita della comunità dopo la tragedia della persecuzione.
Ne parla al Corriere per la prima volta il presidente, Riccardo Calimani, lo studioso dell'ebraismo alla testa della Fondazione che ha nel consiglio Renzo Gattegna, il presidente dell'Unione delle comunità ebraiche.

I promotori: c'è l'ok del governo, si farà a Ferrara Ricostruiremo le storie dei nostri 8 mila deportati

Al progetto hanno lavorato destra e sinistra: concepito nel 2001 da Alain Elkann e Vittorio Sgarbi, Francesco Rutelli ne ha nominato il cda

E poi Gad Lerner, Antonio Paolucci, Cesare De Seta, Bruno De Santis, Saul Meghnagi, Paolo Ravenna, Michele Sacerdoti. Al progetto hanno lavorato destra e sinistra: concepito nel 2001 da Alain Elkann e Vittorio Sgarbi, proseguito da Francesco Rutelli che ha nominato il consiglio d'amministrazione pochi giorni prima della caduta del governo Prodi. «Ne parlo perché ha appena ricevuto da Gianni Letta l'assicurazione che il Museo si farà — spiega Calimani —. Gli ho parlato con sincerità: "Se la crisi non vi consente di andare avanti, vi capisco". Letta mi ha risposto che proprio la crisi ci impone di guardare al futuro. C'è il pieno sostegno da entrambe le parti politiche, dal ministro Bondi come dal sindaco Pd di Ferrara Sateriale. Io stesso sono un uomo al di fuori degli schieramenti. E c'è un punto forse ancora più importante: questo non è un progetto per gli ebrei; è un progetto per il paese».
«L'idea di fondo è che gli ebrei italiani sono sempre stati molto pochi, ma molto importanti per la storia d'Italia — racconta Calimani —. Anche quando furono demonizzati ed esclusi dalla vita civile, comprese le vessazioni più assurde come il divieto di andare in spiaggia, erano 40 mila su 40 milioni. Oggi sono 25 mila. Ma gli ebrei erano in Italia secoli prima dei Papi. E mi piacerebbe che il Museo cominciasse proprio dalle catacombe ebraiche di Roma: semidistrutte, piene di immondizia, cancellate dalla memoria comune, e non per caso».
Tutto nascerà nell'ex carcere di Ferrara in via Piangipane, uno spazio gigantesco, 13 mila metri quadrati dentro le mura, che dovrebbe diventare una specie di porta della città; con una galleria dove passare senza biglietto d'ingresso, ascoltando musica ebraica, composizioni popolari spagnole, classici di Bloch e Mendelson Bartholdi. «Un antighetto» dice Calimani. Ora si sta lavorando per togliere l'amianto dall'edificio. L'ambizione è inaugurare il Museo nel 2011, per i 150 anni dell'unità d'Italia, che segna anche la piena emancipazione degli ebrei.
Ma in qualche modo il Museo è già aperto, grazie alla mostra itinerante di antichi libri ebraici curata dalla nuova istituzione, che il ministero per la Cultura si è impegnato a portare nelle principali città. Il presidente specifica che l'organizzazione del museo è ancora da precisare, e un ruolo decisivo avrà il direttore scientifico Piero Stefani, «uomo impegnato nel mondo cattolico; e anche questo è un segno. Ma alcune linee guida si possono anticipare. «Non sarà solo una raccolta di oggetti. Anche i nazisti a Praga raccolsero argenteria per un “museo della razza estinta”. Sarà un laboratorio culturale. Biblioteca, sala dibattiti. Una parte pedagogica, formativa, e una parte destinata ad alimentare la discussione. La vicenda dell'ebraismo italiano è segnata dalla straordinaria connessione delle radici giudaico- cristiane (penso al sermone della montagna, straordinaria preghiera ebraica entrata nella tradizione cattolica), ma anche dalle contrapposizioni ideologiche, sino alla discussione su Pio XII. Ci trasciniamo dietro una serie di errori che vanno corretti. Si dice: gli ebrei sono sempre stati perseguitati. Un luogo comune che cela una grande insidia: come a dire, qualcosa di male avranno fatto per meritarlo. Invece per secoli agli ebrei italiani non è accaduto nulla. Il segno distintivo da portare sempre addosso è un'imposizione del Concilio del 1215. Il ghetto di Roma è del 1555. Alcuni Papi hanno attaccato gli ebrei, altri li hanno scelti come medici personali: perché grazie ai contatti internazionali erano all'avanguardia nella scienza medica, e perché curavano il corpo e non l'anima. Si parla di antisemitismo eterno, a sottintendere una componente metafisica indistruttibile.
Ma l'antisemitismo nasce con connotazione razziale alla fine dell'800, al termine del secolo del positivismo e del romanticismo, e diventa un'arma politica del tutto distinta dall'antigiudaismo. Tutto questo andrà spiegato e documentato».
Calimani pensa a sezioni dedicate alle comunità storiche, con le loro differenze: Venezia, «dove gli ebrei furono accettati in quanto utili e non furono mai espulsi sino all'occupazione nazista», Ferrara e Livorno contraddistinte dalla tolleranza di duchi e granduchi, e Roma «dove i Papi si sono attenuti alla dottrina di sant'Agostino, per cui gli ebrei non dovevano essere uccisi ma conculcati: da qui le preghiere forzose dei catecumeni e le altre vessazioni durate secoli». E poi le microcomunità: da Pitigliano, «la piccola Gerusalemme», a Casale Mon-ferrato, luoghi dove vivevano poche decine di ebrei che però custodivano identità profonde, testimoniate pure dai minuscoli cimiteri ebraici di Conegliano e Vittorio Veneto; «ma penso anche al Sud, alla documentazione che potrà arrivare dalla Calabria, da Ostia antica, da Bagheria dove un gruppo di ebrei marrani è giunto sino ai giorni nostri».
Altre sale saranno dedicate alla tradizione religiosa e ai riti: nascita, circoncisione, matrimoni, funerali. Ci sarà una sezione antropologica, dall'arte alla cucina. E ci sarà, ovviamente, la sezione della Shoah.
Dice Calimani: «Racconteremo le storie di chi è stato perseguitato nel passato, anche per far sì che in futuro non sia perseguitato più nessuno. Ricostruiremo la vicenda degli ottomila ebrei italiani deportati: un numero relativamente piccolo nel complesso della Shoah; ma una grande tragedia per il paese. I migliori specialisti saranno messi nella condizione di lavorare in piena libertà: anche perché nessuno pretende di avere il privilegio del primato della sofferenza. E' giusto testimoniare l'uccisione di centomila handicappati prima ancora dello scoppio della guerra, così come l'infame persecuzione dei rom, che anche dopo la guerra non hanno avuto voce. Si comincia con gli ebrei, in una prospettiva forte che non si ferma al mondo ebraico» conclude Calimani, enunciando un'idea destinata a far discutere. E ricorrendo a una metafora: «Sono rimasto turbato dal silenzio che ha accompagnato nei giorni scorsi una notizia straordinaria, come il salvataggio di 650 naufraghi grazie ai pescatori di Mazara del Vallo. Siamo al punto che non viene più considerata una buona notizia. Io dico: forse è giusto rimpatriarli; ma certo era giusto salvarli, anziché lasciare che fossero sommersi». E la questione di Pio XII, come sarà affrontata? «C'è un dato di fatto inequivocabile: tacque. Ciò non può essere negato da nessuno. Per il resto, ognuno farà i conti con la propria coscienza: non saranno permesse strumentalizzazioni di alcun tipo».

Corriere della Sera 14.12.08
Studi e ricerche sulla Grande guerra
La matrice unica di lager e gulag
di Frediano Sessi


C'è più attenzione verso gli aspetti esistenziali nell'esperienza dei combattenti

È convinzione comune di molti storici che la Prima guerra mondiale rappresenti il momento fondatore delle pratiche di genocidio del XX secolo. «Nata come una classica guerra interstatale — sostiene Enzo Traverso — nella quale si sarebbero naturalmente dovute applicare le regole del diritto internazionale, riconoscendo cioè nel nemico un justus hostis, essa si trasformò a poco a poco, per l'entità e la dinamica delle forze mobilitate, in un gigantesco massacro». I campi di battaglia, estesi per chilometri e chilometri, diventano così enormi cimiteri. La guerra cambia volto e, agli scontri diretti degli eserciti, si sostituiscono la trincea e la distruzione pianificata di villaggi e città con il conseguente enorme carico di morti e di feriti tra i civili. È in questa fase che sembrano farsi strada una nuova etica e una nuova mentalità in grado di trasformare cittadini rispettabili, padri di famiglia e diligenti lavoratori in assassini senza pietà, al fronte: metamorfosi che verrà in seguito glorificata come servizio alla nazione e missione patriottica. Il nemico si disumanizza e diventa quasi invisibile, nonostante la vicinanza (nascosto nelle trincee o nelle case); e spesso la morte è il prodotto di una «macchina » da guerra: un mostro meccanico (l'aereo bombardiere, il carro, l'artiglieria pesante) o il risultato dell'utilizzo di nuovi ritrovati bellici (gas tossici, lanciafiamme) Anche i campi per i civili, costretti ad abbandonare le loro case e, soprattutto, i campi per i militari prigionieri si moltiplicano e non solo in Europa, a causa della lunga durata del conflitto. E nei campi, la vita diventa un inferno, il prigioniero un uomo di seconda classe, la cui morte non commuove e non desta scalpore, rientrando nel «normale » corso del conflitto. Per esempio, su 600 mila prigionieri di guerra italiani catturati dalle forze nemiche, tra il 1915 e il 1918, circa centomila moriranno di fame, freddo, malattie.
All'origine del primo genocidio del Novecento, quello degli armeni sotto l'impero ottomano, la Grande guerra segna «l'inizio di un imbarbarimento » del modo di concepire i conflitti, che ci appare oggi come una sorta di «laboratorio » delle future violenze dei regimi totalitari. È probabilmente nei suoi campi di battaglia, come scrive Omer Bartov che gli architetti, e gli ideatori della «soluzione finale » conoscono il loro «battesimo di fuoco». Per comprendere e studiare meglio questo snodo della storia europea, la casa editrice Einaudi ci propone una grande opera collettiva in due tomi (edizione italiana a cura di Antonio Gibelli) ideata da Stéphane Audoin- Rouzeau e da Jean-Jacques Becker, La Prima guerra mondiale (primo volume, p. 590, € 75; secondo volume, pp. 790, € 80). Nata all'interno del Centro internazionale di studi di Peronne, l'opera in edizione italiana si avvale di molti contributi nuovi che focalizzano e ampliano il ruolo dell'Italia nel conflitto; tra questi il saggio di Gian Enrico Rusconi sui dilemmi dell'intervento in guerra nel 1915; la puntuale ricostruzione di Nicola Labanca della tragedia di Caporetto; il saggio di Bruna Bianchi su psichiatria e guerra, che affronta le dimensioni di massa che aveva assunto il diffondersi di malattie mentali tra i soldati. L'opera è il frutto di un intreccio molto equilibrato tra l'impostazione tradizionale attenta più all'aspetto militare e politico della guerra, rappresentata qui da uno storico autorevole come Jean-Jacques Becker, e le tendenze impersonate da Stéphane Audoin- Rouzeau, esponente della nuova generazione di ricercatori interessati anche ai lati soggettivi ed esistenziali dell'esperienza dell'orrore e dell'insensatezza della guerra. Si ricostruisce così una «storia dell'umanità offesa, una storia delle identità traumatizzate » e insieme delle culture e delle memorie.

l’Unità 14.12.08
La nuova sinistra stenta
Da Vendola due no a Fava
di Simone Collini


Oltre mille partecipanti all’assemblea “Per la sinistra”, chiedono un nuovo partito
Il leader della minoranza Prc irritato dal forum a l’Unità. «Le liste comuni? Una scorciatoia»

Battaglia dentro Rifondazione su Liberazione. Ferrero: segua la linea della segreteria. I vendoliani: così mettete a rischio la convivenza. Il governatore della Puglia al segretario: «Un partito è uno strumento, non un fine».
La nuova sinistra si porta dietro vizi vecchi. Al teatro Ambra Jovinelli va in scena la presentazione dell’associazione “Per la sinistra”, sponsorizzata da Sd, minoranza Prc, minoranza Pdci e parte dei Verdi. Oltre mille persone riempiono la platea, la galleria e anche la zona pedonale di fronte all’entrata. Ma il tanto entusiasmo nel chiedere di unire le forze e le tante idee che vengono lanciate negli interventi finiscono in secondo piano rispetto ai botta e risposta tra i leader politici presenti (ma non fatti salire sul palco).
Nichi Vendola si rigira tra le mani l’Unità col forum con Claudio Fava e non fa niente per nascondere la sua irritazione. Il governatore della Puglia legge nelle parole del segretario di Sd «una forma di prevaricazione rispetto all’assemblea, che deve proseguire con le primarie delle idee». Soprattutto, al leader della minoranza Prc non è piaciuto il niet di Fava all’ipotesi lanciata da Bertinotti di andare alle europee con un «cartello elettorale» e quell’invito a non fare della nuova sinistra un luogo in cui ostentare l’orgoglio comunista. «Io lo porto con me, non intendo chiuderlo in un archivio», manda a dire Vendola bocciando poi come «scorciatoia politicista» l’idea di tramutare l’associazione in lista elettorale.
Il governatore pugliese deve gestire una fase delicata. Da una parte c’è la pressione di assemblee come quella di ieri, in cui ad un certo punto la platea è scattata in piedi a scandire «par-ti-to par-ti-to», dall’altra c’è una battaglia interna al Prc in cui non si può sbagliare neanche una mossa.
Paolo Ferrero ha fissato la riunione del Comitato politico in contemporanea all’iniziativa all’Ambra Jovinelli. Ieri il segretario di Rifondazione non ha calcato la mano sul fatto che Vendola e i suoi abbiano preferito una riunione esterna a quella del partito (si è limitato a un «sono subalterni al Pd»). Ma oggi presenterà un ordine del giorno in cui si chiede che “Liberazione” segua la linea della segreteria. I vendoliani ne voteranno un altro in cui si dà un avvertimento che suona più o meno così: se viene cacciato Sansonetti entra in crisi la nostra convivenza. Vendola vuole evitare uno showdown prima delle europee, ma sa che una parte dei suoi, come Gennaro Migliore e Patrizia Sentinelli, in caso di un inasprimento potrebbe anche seguire subito il richiamo delle sirene della sinistra unitaria. Per questo Vendola da un lato frena le accelerazioni, dall’altro manda a dire a Ferrero: «Un partito è uno strumento, non un fine. Potevo avere remore a dirlo quando ero nel grande Pci, ma non oggi che sono in un piccolo partito».

l’Unità 14.12.08
Piero Sansonetti «La mia Liberazione serve alla sinistra»
di Natalia Lombardo


Il direttore del quotidiano Prc Non lascio finché non mi mandano via. Non sarà
una tragedia se la sinistra salta il turno europeo

Come trovare, nel bipartitismo, lo spazio per una sinistra radicale autonoma e indipendente?»: è la domanda che pone alla sinistra Piero Sansonetti, direttore di Liberazione.
Claudio Fava boccia l’idea di Vendola su un cartello elettorale per le Europee. Che ne pensa?
«Le europee sono una scadenza di un certo rilievo, ma lo saranno di più le amministrative e le politiche. Certo sarebbe positivo se la sinistra radicale avesse qualche rappresentanza parlamentare, ma se salta un turno non è una tragedia. Non dico che debba puntare tutto sul sociale, ma l’importante è cosa si ha in mente per il dopo. La sinistra radicale deve convincersi che bipartitismo esiste, il problema è come trovare uno spazio organizzato e autonomo. Perché essere un partito dell’1 o 2% che compete con due partiti del 37 e del 57% è di interesse zero per chi vuole fare politica. Devi costruire il tuo futuro dalle condizioni date».
Sa già come?
«Qualche idea ce l’ho, ma oltre questo non vado, per ora».
La partecipazione all’Ambra Jovinelli è un segno di ripresa?
«Vuol dire che nel deserto della sinistra qualcosa sta nascendo, c’è tanta gente vuole fare politica, mentre ognuno è chiuso a guardare il proprio ombelico e parla a se stesso in un delirio autistico».
Ce l’ha con Rifondazione o col Pd?
«Parlo alla sinistra. Ma le due crisi sono connesse, sarebbe assurdo pensare che i destini della sinistra radicale e di quella riformista non siano intrecciati. Bisogna lavorarci.
Se dovesse passare l’ordine del giorno per rimettere in riga Liberazione, lei se ne andrà? Dicono venga a l’Unità come vicedirettore...
«Sto facendo un giornale di sinistra, forse l’unico, con battaglie importanti su grandi temi: i diritti e i salari, i migranti, le libertà anche sessuali e dei comportamenti. Le facciamo anche in supplenza di un partito che sulla politica non esiste più, pensa solo a come essere se stesso. Credo di fare un giornale che serva alla sinistra. Quando mi manderanno via non potrò più farlo, ma finché non mi mandano via continuo così. Non credo che un odg del comitato politico possa cambiare la linea del giornale. Ferrero ha un’indole illiberale verso l’informazione. Io vicedirettore a l’Unità?È del tutto falso».

l’Unità 14.12.08
Giovanni Russo Spena «Un nuovo partito sarebbe una follia»
di Federica Fantozzi


Il dirigente di Rifondazione «Puntiamo a realizzare una confederazione. Da Vendola e Fava un cortocircuito politicista»

Sì a una confederazione delle forze di sinistra ma non a un nuovo partito che superi quelli attuali». Giovanni Russo Spena, ex capogruppo rifondarolo al Senato, è al centro congressi Frentani per il comitato politico del suo partito. Lontano anni luce dalla riunione dell’Ambra Jovinelli: «Non si può tornare indietro a una Sinistra Arcobaleno bonsai».
Si è riunito il comitato politico di Rifondazione. Di cosa discutete?
«La relazione è impostata sulla crisi finanziaria. Serve un’iniziativa di critica alla debolissima azione del governo.
Il secondo punto è il ruolo della Cgil nel rapporto con i movimenti e l’onda studentesca: ha avuto grande coraggio rompendo con Cisl e Uil. Si pone come rappresentante degli interessi sociali e non come inutile sindacato di Stato».
All’Ambra Jovinelli si è riunita l’associazione “Per la sinistra”. Perché non ci siete andati?
«Per noi bisogna ripartire dalla pesantissima sconfitta elettorale elaborando il lutto. La Sinistra Arcobaleno ha perso non solo per la presenza al governo, che certo abbiamo pagato, ma per la mancata lettura dei processi sociali. Dobbiamo tornare nei luoghi della società».
Lo dicono anche Nichi Vendola e Claudio Fava.
«Ci pare che la loro idea sia un corto circuito politicista. Pensano di risolvere un problema mettendo un punto politico. Loro dicono: in alto a sinistra. Noi: in basso a sinistra».
Perché dice no a una linke italiana? Un raggruppamento della sinistra sarebbe un déja-vu rispetto alla Sinistra Arcobaleno?
«Esatto. Diciamo sì a un coordinamento delle forze della sinistra, al lavoro unitario, a un sistema a rete e alla confederazione. Non a un nuovo partito che superi quelli attuali. Sarebbe una sinistra Arcobaleno bonsai: del resto il Pdci ha già detto no, gran parte di Prc non ci starebbe, i Verdi rilanciano il Sole che Ride».
Obiettivi e strategie per le Europee?
«Ne parliamo a gennaio. La collocazione e il sistema di alleanze dipenderanno da questo mese e mezzo di lavoro. Già dopo le elezioni in Abruzzo capiremo qualcosa».
Farà il direttore di “Liberazione”?
«Ho già detto mille volte di no. Preferirei diventare arcivescovo di Canterbury».

Repubblica 14.12.08
In Rifondazione resa dei conti su Sansonetti


ROMA - Paolo Ferrero vuole la testa di Piero Sansonetti, il direttore di Liberazione troppo autonomo. La resa dei conti oggi, nella riunione del Comitato politico nazionale: il segretario presenta un ordine del giorno che è l´anticamera del siluramento. Perché il giornale può essere autonomo ma non fino al punto di sconfessare la nuova linea politica. L´accusa insomma è sempre la stessa: Sansonetti continuerebbe a confezionare un giornale filo-bertinottiano.Una raffica di contestazioni. Il quotidiano ignora Castro, Chavez, i comunisti greci. Paginate riservate alla vittoria di Luxuria all´Isola dei Famosi, silenzio sul convegno della sinistra europea che si svolgeva in contemporanea, con Ferrero e Lafontaine. Sansonetti replica: «Ferrero ha un´idea arcaica della stampa».
L´ala Vendola è pronta a dare battaglia. Stamattina in Cpn - disertato ieri per la nascita della Sinistra, con Fava e la Francescato, ma non i verdi di Bonelli - lancia un contro-ordine del giorno in difesa del direttore. I numeri però, salvo clamorose sorprese, stanno dalla parte del segretario. Per defenestrare Sansonetti comunque bisognerà passare poi attraverso la direzione del partito e il consiglio di amministrazione di Liberazione. Non è detto però che il direttore se ne voglia restare immobile alla scrivania. Se passa l´odg che lo mette in mora, Sansonetti potrebbe essere tentato dall´idea di rimettere il mandato. Ipotesi però che per ora esclude.

il Riformista 14.12.08
Ritorna l'Arcobaleno su Roma. All'Ambra un solo grido: «Partito!»
Rieccoli. I reduci del disastroso cartello elettorale fondano l'Associazione per la Sinistra. Ma già litigano sulle europee. Vietato parlare di scissione a Vendola, ma il traguardo è quello.
di Serenella Mattera


Alla fine ha vinto la speranza. «Speranza di trasformazione contro il capitalismo contemporaneo», certo. Perché è questa la proposta che ha trionfato nelle primarie delle idee. Ma soprattutto la speranza di un nuovo partito della sinistra. Quando Fabrizio, quarantenne di Ancona, ha incitato dal palco ad andare al sodo, a fare un partito e a farlo subito, la platea e il loggione del teatro Ambra Jovinelli sono esplosi: «partito, partito, partito». Avanti così, per qualche minuto. Un messaggio chiarissimo per i dirigenti di Sinistra democratica, dei Verdi, di Rifondazione (area Bertinotti-Vendola) e dei Comunisti italiani (pochi) seduti nelle prime file. Nelle loro parole ancora distinguo e prudenza. Negli applausi e nei discorsi degli aderenti alla neonata Associazione per la sinistra, una convinzione molto chiara: serve un nuovo, possibilmente grande, partito.
"Per me la sinistra è…". È la domanda che ha aperto ieri a Roma le primarie delle idee. Di che si tratta? «Un insieme di persone liberamente aderiscono per costruire un nuovo soggetto politico di sinistra», spiegano. L'intuizione è quella di buttare il cuore, le idee avanti. E sembra un'intuizione felice, a giudicare dall'affluenza all'Ambra Jovinelli. Posti in piedi, calca dentro e fuori. Ci sono quelli delle sezioni di partito, soprattutto. Gente scottata dalle ultime elezioni («La sinistra, adesso, non è, non esiste!» urla una donna dal palco). Ci sono i giovani comunisti e i Verdi, quelli di Sd (i più compatti ed entusiasti), tanti vecchi comunisti e qualche femminista. A loro la parola. Una clessidra a segnare il tempo. Il moderatore Moni Ovadia è severo: tre minuti ciascuno, senza eccezioni. Parlano in 52. Tra di loro, nessun alto dirigente. Unica eccezione, un rappresentante della Linke, la sinistra tedesca, perché spieghi come hanno fatto ad avere successo. Per il resto, nessun politico di professione. Lo si è deciso per dare un segnale forte, o, secondo un'interpretazione più maligna, per evitare imbarazzi. Perché le idee, tra i dirigenti, non sono ancora così chiare.
L'Associazione per la sinistra, che si è riunita ieri per la prima volta a livello nazionale, è nata da un'iniziativa della Sinistra democratica, della minoranza di Rifondazione comunista che fa capo a Nichi Vendola (incluso Bertinotti, che non era presente) e di una parte dei Verdi (Paolo Cento su tutti). Nelle prime file del teatro romano si sono visti in tanti. Vendola, Giordano, Migliore (Prc), Fava e Mussi (Sd), Katia Bellillo (Pdci), Grazia Francescato (Verdi). C'erano, tra gli altri, Achille Occhetto, Giuliana Sgrena, Giuliano Giuliani, Piero Sansonetti.
Quindi? Un nuovo partito? Le cose non sono così semplici. Lo si è visto fin da ieri mattina, con un botta e risposta tra Fava e Vendola. Il segretario di Sd in un'intervista a L'Unità ha bocciato l'idea di un cartello elettorale per le europee tra le forze della sinistra, proposto invece dal presidente della Puglia. E nel pomeriggio è tornato a bollarla come «un'idea riduttiva». Vendola, «stupito», ha spiegato che il cartello sarebbe un modo per «mettere al riparo dalla nostra diversità la parola sinistra». Insomma: prendiamoci tutto il tempo per costruire un soggetto nuovo e intanto affrontiamo le europee con un cartello. E Rifondazione, che proprio ieri, assente Vendola, riuniva il comitato politico? «Il partito non è una chiesa - ha detto il governatore pugliese - Potevo avere delle reticenze quando era grande e si chiamava Pci, non ora che è piccolo e sbanda. Mi prendo la libertà di essere comunista».
Ma, a tirare le somme, niente risposte. Quelli di Sd sono i più entusiasti sostenitori della costituente di un nuovo partito. Chiedono tempo e un processo che parta dalle idee, quelli della corrente vendoliana del Prc. Sono spaccati i Verdi. «La gente è molto più avanti - ha riassunto Sergio Baiocchi, sezione Sd Garbatella - Io e molti miei compagni, la maggior parte di quelli che sono qui oggi, siamo convinti che si debba fare velocemente un nuovo partito. Chi ci sta, ci sta».

Corriere della Sera 14.12.08
Via libera alla pillola abortiva «Il governo non può fermarla»
Il sottosegretario Roccella: ormai l'agenzia ha detto sì
di Margherita De Bac


ROMA — E' in arrivo la Ru486, la cosiddetta pillola abortiva.
In settimana l'Agenzia del farmaco (Aifa) potrebbe dare il via libera definitivo.
Secondo il sottosegretario al Welfare, Eugenia Roccella, «il governo non può fermarla».
Restano da stabilire il prezzo e le modalità di prescrizione: ci sarà l'obbligo di almeno un giorno di ricovero

ROMA — È questione di poco tempo l'introduzione in Italia della Ru486, la pillola abortiva. Questa settimana il Consiglio di amministrazione del-l'Aifa, l'Agenzia del farmaco, potrebbe dare il via libera definitivo alla pasticca che ha consentito a milioni di donne in tutto il mondo di interrompere la gravidanza senza entrare in sala operatoria. E il governo non può fare niente, ammette Eugenia Roccella, sottosegretario al Welfare. Questo perché la pillola di fatto aveva già ricevuto il passaporto lo scorso febbraio, autorizzata per procedura di mutuo riconoscimento dal comitato tecnico scientifico dell'Aifa durante il governo di Romano Prodi. Il comitato allora presieduto dall'ex capo dell'Agenzia, Nello Martini, aveva espresso parere favorevole giudicando positivo il rapporto costi-benefici purché il suo impiego fosse coerente con la 194 e fosse previsto solo in ambito ospedaliero.
Il meccanismo si è messo in moto e il prodotto è all'ordine del giorno della riunione di fine d'anno del Cda dell'Aifa: «Arrivati a questo punto, non ci sono motivi per dire di no», dicono le persone bene informate sui lavori dell'organismo da cui dipende il prontuario terapeutico del nostro Paese.
«Noi non possiamo fare più niente per bloccare un farmaco che a nostro parere espone a molti rischi. Ma è una truffa dire alle donne che è sicuro e che rende l'aborto facile», contesta Eugenia Roccella, impegnata a denunciare con Assuntina Morresi (ora sua collaboratrice al ministero) i pericoli della Ru486. «Poi questo farmaco ha ancora molti lati oscuri. Ha provocato almeno 16 morti», sottolinea. «E verrà somministrata in ospedale solo in teoria. Nella pratica le donne firmeranno il registro delle dimissioni e torneranno a casa, senza neppure una notte di ricovero, come è avvenuto nel 90% delle volte nel corso della sperimentazione a Torino. E questo è un rischio», aggiunge il sottosegretario.
Dunque l'arrivo in commercio della famigerata pillola a base di una sostanza, il mifepristone, che «blocca il nutrimento » dell'embrione, è ormai una questione di settimane. La ditta francese che la produce, l'Exelgyn, ha già trovato l'azienda cui appoggiarsi in Italia per distribuirla. Restano da stabilire solo il prezzo e le modalità di prescrizione. La Ru486 potrà essere data solo in ospedale e con obbligo di almeno un giorno di ricovero. Non sarà un farmaco da portare a casa, lontane dal controllo medico.
L'unica motivazione che l'Aifa potrebbe avanzare per rimandare il via libera e rinviare le inevitabili polemiche da parte del mondo cattolico (soltanto l'altro giorno il Papa ha rinnovato la sua condanna) sarebbe di carattere economico. Ma sarebbe un arrampicarsi sugli specchi. Eugenia Roccella però vuole continuare la sua battaglia: «Le donne devono sapere che l'aborto chimico non è una passeggiata».

Repubblica 14.12.08
Gli incubi del sogno cinese
di Federico Rampini


Il 18 dicembre 1978, per volontà del leader di allora Deng Xiaoping, il partito comunista introdusse degli incentivi di guadagno per i contadini più produttivi. Fu l´inizio del sommovimento epocale che ha portato la Cina ai vertici dell´economia mondiale. Trent´anni dopo, però, l´anniversario è amaro: il boom appare minacciato dalla crisi globale
Prima di oggi il gigante asiatico era stato al riparo dagli effetti dei cicli economici negativi
"Non avremmo mai immaginato tanto benessere Ma sarà lo stesso per i nostri figli?"

Wang Shan era un giovane medico di 22 anni, Yang Yin un´infermiera di 19, quando si presentarono all´ufficio matrimoniale nella loro cittadina dello Hunan. Ciascuno aveva in mano la lettera della «unità di lavoro», la cellula del partito comunista che li autorizzava a sposarsi. Nessun fotografo, niente abito da sposa. «Con un salario di 30 yuan (3 euro) al mese - dice Wang - il banchetto nuziale fu una distribuzione di caramelle ai colleghi di lavoro. Per avere un letto matrimoniale dovetti prendere in prestito una brandina dell´ospedale». Il sogno della giovane coppia? «Un futuro radioso per noi voleva dire poterci comprare una bicicletta, una macchina da cucire; forse perfino un orologio da polso, e il lusso estremo di una radiolina a transistor», ricorda Yang. Era una vigilia d´inverno di trent´anni fa. Wang e Yang non potevano sapere che il giorno stesso delle loro nozze nei palazzi del potere di Pechino maturava una decisione che avrebbe cambiato il resto della loro vita, il loro orizzonte e i loro sogni, consegnando a generazioni di figli e nipoti una Cina irriconoscibile.
La data: 18 dicembre 1978. Quel giorno, alla terza sessione plenaria dell´11esimo Comitato centrale del partito comunista, il leader Deng Xiaoping presentava una mozione di cui pochi capirono la portata. Una modesta riforma: così sembrava, nel tipico stile gradualista e prudente di Deng. Raccomandava ai villaggi agricoli di introdurre un sistema di «responsabilità» - è la definizione sibillina del testo ufficiale - per legare il guadagno dei contadini alla produttività dei loro raccolti individuali. Era l´inizio della contro-rivoluzione. L´abbandono dell´egualitarismo maoista. Il primo germe dell´economia di mercato, introdotto alla chetichella nell´immenso corpo indolente della Cina rurale, il gigante addormentato del Terzo mondo. Il virus del guadagno, iniettato a centinaia di milioni di contadini, in pochi anni fece crescere i raccolti a livelli mai visti, affrancando per sempre la Repubblica popolare dal flagello delle carestie. Di lì a poco Deng avrebbe varato un esperimento ancora più importante, creando le «zone economiche speciali» nella regione meridionale del Guangdong. Erano porti franchi aperti agli investimenti stranieri, su cui si lanciarono per primi gli scaltri capitalisti cinesi d´oltremare, da Hong Kong e Taiwan. L´inizio del prodigio industriale cinese.
Da quel Plenum del partito comunista di trent´anni fa parte una catena di eventi che ha cambiato il destino di un miliardo di persone e la storia del mondo. Ha stravolto le gerarchie tra le nazioni, ha disegnato la fisionomia della globalizzazione. La sorte ora gioca uno scherzo crudele a questo anniversario. Per mesi i leader di Pechino avevano curato i preparativi della celebrazione: il secondo grande evento del 2008 dopo le Olimpiadi, per l´iconografia del regime. Ma proprio quando arriva la data fatidica per commemorare i trent´anni di economia di mercato, sulla Repubblica popolare soffia un vento sinistro. Lo spettro di una Grande Depressione è in cima ai pensieri di tutti. Non è aria di festeggiamenti ma di interrogativi angosciosi. Uno domina su tutti: quale sarà il prezzo da pagare per essere balzati ai vertici del capitalismo mondiale? Per una nazione che non ha una vera memoria storica del 1929 (allora la sua economia era troppo decadente e periferica per sentire davvero gli effetti del crac), poi fu isolata a lungo dall´autarchia maoista, questo è il primo impatto veramente drammatico con un rovescio del ciclo economico. Le riflessioni sulla svolta storica di trent´anni fa assumono di colpo un tono diverso. Dai racconti sul "come eravamo" affiora una curiosità nuova, la voglia di riscoprire esperienze sepolte nel passato dei genitori e dei nonni, ricordi di privazioni, rinunce, miserie quotidiane.
Yu Manxiang oggi ha 58 anni, è infermiera all´ospedale Ruijin di Shanghai. La figlia di Yu compiva due anni alla vigilia delle riforme di Deng Xiaoping. «Nel 1978 - ricorda Yu - avevamo ancora la tessera del razionamento alimentare. Un chilo di uova al mese, nemmeno un uovo al giorno per la mia bambina. Il diritto a una bottiglia di latte quotidiana era scaduto al compimento del suo primo anno. Vivevamo in un appartamento diviso tra più famiglie, in un caseggiato popolare senza accesso alle fognature. Ogni mattina facevamo i turni per pulire la latrina collettiva. Anche l´unico rubinetto dell´acqua corrente dovevamo usarlo a turno». Sua figlia Zhou Zhuxin si è sposata nel 28esimo anniversario delle nozze dei genitori. Per il banchetto si è fatta truccare da un celebre coiffeur-stilista; ha affittato un salone privato in un hotel a cinque stelle, con orchestra e piattaforma da ballo liscio; un cameraman professionale ha prodotto un dvd dell´evento come omaggio per tutti gli ospiti. I giovani sposi, laureati e dipendenti di multinazionali straniere, si sono trasferiti in un appartamento di 150 metri quadri che all´epoca dei genitori avrebbe ospitato cinque famiglie. La mamma della sposa insieme alla gioia sente un velo d´inquietudine: «Quando eravamo giovani non avremmo mai immaginato tanto benessere. Quello che è accaduto in trent´anni è andato ben oltre i nostri sogni. Ma sarà lo stesso per questi ragazzi?».
Xue Deyu ha 64 anni. Nel 1978 lavorava come impiegata per un´azienda farmaceutica di Shanghai, salario 40 yuan al mese (quattro euro). Ricorda gli acciacchi di quegli inverni. «Quando si avvicinava il Capodanno lunare - racconta - scattava l´ansia di fare provviste alimentari con settimane di anticipo, visto che mancava tutto. Chi arrivava ultimo al mercato poteva restare a mani vuote. Perciò si organizzavano file notturne davanti al negozio di quartiere, lunghe code per essere pronti a scattare il mattino, e quando apriva la saracinesca era un parapiglia, liti e risse. Faceva talmente freddo durante quelle attese che al Capodanno arrivavamo regolarmente ammalati». Da quel momento in poi, la sua storia è una ricostruzione esemplare del formidabile boom economico innescato da Deng. Nel 1984 Xue e il marito sono promossi manager in riconoscimento dei loro studi (durante gli anni del radicalismo maoista, al contrario, le competenze erano un demerito e una causa di persecuzione). Lo stesso anno comprano il loro primo televisore in bianco e nero. Nel 1986 il primo frigo. Nell´88 la tv a colori, nel ?92 il telefono individuale in casa e la prima motocicletta del marito.
È una storia qualunque. È moltiplicandola per centinaia di milioni che si capisce l´eccezionalità di questo trentennio. L´epoca in cui il "pianeta delle biciclette" ha lasciato il posto alle megalopoli futuristiche di Pechino e Shanghai, capitali di un mercato automobilistico da 15 milioni di vetture. Da quel fatidico Plenum comunista del 1978, per trent´anni di fila la nazione più popolosa del pianeta si è lanciata in una corsa fenomenale. Una crescita economica che non ha precedenti nella storia umana: in media 9 per cento di aumento del Prodotto interno lordo all´anno. Il reddito pro capite dei suoi abitanti è decuplicato. Trecento milioni di persone hanno varcato la soglia della povertà e hanno avuto accesso a un benessere moderno. Questa Cina che ce l´ha fatta è la più vasta "middle class" del pianeta, grande quanto tutta la popolazione americana. E lo stereotipo del "capitalismo autoritario" - semplificazione in voga in Occidente - non rende l´idea dell´esplosione di libertà individuali così come la percepisce il ceto medio cinese. Oggi nessuno per sposarsi deve presentare la lettera della cellula comunista; neanche per avere il passaporto e andare all´estero. Il dinamismo, la velocità del cambiamento, la fiducia nel futuro hanno fatto della popolazione cinese la più ottimista del mondo, in tutti i sondaggi internazionali degli ultimi anni. La parabola fantastica che in trent´anni ha portato la Cina dall´1 per cento del Pil planetario (un nano irrilevante all´epoca della svolta di Deng) fino alla sfida con gli Stati Uniti per il primato mondiale, ora incontra il suo primo serio incidente di percorso. Più grave forse perfino del massacro di Tienanmen, che schiacciò nel sangue il sogno democratico di una minoranza.
Oggi le ombre della recessione si estendono sulla Cina tutta intera, un miliardo e trecento milioni di persone. Nella sola provincia del Guangdong, proprio quella dove Deng inaugurò le sue «zone economiche speciali» trent´anni fa, hanno chiuso per bancarotta 67.000 fabbriche. Le boom-city che furono gli avamposti della nuova frontiera, Canton e Shenzhen, sono le prime a subire il crollo delle esportazioni verso l´Occidente. La velocità con cui si propaga la crisi ha colto tutti di sorpresa. Ancora all´inizio di quest´anno la Repubblica popolare era l´Eldorado di Airbus e Boeing: la febbre del turismo faceva esplodere il traffico passeggeri; la settimana scorsa il governo ha ordinato a tutte le compagnie aeree di cancellare gli acquisti già prenotati di nuovi apparecchi. Dall´automobile all´elettronica, dal cemento all´acciaio, ogni industria è in stato di choc. Il calo degli ordini dall´Europa e dall´America ha un effetto moltiplicatore sui consumatori cinesi, che in preda alla paura smettono di spendere a loro volta.
Un´impresa che va a gonfie vele invece sono le ferrovie dello Stato. «Ogni giorno - ha detto un capostazione dello Hunan - arrivano treni stracolmi di operai licenziati dalle fabbriche, tornano qui nelle campagne che avevano abbandonato». È l´inizio di un contro-esodo di massa? Commenta cinicamente un dirigente della banca centrale: «Il nostro unico Welfare State è l´agricoltura: chi perde il lavoro torna a lavorare la terra». Per questi immigranti di ritorno è la fine del grande sogno cinese. Circolano stime semi-segrete che fanno rabbrividire i leader di Pechino: l´anno prossimo il ritmo di crescita potrebbe dimezzarsi. Dall´11,7 per cento di aumento del Pil nel 2007 si rischia di scendere al 6, uno sviluppo insufficiente per creare i venti milioni di posti di lavoro necessari a impedire un´epidemia di disoccupazione di massa.
Proprio come nel 1929 e alla fine di tutte le "bolle" speculative occidentali, anche in Cina gli scandali accompagnano i segni premonitori del disastro. Huang Guangyu, il fondatore dell´impero elettronico Gome, in vetta alla top ten dei miliardari cinesi, è nelle mani della polizia incriminato per una serie di reati finanziari. A Pechino e Shanghai l´unica professione che conosce un successo inaspettato è quella degli psicologi. È una figura sconosciuta nella tradizione cinese, che preferisce l´erboristeria tradizionale, i saggi buddisti o i chiromanti. Ma la paura di una Grande Depressione si accompagna alla depressione minuscola, malattia moderna che si diffonde tra i giovani colletti bianchi delle grandi città.
I discendenti di Deng avvertono il rischio che si stia chiudendo una fase gloriosa, il Trentennio Dorato. Il presidente Hu Jintao ha dichiarato che questa crisi «mette alla prova la capacità di governo del partito comunista». Sono parole inconsuete, tradiscono l´insicurezza del regime che ha gestito il più audace esperimento capitalistico del XX secolo. Per ora Hu non mette in discussione le scelte fatte da Deng in quel dicembre del 1978. Nessuno la evoca apertamente, ma traspare in alcune frange del partito e dell´opinione pubblica la tentazione di innalzare una nuova muraglia cinese, di denunciare la crisi come un complotto americano, di tornare a forme di protezionismo per isolarsi dal contagio dell´Occidente. Ma se si spezza il sogno che ha tenuto unito questo popolo, e gli ha dato la forza di compiere imprese inaudite, nessuno sa veramente che cosa può accadere dopo.

sabato 13 dicembre 2008

l’Unità 13.12.08
Anna Ingrao. La musica dei versi
In libreria una raccolta inedita di poesie
Anticipiamo l’introduzione scritta dal fratello Pietro
di Pietro Ingrao


L’autrice aveva partecipato alla stagione del neofemminismo

Chi erano? Chi li muoveva? Non so dire quante volte, frugando nella memoria, ho ripercorso il cammino che - nel cuore dell’Ottocento - aveva condotto i miei avi siciliani, di nome Ingrao, a risalire dall’estremo lembo dell’Isola, sino a incontrare quel paesello sperduto, Lenola, sito proprio al confine tra la Campania e il regno papalino. Venivano, quegli Ingrao, da Grotte, paese di contadini e zolfatari; facevano parte del ceto abbiente, ma con Mazzini e con Garibaldi si erano ribellati prima al pesante dominio dei Borboni, e poi - con una trama di cospirazioni segrete - anche al regno di Vittorio Emanuele, penetrato nel Sud d’Italia con l’iniziativa garibaldina e mazziniana, ma presto divenuto da liberatore oppressore.
L’amore segreto
In seguito fu il più anziano dei due Ingrao il primo a abbandonare l’isola di Napoli, divenuto centro di irrequieta ricerca culturale e di eresie politiche. Poi da Napoli approdò a Lenola, un paesotto di confine, dove iniziò a fare il medico: si sposò ed ebbe una figlia, Marianna. Là braccato dalla polizia crispina - risalendo clandestinamente le terre del Sud - lo raggiunse l’Ingrao più giovane. Tra l’adolescente Marianna di struggente bellezza e il siciliano più giovane nacque presto un amore segreto, di cui tanti anni dopo ritrovammo calde testimonianze. La Sicilia - per quegli Ingrao ormai lenolesi – divenne una lontana terra nativa, da cui giungevano dolci squisiti alla vigilia di Natale. E a Lenola s’insediò quel ramo degli Ingrao in cui nacque e crebbe mia sorella Anna.
I primi anni della sua giovinezza furono ombrosi e schivi. Poi venne improvviso un grande amore con Ubaldo Boccia, un giovane magistrato, severo d’indole e tenace nelle sue passioni. Da quel matrimonio vennero una figliolanza tutta femminile e una comunanza felice tra i due sposi. Poi venne la tragedia fulminante. E fu la morte di Ubaldo.
Fu un evento che segnò un crinale nella vita di Anna. Iniziò da allora un suo amaro interrogarsi sull’esistere. Ed è nella poesia che Anna troverà l’alfabeto e la risonanza necessari per affrontare la perdita ed il dolore. La musica del verso diventò la sua lingua. E la praticò con tenacia trascinando anche i suoi rapporti affettivi e politici. Divenne parte inscindibile del suo femminismo. Anna aveva partecipato, fin dagli inizi, alla straordinaria stagione del neofemminismo in Italia. Con altre donne aveva dato vita all’autogestione del Consultorio di Primavalle, un quartiere popolare di Roma che le era familiare per la forte e radicata presenza del sentire comunista. Là Anna aveva intessuto una comunicazione intensa con alcune donne assieme alle quali costituirà poi uno dei gruppi più significativi del «Centro culturale Virginia Woolf». Nell’attività del Centro trovò sbocco il suo amore per la poesia. Con la lettura dei suoi versi Anna animava i seminari e gli incontri che si svolsero, per lunghi anni, nelle nude stanze dell’ex convento Buon Pastore, allora semi diroccato ed occupato da avanguardie femministe.
Presto da un editore senese, e sotto la cura accorta di Alberto Olivetti, uscirono due testi di Anna: Ospite messaggera e Fiamma e accostamento. Più avanti negli anni venne un fascicolo di nuovi versi, pubblicati soltanto ora dopo la sua morte. Sono testi in cui ogni enfasi è cancellata, e c’è come una nuda innocenza nel cogliere l’immediatezza dell’esperienza umana e il senso generale del vivere. Leggendo oggi quelle strofe asciutte – a volte solo affidate a trascolorazioni improvvise – sembra in crisi la gerarchia degli eventi. Sbiadiscono le superbe cattedrali dei potenti della terra. A volte sembrano cedere di fronte al messaggio breve di una macchia di pervinca.
Forse la tensione più alta si raggiunge in brevissimi testi, dove la passione interiore sgorga dal vissuto quotidiano più nudo: come in quella scarna lirica finale, dove pare cancellata ogni enfasi, consumato ogni clamore. Dice così: Devo preparare la sera/ Al ritorno/ Sarà inverno... E in quei nudi versi il vivere umano sembra raccogliersi in quell’impallidire serale dell’ora. Poi venne il precipitare improvviso verso la morte che colse Anna nel suo paese natio e la portò via dalla terra quasi in modo fulminante.

l’Unità 13.12.08
Elementari, trappola Gelmini:
«Sì al tempo pieno con due insegnanti. Però ne pago uno»
L’Onda a Roma
di Luciana Cimino


Intervento del ministro al Tg1. «Saranno i genitori a scegliere se tenere i bambini in classe 24, 27, 30 o 40 ore». Ieri mattina a Roma corteo insieme al sindacato. Berlusconi: nessun dietrofront, solo un errore di comunicazione.

Il passaggio televisivo in prima serata del ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini provoca più di un brivido. Ad insegnanti elementari e ai genitori. Dal prossimo anno le famiglie potranno scegliere tra il maestro unico o prevalente e il tempo pieno con due insegnanti, ma in quest’ultimo caso «per ogni ora di lezione - ha detto la Gelmini in un’intervista al Tg1 - verrà pagato un solo insegnante». Il ministro ha confermato che i genitori «potranno scegliere le 24 ore se preferiranno tenere i figli a scuola solo il mattino oppure le 27, le 30 o anche le 40 ore. È chiaro che in quel caso il maestro sarà prevalente, verrà affiancato da un insegnante che andrà a completare il quadro orario ma preciso che per ogni ora di lezione verrà pagato un solo insegnante».

La giornata
Nonostante il maltempo che ha imperversato sulla Capitale, nonostante gli inviti del sindaco Alemanno a non uscire di casa, l’Onda si conta dopo il dietrofront della Gelmini sulle superiori. E, nel giorno dello sciopero generale indetto dalla Cgil, i conti tornano. «Siamo 10 mila», gridano dalla testa del corteo partito in mattinata da piazzale Aldo Moro. In mezzo anche studenti, docenti e genitori del coordinamento “Non rubateci il futuro”. Rimbalzano lontane le parole del premier e quelle del ministro. «Non è cambiato nulla» ha detto ieri Berlusconi, innescando il solito refrain dell’«errore di comunicazione». Idem la Gelmini: «Il nostro progetto di scuola non è cambiato, è la sinistra che fa retromarcia».

I dietrofront
«Questa è una risposta di massa a chi ci voleva stanchi e disorientati dopo un autunno di manifestazioni», commenta Giacomo dal corteo, che studia Lettere alla Sapienza, mentre sul Colosseo viene affisso uno striscione con la scritta “No 133”. Sfila accanto ai lavoratori, l’Onda, ma non assieme a loro. «Abbiamo volutamente intercettato i due cortei; siamo autonomi, non separati», affermano. La necessità è quella di «condividere la nostra protesta con i settori non inerenti alla scuola», spiega Alice del Dams e Giorgio Sestili, del collettivo di Fisica aggiunge, «siamo scesi in piazza oggi per parlare con tutti, perché solo una forte alleanza sociale tra studenti e lavoratori può creare un’opposizione, visto che in parlamento non c’è» . E poi ribadisce, «in questo momento l’opposizione al governo è l’Onda con i genitori dei bambini». Nessuno canta ancora vittoria per il rinvio della legge deciso giovedì dal ministro.

La protesta
Arrivati davanti al ministero dell’Istruzione viene lanciato qualche uovo in direzione del massiccio cordone di forze dell’ordine, e poi dal megafono, parte l’appello ai poliziotti: «dovete stare dalle nostra parte, nelle scuole ci sono i vostri figli!». Uno studente inglese prende la parola, «la nostra protesta attraversa tutta l’Europa, lottiamo per un mondo migliore in Germania, in Italia e in Francia, contro gente come Sarkozy e Berlusconi ». E durante la manifestazione diversi sono stati gli omaggi per Alexis, il quindicenne greco ucciso dalla polizia qualche giorno fa, e per Vito Scafidi, morto per il crollo del controsoffitto della sua scuola.

Repubblica 13.12.08
La "destra normale" in un volumetto Reset
Sogni e profezie di Vittorio Foa
di Simonetta Fiori


Non c´è stato niente di rituale nell´omaggio reso a Vittorio Foa in occasione della sua scomparsa. Un tributo di pensieri e affetti originato da un bisogno diffuso di riferimenti morali. Un "bisogno di esempi", ha sintetizzato il suo amico Pietro Marcenaro nella cerimonia di commiato. Quel che di lui rimane - più che un corpus teorico di respiro gramsciano - è un´indicazione di metodo, sempre più preziosa nell´attuale tormenta politica e culturale. Anche il volumetto che gli dedica ora "Reset" - Una destra normale e altri sogni - restituisce questa singolare vocazione nell´evitare le strade più ovvie e prevedibili.
Un´occasione per esercitare l´eroico talento fu, alla metà degli anni Novanta, l´immissione nella democrazia italiana di una forza politica erede del fascismo. Quel fascismo contro cui aveva sacrificato la giovinezza. La sua mossa del cavallo, anche in quella circostanza, consistette nello spiazzare gli antifascisti più convinti. Tra questi figurava Furio Colombo (suo interlocutore nel dialogo del 1995 riproposto da "Reset"), che ora ricorda: «Al mio tagliar corto, che giudicava un po´ prefabbricato, Foa mi invitava a cambiare percorso. Questo il suo messaggio: lo sguardo fermo, fisso su un punto del passato, fa perdere troppe cose importanti, peggiori o migliori, tra tutto ciò che sta capitando adesso, in tempo reale. Questa perdita è anche un rischio, perché ti pietrifica in un punto fermo, proprio quando hai bisogno dell´agilità per cogliere sequenze di eventi mentre accadono».
L´immobilizzarsi verso il passato ti impedisce di cogliere le novità del presente. Inclusi i suoi pericoli. Il pericolo, per Foa, non era tanto nella possibilità di riproporsi del fascismo storico - che pur aveva avuto i suoi adoratori in alcune delle personalità pubbliche che occupavano le istituzioni democratiche. Il pericolo vero era avvistato in Berlusconi e in quel fenomeno che Foa già nel '95 definiva «berlusconismo»: «la deresponsabilizzazione», «l´azzeramento delle coscienze», «il pastrocchio dolciastro della pubblicità usata come strumento della politica». Qui era davvero in gioco il principio della libertà - stella polare della sua lunga militanza, come annota Michele Salvati in altre pagine del volume. Era il linguaggio di Berlusconi, più che quello di Fini, a evocargli la memoria del fascismo. Una preoccupazione manifestata con lucidità mite, senza enfasi catastrofista. Tredici anni dopo, quello della «destra normale» è ancora un sogno. Il resto, invece, profezia.

Repubblica 13.12.08
A colloquio con lo psicoanalista Stefano Bolognini
Dentro le paure della crisi economica
di Luciana Sica


Un convegno a Roma sul trauma "Nei nostri pazienti notiamo un calo di energie, un plafond comune di sfiducia profonda e di assenza di prospettive certe"

ROMA. Feriti dall´ansia, sempre più fragili e minacciati, spaventati da un futuro che sembra digrignare i denti, attraversiamo l´epoca del "traumatismo diffuso". Sullo sfondo c´è da tempo quello che gli psicoanalisti definiscono "un contesto di morte" - le mattanze dei terroristi, le malattie, le guerre, le catastrofi climatiche - ma ora c´è di più e più da vicino: c´è la recessione economica trainata da una tempesta finanziaria globale per molti versi incomprensibile.
Neppure il trauma è più quello di una volta Oggi non è soltanto un accidenti isolato che può capitare nella vita di tutti. Oggi assume forme e proporzioni diverse, si presenta con il volto di un dolore muto, scarsamente arginabile che rende opachi, mesti, inespressivi: più poveri, anche mentalmente. Sulla versione intimistica della crisi interroghiamo Stefano Bolognini, "didatta" della Società psicoanalitica, tra i pochissimi italiani a ricoprire incarichi di rilievo nell´Ipa (l´International Psychoanalytical Association fondata da Freud nel 1910). Autore di più saggi pubblicati da Bollati Boringhieri - il più recente s´intitola Passaggi segreti -, Bolognini è tra i relatori di un convegno su "L´impronta del trauma" in programma a Roma oggi e domani (via Salaria, 113): l´introduzione - affidata a Patrizia Cupelloni - incoraggia gli studiosi freudiani a misurare i modelli teorici classici con varianti inedite di sofferenza psichica.
L´intervista con Bolognini tratta comunque un tema inedito e piuttosto irrituale per lo stesso pensiero psicoanalitico. Eppure la stanza dell´analisi sembrerebbe un osservatorio privilegiato di questo periodo buio che crea inquietudini e anche incubi.
La crisi si percepisce sul lettino?
«Fu nel ´29 che si parlò della Grande Depressione, due parole appropriate per indicare quella drammatica crisi economica che sconvolse il mondo. La stessa espressione può essere riproposta oggi, ottant´anni dopo, in termini anche psicologici: depressione è, certo, parola tra le più abusate, ma senza dubbio nei nostri pazienti c´è un plafond comune di sfiducia profondissima, di assenza di ogni sana vitalità, di senso della prospettiva, c´è un calo verticale di energie... In questa fase sono gli aspetti mortiferi che si rafforzano e tendono a rivoltarsi o contro chi li vive o anche contro gli "altri", producendo un´ondata decisamente aggressiva nelle relazioni umane. Il sentimento profondo della paura crea una frana della coscienza di sé, mentre si accumulano le tonalità più oscure dell´umore, una specie di malmostosità, di nero di seppia, che monta e diventa sempre più pervasiva... Naturalmente, nel lavoro clinico, le vicende pubbliche vengono ovattate o anche smorzate da quelle più private: la visione razionale e realistica delle cose è condita da tutta una coloritura soggettiva che risente dei propri ideali, delle proprie aspettative rispetto a se stessi, del proprio senso del dovere...».
Le preoccupazioni di ordine economico si sono intensificate nei sogni, nel modo in cui vengono raccontati - indipendentemente da ogni implicazione inconscia?
«Non si colgono tanto nel materiale onirico, è piuttosto nella mente sveglia dei pazienti che compaiono le ansie legate alla crisi: nei resoconti verbali e soprattutto attraverso gli stati d´animo, le coloriture generali del discorso, i toni dell´umore...».
Il traumatismo debordante sospinge un po´ tutti a vivere nella penombra?
«Sì, ma può anche suscitare delle difese che noi analisti definiamo di tipo maniacale, vale a dire basate sull´eccitamento, sul completo diniego del dolore, sulla ricerca di un "altrove" salvifico. Un po´ come nel Re Leone, ricorda?, quando il leoncino - dopo la morte del padre e l´inaridimento della vallata in cui vivevano tutti felici e contenti - se ne va in un luogo "altro" dove con due buffi animaletti canta e balla continuamente. In una condizione maniacale, appunto... Ora sembra proprio che le nostre scene pubbliche condivise alternino la tragedia traumatica con l´eccitamento scintillante quanto vuoto, come se lo sforzo di tollerare la realtà non si potesse accompagnare con l´approvvigionarsi di "cose buone", facendo appello alle proprie risorse interne e contando all´esterno su qualcosa di positivo che possa sostenere».
Esiste pur sempre la "pulsione di vita"... Un sostegno può arrivare da quelle che voi analisti definite le "figure ispirative", ma trova davvero che in giro ce ne siano molte?
«Più di quanto si possa immaginare - sono le persone con cui possiamo entrare in un contatto non formale ma emotivo, che consentono uno sviluppo di sentimenti e di fantasie, di fiducia e di rinascita della speranza. Ce ne sono... Anche se noto come i sentimenti depressivi di molti miei pazienti siano sempre più accompagnati da un´impressione di impotenza dei propri equivalenti genitoriali o anche fraterni: i propri "maestri", magari i capi, i referenti professionali o le stesse istituzioni come il sindacato».
Sempre le vittime provano un sentimento di vergogna senza colpa, e naturalmente questo vale anche per le vittime della crisi economica. Chi ha perso o rischia di perdere il lavoro si sente più sfortunato o più inetto?
«Si sente proprio colpevole. Tenga conto che qui siamo in presenza di un trauma così destrutturante che spazza via ogni equilibrio precedente. Chi ne è colpito, ha una grande difficoltà a dare un senso al suo dolore e tende ad attribuirsi la responsabilità di quanto sta vivendo, imputandola alle proprie personali incapacità o insufficienze, agli errori compiuti nel corso della vita - mentre invece il fenomeno è davvero collettivo e va ben oltre le forze del singolo».

Corriere della Sera 13.12.08
Il Quirinale. Il presidente prende spunto dalla tutela del patrimonio storico e ambientale per difendere la Carta
Costituzione, l'altolà di Napolitano «Principi basilari fuori discussione»
Il capo dello Stato: soluzioni da condividere nell'interesse generale
di M. Br.


L'invito a usare cautela nelle modifiche alla carta costituzionale e il richiamo a evitare il muro contro muro

ROMA — «I principi fondamentali della Carta costituzionale sono fuori discussione», indisponibili, «e nessuno può pensare di modificarli o alterarli ». Dopo giorni di polemiche innescate dalla questione giustizia e rinforzate poi dall'annuncio del premier Berlusconi di voler metter mano alla Costituzione anche senza cercare una preventiva intesa con il centrosinistra, il capo dello Stato lancia un richiamo che suona rivolto anzitutto alle forze di governo, ma anche erga omnes.
Lo fa con un intervento a braccio, ricevendo al Quirinale i membri del Fai guidati da Giulia Maria Crespi, che pone a lui e al ministro Sandro Bondi «l'assoluta necessità di considerare il patrimonio storico, ambientale e culturale come una delle carte decisive» di cui l'Italia dispone per affermare il suo profilo e il suo peso nell'Europa e nel mondo.
Un obbligo di tutela che non a caso è sancito dalla nostra Magna Carta, all'articolo 9. Vale a dire appunto nella prima parte di quello che è il patto fondativo della democrazia repubblicana: una grammatica di doveri e diritti che per Giorgio Napolitano non è assolutamente lecito considerare in prescrizione. Né ora né mai, come sostiene una da tempo acquisita serie di eminenti pareri, che fanno giurisprudenza istituzionale.
Ma anche sulla smania di ritoccare le altre «voci» che compongono il documento, il presidente invita alla cautela. «Per quanto si discuta — argomento complicato — su cosa è possibile o opportuno modificare e cosa no della Costituzione, certamente quei princìpi fondamentali sono e restano fuori discussione», ripete. I nuovi ingegneri istituzionali dovrebbero insomma ispirarsi alla massima cautela e soprattutto alla ricerca di soluzioni il più larghe possibile e quindi condivise, «nell'interesse generale». Oltretutto l'esperienza dimostra che, quando si è voluto a ogni costo procedere a modifiche approvate a colpi di maggioranza, quelle stesse modifiche non hanno poi retto all'esame dell'approvazione popolare. Com'è accaduto per la vasta riforma votata dal centrodestra nel precedente esecutivo e sonoramente bocciata da un successivo referendum. Una lezione di cui sembra aver fatto tesoro in particolare la Lega, impegnata oggi (e quasi in solitudine nel Pdl) a cercare convergenze con l'opposizione sul federalismo fiscale che sta tanto a cuore a Umberto Bossi.
È forse maturato su questi umori l'ultimo appello di Napolitano, mutuato dallo stesso articolo 138 della Carta (laddove indica i modi per procedere a una revisione) ed evocato più volte in pubblici interventi dei mesi scorsi. Per esempio, il 18 settembre a Venezia, a poche ore da una minaccia del premier di varare il federalismo seppellendo il confronto con l'opposizione «perché il suo leader è inesistente». Disse allora il capo dello Stato che se «nessuno deve fare un'icona intoccabile» della Costituzione, mitizzandola, allo stesso modo bisogna «non cedere alla retorica del superamento, quasi per limiti d'età» del documento entrato in vigore sessant'anni fa. E concluse che, al di là di vecchi tabù o pretese di nuovismo, se tra le forze del Paese si afferma una «concezione non statica» di quel testo, occorre comunque che si intervenga con «riforme mirate e condivise». Il contrario di quel che si preannuncia in questi giorni, con inevitabili ansie e preoccupazioni di chi della Costituzione è garante.

Corriere della Sera 13.12.08
Nuovo documento La Santa Sede aggiorna la «Donum Vitae» del 1987
Il Vaticano e gli embrioni: hanno dignità di persone
«No al congelamento, i figli non sono prodotti da provetta»
di M.A.C.


Condannati i metodi contraccettivi come la pillola del giorno dopo per la quale si commette «peccato di aborto»

ROMA — L'embrione umano non è una muffa, come pure è stato sostenuto, ma «ha fin dall'inizio la dignità propria della persona». È la prima volta che lo afferma un documento dottrinario della Chiesa Cattolica, l'Istruzione della Congregazione per la dottrina della fede «Dignitas personae», pubblicata ieri.
Il documento, approvato dal Papa lo scorso giugno, in una quarantina di pagine aggiorna la «Donum vitae» del 1987 nel cui testo la questione se l'embrione fosse o no una persona era rimasta sospesa per «non impegnarsi espressamente su un'affermazione di indole filosofica ». Passati vent'anni e a causa degli stessi progressi della scienza, l'ex Sant'Uffizio, ha osservato il segretario della Congregazione, Luis Ladaria, è giunto a un passo dal «dire che l'embrione è persona». Ma, ha aggiunto monsignor Rino Fisichella, presidente del pontificio Consiglio per la vita «il dibattito filosofico è ancora complesso e ha conseguenze anche nell'ambito giuridico» nei vari ordinamenti in tutto il mondo. «Dato il carattere dottrinale di questo documento — ha detto — non si può entrare nel dibattito, ma viene ribadito che l'embrione ha una dignità tipica della persona umana». Da questo riconoscimento, il documento fa discendere una serie di restrizioni: si afferma che «il desiderio di un figlio non può giustificarne la produzione, così come il desiderio di non avere un figlio già concepito non può giustificarne l'abbandono o la distruzione », con riferimento al congelamento degli embrioni e ai metodi contraccettivi come la pillola del giorno dopo, per la quale si commette «peccato di aborto».
Quella degli embrioni viene definita «una situazione di ingiustizia di fatto irreparabile». Per essi «non si intravede una via d'uscita moralmente lecita». No anche all'«adozione degli embrioni» voluta dal Movimento per la vita.

Corriere della Sera 13.12.08
Dibattito a Milano con Stefania Craxi, Bertinotti e Cicchitto
I carri di Praga '68 dividono ancora
di Elisabetta Soglio


Come riassume Fausto Bertinotti, «questo dibattito fa muovere le viscere». C'è tanto cuore, ci sono passione, rancori e pezzi di vita nelle parole dei relatori che ieri a Milano, chiamati dalla Fondazione Craxi, hanno concluso la Conferenza internazionale dedicata a «La primavera di Praga, 40 anni dopo». C'è la veemenza di Stefania Craxi, che insiste: «In quell'epoca, i comunisti italiani stavano con i carrarmati sovietici. Noi, i socialisti, stavamo con la libertà e da quel momento fu rottura. Oggi, mi piacerebbe sentir dire non solo che in quegli anni sono stati commessi degli errori dalla sinistra, ma che c'era una sinistra che aveva ragione». C'è l'onestà intellettuale di Fausto Bertinotti, che difende il fatto che «quello della Primavera di Praga non era un sogno ingenuo perché aveva alle spalle un gruppo dirigente solido», ma ammette che «la Primavera di Praga è stata abbandonata da quelli che l'avrebbero potuta aiutare», che è stata «una scelta tragica non avere rotto con l'Unione Sovietica » e che «il movimento studentesco mondiale del '68 aveva preso lucciole per lanterne». C'è la rabbia di Fabrizio Cicchitto «perché io, che sono notoriamente filoisraeliano, posso dire che si ricorda la Shoah, giustamente, ma ci si è completamente dimenticati del gulag».
E ci sono tanti episodi di come era stato quel '68. Durante il quale, come ribadisce il vicedirettore del «Corriere», Pierluigi Battista, «a nessuno, anche nelle università, importava nulla della Primavera di Praga e non a caso né allora né dopo si sono mai viste T-shirt con la faccia di Jan Palach». Non è tutto: ricorda Battista che quando uscì con Mondadori (non con Sugarco come cerca di rivendicare Stefania Craxi, perdendo una scommessa pubblica) Arcipelago Gulag di Aleksandr Solženicyn, «ci furono pochissime recensioni e il libro non ottenne il successo che qualcuno si aspettava». Sempre nel '68, il vicepresidente del Parlamento europeo Mario Mauro aveva 9 anni «e avevo in casa 18 ragazzi slovacchi che erano stati ospitati in un campo estivo del Gargano, raccolti da un prete bolognese di Gioventù Studentesca. Il movimento che, proprio dopo il '68 e non a caso, avrebbe cambiato il nome diventando Comunione e Liberazione».
Tanti ricordi e tanti punti di vista tra i quali cerca di mettere ordine il giornalista del «Corriere», Dario Fertilio, incalzando i relatori: «I carrarmati sono andati via da Praga — accusa Mauro — ma non hanno lasciato le coscienze di parte della sinistra europea. E non è un caso che siamo nel 2008, sono trascorsi 40 anni, ma il Parlamento europeo non ha ancora approvato una risoluzione sulla Primavera di Praga». È la tesi con cui chiude Stefania Craxi: «Anche da noi, la sinistra non ha ancora il coraggio di ammettere che mentre loro chiudevano le porte ai perseguitati politici dell'Est, Bettino Craxi ospitava Jiri Pelikán e spalancava le braccia a chiunque fosse stato privato della propria libertà, cileno, portoghese, ecuadoregno, slovacco o russo che fosse». Quarant'anni dopo, ancora politica, rabbia e passione.

il Riformista 13.12.08
Oggi Vendola va a vivere da solo e forse affitta dalle parti di Veltroni
Fu arcobaleno. Nasce il partito virtuale "Per la sinistra" (mezzo Prc, Sd e un po' di Verdi). Il Pd guarda con attenzione.
di Enrica Belli


Venticinque lettere più uno. La riscrittura della sinistra e la possibilità di una nuova edizione aggiornata e corretta del centrosinistra (si vedrà poi se col trattino o senza) potrebbe passare da un questionario a forma di alfabeto. Se lo troveranno davanti oggi all'Ambra Jovinelli di Roma i partecipanti alla prima assemblea di "Per la sinistra", l'associazione che raccoglie la minoranza di Rifondazione capeggiata da Nichi Vendola e benedetta da Fausto Bertinotti, la Sinistra democratica di Mussi e Fava e una parte dei Verdi, Paolo Cento in testa.
L'attenzione alla manifestazione va oltre l'appuntamento in sé, oltre le scissioni di un'area politica in terremoto costante. Per intrecciarsi con il destino del Partito democratico, dove la tregua siglata da Walter Veltroni e Massimo D'Alema non rassicura su esiti e scenari futuri. I simpatizzanti e aderenti del nuovo soggetto politico rosso o rosso-verde avranno mano libera nel decidere attraverso il loro questionario le caratteristiche di quello che si preannuncia come un costituendo partito, preludio alla spaccatura del Prc di Paolo Ferrero. A ogni lettera del questionario è accoppiata una frase. E se Veltroni potesse votare, probabilmente segnerebbe la lettera "s" con quel «la sinistra non ha paura» che suona un po' come l'obamiano "yes, we can". Ma il segretario non ci sarà e difficilmente farà capolino nel teatro romano qualche altro leader democratico, perché anche se di scissione nei fatti si tratta, quella di oggi ha ancora le forme della virtualità. E i colori netti di un'identità scomoda: «Io sono e resto comunista», risponde Gennaro Migliore a chi gli chiede se è pronto al grande salto. «Lavoriamo a un nuovo progetto, ma autonomo». Insomma la loro non è, assicura, una «strategia di confluenza», seppur molto lenta, nel Pd.
Eppure è certo che con i democratici c'è un'attenzione reciproca, con tutto il Pd pronto a tendere la mano. È infatti vero che D'Alema nei giorni scorsi ha ripetuto a Veltroni che sulle alleanze bisogna fare «una scelta», ma sull'ipotesi di un rapporto più stretto con una parte della sinistra attuale, Ferrero escluso, tra i due «non c'è una vera e propria divaricazione». Secondo il veltroniano Stefano Ceccanti, non è in discussione l'utilità di un collegamento con quel mondo: «a cambiare nelle due idee di partito che si confrontano sono invece gli schemi». L'opzione preferenziale per il leader di Red sarebbe quella di un partito radicato a sinistra che fa alleanze con il centro, con un'Udc magari rimpolpata da qualche ex margheritino. Mentre Veltroni non vuole mollare sull'idea di un «partito a vocazione maggioritaria», alleato al centro e a sinistra con chi ne condivida il programma.
Per adesso però è Bertinotti a frenare. L'ex presidente della Camera oggi non sarà all'Ambra Jovinelli, ma mercoledì sera ha riunito i suoi in un albergo romano suggerendo prudenza. Potrebbe prefigurarsi per il gruppo una strategia in due tempi: ci sono le europee alle porte che «non devono diventare un guaio» per la sinistra; il momento della divisione e della costruzione vera e propria di un nuovo partito verrà poi. Un nuovo fronte di lotta interna al partito di Ferrero però potrebbe iniziare già oggi, con la riunione del comitato politico nazionale. All'ordine del giorno non c'è ancora, formalmente, una discussione su Liberazione di Piero Sansonetti, accusato di troppa poca ortodossia con la linea della maggioranza. Ma qualcuno potrebbe tirare fuori la questione e chiedere un voto nella giornata di domenica. Se il caso dovesse scoppiare, con la richiesta di allontanamento del direttore, forse la minoranza potrebbe anche cambiare tattica e decidersi alla guerra.

l’Unità 13.12.08
«Facciamo tornare la sinistra ma no a cartelli elettorali»
all’Unità un incontro con Claudio Fava


Il segretario di Sd in redazione alla vigilia dell’assemblea dell’Associazione per la sinistra. «È l’inizio di un processo che si misurerà con le elezioni europee e le amministrative di primavera». I rapporti col Pd e quelli con Di Pietro, lo sciopero e l’opposizione.

Molte mail che riceviamo chiedono se c’è ancora la possibilità di unire la sinistra: onorevole Fava, cosa risponde a questi lettori?
«Non so se questa unità sia effettivamente un vantaggio, una risorsa. Il rischio è di sovrapporre progetti e ambizioni diverse, letture diverse di questo Paese. C’è chi sostiene che il risultato di aprile vada affrontato riproponendo con forza le proprie identità, storie, tradizioni e simboli. Io credo invece che si debba sì lavorare sull’eredità del secolo scorso, ma rielaborando culture politiche e categorie. Altrimenti noi parleremmo un linguaggio e il Paese reale un altro».
Quindi esclude una lista unitaria alle europee sul modello della Sinistra arcobaleno?
«Non sono più proponibili cartelli elettorali di tutta la sinistra. Il risultato delle politiche deriva dal fatto che si coglieva qualche elemento di finzione nel processo dell’Arcobaleno e anche qualche aspetto liturgico, notarile. E non è che ora possiamo ripresentarci dal notaio, cambiare l’ordine delle firme e riprodurre lo stesso contratto. Anche perché questo è un Paese che già di contratti, in politica, ne ha subiti parecchi».
Tuttavia molte mail criticano i tentennamenti nel processo unitario e il fatto che a sinistra ognuno difenda il suo piccolissimo orticello, quasi un’aiuola bonsai.
«Ma io sottoscrivo queste mail. E noi ci stiamo muovendo proprio per tornare a parlare di una sinistra che sia un sostantivo e non una filiera di aggettivi. C’è chi vorrebbe che la sinistra fosse un repertorio di aggettivi, come socialista, ambientalista e comunista, perdendo di vista che il Paese non ci chiede il repertorio degli aggettivi del secolo passato. Il punto è costruire un’altra idea di sinistra. E in quest’ottica un nuovo partito della sinistra è il punto di arrivo. Sapendo che dentro questa idea non ci sarà spazio per l’orgoglio comunista. Non è dicendoti comunista, esibendo questo orgoglio, che riesci a ottenere ascolto e a parlare a un Paese che è sofferente sul piano dei bisogni materiali».
Dunque come vi presenterete alle europee?
«Domani (oggi, ndr) presenteremo l’associazione “Per la sinistra”. E il nostro impegno è dare uno sbocco elettorale al progetto che mettiamo in campo. Vedremo chi sarà disponibile a starci subito dentro da protagonista, il punto è partire. Se in questo momento la tattica prevale sulla generosità rischiamo di essere spazzati via dalla storia. Generosità vuol dire non guardare al pallottoliere, ma far partire un processo che di qui alle elezioni deve fare politica, sporcarsi le mani, a partire dai temi del lavoro e della questione morale. In modo che il simbolo che apparirà sulla scheda elettorale significhi qualcosa, non rappresenti solo dei gruppi dirigenti che si applaudono a vicenda, come è accaduto nel dicembre dell’anno scorso con la nascita dell’Arcobaleno. La sinistra avrà senso se saprà essere il cemento di ciò che sta accadendo nei luoghi periferici del Paese, dalle fabbriche ai consigli comunali, dalle scuole alle università. Peppino Impastato, nei “Cento passi”, dice al segretario del suo partito, citando Majakovskij: “Esci partito dalle tue stanze, torna amico dei ragazzi di strada”».
In concreto cosa farete?
«La costruzione della sinistra avrà i tempi lunghi di una generazione, ma ora è necessario lanciare il cuore oltre il muro, affermare questa urgenza, anche superando una bella parola come unità che rischia di essere vuota. Alle europee porteremo quello che saremo stati in grado di costruire in questi mesi, verificando quando è stato seminato e raccolto».
Quale sinistra intendete unire all’assemblea di domani (oggi, ndr)?
«Una sinistra che ha elaborato il lutto e che non continua a contemplare le macerie del voto di aprile e il proprio ombelico. Quella che attraversiamo oggi è una soglia di non ritorno. Da qui dovrà nascere un nuovo soggetto politico, una nuova sinistra che sceglie di darsi anche delle forme e un lavoro politico diverso. Quella che abbiamo alle spalle è stata una sinistra fatta di gruppi dirigenti molto autoreferenziali, di poca democrazia e partecipazione, di forti esclusioni. Oggi c’è un Paese che ci chiede di tornare a contare, di avere quote di responsabilità e di sovranità. Non a caso l’assemblea prevede tre o quattro interventi di dirigenti politici in senso tradizionale e una quarantina di interventi di persone che stanno costruendo la sinistra nei territori, che si sono prese sulle spalle alcune battaglie che in questo Paese sono ormai orfane, che hanno cominciato a vivere la questione morale non come una questione astratta ma come sopravvivenza politica perché operano in posti come Castel Volturno. Cioè il Paese reale, di cui abbiamo perso il senso».
Comunque darete vita a un nuovo partito?
«La forma partito è ideale se riesci a trasformarla, a farne davvero un luogo di riforma della politica, un luogo di inclusione e partecipazione. Il malessere nei confronti dei partiti dipende dal fatto che sono diventati strumenti di potere, dal modo in cui la politica ha perduto autonomia rispetto ai poteri forti. I “califfati” sono il prodotto di questo. La questione morale si affronta anche portando un’altra qualità del governo nei luoghi in cui si decide e si amministra».
Lei che è parlamentare europeo saprà che in tutta Europa, semplificando, esistono due sinistre: una maggioritaria riformista e di governo e una più radicale e identitaria. Non teme che un esperimento nuovo come quello che vi proponete finisca schiacciato da queste due realtà?
«Io parto da una lettura diversa di questo tempo. C’è sì una sinistra identitaria, quella di Ferrero e Diliberto, e un Pd che ho difficoltà a dire se sia sinistra riformista perché un partito lo definisci sulle scelte che fa. Il Pd, per come è stato costruito, è un partito che non è in condizione di scegliere. Io mi aspetto un partito che dica: sto con la Cisl, non mi piace uno sciopero contro la iella; oppure mi aspetto che il segretario del Pd dica: sto con la Cgil, scendo in piazza perché non si sciopera contro la iella e la crisi ma contro le proposte inadeguate e autoritarie che questo governo sta dando. Quando un segretario non dice, non sceglie, su questo e altri cento temi, ho difficoltà a confrontarmi col quadro delle due sinistre di cui parlava. Quando sento parlare di sinistra riformista e di governo non penso al Pd ma a Zapatero, ai socialisti francesi, a ciò che succede nell’Spd tedesca. E penso che tra 20 anni saremo in condizione di immaginare una sinistra che colleghi capacità di governo e capacità di radicalità. Anche la contrapposizione delle due sinistre è eredità del secolo scorso».
Niente orgoglio comunista, diceva. Quali sono i punti che caratterizzano l’identità della nuova sinistra di cui parlava e che la differenziano dal Pd?
«Noi partecipiamo a questo sciopero perché pensiamo che si è aperto uno scontro senza precedenti sul concetto stesso di lavoro. Allora la prima differenza profonda è che sul tema del lavoro non si può tacere, non si può non scegliere. Secondo punto, la questione morale: si deve decidere se è una questione giudiziaria che va affidata alle procure o se riteniamo che passi attraverso la riforma della politica, attraverso la sua autonomia. Quello che più mi ha impressionato nella vicenda di Firenze non è la comunicazione giudiziaria all’assessore Cioni, ma scoprire che le sue politiche securitarie erano finanziate dal palazzinaro Ligresti. Ecco cosa succede quando la politica è subalterna dei poteri forti. Un terzo punto riguarda la costruzione stessa del processo politico, la partecipazione. Le pratiche democratiche non possono riguardare soltanto l’elezione del leader. Serve la capacità di dare una quota di sovranità alla parte che rappresenti. Un ultimo punto è il modo in cui si fa opposizione. Questo è un governo con cui non costruisci un dialogo ma un confronto, che va portato avanti soltanto nei luoghi istituzionali. Su alcuni terreni questo governo non produce proposte ma smottamenti costituzionali. Sulla giustizia l’intenzione è quella che Berlusconi ogni tanto dichiara in un eccesso di verità: noi vogliamo riformare a spallate la Costituzione materiale di questo Paese e pazienza se perderemo una sana divisione tra poteri e se la giustizia diventerà un’appendice del potere esecutivo».
La sinistra morale, etica, in alcune zone dell’Italia esce clamorosamente sconfitta, ma non ha l’impressione che tutto il Paese sia ormai da un’altra parte?
«È profondamente cambiato il senso comune di questo Paese. Ma sarebbe un errore fatale per la sinistra e per tutte le forze democratiche adeguarsi a questo cambiamento, assecondarlo, che è ciò che fa il centrodestra. Per non adeguarti devi avere il coraggio di fare qualche gesto che costituisca in termini quasi biblici uno “scandalo”. Lo scandalo, con tutta l’amicizia che ho per Vladimir, non è la vittoria all’Isola dei famosi ma il fatto che l’onorevole Cosentino sia il capo del suo partito nella Campania, sia sottosegretario in questo governo e rappresenti organicamente, secondo ciò che dicono senza essere smentiti cinque collaboratori di giustizia, un clan mafioso. Allora, io credo che se dovessi andarmi ad incatenare, per dare senso e rumore alle mie catene io proverei, magari da ministro ombra di Giustizia del Pd, a farlo davanti al ministero dell’Economia dicendo: noi da qui non ce ne andiamo finché non se ne va Cosentino da questo governo. Perché se accetti questo e altri cento piccoli miserabili fatti come questo, Totò Cuffaro continuerà a prendere un milione di voti da siciliani che diranno: è amico dei mafiosi ma a me interessa che riesca a trasformare il bisogno in beneficio».
E secondo lei perché questo accade?
«Perché questo è un Paese che stiamo abituando all’abitudine. Trent’anni fa certe cose erano impensabili, la politica conservava ancora una funzione pedagogica e non si potevano mettere in discussione certi valori. Oggi la politica è gestione, passa dal governo alla sovranità. Le intercettazioni telefoniche di Firenze mostrano una specie di “guicciardinismo” di provincia: barattiamo quote di democrazia in cambio di quote di decisione. Ma è chiaro che su questo terreno Berlusconi ci batte, è più abile di noi a farlo».
Ma perché, visto che siete fuori dal Parlamento e che quindi la vostra capacità di costruire il senso comune e di incidere sui processi politici, non vi incatenate voi davanti al ministero dell’Economia?
«Io ho fatto di peggio. Sono andato sotto casa di Cosentino e dei suoi amici e ho appeso un manifesto con su scritto “La camorra è una montagna di merda”. Cosentino rappresenta i Casalesi al governo e noi l’abbiamo detto a casa sua. Ci saremmo aspettati una reazione da quella parte della destra attenta ai temi della legalità. E invece no: An è entrata nel Pdl e in Campania Cosentino è stato riconfermato come sovrano. Che fine ha fatto la destra dei valori e della legge?».
Cosa pensa della crescita nei sondaggi dell’Italia dei valori?
«È inevitabile che, in un momento come questo per il Pd, ci sia una protesta, una rabbia, una solitudine che trova i suoi spazi per esprimersi. Che possono essere le piazze di Grillo o i voti a Di Pietro, e tra le due cose naturalmente è meglio Di Pietro. C’è un pezzo di paese che è rimasto orfano di una buona politica, ed è un fatto positivo. La crescita di Di Pietro ci fa capire che c’è un paese non incartato, non sedimentato, un Paese in grado di costruire l’Onda, di riprendersi la piazza senza la mediazione dei partiti, capace di trovare nuovi linguaggi. Penso allo slogan “Io non ho paura”: se avesse dovuto inventarselo la politica ci sarebbero voluti anni di seminari. Eppure fotografa perfettamente la finzione, la bugia che sta dentro la parola paura che la destra ha agitato per vincere. E poi ci dice che questi ragazzi non hanno paura di fare politica in prima persona: c’è una vitalità nel Paese e io credo che quando il progetto della Sinistra uscirà dagli uffici studi e diventerà carne viva e una storia da costruire potrà incontrare questa parte di Paese».
Nichi Vendola e altri sostengono che Antonio Di Pietro esprima una cultura di destra. È d’accordo?
«Sì sono d’accordo, infatti quando dico che valuto come un buon segno i suoi consensi è solo nel senso della vitalità che dimostrano. L’idea che ci sia una Italia che non è in rianimazione, che cerca altre strade».
Il caso Firenze: voi proponete che gli indagati non possano partecipare alle primarie di coalizione? Se vincesse l’assessore Cioni, voi lo sosterreste?
«Su Cioni mi sono espresso in tempi non sospetti, quando era solo l’assessore che pensava di affrontare il problema della sicurezza sequestrando le spugnette ai lavavetri: avevo detto che se lui avesse vinto le primarie del Pd noi non lo avremmo sostenuto per ragioni politiche. L’inchiesta in corso conferma il nostro giudizio e lo aggrava, non per i suoi risvolti penali ma per quello che rivela sul piano della conduzione politica. Per questo sarebbe utile che Cioni non fosse presente. Siamo soddisfatti che si facciano primarie di coalizione, perché il meccanismo dei “soci di maggioranza” che decidono e poi gli alleati sono solo degli optional non ci piace affatto».
Parliamo di scuola. Lei elogia il movimento dell’Onda, però anche i partiti di sinistra come il vostro sono stati spiazzati, scavalcati da questi studenti.
«Il movimento ha messo in campo qualcosa di più articolato della difesa della scuola pubblica, la difesa del sapere e della sua autonomia, l’investimento sul sapere come chiave per risolvere la crisi in cui siamo precipitati. Sarkozy, che pure è un conservatore, ha messo a fuoco questa gerarchia di problemi e ha deciso di raddoppiare gli investimenti sul sapere».
Il governo di centrosinistra in Italia non l’ha fatto...
«Credo che sia caduto nei consensi anche per questo: avere deciso di mettere da parte alcuni elementi di forte discontinuità in favore di un intervento centrato sul quadro macroeconomico ha rivelato una grande ingenuità. Questo è un tempo che ha bisogno di gesti simbolici che comunichino con grande forza che si chiude una stagione politica e se ne apre un’altra. Zapatero, che pure non è un estremista socialista in campo economico, ha capito che doveva fare subito dei gesti per dimostrare che lui era qualcosa di diverso da Aznar, anche a costo di mettersi contro la tradizione cattolica della Spagna».
Quali sono i gesti simbolici che lei si aspetterebbe da un nuovo governo di centrosinistra?
«Partirei dal lavoro, dalla necessità di difendere con le unghie e con i denti alcune leggi che sono state soppresse anche se erano a costo zero. Penso alla legge 188 che impedisce ai datori di lavoro di far firmare dimissioni in bianco da una dipendente, nel caso intendesse fare un figlio. Voglio dire che anche il nostro governo ha fatto scelte giuste, altre sono state parcheggiate in attesa di capire come si sarebbe evoluto il quadro politico. E ne abbiamo pagato le conseguenze».
Che futuro vede per una possibile alleanza tra voi, il Pd e l’Italia dei valori di Di Pietro?
«Le alleanze si fanno sul merito. Faccio l’esempio dell’Abruzzo: si è pensato di costruire un’alleanza di centrosinistra, poi si è pensato di allargarla all’Udc, ci si è chiesti se mettere in lista o meno gli indagati perché comunque portano voti. Se questa è l’idea, il risultato è solo una somma di cose diverse e se vinci non cambia niente. Una coalizione funziona se c’è un progetto, una cornice. Io penso che con l’Udc non ci si possa alleare perché abbiamo un’idea diversa del Paese, dei valori. Altrimenti dimostreremmo agli elettori che barattiamo qualità in cambio di voti e loro ci punirebbero. Perderemmo anche in caso di vittoria, come è già accaduto. Dunque il punto è costruire una stessa idea, uno stesso progetto di Paese: per fare questo servono dei paletti, dei no, le differenze non possono essere sempre sfumate, altrimenti vince Cuffaro».
Totò Cuffaro è un po’ la sua bestia nera...
«Lo abbiamo assecondato e preservato, legittimato. Lo abbiamo considerato inamovibile nel suo ruolo di grande dispensatore di denaro pubblico. In Sicilia non siamo mai stati capaci di mettere la questione morale al centro di una mozione di sfiducia, perché era una mossa considerata perdente. Ma intanto avremmo costruito uno scandalo davanti all’opinione pubblica. Se non lo fai il tuo destino è segnato».
Dunque tra voi, il Pd e l’Idv che futuro c’è?
«Più che ragionare in astratto di centrosinistra, bisogna pensare in concreto, a partire da dove governiamo insieme, a una proposta politica comune».
Che spazio vede per l’utopia nella nuova sinistra che volete costruire? Ci sono nuove utopie a cui guardate?
«Trasformare l’esistente è già una forma di utopia. Però questo lo puoi fare dove governi. È lì che dobbiamo scommettere le nostre utopie e che abbiamo perso alcune sfide. In Campania abbiamo perso la sfida perché ci siamo cullati nell’idea di aver costruito la nuova capitale del Mediterraneo, fingendo di non sapere che non c’erano cacicchi ma califfi. La guerra delle tessere dura da 15 anni, ben prima della nascita del Pd, la corrente bassoliniana è composta da 8 sottocorrenti, il sindaco di Salerno e il governatore non si rivolgono la parola da anni. Come fai a costruire utopia in questo modo, senza affrontare la miseria di queste contraddizioni? Eppure la Campania è una terra che ci aveva tutto il consenso necessario perché noi potessimo governare con generosità, invece che costruire filiere di sottogoverno. Eppure sono rimaste solo tribù in lotta tra loro: oggi la politica del Pd in Campania è chi controlla la maggioranza delle 50mila tessere stampate. Ma se la politica è questa che senso ha parlare di utopia?».
La vostra assemblea sarà guidata da Moni Ovadia. Non crede che sia una fuga dalla politica? Vi siete posti il problema di lanciare nuovi leader, di un ricambio generazionale? Finora nel centrosinistra i leader hanno passato molto tempo a farsi la guerra tra loro...
«È vero, ci sono stati troppi poeti morenti... Ma sarebbe inconsueto se ci presentassimo alla prima assemblea lanciando un nuovo leader da acclamare. Ma tra chi interverrà domani (oggi, ndr) ci saranno tanti giovani che possono diventare classe dirigente. Nel partito da cui provengo, avevo più stima di quelli più vecchi di me di 20 anni che di quelli più giovani. Ho visto ragazzi cresciuti come polli in batteria, con i segni di una rassegnazione definitiva, di un apprendimento mnemonico delle cose giuste da dire in una riunione, di come costruire la loro carriera tra una corrente e l’altra. Nell’Onda, invece, vedo una grande capacità di usare un nuovo linguaggio, di dire in modo semplice quello che tutti vorremmo dire. Lì non ci sono “leaderini” imposti, c’è stato un processo di selezione naturale: è quello che stiamo cercando di fare con la Sinistra che nasce domani».

il Riformista 13.12.08
Niente più turisti in coda agli Uffizi: effetto della crisi
di Maria Zipoli


FLESSIONE. Soprattutto i visitatori americani sono in calo, ma non solo. All'Accademia -13%.

Firenze. Si possono visitare gli Uffizi e l'Accademia del David di Michelangelo senza bisogno di sottoporsi a code spesso anche di ore. Buona notizia per gli amanti dell'arte, pessima per i fiorentini perché la mancanza di code nei più famosi musei cittadini è il segno della grave crisi turistica. Soprattutto americani, da sempre i turisti più ambiti da commercianti e ristoratori di Firenze. Rispetto al 2007 si registrano il 6-7 % di presenze in meno per l'intero settore alberghiero e l'1,8 % in meno dell'export verso gli Stati Uniti. Da gennaio a giugno del 2008 tra alberghiero e extralberghiero, c'è stata una flessione netta del 5% rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente.
A patire la crisi sono anche i musei statali di Firenze che nel mese di novembre hanno registrato un calo si presenze assolutamente inatteso. Rispetto al novembre del 2007 il calo di visitatori è stato di 53.401 unità. Quest'anno infatti i visitatori - sempre a novembre - sono stati 258.532 mentre un anno fa oltre 311.000.
E la crisi colpisce soprattutto il più famoso museo, quello degli Uffizi, dove le presenze sono scese da 110 a 98 mila, un calo di oltre il 10%. Giù le presenze anche all'Accademia, dove è esposto lo splendido David di Michelangelo. Le foto delle file di turisti che si allungavano per le vie del centro storico di Firenze sono un pallido ricordo. A novembre anche il David ha patito la crisi con un calo di presenze di oltre il 13%.

il Riformista 13.12.08
Scomparso il grande intellettuale cinese prelevato dalla polizia
Liberate Liu, geniale dissidente rapito dal regime
di Ilaria Maria Sala


Carta 08. Un documento audace che chiede al governo di rispettare i diritti umani e avviare riforme politiche. Liu Xiaobo lo firma insieme ad altri 302. Tutti i firmatari finiscono nel mirino. Lui l'otto dicembre viene portato via. L'eco del suo arresto si rivela però più ampia del previsto. La dissidenza si organizza. E il potere s'inquieta.

Hong Kong. Ancora nessuna notizia ufficiale su Liu Xiaobo, uno dei più famosi intellettuali e dissidenti cinesi, prelevato dalla sua abitazione l'8 dicembre sera dopo la pubblicazione della "Carta 08", un documento di ampio respiro in cui si chiede al governo cinese di rispettare i diritti umani e dare il via a riforme politiche significative. Liu è uno dei redattori e co-firmatari della Carta, insieme ad altri 302 intellettuali, avvocati, giornalisti, uomini d'affari, e perfino contadini.
Liu, di 53 anni, professore di critica letteraria alla Normale di Pechino fino al1989, quando il suo impegno al fianco degli studenti in sciopero lo portò per la prima volta a conoscere il carcere, è uno degli scrittori più significativi della Cina contemporanea, con una grande capacità di dialogare tanto con le correnti cinesi che con quelle internazionali, ed una notevole chiarezza di pensiero e profondità: peccato però che i suoi saggi siano quasi inaccessibili ai suoi compatrioti, dal momento che, censurato in patria, può solo pubblicare su riviste in cinese di Hong Kong o su pubblicazioni straniere - che raggiungono il pubblico cinese più accorto solo tramite un attento scavalcamento delle barriere di censura di Internet.
Da quando dunque Liu è stato portato via dalla polizia - che ha anche sequestrato computer e quaderni, nonché staccato le linee del telefono della casa dove è rimasta la moglie, Liu Xia - la comunità dissidente cinese sta vivendo ore difficili. In primo luogo, perché continuano le incursioni notturne a casa degli altri firmatari, che sono sparsi per tutto il paese. Fra questi, la professoressa di Canton Ai Xiaoming, che insegna Studi cinesi all'università Sun Yatsen ed è autrice di documentari sulle difficoltà dei poveri, è stata portata via dopo che il suo appartamento è stato perquisito e molti documenti sono stati requisiti. Intanto, a Shanghai, l'avvocato di Zhang Enchong, già in difficoltà in passato per aver voluto difendere persone che erano state espulse dalle loro case per fare spazio a progetti edilizi, è stato messo agli arresti domiciliari.
La Carta 08 ha preso in contropiede le autorità cinesi e le forze dell'ordine, dal momento che si tratta non solo di un documento di grande potenza, fatto uscire proprio alla vigilia del sessantesimo anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani delle Nazioni Unite, ma anche perché dà prova di una grande capacità organizzativa, che è riuscita a raggiungere persone in tutto il paese senza essere intercettata dalle autorità - malgrado il sofisticato e capillare sistema di controllo vigente in Cina, dove sia i telefoni, che i messaggi sms, che naturalmente la corrispondenza email sono oggetto di sorveglianza e frequente censura. Non solo: il documento arriva proprio alla vigilia dell'anno di "tutti gli anniversari", per così dire, vissuto con trepidazione dai governanti che sanno di non aver conquistato la fiducia dei loro cittadini. Perché in un paese politicamente chiuso come lo è la Cina, dove gli spazi di dibattito sono angusti, gli anniversari divengono un punto focale, per combattere con la memoria il monopolio governativo sull'informazione.
Il 2009, infatti, è reputato dalle autorità cinesi un anno politicamente "sensibile", in quanto sarà non solo il sessantesimo anniversario della fondazione della Repubblica Popolare Cinese, ma anche il ventesimo anniversario della protesta di Piazza Tiananmen, schiacciata nel sangue, il cinquantesimo anniversario della fuga dal Tibet del Dalai Lama, il trentesimo anniversario della repressione contro il "Muro della Democrazia", che vide Wei Jingsheng chiedere che venissero introdotte, oltre alle riforme economiche, anche delle riforme politiche (Wei è attualmente in esilio negli Stati Uniti), ma anche il novantesimo anniversario della prima significativa protesta di piazza degli studenti cinesi, nel 1919, quando, già allora, in quello che fu in seguito chiamato il "Movimento del 4 Maggio", veniva richiesta democrazia e rigore scientifico.
L'eco dell'arresto di Liu Xiaobo si sta rivelando ampia: da quando è stato portato via, infatti, più di 1200 intellettuali ed attivisti cinesi hanno deciso di firmare una petizione online per richiedere il suo immediato rilascio, pur assistendo al perdurare della repressione nei confronti dei 303 firmatari originali della Carta 08:
«La Carta 08 è significativa, fra le altre cose, perché mostra al governo che, malgrado i suoi sforzi, non tutti gli intellettuali cinesi sono stati cooptati, e che l'aspirazione per i diritti umani e un sistema politico aperto e pluralista resta alta fra molti cinesi», dice Nicholas Bequelin, ricercatore sulla Cina per Human Rights Watch, aggiungendo che la prolungata detenzione di Liu Xiaobo senza un capo d'accusa e senza notificazione alla famiglia è in violazione delle stesse leggi cinesi.

il Riformista 13.12.08
Perché crediamo (non a Darwin)
Creazionismo. È preferito all'evoluzionismo, in America e non solo, perché il nostro cervello è "nato per credere".
di Andrea Valdambrini


La nostra ragione, sostiene Nietzsche, non è eccessivamente razionale. Forse per questo motivo molte persone, soprattutto negli Stati Uniti, preferiscono credere nella storia secondo cui Dio ha creato il mondo piuttosto che accettare la teoria dell'evoluzione.
Perché siamo tutti, in parte o completamente, attratti dalle spiegazioni fantasiose piuttosto che da quelle rigorose? Perché la scienza sembra avere così poco appeal sulla nostra mente?
A queste domande provano a rispondere in Nati per credere lo psicologo cognitivo Vittorio Girotto, il filosofo della scienza Telmo Pievani, e il neuroscienziato cognitivo Giorgio Vallortigara. Da un lato gli autori svelano il motivo per cui il creazionismo risulta più intuitivo del darwinismo, dall'altro propongono di considerare la religione come un fenomeno naturale, un adattamento, effetto dell'evoluzione della specie.
Il cervello, infatti, come una straordinaria macchina che produce credenze, porta spontaneamente a creare senso e ragioni anche dove probabilmente queste mancano.
Attraverso la nostra struttura psichica siamo spontaneamente portati a distinguere tra enti animati e non, e ad attribuire intenzioni e obiettivi perfino alla natura, che come ha svelato Darwin, procede senza prefiggersi scopi, più come un bricolage che come il progetto di un ingegnere.
Gli autori di Nati per credere (V. Girotto, T. Pievani e G. Vallortigara, Nati per credere. Perché il nostro cervello sembra predisposto a fraintendere la teoria di Darwin, Codice, Torino 2008) non esprimono alcun atteggiamento ironico o irridente nei confronti del fenomeno religioso. Preferiscono evidenziare - senza giudizi di condanna o assoluzione - come la tendenza a credere sia un elemento ben connaturato alla mente umana, e per questo perfettamente spiegabile. Se siamo irrazionali, insomma, è anche un po' colpa dell'evoluzione biologica. La quale da parte sua, per quanto possa sembrare paradossale, non ci aiuta affatto a credere nel darwinismo.

Il Mattino 13.12.08
Una ricerca: nel cervello le radici della giurisprudenza
I neuroni di delitto e castigo
di Titti Marrone


Dedicato ai tanti che oggi si accapigliano sulla giustizia nelle sue svariate incarnazioni mediatiche: agli appassionati di plastici della casa di Cogne, di Amanda e Raffaele, a chi ama le divisioni tra innocentisti e colpevolisti ma anche a chi vuole la separazione delle carriere e a chi la considera anticostituzionale, ai magistrati di Salerno intenti ad indagare su quelli di Catanzaro e a quelli di Catanzaro che fanno le pulci ai colleghi di Salerno. Fermi tutti, inutile agitarsi così. C’è una ricerca che dice: il diritto è terreno invitante quanto ostico, ma alla fine a determinarlo è il funzionamento del cervello.
Infatti, secondo uno studio pubblicato su Neuron, la più importante rivista internazionale di neuroscienze, gli esiti finali dei sistemi giudiziari - cioè le leggi che proclamano colpevolezza e pena - affonderebbero le loro radici nel modo di funzionare del cervello umano. Per semplificare, le decisioni da prendere su «delitto» e «castigo» sarebbero da ricondurre a due pulsioni cerebrali differenti: in un’area neurale ci sarebbero gli impulsi preposti a decidere sulla colpevolezza dell’individuo; in un’altra quelli da cui discende la punizione da infliggere. Significa che le leggi pensate per i crimini di varia natura nelle diverse epoche non sarebbero riflesso di processi storici, ma della fisiologia umana. Significa che Cesare Beccaria non aveva capito niente quando definiva le leggi «le condizioni colle quali uomini indipendenti ed isolati si unirono in società, stanchi di vivere in un continuo stato di guerra e desiderosi di godere una libertà resa inutile dall’incertezza di conservarla». Sempre secondo lo studio della rivista Neuron, secoli di filosofia del diritto avrebbero prodotto solo baggianate arrivando a conclusioni del tipo di questa di Trasimaco, citata e fatta propria dal grande Piero Calamandrei in un discorso inedito di recente pubblicazione: «La legge non esiste che come volontà politica di sostenere con la forza una data legge». Ad averci quasi azzeccato sarebbe stato invece Dostoevsky, che nel personaggio di Raskol’nikov, l’assassino di «Delitto e castigo», aveva costruito un’identità scissa tra emotività e ragione molto simile a quella di chi avrebbe dovuto giudicarlo. Di certo avrà pensato al mitico «io diviso» della letteratura russa l’équipe di scienziati della Vanderbilt University di Nashville, Tennessee, quando, dopo aver analizzato un gruppo di volontari, è arrivata alla sua conclusione. Questa: la corteccia dorsolaterale prefrontale destra - la più razionale - è quella che si attiva quando si tratta di decidere sulla colpevolezza di una persona, mobilitandosi intensamente quando c’è la certezza che l’imputato sia colpevole. Quando invece si tratta di stabilire una pena, a prendere il sopravvento è un’altra area neurale, più legata all’emotività, più disposta a considerare eventuali circostanze attenuanti. Ora, la conclusione può apparire convincente se riferita a un singolo soggetto giudicante o anche a un’intera giuria, di quelle che siamo abituati a vedere nei film americani: con la portinaia di colore, il camionista grasso e la smilza single infervorata. Persuade invece assai meno l’ipotesi di spiegare, con una simile ricerca, le radici di secoli di diritto e tradizione giuridica. Interpretarli così significa rinunciare all’idea di cambiare le leggi ingiuste, cioè correre un rischio, quello che alla fine (ancora Trasimaco) la giustizia sia «ciò che giova al più forte». Altro che neuroni.