lunedì 15 dicembre 2008

Corriere della Sera 15.12.08
Ru486 Polemica dopo la notizia del prossimo via libera da parte dell'Agenzia del farmaco. L'Udc: il governo è stato inerte
Pillola abortiva in arrivo, stop del Vaticano
«Uccide esseri innocenti». La Meloni: le donne sappiano che è rischiosa
L'autorizzazione è ora solo un problema tecnico, automatico. L'azienda produttrice ha già i foglietti illustrativi in italiano
Margherita De Bac


Cardinale Barragan: La Ru486 non è tanto innocente La Chiesa condanna tutti gli aborti

ROMA — Lancia l'ennesima scomunica il Vaticano contro la pillola abortiva, tra poco a disposizione degli ospedali italiani. La voce stavolta è del cardinale Javier Lozano Barragan, «ministro per la Salute» della Santa Sede: «La Chiesa cattolica comprende il dramma di una ragazza che suo malgrado si trova incinta, ma condanna l'aborto in qualsiasi forma esso venga praticato perché si uccide un essere innocente. L'embrione è un essere umano con tutti i suoi diritti». Per il cardinale «la Ru rientra tra i farmaci che non sono tanto innocenti». Chi pensava di poterla fermare ha dovuto ricredersi. Già approvata a febbraio sotto il governo di centrosinistra, entrerà a breve in Italia, probabilmente all'inizio del prossimo anno, senza che l'attuale esecutivo possa intervenire. E' una procedura tecnica, automatica.
Dopo l'anticipazione del Corriere conferma il capo dell'agenzia del farmaco (Aifa), Guido Rasi. Domani una riunione del comitato tecnico. Giovedì passaggio in consiglio di amministrazione che potrebbe essere definitivo. L'uso del farmaco sarà vincolato dalle stesse regole della legge 194 sull'aborto. Quindi niente vendita extra ospedaliera. Obbligo di ricovero in day surgery, diurno. Resta valido ovviamente il ricorso all'obiezione di coscienza: «La nostra posizione non cambia — dice Pietro Saccucci, ginecologo obiettore al San Camillo- Forlanini di Roma —. La contrarietà all'aborto non dipende dai mezzi che lo procurano ».
L'azienda produttrice, la francese Exelgyn è pronta: «Già tradotto in italiano il foglietto illustrativo e la confezione — dice l'amministratore delegato Alexandre Lumbroso —. Dal ministero sappiamo che la registrazione avverrà entro la fine dell'anno». Il fatto che l'arrivo del farmaco a base di mifepristone sia inesorabile non indebolisce i contrari. Fanno blocco compatto le donne della destra al governo, in pieno accordo col sottosegretario Eugenia Roccella che per prima ha sollevato il problema della sicurezza. «L'esperienza all'estero ha dimostrato ampi margini di rischio, mancanza di efficacia e complicanze legata ai tentativi di aborto chimico — denuncia il sottosegretario al Welfare, Francesca Martini —. Siamo preoccupati sulle modalità di somministrazione che deve avvenire in linea con la legge 194. Serve informazione. Non è una caramella da prendere a casa. Provoca il distacco dell'embrione dall'utero».
Il ministro della Gioventù Giorgia Meloni mette in guardia le ragazze: «Non è un anticoncezionale. È un'altra cosa. È un farmaco con gravi rischi, interrompe una gravidanza già iniziata. Ogni nuovo strumento per fermare la vita non è una vittoria per nessuno, è anzi una sconfitta sociale». Secondo la Roccella l'aborto con la Ru486 «è difficilmente compatibile con la legge 194. Si torna a una forma di clandestinità legale. Le donne la prenderanno a casa, fuori dal controllo medico ».
A questa visione «terroristica », come lui la definisce, si oppone Silvio Viale, il ginecologo del Sant'Anna di Torino che ha sperimentato il metodo per primo in Italia: «Gli ospedali non sono galere. Non possiamo costringere le pazienti a restare se non vogliono. Le preoccupazioni sulla pericolosità non sono fondate. Gli studi dimostrano la sicurezza. Bisogna tornare in ambulatorio a distanza di 2 giorni dall'assunzione per prenderne una seconda, a base di prostaglandine, che favorisce la definitiva espulsione del feto». Secondo Viale dal 2006 sono stati 4 mila i casi di aborto chimico. Nel 2008 è stato praticato in 28 centri italiani grazie ad un meccanismo di importazione nominale. In pratica il farmaco viene richiesto all'azienda produttrice caso per caso. Di terrorismo psicologico parla anche Silvana Mura, Idv: «Le polemiche sono gratuite. Il governo Prodi ha lavorato nell'interesse della donna che ora avrà un'alternativa alla chirurgia ». Luca Volontè, Udc, esprime «profonda delusione per l'incomprensibile inerzia dell'attuale governo. Una triste vicenda come è stata anche la mancanza di iniziative sulla legge per la procreazione assistita. Coerenza vuole che il ministro Maurizio Sacconi venga attaccato come lo è stata Livia Turco».

Corriere della Sera 15.12.08
Il Papa: non è vicina la fine del mondo


CITTA' DEL VATICANO — «Nessuno può conoscere il momento della venuta del Signore». Quindi, «in guardia da ogni allarmismo, quasi che il ritorno di Cristo fosse imminente». Così ieri papa Benedetto XVI, citando San Paolo, durante l'Angelus in piazza San Pietro ha parlato della fine del mondo. Sono solo degli «allarmismi» ha detto il Pontefice, che ricorrono nella storia dell'umanità, dal tempo di San Paolo: «Già allora la Chiesa, illuminata dallo Spirito Santo, comprendeva sempre meglio che la vicinanza di Dio non è una questione di spazio e di tempo, bensì una questione di amore: l'amore avvicina!». E sempre ieri, c'è stata la tradizionale benedizione dei bambinelli dei presepi degli oratori e delle parrocchie romane, portati in piazza San Pietro dai ragazzi delle scuole. Davanti ad alcune migliaia di persone radunate in piazza San Pietro, Benedetto XVI ha recitato una preghiera di benedizione: «È per me un vero piacere rinnovare la bella tradizione della benedizione dei "bambinelli", le statuette di Gesù bambino da deporre nel presepe». E salutando i bambini degli oratori e delle parrocchie romane nella giornata per la costruzione di nuove chiese a Roma celebrata dalla Diocesi di Roma, Ratzinger ha ricordato: «Negli ultimi anni sono stati realizzati nuovi complessi parrocchiali, ma vi sono ancora comunità che dispongono soltanto di strutture provvisorie inadeguate».

Corriere della Sera 15.12.08
Riforma universitaria e circuito trasversale
Così il Pd può «aiutare» la Gelmini
di Salvatore Vassallo


Caro Direttore, a partire da oggi inizia alla Camera l'esame del cosiddetto «decreto Gelmini» sull'Università, già approvato al Senato. Con le vacanze alle porte e un cumulo di decreti in scadenza, esistono pochi margini, che tuttavia andrebbero sfruttati con grande senso di responsabilità da parte di maggioranza e opposizione, per migliorarne i contenuti e avviare una seria discussione bipartisan sulla riforma del sistema universitario. In questo caso le liturgie barocche del bicameralismo perfetto potrebbero tornare utili.
Che il decreto abbia bisogno di miglioramenti lo ha rilevato anche l'ufficio studi della Camera e lo hanno detto, la scorsa settimana in Commissione cultura, componenti autorevoli dei gruppi Lega Nord e Pdl, i quali hanno segnalato la necessità di sanare quanto meno alcune ambiguità interpretative del testo riguardo ai concorsi, a costo di rinviarlo in terza lettura al Senato. Se questo accadesse, e se i passi indietro sulla politica dei tagli a prescindere fossero un po' meno aleatori, anche il Pd sarebbe indotto a ripensare l'atteggiamento tenuto in prima lettura, dato che il decreto presenta aspetti apprezzabili.
Come era stato chiesto dall'opposizione, vengono accresciuti, ma incomprensibilmente per un solo anno, il fondo per il sostegno alla mobilità degli studenti e quello per le residenze universitarie. Si consente la chiamata diretta, incentivata da sgravi fiscali contenuti in un altro provvedimento, per attrarre ricercatori stranieri o ricercatori italiani che lavorano all' estero. Si introduce il principio per cui una parte dei fondi statali siano assegnati sulla base di indicatori dell'offerta didattica e della produzione scientifica.
Il decreto non toglie il macigno che pesa sui bilanci universitari per il 2010 a causa dei tagli lineari imposti prima con il decreto Ici e poi con la manovra estiva. Al netto di questo problema, tutt'altro che marginale, introduce elementi compatibili con un disegno più ampio di riforma a cui anche il Pd è attivamente interessato. Si consideri che le linee guida sulla riforma universitaria presentate in novembre dal ministro Gelmini hanno parecchi elementi in comune con il decalogo esposto poche settimane prima dal Pd.
D'altro canto uno dei più accreditati collaboratori del ministro, estensore di quelle linee guida, è il professor Alessandro Schiesaro, persona assai competente, che ha collaborato in passato anche con il Pd. E si deve anche considerare che esiste ormai una «policy community» trasversale, una rete fatta di operatori, esperti, politici specializzati in questo settore, alcuni dei quali oggi distribuiti tra Camera e Senato, per lo più ricercatori con qualche esperienza di sistemi universitari stranieri, ben consapevole della sfida che l'Università italiana deve affrontare per rimettersi al passo della comunità scientifica internazionale, per riacquistare il ruolo e il prestigio necessari per un grande paese avanzato come il nostro. C'è consenso, in questo circuito trasversale, ad esempio, sulla necessità di passare da un allocazione delle risorse statali per l'università interamente basata sulla spesa storica ad una che si affida progressivamente alla valutazione della produzione scientifica misurata secondo standard internazionali e della didattica; sulla necessità di ridurre proporzionalmente, nel tempo, il peso dalla spesa per il personale rispetto a quella per il diritto allo studio, investendo di più per i campus e per le borse o anche per crediti d'onore; sulla opportunità di prevedere, accanto a meccanismi tesi a premiare gli atenei in cui si produce ricerca di migliore livello, ve ne siano, al livello decentrato, che consentano di pagare meglio i docenti più operosi. C'è consenso, infine, intorno all'idea che non sarà l'ennesima revisione delle procedure concorsuali a migliorare la selezione del personale accademico, ma solo l'attivazione di efficaci meccanismi competitivi e di emulazione delle sedi più prestigiose, laddove la virtù e il prestigio dovessero cominciare a tradursi anche in maggiori risorse.
Rimane invece un notevole dissenso suoi dati e sulle scelte riguardanti le risorse da destinare complessivamente all'Università e alla ricerca.
Il governo, contrariamente a quanto si ricava dagli studi dell'Ocse, da credito all' interpretazione, veicolata anche da campagne giornalistiche non sempre corrette, secondo cui ci siano margini per risparmiare in un settore in cui fino ad ora si è sperperato. Ma è presumibile che lo stesso ministro, se ha acquisito un po' di esperienza sul campo, sappia che le sue ambizioni riformatrici, se sono sincere, si scontreranno contro questo problema tra appena un anno, quando sarà evidente che è semplicemente impossibile al tempo stesso introdurre meccanismi meritocratici (i quali, per definizione, trasferiscono risorse da certi atenei ad altri) e ridurre le risorse complessivamente allocate al sistema universitario. A quel punto si accorgerà che senza qualche risorsa aggiuntiva, e un largo consenso, le riforme che oggi promette si riveleranno impraticabili.

Corriere della Sera 15.12.08
Severino: non posso dirmi cristiano
Il filosofo smentisce un ritorno alla fede e confuta gli argomenti degli «atei devoti» che conciliano liberalismo e religione
«Una società ispirata al Vangelo è preferibile, ma non basta a risolvere i problemi»
di Armando Torno


Incontriamo Emanuele Severino nella sua casa di Brescia, tra i libri, il pianoforte e le sculture del figlio Federico, artista a suo tempo osteggiato (e apprezzato) da Giovanni Testori. Gli chiediamo se stia andando verso il cristianesimo o se la Chiesa cerchi di riprenderlo tra le sue braccia, giacché non si contano più gli incontri con esponenti della gerarchia cattolica: Rino Fisichella, Piero Coda, Gianfranco Ravasi, inviti alla Gregoriana e alla Lateranense. È in programma a marzo, tra l'altro, un dibattito con il cardinal Angelo Scola: si terrà a Padova per iniziativa del rettore dell'Università. Sembrano passati i tempi del processo a Roma, quando Severino — ordinario alla Cattolica di Milano — affrontò le procedure dell'ex Sant'Uffizio e accettò la discussione delle sue idee. Il definitore dell'istituzione e suo critico era Cornelio Fabro. Lasciò di comune accordo la cattedra, dopo — ricorda — «aver conosciuto da vicino le procedure che caratterizzarono la storia della Controriforma».
Severino, dopo questa divagazione dal sapore galileiano, replica alla domanda di partenza: «Da un po' ci si impegna per mostrarsi vicini alla Chiesa cattolica: "atei devoti" (Ferrara), "Dio, Patria e Famiglia" (Tremonti), "Perché dobbiamo dirci cristiani" (Pera), Gramsci lo si fa morire con i Sacramenti. Con quel che circola, una società che adotti valori cristiani è per noi preferibile, ma le preferenze non risolvono i problemi dell'uomo. Da vent'anni indico la possibilità di un'islamizzazione dell'Europa e da altrettanto tempo anche l'opportunità di più stretti rapporti tra Europa e Russia (ora è una tesi di Berlusconi), giacché nelle radici cristiane dell'Occidente c'è anche il mondo ortodosso. La Chiesa cattolica non lo sottovaluti».
Chiediamo allora a Severino come si sta muovendo il suo discorso rispetto al cristianesimo. «I miei scritti — risponde — hanno via via mostrato le implicazioni di ciò che in essi è chiamato "destino della verità", ovvero l'assolutamente innegabile che appare in ogni uomo anche quando è lontanissimo dal rendersene conto. Ma in quello che andavo scrivendo si è presto fatto avanti questo ulteriore tratto: il "destino" è la negazione più radicale di tutto ciò di cui l'uomo si è reso conto, anche del cristianesimo, e di ogni critica rivoltagli». Ricordiamo a Severino, dopo queste precisazioni, che fu proprio con il cristianesimo che si sviluppò la sua polemica. Sottolinea: «Da quando la Chiesa ed io ci siamo trovati d'accordo nel riconoscere l'essenziale inconciliabilità delle nostre due posizioni, tale accordo non è venuto più meno. Rimane tuttavia la possibilità che, sottratto all'alienazione da cui è avvolta la storia dell'uomo, qualche tratto del cristianesimo si costituisca, nello sguardo del "destino", come un problema autentico ». D'altra parte, «l'uomo è "destinato" a una gioia infinitamente più profonda di quella promessa dal cristianesimo».
Inevitabile ricordare a Severino che quanto egli chiama «accordo» lo si discute molto e una serie di scritti si sta chiedendo quale sia l'effettivo rapporto tra questo filosofo e il cristianesimo. «Sì, è vero», ammette. E precisa: «Ci sono ora gli ampi saggi di Leonardo Messinese, Ines Testoni, Umberto Soncini e Massimo Donà, di grande valore. Ma non è finita perché accanto a queste ricerche sono nate le considerazioni di Carlo Arata e dell'indimenticabile Italo Valent. E di Franco Volpi, Sergio Givone, Umberto Galimberti, Luigi Tarca, Andrea Tagliapietra, Romano Gasparotti, Giorgio Brianese, Eugenio Mazzarella, Romano Madera, Davide Spanio, Francesco Totaro, Pietro Barcellona, Natalino Irti... ». Una pausa e Severino aggiunge: «Inoltre Giulio Goggi — taccio i numerosi altri che la tirannia dello spazio mi impedisce di citare — sta discutendo il ventennale dialogo che ebbi con Gustavo Bontadini, mio maestro ed eminente figura della filosofia cattolica».
Non può sfuggire il fatto che Messinese sia sacerdote e professore alla Pontificia Università Lateranense. Severino aggiunge: «Egli intende tener fermo il modo in cui nei miei primi scritti viene affermata l'eternità dell'essere, e mi segue nella tesi che il processo dell'uscire dal nulla, e il ritornarvi, da parte delle cose, non è un contenuto immediato dell'esperienza, un "dato" evidente, ma una teoria, ed essenzialmente falsa. Tuttavia l'"accordo" finisce qui, perché quello di Messinese è un tentativo, originale, di reintrodurre il concetto metafisico e cristiano di "creazione"». Una pausa e un affondo: «Un tentativo di altissimo livello, anche se creazione e annientamento degli enti rimangono qualcosa di impossibile: intendendo l'atto creativo come eterno — in modo che le cose stesse, in esso, sono eterne — tale atto in Dio è libero e quindi sarebbe potuto rimanere un nulla, lasciando quindi nel nulla anche le cose creabili». E ancora: «Il clima di Messinese converge con quanto scrivono Piero Coda, Giuseppe Barzaghi e Pierangelo Sequeri, teologi e sacerdoti; oppure Carlo Scilironi. Ravvisano in quanto dico qualcosa da cui la fede cristiana non può prescindere». La tradizione occidentale include anche il neoplatonismo, «centrale — sottolinea Severino — per la cultura cristiana». E precisa: «Su di esso si fonda pure il poderoso volume di Massimo Donà, che è un implicito invito — da tempo mi giunge anche da Massimo Cacciari e Vincenzo Vitiello — ad andare oltre le categorie del "destino della verità", verso l'Altro, ma che da queste categorie è inevitabilmente avvolto e sorretto ».
Certo, ci viene da aggiungere che il recente libro di Marcello Pera, lodato dal Pontefice, afferma la creazione divina del mondo... «E mette insieme — continua la frase Severino — il modo in cui la creazione è affermata dall'antimetafisico Kant e dal metafisico Locke, e il modo in cui Kant e Locke condannano il suicidio, e tante altre cose che insieme non possono stare». Una pausa e il nostro interlocutore precisa: «Pera sostiene la solidarietà tra cristianesimo e liberalismo. Quest'ultima ideologia è per lui una "fede" nell'esistenza di Dio, creatore, della "legge naturale", dei "diritti naturali", della "verità" e della "moralità" universali. Ma poi ritiene che la "fede" liberale sia quella parte della ragione umana che è autonoma rispetto alla ragione scientifica: riduce a semplice fede quei contenuti che la filosofia della tradizione ha invece pensato con grande potenza concettuale e con l'intento di mostrarne l'assoluta incontrovertibilità. Confonde la fede nell'esistenza della verità universale con la verità universale, la fede nella ragione con la ragione. È interessante che di queste confusioni Benedetto XVI lodi la "logica inconfutabile", la "sobria razionalità", l'"ampia informazione filosofica" eccetera eccetera».
A questo punto non possiamo esimerci dal chiedere se per Severino il nemico autentico del cristianesimo, all'interno della storia dell'Occidente, sia l'essenza del pensiero del nostro tempo. «È molto originale — risponde— a proposito di questo nemico il saggio di Ines Testoni, direttrice del Master "Studi sulla morte e il morire" dell'Università di Padova. In esso è posto in rilevo che l'apparire di quella forma emergente di linguaggio, che è la testimonianza del "destino della verità", è di per se stesso una rivoluzione politica, per la quale la storia non può procedere secondo le previsioni dell'Occidente. E ciò avviene anche se tale testimonianza è contrastata dalle forze interessate a tenere in vita il pessimismo (e l'alienazione) essenziale della nostra civiltà: la convinzione che le cose e l'uomo, in quanto tali, siano nulla e che occorrano delle forze (divine, naturali, umane) per farli essere».
C'è un'ultima questione nata dal nostro incontro che sottoponiamo a Severino: a partire da Abbagnano si sottolinea spesso la relazione tra il pensiero di Hegel e il suo. «Sì — risponde — il rapporto tra "destino" e cristianesimo è a tema anche nel recente e penetrante volume di Umberto Soncini che, appunto, lo accosta attraverso un serrato confronto tra la concezione hegeliana del fondamento e la mia». Soncini, del resto, mette in luce l'incapacità di Hegel di rimanere fedele a se stesso, evidenziando peraltro l'inconsistenza dell'interpretazione che vede nel pensiero hegeliano la negazione del «principio di non contraddizione». Comunque per Severino la filosofia è l'anima e insieme l'alienazione delle opere stesse dell'Occidente, «e il destino della verità è l'aver già da sempre oltrepassato quest'anima...».

L'autore. Nato a Brescia nel 1929, Emanuele Severino è uno dei più noti filosofi italiani. Nel 1970 lasciò l'Università Cattolica per via dei suoi contrasti con la dottrina della Chiesa. Tra le sue opere: «La struttura originaria», «Oltrepassare »,«Téchne»

Corriere della Sera 15.12.08
Il caso Il comitato politico: sostiene un altro progetto. Ferrero: ha l'insolenza dei demagoghi. L'ipotesi del licenziamento
Prc, su «Liberazione» spaccatura e insulti
Voto a maggioranza contro Sansonetti che attacca: fate come il Pcus con la Pravda
Per Paolo Ferrero la linea di Liberazione, diretto da Piero Sansonetti , è schiacciata sulle posizioni di Nichi Vendola
di Paolo Foschi


ROMA — La rottura ormai è consumata. Rifondazione comunista si prepara fra polemiche e veleni a dare il benservito a Piero Sansonetti, direttore di Liberazione.
Ieri nella seconda e conclusiva giornata del Comitato politico del partito, la maggioranza del segretario Paolo Ferrero ha approvato un ordine del giorno nel quale chiede al quotidiano «che l'indirizzo sia quello deciso al congresso di Chianciano e che ci sia un pareggio del bilancio». Secondo Ferrero, «in questo momento il giornale è lo strumento di un altro progetto politico che vuole il superamento del nostro partito » e la «perdita di copie e il buco in bilancio di tre milioni testimoniano il fallimento del progetto editoriale». Il riferimento al progetto politico alternativo è alle manovre della corrente di minoranza di Niki Vendola e Franco Giordano che ha già aderito all'Associazione per la sinistra con Verdi e Sd e minaccia la scissione da Rifondazione. Secondo Ferrero la linea del quotidiano è schiacciata sulla posizioni di Vendola. La minoranza ha però reagito, presentando un altro ordine del giorno di senso diametralmente opposto, che è stato respinto. E Sansonetti resta in barricata: «È il direttore e non l'editore che decide come fare il giornale. Quindi decido io. Se all'editore non va bene, scelga un altro direttore. Certo a decidere come doveva essere fatta la Pravda era il Pcus...».
Insomma, ferri corti. Anzi cortissimi. «Noi mettiamo in prima pagina temi come le stragi sul lavoro, sulle quali il partito è silente e silenzioso», ha aggiunto il direttore di Liberazione, rispondendo alle accuse di Ferrero. «Pregherei Sansonetti di lasciare perdere una polemica imbastita sulla pelle dei lavoratori morti», ha detto il segretario, che ha aggiunto: «Mi viene da replicare citando Aristotele: le democrazie sono spesso corrotte dall'insolenza dei loro demagoghi ».
Adesso la parola passa alla direzione nazionale, che dovrà dare mandato alla società editrice di licenziare Sansonetti, ex Unità, dove secondo alcuni rumors potrebbe tornare come vice di Concita De Gregorio. Tutto potrebbe avvenire già in settimana. E per Liberazione
si profila intanto una direzione politica, probabilmente affidata all'ex parlamentare Giovanni Russo Spena. Il Comitato politico ha deciso fra le varie cose che alle prossime amministrative il partito andrà ancora con il simbolo di Rifondazione, mentre la minoranza non ha votato. Anzi, proprio su questo punto si è consumata una piccola rottura tutta interna al fronte che si oppone a Ferrero: Augusto Rocchi, Tommaso Sodano, Raffaele Pecce e Melziade Caprile, quattro fedelissimi di Fausto Bertinotti (che non fa parte del Comitato) hanno votato un proprio ordine del giorno che sul simbolo prevede un ravvicinamento alla maggioranza. Per le europee la decisione è stata invece rinviata, senza escludere un'alleanza a sinistra, «ma incentrata comunque sul rilancio dell'azione politica e sociale di Rifondazione, incentrata sui bisogni della gente, sui problemi dei lavoratori», ha sottolineato Ferrero.
A gennaio però torneranno a riunirsi i «dissidenti» dell'Associazione per la sinistra presentata sabato. E l'anima scissionista, guidata da Vendola, potrebbe cercare di accelerare i tempi, nonostante Fausto Bertinotti freni ancora su questa ipotesi perché c'è il timore di disperdere ulteriormente il voto a sinistra del Pd, favorendo l'Italia dei Valori di Antonio Di Pietro. Ma ieri, nel centro congressi di via dei Frentani, a due passi dalla vecchia sede storica dell'Unità di via dei Taurini abbandonata nei primi anni Novanta, circolava una battuta amara: «Dividere un partito all'1%? Non è roba per noi politici. È roba da fisici. Perché rischiamo di fare la scissione dell'atomo».

Repubblica 15.12.08
La Sfinge. L'ultima ricerca di una équipe inglese la testa fu rimodellata nel corso dei secoli
Da leone a uomo così cambiò volto
Ma secondo l'archeologia ufficiale le nuove ipotesi non sono ancora suffragate da evidenze incontestabili
di Luigi Bignami


Due nuove ipotesi rilanciano il mistero della Sfinge di Giza. Nota da sempre per il suo volto umano e il corpo leonino e per essere stata costruita circa 4.500 anni fa, in realtà potrebbe essere stata modellata nella roccia almeno qualche secolo se non addirittura 1.500 anni prima, e il volto originario sarebbe stato quello di un leone. Questo sostiene un gruppo di ricercatori dopo aver eseguito accurati rilievi, durati diversi anni, sul corpo della più enigmatica delle sculture. Colin Reader della Manchester Ancient Egypt Society, uno dei geologi leader nella ricerca, sostiene che solo ipotizzando un´età di almeno un paio di secoli superiore si può spiegare l´erosione visibile sul corpo della Sfinge. In sostanza essa non fu realizzata subito dopo la costruzione delle Piramidi, ma prima, molto prima. «A sostegno della mia ipotesi vi è il fatto che nell´area di Giza sono stati trovati resti di palazzi che dimostrerebbero che vi era un´intensa attività umana di molto antecedente alla costruzione delle Piramidi», sostiene Reader.
L´ipotesi va a dar man forte a quella già proposta alcuni anni fa dal geologo Robert Schochdel College of General Studies di Boston, il quale però aveva ipotizzato che il monumento fosse molto più antico di quel che si pensava. Tesi avvalorata dal fatto che alcune forme di erosione presenti sul corpo del monumento potrebbero essere state prodotte solo da prolungati periodi di pioggia. E poiché l´ultimo periodo di forti precipitazioni in Egitto terminò tra il tardo quarto millennio avanti Cristo e l´inizio del terzo millennio a. C. secondo Schoch questo significava che la data di costruzione della Sfinge era da collocarsi tra il quinto e il quarto millennio a. C.. Tradotto: circa 1.500 anni prima della data considerata reale.
Accanto a Schoch e Reader un altro studioso, il geologo David Coxill, dipendente dal dipartimento nazionale britannico, è giunto recentemente a sostenere che la Sfinge è più vecchia di quanto ritenuto, anche se la sua ipotesi è più conservativa rispetto a quella di Schoch, in quanto spinge indietro nel tempo la nascita della Sfinge di soli due o tre secoli.
Reader comunque sostiene anche un´altra tesi controcorrente e cioè il fatto che il volto originario della Sfinge non fosse quello che possiamo osservare ai nostri giorni. «Esso - sostiene Reader - doveva essere quello di un leone». In realtà altri ricercatori sostengono l´ipotesi di Reader perché il corpo della Sfinge e la testa sono enormemente sproporzionati e questo non sarebbe stato di gradimento per un faraone. «Non ci sono dubbi che la testa originaria doveva essere del tutto diversa rispetto a quella che si osserva e questo per una questione di proporzioni», ha spiegato lo storico d´arte Jonathan Foyle che ha seguito i lavori di Reader. La statua è lunga 73 metri, mentre l´altezza massima della testa si aggira intorno ai 20 m. Fu Cheope, secondo Reader, a rimodellare il volto trasformandolo da leonino a sua immagine o come vogliono alcuni storici, il figlio di questi, Djedefra, a lui succeduto.
Il motivo per cui i più antichi egizi si impegnarono nel realizzare una simile opera scultorea stava nel fatto che il leone possedeva un simbolo di potenza superiore a quello del volto umano. E la possibilità di incontrare leoni nella piana di Giza era notevole, perché circa 5.000 anni fa il loro numero in quella località era certamente imponente.
Queste ipotesi comunque, pur suffragate da alcuni dati di valore, non sono, al momento, ritenute sufficientemente corpose da far cambiare l´età della Sfinge da parte dell´archeologia ufficiale. Quel che è certo è il fatto che una volta che la necropoli cui apparteneva fu abbandonata la Sfinge venne ricoperta dalla sabbia fino alle spalle. Venne completamente strappata al deserto solo nel 1886, grazie al lavoro finale di Gaston Maspero, e fu interamente visibile al pubblico a partire dal 1925.

Repubblica 15.12.08
Intervista a Pierre Rosanvallon, autore di "La légimité démocratique"
Democrazia. Il paradosso dell'antipolitica


Il pericolo è che tra i cittadini e i politici il solco divenga così profondo da rendere il potere intoccabile. L´estremismo produce alla fine esclusione
Nel vostro paese la "controdemocrazia" si sovrappone al populismo tradizionale ed è un rischio per il tessuto democratico
Una volta si votava per un progetto, oggi per un uomo Di conseguenza il suffragio universale procura una legittimità solo strumentale

PARIGI. «La democrazia non è solamente il voto nell´urna. Nella complessità del mondo contemporaneo, la vita democratica si decentra, dando vita a una varietà di azioni e istituzioni al di là del solo suffragio universale». È questa la conclusione cui è giunto Pierre Rosanvallon, lo studioso francese che insegna al Collège de France ed oggi considerato uno dei più influenti intellettuali d´Oltralpe. Lo spiega in un volume appena pubblicato in Francia, La légimité démocratique (Seuil, pagg. 380, 21 euro), che fa seguito a un altro corposo saggio intitolato La politica nell´era della sfiducia, in procinto di essere pubblicato in Italia da Città Aperta, aggiungendosi così ai precedenti Il popolo introvabile (Il Mulino) e Il Politico, storia di un concetto (Rubettino). «Il disincanto democratico è oggi un´evidenza. I cittadini votano meno che in passato e soprattutto in modo diverso», spiega Rosanvallon, che ha anche creato la République des idées, un importante spazio di riflessione, dotato di un sito web e di una collana di libri.
«Oggi il voto non è più un momento d´identificazione con un gruppo sociale, un territorio o un partito politico. Il voto ha cambiato natura. In passato era la manifestazione di un´identità sociale, oggi esprime un´opinione individuale. Questa trasformazione è accompagnata da una crescente disaffezione nei confronti dei partiti politici e dalla crisi dello stato inteso come amministrazione dell´interesse comune».
Il disincanto democratico favorisce il disinteresse per la cosa pubblica?
«Non credo, dato che i cittadini manifestano la loro implicazione nella vita collettiva in altro modo. Tra un´elezione e l´altra, la vitalità democratica prende altre forme, che nel volume La politica nell´era della sfiducia ho designato con il termine "controdemocrazia", un termine forte e volutamente ambiguo».
Di che si tratta?
«La "controdemocrazia" è costituita dall´insieme delle attività che non mirano ad associare il cittadino all´esercizio del potere, ma a organizzare il suo controllo su chi governa. E´ impossibile che tutti partecipino direttamente alle decisioni politiche, ma tutti possono esprimere opinioni critiche e partecipare alla vigilanza civica nei confronti del potere. Naturalmente queste attività possono essere molteplici, a cominciare da quelle di sorveglianza, notazione e convalida delle procedure democratiche. Si tratta di modalità più o meno formalmente costituite, i cui attori possono essere le associazioni, la stampa o anche i singoli cittadini su internet».
Lei parla anche di sovranità negativa...
«È quella che i cittadini manifestano rifiutando alcune scelte governative. I primi teorici della democrazia pensavano che la democrazia si fondasse essenzialmente sul consenso silenzioso dei cittadini, oggi invece ci rendiamo conto che nell´attività democratica, accanto al consenso, svolge un ruolo essenziale il dissenso. Già Montesquieu sottolineava la dissimmetria tra facoltà d´impedire e facoltà d´agire, in democrazia. E´ infatti molto più facile misurare i risultati ottenuti sul versante del disaccordo che su quello della proposta costruttiva. Se si riesce a bloccare una decisione del potere, i risultati si vedono subito, mentre per promuovere una legge spesso occorrono anni prima di vedere i risultati».
Quali sono le altre forme della controdemocrazia?
«Un´altra componente importante è l´esercizio che mira a mettere sotto accusa il potere. Il modello del processo, fuoriuscendo dall´ambito giudiziario, si è diffuso in tutta la società. L´atteggiamento accusatorio una volta era al centro del ruolo dell´opposizione parlamentare, col tempo però si è disseminato in tutta società, diventando un patrimonio collettivo».
Opponendosi al palazzo, la società civile sceglie a volte forme che alimentano l´antipolitica. Non è un rischio?
«Effettivamente è un rischio oggi assai diffuso. Le attività che chiamo controdemocratiche hanno sempre un carattere ambiguo. Se da un lato, infatti, queste possono essere utili a rafforzare la democrazia, stimolandola positivamente; dall´altro, possono anche indebolirla, alimentando l´antipolitica. La controdemocrazia positiva sottomette il potere a prove che lo costringano a realizzare meglio la sua missione al servizio della società. La vigilanza e la critica creano infatti vincoli virtuosi. La controdemocrazia negativa invece scava un solco sempre più profondo tra il potere e la società, allargando la distanza tra i cittadini e i politici. Il paradosso dell´antipolitica è che rende il potere sempre più distante e quindi intoccabile. La sua critica radicale non produce un´appropriazione sociale, ma una situazione in cui i cittadini sono sempre più espropriati dei procedimenti democratici. Nasce da qui quel populismo "dal basso", le cui forme sono diverse dal populismo tradizionale del XIX secolo».
Questa ambivalenza della controdemocrazia è una novità dei nostri giorni?
«No, la sua ambiguità era già evidente durante la rivoluzione francese. A quei tempi, il grande teorico della sorveglianza del potere è Condorcet, per il quale chi governa deve essere giudicato di continuo. Per lui, non esiste un potere buono in sé solo perché è stato eletto democraticamente. La democrazia esiste solo nell´interazione continua tra le istituzioni che governano e le procedure che ne regolano e ne controllano le attività. Accanto a Condorcet, però, agisce Marat, l´amico del popolo, il quale denigra di continuo la politica, trasformando coloro che governano in un´incarnazione del male da cui la società non potrà mai aspettarsi nulla di buono».
In Italia, il populismo tradizionale e quello nato dalla controdemocrazia sembrano oggi coesistere...
«Quando queste due forme di populismo si sovrappongono, si rischia d´innescare un pericoloso meccanismo di disgregazione del tessuto democratico. La democrazia dovrebbe essere un movimento di appropriazione sociale delle decisioni collettive, il populismo però espropria sempre il popolo di tali decisioni. Spesso chi critica i partiti ritiene che la società civile possa essere autosufficiente, ma è un´illusione pensare che la democrazia possa ridursi alla sola società civile. La democrazia è sempre un faccia a faccia tra governo e società, tra decisioni e consenso».
Nel suo nuovo libro, La légitimité démocratique, lei sostiene che il suffragio universale non basta più a legittimare la democrazia. Quali sono le altre forme di legittimazione democratica?
«In passato - in un contesto sociale, economico e ideologico più stabile - era più facile immaginare la continuità tra il voto e le politiche che avrebbero fatto seguito. Oggi le elezioni sono diventate un semplice processo di nomina che anticipa sempre meno le scelte a venire. Una volta si votava per un progetto, oggi per un uomo. Di conseguenza, il suffragio universale procura una legittimità solo strumentale, che è certo molto importante - perché alla fine la verità aritmetica è quella che decide - ma non più autosufficiente. E´ una legittimità che deve quindi continuamente essere messa alla prova e trovare l´appoggio di altre forme di legittimità».
In che modo?
«Un processo di legittimazione del potere è quello prodotto dall´imparzialità garantita dalle autorità indipendenti che vigilano per evitare che alcuni si approprino delle istituzioni in maniera partigiana. C´è poi la legittimazione derivata dalle corti costituzionali che garantiscono l´uguaglianza dei diritti e proteggono la democrazia dal capriccio dell´istante. Infine, c´è una forma di legittimazione che nasce dalla vicinanza di chi governa ai cittadini, i quali chiedono al governo di rispettare la società e di ascoltarne le sofferenze. Se in passato le democrazie hanno posto l´accento soprattutto sulle istituzioni, oggi si torna a valorizzare i comportamenti. Abbiamo bisogno di una democrazia dei comportamenti. E questo è un segno della trasformazione e dell´allargamento della concezione della democrazia».
Le diverse figure e istituzioni della realtà democratica sono date una volta per sempre?
«No, la democrazia non è mai data una volta per sempre. Essa deve essere di continuo sottoposta a un processo di appropriazione, grazie alle attività della società civile, alle istituzioni e all´interazione permanente tra potere e società. Bisogna appropriarsi di continuo della democrazia. Tocqueville pensava che la democrazia semplificasse sempre di più la vita politica, in realtà avviene il contrario. Lo sviluppo della democrazia rende la vita politica sempre più complessa. Ma questa è la condizione per impedire che un qualche interesse particolare la confischi a suo vantaggio».

domenica 14 dicembre 2008

Corriere della Sera 14.12.08
Pubblicato il corso accademico del 1934 in cui il filosofo eliminò i riferimenti alla politica
Heidegger, l'uscita di sicurezza
Le lezioni su logica e linguaggio che segnano il distacco dal nazismo
di Armando Torno


Il 21 aprile 1933 Martin Heidegger diventa rettore all'Università di Friburgo. Wilhelm von Möllendorf, noto socialdemocratico, appena eletto a quella responsabilità accademica, è costretto dal partito nazista a dimettersi. La votazione che conferirà l'alta dignità al filosofo, ormai noto in tutto il mondo (Essere e tempo è del 1927), avrà una sola astensione: dei 93 professori, 13 furono esclusi perché ebrei; dei restanti parteciparono in 56. Heidegger sarà tesserato. Il fatto avviene il 3 maggio, ma con una retrodatazione di due giorni. In suo favore c'è una clausola: sarà esonerato dal partecipare alle attività di militanza del partito nazista.
Inizia così quell'impegno che durerà tutto il 1933 e una parte del 1934. Terrà, tra l'altro, il 30 giugno la conferenza L'università nel nuovo Reich, subito seguita da un incontro con Karl Jaspers. Il vecchio amico scriverà nella sua Autobiografia filosofica: «Non gli dissi che era sulla strada sbagliata. Non avevo più nessuna fiducia in lui, dopo questa trasformazione. Sentii me stesso minacciato di fronte a quella potenza, di cui ora Heidegger faceva parte». Durante l'estate il neorettore entra in contatto con Carl Schmitt, allora giurista di riferimento del Terzo Reich; in ottobre si rivolge agli studenti esaltando il Führer, mentre l'atteggiamento verso le disposizioni razziali non è monolitico: aiuta il suo assistente Werner Brock, redige però un parere su un docente di Gottinga scrivendo che «ebbe relazioni assai vivaci con l'ebreo Fränkel». Infine, tra le molte cose di quell'anno, l'11 novembre a Lipsia, in occasione del «Proclama della Scienza tedesca per Adolf Hitler», Heidegger pone il suo pensiero al servizio del Führer.
Poi accade qualcosa. Tra i colleghi di Friburgo si fa largo un'opposizione prima strisciante e poi evidente; Ernst Krieck, che vorrebbe diventare l'ideologo di punta del nazismo, lo attacca con un articolo. Il suo rettorato dura dieci mesi; quindi, tra il maggio e il giugno del 1934, Heidegger si allontana dalla politica militante e il corso annunciato per il semestre estivo, Lo Stato e la scienza, decide di non tenerlo, anche se erano già stati fissati giorni e orari: martedì e giovedì, 17-18. Nel primo incontro, di fronte a un'aula gremita nella quale spiccavano le hitleriane camicie brune, egli dichiarò di aver mutato idea e che quelle lezioni le avrebbe dedicate a un nuovo argomento: Logica come problema dell'essenza del linguaggio.
Bene: ora quel corso, con il titolo Logica e linguaggio, vede la luce nella prima traduzione italiana, a cura di Ugo Ugazio (Christian Marinotti Edizioni, pp. 256, e 23). I riferimenti espliciti alla politica vengono abbandonati; Heidegger propone un percorso intensissimo che comincia con una serie di precisazioni su struttura, origine, significato e «necessario turbamento» della logica. Il filosofo sembra quasi che voglia ripensare le sue idee, senza mai perdere di vista gli adorati greci; sovente offre prospettive di grande effetto e di notevole attualità, come quando si chiede che cosa sia la logica. Tra le risposte che scrive: «Non è mai una sterile polverosa disciplina scolastica»; o ancora: «Logica è per noi invece il nome dato ad un compito, al compito di preparare la prossima generazione perché sia di nuovo una generazione costruita sul sapere, tale cioè che sappia e voglia sapere, tale che sia davvero in condizione di sapere. Per questo compito non occorre la scienza».
Ma quanto abbiamo citato è un cenno di un discorso infinito. Il curatore dell'edizione tedesca, Günter Seubold, nella nota posta in calce al testo, ricorda lo straordinario interesse di queste lezioni giacché presentano in modo comprensibile una problematica attuale: le cattedre di logica sono tenute dai matematici che trattano dei loro problemi, cioè di cose scientifiche, e da filosofi di professione che in genere si limitano a corsi introduttivi per lo studio di base. Per Heidegger la logica «è tutt'altro che indisciplinata chiacchiera proposta come visione del mondo, ma è sobrio lavoro congiunto allo stimolo genuino e al bisogno essenziale». Non a caso due capitoli di queste lezioni sono dedicati alle domande sull'essenza dell'uomo e sull'essenza della storia. Qua e là si leggono dei periodi su cui val la pena riflettere: «Sebbene un popolo faccia la sua storia, questa storia non è certo il prodotto del popolo; per parte sua, il popolo è fatto dalla storia»; e ancora: «Il linguaggio è mezzo capace di formare e conservare il mondo ». La logica diventa il bisturi che Heidegger utilizza in queste lezioni per entrare nel corpo del sapere e per eliminare i mali incontrati. Il lettore segue il lavoro del filosofo attraverso dense riflessioni sul tempo oltre che sul linguaggio (quest'ultimo, scrive Ugazio nella sua preziosa nota all'edizione italiana, «è esso stesso il mondo in cui avviene la comunicazione»). Le pagine si chiudono trattando «la poesia come linguaggio originario».
L'editore Marinotti, che nel 2007 aveva pubblicato di Heidegger l'Avviamento alla filosofia,
ha reso un notevole servizio ai chiarimenti in corso. Li ricorda lo stesso Günter Seubold, dopo aver sottolineato il ruolo di pietra miliare di queste lezioni del 1934, che segnano il passaggio dalla fase ontologica fondamentale a quella della storia dell'essere: «Sono importanti per una sufficiente comprensione della situazione di Heidegger all'Università subito dopo l'abbandono della carica di rettore. Molto di quello che è stato scritto troppo in fretta sull'impegno nazionalsocialista di Heidegger dovrà essere rivisto e sottoposto ad una nuova interpretazione in base a queste lezioni». Insomma, esse aiutano a capire cosa cambiava in lui e in quali scenari si collocherà il suo pensiero. Dopo un anno di nazismo militante.

In libreria
Gli interrogativi teologici e le polemiche di Farias
In Italia ci sono circa 300 titoli «di e su» Heidegger. Ricordiamo tra gli ultimi, edito da Marinotti, Jean Beaufret In cammino con Heidegger (pp. 204, e 18). Giancarla Sola ha scritto per il melangolo Heidegger e la pedagogia (pp. 198, e 16). Le implicazioni teologiche: curato da A. Molinaro, Heidegger e San Paolo. (Urbaniana University Press, pp. 160, e 14) e di Duilio Albarello La libertà e l'evento. Percorsi di teologia filosofica dopo Heidegger (Glossa, pp. 328, e 28).
Sossio Giametta dedica un ampio saggio ad Heidegger nel volume I pazzi di Dio (La città del sole, pp. 664, e 36), mentre di Bernhard Casper c'è l'importante Rosenzweig e Heidegger. Essere ed evento (Morcelliana, pp. 176, e 12,50).
Victor Farias ne L'eredità di Heidegger (Medusa, pp. 230, 14,80) radicalizza la vecchia tesi: fra il nazismo e il filosofo ci fu molto di più di occasionali convergenze (Ar.To.).

l’Unità 14.12.08
L’onda anomala e il Parlamento
di Furio Colombo


Come alla catena di montaggio, da mesi si approvano leggi una peggio dell’altra: tutte scelte che non servono al Paese
Tra un premier arrogante e le paure indotte dalla Lega
La solitudine dei cittadini

Arriverà la folla e non sarà gentile. Arriverà d’impulso, persone sole perché la fabbrica è chiusa, il precariato è finito, il partito non parla, il telegiornale non si capisce, i talk show esasperano, il capo del governo ride, credendo di incutere ottimismo solo perché lui è personalmente al sicuro, protetto sia dalla ricchezza che dal Lodo Alfano. Ma non illudetevi. La folla incupita e disorientata non andrà a cercare il capo che ride. Sanno che si fa gli affari suoi e li fa benissimo. Il punto di sfida e di rabbia sarà il Parlamento. Da mesi il Parlamento approva, come in una strana catena di montaggio, una legge peggiore dell’altra. Non sono leggi parlamentari, sono decreti, cioè decisioni del governo che sono già entrate in vigore quando il Parlamento le approva. C’è una opposizione in Parlamento. È una opposizione educata e civile. Presenta tante obiezioni che vengono svillaneggiate, tanti emendamenti che vengono bocciati a decine, a centinaia, uno dopo l’altro, persino quando (accade spesso) la maggioranza non è in numero legale. Ricordo che quando eravamo maggioranza (piccola maggioranza) in Senato venivamo continuamente fermati, anche dieci volte in un giorno, dalla richiesta di verificare il numero legale. Non so spiegare perché, ma l’opposizione a cui appartengo questa richiesta non la fa quasi mai. E decide di non far notare che i nostri colleghi di destra riescono a votare, di fronte a tutti e senza sotterfugi, anche cinque volte, con un solo, attivissimo deputato presente al banco. «Saranno cattive leggi ma l’Italia deve avere le sue leggi, e noi, parlamentari italiani di opposizione, pur dicendo il nostro “no” punto per punto, non dobbiamo fermare la macchina», è la persuasione della nostra opposizione.
E così la macchina lavora, alacre, infaticabile, respinge tonnellate di emendamenti contrari, ascolta discorsi di dissenso come certi studenti ascoltano gli ammonimenti del preside, prima e dopo gli atti di vandalismo. E questo la gente sa: è il Parlamento che ci fa vivere male, che ci spaventa con i suoi «provvedimenti sulla sicurezza», che ci toglie la scuola, che ci taglia gli ospedali, che abbandona i disabili, che non si cura delle retribuzioni divenute piccolissime e del costo della vita sempre meno raggiungibile. Se mai propone di intervenire in modo punitivo su quel che resta dei contratti di lavoro. È il Parlamento che si imbarca in lunghe e incomprensibili discussioni sulla riforma della Giustizia (vuol dire che un potere dello Stato tenta di eliminarne un altro) e in lunghe e incomprensibili discussioni sul federalismo fiscale ( vuole dire fare largo alla Lega e alla riscossione dei suoi diritti alla cassa di Berlusconi, che però incarica del pagamento la Camera e il Senato della Repubblica italiana, opposizione inclusa).
La Repubblica rischia di sciogliersi nell’acido della Lega che propone l'isolamento dei bambini immigrati nelle scuole, le impronte digitali dei piccoli Rom, l’aggravante della clandestinità, l’esercito incaricato di tenere a bada la paura verso coloro che appaiono diversi, il divieto di ricongiungimento familiare, il permesso di soggiorno a punti che apre la strada al peggiore caporalato e ai peggiori ricatti, l’espulsione senza ascolto e senza diritto di chi - se espulso - viene consegnato alla tortura e all’impiccagione.
No, lo sappiamo, non sarà per queste squallide crudeltà, che ormai segnano la vita italiana, che ci sarà rigetto e che questo rigetto sarà contro il Parlamento.
La ragione è l’incomprensibilità di ciò che avviene in Parlamento. Spaventa il non capire ciò che il Parlamento discute e ciò che il Parlamento approva. E tutto nella morsa di due paure, quella che ti incutono ogni giorno contro gli immigrati, e quella di cui ti rendi conto da solo e senza alcun sostegno: il lavoro vale sempre meno e potrebbe scomparire del tutto.
La tensione cresce nel vedere privilegi che non corrispondono a nulla, non nella tua vita. Fra i decreti urgenti che il governo impone a una maggioranza obbediente e a una opposizione che dissente in modo soft, educato, indistinguibile, non ce n’è uno che riguardi la vita, le pene, le ansie, le preoccupazioni, le attese dei cittadini.
La gran parte di coloro che aspettano là fuori che qualcuno governi o che qualcuno dica come si dovrebbe governare, non ha un partito e non ha un sindacato. Anzi viene scoraggiato e dileggiato se si unisce a una protesta o partecipa a uno sciopero. Il più delle volte non ha una speranza, nel senso di una legittima attesa per qualcosa di ragionevole che potrebbe essere deciso oggi o domani. Ma non succede niente. Niente che riguardi i cittadini e dia un po’ di fiducia o almeno di sollievo. Pochi stanno svegli la notte interrogandosi sulla separazione delle carriere dei magistrati, pochi si tormentano angosciati sul tipo di federalismo che si deciderà di adottare. Tutti sanno che tutto riguarda alcuni, dentro quei costosi palazzi. Il fatto è che, la linea di demarcazione che distingue e separa aspetti diversi della vita politica non passa più fra una coalizione e l’altra. A forza di dire che niente più «è di destra o di sinistra», la frase assurda è diventata vera. La linea di confine, adesso, passa fra le due parti roventi e visibili del Paese. Di qua il Parlamento, né di destra né di sinistra, però costoso, dentro il quale sembrano tutti uguali. Di là i cittadini. La Lega li ha resi cattivi verso gli immigrati, ma questo non è che il primo sintomo. Si esprime in sequenze di gesti e di aggressioni violente dei quali diciamo subito: «sono solo episodi isolati». Sarà un preannuncio o forse solo un presentimento. Ma la solitudine dei cittadini, il silenzio dell’opposizione, l’arroganza autistica del capo del governo, che parla solo di stesso, sono cattivi consiglieri. L’onda potrebbe diventare una immensa, violenta onda anomala. Contro il solo ostacolo visibile: il Parlamento.

Repubblica 14.12.08
Oltre la democrazia
di Ilvo Diamanti


LA DEMOCRAZIA. Molti ne osservano in modo scettico l´evoluzione. In Italia, ma non solo. Così è diffusa la tendenza ad associarne il termine al prefisso "post". Come ha fatto il politologo Colin Crouch alcuni anni fa.
Definendo la fase attuale fase post-democratica. Non "anti" democratica, ma "oltre" la democrazia. O, ancora, "dopo" la democrazia, come suggerisce il socio-demografo Emmanuel Todd in un recente saggio di grande capacità suggestiva ("Après la démocratie", pubblicato da Gallimard).
Eppure pochi, in Italia, la mettono in discussione. Lo sottolinea l´XI rapporto su "gli italiani e lo Stato" di Demos - la Repubblica (www.demos.it), proposto due giorni fa sul Venerdì. Quasi tre persone su quattro la considerano il "migliore dei mondi possibili". Un dato in crescita (4 punti percentuali in più) rispetto all´anno scorso. Tuttavia, vi sono categorie sociali che la pensano diversamente. I più giovani, in particolare: oltre un terzo di chi ha meno di 35 anni ritiene che rinunciare alla democrazia, magari per un certo periodo, in fondo, non sarebbe male. Oppure, non cambierebbe nulla. E il peso della componente scettica sale fino a circa il 40% fra gli operai e i disoccupati. A rammentarci che il consenso alla democrazia declina quando manca il lavoro e le condizioni di vita quotidiana degradano. Peraltro, il significato della democrazia appare profondamente cambiato rispetto al modello originario del dopoguerra. Fondato sulla partecipazione e sui partiti di massa, garantito dal bilanciamento fra poteri. In particolare: dal controllo del potere giudiziario su quello politico (legislativo ed esecutivo). Il rapporto di Demos - la Repubblica rileva, anzitutto, come, ormai, i partiti siano guardati con diffidenza generalizzata. Non solo: appena la metà dei cittadini ritiene che "senza partiti non vi sia democrazia". D´altronde, i due terzi degli italiani pensano che i partiti siano tutti uguali, dicano le stesse cose. Non riescono a coglierne le differenze di progetto e di azione. Ne considerano i programmi e il linguaggio strumentali. Più dei partiti, secondo il 40% degli italiani, oggi contano i leader. I partiti, di conseguenza, appaiono organismi personalizzati, talora "personali", al servizio del Capo. Una percezione generale che, peraltro, coincide largamente con la realtà. Richiama un´idea della democrazia fortemente semplificata e populista. Alimentata dalla svalutazione dei tradizionali soggetti di partecipazione e rappresentanza. I partiti. Mentre i canali di mediazione degli interessi ? organizzazioni imprenditoriali e ancor più sindacali ? raccolgono consensi minimi nella società. Non che la partecipazione sia svanita. Anzi, nell´ultimo anno è perfino cresciuta, ma nelle forme meno convenzionali e istituzionali, oltre che antipolitiche. Quanto alle istituzioni e ai poteri di controllo, la magistratura è valutata con fiducia dal 37% dei cittadini. Più o meno come un anno fa. Ma circa la metà rispetto ai primi anni Novanta. Anche per questo motivo oggi il presidente del Consiglio afferma di voler procedere alla riforma del sistema giudiziario anche da solo, se necessario. Perché si sente più forte e socialmente legittimato dei giudici.
Da ciò il dibattito, meglio, il contrasto che investe il significato stesso di democrazia, nella pratica politica ma anche nella percezione sociale. Stressata fra due opposte tendenze, largamente complementari.
Da un lato, si afferma una democrazia formale, che trae legittimazione, quasi unicamente, dal voto personalizzato della maggioranza. I partiti, sempre più oligarchici, racchiusi nelle istituzioni e nei centri di potere. La piazza, l´agorà: riassunta dai media e dalla televisione. Una democrazia elettorale. Il potere dei cittadini si esercita e si esaurisce in trenta secondi, una volta ogni 4-5 anni. Quanto basta per fondare l´autorità degli eletti, o meglio, dell´Eletto. Che, per questo, considera illegittimo ogni vincolo posto da poteri non elettivi. E sopporta a fatica e con fastidio ogni critica al suo operato che provenga da giudici, giornalisti, comici e intellettuali. Non eletti dal popolo. è su questa base, con questo argomento che, da sempre, Silvio Berlusconi (e la sua parte) rifiuta le critiche al conflitto di interessi e i tentativi di regolarlo. Su questa stessa base contesta l´azione della magistratura nei suoi confronti, anche quando si tratta di accuse relative a reati esterni alla pratica di governo e all´attività politica. Perché si tratterebbe di limiti imposti da soggetti "non democraticamente eletti" a un leader "votato dal popolo". Nonostante tutte le accuse e tutti i conflitti di interesse, da cui ? è il ragionamento implicito ? il "popolo sovrano", con il voto, l´avrebbe assolto, oltre ad avergli attribuito il mandato di governare. è la post-democrazia, denunciata da molti critici, non solo di sinistra. Una democrazia elettorale e personalizzata. Spogliata delle mediazioni e dei controlli. La comunicazione al posto della partecipazione. L´equilibrio dei poteri, finalmente, modificato. Attraverso la riforma della giustizia, mettendo mano alla Costituzione - come ha annunciato il presidente del Consiglio - anche senza dialogare con l´opposizione. Si tratterebbe, come ha scritto Ezio Mauro nei giorni scorsi, del "passaggio?da una meccanica istituzionale con poteri divisi ad un aggregato post-costituzionale che prefigura un potere sempre più unico". Post. Appunto. Una democrazia in preda a un degrado organico e quasi biologico. Una sorta di "mucca pazza della democrazia", come l´ha definita Alfio Mastropaolo.
D´altro canto, questa tendenza post-democratica e post-costituzionale sta insinuando, nell´area di opposizione, un sentimento di sfiducia nella democrazia. Riflette e moltiplica il senso di riprovazione verso quella parte di elettori, molto ampia, che, da quindici anni, continua a votare per Berlusconi. Nonostante i suoi stravizi o, forse, proprio per questo. Verso quegli elettori che nel Nord si ostinano ? in gran numero ? a premiare la Lega. Nonostante il suo linguaggio intollerante e le sue iniziative xenofobe o, forse, proprio per questo. Mentre nel Sud continuano a votare per oligarchie clientelari e corrotte. Senza porsi problemi. Da ciò, come osserva Emmanuel Todd, l´idea, latente e diffusa (a sinistra), che "il popolo è per natura cattivo giudice". E il pensiero ? inconfessato e represso ? che occorra, per questo, "ritirargli il diritto di voto o, almeno, limitarne seriamente l´esercizio".
Difendere la democrazia dal popolo e perfino dal voto popolare. Oppure usare il popolo e il voto per limitare le garanzie democratiche. Questa alternativa insidiosa racchiude tutto il malessere che oggi attraversa la nostra democrazia rappresentativa.

Repubblica 14.12.08
Il primato degli annunci all’Italia del cavaliere
di Eugenio Scalfari


LA POLITICA degli annunci è ormai diventata non soltanto una tattica ma la strategia di tutto l´Occidente, dagli Stati Uniti all´Europa.
L´Italia ha fatto da apripista e ne conserva il primato. Da questo punto di vista è corretto riconoscerne il merito a Silvio Berlusconi.
La giornata di venerdì è indicativa di questo stato di cose. Dopo il rifiuto del Senato americano di soccorrere le compagnie automobilistiche di Detroit con nuove erogazioni di denaro federale, il presidente eletto ma non ancora insediato, Barack Obama, ha esortato Bush ad intervenire scavalcando il voto del Congresso e il presidente scaduto ma ancora governante ha annunciato che troverà il modo di stornare 15 miliardi di dollari dai fondi destinati al sostegno delle banche indirizzando quella cifra verso l´industria dell´auto.
Le Borse che avevano lasciato sul terreno fino a quel momento cifre da capogiro, in pochi minuti hanno invertito la tendenza chiudendo tutte al rialzo. Se e quando all´annuncio seguiranno i fatti si vedrà nei prossimi giorni ma intanto il crollo è stato per ora scongiurato.
Nella stessa giornata di venerdì il vertice europeo guidato da Sarkozy e dal presidente della commissione di Bruxelles, José Manuel Barroso, ha approvato all´unanimità due documenti definiti storici: quello sul clima e quello sulle misure economiche che dovrebbero arginare la recessione e rimettere in moto la crescita.
Definiti storici, quei due documenti che in realtà sono puri e semplici annunci, generici nella formulazione e privi di ogni sia pur minimo accenno a procedure esecutive, tempistica, sanzioni per eventuali inadempienze dei Paesi membri.
Il documento antirecessione prevede la mobilitazione di un punto e mezzo del Pil europeo pari a 200 miliardi di euro, ma si affretta a chiarire che si tratta di una previsione e lascia liberi i governi dei Paesi membri di agire ciascuno secondo le proprie strategie e le proprie disponibilità. Il documento sul clima si muove sulla stessa linea: l´Europa abbasserà le emissioni di gas inquinanti del 20 per cento entro il 2020, ma i Paesi membri ottengono importanti flessibilità nella vendita dei diritti di emissione nonché sostegno europeo per le imprese manifatturiere in difficoltà congiunturale. L´Europa a sua volta sosterrà questi oneri aggiuntivi utilizzando risorse stanziate per altri obiettivi che perdono in tal modo priorità. Si sveste un altare per vestirne un altro.
L´importante è che Sarkozy, Barroso e l´intera compagnia convitata per l´occasione possano annunciare che i due storici documenti sono stati approvati dai 27 governi i quali a loro volta rivendicano d´aver ottenuto importanti concessioni senza le quali molti di loro avrebbero posto il veto paralizzando sia la lotta all´inquinamento sia quella alla recessione. Per quanto riguarda il clima se ne riparlerà tra dodici anni, ma una tappa intermedia è prevista nel 2010 e farà il punto della situazione. Se le imprese stenteranno a procedere verranno chieste nuove concessioni e nuovi aiuti all´Europa. Per quanto riguarda invece la recessione, sarà l´andamento dell´economia a dirci fino a che punto i singoli governi avranno operato per arginare la catastrofe oppure avranno giocato con le parole anziché realizzare i fatti necessari. Nel qual caso saremo al collasso con conseguenze imprevedibili.
* * *
Ho già detto che nella strategia degli annunci l´Italia berlusconiana detiene un primato di cui il suo inventore va giustamente fiero. Ha annunciato un programma economico anti-recessione di 4 miliardi e mezzo di euro, poi l´hanno aumentato a 6 miliardi; adesso stanno giostrando per trovare ancora qualche spicciolo in più, magari prelevandone una parte dagli stanziamenti per infrastrutture. Si tratta di cifre evidentemente insufficienti; tutte le stime attendibili sostengono la necessità di un intervento non inferiore ad un punto e mezzo di Pil e cioè qualche cosa come 25 miliardi da mobilitare e spendere entro il 2009.
Interventi di quest´ordine di grandezza produrrebbero un aumento del debito pubblico e del deficit, visto che il governo sperperò fin dal suo insediamento sei mesi fa ben 7 miliardi di euro tra Ici e Alitalia e ne perse poi un´altra dozzina a causa d´una preoccupante flessione del gettito tributario. In queste condizioni Tremonti non ha spazio per operare se non sfondando le colonne d´Ercole dei parametri di Maastricht sia per quanto riguarda il deficit e sia per il debito pubblico. Oppure spostando risorse da altri usi come del resto sta già facendo. Sottrarrà altri fondi alle aree sottosviluppate e chiederà all´Ue di autorizzarlo ad usare le risorse europee destinate a infrastrutture per rafforzare gli ammortizzatori sociali destinati a fronteggiare l´onda dei licenziamenti in arrivo tra febbraio e marzo. Anche qui si sveste un altare per vestirne un altro. Così fece il nostro ministro dell´Economia con la finanza creativa, gli swap, i condoni, le cartolarizzazioni, nella legislatura 2001-2005. Lasciò i conti pubblici nel baratro ed ora ripete la stessa manovra con segno invertito. Ne vedremo i risultati al più tardi tra due mesi.
Nessuno più di noi spera di essere smentito dai fatti, ma certo non si combatte questa durissima battaglia invitando i consumatori a largheggiare nei regali natalizi e i risparmiatori a investire i propri denari comprando titoli del Tesoro e azioni Enel e Eni. Questi non sono neppure annunci, ma buffonate.
* * *
Altri annunci roboanti che faranno «flop» e che in buona parte lo hanno già fatto riguardano la riforma delle pensioni e quella delle scuole elementari e secondarie. Sulla prima, il ministro Brunetta si avventura in un´altra crociata inutile, chiedendo un innalzamento a 65 anni dell´età pensionabile delle donne sul quale dissente palesemente mezzo governo. Sulla seconda, la Gelmini ha concordato con Cisl e Uil il rinvio di un anno delle riforme previste per la scuola superiore e ha rimesso alla libera scelta delle famiglie l´orario delle lezioni nelle scuole dell´infanzia nonché la scelta del maestro unico o quella di un «team» di insegnanti. Con tali modifiche la cosiddetta riforma Gelmini si riduce al minimo. Personalmente credo sia un bene. Si trattava infatti, e ancora si tratta per la parte residuale rimasta in piedi, di provvedimenti destinati più alla funzione di spot televisivi e mediatici che a riformare strutturalmente gli istituti scolastici. Secondo me la Gelmini va lodata per essersi resa conto che il suo approccio era praticamente insostenibile. Ha dimostrato saggezza anche se ora si ostina a sostenere che nulla è cambiato. Allora i sindacati hanno firmato una pagina bianca? Una delle due parti mente. Nei prossimi giorni sapremo quale, ma intanto i rinvii al 2010 sono già stati effettuati e il ministro si è impegnato ad aprire subito un tavolo di concertazione con i lavoratori precari della scuola. Non sono cambiamenti importanti? Che c´è di male, signora ministro, a riconoscere d´avere sbagliato?
* * *
Il federalismo fiscale è nato come annuncio e tale resterà per un bel pezzo. Per ora è stata approvata una legge-quadro dove ricorre molte volte la parola federalismo ma non è indicata alcuna cifra, alcuna procedura, alcuna organizzazione concreta delle future istituzioni. La Lega vorrebbe che la legge-delega fosse approvata entro dicembre costi quel che costi. Forse si contenterebbe di gennaio ma non un mese di più altrimenti minaccia sfracelli.
Sta di fatto che il Parlamento è intasato e il presidente Fini non sembra nel «mood» di strozzarne i dibattiti. Bisogna approvare i decreti sulle banche e quello in arrivo anti-recessione, poi il decreto Alfano sulla giustizia, altre decretazioni del ministero dell´Interno e di quello della Difesa, le leggi sulla scuola, la legge elettorale per le elezioni europee. Sicché il federalismo, per essere infilato in mezzo a questa super- produzione legislativa, dovrà limitarsi ad un´altra genericità rinviando la sostanza ai regolamenti attuativi dove però entra in gioco la conferenza Stato-Regioni con poteri rilevanti.
In sostanza: la politica degli annunci sta facendo «flop». Se continuerà così diventerà assai poco credibile. Lo pensa anche Galli Della Loggia.
* * *
Si dice: la Cgil ha fatto uno sciopero inutile. In una fase che richiede compattezza ha mandato in scena un vetusto rituale antagonista, perciò zero in condotta ad Epifani e ai lavoratori che l´hanno seguito rimettendoci anche una giornata di salario. Va detto che quei lavoratori erano parecchi. Hanno fatto uno sciopero politico senza alcun obiettivo pratico: così affermano i loro critici.
Secondo me questo modo di ragionare è sbagliato per le seguenti ragioni.
1. Lo sciopero generale è politico per definizione. Non ha come obiettivo la firma di un contratto di lavoro ma il rovesciamento di una politica economica che sfavorisce (secondo l´opinione del sindacato) i lavoratori.
2. Nel caso specifico la Cgil si schiera contro una politica che a suo avviso non tutela i lavoratori dagli effetti devastanti della crisi economica.
3. Lo sciopero generale ha un duplice obiettivo: premere sul governo e dare voce ad una protesta sociale che va al di là dei lavoratori rappresentati dal quel sindacato.
Se la Cisl e la Uil sono riuscite a realizzare alcuni risultati importanti per quanto riguarda la scuola ciò è in parte dovuto alla spinta del movimento degli studenti, alla protesta sociale mobilitata dalla Cgil e alla costante pressione dell´opposizione politica e parlamentare. Sta insomma prendendo forma una controffensiva molto articolata dove convergono con modalità e intenti diversi tutti i settori penalizzati, feriti, delusi e offesi della società sotto la spinta d´una tempesta economica che ha già sradicato gli equilibri esistenti fino a pochi mesi fa. A questa convergenza partecipano anche i sindacati «trattativisti» che riescono dal canto loro a tradurre in aggiustamenti parziali ma significativi gli effetti della protesta generale. La massima «marciare separati e colpire uniti» sembrerebbe esser stata fatta propria in questi ultimi giorni dai tre sindacati confederali.
* * *
L´annuncio al quale invece seguiranno i fatti è quello sulla riforma costituzionale della giustizia. Alcuni osservatori sostengono che anch´esso alla fine si rivelerà uno spot tra i tanti e finirà dimenticato in un cassetto, come accadde alla Lega per la sua campagna di tolleranza zero contro i «rom» e contro l´immigrazione clandestina, cadute entrambe nel dimenticatoio dopo i rilievi e le censure formulate dalla Ue.
La riforma costituzionale della giustizia non è dunque uno dei tanti spot dei quali è lastricato il percorso berlusconiano allo scopo di tenere alti i sondaggi con i fuochi d´artificio degli annunci che si susseguono uno all´altro. Berlusconi vuole costruire una Costituzione della maggioranza. In Parlamento i numeri li ha, nella società spera di averli. La Costituzione della maggioranza infatti ha bisogno di un referendum confermativo che Berlusconi non teme ed anzi desidera pensando di trasformarlo in un referendum su se stesso, sul suo decisionismo, sul suo carisma, sul suo costante appello ai fantasmi d´una destra e regoli una volta per tutte i conti con la sinistra «comunista», con la giustizia «corporativa», con il Parlamento «parolaio» e con la «casta» identificata con i partiti di opposizione.
Questo è il suo progetto e questo il suo futuro. Di fronte ci sono tutte le forze che non vogliono il cesarismo plebiscitario, la monarchia che coopta i successori, la fine dello Stato di diritto, il Capo illuminato e populista cui delegare i poteri con una cambiale firmata una volta per tutte.
La contesa è aperta, la prognosi è riservata. Ma al centro del campo c´è il Presidente della Repubblica, l´elemento di massima garanzia che si batterà fino all´ultimo per impedire che possa esistere una Costituzione di maggioranza che abrogherebbe di fatto la Costituzione democratica, lo Stato di diritto, la politica dell´inclusione e non quella dell´esclusione e della prevaricazione.
Si batterà fino all´ultimo, di questo possiamo esser certi, non per spirito di parte ma per preservare i principi fondamentali della Carta costituzionale dai quali discendono quei diritti e doveri di cittadinanza che sono il tessuto civile dell´Europa e del mondo intero.

Repubblica 14.12.08
Il giovane Mussolini al soldo della Francia
Il dittatore fece chiudere in manicomio un testimone di quei fatti
di Massimo Novelli


Un libro basato su carte trovate negli Archives Nationales racconta una storia inquietante. La storia di un anarchico sospettato, nella Savoia del 1904, di vendere i compagni alla polizia; la storia di un politico interventista foraggiato da Parigi nel 1914; e la storia di un dittatore che fece chiudere in manicomio un testimone di quei fatti
Ho trovato "alcune tue missive", scrisse l´avvocato Donatini al duce, e "mi parve offesa la proposta fattami di disfarmene per cinquecento sterline"

Nel novembre del 1922, a pochi giorni dalla marcia su Roma, due informatori della Sureté Nationale trasmettevano ai loro superiori alcune indiscrezioni, raccolte negli ambienti politici di Parigi, sui rapporti intercorsi fra Benito Mussolini e esponenti del governo francese nel 1914, subito dopo lo scoppio della Prima guerra mondiale. Si faceva riferimento, in particolare, alle ingenti somme di denaro, circa dieci milioni di franchi, che il futuro duce avrebbe incassato dal deputato Charles Dumas, capo di gabinetto del ministro Jules Guesdes, per caldeggiare sul suo Popolo d´Italia l´entrata in guerra dell´Italia al fianco delle potenze alleate. In un´altra nota riservata, poi, Mussolini veniva addirittura indicato come «un agente del Ministero francese a Roma».
I documenti inediti, che rimettono in discussione il giudizio di Renzo De Felice, massimo biografo di Mussolini, sui legami di quest´ultimo con la Francia, sono stati scoperti dallo storico piemontese Roberto Gremmo agli Archives Nationales di Parigi. Li ha pubblicati nel suo libro Mussolini e il soldo infame (edito da Storia Ribelle, casella postale 292, Biella). Oltre a riaprire il capitolo sullo spionaggio, ridando valore alle accuse rilanciate, dopo la Liberazione, dall´ex anarchica Maria Rygier, Gremmo testimonia che nel 1941, nella Francia occupata dai tedeschi, gli emissari fascisti fecero sparire i dossier di polizia su Filippo Naldi, uno dei finanziatori de Il Popolo d´Italia. È pertanto impossibile, annota lo storico, che gli agenti non avessero esaminato e sottratto gli incartamenti intestati a Mussolini, che in effetti non sono mai stati ritrovati nella loro interezza. Che cosa si temeva? Non solo che emergessero le vicende connesse all´interventismo, ma pure quelle sulla frequentazione della polizia francese fin dal 1904, durante i suoi viaggi oltre confine?
è su questi aspetti che Gremmo svolge le sue indagini. E lo fa occupandosi anche dell´avvocato Salvatore Donatini, del quale si serbava una vaga memoria in qualche citazione sugli anni giovanili di Mussolini. Nato nel 1877, militante socialista, senese, lo aveva aiutato e ospitato ad Annemasse, in Savoia, fra il gennaio e il febbraio del 1904. È il periodo in cui «i rapporti dei poliziotti di Annemasse furono stranamente benevoli nei confronti di un individuo come Mussolini, fotografato e schedato come un delinquente» dai servizi di sicurezza di altri paesi. Come mai? Forse perché aveva cominciato a fare l´informatore della polizia, spiando i suoi compagni «sovversivi»? Di Donatini non si era saputo più niente. Consultando i fascicoli che lo riguardano conservati all´Archivio centrale dello Stato di Roma, l´autore del libro ha scoperto che «un robusto filo nero» lega le vicende dell´avvocato toscano a quelle di Ida Dalser, la donna trentina che aveva dato un figlio a Mussolini e che questi fece rinchiudere in manicomio.
Pure Donatini finì in un ospedale psichiatrico. E a mandarcelo fu il duce. Di mezzo, come nel caso Dalser, c´erano le accuse per i suoi legami con i francesi. La sua amante di Trento aveva denunciato che si era venduto a loro all´epoca della Grande guerra, e venne dunque internata. Il socialista senese, alle prese nel 1930 con gravi difficoltà finanziarie, ebbe invece la malaugurata idea di scrivere a Mussolini, confidandogli di avere trovato alcune sue lettere risalenti al soggiorno in Savoia: «Nel frugare le carte per riordinarle trovai alcune tue missive che mi fece piacere averle ritrovate. (...) Non avevo alcuna idea di disfarmene per cui mi parve offesa la proposta fattami da un affarista di disfarmene per Cinquecento sterline. Oggi la cosa non mi pare così offensiva ne (sic) bassa cosa il venderle». Aveva premesso che nelle lettere «non vi è niente che ti faccia torto», ma la sua iniziativa, che aveva lo scopo di farsi dare del denaro, allarmò il duce.
Bisognava agire e recuperare quella corrispondenza che, per una ragione o per l´altra, era considerata compromettente. Erano le prove del «soldo infame»? Può essere. Certo è che Mussolini ordinò di mettere Donatini nelle condizioni di non nuocere. Fu disposta perciò la traduzione in manicomio. Vennero cercate le lettere, ma senza trovarle. Si scoprì però una pistola nello studio del legale. Dimesso dopo poche ore, venne tuttavia minacciato di essere inviato al confino e condannato per il possesso dell´arma. La lezione non gli bastò. Riprese a scrivere a Mussolini e, nel febbraio del 1931, firmò la sua morte civile: denunciò alla magistratura nientemeno che il duce «nella sua qualità di Ministro dell´interno pro tempore del Regno d´Italia», chiedendo inoltre il risarcimento dei danni subiti. Fu spedito ancora in manicomio, questa volta per diversi mesi. Neppure la rivelazione del contenuto delle famose lettere, che non erano quelle ritenute compromettenti, lo salvò. Sospeso dall´esercizio della professione, malato, morì nell´aprile del 1933. Aveva fatto una fine analoga alla Dalser. E sempre nel nome, «proibito», della Francia.

Repubblica Roma 14.12.08
Dal regio decreto ai lager, l'abominio in mostra
di Alessandra Rota


Immagini, filmati ricostruzioni che raccontano la cancellazione dei diritti civili
Al Vittoriano la ricostruzione dei sette anni che culminarono con la deportazione degli ebrei italiani

I binari li trovi appena esci dal tunnel: diciassette metri di rotaie vere che portano direttamente all´ingresso del campo di sterminio di Auschwitz. La porta dell´inferno, la fine di un percorso. Si conclude così, con il viaggio verso la morte raccontato da un grande maxischermo dove la "vita" degli internati e dei loro aguzzini scorre per immagini e suoni, la mostra "Leggi razziali, una tragedia italiana", che sarà inaugurata martedì (aperta al pubblico il giorno dopo) nel Complesso del Vittoriano presso la sala Gipsoteca con ingresso lato Ara Coeli.
A settant´anni dal Regio Decreto («È tempo che gli italiani si proclamino francamente razzisti. La concezione del razzismo in Italia deve essere essenzialmente italiana e l´indirizzo arianonordico» è il proclama uscito il 5 agosto 1938 sul primo numero della rivista La difesa della razza), un modo per non dimenticare, nascondere, edulcorare, falsificare la realtà, ce lo offre questa iniziativa promossa dal ministero per i Beni culturali, in collaborazione con l´Unione comunità ebraiche italiane e curata da Marcello Pezzetti, Bruno Vespa, Alessandro Nicosia.
Sette anni di storia - 1938-1945 - durante i quali i diritti civili scompaiono lasciando il posto alla disperazione e alla deportazione di cittadini italiani ebrei. Come nel film di Ettore Scola Concorrenza sleale il primo impatto con la mostra è "familiare"; scene di vita quotidiana, matrimoni, festività, lavoro. Immagini di persone qualunque prese da archivi privati. È solo il prologo di una tragedia annunciata dalla Notte dei Cristalli in Germania. Tre sezioni della mostra per spiegare meglio i fatti, tre capitoli per arrivare a quelle traversine di ferro: "Fascismo", poi "Le leggi" e infine "Arresti e sterminio".
C´è una voglia di spettacolarizzazione nell´allestimento, che non ha niente della fiction, ovviamente: «Si vedono sempre troppi documenti, carte, fogli. Stancano, distraggono: volevamo tenere l´attenzione sempre vigile» spiega Alessandro Nicosia. E allora ecco la stanza buia dove risuona come un ritornello spettrale la voce di Benito Mussolini, i suoi discorsi. Le parole, i proclami, le minacce, le promesse. In una bacheca vicina sono raccolte le "eccellenze", i nomi di ebrei che hanno ottenuto medaglie, menzioni d´onore, come il generale Umberto Pugliese pluridecorato della prima Guerra Mondiale, come il sindaco di Roma Ernesto Nathan.
Le leggi razziali con un colpo di spugna fecero sparire tutto perché, si legge: «Gli ebrei non appartengono alla razza italiana». Un curioso oggetto ci parla di "pari opportunità"; è un fermacarte che, a guardarlo bene, nella stella di Davide contiene un minuscolo fascio. Dai faldoni delle federazioni sportive sono usciti molti inediti, come i verbali del Coni nei quali il suo presidente (nonché segretario del partito fascista) Achille Starace chiedeva le circolari per espellere tutti gli atleti ebrei.
Divieto di fare sport, divieto di vendere gioielli o stracci, divieto di fare i notai, i giornalisti. Leone Efrati, pugile, campione dei pesi piuma tornò dall´America per stare vicino alla sua famiglia: rastrellato a Roma, finì ad Auschwitz dove venne costretto a combattere per il divertimento dei nazisti. Arpad Weisz, allenatore del Bologna calcio, subì la stessa sorte. Insieme alle foto, all´intera raccolta della Difesa della razza (l´ultimo numero uscì nel giugno 1943) ai manifesti, alle lettere, ci sono anche le cartoline di auguri dalle colonie, nelle quali i ragazzini di colore indossano uno zaino a forma di uovo di Pasqua: un´altra forma di razzismo. C´è anche, ricostruita, un´aula di scuola elementare con i banchi e le seggiole d´epoca, la cattedra. Le due piantine geografiche appese, che provengono dalla Biblioteca Isontina di Gorizia, non segnalano i continenti ma le razze. Sul registro di classe i nomi degli studenti "ritirati": Spizzichino, De Seta, Di Veroli, Di Segni. Sono un elenco premonitore.
Dal lunedì al giovedì 9.30-19.30, venerdì e sabato fino alle 23.30, domenica 9.30-20.30, info 06.69202049

Corriere della Sera 14.12.08
Il progetto Pronta una struttura da 13 mila metri quadrati
Shoah, anche in Italia un grande museo
di Aldo Cazzullo


L'Italia avrà il suo primo grande Museo dell'ebraismo e della Shoah, e sarà un museo aperto, «un antighetto»: un quartiere di Ferrara dove i cittadini potranno entrare liberamente; un volo di ventidue secoli, dall'arrivo degli ebrei a Roma alla rinascita della comunità dopo la tragedia della persecuzione.
Ne parla al Corriere per la prima volta il presidente, Riccardo Calimani, lo studioso dell'ebraismo alla testa della Fondazione che ha nel consiglio Renzo Gattegna, il presidente dell'Unione delle comunità ebraiche.

I promotori: c'è l'ok del governo, si farà a Ferrara Ricostruiremo le storie dei nostri 8 mila deportati

Al progetto hanno lavorato destra e sinistra: concepito nel 2001 da Alain Elkann e Vittorio Sgarbi, Francesco Rutelli ne ha nominato il cda

E poi Gad Lerner, Antonio Paolucci, Cesare De Seta, Bruno De Santis, Saul Meghnagi, Paolo Ravenna, Michele Sacerdoti. Al progetto hanno lavorato destra e sinistra: concepito nel 2001 da Alain Elkann e Vittorio Sgarbi, proseguito da Francesco Rutelli che ha nominato il consiglio d'amministrazione pochi giorni prima della caduta del governo Prodi. «Ne parlo perché ha appena ricevuto da Gianni Letta l'assicurazione che il Museo si farà — spiega Calimani —. Gli ho parlato con sincerità: "Se la crisi non vi consente di andare avanti, vi capisco". Letta mi ha risposto che proprio la crisi ci impone di guardare al futuro. C'è il pieno sostegno da entrambe le parti politiche, dal ministro Bondi come dal sindaco Pd di Ferrara Sateriale. Io stesso sono un uomo al di fuori degli schieramenti. E c'è un punto forse ancora più importante: questo non è un progetto per gli ebrei; è un progetto per il paese».
«L'idea di fondo è che gli ebrei italiani sono sempre stati molto pochi, ma molto importanti per la storia d'Italia — racconta Calimani —. Anche quando furono demonizzati ed esclusi dalla vita civile, comprese le vessazioni più assurde come il divieto di andare in spiaggia, erano 40 mila su 40 milioni. Oggi sono 25 mila. Ma gli ebrei erano in Italia secoli prima dei Papi. E mi piacerebbe che il Museo cominciasse proprio dalle catacombe ebraiche di Roma: semidistrutte, piene di immondizia, cancellate dalla memoria comune, e non per caso».
Tutto nascerà nell'ex carcere di Ferrara in via Piangipane, uno spazio gigantesco, 13 mila metri quadrati dentro le mura, che dovrebbe diventare una specie di porta della città; con una galleria dove passare senza biglietto d'ingresso, ascoltando musica ebraica, composizioni popolari spagnole, classici di Bloch e Mendelson Bartholdi. «Un antighetto» dice Calimani. Ora si sta lavorando per togliere l'amianto dall'edificio. L'ambizione è inaugurare il Museo nel 2011, per i 150 anni dell'unità d'Italia, che segna anche la piena emancipazione degli ebrei.
Ma in qualche modo il Museo è già aperto, grazie alla mostra itinerante di antichi libri ebraici curata dalla nuova istituzione, che il ministero per la Cultura si è impegnato a portare nelle principali città. Il presidente specifica che l'organizzazione del museo è ancora da precisare, e un ruolo decisivo avrà il direttore scientifico Piero Stefani, «uomo impegnato nel mondo cattolico; e anche questo è un segno. Ma alcune linee guida si possono anticipare. «Non sarà solo una raccolta di oggetti. Anche i nazisti a Praga raccolsero argenteria per un “museo della razza estinta”. Sarà un laboratorio culturale. Biblioteca, sala dibattiti. Una parte pedagogica, formativa, e una parte destinata ad alimentare la discussione. La vicenda dell'ebraismo italiano è segnata dalla straordinaria connessione delle radici giudaico- cristiane (penso al sermone della montagna, straordinaria preghiera ebraica entrata nella tradizione cattolica), ma anche dalle contrapposizioni ideologiche, sino alla discussione su Pio XII. Ci trasciniamo dietro una serie di errori che vanno corretti. Si dice: gli ebrei sono sempre stati perseguitati. Un luogo comune che cela una grande insidia: come a dire, qualcosa di male avranno fatto per meritarlo. Invece per secoli agli ebrei italiani non è accaduto nulla. Il segno distintivo da portare sempre addosso è un'imposizione del Concilio del 1215. Il ghetto di Roma è del 1555. Alcuni Papi hanno attaccato gli ebrei, altri li hanno scelti come medici personali: perché grazie ai contatti internazionali erano all'avanguardia nella scienza medica, e perché curavano il corpo e non l'anima. Si parla di antisemitismo eterno, a sottintendere una componente metafisica indistruttibile.
Ma l'antisemitismo nasce con connotazione razziale alla fine dell'800, al termine del secolo del positivismo e del romanticismo, e diventa un'arma politica del tutto distinta dall'antigiudaismo. Tutto questo andrà spiegato e documentato».
Calimani pensa a sezioni dedicate alle comunità storiche, con le loro differenze: Venezia, «dove gli ebrei furono accettati in quanto utili e non furono mai espulsi sino all'occupazione nazista», Ferrara e Livorno contraddistinte dalla tolleranza di duchi e granduchi, e Roma «dove i Papi si sono attenuti alla dottrina di sant'Agostino, per cui gli ebrei non dovevano essere uccisi ma conculcati: da qui le preghiere forzose dei catecumeni e le altre vessazioni durate secoli». E poi le microcomunità: da Pitigliano, «la piccola Gerusalemme», a Casale Mon-ferrato, luoghi dove vivevano poche decine di ebrei che però custodivano identità profonde, testimoniate pure dai minuscoli cimiteri ebraici di Conegliano e Vittorio Veneto; «ma penso anche al Sud, alla documentazione che potrà arrivare dalla Calabria, da Ostia antica, da Bagheria dove un gruppo di ebrei marrani è giunto sino ai giorni nostri».
Altre sale saranno dedicate alla tradizione religiosa e ai riti: nascita, circoncisione, matrimoni, funerali. Ci sarà una sezione antropologica, dall'arte alla cucina. E ci sarà, ovviamente, la sezione della Shoah.
Dice Calimani: «Racconteremo le storie di chi è stato perseguitato nel passato, anche per far sì che in futuro non sia perseguitato più nessuno. Ricostruiremo la vicenda degli ottomila ebrei italiani deportati: un numero relativamente piccolo nel complesso della Shoah; ma una grande tragedia per il paese. I migliori specialisti saranno messi nella condizione di lavorare in piena libertà: anche perché nessuno pretende di avere il privilegio del primato della sofferenza. E' giusto testimoniare l'uccisione di centomila handicappati prima ancora dello scoppio della guerra, così come l'infame persecuzione dei rom, che anche dopo la guerra non hanno avuto voce. Si comincia con gli ebrei, in una prospettiva forte che non si ferma al mondo ebraico» conclude Calimani, enunciando un'idea destinata a far discutere. E ricorrendo a una metafora: «Sono rimasto turbato dal silenzio che ha accompagnato nei giorni scorsi una notizia straordinaria, come il salvataggio di 650 naufraghi grazie ai pescatori di Mazara del Vallo. Siamo al punto che non viene più considerata una buona notizia. Io dico: forse è giusto rimpatriarli; ma certo era giusto salvarli, anziché lasciare che fossero sommersi». E la questione di Pio XII, come sarà affrontata? «C'è un dato di fatto inequivocabile: tacque. Ciò non può essere negato da nessuno. Per il resto, ognuno farà i conti con la propria coscienza: non saranno permesse strumentalizzazioni di alcun tipo».

Corriere della Sera 14.12.08
Studi e ricerche sulla Grande guerra
La matrice unica di lager e gulag
di Frediano Sessi


C'è più attenzione verso gli aspetti esistenziali nell'esperienza dei combattenti

È convinzione comune di molti storici che la Prima guerra mondiale rappresenti il momento fondatore delle pratiche di genocidio del XX secolo. «Nata come una classica guerra interstatale — sostiene Enzo Traverso — nella quale si sarebbero naturalmente dovute applicare le regole del diritto internazionale, riconoscendo cioè nel nemico un justus hostis, essa si trasformò a poco a poco, per l'entità e la dinamica delle forze mobilitate, in un gigantesco massacro». I campi di battaglia, estesi per chilometri e chilometri, diventano così enormi cimiteri. La guerra cambia volto e, agli scontri diretti degli eserciti, si sostituiscono la trincea e la distruzione pianificata di villaggi e città con il conseguente enorme carico di morti e di feriti tra i civili. È in questa fase che sembrano farsi strada una nuova etica e una nuova mentalità in grado di trasformare cittadini rispettabili, padri di famiglia e diligenti lavoratori in assassini senza pietà, al fronte: metamorfosi che verrà in seguito glorificata come servizio alla nazione e missione patriottica. Il nemico si disumanizza e diventa quasi invisibile, nonostante la vicinanza (nascosto nelle trincee o nelle case); e spesso la morte è il prodotto di una «macchina » da guerra: un mostro meccanico (l'aereo bombardiere, il carro, l'artiglieria pesante) o il risultato dell'utilizzo di nuovi ritrovati bellici (gas tossici, lanciafiamme) Anche i campi per i civili, costretti ad abbandonare le loro case e, soprattutto, i campi per i militari prigionieri si moltiplicano e non solo in Europa, a causa della lunga durata del conflitto. E nei campi, la vita diventa un inferno, il prigioniero un uomo di seconda classe, la cui morte non commuove e non desta scalpore, rientrando nel «normale » corso del conflitto. Per esempio, su 600 mila prigionieri di guerra italiani catturati dalle forze nemiche, tra il 1915 e il 1918, circa centomila moriranno di fame, freddo, malattie.
All'origine del primo genocidio del Novecento, quello degli armeni sotto l'impero ottomano, la Grande guerra segna «l'inizio di un imbarbarimento » del modo di concepire i conflitti, che ci appare oggi come una sorta di «laboratorio » delle future violenze dei regimi totalitari. È probabilmente nei suoi campi di battaglia, come scrive Omer Bartov che gli architetti, e gli ideatori della «soluzione finale » conoscono il loro «battesimo di fuoco». Per comprendere e studiare meglio questo snodo della storia europea, la casa editrice Einaudi ci propone una grande opera collettiva in due tomi (edizione italiana a cura di Antonio Gibelli) ideata da Stéphane Audoin- Rouzeau e da Jean-Jacques Becker, La Prima guerra mondiale (primo volume, p. 590, € 75; secondo volume, pp. 790, € 80). Nata all'interno del Centro internazionale di studi di Peronne, l'opera in edizione italiana si avvale di molti contributi nuovi che focalizzano e ampliano il ruolo dell'Italia nel conflitto; tra questi il saggio di Gian Enrico Rusconi sui dilemmi dell'intervento in guerra nel 1915; la puntuale ricostruzione di Nicola Labanca della tragedia di Caporetto; il saggio di Bruna Bianchi su psichiatria e guerra, che affronta le dimensioni di massa che aveva assunto il diffondersi di malattie mentali tra i soldati. L'opera è il frutto di un intreccio molto equilibrato tra l'impostazione tradizionale attenta più all'aspetto militare e politico della guerra, rappresentata qui da uno storico autorevole come Jean-Jacques Becker, e le tendenze impersonate da Stéphane Audoin- Rouzeau, esponente della nuova generazione di ricercatori interessati anche ai lati soggettivi ed esistenziali dell'esperienza dell'orrore e dell'insensatezza della guerra. Si ricostruisce così una «storia dell'umanità offesa, una storia delle identità traumatizzate » e insieme delle culture e delle memorie.

l’Unità 14.12.08
La nuova sinistra stenta
Da Vendola due no a Fava
di Simone Collini


Oltre mille partecipanti all’assemblea “Per la sinistra”, chiedono un nuovo partito
Il leader della minoranza Prc irritato dal forum a l’Unità. «Le liste comuni? Una scorciatoia»

Battaglia dentro Rifondazione su Liberazione. Ferrero: segua la linea della segreteria. I vendoliani: così mettete a rischio la convivenza. Il governatore della Puglia al segretario: «Un partito è uno strumento, non un fine».
La nuova sinistra si porta dietro vizi vecchi. Al teatro Ambra Jovinelli va in scena la presentazione dell’associazione “Per la sinistra”, sponsorizzata da Sd, minoranza Prc, minoranza Pdci e parte dei Verdi. Oltre mille persone riempiono la platea, la galleria e anche la zona pedonale di fronte all’entrata. Ma il tanto entusiasmo nel chiedere di unire le forze e le tante idee che vengono lanciate negli interventi finiscono in secondo piano rispetto ai botta e risposta tra i leader politici presenti (ma non fatti salire sul palco).
Nichi Vendola si rigira tra le mani l’Unità col forum con Claudio Fava e non fa niente per nascondere la sua irritazione. Il governatore della Puglia legge nelle parole del segretario di Sd «una forma di prevaricazione rispetto all’assemblea, che deve proseguire con le primarie delle idee». Soprattutto, al leader della minoranza Prc non è piaciuto il niet di Fava all’ipotesi lanciata da Bertinotti di andare alle europee con un «cartello elettorale» e quell’invito a non fare della nuova sinistra un luogo in cui ostentare l’orgoglio comunista. «Io lo porto con me, non intendo chiuderlo in un archivio», manda a dire Vendola bocciando poi come «scorciatoia politicista» l’idea di tramutare l’associazione in lista elettorale.
Il governatore pugliese deve gestire una fase delicata. Da una parte c’è la pressione di assemblee come quella di ieri, in cui ad un certo punto la platea è scattata in piedi a scandire «par-ti-to par-ti-to», dall’altra c’è una battaglia interna al Prc in cui non si può sbagliare neanche una mossa.
Paolo Ferrero ha fissato la riunione del Comitato politico in contemporanea all’iniziativa all’Ambra Jovinelli. Ieri il segretario di Rifondazione non ha calcato la mano sul fatto che Vendola e i suoi abbiano preferito una riunione esterna a quella del partito (si è limitato a un «sono subalterni al Pd»). Ma oggi presenterà un ordine del giorno in cui si chiede che “Liberazione” segua la linea della segreteria. I vendoliani ne voteranno un altro in cui si dà un avvertimento che suona più o meno così: se viene cacciato Sansonetti entra in crisi la nostra convivenza. Vendola vuole evitare uno showdown prima delle europee, ma sa che una parte dei suoi, come Gennaro Migliore e Patrizia Sentinelli, in caso di un inasprimento potrebbe anche seguire subito il richiamo delle sirene della sinistra unitaria. Per questo Vendola da un lato frena le accelerazioni, dall’altro manda a dire a Ferrero: «Un partito è uno strumento, non un fine. Potevo avere remore a dirlo quando ero nel grande Pci, ma non oggi che sono in un piccolo partito».

l’Unità 14.12.08
Piero Sansonetti «La mia Liberazione serve alla sinistra»
di Natalia Lombardo


Il direttore del quotidiano Prc Non lascio finché non mi mandano via. Non sarà
una tragedia se la sinistra salta il turno europeo

Come trovare, nel bipartitismo, lo spazio per una sinistra radicale autonoma e indipendente?»: è la domanda che pone alla sinistra Piero Sansonetti, direttore di Liberazione.
Claudio Fava boccia l’idea di Vendola su un cartello elettorale per le Europee. Che ne pensa?
«Le europee sono una scadenza di un certo rilievo, ma lo saranno di più le amministrative e le politiche. Certo sarebbe positivo se la sinistra radicale avesse qualche rappresentanza parlamentare, ma se salta un turno non è una tragedia. Non dico che debba puntare tutto sul sociale, ma l’importante è cosa si ha in mente per il dopo. La sinistra radicale deve convincersi che bipartitismo esiste, il problema è come trovare uno spazio organizzato e autonomo. Perché essere un partito dell’1 o 2% che compete con due partiti del 37 e del 57% è di interesse zero per chi vuole fare politica. Devi costruire il tuo futuro dalle condizioni date».
Sa già come?
«Qualche idea ce l’ho, ma oltre questo non vado, per ora».
La partecipazione all’Ambra Jovinelli è un segno di ripresa?
«Vuol dire che nel deserto della sinistra qualcosa sta nascendo, c’è tanta gente vuole fare politica, mentre ognuno è chiuso a guardare il proprio ombelico e parla a se stesso in un delirio autistico».
Ce l’ha con Rifondazione o col Pd?
«Parlo alla sinistra. Ma le due crisi sono connesse, sarebbe assurdo pensare che i destini della sinistra radicale e di quella riformista non siano intrecciati. Bisogna lavorarci.
Se dovesse passare l’ordine del giorno per rimettere in riga Liberazione, lei se ne andrà? Dicono venga a l’Unità come vicedirettore...
«Sto facendo un giornale di sinistra, forse l’unico, con battaglie importanti su grandi temi: i diritti e i salari, i migranti, le libertà anche sessuali e dei comportamenti. Le facciamo anche in supplenza di un partito che sulla politica non esiste più, pensa solo a come essere se stesso. Credo di fare un giornale che serva alla sinistra. Quando mi manderanno via non potrò più farlo, ma finché non mi mandano via continuo così. Non credo che un odg del comitato politico possa cambiare la linea del giornale. Ferrero ha un’indole illiberale verso l’informazione. Io vicedirettore a l’Unità?È del tutto falso».

l’Unità 14.12.08
Giovanni Russo Spena «Un nuovo partito sarebbe una follia»
di Federica Fantozzi


Il dirigente di Rifondazione «Puntiamo a realizzare una confederazione. Da Vendola e Fava un cortocircuito politicista»

Sì a una confederazione delle forze di sinistra ma non a un nuovo partito che superi quelli attuali». Giovanni Russo Spena, ex capogruppo rifondarolo al Senato, è al centro congressi Frentani per il comitato politico del suo partito. Lontano anni luce dalla riunione dell’Ambra Jovinelli: «Non si può tornare indietro a una Sinistra Arcobaleno bonsai».
Si è riunito il comitato politico di Rifondazione. Di cosa discutete?
«La relazione è impostata sulla crisi finanziaria. Serve un’iniziativa di critica alla debolissima azione del governo.
Il secondo punto è il ruolo della Cgil nel rapporto con i movimenti e l’onda studentesca: ha avuto grande coraggio rompendo con Cisl e Uil. Si pone come rappresentante degli interessi sociali e non come inutile sindacato di Stato».
All’Ambra Jovinelli si è riunita l’associazione “Per la sinistra”. Perché non ci siete andati?
«Per noi bisogna ripartire dalla pesantissima sconfitta elettorale elaborando il lutto. La Sinistra Arcobaleno ha perso non solo per la presenza al governo, che certo abbiamo pagato, ma per la mancata lettura dei processi sociali. Dobbiamo tornare nei luoghi della società».
Lo dicono anche Nichi Vendola e Claudio Fava.
«Ci pare che la loro idea sia un corto circuito politicista. Pensano di risolvere un problema mettendo un punto politico. Loro dicono: in alto a sinistra. Noi: in basso a sinistra».
Perché dice no a una linke italiana? Un raggruppamento della sinistra sarebbe un déja-vu rispetto alla Sinistra Arcobaleno?
«Esatto. Diciamo sì a un coordinamento delle forze della sinistra, al lavoro unitario, a un sistema a rete e alla confederazione. Non a un nuovo partito che superi quelli attuali. Sarebbe una sinistra Arcobaleno bonsai: del resto il Pdci ha già detto no, gran parte di Prc non ci starebbe, i Verdi rilanciano il Sole che Ride».
Obiettivi e strategie per le Europee?
«Ne parliamo a gennaio. La collocazione e il sistema di alleanze dipenderanno da questo mese e mezzo di lavoro. Già dopo le elezioni in Abruzzo capiremo qualcosa».
Farà il direttore di “Liberazione”?
«Ho già detto mille volte di no. Preferirei diventare arcivescovo di Canterbury».

Repubblica 14.12.08
In Rifondazione resa dei conti su Sansonetti


ROMA - Paolo Ferrero vuole la testa di Piero Sansonetti, il direttore di Liberazione troppo autonomo. La resa dei conti oggi, nella riunione del Comitato politico nazionale: il segretario presenta un ordine del giorno che è l´anticamera del siluramento. Perché il giornale può essere autonomo ma non fino al punto di sconfessare la nuova linea politica. L´accusa insomma è sempre la stessa: Sansonetti continuerebbe a confezionare un giornale filo-bertinottiano.Una raffica di contestazioni. Il quotidiano ignora Castro, Chavez, i comunisti greci. Paginate riservate alla vittoria di Luxuria all´Isola dei Famosi, silenzio sul convegno della sinistra europea che si svolgeva in contemporanea, con Ferrero e Lafontaine. Sansonetti replica: «Ferrero ha un´idea arcaica della stampa».
L´ala Vendola è pronta a dare battaglia. Stamattina in Cpn - disertato ieri per la nascita della Sinistra, con Fava e la Francescato, ma non i verdi di Bonelli - lancia un contro-ordine del giorno in difesa del direttore. I numeri però, salvo clamorose sorprese, stanno dalla parte del segretario. Per defenestrare Sansonetti comunque bisognerà passare poi attraverso la direzione del partito e il consiglio di amministrazione di Liberazione. Non è detto però che il direttore se ne voglia restare immobile alla scrivania. Se passa l´odg che lo mette in mora, Sansonetti potrebbe essere tentato dall´idea di rimettere il mandato. Ipotesi però che per ora esclude.

il Riformista 14.12.08
Ritorna l'Arcobaleno su Roma. All'Ambra un solo grido: «Partito!»
Rieccoli. I reduci del disastroso cartello elettorale fondano l'Associazione per la Sinistra. Ma già litigano sulle europee. Vietato parlare di scissione a Vendola, ma il traguardo è quello.
di Serenella Mattera


Alla fine ha vinto la speranza. «Speranza di trasformazione contro il capitalismo contemporaneo», certo. Perché è questa la proposta che ha trionfato nelle primarie delle idee. Ma soprattutto la speranza di un nuovo partito della sinistra. Quando Fabrizio, quarantenne di Ancona, ha incitato dal palco ad andare al sodo, a fare un partito e a farlo subito, la platea e il loggione del teatro Ambra Jovinelli sono esplosi: «partito, partito, partito». Avanti così, per qualche minuto. Un messaggio chiarissimo per i dirigenti di Sinistra democratica, dei Verdi, di Rifondazione (area Bertinotti-Vendola) e dei Comunisti italiani (pochi) seduti nelle prime file. Nelle loro parole ancora distinguo e prudenza. Negli applausi e nei discorsi degli aderenti alla neonata Associazione per la sinistra, una convinzione molto chiara: serve un nuovo, possibilmente grande, partito.
"Per me la sinistra è…". È la domanda che ha aperto ieri a Roma le primarie delle idee. Di che si tratta? «Un insieme di persone liberamente aderiscono per costruire un nuovo soggetto politico di sinistra», spiegano. L'intuizione è quella di buttare il cuore, le idee avanti. E sembra un'intuizione felice, a giudicare dall'affluenza all'Ambra Jovinelli. Posti in piedi, calca dentro e fuori. Ci sono quelli delle sezioni di partito, soprattutto. Gente scottata dalle ultime elezioni («La sinistra, adesso, non è, non esiste!» urla una donna dal palco). Ci sono i giovani comunisti e i Verdi, quelli di Sd (i più compatti ed entusiasti), tanti vecchi comunisti e qualche femminista. A loro la parola. Una clessidra a segnare il tempo. Il moderatore Moni Ovadia è severo: tre minuti ciascuno, senza eccezioni. Parlano in 52. Tra di loro, nessun alto dirigente. Unica eccezione, un rappresentante della Linke, la sinistra tedesca, perché spieghi come hanno fatto ad avere successo. Per il resto, nessun politico di professione. Lo si è deciso per dare un segnale forte, o, secondo un'interpretazione più maligna, per evitare imbarazzi. Perché le idee, tra i dirigenti, non sono ancora così chiare.
L'Associazione per la sinistra, che si è riunita ieri per la prima volta a livello nazionale, è nata da un'iniziativa della Sinistra democratica, della minoranza di Rifondazione comunista che fa capo a Nichi Vendola (incluso Bertinotti, che non era presente) e di una parte dei Verdi (Paolo Cento su tutti). Nelle prime file del teatro romano si sono visti in tanti. Vendola, Giordano, Migliore (Prc), Fava e Mussi (Sd), Katia Bellillo (Pdci), Grazia Francescato (Verdi). C'erano, tra gli altri, Achille Occhetto, Giuliana Sgrena, Giuliano Giuliani, Piero Sansonetti.
Quindi? Un nuovo partito? Le cose non sono così semplici. Lo si è visto fin da ieri mattina, con un botta e risposta tra Fava e Vendola. Il segretario di Sd in un'intervista a L'Unità ha bocciato l'idea di un cartello elettorale per le europee tra le forze della sinistra, proposto invece dal presidente della Puglia. E nel pomeriggio è tornato a bollarla come «un'idea riduttiva». Vendola, «stupito», ha spiegato che il cartello sarebbe un modo per «mettere al riparo dalla nostra diversità la parola sinistra». Insomma: prendiamoci tutto il tempo per costruire un soggetto nuovo e intanto affrontiamo le europee con un cartello. E Rifondazione, che proprio ieri, assente Vendola, riuniva il comitato politico? «Il partito non è una chiesa - ha detto il governatore pugliese - Potevo avere delle reticenze quando era grande e si chiamava Pci, non ora che è piccolo e sbanda. Mi prendo la libertà di essere comunista».
Ma, a tirare le somme, niente risposte. Quelli di Sd sono i più entusiasti sostenitori della costituente di un nuovo partito. Chiedono tempo e un processo che parta dalle idee, quelli della corrente vendoliana del Prc. Sono spaccati i Verdi. «La gente è molto più avanti - ha riassunto Sergio Baiocchi, sezione Sd Garbatella - Io e molti miei compagni, la maggior parte di quelli che sono qui oggi, siamo convinti che si debba fare velocemente un nuovo partito. Chi ci sta, ci sta».

Corriere della Sera 14.12.08
Via libera alla pillola abortiva «Il governo non può fermarla»
Il sottosegretario Roccella: ormai l'agenzia ha detto sì
di Margherita De Bac


ROMA — E' in arrivo la Ru486, la cosiddetta pillola abortiva.
In settimana l'Agenzia del farmaco (Aifa) potrebbe dare il via libera definitivo.
Secondo il sottosegretario al Welfare, Eugenia Roccella, «il governo non può fermarla».
Restano da stabilire il prezzo e le modalità di prescrizione: ci sarà l'obbligo di almeno un giorno di ricovero

ROMA — È questione di poco tempo l'introduzione in Italia della Ru486, la pillola abortiva. Questa settimana il Consiglio di amministrazione del-l'Aifa, l'Agenzia del farmaco, potrebbe dare il via libera definitivo alla pasticca che ha consentito a milioni di donne in tutto il mondo di interrompere la gravidanza senza entrare in sala operatoria. E il governo non può fare niente, ammette Eugenia Roccella, sottosegretario al Welfare. Questo perché la pillola di fatto aveva già ricevuto il passaporto lo scorso febbraio, autorizzata per procedura di mutuo riconoscimento dal comitato tecnico scientifico dell'Aifa durante il governo di Romano Prodi. Il comitato allora presieduto dall'ex capo dell'Agenzia, Nello Martini, aveva espresso parere favorevole giudicando positivo il rapporto costi-benefici purché il suo impiego fosse coerente con la 194 e fosse previsto solo in ambito ospedaliero.
Il meccanismo si è messo in moto e il prodotto è all'ordine del giorno della riunione di fine d'anno del Cda dell'Aifa: «Arrivati a questo punto, non ci sono motivi per dire di no», dicono le persone bene informate sui lavori dell'organismo da cui dipende il prontuario terapeutico del nostro Paese.
«Noi non possiamo fare più niente per bloccare un farmaco che a nostro parere espone a molti rischi. Ma è una truffa dire alle donne che è sicuro e che rende l'aborto facile», contesta Eugenia Roccella, impegnata a denunciare con Assuntina Morresi (ora sua collaboratrice al ministero) i pericoli della Ru486. «Poi questo farmaco ha ancora molti lati oscuri. Ha provocato almeno 16 morti», sottolinea. «E verrà somministrata in ospedale solo in teoria. Nella pratica le donne firmeranno il registro delle dimissioni e torneranno a casa, senza neppure una notte di ricovero, come è avvenuto nel 90% delle volte nel corso della sperimentazione a Torino. E questo è un rischio», aggiunge il sottosegretario.
Dunque l'arrivo in commercio della famigerata pillola a base di una sostanza, il mifepristone, che «blocca il nutrimento » dell'embrione, è ormai una questione di settimane. La ditta francese che la produce, l'Exelgyn, ha già trovato l'azienda cui appoggiarsi in Italia per distribuirla. Restano da stabilire solo il prezzo e le modalità di prescrizione. La Ru486 potrà essere data solo in ospedale e con obbligo di almeno un giorno di ricovero. Non sarà un farmaco da portare a casa, lontane dal controllo medico.
L'unica motivazione che l'Aifa potrebbe avanzare per rimandare il via libera e rinviare le inevitabili polemiche da parte del mondo cattolico (soltanto l'altro giorno il Papa ha rinnovato la sua condanna) sarebbe di carattere economico. Ma sarebbe un arrampicarsi sugli specchi. Eugenia Roccella però vuole continuare la sua battaglia: «Le donne devono sapere che l'aborto chimico non è una passeggiata».

Repubblica 14.12.08
Gli incubi del sogno cinese
di Federico Rampini


Il 18 dicembre 1978, per volontà del leader di allora Deng Xiaoping, il partito comunista introdusse degli incentivi di guadagno per i contadini più produttivi. Fu l´inizio del sommovimento epocale che ha portato la Cina ai vertici dell´economia mondiale. Trent´anni dopo, però, l´anniversario è amaro: il boom appare minacciato dalla crisi globale
Prima di oggi il gigante asiatico era stato al riparo dagli effetti dei cicli economici negativi
"Non avremmo mai immaginato tanto benessere Ma sarà lo stesso per i nostri figli?"

Wang Shan era un giovane medico di 22 anni, Yang Yin un´infermiera di 19, quando si presentarono all´ufficio matrimoniale nella loro cittadina dello Hunan. Ciascuno aveva in mano la lettera della «unità di lavoro», la cellula del partito comunista che li autorizzava a sposarsi. Nessun fotografo, niente abito da sposa. «Con un salario di 30 yuan (3 euro) al mese - dice Wang - il banchetto nuziale fu una distribuzione di caramelle ai colleghi di lavoro. Per avere un letto matrimoniale dovetti prendere in prestito una brandina dell´ospedale». Il sogno della giovane coppia? «Un futuro radioso per noi voleva dire poterci comprare una bicicletta, una macchina da cucire; forse perfino un orologio da polso, e il lusso estremo di una radiolina a transistor», ricorda Yang. Era una vigilia d´inverno di trent´anni fa. Wang e Yang non potevano sapere che il giorno stesso delle loro nozze nei palazzi del potere di Pechino maturava una decisione che avrebbe cambiato il resto della loro vita, il loro orizzonte e i loro sogni, consegnando a generazioni di figli e nipoti una Cina irriconoscibile.
La data: 18 dicembre 1978. Quel giorno, alla terza sessione plenaria dell´11esimo Comitato centrale del partito comunista, il leader Deng Xiaoping presentava una mozione di cui pochi capirono la portata. Una modesta riforma: così sembrava, nel tipico stile gradualista e prudente di Deng. Raccomandava ai villaggi agricoli di introdurre un sistema di «responsabilità» - è la definizione sibillina del testo ufficiale - per legare il guadagno dei contadini alla produttività dei loro raccolti individuali. Era l´inizio della contro-rivoluzione. L´abbandono dell´egualitarismo maoista. Il primo germe dell´economia di mercato, introdotto alla chetichella nell´immenso corpo indolente della Cina rurale, il gigante addormentato del Terzo mondo. Il virus del guadagno, iniettato a centinaia di milioni di contadini, in pochi anni fece crescere i raccolti a livelli mai visti, affrancando per sempre la Repubblica popolare dal flagello delle carestie. Di lì a poco Deng avrebbe varato un esperimento ancora più importante, creando le «zone economiche speciali» nella regione meridionale del Guangdong. Erano porti franchi aperti agli investimenti stranieri, su cui si lanciarono per primi gli scaltri capitalisti cinesi d´oltremare, da Hong Kong e Taiwan. L´inizio del prodigio industriale cinese.
Da quel Plenum del partito comunista di trent´anni fa parte una catena di eventi che ha cambiato il destino di un miliardo di persone e la storia del mondo. Ha stravolto le gerarchie tra le nazioni, ha disegnato la fisionomia della globalizzazione. La sorte ora gioca uno scherzo crudele a questo anniversario. Per mesi i leader di Pechino avevano curato i preparativi della celebrazione: il secondo grande evento del 2008 dopo le Olimpiadi, per l´iconografia del regime. Ma proprio quando arriva la data fatidica per commemorare i trent´anni di economia di mercato, sulla Repubblica popolare soffia un vento sinistro. Lo spettro di una Grande Depressione è in cima ai pensieri di tutti. Non è aria di festeggiamenti ma di interrogativi angosciosi. Uno domina su tutti: quale sarà il prezzo da pagare per essere balzati ai vertici del capitalismo mondiale? Per una nazione che non ha una vera memoria storica del 1929 (allora la sua economia era troppo decadente e periferica per sentire davvero gli effetti del crac), poi fu isolata a lungo dall´autarchia maoista, questo è il primo impatto veramente drammatico con un rovescio del ciclo economico. Le riflessioni sulla svolta storica di trent´anni fa assumono di colpo un tono diverso. Dai racconti sul "come eravamo" affiora una curiosità nuova, la voglia di riscoprire esperienze sepolte nel passato dei genitori e dei nonni, ricordi di privazioni, rinunce, miserie quotidiane.
Yu Manxiang oggi ha 58 anni, è infermiera all´ospedale Ruijin di Shanghai. La figlia di Yu compiva due anni alla vigilia delle riforme di Deng Xiaoping. «Nel 1978 - ricorda Yu - avevamo ancora la tessera del razionamento alimentare. Un chilo di uova al mese, nemmeno un uovo al giorno per la mia bambina. Il diritto a una bottiglia di latte quotidiana era scaduto al compimento del suo primo anno. Vivevamo in un appartamento diviso tra più famiglie, in un caseggiato popolare senza accesso alle fognature. Ogni mattina facevamo i turni per pulire la latrina collettiva. Anche l´unico rubinetto dell´acqua corrente dovevamo usarlo a turno». Sua figlia Zhou Zhuxin si è sposata nel 28esimo anniversario delle nozze dei genitori. Per il banchetto si è fatta truccare da un celebre coiffeur-stilista; ha affittato un salone privato in un hotel a cinque stelle, con orchestra e piattaforma da ballo liscio; un cameraman professionale ha prodotto un dvd dell´evento come omaggio per tutti gli ospiti. I giovani sposi, laureati e dipendenti di multinazionali straniere, si sono trasferiti in un appartamento di 150 metri quadri che all´epoca dei genitori avrebbe ospitato cinque famiglie. La mamma della sposa insieme alla gioia sente un velo d´inquietudine: «Quando eravamo giovani non avremmo mai immaginato tanto benessere. Quello che è accaduto in trent´anni è andato ben oltre i nostri sogni. Ma sarà lo stesso per questi ragazzi?».
Xue Deyu ha 64 anni. Nel 1978 lavorava come impiegata per un´azienda farmaceutica di Shanghai, salario 40 yuan al mese (quattro euro). Ricorda gli acciacchi di quegli inverni. «Quando si avvicinava il Capodanno lunare - racconta - scattava l´ansia di fare provviste alimentari con settimane di anticipo, visto che mancava tutto. Chi arrivava ultimo al mercato poteva restare a mani vuote. Perciò si organizzavano file notturne davanti al negozio di quartiere, lunghe code per essere pronti a scattare il mattino, e quando apriva la saracinesca era un parapiglia, liti e risse. Faceva talmente freddo durante quelle attese che al Capodanno arrivavamo regolarmente ammalati». Da quel momento in poi, la sua storia è una ricostruzione esemplare del formidabile boom economico innescato da Deng. Nel 1984 Xue e il marito sono promossi manager in riconoscimento dei loro studi (durante gli anni del radicalismo maoista, al contrario, le competenze erano un demerito e una causa di persecuzione). Lo stesso anno comprano il loro primo televisore in bianco e nero. Nel 1986 il primo frigo. Nell´88 la tv a colori, nel ?92 il telefono individuale in casa e la prima motocicletta del marito.
È una storia qualunque. È moltiplicandola per centinaia di milioni che si capisce l´eccezionalità di questo trentennio. L´epoca in cui il "pianeta delle biciclette" ha lasciato il posto alle megalopoli futuristiche di Pechino e Shanghai, capitali di un mercato automobilistico da 15 milioni di vetture. Da quel fatidico Plenum comunista del 1978, per trent´anni di fila la nazione più popolosa del pianeta si è lanciata in una corsa fenomenale. Una crescita economica che non ha precedenti nella storia umana: in media 9 per cento di aumento del Prodotto interno lordo all´anno. Il reddito pro capite dei suoi abitanti è decuplicato. Trecento milioni di persone hanno varcato la soglia della povertà e hanno avuto accesso a un benessere moderno. Questa Cina che ce l´ha fatta è la più vasta "middle class" del pianeta, grande quanto tutta la popolazione americana. E lo stereotipo del "capitalismo autoritario" - semplificazione in voga in Occidente - non rende l´idea dell´esplosione di libertà individuali così come la percepisce il ceto medio cinese. Oggi nessuno per sposarsi deve presentare la lettera della cellula comunista; neanche per avere il passaporto e andare all´estero. Il dinamismo, la velocità del cambiamento, la fiducia nel futuro hanno fatto della popolazione cinese la più ottimista del mondo, in tutti i sondaggi internazionali degli ultimi anni. La parabola fantastica che in trent´anni ha portato la Cina dall´1 per cento del Pil planetario (un nano irrilevante all´epoca della svolta di Deng) fino alla sfida con gli Stati Uniti per il primato mondiale, ora incontra il suo primo serio incidente di percorso. Più grave forse perfino del massacro di Tienanmen, che schiacciò nel sangue il sogno democratico di una minoranza.
Oggi le ombre della recessione si estendono sulla Cina tutta intera, un miliardo e trecento milioni di persone. Nella sola provincia del Guangdong, proprio quella dove Deng inaugurò le sue «zone economiche speciali» trent´anni fa, hanno chiuso per bancarotta 67.000 fabbriche. Le boom-city che furono gli avamposti della nuova frontiera, Canton e Shenzhen, sono le prime a subire il crollo delle esportazioni verso l´Occidente. La velocità con cui si propaga la crisi ha colto tutti di sorpresa. Ancora all´inizio di quest´anno la Repubblica popolare era l´Eldorado di Airbus e Boeing: la febbre del turismo faceva esplodere il traffico passeggeri; la settimana scorsa il governo ha ordinato a tutte le compagnie aeree di cancellare gli acquisti già prenotati di nuovi apparecchi. Dall´automobile all´elettronica, dal cemento all´acciaio, ogni industria è in stato di choc. Il calo degli ordini dall´Europa e dall´America ha un effetto moltiplicatore sui consumatori cinesi, che in preda alla paura smettono di spendere a loro volta.
Un´impresa che va a gonfie vele invece sono le ferrovie dello Stato. «Ogni giorno - ha detto un capostazione dello Hunan - arrivano treni stracolmi di operai licenziati dalle fabbriche, tornano qui nelle campagne che avevano abbandonato». È l´inizio di un contro-esodo di massa? Commenta cinicamente un dirigente della banca centrale: «Il nostro unico Welfare State è l´agricoltura: chi perde il lavoro torna a lavorare la terra». Per questi immigranti di ritorno è la fine del grande sogno cinese. Circolano stime semi-segrete che fanno rabbrividire i leader di Pechino: l´anno prossimo il ritmo di crescita potrebbe dimezzarsi. Dall´11,7 per cento di aumento del Pil nel 2007 si rischia di scendere al 6, uno sviluppo insufficiente per creare i venti milioni di posti di lavoro necessari a impedire un´epidemia di disoccupazione di massa.
Proprio come nel 1929 e alla fine di tutte le "bolle" speculative occidentali, anche in Cina gli scandali accompagnano i segni premonitori del disastro. Huang Guangyu, il fondatore dell´impero elettronico Gome, in vetta alla top ten dei miliardari cinesi, è nelle mani della polizia incriminato per una serie di reati finanziari. A Pechino e Shanghai l´unica professione che conosce un successo inaspettato è quella degli psicologi. È una figura sconosciuta nella tradizione cinese, che preferisce l´erboristeria tradizionale, i saggi buddisti o i chiromanti. Ma la paura di una Grande Depressione si accompagna alla depressione minuscola, malattia moderna che si diffonde tra i giovani colletti bianchi delle grandi città.
I discendenti di Deng avvertono il rischio che si stia chiudendo una fase gloriosa, il Trentennio Dorato. Il presidente Hu Jintao ha dichiarato che questa crisi «mette alla prova la capacità di governo del partito comunista». Sono parole inconsuete, tradiscono l´insicurezza del regime che ha gestito il più audace esperimento capitalistico del XX secolo. Per ora Hu non mette in discussione le scelte fatte da Deng in quel dicembre del 1978. Nessuno la evoca apertamente, ma traspare in alcune frange del partito e dell´opinione pubblica la tentazione di innalzare una nuova muraglia cinese, di denunciare la crisi come un complotto americano, di tornare a forme di protezionismo per isolarsi dal contagio dell´Occidente. Ma se si spezza il sogno che ha tenuto unito questo popolo, e gli ha dato la forza di compiere imprese inaudite, nessuno sa veramente che cosa può accadere dopo.