martedì 16 dicembre 2008

Corriere della Sera 16.12.08
Joumana Haddad. Una poetessa libanese lancia il periodico «Corpo»
La rivista araba che parla di sesso
di Viviana Mazza


Il caso Attesa e insulti per un nuovo trimestrale edito in Libano
«Corpo»: la rivista araba che spezza gli ultimi tabù
Feticismo e sesso orale tra i temi del primo numero
Ideatrice e direttrice Joumana Haddad, 38 anni, poetessa e giornalista libanese cattolica

C'è grande attesa per il primo numero di Jasad, «Corpo»: sulla copertina della rivista trimestrale libanese vietata ai minori (a sinistra) spicca un corpo di donna avvolto in un drappo rosso. La «J» disegnata come una manetta aperta «si riferisce alla necessità di spezzare i tabù», spiega la direttrice, la poetessa Joumana Haddad, 38 anni (qui sopra). Sesso orale e omosessualità fra i temi degli articoli del primo numero.

«Era una giornata di primavera che improvvisamente divenne molto più calda. Lei indossava dei collant di nylon con scarpe basse leggere e, all'aumentare della temperatura, mi annunciò che non li sopportava più. Ci allontanammo dagli sguardi curiosi, rapidamente si tolse i collant e ricordo ancora il momento esatto in cui i suoi piedi furono denudati, liberi dal loro involucro nero trasparente...». Così Ibrahim Farghali, scrittore egiziano, si confessa feticista del piede in un articolo che apparirà questa settimana sul primo numero di una rivista in lingua araba edita in Libano.
Sulla copertina nera spicca un corpo di donna avvolto in un drappo rosso. In alto, la scritta Jasad, corpo. La «J» è disegnata come una manetta aperta. Non è un invito al sado-maso, ma «si riferisce alla necessità di spezzare i tabù», spiega l'ideatrice e direttrice, Joumana Haddad, 38 anni, poetessa e giornalista libanese cattolica. Nonostante la copertina ricca di metafore, Jasad è un tentativo di chiamare le «cose del corpo» col loro nome, in arabo. Oggi nella lingua araba, non appena si parla di corpi, «si annega in un mare di metafore », spiega Haddad, che parla 7 lingue, tra cui la nostra, ed è in Italia per curare il suo primo libro di poesie in italiano, Adrenalina (Edizioni del Leone; uscirà in primavera). «Per il pene usano la parola colonna. Clitoride non si può dire. Per l'organo femminile ci sono più di 100 parole, tutte di letteratura, di grande bellezza. Ma non siamo abituati a pronunciarle, solo nella nostra testa o a voce bassa. Un'amica mi ha detto: preferisco leggerti in inglese, quando ti leggo in arabo ho paura del peso delle parole».
Sesso orale, omosessualità, cannibalismo sono tra i temi trattati nei 50 articoli del primo numero, firmati da scrittori arabi, la maggior parte musulmani.
Jasad è un trimestrale, vietato ai minori. L'attesa è grande. «O Signore, fa che sia in vendita in Giordania», scrive un lettore sul sito di Al Arabiya. Sarà venduto in edicola e libreria a Beirut, inviato per corriere in Medio Oriente e Maghreb. Gli abbonati sono centinaia. Ma ci sono anche giudizi negativi (e insulti per Haddad). Alla fiera del libro di Beirut, membri del partito sciita Hezbollah hanno tentato di chiudere lo stand di Jasad. L'Arabia Saudita ha bloccato il sito web della rivista. «Ma è il paese con il più alto numero di abbonati ».
Haddad va avanti. « Jasad è una rivista di cultura in cui si tratta del corpo, non solo nella dimensione erotica, ma anche in quella sociale, etica e linguistica », spiega. A quella erotica è dato molto spazio anche perché «è stata rubata agli arabi». A chi la accusa di copiare gli occidentali, consiglia di leggere Il giardino profumato di Nafzawi e i testi non censurati de Le mille e una notte. «E ho trovato dei testi in arabo del secolo X e IX che farebbero arrossire lo scrittore occidentale più osceno. La scrittura araba parlava del corpo con una bellezza e una facilità che si è persa». Perché? «Una ragione è il potere gradualmente più grande della religione sulla nostra vita». Non si riferisce solo all'Islam. «Sono cresciuta in una famiglia molto tradizionalista, con un padre che se avesse immaginato quello che avrei fatto si sarebbe buttato dal terzo piano». Ma oggi papà è al suo fianco.

Corriere della Sera 16.12.08
Perplessità L'attivista sudanese
«Rischia di restare un esercizio di salotto delle libanesi bene»
di Cecilia Zecchinelli


IL CAIRO — «È importantissimo rompere il muro di silenzio che circonda il sesso nel mondo musulmano, i tabù sociali, l'ipocrisia e l'ignoranza. Ma questo è un campo minato, ogni messaggio sbagliato si riflette negativamente sulle donne. Staremo a vedere». Nahid Gabrella, nota e combattiva attivista per i diritti umani sudanese, fondatrice e capo dell'Ong Seena per la difesa delle donne e dei bambini, consulente del governo di Khartum sulla questione delle mutilazioni genitali femminili, ammette di non aver ancora letto Jasad, la rivista della libanese Joumana Haddad che parla esplicitamente di sesso. «Ma ne ho sentito parlare in tv, su Al Arabiya, e ora sono curiosa di averla tra le mani e capire», ci dice a margine della grande conferenza tenuta al Cairo sulle mutilazioni femminili, copresieduta e voluta da Emma Bonino. «Tanto abbiamo bisogno, noi donne e uomini dei Paesi musulmani, di parlare di sesso in modo non superficiale e ascientifico, tanto è cruciale che la questione sia inquadrata nel giusto contesto».
Ovvero? «Ovvero considerando la donna finalmente come un soggetto con tutti i suoi diritti e doveri, desideri e valori. Superando i nostri media, che vedono la donna sempre come una bomba erotica, da coprire e velare o da esibire per far pubblicità a qualcosa o piacere all'uomo. Ricordando che ben venga la consapevolezza erotica, ma la priorità delle musulmane, anche per restare nel capitolo "sesso", sono soprattutto i matrimoni obbligati che diventano stupri, le violenze sessuali, le mutilazioni».
Temi che forse dalla «Beirut bene» di Joumana sono lontani. Dalle tv alle sue cantanti, il Libano nel mondo islamico è assolutamente atipico per libertà. «Certo, e parlare di sesso è e dev'essere talmente legato al contesto sociale che mi chiedo come una rivista simile possa essere diretta, come ho sentito, a "tutto il mondo arabo islamico". Perfino il Sudan ha al suo interno varie etnie, culture, tradizioni. Il Libano ha il Sud sciita, donne velate accanto a quelle in bikini. Davvero sono curiosa ma anche perplessa: un libro sul sesso, lo capisco, ma una rivista? Per essere interessante non può ignorare ma temo neanche conciliare culture e realtà così complesse». Rischia di restare una cosa da salotto libanese? «Esattamente. Anche se comunque, ripeto, il muro del silenzio va abbattuto. E ancor più va rotta quell'educazione sessuale che in realtà sono tradizioni senza scienza né rispetto dei diritti umani fatta tutta in famiglia, trasmessa da mamma a figlia, da nonna a nipote. Se al mondo ci sono 120 milioni di donne e bambine mutilate è proprio per questo motivo».

Corriere della Sera 16.12.08
Appello Internet In 24 ore 2500 adesioni. Nessun veto dal governo ma sabotaggio via email da parte degli ultranazionalisti
La lettera dei 300: «Armeni, scusateci»
La sfida degli intellettuali turchi: non neghiamo la Grande catastrofe del 1915
Il testo non parla di genocidio né di massacro e per questo ha spiazzato anche i più conservatori
di Antonio Ferrari


Un appello personale, intimo, nel quale si può specchiare la coscienza di ciascuno, è più efficace e penetrante di grida scomposte, sommari giudizi e drastiche condanne.
E' quanto hanno pensato gli oltre trecento intellettuali turchi decidendo di preparare, firmare e diffondere una lettera di scuse per la «Grande catastrofe » del 1915, quando centinaia di migliaia di armeni ottomani furono deportati in una delle più terribili pulizie etniche del secolo scorso. «La mia coscienza — si legge nell'appello — non accetta il diniego della Grande catastrofe. Respingo questa ingiustizia e simpatizzo con i sentimenti e la pena dei miei fratelli armeni. Mi scuso con loro».
Una domanda di perdono che prende forza proprio dall' understatement con cui è stato compilato il testo. Il professore di scienze politiche Baskin Oran, uno degli autori del breve documento, invitando i suoi connazionali a firmarlo, ha commentato: «La nostra preoccupazione è di essere capaci, la mattina, di guardarci allo specchio ». La lettera non è stata consegnata ai giornali, ma per la sua diffusione si è scelta l'autostrada senza barriere di Internet.
La via dell'informazione democratica globale. Sul sito (www.ozurdiliyoruz.com/default. aspx) in meno di ventiquattr'ore sono già arrivate duemilacinquecento adesioni.
L'appello, per il suo carattere personale, ha spiazzato anche i più conservatori, contrari all'iniziativa. Non si parla infatti né del genocidio né del massacro di massa degli armeni, di cui Erevan chiede da tempo il riconoscimento, più che una chiara ammissione di responsabilità. Certo vi è stata da subito la brusca reazione degli ultranazionalisti, legati a quello «Stato profondo» che condiziona la vita della Turchia. Più d'uno ha cercato di sabotare l'iniziativa, inviando email con nomi di estremisti di destra e di defunti ultraconservatori, giusto per confondere le idee.
Il silenzio del governo islamico- moderato di Recep Tayyip Erdogan e dello stesso presidente della repubblica Abdullah Gul pare una tacita conferma dell'interesse (se non proprio della simpatia) per l'appello che sembra coniugarsi con i timidi passi che stanno riavvicinando Turchia e Armenia. Le relazioni diplomatiche tra i due Paesi, dopo decenni di ostilità, erano state interrotte nel 1993, ai tempi della guerra per l'enclave del Nagorny-Karabach. Ma nel settembre scorso una partita di calcio tra le due nazionali, che si giocano la qualificazione per i mondiali del 2010 in Sudafrica, ha compiuto quasi un miracolo. Quando Gul si è presentato allo stadio, in tribuna d'onore, a fianco del suo omologo armeno. Incurante dei fischi e delle proteste, il presidente turco ha aperto la strada, che ora i diplomatici stanno faticosamente asfaltando.
Ecco perché l'appello che chiede il consenso del popolo turco, puntando non sulla denuncia ma sulla semplicità di un gesto umano compiuto per rispondere alla propria coscienza, potrebbe contribuire, con il tempo, a chiudere un capitolo doloroso, che riguarda la storia del Paese e non certo la Turchia di oggi. Non sarà facile, ma onore a chi ci sta provando, mettendoci il proprio volto e il proprio nome.

Corriere della Sera 16.12.08
Un percorso nella cultura del Novecento che per spiegare il moderno ha fatto ricorso agli autori antichi
Omero e Sofocle nostri contemporanei
Dall'«Ulisse» dublinese di Joyce all'«Antigone» di Brecht contro le SS
di Dino Messina


I classici sono tra noi. La loro presenza rivoluzionaria nella cultura e nelle emozioni stesse del Novecento è testimoniata da un'opera per tutte, che continuamente rimanda alla mitologia greca: «L'interpretazione dei sogni» di Sigmund Freud, uscita nel 1899, un anno prima che cominciasse il secolo delle ideologie, il secolo più violento della storia, il secolo della modernità, che per spiegare il nuovo, per prenderne le giuste distanze, ha dovuto aggrapparsi ai classici greci e latini, a volte unica ancora di salvezza di fronte al cambiamento. Ecco qualche spunto di lettura, nella consapevolezza che ciascuno può suggerire un proprio percorso alternativo.
In principio fu Omero. «Solenne e paffuto, Buck Mulligan comparve dall'alto delle scale, portando un bacile di schiuma su cui erano posati in croce uno specchio e un rasoio. Una vestaglia gialla, discinta, gli era sorretta delicatamente dalla mite aria mattutina. Levò alto il bacile e intonò: Introibo ad altare Dei». L'avete riconosciuto? Ma sì, è l'incipit dell'«Ulisse» di James Joyce, dove Stephen Dedalus è Telemaco, Buck Mulligan, suo amico, è Antinoo, Leopold Bloom, il protagonista, è Ulisse, nei panni di un pubblicitario ebreo dublinese che si sente straniero in patria e ha sposato la carnale Molly, una Penelope non tanto fedele. Il capolavoro di Joyce, che si svolge in una sola giornata, dalla mattina a notte inoltrata, raccontando l'ordinario viaggio di un uomo dall'apparenza ordinaria per le strade e i bar di Dublino, è considerato l'omaggio maggiore del Novecento alla grande cultura classica. Non importa che lo scrittore irlandese componga un mosaico di stili, divertendosi a giocare con la prosa da feuilleton o con quella da manualistica, l'intenzione dichiarata è davvero fare i conti con l'epica omerica, che però dev'essere attualizzata e, se necessario banalizzata, per raccontare la vita e la sensibilità dell'uomo moderno. Modernità espressa soprattutto dal «flusso di coscienza».
Chi considerava l'«Ulisse» di James Joyce il punto di non ritorno dall'epica classica si è dovuto ricredere quando nel 1990, oltre settant'anni dopo i gorgoglii di Leopold Bloom, è comparso sulla scena internazionale il poema «Oméros» di Derek Walcott: ottomila versi divisi in sette libri e sessantaquattro capitoli che sono valsi al poeta caraibico (nato a Saint Lucia nel 1930) il massimo riconoscimento letterario, il premio Nobel, nel 1992. I meno informati, soprattutto in Italia, dove per leggere l'opera nella bella traduzione di Andrea Molesini per Adelphi, abbiamo dovuto attendere il 2003, hanno gridato al Carneade: chi è costui? Ma gli specialisti, come Sergio Perosa o Luigi Sampietro, ci avevano subito avvertito che Derek Walcott, uno splendido signore dagli occhi verdi e dalla carnagione di mulatto, negli anni Ottanta formava a Boston, con Joseph Brodskij e Séamous Heaney, il più incredibile trio poetico che si sia visto: all'università di Harvard, dove insegnavano, li chiamavano i magnifici tre. Sarebbero tutti stati insigniti del Nobel.
Se Joyce e Walcott sono l'alfa e l'omega del rapporto che il Novecento ha avuto con Omero, una citazione a parte merita «La guerra di Troia non si farà», dramma composto nel 1935 dal francese Jean Girodoux. «Amiamo persino le lodi che non crediamo sincere. Il privilegio dei grandi è vedere le catastrofi da una terrazza» esclama uno dei protagonisti.
È chiaro che qui non siamo nell'ambito dell'epica ma nel terreno molto più frequentato durante il Novecento: quello della denuncia.
Per quanto riguarda l'Italia, il più omerico dei romanzi del Novecento può essere considerato «Horcynus Orca» di Stefano D'Arrigo, l'epico racconto del ritorno al paese natale Cariddi di 'Ndrja Cambria, marinaio della regia marina scampato alla carneficina della seconda guerra mondiale. Una Odissea cui l'autore lavorò per oltre vent'anni, dopo la pubblicazione di un capitolo nel 1960 sul «Menabò» di Elio Vittorini, e che uscì da Mondadori nel 1975. E come dimenticare, per arrivare ai nostri giorni, la rivisitazione dell' «Iliade» di Alessandro Baricco? Il suo testo pubblicato nel 2004 e composto per il teatro attraverso ventuno monologhi di altrettanti personaggi fa rivivere le voci di pace in un poema di guerra. Tanto che lo stesso Achille ammette: «Niente, per me, vale la vita».
Oltre l'epica. Per rispondere all'angoscia contemporanea il Novecento ha attinto soprattutto al repertorio dei tre grandi drammaturghi, Eschilo, Sofocle, Euripide. A chi ha in mente il volto di Maria Callas nel film «Medea» di Pier Paolo Pasolini, ispirato all'opera di Euripide, ricordiamo che Pasolini ha tradotto l'«Orestea » di Eschilo, l'unica trilogia del teatro classico giunta sino a noi per intero. La versione pasoliniana è stata quella più rappresentata nel teatro italiano del secondo Novecento. Ma il personaggio e il dramma più frequentato dalla grande drammaturgia è forse «Antigone» di Sofocle. L'eroina che si ribella al dittatore Creonte è stata rivisitata da Bertolt Brecht e da Jean Anouilh: entrambi hanno ambientato la tragedia nella seconda guerra mondiale. La scena iniziale in Brecht, che rivede Holderlin, è un'impiccagione nell'aprile 1945 a opera di SS. E lo scorso mese, la nuova versione di Séamous Heaney, «The Burial at Thebes», rappresentata a Londra, è stata ambientata sotto la direzione di Walcott in un Paese latinoamericano retto da un dittatore.
Poeti, dei ed eroi sono tornati. Alla fine gli eroi e lo spirito dei poeti classici rivivono nella modernità. Il secolo scorso si apre con l'invocazione di un grande poeta, Costantino Kavafis, nato ad Alessandria d'Egitto da una famiglia greca, che nei suoi versi ritrova la grazia degli antenati. Kavafis fa dire al suo Ulisse: «Se per Itaca volgi il tuo viaggio / fa voti che ti sia lunga la via, / e colma di vicende e conoscenze». Così l'incanto delle voci antiche rivive in un altro testo che fece scandalo in tempi di neorealismo imperante, «Dialoghi con Leucò», che invece rimane uno dei testi più grandi di Cesare Pavese, in cui tornano a parlare Achille e Patroclo. La tedesca Christa Wolf, cresciuta nella dittatura del socialismo reale, dà invece voce a una moderna «Cassandra», che si interroga sulla sensualità e sul ruolo delle donne, sul potere e la libertà. Un altro personaggio femminile rivive in un romanzo recente, «Il salto di Saffo» (Bompiani) di Erica Jong: la poetessa, prossima alla vecchiaia, vuole evitare l'onta di una vita senza eros, gettandosi da una rupe. E prima di compiere il gesto, ricorda i tanti amori che l'hanno condotta ai confini del mondo conosciuto e del piacere.
Come concludere senza ricordare «Le nozze di Cadmo e Armonia» (Adelphi, 1988) in cui Roberto Calasso racconta, attraverso l'ultimo banchetto tra gli dei e gli uomini, la grande mitologia greca.

Corriere della Sera 16.12.08
Il testo George Orwell si confronta con le opere di Wells, Morris e Swift
Il tema La vanità di qualsiasi modello fondato sulla ricerca della perfezione
Può un socialista essere felice?
Dal Natale di Charles Dickens alle ideologie utopistiche La vera gioia non si può immaginare né programmare
di George Orwell


Il Natale ci fa pensare quasi automaticamente a Charles Dickens, e per due buone ragioni. La prima è che Dickens è uno dei pochi scrittori inglesi ad aver scritto sul Natale, che è la festa più amata dagli inglesi, ma ha ispirato poche opere letterarie. Ci sono i canti, i Christmas Carols, quasi tutti di origini medievali; c'è una manciata di poesie di Robert Bridges, T.S. Eliot e qualche altro, c'è Dickens; e poco di più. La seconda ragione è che tra gli scrittori moderni Dickens è uno dei pochi, quasi l'unico, a offrire un'immagine convincente della felicità.
Dickens ha parlato del Natale due volte, in un capitolo del Circolo Pickwick e nel Canto di Natale. Quest'ultimo racconto venne letto a Lenin morente che, secondo la moglie, ne trovò del tutto intollerabile «il sentimentalismo borghese». In un certo senso aveva ragione, ma se fosse stato in condizioni di salute migliori si sarebbe forse accorto che quel racconto ha dei risvolti sociologici interessanti. Anzitutto, per quanto Dickens calchi la mano e il «sentimentalismo» di Tiny Tim possa sembrare sgradevole, la famiglia Cratchit pare proprio divertirsi. Ha l'aria felice, a differenza, per esempio, dei cittadini di Notizie da nessun luogo di William Morris. Inoltre, la loro felicità deriva soprattutto dal contrasto, e il fatto che Dickens se ne renda conto è uno dei segreti della sua forza. Sono contenti perché una volta tanto hanno cibo in abbondanza. Il lupo è alla porta, ma sta scodinzolando. Il vapore del pudding natalizio aleggia su uno scenario fatto di banchi di pegni e di duro lavoro e accanto alla tavola imbandita il fantasma di Scrooge è sempre presente. Bob Cratchit vuole perfino brindare alla salute di Scrooge, cosa che la signora Cratchit, giustamente, rifiuta di fare. I Cratchit riescono a godersi il Natale proprio perché viene solo una volta all'anno. La loro felicità è convincente proprio per questo. La loro felicità è convincente perché è descritta come provvisoria.
Tutti i tentativi di descrivere una condizione di felicità permanente, d'altro canto, si sono risolti in un fallimento. Le Utopie (a proposito, la parola Utopia non significa «bel luogo», ma «luogo inesistente ») sono comparse spesso nella letteratura degli ultimi tre o quattrocento anni, ma quelle «positive» sono immancabilmente poco attraenti, e di solito anche prive di vitalità.
Le Utopie moderne di gran lunga più note sono quelle di H.G. Wells. La visione del futuro prefigurata da Wells è enunciata appieno in due libri scritti all'inizio degli anni Venti, The Dream e Men Like Gods. Vi si trova un'immagine del mondo che a Wells sarebbe piaciuto, o che pensava gli sarebbe piaciuto. È un mondo in cui le note dominanti sono l'edonismo illuminato e la curiosità scientifica. Tutti i mali e le miserie di cui soffriamo sono scomparsi. L'ignoranza, la guerra, la povertà, la sporcizia, la malattia, la frustrazione, la fame, la paura, la fatica opprimente, la superstizione non ci sono più. Così descritto, non potremmo negare che sia il genere di mondo a cui tutti aspiriamo. Tutti noi vogliamo abolire quel che Wells vuole abolire. Ma c'è qualcuno che voglia veramente vivere in un'Utopia wellsiana? È semmai il contrario: non dover vivere in un mondo come quello è ormai diventata una questione politica ben presente. Un libro come Il mondo nuovo è espressione della paura che l'uomo moderno nutre nei confronti della società edonistica razionalizzata che ha il potere di creare. Uno scrittore cattolico ha affermato recentemente che le Utopie sono oggi tecnicamente possibili, e che ora il vero problema è come evitarle. Non possiamo limitarci a ritenere ridicola quest'osservazione e a ignorarla, perché una delle molle del movimento fascista è proprio il desiderio di evitare un mondo troppo razionale e comodo.
Tutte le Utopie «positive» sembrano simili nell'ipotizzare la perfezione ed essere incapaci di dare un'idea della felicità. Notizie da nessun luogo è una specie di versione edulcorata dell'Utopia wellsiana. Tutti sono gentili e ragionevoli, la tappezzeria viene tutta da Liberty, il miglior negozio, ma si avverte una vaga malinconia. Colpisce, però, che neanche Jonathan Swift, uno degli scrittori più ricchi d'immaginazione, riesca meglio degli altri a costruire un'Utopia «positiva».
La prima parte dei Viaggi di Gulliver è probabilmente la critica più feroce alla società umana che sia mai stata scritta. Ogni parola di quel libro è ancora attuale; a tratti vi si trovano prefigurazioni dettagliate degli orrori politici del nostro tempo. Swift fallisce, però, quando cerca di presentarci una razza di individui che suscitano la sua ammirazione. Nell'ultima parte, in antitesi agli sgradevoli Yahoo, vengono mostrati i nobili Houyhnhnms, cavalli intelligenti e privi delle debolezze umane. Questi cavalli, nonostante il loro spirito elevato e l'infallibile buon senso, sono creature piuttosto noiose. Come gli abitanti di tante altre Utopie, si preoccupano soprattutto di evitare i problemi.
Conducono vite monotone, controllate, «ragionevoli», libere non solo dai litigi, dal disordine o da incertezze di ogni genere, ma anche dalla «passione», compreso l'amore fisico. Scelgono i compagni seguendo principi eugenetici, evitano gli eccessi dei sentimenti, e sembrano quasi contenti di morire quando giunge la loro ora. All'inizio del libro Swift mostra dove la follia e la ribalderia portano l'uomo: ma se si eliminano la follia e la ribalderia, ciò che rimane sembra essere un'esistenza tiepida, che non ha molto senso vivere.
I tentativi di descrivere l'approdo a una felicità ultraterrena non hanno avuto maggiore successo. Come Utopia il Paradiso è un fiasco, mentre l'Inferno occupa una posizione ragguardevole in letteratura, ed è stato spesso descritto in modo dettagliato e convincente.
Sappiamo bene che il Paradiso cristiano, come è di solito rappresentato, non attrarrebbe nessuno. (...) Molti pastori evangelici, molti preti gesuiti (anche nel terribile sermone in Ritratto dell'artista da giovane di James Joyce) hanno spaventato a morte i fedeli con le loro rappresentazioni dell'Inferno. Ma quando si passa al Paradiso, si torna invariabilmente a valersi di parole come «estasi» e «beatitudine», senza fare molto per cercare di spiegare in che cosa consistano. Forse il passo più vitale su questo argomento è quello, famoso, di Tertulliano, in cui si dice che una delle maggiori gioie del Paradiso è guardare le torture dei dannati. Le versioni pagane del Paradiso sono forse un po' migliori. Si ha la sensazione che nei campi elisi ci sia sempre il tramonto. L'Olimpo, dove vivevano gli dei, con il nettare e l'ambrosia, le ninfe ed Ebe, «puttane immortali» come le ha chiamate D.H. Lawrence, potrà essere un po' più interessante del Paradiso cristiano, ma non fa venir voglia di passarci molto tempo. Il Paradiso musulmano, con le sue 77 urì (vergini) per ogni uomo, tutte presumibilmente desiderose di attenzioni allo stesso momento, è un vero e proprio incubo. Nemmeno gli spiritualisti, che ci assicurano di continuo che «tutto è luminoso e bello», riescono a descrivere una qualche attività dell'altro mondo che una persona avveduta possa trovare, se non attraente, almeno sopportabile.
Nello stesso modo si risolvono i tentativi di descrivere la perfetta felicità che non siano né utopistici né ultraterreni, ma semplicemente sensuali. Danno sempre l'impressione di essere vuoti o volgari, o entrambe le cose. All'inizio di La pulzella d'Orléans, Voltaire descrive la vita di Carlo IX con la sua amante Agnes Sorel. Erano «sempre felici », dice. E in cosa consisteva la loro felicità? Un susseguirsi incessante di feste, libagioni, partite di caccia e amplessi. Chi, dopo qualche settimana, non si stancherebbe di un'esistenza simile? Rabelais parla delle anime fortunate che si divertono nell'aldilà, come consolazione per essersela passata male in questo mondo. Cantano una canzone che si potrebbe grossolanamente tradurre così: «Saltare, danzare, far scherzi, bere vino bianco e rosso, e non far niente tutto il giorno se non contare monete d'oro». Che noia, in fin dei conti! L'idea vana del divertimento senza fine è ben raffigurata nel quadro di Brueghel Il paese di cuccagna, dove tre grassoni giacciono addormentati uno accanto all'altro, tra uova sode e cosce di pollo pronte a farsi mangiare.
Sembra che gli esseri umani non sappiano descrivere, né forse immaginare, la felicità se non in termini di contrasto con una opposta condizione. Per questo da un'epoca all'altra il concetto di Paradiso o quello di Utopia cambiano. Nella società preindustriale il Paradiso era descritto come un luogo di infinito riposo, e lastricato d'oro, perché l'essere umano medio conosceva solo la fatica del lavoro e la povertà. Le urì del Paradiso musulmano riflettevano una società poligama dove la maggior parte delle donne scomparivano negli harem dei ricchi. Ma queste immagini di «eterna beatitudine» sono sempre poco attraenti perché quando la beatitudine diventa eterna (eternità intesa come tempo infinito), il termine di paragone scompare. Alcuni motivi convenzionali radicati nella nostra letteratura sono nati da condizioni fisiche che ora hanno cessato di esistere. Ne è un esempio il culto della primavera. Nel Medioevo la primavera non significava rondini e fiori di campo. Significava verdura, latte e carne fresca dopo parecchi mesi di maiale salato consumato in capanne fumose e prive di finestre. I canti della primavera erano allegri, «Se la carne poco costa, e le femmine son care, e i bulletti vanno apposta tutt'intorno a gironzare, non ci resta che mangiare, stare allegri e ringraziare il buon Dio che ci largì l'allegria di questo dì» (Shakespeare, Enrico IV), perché c'erano buone ragioni per rallegrarsi. L'inverno era finito, questo era il fatto principale. Lo stesso Natale, una festa pre-cristiana, è probabilmente nato perché, di tanto in tanto, mangiate e bevute fuori del comune aiutavano a interrompere l'insopportabile inverno nordico.
L'incapacità del genere umano di immaginare la felicità in forme diverse dalla liberazione dalla fatica o dal dolore pone ai socialisti un grave problema. Dickens sa descrivere una famiglia stretta dalla povertà che si butta su un'anatra arrosto, e farla apparire felice; allo stesso tempo, gli abitanti di universi perfetti non mostrano nessuna allegria spontanea e sono di solito assai poco attraenti. Ma ovviamente noi non vogliamo il mondo descritto da Dickens, né, probabilmente, nessuno dei mondi che avrebbe potuto immaginare. L'obiettivo dei socialisti non è una società dove alla fine tutto si risolve perché vecchi signori gentili regalano tacchini. Il nostro obiettivo non è forse una società in cui la «carità» non sia necessaria? Vogliamo un mondo in cui Scrooge, con i suoi dividendi, e Tiny Tim, con la sua gamba storpia, siano entrambi impensabili. Significa che aspiriamo a un'Utopia senza dolore? A rischio di dire una cosa che i redattori del Tribune
potrebbero non approvare, affermo che il vero scopo del socialismo non è la felicità. La felicità finora è stata una conseguenza occasionale e, per quel che ne sappiamo, potrebbe rimanere tale. Il vero scopo del socialismo è la fratellanza umana. Spesso lo si pensa, ma di solito non lo si dice, o non lo si dice a voce abbastanza alta. Gli uomini passano la vita in strazianti lotte politiche, si uccidono in guerre civili, o vengono torturati nelle prigioni della Gestapo, non per costruire un qualche Paradiso con riscaldamento centralizzato, aria condizionata e illuminazione al neon, ma perché vogliono un mondo in cui gli esseri umani si amino, anziché derubarsi e uccidersi a vicenda. Questo è per loro un primo passo. Quale direzione poi prenderanno non è dato sapere, e il tentativo di prevederlo accuratamente non fa che confondere le cose.
Il pensiero socialista deve immaginare un futuro, ma solo in senso lato. Spesso bisogna tendere a obiettivi che si vedono solo in modo indistinto. In questo momento, ad esempio, il mondo è in guerra e vuole la pace. Il mondo, però, non ha esperienza di pace, non ne ha mai avuta, a meno che non sia esistito il Buon Selvaggio. Il mondo vuole qualcosa della cui esistenza è solo vagamente consapevole, che non riesce a definire con precisione. Questo Natale migliaia di uomini verseranno il loro sangue sulla neve russa, o annegheranno in acque gelate, o si faranno a pezzi nelle isole paludose del Pacifico; bambini senza casa andranno in cerca di cibo tra le rovine delle città tedesche. Far sì che questo non accada più è giusto. Ma dire con precisione come sarà un mondo in pace è tutt'altra cosa.
Quasi tutti i creatori di Utopie facevano pensare a un uomo con il mal di denti, per il quale la felicità consiste quindi nel non avere mal di denti. Volevano costruire una società perfetta prolungando all'infinito una condizione apprezzabile solo perché temporanea. Sarebbe meglio dire che ci sono delle linee lungo le quali l'umanità deve muoversi, che il disegno strategico è tracciato, ma che fare previsioni dettagliate non è affar nostro. Chiunque cerchi di immaginare la perfezione ne mette in luce solo la vacuità. È successo anche a un grande scrittore come Swift, che sa mettere perfettamente alla berlina un vescovo o un uomo politico: quando cerca però di creare un superuomo, ci dà l'impressione, opposta alle sue intenzioni, che i maleodoranti Yahoo avessero più possibilità di evolversi degli illuminati Houyhnhnms.
(Traduzione di Maria Sepa)

Corriere della Sera 16.12.08
Riscoperte. Dodici divertimenti
Laura, Petrarca e il volo d'amore dei gabbiani
di Armando Torno


Ogni epigramma è volto dal latino in italiano: l'argomento centrale è la metamorfosi

Petrarca scrisse degli epigrammi latini. Il loro carattere, quasi sempre occasionale e leggero, li rende ancora oggi freschi, sorprendenti. Giuseppe Billanovich in Petrarca letterato (Edizioni di Storia e Letteratura) lasciò una fascinosa ipotesi, ricordando che forse esistette un quaderno ove il poeta «riunì i suoi versi improvvisati». Ora Francisco Rico, studioso tra i più apprezzati del sommo autore, ne ha raccolti dodici che gli sono sembrati «di maggior valore tra quelli di attribuzione sicura». Li ha intitolati Gabbiani (Adelphi Edizioni, pp. 104, e 5,50).
Scritti per lo più in distici elegiaci (ma cinque sono in esametri caudati), soltanto due di essi furono pubblicati per volontà dell'autore che li incluse nelle Lettere Familiari.
Rico così spiega la traduzione: «Dato per scontato che non potevo azzardarmi a volgere in italiano il Petrarca latino, ho chiesto ad alcune grandi studiose ed eccellenti amiche di farlo per me, e di farlo senz'altro in limpida prosa». Ogni epigramma è stato poi commentato e annotato nel senso alto del termine, tanto che il lettore intraprende con questo svelto libretto dodici percorsi. Sono viaggi ideali che nascono dalle parole del sommo umanista per approdare in luoghi privilegiati della cultura occidentale.
Perché il titolo Gabbiani? È quello del terzo epigramma di codesta raccolta, datato 1341. Sembra che Petrarca — ricorda Rico — navigando alla volta del-l'Italia, dinanzi alle coste di Roma, risentisse in sé gli echi di una allora nota canzone che gli attuali studiosi di folklore conoscono come Le trasformazioni.
È una conversazione tra l'amante e l'amata, nella quale l'uomo promette alla donna che, se prenderà le sembianze di un certo essere, egli la inseguirà tramutandosi. L'amore, in altri termini, cambierà la sua natura. Petrarca improvvisò un dialogo fittizio con un amico caro, forse il musicista fiammingo Ludovico di Beringen, o il nobile romano Lello Tosetti: anche se non rivela in quale «pulcra avis» potrebbe mutarsi Laura, Rico conclude: «Chi, solcando il Mediterraneo, allude a un uccello che vola in stormo e si sposta sull'acqua non può che riferirsi al gabbiano».
Una libertà, un sogno filosofico, una fantasia dietro cui si avverte un soffio platonico: seguendolo si scopre che l'amore trasforma l'amante nell'amato o «in amatos mores » (così nel Secretum), nel modello dell'amato. O, scostandosi da questa ipotesi, si può scegliere un'altra via: l'amico è un alter idem e con lui si vive un accordo totale. Nasce in tal modo la speranza che i due giungano all'identica metamorfosi; se così fosse, hanno seguito una nozione aristotelica, mediata da Cicerone.
Questo è un esempio dei dodici possibili. Non sono degli inediti ma aiutano a entrare in un universo di sensazioni gentili. Tra l'altro, dell'epigramma ricordato c'è già una raffinata traduzione italiana di Michele Feo in Petrarca nel tempo (Bandecchi; Vivaldi, Pontedera 2003).

Corriere della Sera 16.12.08
Spallate e macerie
di Massimo Franco


Il fatto che Antonio Di Pietro gioisca perché il suo partito ha quasi sestuplicato i voti ufficializza il cannibalismo in atto nel centrosinistra. È, almeno nelle sue intenzioni, l'inizio di una lunga spallata che dovrebbe avere come traguardo un riequilibrio col Pd alle europee di primavera. Nelle elezioni regionali in Abruzzo la scommessa non era tanto su chi avrebbe vinto fra i due schieramenti: il successo del centrodestra era previsto, anche per lo scandalo che a luglio aveva portato all'arresto del governatore Ottaviano Del Turco, del Pd. L'incognita riguardava i contraccolpi nel campo dei perdenti.
Il Partito democratico poco sopra al 20% e l'Idv intorno al 15 porterebbe a rispondere che la geografia dell'opposizione cambia: l'esercito di Veltroni si sta rapidamente logorando, e quello di Di Pietro ingrassando. Ma l'astensione che sfiora la metà del totale, quasi 30 punti meno delle politiche, allunga su tutto il sistema l'ombra della sconfitta: perfino sul Pdl berlusconiano che ha vinto. E rende la soddisfazione dipietrista vagamente autoconsolatoria. Dietro il trionfo del non voto non c'è soltanto un giudizio negativo sul malaffare nella regione, ma sull'insieme dei partiti.
Neppure il candidato preteso e ottenuto dall'Idv è riuscito a convincere i delusi; a mobilitarli e a portarli alle urne. La traduzione elettorale di una politica vista come una variante di «guardie e ladri» ha rivelato ancora una volta tutti i suoi limiti. Ridimensiona il centrosinistra; non gli evita un tracollo; drena una parte consistente del consenso del Pd, ma radicalizzandolo e dunque rendendolo meno spendibile. Insomma, Di Pietro canta vittoria su un panorama di macerie; e da oggi i suoi rapporti con gli alleati diventeranno, se possibile, ancora più avvelenati.
Ironizzare sui «ma anche » veltroniani ed esaltare la propria affermazione ai danni del Pd significa dichiarare la guerra dentro l'opposizione. Un simile atteggiamento dice che Di Pietro considera, o comunque vuole vedere la «sindrome abruzzese» come una tendenza non locale ma nazionale; e che ha una spietata determinazione ad approfittarne. Si candida come leader non solo dell'Idv ma anche degli spezzoni dell'estrema sinistra esclusi dal Parlamento, che hanno in odio il Pd; e come campione di un antiberlusconismo irriducibile.
Il sogno sempre meno nascosto è quello di trasformarsi in una sorta di Umberto Bossi del centrosinistra: il capo di una «Lega nazionale», pronta a succhiare voti alleati. Ma non sarebbe giusto additare l'ex pm di Mani pulite come la causa dei problemi del Pd. Semmai ne è il sintomo. Sottolinea ed esaspera l'identità indefinita della creatura veltroniana. E ripropone la domanda sui motivi veri che hanno indotto il Pd a sceglierlo come alleato.
Sono più comprensibili le ragioni per le quali Berlusconi lo ama come avversario: l'antiberlusconismo di Di Pietro infiamma i cuori di una parte dell'opposizione; e in parallelo contribuisce a farla perdere.

l’Unità 16.12.08
Il capo della P2 è convinto che la sinistra stia pagando la lotta contro la massoneria
E il primo obiettivo è Cioni perché «è stato il capofila della guerra contro le logge»
di Vladimiro Frulletti


«La crisi del Pd a Firenze? Le logge si sono ribellate»
È bufera su Gelli
La situazione difficile del centrosinistra fiorentino per l’ex Venerabile sarebbe una vendetta della massoneria che in riva all’Arno è potentissima.
«Non ci occupiamo di elezioni» dice il Grande Ordine.

«Che con le primarie fiorentine si siano scatenati i pruriti dei poteri forti è ormai un fatto assodato». Già da un po’ Graziano Cioni, assessore di Firenze (che nell’inchiesta su Castello è accusato di corruzione e violenza privata) e aspirante sindaco, sentiva puzza di bruciato. Fino a ieri erano timori, brutte sensazioni. Ora, ne è convinto, c’è la prova. Le parole del Venerabile Gran Maestro della fu P2. Di Licio Gelli che ieri alla Stampa, tra le tante cose, ha anche detto la sua «verità» sulla crisi del Pd a Firenze: «Lì le Logge sono da sempre potentissime e si sono ribellate». È vero che sono divise e «in guerra», ma «l’unica cosa che le unisce» è «il malumore verso la sinistra fiorentina che per anni ha fatto una battaglia ossessiva contro la massoneria». E in particolare verso Cioni che «è stato il capofila, nel Pci fiorentino, della guerra contro le logge...e quelli se la sono legata». E lo storico Aldo Nola ricorda che fu l’allora senatore Cioni a passare a l’Unità le liste dei massoni toscani da cui nacque un libro (ma l’ex vicecaporedattore Pugliese smentisce) e a presentare nel ‘93, assieme a altri 70 parlamentari del Pds, una proposta di legge che prevedeva il divieto ai pubblici dipendenti (magistrati per primi) di far parte di «associazioni operanti in modo occulto o clandestino». Proposta che Cioni rivendica. «Da Gelli - spiega - è stato mandato un messaggio inquietante. Sono un personaggio scomodo e mi aspetto di tutto. Non nascondo di essere preoccupato. Le sue parole giungono in un momento delicato per Firenze: ci sono appalti in corso, le elezioni, le primarie del Pd». Per certi interessi, scrive Cioni sul suo sito, sono « inaffidabile e incontrollabile». Un’accusa contro certi poteri forti in cui però Cioni non mette la magistratura. «C’è una coincidenza - scrive - ma sono sicuro che l’inchiesta di castello sia ineccepibile dal punto di vista formale. La magistratura non è da chiamarsi in causa per questo». Il problema è la «lettura distorta» dell’inchiesta che l’ha voluta trasformare «in un processo mediatico e politico immediato», «capitato a fagiolo per inquinare» le primarie. A cui però Cioni ribadisce che non ha nessuna intenzione di rinunciare.
Resta da misurare la fondatezza delle parole di Gelli. «Tutte panzane - le bolla Gustavo Raffi, Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia - noi non ci occupiamo di elezioni né nella città dei medici, né altrove». E a riprova che il Venerabile le «spara grosse» il presidente del Goi della Toscana Stefano Bisi entra nel dettaglio: «lui dice che a Firenze il Goi avrebbe 520 logge, ma in tutto saranno al massimo una quarantina». E anche il presidente del consiglio della Regione Toscana Riccardo Nencini contesta la fondatezza delle affermazioni di Gelli «perché non è vero come afferma lui che in toscana c’è una legge che prevede una dichiarazione di appartenenza alla massoneria per partecipare a pubblici appalti». Eppure la «verità» di Gelli all’ex parlamentare fiorentino del Pci Alberto Cecchi, già vicepresidente della commissione d’inchiesta sulla P2, appare plausibile. «A Firenze - spiega - la massoneria ha da sempre un peso straordinario. Superiore a quello che può avere ad esempio in città come Torino o Roma».

l’Unità 16.12.08
Gelli e la politica. Ormai il cerchio si chiude
di Nicola Tranfaglia


Uno dei quotidiani più diffusi in Italia (si colloca subito dietro "Il Corriere della sera","La Repubblica" e "Il Sole 24 ore"), parlo de "la Stampa", di Torino, diretta da Giulio Anselmi, ha pubblicato ieri un'intervista lunga una pagina intera a Licio Gelli, il Venerabile della Loggia P2, ritornato agli onori della cronaca non solo politica, ora presente ogni settimana su Odeon TV.
La giustizia italiana, malgrado numerosi processi intentati negli ultimi venticinque anni dopo la scoperta della Loggia e l'inchiesta parlamentare del 1982, non è giunta - come succede sempre nei confronti dei ricchi e dei potenti - a nessun risultato.
Sicchè Licio Gelli è un cittadino libero e dotato di idee assai precise su sé stesso, come sull'Italia. Per prima cosa fa una domanda retorica al giornalista: "Il mio piano rinascita ha trionfato, non crede?" E subito dopo: "Berlusconi se ne é letteralmente abbeverato, la giustizia e le carriere separate dei giudici, le tv, i club rotariani in politica…Già, proprio come Forza Italia. Apprezzo che non abbia mai rinnegato la sua iscrizione alla P2, e del resto come poteva?"
I riferimenti di Gelli sono limpidi. Quando parla del piano rinascita, ricorda il suo "Piano di rinascita democratica" sequestrato a sua figlia all'aeroporto di Linate, che prevedeva appunto l'addomesticamento della stampa e della tv (chi potrebbe negarlo oggi?), la divisione dei sindacati (innegabile, senza dubbio), la separazione delle carriere e altri obbiettivi minori.
E non si può dar torto a Gelli quando dice che Berlusconi se ne è "abbeverato".
Quel che è difficile accettare della diagnosi generale di Gelli è che la crisi della sinistra, di cui tanti parlano, derivi dall'espansione delle logge massoniche di cui parla il Venerabile. A Firenze enumera 520 logge a Palazzo Vecchio e 500 a Palazzo Vitelleschi e si lamenta per le "discriminazioni" che, a suo avviso, ci sono in alcune regioni come Marche e Toscana. Poi aggiunge che ormai (finito il Pci) non ci sarebbe più la sinistra: ma qui cade in contraddizione perché se la giunta fiorentina di Dominici non gli pare più di sinistra ma poi gli pare in crisi….
Tra Veltroni e D'Alema non vede differenze e preferisce, nettamente, la moglie di quest'ultimo che è una nota archivista alla quale si è rivolto per depositare le carte innocue di carattere storico che aveva nella sua villa.
È ormai in pista e, a proposito della P2, afferma senza esitazioni: "La P2? La rifarei tranquillamente…" E ribadisce: "Meglio burattinaio che burattino."
Il cerchio sembra ormai chiudersi, dopo vent'anni di turbolente vicende, ritornare alla casella iniziale.
Ma è possibile che gli italiani non se ne accorgano? Che sia giunta a questo punto di declino la nostra democrazia?

il Riformista 16.12.08
Così si suicida un partito
di Stefano Cappellini


ANALISI. Come nello scorso aprile il leader democratico si è di nuovo riaffidato all'ex pm, col risultato che il suo partito prende in regione quanto i Ds avevano da soli tre anni fa. Costantini ha meno voti della coalizione. L'onda giustizialista premia solo l'Idv. Ma cresce la fronda anti-Tonino: Latorre, Follini e Parisi attaccano. D'Alema prepara un duro intervento per la direzione.

Peggio di così a Walter Veltroni e al Pd non poteva andare. La sconfitta del centrosinistra in Abruzzo era messa in conto, non foss'altro per le disgrazie giudiziarie che hanno travolto la giunta Del Turco. Ma il modo in cui è arrivata racconta di un disastro politico e le sue conseguenze non si fermeranno a L'Aquila. Complice un astensionismo di massa, che ha evidentemente penalizzato entrambi gli schieramenti, i numeri delle urne raccontano che alla fine la partita per la presidenza della regione si poteva giocare. Magari a patto che il Pd non si accodasse a un candidato capace di raccogliere diversi punti percentuali in meno delle liste che lo hanno sostenuto. Il dipietrista Carlo Costantini perde infatti netto dal pidiellino Gianni Chiodi, nonostante un quasi testa a testa tra le due coalizioni. Inutile girarci intorno: è stata clamorosamente toppata la scelta del candidato.
Non solo: come effetto collaterale della scelta di affidarsi al casting dipietrista Veltroni si ritrova un Pd cannibalizzato dall'Italia dei valori e ridotto in regione a un mortificante 20 per cento (ma il dato definitivo potrebbe essere addirittura inferiore), ovvero poco più di quanto i Ds riuscivano a conquistare da soli alle regionali del 2005. Senza contare il pesantissimo meno 13 per cento rispetto alle politiche dello scorso aprile. Una Waterloo abruzzese, insomma, ma quasi interamente figlia di scelte prese a Roma.
In Abruzzo è stato infatti ripetuto in piccolo, ma con effetti che potrebbero essere persino più devastanti, il medesimo errore compiuto prima delle elezioni nazionali. Allora tirava vento di antipolitica e di piazze anti-casta e al Loft, l'ex quartier generale democratico, si pensò che l'unico partito che avrebbe aggiunto voti alla corsa semi-solitaria del Pd sarebbe stata l'Italia dei valori del giustiziere Tonino. Non andò così, un po' perché era stato sopravvalutato l'effetto Grillo sulle urne, un po' perché Di Pietro rubò voti alla sinistra radicale e in parte allo stesso Pd senza pescarne dal centrodestra - come tutte le analisi dei flussi elettorali hanno dimostrato. Sono seguiti, tra Pd e Idv, mesi di patti traditi e reciproche scomuniche. Veltroni è arrivato a dire che Di Pietro non «conosce l'alfabeto democratico», salvo rivolgersi proprio all'analfabeta per tappare la falla del dopo Del Turco. Esattamente come era accaduto per il dopo-Prodi. In mezzo, però, è tornata la questione morale.
Se il segretario democratico pensava di cavalcare l'onda giustizialista, di usare l'immagine dell'ex pm per allontanare dal suo partito l'ombra della malapolitica, specie in una regione così duramente squassata dalle inchieste della magistratura, ha di nuovo sbagliato i conti. Quella giustizialista è un'onda che premia sempre e solo Di Pietro. Il quale continua a ingrassarsi a spese dell'alleato nel mentre lo condanna alla sconfitta. E per giunta lo svillaneggia pure, come ha fatto l'ex pm nelle prime dichiarazioni a scrutinio in corso. Perché Di Pietro non ha altro scopo che ingrandire l'azienda personale. Tanto peggio per chi glielo consente.
Non pago di aver raddoppiato i voti in Abruzzo in sei mesi e di averli quasi decuplicati rispetto a tre anni fa, ieri Di Pietro non s'è nemmeno curato di commentare la sconfitta - cui il suo Costantini ha chiaramente contribuito - ma si è precipitato a magnificare il grande balzo in avanti del suo partito. Dopo essere entrato in Parlamento a spese della sinistra, trascinato dal voto utile che l'alleanza col Pd gli ha regalato, ora dopo il voto abruzzese l'ex pm può persino vantare numeri che gli permettono di accreditarsi come forza antagonista al Pd nella guida dell'opposizione. Proprio un bel risultato. Di cui non si può certo dare la colpa a Bruno Vespa, reo secondo il Pd di aver invitato a commentare il voto a Porta a porta solo il leader dell'Idv e non un esponente democrat.
«I dati dell'astensione in Abruzzo sono impressionanti: ha votato il 30 per cento in meno delle politiche. Vuol dire che c'è malessere, stanchezza e anche critica nei nostri confronti». Questo era, fino alle 21 di ieri, l'unico commento pervenuto da parte di Veltroni. Non una parola sul caso Di Pietro e sul senso di questa nuova sconfitta.
Ma nel partito si annuncia bufera. D'Alema prepara un intervento ad hoc per la direzione del 19 dicembre. Attacca Nicola Latorre: «A me non preoccupa la crescita di Di Pietro, preoccupa il calo del Pd. Ragioniamo sul fatto che Di Pietro stia erodendo elettorato più a noi che ai nostri avversari». Marco Follini parla di «costo politico dell'alleanza con Di Pietro». E Artuso Parisi: «Spero veramente che Veltroni rinsavisca che legga finalmente il filo che lega i messaggi ripetuti che ci vengono dagli elettori a partire dal voto di aprile». E Beppe Fioroni: «Il rammarico è che se ci fosse stato l'accordo con l'Udc avremmo vinto». Ma Fioroni non si premura di aggiungere che se un accordo con l'Udc è risultato impossibile è stato anche per via dell'impossibilità di tenere insieme Casini e Di Pietro.
Dall'altra parte esulta così Maurizio Gasparri: «Il voto in Abruzzo dimostra la tendenza suicida del Partito democratico, che avendo consegnato la guida e la linea dell'opposizione a Di Pietro rischia di crollare irrimediabilmente nei consensi». Qualcuno può dargli torto?

Corriere della Sera 16.12.08
Direttore sotto assedio «Se non mi cacciano resto altri 10 anni. Meno copie? Quando il partito era al governo»
Sansonetti va in trincea: il Prc è moribondo Ferrero con gli stalinisti ma la pensa come me
intervista di Fabrizio Roncone


ROMA — «Senti, te lo dico subito: per quest'intervista abbiamo un'oretta, non di più. Poi devo andare a fare la prima pagina e...».
Non molli la poltrona, eh?
«No, guarda, allora questo è un concetto che va chiarito subito: io, finché non mi cacciano dalla direzione di Liberazione,
non solo non me ne vado, ma continuo pure a fare il giornale che penso sia giusto».
( Piero Sansonetti ha 57 anni e lo conoscete, lo vedete — spesso — alla tivù: la barba lunga e poi i maglioni a collo alto, le giacche di velluto, i ragionamenti sempre lucidi, a volte spiazzanti, un giornalista di sinistra di assoluto rango, mai banale, mai troppo ortodosso, sebbene abbia cominciato la professione all'Unità, dov'è rimasto per 29 anni, arrivando fino all'incarico di condirettore: quando poi Veltroni prese il comando del quotidiano fondato da Antonio Gramsci, e intuì quant'era bravo, e libero, e adorato da un pezzo della redazione, il barbuto, con mille cortesie, com'è nel cerimoniale dei giornali, fu spedito a fare il corrispondente a New York. Un bel posto, ma piuttosto distante).
Tu resisti, qui a «Liberazione», ma intanto il Comitato politico di Rifondazione, di fatto, ti sfiducia. Paolo Ferrero ti accusa di sostenere un altro progetto, di perdere copie e di aver accumulato 3 milioni d'euro di debito.
«Andiamo con ordine. Mi sono andato a rivedere le prime pagine dell'ultimo mese. Sai su quali argomenti abbiamo aperto? La questione salariale, l'oscurantismo del Vaticano, i diritti civili, il razzismo, i morti sul lavoro... E sempre tenendo un tono, come dire? radicale».
Ma non militante.
«Senti, io cerco di fare un giornale di idee. E di storie. Alcuni giorni fa ne ho intercettata una bellissima. Due barconi di immigrati in balìa del mare forza 9. La Guardia di Finanza che chiede aiuto ai pescatori di Mazara del Vallo, gli unici capaci di governare una barca tra quelle onde. E loro, che pure per prudenza avevano scelto di non andare a pesca, escono lo stesso...».
Grandissima storia.
«I comunicati di partito, francamente, mi appassionano di meno».
Comunque dirigi un giornale di partito, certe regole le conoscevi.
«Anche loro conoscevano me. Mi chiamarono e furono chiari: sappiamo che non hai la tessera e che sei un tipo libero. Ma per noi l'importante è che fai un giornale di sinistra».
Chi ti fece questo discorso?
«Fausto Bertinotti».
Discussioni con lui?
«Tante, e alcune anche forti. Dopo un anno che Rifondazione stava al governo, cominciammo a scrivere: andate via da Palazzo Chigi. Dove, per altro, c'era anche un certo Paolo Ferrero che faceva il ministro... secondo te è lo stesso che ora guida Rifondazione?».
Secondo me, sì.
«Coincidenza curiosa, eh? Ora però ti dico delle copie. Sai quando ne abbiamo perse un buon 15%? Tra il 2006 e il 2007. Cioè quando il partito era al governo. Però poi ne diffondiamo anche centomila, a Milano e Roma, con la diffusione gratuita del pomeriggio. E poi c'è il giornale online, seguitissimo. No, ascoltami: Liberazione è viva, impone temi, scatena polemiche. È il partito, purtroppo, che è moribondo».
Hai un buco di 3 milioni d'euro nel bilancio.
«Due milioni sono sempre stati fisiologici. Ma, ora, è vero, ne abbiamo accumulato uno in più. Spiegabile: intanto abbiamo ripreso 5, 6 giornalisti dopo l'esperienza in Parlamento, tra cui Cannavò, Gagliardi e Forgione. Stipendi veri, che incidono. Come la raccolta pubblicitaria, sempre più difficile con un partito allo sbando, e come i tagli del finanziamento pubblico».
Come penseresti di uscirne?
«C'è un piano di ristrutturazione: bilancio in pareggio nel 2009».
Tagli?
«I giornalisti sono 40. I poligrafici, 18. Si procede con pensionamenti e cassa integrazione a rotazione».
La redazione con chi sta?
«Non tocca a me dirlo. Esci in corridoio, e chiedi».
Ti stimano in parecchi.
«La redazione è convinta che dobbiamo lavorare per fare un giornale che ficchi dentro la mente della sinistra un concetto: la libertà è davanti a tutto, è il valore numero uno».
Discorso poco comunista.
«Tutta la storia del comunismo va ripensata. Anzi, ti dico di più: io non discuto con nessuno se non stabiliamo, in partenza, che proviamo ribrezzo per ogni dittatura».
Ora ti sei giocato definitivamente la poltrona.
«Guarda, Ferrero io lo conosco e so che, su certe cose, la pensa come me. Purtroppo, ha fatto maggioranza nel partito con settori profondamente stalinisti e e brezneviani».
Sei un po' Bertinottiano.
«Sono un giornalista libero. Che considera Bertinotti un maestro».
È vero che tornerai all'«Unità», a fare il vicedirettore?
«Non è vero».
E allora? Che farai dopo?
«Ma dopo quando? Allora non hai capito... io conto di restare qui per altri dieci anni...».

il Riformista 16.12.08
Rifondazione perde pezzi. E Fausto tace
di Serenella Mattera


La ferita c'è. Il partito della Rifondazione comunista perde i primi pezzi e Paolo Ferrero, cui il congresso di luglio ha consegnato la segreteria, non può che prenderne atto. È andato a Firenze ieri. Dove due dei tre consiglieri comunali del suo partito sono passati a un nuovo gruppo, "La Sinistra", assieme a colleghi di Sd e Pdci. Quasi un'anticipazione su piccola scala del sodalizio inaugurato sabato all'Ambra Jovinelli di Roma. Lì, con la benedizione di Fausto Bertinotti, l'area di Rifondazione che fa capo a Nichi Vendola, ha iniziato un cammino comune con i cugini di Sinistra democratica, una parte dei Verdi e del Pdci. Non si parla ancora di scissione del Prc, anche perché il fronte vendoliano non è così compatto. Ma la battaglia fratricida non è più dissimulata.
La frattura tra le due aree del partito facenti capo a Vendola e Ferrero, mai sanata dopo il congresso di Chianciano, è emersa nel comitato politico nazionale, indetto in contemporanea con la manifestazione dell'Ambra Jovinelli. «In quel teatro l'Associazione per la sinistra ha dato vita a un'assemblea molto incoraggiante, in cui è emersa una voglia di partecipazione forte a un progetto di ricostruzione della sinistra. Il comitato politico del partito è stato invece disarmante e triste», riassume Franco Giordano, ex segretario del Prc e fedelissimo di Fausto Bertinotti. Non dello stesso parere, naturalmente, Paolo Ferrero, che rivendica al comitato da lui presieduto un «positivo bilancio dei lavori». Il punto su cui i due, con le rispettive aree, più divergono è quello dell'affaire Liberazione. La poltrona del direttore Piero Sansonetti è sempre meno salda. Soprattutto dopo la copertina di domenica, dedicata alla manifestazione dell'Ambra: l'intollerabile prova provata delle simpatie per la minoranza del partito e di un «legame con un progetto alternativo» che Ferrero non può digerire. E che è testimoniato, in effetti, dalla strenua difesa del direttore da parte dei vendoliani.
La mozione congressuale del governatore pugliese, però, non è compatta. Da un lato Vendola stesso, Giordano e Migliore, guidano il fronte più deciso sulla via della creazione di un nuovo soggetto della sinistra, esteso anche al di fuori del Prc. Dall'altro, c'è chi frena. Come Augusto Rocchi, Tommaso Sodano e Milziade Caprili, bertinottiani di ferro, che vogliono «continuare a lavorare dentro il Prc». Domenica i due filoni interni alla minoranza si sono divisi su un ordine del giorno. E una cosa è certa: se Vendola decidesse per la scissione, di cui peraltro nessuno parla ancora esplicitamente, in questo momento perderebbe dei pezzi importanti. Una parola risolutiva al riguardo potrebbe arrivare soltanto da Fausto Bertinotti, comune riferimento, ma lui continua a tacere.
Intanto ieri sera a Firenze Paolo Ferrero è andato a riaffermare la linea del partito. Quella sua, della maggioranza. Alle elezioni amministrative, il Prc andrà da solo nei comuni con più di 15mila abitanti e nelle province. E a Firenze non sarà in coalizione con il Pd, da cui lo divide la questione morale. Ma alle primarie di coalizione parteciperanno due consiglieri comunali eletti nelle liste del Prc e ora fuori dal partito. Leonardo Pieri e Mbaye Diaw hanno costituito un nuovo gruppo, «La Sinistra», in cui sono confluiti anche i quattro consiglieri di Sd e uno dei tre Comunisti italiani. E ora, secondo Ferrero, sono «subalterni al Pd». La stessa subalternità, che a Ferrero sembra di intravedere anche nel «nuovo partitino della sinistra» che potrebbero nascere da qui a qualche mese a livello nazionale.

lunedì 15 dicembre 2008

Corriere della Sera 15.12.08
Ru486 Polemica dopo la notizia del prossimo via libera da parte dell'Agenzia del farmaco. L'Udc: il governo è stato inerte
Pillola abortiva in arrivo, stop del Vaticano
«Uccide esseri innocenti». La Meloni: le donne sappiano che è rischiosa
L'autorizzazione è ora solo un problema tecnico, automatico. L'azienda produttrice ha già i foglietti illustrativi in italiano
Margherita De Bac


Cardinale Barragan: La Ru486 non è tanto innocente La Chiesa condanna tutti gli aborti

ROMA — Lancia l'ennesima scomunica il Vaticano contro la pillola abortiva, tra poco a disposizione degli ospedali italiani. La voce stavolta è del cardinale Javier Lozano Barragan, «ministro per la Salute» della Santa Sede: «La Chiesa cattolica comprende il dramma di una ragazza che suo malgrado si trova incinta, ma condanna l'aborto in qualsiasi forma esso venga praticato perché si uccide un essere innocente. L'embrione è un essere umano con tutti i suoi diritti». Per il cardinale «la Ru rientra tra i farmaci che non sono tanto innocenti». Chi pensava di poterla fermare ha dovuto ricredersi. Già approvata a febbraio sotto il governo di centrosinistra, entrerà a breve in Italia, probabilmente all'inizio del prossimo anno, senza che l'attuale esecutivo possa intervenire. E' una procedura tecnica, automatica.
Dopo l'anticipazione del Corriere conferma il capo dell'agenzia del farmaco (Aifa), Guido Rasi. Domani una riunione del comitato tecnico. Giovedì passaggio in consiglio di amministrazione che potrebbe essere definitivo. L'uso del farmaco sarà vincolato dalle stesse regole della legge 194 sull'aborto. Quindi niente vendita extra ospedaliera. Obbligo di ricovero in day surgery, diurno. Resta valido ovviamente il ricorso all'obiezione di coscienza: «La nostra posizione non cambia — dice Pietro Saccucci, ginecologo obiettore al San Camillo- Forlanini di Roma —. La contrarietà all'aborto non dipende dai mezzi che lo procurano ».
L'azienda produttrice, la francese Exelgyn è pronta: «Già tradotto in italiano il foglietto illustrativo e la confezione — dice l'amministratore delegato Alexandre Lumbroso —. Dal ministero sappiamo che la registrazione avverrà entro la fine dell'anno». Il fatto che l'arrivo del farmaco a base di mifepristone sia inesorabile non indebolisce i contrari. Fanno blocco compatto le donne della destra al governo, in pieno accordo col sottosegretario Eugenia Roccella che per prima ha sollevato il problema della sicurezza. «L'esperienza all'estero ha dimostrato ampi margini di rischio, mancanza di efficacia e complicanze legata ai tentativi di aborto chimico — denuncia il sottosegretario al Welfare, Francesca Martini —. Siamo preoccupati sulle modalità di somministrazione che deve avvenire in linea con la legge 194. Serve informazione. Non è una caramella da prendere a casa. Provoca il distacco dell'embrione dall'utero».
Il ministro della Gioventù Giorgia Meloni mette in guardia le ragazze: «Non è un anticoncezionale. È un'altra cosa. È un farmaco con gravi rischi, interrompe una gravidanza già iniziata. Ogni nuovo strumento per fermare la vita non è una vittoria per nessuno, è anzi una sconfitta sociale». Secondo la Roccella l'aborto con la Ru486 «è difficilmente compatibile con la legge 194. Si torna a una forma di clandestinità legale. Le donne la prenderanno a casa, fuori dal controllo medico ».
A questa visione «terroristica », come lui la definisce, si oppone Silvio Viale, il ginecologo del Sant'Anna di Torino che ha sperimentato il metodo per primo in Italia: «Gli ospedali non sono galere. Non possiamo costringere le pazienti a restare se non vogliono. Le preoccupazioni sulla pericolosità non sono fondate. Gli studi dimostrano la sicurezza. Bisogna tornare in ambulatorio a distanza di 2 giorni dall'assunzione per prenderne una seconda, a base di prostaglandine, che favorisce la definitiva espulsione del feto». Secondo Viale dal 2006 sono stati 4 mila i casi di aborto chimico. Nel 2008 è stato praticato in 28 centri italiani grazie ad un meccanismo di importazione nominale. In pratica il farmaco viene richiesto all'azienda produttrice caso per caso. Di terrorismo psicologico parla anche Silvana Mura, Idv: «Le polemiche sono gratuite. Il governo Prodi ha lavorato nell'interesse della donna che ora avrà un'alternativa alla chirurgia ». Luca Volontè, Udc, esprime «profonda delusione per l'incomprensibile inerzia dell'attuale governo. Una triste vicenda come è stata anche la mancanza di iniziative sulla legge per la procreazione assistita. Coerenza vuole che il ministro Maurizio Sacconi venga attaccato come lo è stata Livia Turco».

Corriere della Sera 15.12.08
Il Papa: non è vicina la fine del mondo


CITTA' DEL VATICANO — «Nessuno può conoscere il momento della venuta del Signore». Quindi, «in guardia da ogni allarmismo, quasi che il ritorno di Cristo fosse imminente». Così ieri papa Benedetto XVI, citando San Paolo, durante l'Angelus in piazza San Pietro ha parlato della fine del mondo. Sono solo degli «allarmismi» ha detto il Pontefice, che ricorrono nella storia dell'umanità, dal tempo di San Paolo: «Già allora la Chiesa, illuminata dallo Spirito Santo, comprendeva sempre meglio che la vicinanza di Dio non è una questione di spazio e di tempo, bensì una questione di amore: l'amore avvicina!». E sempre ieri, c'è stata la tradizionale benedizione dei bambinelli dei presepi degli oratori e delle parrocchie romane, portati in piazza San Pietro dai ragazzi delle scuole. Davanti ad alcune migliaia di persone radunate in piazza San Pietro, Benedetto XVI ha recitato una preghiera di benedizione: «È per me un vero piacere rinnovare la bella tradizione della benedizione dei "bambinelli", le statuette di Gesù bambino da deporre nel presepe». E salutando i bambini degli oratori e delle parrocchie romane nella giornata per la costruzione di nuove chiese a Roma celebrata dalla Diocesi di Roma, Ratzinger ha ricordato: «Negli ultimi anni sono stati realizzati nuovi complessi parrocchiali, ma vi sono ancora comunità che dispongono soltanto di strutture provvisorie inadeguate».

Corriere della Sera 15.12.08
Riforma universitaria e circuito trasversale
Così il Pd può «aiutare» la Gelmini
di Salvatore Vassallo


Caro Direttore, a partire da oggi inizia alla Camera l'esame del cosiddetto «decreto Gelmini» sull'Università, già approvato al Senato. Con le vacanze alle porte e un cumulo di decreti in scadenza, esistono pochi margini, che tuttavia andrebbero sfruttati con grande senso di responsabilità da parte di maggioranza e opposizione, per migliorarne i contenuti e avviare una seria discussione bipartisan sulla riforma del sistema universitario. In questo caso le liturgie barocche del bicameralismo perfetto potrebbero tornare utili.
Che il decreto abbia bisogno di miglioramenti lo ha rilevato anche l'ufficio studi della Camera e lo hanno detto, la scorsa settimana in Commissione cultura, componenti autorevoli dei gruppi Lega Nord e Pdl, i quali hanno segnalato la necessità di sanare quanto meno alcune ambiguità interpretative del testo riguardo ai concorsi, a costo di rinviarlo in terza lettura al Senato. Se questo accadesse, e se i passi indietro sulla politica dei tagli a prescindere fossero un po' meno aleatori, anche il Pd sarebbe indotto a ripensare l'atteggiamento tenuto in prima lettura, dato che il decreto presenta aspetti apprezzabili.
Come era stato chiesto dall'opposizione, vengono accresciuti, ma incomprensibilmente per un solo anno, il fondo per il sostegno alla mobilità degli studenti e quello per le residenze universitarie. Si consente la chiamata diretta, incentivata da sgravi fiscali contenuti in un altro provvedimento, per attrarre ricercatori stranieri o ricercatori italiani che lavorano all' estero. Si introduce il principio per cui una parte dei fondi statali siano assegnati sulla base di indicatori dell'offerta didattica e della produzione scientifica.
Il decreto non toglie il macigno che pesa sui bilanci universitari per il 2010 a causa dei tagli lineari imposti prima con il decreto Ici e poi con la manovra estiva. Al netto di questo problema, tutt'altro che marginale, introduce elementi compatibili con un disegno più ampio di riforma a cui anche il Pd è attivamente interessato. Si consideri che le linee guida sulla riforma universitaria presentate in novembre dal ministro Gelmini hanno parecchi elementi in comune con il decalogo esposto poche settimane prima dal Pd.
D'altro canto uno dei più accreditati collaboratori del ministro, estensore di quelle linee guida, è il professor Alessandro Schiesaro, persona assai competente, che ha collaborato in passato anche con il Pd. E si deve anche considerare che esiste ormai una «policy community» trasversale, una rete fatta di operatori, esperti, politici specializzati in questo settore, alcuni dei quali oggi distribuiti tra Camera e Senato, per lo più ricercatori con qualche esperienza di sistemi universitari stranieri, ben consapevole della sfida che l'Università italiana deve affrontare per rimettersi al passo della comunità scientifica internazionale, per riacquistare il ruolo e il prestigio necessari per un grande paese avanzato come il nostro. C'è consenso, in questo circuito trasversale, ad esempio, sulla necessità di passare da un allocazione delle risorse statali per l'università interamente basata sulla spesa storica ad una che si affida progressivamente alla valutazione della produzione scientifica misurata secondo standard internazionali e della didattica; sulla necessità di ridurre proporzionalmente, nel tempo, il peso dalla spesa per il personale rispetto a quella per il diritto allo studio, investendo di più per i campus e per le borse o anche per crediti d'onore; sulla opportunità di prevedere, accanto a meccanismi tesi a premiare gli atenei in cui si produce ricerca di migliore livello, ve ne siano, al livello decentrato, che consentano di pagare meglio i docenti più operosi. C'è consenso, infine, intorno all'idea che non sarà l'ennesima revisione delle procedure concorsuali a migliorare la selezione del personale accademico, ma solo l'attivazione di efficaci meccanismi competitivi e di emulazione delle sedi più prestigiose, laddove la virtù e il prestigio dovessero cominciare a tradursi anche in maggiori risorse.
Rimane invece un notevole dissenso suoi dati e sulle scelte riguardanti le risorse da destinare complessivamente all'Università e alla ricerca.
Il governo, contrariamente a quanto si ricava dagli studi dell'Ocse, da credito all' interpretazione, veicolata anche da campagne giornalistiche non sempre corrette, secondo cui ci siano margini per risparmiare in un settore in cui fino ad ora si è sperperato. Ma è presumibile che lo stesso ministro, se ha acquisito un po' di esperienza sul campo, sappia che le sue ambizioni riformatrici, se sono sincere, si scontreranno contro questo problema tra appena un anno, quando sarà evidente che è semplicemente impossibile al tempo stesso introdurre meccanismi meritocratici (i quali, per definizione, trasferiscono risorse da certi atenei ad altri) e ridurre le risorse complessivamente allocate al sistema universitario. A quel punto si accorgerà che senza qualche risorsa aggiuntiva, e un largo consenso, le riforme che oggi promette si riveleranno impraticabili.

Corriere della Sera 15.12.08
Severino: non posso dirmi cristiano
Il filosofo smentisce un ritorno alla fede e confuta gli argomenti degli «atei devoti» che conciliano liberalismo e religione
«Una società ispirata al Vangelo è preferibile, ma non basta a risolvere i problemi»
di Armando Torno


Incontriamo Emanuele Severino nella sua casa di Brescia, tra i libri, il pianoforte e le sculture del figlio Federico, artista a suo tempo osteggiato (e apprezzato) da Giovanni Testori. Gli chiediamo se stia andando verso il cristianesimo o se la Chiesa cerchi di riprenderlo tra le sue braccia, giacché non si contano più gli incontri con esponenti della gerarchia cattolica: Rino Fisichella, Piero Coda, Gianfranco Ravasi, inviti alla Gregoriana e alla Lateranense. È in programma a marzo, tra l'altro, un dibattito con il cardinal Angelo Scola: si terrà a Padova per iniziativa del rettore dell'Università. Sembrano passati i tempi del processo a Roma, quando Severino — ordinario alla Cattolica di Milano — affrontò le procedure dell'ex Sant'Uffizio e accettò la discussione delle sue idee. Il definitore dell'istituzione e suo critico era Cornelio Fabro. Lasciò di comune accordo la cattedra, dopo — ricorda — «aver conosciuto da vicino le procedure che caratterizzarono la storia della Controriforma».
Severino, dopo questa divagazione dal sapore galileiano, replica alla domanda di partenza: «Da un po' ci si impegna per mostrarsi vicini alla Chiesa cattolica: "atei devoti" (Ferrara), "Dio, Patria e Famiglia" (Tremonti), "Perché dobbiamo dirci cristiani" (Pera), Gramsci lo si fa morire con i Sacramenti. Con quel che circola, una società che adotti valori cristiani è per noi preferibile, ma le preferenze non risolvono i problemi dell'uomo. Da vent'anni indico la possibilità di un'islamizzazione dell'Europa e da altrettanto tempo anche l'opportunità di più stretti rapporti tra Europa e Russia (ora è una tesi di Berlusconi), giacché nelle radici cristiane dell'Occidente c'è anche il mondo ortodosso. La Chiesa cattolica non lo sottovaluti».
Chiediamo allora a Severino come si sta muovendo il suo discorso rispetto al cristianesimo. «I miei scritti — risponde — hanno via via mostrato le implicazioni di ciò che in essi è chiamato "destino della verità", ovvero l'assolutamente innegabile che appare in ogni uomo anche quando è lontanissimo dal rendersene conto. Ma in quello che andavo scrivendo si è presto fatto avanti questo ulteriore tratto: il "destino" è la negazione più radicale di tutto ciò di cui l'uomo si è reso conto, anche del cristianesimo, e di ogni critica rivoltagli». Ricordiamo a Severino, dopo queste precisazioni, che fu proprio con il cristianesimo che si sviluppò la sua polemica. Sottolinea: «Da quando la Chiesa ed io ci siamo trovati d'accordo nel riconoscere l'essenziale inconciliabilità delle nostre due posizioni, tale accordo non è venuto più meno. Rimane tuttavia la possibilità che, sottratto all'alienazione da cui è avvolta la storia dell'uomo, qualche tratto del cristianesimo si costituisca, nello sguardo del "destino", come un problema autentico ». D'altra parte, «l'uomo è "destinato" a una gioia infinitamente più profonda di quella promessa dal cristianesimo».
Inevitabile ricordare a Severino che quanto egli chiama «accordo» lo si discute molto e una serie di scritti si sta chiedendo quale sia l'effettivo rapporto tra questo filosofo e il cristianesimo. «Sì, è vero», ammette. E precisa: «Ci sono ora gli ampi saggi di Leonardo Messinese, Ines Testoni, Umberto Soncini e Massimo Donà, di grande valore. Ma non è finita perché accanto a queste ricerche sono nate le considerazioni di Carlo Arata e dell'indimenticabile Italo Valent. E di Franco Volpi, Sergio Givone, Umberto Galimberti, Luigi Tarca, Andrea Tagliapietra, Romano Gasparotti, Giorgio Brianese, Eugenio Mazzarella, Romano Madera, Davide Spanio, Francesco Totaro, Pietro Barcellona, Natalino Irti... ». Una pausa e Severino aggiunge: «Inoltre Giulio Goggi — taccio i numerosi altri che la tirannia dello spazio mi impedisce di citare — sta discutendo il ventennale dialogo che ebbi con Gustavo Bontadini, mio maestro ed eminente figura della filosofia cattolica».
Non può sfuggire il fatto che Messinese sia sacerdote e professore alla Pontificia Università Lateranense. Severino aggiunge: «Egli intende tener fermo il modo in cui nei miei primi scritti viene affermata l'eternità dell'essere, e mi segue nella tesi che il processo dell'uscire dal nulla, e il ritornarvi, da parte delle cose, non è un contenuto immediato dell'esperienza, un "dato" evidente, ma una teoria, ed essenzialmente falsa. Tuttavia l'"accordo" finisce qui, perché quello di Messinese è un tentativo, originale, di reintrodurre il concetto metafisico e cristiano di "creazione"». Una pausa e un affondo: «Un tentativo di altissimo livello, anche se creazione e annientamento degli enti rimangono qualcosa di impossibile: intendendo l'atto creativo come eterno — in modo che le cose stesse, in esso, sono eterne — tale atto in Dio è libero e quindi sarebbe potuto rimanere un nulla, lasciando quindi nel nulla anche le cose creabili». E ancora: «Il clima di Messinese converge con quanto scrivono Piero Coda, Giuseppe Barzaghi e Pierangelo Sequeri, teologi e sacerdoti; oppure Carlo Scilironi. Ravvisano in quanto dico qualcosa da cui la fede cristiana non può prescindere». La tradizione occidentale include anche il neoplatonismo, «centrale — sottolinea Severino — per la cultura cristiana». E precisa: «Su di esso si fonda pure il poderoso volume di Massimo Donà, che è un implicito invito — da tempo mi giunge anche da Massimo Cacciari e Vincenzo Vitiello — ad andare oltre le categorie del "destino della verità", verso l'Altro, ma che da queste categorie è inevitabilmente avvolto e sorretto ».
Certo, ci viene da aggiungere che il recente libro di Marcello Pera, lodato dal Pontefice, afferma la creazione divina del mondo... «E mette insieme — continua la frase Severino — il modo in cui la creazione è affermata dall'antimetafisico Kant e dal metafisico Locke, e il modo in cui Kant e Locke condannano il suicidio, e tante altre cose che insieme non possono stare». Una pausa e il nostro interlocutore precisa: «Pera sostiene la solidarietà tra cristianesimo e liberalismo. Quest'ultima ideologia è per lui una "fede" nell'esistenza di Dio, creatore, della "legge naturale", dei "diritti naturali", della "verità" e della "moralità" universali. Ma poi ritiene che la "fede" liberale sia quella parte della ragione umana che è autonoma rispetto alla ragione scientifica: riduce a semplice fede quei contenuti che la filosofia della tradizione ha invece pensato con grande potenza concettuale e con l'intento di mostrarne l'assoluta incontrovertibilità. Confonde la fede nell'esistenza della verità universale con la verità universale, la fede nella ragione con la ragione. È interessante che di queste confusioni Benedetto XVI lodi la "logica inconfutabile", la "sobria razionalità", l'"ampia informazione filosofica" eccetera eccetera».
A questo punto non possiamo esimerci dal chiedere se per Severino il nemico autentico del cristianesimo, all'interno della storia dell'Occidente, sia l'essenza del pensiero del nostro tempo. «È molto originale — risponde— a proposito di questo nemico il saggio di Ines Testoni, direttrice del Master "Studi sulla morte e il morire" dell'Università di Padova. In esso è posto in rilevo che l'apparire di quella forma emergente di linguaggio, che è la testimonianza del "destino della verità", è di per se stesso una rivoluzione politica, per la quale la storia non può procedere secondo le previsioni dell'Occidente. E ciò avviene anche se tale testimonianza è contrastata dalle forze interessate a tenere in vita il pessimismo (e l'alienazione) essenziale della nostra civiltà: la convinzione che le cose e l'uomo, in quanto tali, siano nulla e che occorrano delle forze (divine, naturali, umane) per farli essere».
C'è un'ultima questione nata dal nostro incontro che sottoponiamo a Severino: a partire da Abbagnano si sottolinea spesso la relazione tra il pensiero di Hegel e il suo. «Sì — risponde — il rapporto tra "destino" e cristianesimo è a tema anche nel recente e penetrante volume di Umberto Soncini che, appunto, lo accosta attraverso un serrato confronto tra la concezione hegeliana del fondamento e la mia». Soncini, del resto, mette in luce l'incapacità di Hegel di rimanere fedele a se stesso, evidenziando peraltro l'inconsistenza dell'interpretazione che vede nel pensiero hegeliano la negazione del «principio di non contraddizione». Comunque per Severino la filosofia è l'anima e insieme l'alienazione delle opere stesse dell'Occidente, «e il destino della verità è l'aver già da sempre oltrepassato quest'anima...».

L'autore. Nato a Brescia nel 1929, Emanuele Severino è uno dei più noti filosofi italiani. Nel 1970 lasciò l'Università Cattolica per via dei suoi contrasti con la dottrina della Chiesa. Tra le sue opere: «La struttura originaria», «Oltrepassare »,«Téchne»

Corriere della Sera 15.12.08
Il caso Il comitato politico: sostiene un altro progetto. Ferrero: ha l'insolenza dei demagoghi. L'ipotesi del licenziamento
Prc, su «Liberazione» spaccatura e insulti
Voto a maggioranza contro Sansonetti che attacca: fate come il Pcus con la Pravda
Per Paolo Ferrero la linea di Liberazione, diretto da Piero Sansonetti , è schiacciata sulle posizioni di Nichi Vendola
di Paolo Foschi


ROMA — La rottura ormai è consumata. Rifondazione comunista si prepara fra polemiche e veleni a dare il benservito a Piero Sansonetti, direttore di Liberazione.
Ieri nella seconda e conclusiva giornata del Comitato politico del partito, la maggioranza del segretario Paolo Ferrero ha approvato un ordine del giorno nel quale chiede al quotidiano «che l'indirizzo sia quello deciso al congresso di Chianciano e che ci sia un pareggio del bilancio». Secondo Ferrero, «in questo momento il giornale è lo strumento di un altro progetto politico che vuole il superamento del nostro partito » e la «perdita di copie e il buco in bilancio di tre milioni testimoniano il fallimento del progetto editoriale». Il riferimento al progetto politico alternativo è alle manovre della corrente di minoranza di Niki Vendola e Franco Giordano che ha già aderito all'Associazione per la sinistra con Verdi e Sd e minaccia la scissione da Rifondazione. Secondo Ferrero la linea del quotidiano è schiacciata sulla posizioni di Vendola. La minoranza ha però reagito, presentando un altro ordine del giorno di senso diametralmente opposto, che è stato respinto. E Sansonetti resta in barricata: «È il direttore e non l'editore che decide come fare il giornale. Quindi decido io. Se all'editore non va bene, scelga un altro direttore. Certo a decidere come doveva essere fatta la Pravda era il Pcus...».
Insomma, ferri corti. Anzi cortissimi. «Noi mettiamo in prima pagina temi come le stragi sul lavoro, sulle quali il partito è silente e silenzioso», ha aggiunto il direttore di Liberazione, rispondendo alle accuse di Ferrero. «Pregherei Sansonetti di lasciare perdere una polemica imbastita sulla pelle dei lavoratori morti», ha detto il segretario, che ha aggiunto: «Mi viene da replicare citando Aristotele: le democrazie sono spesso corrotte dall'insolenza dei loro demagoghi ».
Adesso la parola passa alla direzione nazionale, che dovrà dare mandato alla società editrice di licenziare Sansonetti, ex Unità, dove secondo alcuni rumors potrebbe tornare come vice di Concita De Gregorio. Tutto potrebbe avvenire già in settimana. E per Liberazione
si profila intanto una direzione politica, probabilmente affidata all'ex parlamentare Giovanni Russo Spena. Il Comitato politico ha deciso fra le varie cose che alle prossime amministrative il partito andrà ancora con il simbolo di Rifondazione, mentre la minoranza non ha votato. Anzi, proprio su questo punto si è consumata una piccola rottura tutta interna al fronte che si oppone a Ferrero: Augusto Rocchi, Tommaso Sodano, Raffaele Pecce e Melziade Caprile, quattro fedelissimi di Fausto Bertinotti (che non fa parte del Comitato) hanno votato un proprio ordine del giorno che sul simbolo prevede un ravvicinamento alla maggioranza. Per le europee la decisione è stata invece rinviata, senza escludere un'alleanza a sinistra, «ma incentrata comunque sul rilancio dell'azione politica e sociale di Rifondazione, incentrata sui bisogni della gente, sui problemi dei lavoratori», ha sottolineato Ferrero.
A gennaio però torneranno a riunirsi i «dissidenti» dell'Associazione per la sinistra presentata sabato. E l'anima scissionista, guidata da Vendola, potrebbe cercare di accelerare i tempi, nonostante Fausto Bertinotti freni ancora su questa ipotesi perché c'è il timore di disperdere ulteriormente il voto a sinistra del Pd, favorendo l'Italia dei Valori di Antonio Di Pietro. Ma ieri, nel centro congressi di via dei Frentani, a due passi dalla vecchia sede storica dell'Unità di via dei Taurini abbandonata nei primi anni Novanta, circolava una battuta amara: «Dividere un partito all'1%? Non è roba per noi politici. È roba da fisici. Perché rischiamo di fare la scissione dell'atomo».

Repubblica 15.12.08
La Sfinge. L'ultima ricerca di una équipe inglese la testa fu rimodellata nel corso dei secoli
Da leone a uomo così cambiò volto
Ma secondo l'archeologia ufficiale le nuove ipotesi non sono ancora suffragate da evidenze incontestabili
di Luigi Bignami


Due nuove ipotesi rilanciano il mistero della Sfinge di Giza. Nota da sempre per il suo volto umano e il corpo leonino e per essere stata costruita circa 4.500 anni fa, in realtà potrebbe essere stata modellata nella roccia almeno qualche secolo se non addirittura 1.500 anni prima, e il volto originario sarebbe stato quello di un leone. Questo sostiene un gruppo di ricercatori dopo aver eseguito accurati rilievi, durati diversi anni, sul corpo della più enigmatica delle sculture. Colin Reader della Manchester Ancient Egypt Society, uno dei geologi leader nella ricerca, sostiene che solo ipotizzando un´età di almeno un paio di secoli superiore si può spiegare l´erosione visibile sul corpo della Sfinge. In sostanza essa non fu realizzata subito dopo la costruzione delle Piramidi, ma prima, molto prima. «A sostegno della mia ipotesi vi è il fatto che nell´area di Giza sono stati trovati resti di palazzi che dimostrerebbero che vi era un´intensa attività umana di molto antecedente alla costruzione delle Piramidi», sostiene Reader.
L´ipotesi va a dar man forte a quella già proposta alcuni anni fa dal geologo Robert Schochdel College of General Studies di Boston, il quale però aveva ipotizzato che il monumento fosse molto più antico di quel che si pensava. Tesi avvalorata dal fatto che alcune forme di erosione presenti sul corpo del monumento potrebbero essere state prodotte solo da prolungati periodi di pioggia. E poiché l´ultimo periodo di forti precipitazioni in Egitto terminò tra il tardo quarto millennio avanti Cristo e l´inizio del terzo millennio a. C. secondo Schoch questo significava che la data di costruzione della Sfinge era da collocarsi tra il quinto e il quarto millennio a. C.. Tradotto: circa 1.500 anni prima della data considerata reale.
Accanto a Schoch e Reader un altro studioso, il geologo David Coxill, dipendente dal dipartimento nazionale britannico, è giunto recentemente a sostenere che la Sfinge è più vecchia di quanto ritenuto, anche se la sua ipotesi è più conservativa rispetto a quella di Schoch, in quanto spinge indietro nel tempo la nascita della Sfinge di soli due o tre secoli.
Reader comunque sostiene anche un´altra tesi controcorrente e cioè il fatto che il volto originario della Sfinge non fosse quello che possiamo osservare ai nostri giorni. «Esso - sostiene Reader - doveva essere quello di un leone». In realtà altri ricercatori sostengono l´ipotesi di Reader perché il corpo della Sfinge e la testa sono enormemente sproporzionati e questo non sarebbe stato di gradimento per un faraone. «Non ci sono dubbi che la testa originaria doveva essere del tutto diversa rispetto a quella che si osserva e questo per una questione di proporzioni», ha spiegato lo storico d´arte Jonathan Foyle che ha seguito i lavori di Reader. La statua è lunga 73 metri, mentre l´altezza massima della testa si aggira intorno ai 20 m. Fu Cheope, secondo Reader, a rimodellare il volto trasformandolo da leonino a sua immagine o come vogliono alcuni storici, il figlio di questi, Djedefra, a lui succeduto.
Il motivo per cui i più antichi egizi si impegnarono nel realizzare una simile opera scultorea stava nel fatto che il leone possedeva un simbolo di potenza superiore a quello del volto umano. E la possibilità di incontrare leoni nella piana di Giza era notevole, perché circa 5.000 anni fa il loro numero in quella località era certamente imponente.
Queste ipotesi comunque, pur suffragate da alcuni dati di valore, non sono, al momento, ritenute sufficientemente corpose da far cambiare l´età della Sfinge da parte dell´archeologia ufficiale. Quel che è certo è il fatto che una volta che la necropoli cui apparteneva fu abbandonata la Sfinge venne ricoperta dalla sabbia fino alle spalle. Venne completamente strappata al deserto solo nel 1886, grazie al lavoro finale di Gaston Maspero, e fu interamente visibile al pubblico a partire dal 1925.

Repubblica 15.12.08
Intervista a Pierre Rosanvallon, autore di "La légimité démocratique"
Democrazia. Il paradosso dell'antipolitica


Il pericolo è che tra i cittadini e i politici il solco divenga così profondo da rendere il potere intoccabile. L´estremismo produce alla fine esclusione
Nel vostro paese la "controdemocrazia" si sovrappone al populismo tradizionale ed è un rischio per il tessuto democratico
Una volta si votava per un progetto, oggi per un uomo Di conseguenza il suffragio universale procura una legittimità solo strumentale

PARIGI. «La democrazia non è solamente il voto nell´urna. Nella complessità del mondo contemporaneo, la vita democratica si decentra, dando vita a una varietà di azioni e istituzioni al di là del solo suffragio universale». È questa la conclusione cui è giunto Pierre Rosanvallon, lo studioso francese che insegna al Collège de France ed oggi considerato uno dei più influenti intellettuali d´Oltralpe. Lo spiega in un volume appena pubblicato in Francia, La légimité démocratique (Seuil, pagg. 380, 21 euro), che fa seguito a un altro corposo saggio intitolato La politica nell´era della sfiducia, in procinto di essere pubblicato in Italia da Città Aperta, aggiungendosi così ai precedenti Il popolo introvabile (Il Mulino) e Il Politico, storia di un concetto (Rubettino). «Il disincanto democratico è oggi un´evidenza. I cittadini votano meno che in passato e soprattutto in modo diverso», spiega Rosanvallon, che ha anche creato la République des idées, un importante spazio di riflessione, dotato di un sito web e di una collana di libri.
«Oggi il voto non è più un momento d´identificazione con un gruppo sociale, un territorio o un partito politico. Il voto ha cambiato natura. In passato era la manifestazione di un´identità sociale, oggi esprime un´opinione individuale. Questa trasformazione è accompagnata da una crescente disaffezione nei confronti dei partiti politici e dalla crisi dello stato inteso come amministrazione dell´interesse comune».
Il disincanto democratico favorisce il disinteresse per la cosa pubblica?
«Non credo, dato che i cittadini manifestano la loro implicazione nella vita collettiva in altro modo. Tra un´elezione e l´altra, la vitalità democratica prende altre forme, che nel volume La politica nell´era della sfiducia ho designato con il termine "controdemocrazia", un termine forte e volutamente ambiguo».
Di che si tratta?
«La "controdemocrazia" è costituita dall´insieme delle attività che non mirano ad associare il cittadino all´esercizio del potere, ma a organizzare il suo controllo su chi governa. E´ impossibile che tutti partecipino direttamente alle decisioni politiche, ma tutti possono esprimere opinioni critiche e partecipare alla vigilanza civica nei confronti del potere. Naturalmente queste attività possono essere molteplici, a cominciare da quelle di sorveglianza, notazione e convalida delle procedure democratiche. Si tratta di modalità più o meno formalmente costituite, i cui attori possono essere le associazioni, la stampa o anche i singoli cittadini su internet».
Lei parla anche di sovranità negativa...
«È quella che i cittadini manifestano rifiutando alcune scelte governative. I primi teorici della democrazia pensavano che la democrazia si fondasse essenzialmente sul consenso silenzioso dei cittadini, oggi invece ci rendiamo conto che nell´attività democratica, accanto al consenso, svolge un ruolo essenziale il dissenso. Già Montesquieu sottolineava la dissimmetria tra facoltà d´impedire e facoltà d´agire, in democrazia. E´ infatti molto più facile misurare i risultati ottenuti sul versante del disaccordo che su quello della proposta costruttiva. Se si riesce a bloccare una decisione del potere, i risultati si vedono subito, mentre per promuovere una legge spesso occorrono anni prima di vedere i risultati».
Quali sono le altre forme della controdemocrazia?
«Un´altra componente importante è l´esercizio che mira a mettere sotto accusa il potere. Il modello del processo, fuoriuscendo dall´ambito giudiziario, si è diffuso in tutta la società. L´atteggiamento accusatorio una volta era al centro del ruolo dell´opposizione parlamentare, col tempo però si è disseminato in tutta società, diventando un patrimonio collettivo».
Opponendosi al palazzo, la società civile sceglie a volte forme che alimentano l´antipolitica. Non è un rischio?
«Effettivamente è un rischio oggi assai diffuso. Le attività che chiamo controdemocratiche hanno sempre un carattere ambiguo. Se da un lato, infatti, queste possono essere utili a rafforzare la democrazia, stimolandola positivamente; dall´altro, possono anche indebolirla, alimentando l´antipolitica. La controdemocrazia positiva sottomette il potere a prove che lo costringano a realizzare meglio la sua missione al servizio della società. La vigilanza e la critica creano infatti vincoli virtuosi. La controdemocrazia negativa invece scava un solco sempre più profondo tra il potere e la società, allargando la distanza tra i cittadini e i politici. Il paradosso dell´antipolitica è che rende il potere sempre più distante e quindi intoccabile. La sua critica radicale non produce un´appropriazione sociale, ma una situazione in cui i cittadini sono sempre più espropriati dei procedimenti democratici. Nasce da qui quel populismo "dal basso", le cui forme sono diverse dal populismo tradizionale del XIX secolo».
Questa ambivalenza della controdemocrazia è una novità dei nostri giorni?
«No, la sua ambiguità era già evidente durante la rivoluzione francese. A quei tempi, il grande teorico della sorveglianza del potere è Condorcet, per il quale chi governa deve essere giudicato di continuo. Per lui, non esiste un potere buono in sé solo perché è stato eletto democraticamente. La democrazia esiste solo nell´interazione continua tra le istituzioni che governano e le procedure che ne regolano e ne controllano le attività. Accanto a Condorcet, però, agisce Marat, l´amico del popolo, il quale denigra di continuo la politica, trasformando coloro che governano in un´incarnazione del male da cui la società non potrà mai aspettarsi nulla di buono».
In Italia, il populismo tradizionale e quello nato dalla controdemocrazia sembrano oggi coesistere...
«Quando queste due forme di populismo si sovrappongono, si rischia d´innescare un pericoloso meccanismo di disgregazione del tessuto democratico. La democrazia dovrebbe essere un movimento di appropriazione sociale delle decisioni collettive, il populismo però espropria sempre il popolo di tali decisioni. Spesso chi critica i partiti ritiene che la società civile possa essere autosufficiente, ma è un´illusione pensare che la democrazia possa ridursi alla sola società civile. La democrazia è sempre un faccia a faccia tra governo e società, tra decisioni e consenso».
Nel suo nuovo libro, La légitimité démocratique, lei sostiene che il suffragio universale non basta più a legittimare la democrazia. Quali sono le altre forme di legittimazione democratica?
«In passato - in un contesto sociale, economico e ideologico più stabile - era più facile immaginare la continuità tra il voto e le politiche che avrebbero fatto seguito. Oggi le elezioni sono diventate un semplice processo di nomina che anticipa sempre meno le scelte a venire. Una volta si votava per un progetto, oggi per un uomo. Di conseguenza, il suffragio universale procura una legittimità solo strumentale, che è certo molto importante - perché alla fine la verità aritmetica è quella che decide - ma non più autosufficiente. E´ una legittimità che deve quindi continuamente essere messa alla prova e trovare l´appoggio di altre forme di legittimità».
In che modo?
«Un processo di legittimazione del potere è quello prodotto dall´imparzialità garantita dalle autorità indipendenti che vigilano per evitare che alcuni si approprino delle istituzioni in maniera partigiana. C´è poi la legittimazione derivata dalle corti costituzionali che garantiscono l´uguaglianza dei diritti e proteggono la democrazia dal capriccio dell´istante. Infine, c´è una forma di legittimazione che nasce dalla vicinanza di chi governa ai cittadini, i quali chiedono al governo di rispettare la società e di ascoltarne le sofferenze. Se in passato le democrazie hanno posto l´accento soprattutto sulle istituzioni, oggi si torna a valorizzare i comportamenti. Abbiamo bisogno di una democrazia dei comportamenti. E questo è un segno della trasformazione e dell´allargamento della concezione della democrazia».
Le diverse figure e istituzioni della realtà democratica sono date una volta per sempre?
«No, la democrazia non è mai data una volta per sempre. Essa deve essere di continuo sottoposta a un processo di appropriazione, grazie alle attività della società civile, alle istituzioni e all´interazione permanente tra potere e società. Bisogna appropriarsi di continuo della democrazia. Tocqueville pensava che la democrazia semplificasse sempre di più la vita politica, in realtà avviene il contrario. Lo sviluppo della democrazia rende la vita politica sempre più complessa. Ma questa è la condizione per impedire che un qualche interesse particolare la confischi a suo vantaggio».