mercoledì 17 dicembre 2008

il Riformista 17.12.08
Dimezzato, smarrito, inquisito
Un partito alla sbarra
Cavalcare la sconfitta. Il segretario del Pd usa la débacle abruzzese per lanciare una rivoluzione interna e azzerare gli avversari, ma è il primo a essere sotto processo. Nuovi arresti a Pescara e Potenza


«Ogni volta che il vecchio si aggrappa ai nostri piedi il Pd paga un prezzo». Walter Veltroni si prepara a cavalcare la sconfitta abruzzese e a lanciare la «fase tre» del Partito democratico. L'appuntamento sarà alla direzione di venerdì, in cui il segretario - come gli sta suggerendo Goffredo Bettini - potrebbe decidere di mettere ai voti la sua relazione.
Dentro il Pd tiene banco il tema della rottura dell'alleanza con Antonio Di Pietro. Giorgio Tonini, intervistato dal Riformista, replica: «Non è questo il problema. Il Pd può contare solo sulle sue forze e deve scegliere di correre da solo. Dobbiamo cominciare una traversata nel deserto, che può anche rivelarsi lunga e faticosa, ma che rappresenta la nostra unica scelta».
L'ostacolo più grosso per il Pd sono le inchieste giudiziarie. Avanza l'inchiesta della procura di Pescara, che ha proceduto agli arresti domiciliari del sindaco D'Alfonso e che ora indaga anche sul numero uno di Air One Carlo Toto. Nell'ordinanza prodotta dal gip spuntano tangenti, benefit, contributi elettorali non dichiarati e persino un aereo privato.
Scoppia anche il caso Basilicata. In manette l'amministratore delegato di Total, Lionel Levha, coinvolto anche il deputato democrat Salvatore Margiotta, che si è subito autosospeso dal partito.

Repubblica 17.12.08
Senza indulgenze
di Ezio Mauro


La richiesta d´arresto di un deputato in Basilicata, per presunte tangenti legate al petrolio, l´arresto del sindaco di Pescara per il sospetto di tangenti sugli appalti. Dopo i casi di Napoli e Firenze, sul Pd l´onda giudiziaria cresce e anche se bisogna ripetere come sempre che dobbiamo attendere i risultati dell´inchiesta prima di formulare giudizi, questo è il momento di afferrare quel partito per i capelli, prima che affondi.
Nessuno può pensare, onestamente, che il Pd sia un rifugio di faccendieri. Ma non c´è alcun dubbio che se nel Paese il problema della corruzione è riesploso, nel confine critico tra la politica e gli affari, i Democratici si mostrano oggi vulnerabili e permeabili al malcostume nella loro periferia assessorile, mentre le speranze e le attese che accompagnarono la nascita del Pd erano ben diverse.
Scricchiolano entrambi gli elementi della coppia con cui il Pd presentò la sua novità: la moralità pubblica, l´innovazione politica. È difficile infatti non legare le notizie che arrivano dalle Procure con la débacle elettorale in Abruzzo, e soprattutto con l´astensionismo di sinistra che l´ha preparata, dando spazio solo a Di Pietro, ambiguo alleato-concorrente.
L´unico rimedio è uno strappo di innovazione che faccia piazza pulita di vecchi apparati e di metodi ancora più vecchi, renda il partito trasparente, contendibile e aperto a forze davvero nuove nella società, col rischio necessario del ricambio. Per fare questo, serve una classe dirigente coraggiosa e consapevole del pericolo mortale che corre, perché indulgenze e ritardi oggi ? quando il Paese in crisi avrebbe bisogno di un pensiero e di una politica davvero alternativi alla destra ? sono peggio che errori: sono colpe.

Corriere della Sera 17.12.08
Pechino festeggia i 30 anni delle riforme di Deng e vuol riconoscere «un ruolo più ampio» alle formazioni politiche
Le cifre Il partito comunista ha oltre 73 milioni di membri, nelle altre organizzazioni gli iscritti sono da 20 mila a 181 mila
Cina, la riscoperta dei partiti
Quelli legali sono 8. Riconoscono il ruolo guida del Pcc Libro bianco del governo per il «rilancio del pluralismo»
di Marco Del Corona


PECHINO — Li chiamano «vasi da fiori». Decorano l'arredo monocromatico della Repubblica Popolare: è un modo per dire che accanto al Partito comunista ci sono anche loro, gli otto piccoli partiti democratici legali. Tutti insieme sembrano mostrare che quello di Pechino, formalmente, non è un regime a partito unico, anche se si tratta di gruppi che riconoscono – come da Costituzione – il ruolo guida del Pcc.
A trent'anni dall'avvio delle riforme economiche di Deng Xiaoping, ora la Cina ha deciso di dare una spolverata ai suoi vasi, consapevole che potrebbero tornare utili, almeno in termini di immagine. E con un impulso insieme propagandistico e politico sta spingendo perché il ruolo dei partiti democratici venga allargato e soprattutto conosciuto e riconosciuto.
I loro nomi rimandano a un'altra era: Comitato rivoluzionario del Kuomintang, Associazione per la promozione della democrazia, Società Jiu San, Partito dei contadini e degli operai… Restituiscono — come congelate nel tempo — la Cina degli anni Trenta e Quaranta, la rivalità mortale che divideva i comunisti di Mao Zedong e i nazionalisti di Chang Kai-shek, l'epoca della resistenza contro gli invasori giapponesi, la guerra civile. I partitini erano «terze forze» intermedie alle due più grandi, sono stati fondati allora e — questo spiega la loro sopravvivenza nel sistema cinese — tutti finirono col sostenere il Pcc, affiancandolo in un fronte unito sino alla fondazione della Repubblica Popolare e oltre.
Nella primavera dell'anno scorso, per la prima volta dal 1972 è stato affidato un ministero (Scienza e Tecnologia) a un esponente di una formazione democratica, Wan Gang del Partito Zhi Gong. In novembre, il governo cinese ha pubblicato il primo «libro bianco » sul ruolo dei partitini, per mettere ordine in una serie di aggiustamenti legislativi. Ora che Pechino festeggia l'«apertura» di Deng (18 dicembre 1978), vi abbina il rilancio del pluralismo «con caratteristiche cinesi».
«Dall'ultimo congresso del Pcc, se si leggono bene le dichiarazioni finali, è emerso che all'evoluzione della democrazia cinese dovrebbero corrispondere una crescita economica e sociale e un incremento della partecipazione popolare alla politica. Per questo va riconosciuto ai partiti democratici un ruolo più ampio»: Li Xiaoning dirige il centro studi sul «fronte unito» all'Accademia centrale del socialismo e sottolinea che la consultazione tra il Partito comunista e le forze minori funziona, anzi «è uno dei quattro cardini del nostro sistema politico». Ha partecipato alla stesura del libro bianco, «sei mesi di lavoro», e Li al Corriere spiega che «è una peculiarità tutta cinese che i partiti politici collaborino ordinatamente al bene comune sotto la guida del Pcc anziché farsi concorrenza, come in Occidente».
Sono forze minime rispetto al Partito comunista e ai suoi 73 milioni di membri. La maggiore, la Lega democratica cinese, conta 181 mila iscritti; la più piccola, la Lega autonoma democratica di Taiwan, supera di poco i 20 mila. Il luogo deputato a far sentire la loro voce è l'Assemblea consultiva, l'organo che costituì il primo parlamento della Repubblica Popolare, mentre oggi è stato quasi del tutto svuotato di poteri reali dall'Assemblea nazionale. Inoltre, i leader comunisti convocano i «compagni democratici» (e i senza partito) per ordinare indagini su temi scientifici o economici, per sondare gli umori delle élite intellettuali: Cheng Siwei dell'Associazione per la costruzione democratica, ad esempio, ricorda le sue proposte fiscali. Questo perché gli otto partiti pescano da categorie specifiche della società, ingegneri, medici, famiglie di cinesi d'oltremare o di Taiwan, seguendo un'idea di rappresentanza che non appare troppo distante dalle corporazioni durante il fascismo.
«Chi vuole i propri interessi rappresentati da un partito che non sia il Pcc — aggiunge Li — può rivolgersi a uno fra gli 8 che sente più affine». L'orientamento è di riservare ai non comunisti i ministeri tecnici. Così, a Chen Zhu — non iscritto ad alcun partito — è stata affidata la Sanità. Wan Gang, ministro della Scienza in quota al Partito Zhi Gong, ha definito la propria nomina «un nuovo atto nel processo di costruzione della democrazia».
Tuttavia, gli osservatori esterni non condividono tanto ottimismo. Andrew J. Nathan, cattedra alla Columbia University e studi importanti sulla Tienanmen, nutre uno scetticismo radicale: «Questi gruppi — dice al Corriere
— sono sempre serviti come strumenti di una politica da "fronte unito", ma non hanno un vero peso. L'unico partito che comanda non ha interesse a dividere il potere. Per come la vedo io, il corso delle riforme politiche in Cina non prevede alcuna forma di pluralismo. I loro dirigenti sono accademici importanti e su materie tecniche hanno fatto un buon lavoro, ma non producono nuove idee in campo politico».
Eppure, per Zhou Shuzhen, del Centro studi sulla Politica contemporanea dell'Università del Popolo, «è importante far vedere che i partiti contano, la globalizzazione ne ha rilanciato il ruolo ovunque. Qui la lealtà rispetto al Pcc è data dalla storia comune, dalla lotta anti- giapponese. Non appartengono alle grandi famiglie dei partiti come si intendono in Occidente, socialisti, liberali, conservatori, religiosi. Magari gli 8 non sono tutti convinti dell'ineluttabilità del comunismo, ma sul socialismo concordano… ». I partitini funzionano come blanda camera di compensazione, non è un caso che il regime decise un primo rilancio a fine '89, l'anno della Tienanmen e della caduta del Muro. Da allora i loro esponenti hanno ricevuto incarichi da viceministro in giù, sia a livello centrale che provinciale.
Non ci si possono aspettare critiche al Pcc, dunque, nonostante la retorica sulla «mutua sorveglianza », né i partitini hanno potere di attrazione nei confronti dei veri dissidenti. Chi è fuori dal sistema resta fuori. Qualcuno che, invece, osserva con attenzione la formula cinese di «democrazia consultativa» c'è, ed è la Russia autocratica del putiniano Dimitri Medvedev. Sia Li Xiaoning sia Zhou Shuzhen sono reduci da viaggi a Mosca. Russia Unita, la formazione di Putin, potrebbe essere interessata – sostengono in conversazioni distinte i due studiosi – a uno sviluppo del quadro politico e istituzionale modellato su quanto ha elaborato la Cina. Una capriola della storia, visto che fu Stalin negli anni Trenta a concepire la strategia del «fronte unito», alleanze «popolari» a guida comunista. Tutto ritorna. E se i vasi restano vasi, almeno i fiori si possono cambiare.

Corriere della Sera 17.12.08
Il leader del Rcck Zhou Tienong
«Il modello? Partecipare al potere»
di M.D.C.


PECHINO – Zhou Tienong è leader del Comitato rivoluzionario del Kuomintang (Rcck), un partito che si è staccato da sinistra dal Kuomintang di Chiang Kai-shek. Zhou è l'unico dirigente fra quelli degli otto partiti non comunisti ad aver accettato di rispondere alle domande del
Corriere, anche se in forma scritta, dopo una lunghissima gestazione e con una formulazione estremamente prudente.
Qual è la motivazione che, nella Cina di oggi, spinge qualcuno ad aderire al Comitato rivoluzionario del Kuomintang?
«Significa prendere atto del sistema dei partiti politici proprio della Cina e poi condividere il programma e gli obiettivi dell'Rcck. Noi siamo impegnati a fare della Cina un Paese socialista moderno, prospero, forte, democratico, civile e armonioso, sotto la guida del Partito comunista. Nel seguire le direttive dello Stato e le politiche del governo, l'Rcck oltre a tutelare i diritti e gli interessi dei suoi membri, eredita, sviluppa e rilancia spirito e pensiero di Sun Yat-sen (fondatore nel 1912 della prima Repubblica cinese, ndr)».
In quale modo incidete sui processi decisionali?
«Partecipiamo alle discussioni del Comitato centrale del Pcc, del governo, all'assemblea consultiva, sottoponiamo temi al Pcc, ascoltiamo la società civile. I commenti e i suggerimenti vengono sempre ascoltati dal Partito-guida».
Quali sono i margini di evoluzione del vostro partito?
«Per svolgere bene la sua funzione, un partito si deve ben sviluppare. Nei prossimi 5 anni perfezioneremo l'organizzazione, miglioreremo il livello di quadri e membri, incorporeremo i professionisti necessari agli affari di Stato, e presteremo attenzione alla costruzione teorica di un partito che partecipa al potere. Faremo sì che il mondo comprenda il sistema partitico cinese e la logica dei partiti "partecipativi"».
Zhou Tienong

Corriere della Sera 17.12.08
Fini: «Leggi razziali, un'infamia Anche la Chiesa si adeguò»
Critiche da Avvenire e Civiltà cattolica: sconcertante. Veltroni: verità storica
Il discorso del presidente della Camera durante una cerimonia per i 70 anni dall'emanazione delle norme razziste
di M.Antonietta Calabrò


ROMA — «L'ideologia fascista non spiega da sola l'infamia delle leggi razziali». Il presidente della Camera Gianfranco Fini ha definito le leggi razziali «un'infamia storica. C'è da chiedersi perché la società italiana si sia adeguata nel suo insieme alla legislazione antiebraica e perché, salvo talune luminose eccezioni, non siano state registrate manifestazioni particolari di resistenza. Nemmeno, mi duole dirlo, da parte della Chiesa cattolica ». Un concetto che ha subito suscitato forti polemiche, specie sul ruolo della Chiesa, ma confermato poi da Fini.
Critiche forti da esponenti politici cattolici di entrambi gli schieramenti. E forti reazioni dei media cattolici (da
Civiltà cattolica all'Avvenire). «Riscriverei pari pari questo concetto», ha ribadito Fini in serata. D'accordo con lui il leader del Pd Walter Veltroni: «Sono una verità storica, una verità palmare». La posizione di Fini, che è la terza carica dello Stato, ha creato «stupore e turbamento» negli ambienti vaticani. Il presidente della Camera sottolinea «il carattere autoritario del regime» ma parla anche degli «angoli bui dell'anima italiana» in «un Paese profondamente cattolico». Fini ha parlato in una occasione ufficiale, la cerimonia di scopertura di una lapide alla Camera in ricordo dei 70 anni dall'emanazione delle leggi razziali. Leggeva un testo scritto, davanti a molti esponenti della comunità ebraica, dal presidente dell'Unione delle Comunità ebraiche, Renzo Gattegna («ha detto una verità storica »), al direttore del Centro di documentazione ebraica di Milano, Michele Sarfatti, al presidente della Comunità romana, Riccardo Pacifici, a Nedo Fiano, sopravvissuto ad Auschwitz (che ha reso una toccante testimonianza). I parlamentari cattolici del Pd e del Pdl (Lupi, Farinone, Binetti, Farina, Carra) hanno in sostanza accusato Fini di alimentare la «leggenda nera» della Chiesa alleata di fascismo e nazismo. L'udc Volontè ha chiesto spiegazioni in aula. Ma Fini ha ribattuto di non essere tenuto a illustrare il suo pensiero all'Assemblea.
Dalla Santa Sede nessuna presa di posizione ufficiale: il portavoce della Sala Stampa, padre Lombardi, ha declinato qualsiasi commento, e anche il cardinale Bertone. La reazione vaticana è stata affidata a padre Giovanni Sale, storico della Civiltà Cattolica che ha definito «sconcertanti» le parole di Fini, che «non conosce una pagina di storia nazionale ». E ha messo in evidenza che con le accuse alla Chiesa, restano in ombra le primarie responsabilità del regime fascista. Forse le sue dichiarazioni sono frutto di una «svista, di un cercare un correo a delle responsabilità che il presidente Fini vuole in parte coprire che fanno parte della sua storia, anche se non di quella recente».
Gianni Letta, sottosegretario alla Presidenza, secondo il resoconto dell'agenzia parlamentare
Il Velino (vicina al Pdl) ha ricevuto una telefonata in cui gli sono state espresse le preoccupazioni di Oltretevere. In ogni caso, un paio di ore dopo a margine di un altro convegno, Fini ha avuto un colloquio a Montecitorio con lo stesso Letta (che in serata ha aperto una mostra al Vittoriano sulle leggi razziali «come atto di scusa nei confronti degli ebrei»). Nel pomeriggio era intervenuto il presidente del Senato Renato Schifani sottolineando «la concretezza di un'azione quotidiana costante, determinata e talora silenziosa» resa da tanti a favore degli ebrei. «Fini scivola su leggi razziali e Chiesa» ha titolato il sito web di Avvenire.
La Radio vaticana a dimostrazione che «non è vero che la Chiesa italiana non si oppose » ha ricordato, con l'intervista a due storici, Riccardi e Malgeri, che Pio XI nel settembre 1938 pronunciò in Vaticano un memorabile discorso: «L'antisemitismo è inammissibile. Spiritualmente siamo tutti semiti».

Corriere della Sera 17.12.08
Come reagimmo Nel '38 e negli anni seguenti un fragoroso silenzio
Intellettuali, senatori e antifascisti illustri: tacquero (quasi) tutti
di Pierluigi Battista


Gli scrittori. Non protestarono quegli autori che firmarono libri e antologie scolastiche al posto dei loro colleghi epurati

La «non reazione» della Chiesa, certo. Ma nel '38 e negli anni successivi non reagì, non parlò, non si oppose nessuno. Il silenzio imbarazzato o accondiscendente nei confronti delle leggi razziali promulgate dal fascismo coinvolse cattolici e laici, conservatori e progressisti. Le eccezioni furono rarissime. Gli ebrei vennero lasciati soli, come il padre di Giorgio nel Giardino dei Finzi-Contini di Giorgio Bassani, iscritto al Fascio di Ferrara, volontario nella Prima guerra mondiale.Nel '38 il personaggio di Bassani vide improvvisamente la sua famiglia messa ai margini della società, dal partito, dalle biblioteche, dal circolo del tennis, senza che nessuno, ma proprio nessuno spendesse una parola contro la discriminazione. Vittorio Foa, che mai recriminò contro i coetanei che facevano carriera mentre lui languiva nelle prigioni fasciste, verso la fine della sua vita ruppe il suo riserbo («non so bene perché diavolo lo faccio ») e scrisse: «Non uno di quegli illustri antifascisti aveva detto una sola parola contro la cacciata degli ebrei dalle scuole, dalle università, dal lavoro, contro quella che è stata un'immonda violenza».
Dieci anni fa Giulio Andreotti si chiese perché non si fossero avviate indagini critiche «sul comportamento di senatori come Croce, De Nicola, Albertini, Frassati, che disertarono la seduta del 20 dicembre 1938 facendo passare senza opposizione la legislazione antisemita ». Vero. Ma non risultano commenti altrettanto indignati di Andreotti sulle accuse che padre Agostino Gemelli, Presidente della Pontificia Accademia delle Scienze, mosse nel '39 all'indirizzo degli ebrei, «popolo deicida» che «va ramingo per il mondo » a scontare le conseguenze di quell'«orribile delitto ». E a proposito di Croce fa molta impressione leggere, nel libro
L'espulsione degli ebrei dalle accademie italiane di Annalisa Capristo, l'elenco degli intellettuali che risposero con zelo ed entusiasmo al censimento per identificare «i membri di razza ebraica delle Accademie, degli Istituti e delle Associazioni di scienze, lettere ed arti che cesseranno di far parte di dette istituzioni». Bastava una compilazione burocratica e svogliata dei moduli, per chi non avesse avuto il coraggio di sottrarsi a quel compito infame. E invece i Giorgio Morandi e i Gianfranco Contini, i Roberto Longhi e i Natalino Sapegno, i Nicola Abbagnano e gli Antonio Banfi, gli Alessandro Passerin d'Entrèves e i Giuseppe Siri (e centinaia con loro, illustri come loro) vollero sfoggiare «l'aggiunta di esplicite dichiarazioni antisemite sotto forma di precisazioni ai vari quesiti tenuti nella scheda». Da Luigi Einaudi, che sottolineò orgoglioso «l'appartenenza alla religione cattolica ab immemorabile», a Ugo Ojetti, che fu puntuale fino alla pignoleria: «Cattolico romano, dai dieci ai sedici anni ho servito tutte le domeniche».
Solitaria eccezione, appunto, quella di Benedetto Croce, che rispedì al mittente i moduli della vergogna con impareggiabile sarcasmo: «L'unico effetto della richiesta dichiarazione sarebbe di farmi arrossire, costringendo me, che ho per cognome CROCE, all'atto odioso e ridicolo insieme di protestare che non sono ebreo, proprio quando questa gente è perseguitata».
Era già una «persecuzione »: ci voleva poco a capirlo, malgrado i risibili rosari autoassolutori del «non sapemmo » e del «non capimmo».
Mentre Alberto Moravia implorava le autorità fasciste perché gli venisse data la possibilità di continuare a scrivere sulle riviste («sono cattolico fin dalla nascita, mio padre è israelita, ma mia madre è di sangue puro »), Guido Piovene recensiva rapito Contra Judeos di Telesio Interlandi. Il giovane cattolico Gabriele De Rosa (in un «libercolo » che lo storico decenni dopo avrebbe definito «goffo e scriteriato ») inveiva contro «il focolare ebraico» in Palestina, alimentato dal popolo responsabile della crocifissione di Gesù Cristo. Il giovane Giorgio Bocca discettava sui pericoli del piano ebraico di conquista del mondo rivelata dai (falsi) Protocolli dei savi Anziani di Sion. Giulio Carlo Argan, colto collaboratore del regime per la difesa dei beni culturali e artistici, in una corrispondenza del 1939 dagli Stati Uniti dissertava sull'influenza del «potentissimo elemento ebraico» in America. Una fornitissima appendice documentaria apparsa nella seconda edizione del «lungo viaggio» di Ruggero Zangrandi «attraverso il fascismo» descrisse nel 1962 l'ampiezza del consenso servile degli intellettuali alla politica antisemita del regime, ricostruito per la prima volta in quegli stessi anni da Renzo De Felice nella Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo.
Rosetta Loy, nel suo libro
La parola ebreo, ha definito la «Difesa della Razza» una «rivista dalla grafica aggressiva e anticonvenzionale che aveva tra i suoi finanziatori la Banca Commerciale ». Sandro Gerbi ha confermato che sul quindicinale fossero comparsi «talvolta avvisi pubblicitari della Comit, del credito Italiano, della Ras, dell'Ina e via dicendo», precisando però che quelle inserzioni erano il frutto di «chiare direttive "superiori" del Minculpop e non di scelte autonome e di dirigenti delle singole aziende». Non furono scelte «autonome». Ma furono o no, anch'esse, l'esito di una tacita «non reazione»?
«Non reagirono» gli scrittori che, come è documentato dall'Elenco di Giorgio Fabre, non si rifiutarono di firmare i manuali e le antologie scolastiche al posto degli autori ebrei il cui nome era ostracizzato e dannato. Non reagirono i docenti universitari che ereditarono le cattedre lasciate vacanti dai colleghi estromessi a causa della legislazione antisemita. Roberto Finzi ha rivelato che per Ernesto Rossi, in carcere, la cacciata dei docenti ebrei avrebbe rappresentato «una manna per tutti i candidati che si affolleranno ora ai concorsi». Rossi non si sbagliava: l'«affollamento » fu macroscopico, corale, macchiato solo da qualche residuale caso di coscienza. Un capitolo controverso di viltà collettiva che faticherà a chiudersi anche nell'Italia democratica. Alberto Cavaglion ha ricordato che la cattedra di letteratura italiana sottratta ad Attilio Momigliano sotto l'effetto delle leggi razziali «dopo la fine della guerra sarà sdoppiata perché fosse restituita a chi era stato illegittimamente cacciato, ma anche per non scomodare chi al suo posto era tranquillamente subentrato». Chi, in altre parole, non aveva «reagito» nel '38 e negli anni successivi non perderà la cattedra. E del resto le leggi razziali saranno completamente e radicalmente soppresse solo nel 1947, con una lentezza che forse tradì il turbamento per non aver saputo contrastare, coralmente e individualmente, l'abiezione della legislazione antiebraica. La vergogna per non aver «reagito»: con poche, ammirevoli, sporadiche eccezioni.

l’Unità 17.12.08
Luzzatto: se vuole provare il contrario il Vaticano
tiri fuori le carte
di Umberto De Giovannangeli


«Invece di gridare alla bugia, la Santa Sede farebbe bene a mostrare documenti che contestino le affermazioni di Fini. Ma temo che non lo farà». Così Amos Luzzatto, ex presidente delle comunità ebraiche italiane.
«Invece di contestare le affermazioni, del tutto condivisibili, della terza carica dello Stato, il Vaticano farebbe meglio a rendere pubblici dei documenti che dimostrino il contrario. Ma se non l’hanno fatto fino ad oggi, dubito che lo faranno in futuro». A sostenerlo è una delle figure più autorevoli dell’ebraismo italiano: Amos Luzzatto, già presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane.
Professor Luzzatto, come valuta le affermazioni del presidente della Camera, Gianfranco Fini, sull’adeguamento della Chiesa alle Leggi razziali?
«Nel merito condivido il giudizio formulato dal presidente della Camera. Quello dei silenzi e delle ambiguità della Chiesa sulle Leggi razziali, è un problema che personalmente ho sollevato più volte, ricordando in particolare che già all’uscita dei provvedimenti razziali emanati dal regime fascista, l’unica sostanziale espressione di condanna del Vaticano è stata rilevare che quei provvedimenti antisemiti erano un vulnus al Concordato, perché contrastavano la validità dei matrimoni religiosi fra ariani e non ariani. Altre proteste ufficiali, tranne la frase di Pio XI “siamo tutti spiritualmente semiti” non ne conosciamo. E questa è la premessa per il più duro e tragico silenzio durante lo sterminio. Mi lasci aggiungere che ritengo molto importante che questo severo e fondato, giudizio sull’atteggiamento reticente della Chiesa verso le Leggi razziali, sia stato formulato dalla terza carica dello Stato».
Resta la contrarietà della Santa Sede.
«Mi ascolti bene: il giorno che il Vaticano potesse o volesse produrre documenti che dimostrino il contrario da quanto ricordato da Fini, quel giorno sarei l’uomo più felice sulla terra. Ma se finora quei documenti non li hanno prodotti, temo proprio che non ce ne siano».
Insisto. Radio vaticana ha contestato come «non vere» le considerazioni del presidente della Camera.
«Lo ribadisco: invece di gridare alle bugie, che tirino fuori documenti contrari. Non basta indignarsi. Si è detto che Pio XI aveva fatto preparare una enciclica sull’unità del genere umano. Sta di fatto che quella enciclica non è mai stata pubblicata. E a proposito di silenzi, vorrei dire un’ultima cosa...».
Quale, professor Luzzatto?
«In una occasione così solenne come quella di oggi (ieri, ndr) mi sarei atteso che a parlare fosse qualche personalità di primo piano della Santa Sede. Così non è stato, e di ciò me ne rammarico. Perché dimostra che quel vulnus non è venuto meno, 70 anni dopo».

Corriere della Sera 17.12.08
Una grande mostra dedicata al padre del neoclassicismo italiano si aprirà a Forlì il 25 gennaio
Il ritorno di Canova: duecento capolavori e due scoperte


Una delle contestazioni mosse alla «mostramania» che dilaga nel nostro sistema museale è la mancanza di una ragione scientifica che giustifichi una rassegna. E che non sia, ovviamente, la legge degli incassi. Non sarà, per fortuna, questo il caso della grande mostra «Canova - L'ideale classico tra scultura e pittura» che si aprirà nei Musei di San Domenico a Forlì il 25 gennaio 2009 per chiudere il 21 giugno. Per il semplice fatto che i curatori (Fernando Mazzocca e Sergéj Androsov ma il comitato scientifico è presieduto da Antonio Paolucci, attuale direttore dei Musei Vaticani dov'è stato presentato ieri l'appuntamento) proporranno tanto agli studiosi quanto al pubblico due inediti di Antonio Canova.
Un piccolo olio su tela, una «Mezza figura di fanciullo in atto di guardare un uccello », in realtà un ritratto del giovane principe polacco Henryk Lubomirski come San Giovannino: una «stesura veloce» come scrive Fernando Mazzocca, al punto che si intravvede ancora la trama della tela «come spesso nei dipinti canoviani». E una seconda versione del famoso ritratto di Domenico Cimarosa, qui in forma di erma.
Forlì e l'intera area romagnola furono luoghi fondamentali non solo per Canova ma per tutto il momento neoclassico. Puntare su questo sfondo geografico e culturale per ora non inserito nei grandi circuiti turistici è la interessante scommessa della mostra, organizzata in collaborazione con i Musei Vaticani, le Soprintendenze di Firenze, Roma e di Bologna, Ferrara, Forlì-Cesena, Ravenna e Rimini, i musei Civici veneziani e il museo Correr, ovviamente la straordinaria Gipsoteca canoviana di Possagno. Ci sarà tutto Canova: sculture, disegni, pitture. Duecento capolavori ricostruiranno il suo itinerario creativo.
Soddisfatto Antonio Paolucci: «Come Raffaello, Antonio Canova regalò al mondo la consolazione della Bellezza».

Repubblica 17.12.08
"L´Italia chieda scusa per le bombe sulla Spagna"
Madrid sui raid aerei fascisti del 1938
di Alessandro Oppes


MADRID - Il governo Zapatero chiederà all´Italia di scusarsi per un bombardamento compiuto dall´aviazione di Mussolini nel 1938, durante la Guerra Civile spagnola, nel quale morirono 64 persone. Lo ha annunciato in Parlamento il ministro degli Esteri Miguel Angel Moratinos, in risposta a una domanda del senatore del Partito nazionalista basco Iñaki Anasagasti, che ricordava come già in passato l´ambasciatore tedesco a Madrid sia andato a Guernica a «chiedere perdono» per ciò che aveva fatto negli stessi anni la Legión Condor, supportata peraltro dagli italiani.
Moratinos ha assicurato che si metterà in contatto con l´ambasciatore d´Italia Pasquale Terracciano perché si possa arrivare a organizzare «un atto pubblico di scuse» per il bombardamento di Alcoy, città della provincia di Alicante, nella regione di Valencia. Il 20 settembre 1938, dieci bombardieri «Savoia Marchetti SM-79» partiti dallo scalo di Son Sant Joan, a Maiorca, scaricarono sulla cittadina 8800 chili di esplosivo provocando una strage. Il ritorno di quella tragedia è ritornato di attualità negli ultimi mesi perché quest´anno ricorrono i settant´anni da quel bombardamento, riaprendo così vecchie ferite.
Proprio ad Alcoy, una mostra ha presentato di recente immagini molto crude di quei fatti: si tratta delle foto scattate da bordo degli aerei dai piloti prima, durante e dopo i bombardamenti. Immagini che sono state messe a disposizione dal Ministero della Difesa italiano.
Già nel giugno scorso il senatore Anasagasti - in passato per lunghi anni capogruppo dei nazionalisti baschi alle Cortes - aveva chiesto al governo di pretendere le scuse dell´Italia per quei fatti. Gli aveva risposto il ministro della Cultura César Antonio Molina sostenendo che l´esecutivo avrebbe «esaminato il caso». Sei mesi dopo, arriva il sì di Moratinos all´iniziativa, sulla cui realizzazione dovrà pronunciarsi il governo italiano. Il senatore basco ha anche ricordato al ministro degli Esteri il «malessere provocato a Saragozza» il 2 novembre scorso dalla presenza dell´ambasciatore Terracciano a una messa celebrata per i caduti italiani nella Guerra Civile e che, nelle parole di Anasagasti, è degenerata in una «manifestazione di nostalgici» del fascismo. Moratinos ha ricordato la precisazione pubblica fatta dalla rappresentanza diplomatica italiana, secondo cui l´atto al quale partecipò l´ambasciatore era dedicato «a tutti i caduti italiani, tanto quelli che appoggiarono Franco come i brigatisti internazionali» e che è consistito in una commemorazione di tutti i defunti, in cui Terracciano ha deposto una corona di fiori «per tutti i caduti».

Repubblica 17.12.08
Provocazione dell´Economist: la nostra è l´epoca della cultura E i numeri confermano: più musei, più libri, più arte di massa
L’era dell´intelligenza siamo tutti più colti
Persino questo non è un paese per sciocchi, né un´età così mediocre come sembra
di Alessandra Retico


Altro che cultura spazzatura e starlet, questa è l´epoca dell´intelligenza di massa. La gente guarda e guarderà pure la tv trash, ma poi va al museo, al concerto, usa il web. Non è un´incongruenza, è la ricca eterogeneità della nostra era. Discute del tema More Intelligent Life, sofisticato trimestrale dell´Economist, elencando studi e osservazioni empiriche come: le mostre d´arte fanno il pieno di visitatori, i programmi di musica classica alla radio non hanno mai avuto tanti ascoltatori, i festival letterari si moltiplicano ovunque, i lettori di tabloid sono anche quelli che si accapigliano appassionatamente per guadagnarsi un posto alla Royal Opera House.
Nonostante la tesi dominante di un declino e di una barbarie intellettuale generale e anche nostrana, si allungano le file al botteghino per pagare il biglietto di ingresso a uno dei 1300 festival che ogni anno si organizzano in Italia: della letteratura, della scienza, della mente, dell´economia. Persino questo non è un paese per sciocchi, né un´età così mediocre come a volte sembra. Internet, le nuove tecnologie, i musei meno mausolei, l´articolazione dell´offerta, la fame nuova e curiosa della domanda ci stanno portando verso una nuova articolazione dell´intelligenza: più diffusa e complessa, meno rigida e classista. Gossip e volgarità da intrattenimento televisivo aumentano, ma con il crescere parallelo di altre forme di appetito intellettuale. Persino il reality show oggi ha ambizioni alte, quasi di formazione dell´opinione: il caso dell´Isola dei Famosi 2008, punte di oltre 9 milioni di spettatori per l´ultima puntata che ha incoronato la vincitrice Vladimir Luxuria, dimostrerebbe che il pubblico sono in realtà molti pubblici diversi, che dal divano mandano un sms che non equivale certo a un voto politico, ma a un gusto sì.
L´antropologia del consumo culturale è più mista. Piena di contraddizioni ma proprio per questo più variegata e dinamica. Contro la tesi dominante che sms, sitcom, videogiochi e web ci rendono una delle generazioni più stupide della storia umana, è possibile, leggendo i fenomeni più laicamente, che questa sia una vera età dell´oro della conoscenza. Tutti i paesi ricchi sembrano accomunati dalla tendenza a frantumare la distinzione classica tra cultura alta e bassa e i cittadini a preferire un ruolo di consumatori attivi piuttosto che di spettatori mentalmente imbolsiti. A Parigi la gente va più al Louvre che alla Torre Eiffel, a Londra alla Tate Modern, al British Museum e alla National Gallery anziché al circo techno del London Eye (la ruota panoramica sul Tamigi). In Italia anche, come il Censis ha registrato nel Rapporto 2008, «si devono evidenziare nuovi percorsi di fruizione culturale: che si agglutinano intorno a eventi e festival che fanno riferimento a fenomeni e linguaggi del pensiero complesso». Nell´ultimo decennio, aggiunge l´Istat, sono aumentati tutti i consumi culturali, dal teatro, ai concerti, al cinema. E se la tv resta il principale mezzo d´informazione con l´85,6 per cento che la vede almeno tre volte alla settimana, l´informatizzazione è cresciuta vertiginosamente specie tra i giovani (14-29 anni): l´utenza complessiva del web è salita dal 61 per cento all´83. I lettori forti rimangono tali e certo l´istruzione e le possibilità economiche contano: ma non sempre. La fame di cose buone cresce, è sempre più democratica, il menù lo si vuole assortito: si va a Bergamo in 75mila per seguire la scienza e in 100mila a Trento per ascoltare di economia, in 170mila a Mantova per la letteratura. L´intelligenza è anche pop.

il Riformista 17.12.08
Arriva l'Onda. Sarkò per una volta fa retromarcia
di Lu. Seb.


SINDROME GRECA. Le proteste degli studenti spingono l'Eliseo a posticipare la riforma delle scuole superiori. Passo indietro anche sul lavoro domenicale. L'uomo della rupture scopre l'immobilismo. Per evitare il caos in piazza sotto le feste.

Parigi. Dopo mesi di trionfi, il duro ritorno alla realtà. Quella francese, che per Nicolas Sarkozy, impegnato a mietere successi sulla scena internazionale in qualità di presidente di turno dell'Ue, si è rivelata più aspra di quanto sospettasse. Rientrato a Parigi e spaventato dalla «sindrome greca» che sembra ormai aleggiare anche sulla Francia, Sarkozy ha infatti deciso di fare dietrofront sulla riforma della scuola e del lavoro domenicale per evitare che la situazione sociale degeneri e il paese si ritrovi nel caos nel pieno di una recessione che già di per sé promette lacrime e sangue. Per la prima volta da quando è entrato all'Eliseo, Sarkò deroga alla "rupture" e si trincera cautelativamente nel suo peggior demone: l'immobilismo. Un colpo di scena inatteso. Ancora tre giorni fa il ministro dell'Educazione nazionale Xavier Darcos aveva rilasciato una lunga intervista per scendere nel dettaglio della sua riforma dell'istruzione secondaria e presentarla ai francesi che da un paio di settimane avevano visto i figli ricominciare ad occupare qualche liceo. Niente di importante, solo i primi inizi di un movimento di protesta che Darcos aveva definito «rituale».
Le agitazioni degli studenti e degli insegnanti contro i tagli d'organico erano già cominciate in maggio, ma allora il presidente aveva chiosato che «ormai quando c'è uno sciopero non se ne accorge più nessuno». Un po' spocchioso Sarkò allora era sulla cresta dell'onda e il suo ministro dell'Educazione ricevette l'incarico di portare a termine la riforma con determinazione e sfoggio di volontarismo.
Darcos, peso massimo del sarkozismo nel governo Fillon, non se lo fece dire due volte e alla ripresa della scuola dichiarò che «la moratoria non fa parte del suo vocabolario». Avanti col taglio di altri 13mila posti e la riforma della didattica. E qualche giorno fa, dopo le prime proteste dei sindacati e le prime occupazioni, ancora una manifestazione d'intransigenza quando ha affermato di non essere «il ministro dell'esitazione nazionale». Sempre in quell'occasione Darcos analizzava le prime scintille del movimento definendolo «senza parola d'ordine» e agitato da perturbatori che non «si sa da dove vengano e cosa vogliano».
Ecco, deve esser stata proprio questa analisi a spingere Sarkozy all'altolà, per non trovarsi di fronte ad un movimento disorganizzato che possa degenerare come in Grecia. Nessuno si fa illusioni in Francia, neanche Sarkò. Le banlieues sono sempre sul punto dell'esplosione, e basterebbe una vicenda meno tragica di quella greca per farle saltare di nuovo. Se la rivolta delle periferie si dovesse saldare con un movimento studentesco scomposto e una crisi sociale accelerata dai licenziamenti previsti durante la recessione, la situazione diventerebbe ingestibile. Di qui il dietrofront cautelativo, e il rinvio della riforma, come dice Darcos, all'anno prossimo. Fatto sta che rinvio o meno, Sarkozy ha agito come non avrebbe mai voluto. Cioè come Jacques Chirac, che ritirò ben tre riforme della scuola. La differenza è che l'ex presidente le sospese dopo movimenti di massa. Come nel 2006 in occasione del Cpe.
Per salvare le apparenze della "rupture", Sarkò si è invece mosso diversamente sul lavoro domenicale. Per evitare che anche il suo partito si spaccasse su una misura piuttosto osteggiata dal paese, lunedì ne ha svuotato la sostanza e ha deciso di portare da 5 a 10 le aperture eccezionali già concesse ai grandi magazzini. Niente di più per il momento. Meglio l'attendismo che uno scenario greco.

martedì 16 dicembre 2008

Corriere della Sera 16.12.08
Joumana Haddad. Una poetessa libanese lancia il periodico «Corpo»
La rivista araba che parla di sesso
di Viviana Mazza


Il caso Attesa e insulti per un nuovo trimestrale edito in Libano
«Corpo»: la rivista araba che spezza gli ultimi tabù
Feticismo e sesso orale tra i temi del primo numero
Ideatrice e direttrice Joumana Haddad, 38 anni, poetessa e giornalista libanese cattolica

C'è grande attesa per il primo numero di Jasad, «Corpo»: sulla copertina della rivista trimestrale libanese vietata ai minori (a sinistra) spicca un corpo di donna avvolto in un drappo rosso. La «J» disegnata come una manetta aperta «si riferisce alla necessità di spezzare i tabù», spiega la direttrice, la poetessa Joumana Haddad, 38 anni (qui sopra). Sesso orale e omosessualità fra i temi degli articoli del primo numero.

«Era una giornata di primavera che improvvisamente divenne molto più calda. Lei indossava dei collant di nylon con scarpe basse leggere e, all'aumentare della temperatura, mi annunciò che non li sopportava più. Ci allontanammo dagli sguardi curiosi, rapidamente si tolse i collant e ricordo ancora il momento esatto in cui i suoi piedi furono denudati, liberi dal loro involucro nero trasparente...». Così Ibrahim Farghali, scrittore egiziano, si confessa feticista del piede in un articolo che apparirà questa settimana sul primo numero di una rivista in lingua araba edita in Libano.
Sulla copertina nera spicca un corpo di donna avvolto in un drappo rosso. In alto, la scritta Jasad, corpo. La «J» è disegnata come una manetta aperta. Non è un invito al sado-maso, ma «si riferisce alla necessità di spezzare i tabù», spiega l'ideatrice e direttrice, Joumana Haddad, 38 anni, poetessa e giornalista libanese cattolica. Nonostante la copertina ricca di metafore, Jasad è un tentativo di chiamare le «cose del corpo» col loro nome, in arabo. Oggi nella lingua araba, non appena si parla di corpi, «si annega in un mare di metafore », spiega Haddad, che parla 7 lingue, tra cui la nostra, ed è in Italia per curare il suo primo libro di poesie in italiano, Adrenalina (Edizioni del Leone; uscirà in primavera). «Per il pene usano la parola colonna. Clitoride non si può dire. Per l'organo femminile ci sono più di 100 parole, tutte di letteratura, di grande bellezza. Ma non siamo abituati a pronunciarle, solo nella nostra testa o a voce bassa. Un'amica mi ha detto: preferisco leggerti in inglese, quando ti leggo in arabo ho paura del peso delle parole».
Sesso orale, omosessualità, cannibalismo sono tra i temi trattati nei 50 articoli del primo numero, firmati da scrittori arabi, la maggior parte musulmani.
Jasad è un trimestrale, vietato ai minori. L'attesa è grande. «O Signore, fa che sia in vendita in Giordania», scrive un lettore sul sito di Al Arabiya. Sarà venduto in edicola e libreria a Beirut, inviato per corriere in Medio Oriente e Maghreb. Gli abbonati sono centinaia. Ma ci sono anche giudizi negativi (e insulti per Haddad). Alla fiera del libro di Beirut, membri del partito sciita Hezbollah hanno tentato di chiudere lo stand di Jasad. L'Arabia Saudita ha bloccato il sito web della rivista. «Ma è il paese con il più alto numero di abbonati ».
Haddad va avanti. « Jasad è una rivista di cultura in cui si tratta del corpo, non solo nella dimensione erotica, ma anche in quella sociale, etica e linguistica », spiega. A quella erotica è dato molto spazio anche perché «è stata rubata agli arabi». A chi la accusa di copiare gli occidentali, consiglia di leggere Il giardino profumato di Nafzawi e i testi non censurati de Le mille e una notte. «E ho trovato dei testi in arabo del secolo X e IX che farebbero arrossire lo scrittore occidentale più osceno. La scrittura araba parlava del corpo con una bellezza e una facilità che si è persa». Perché? «Una ragione è il potere gradualmente più grande della religione sulla nostra vita». Non si riferisce solo all'Islam. «Sono cresciuta in una famiglia molto tradizionalista, con un padre che se avesse immaginato quello che avrei fatto si sarebbe buttato dal terzo piano». Ma oggi papà è al suo fianco.

Corriere della Sera 16.12.08
Perplessità L'attivista sudanese
«Rischia di restare un esercizio di salotto delle libanesi bene»
di Cecilia Zecchinelli


IL CAIRO — «È importantissimo rompere il muro di silenzio che circonda il sesso nel mondo musulmano, i tabù sociali, l'ipocrisia e l'ignoranza. Ma questo è un campo minato, ogni messaggio sbagliato si riflette negativamente sulle donne. Staremo a vedere». Nahid Gabrella, nota e combattiva attivista per i diritti umani sudanese, fondatrice e capo dell'Ong Seena per la difesa delle donne e dei bambini, consulente del governo di Khartum sulla questione delle mutilazioni genitali femminili, ammette di non aver ancora letto Jasad, la rivista della libanese Joumana Haddad che parla esplicitamente di sesso. «Ma ne ho sentito parlare in tv, su Al Arabiya, e ora sono curiosa di averla tra le mani e capire», ci dice a margine della grande conferenza tenuta al Cairo sulle mutilazioni femminili, copresieduta e voluta da Emma Bonino. «Tanto abbiamo bisogno, noi donne e uomini dei Paesi musulmani, di parlare di sesso in modo non superficiale e ascientifico, tanto è cruciale che la questione sia inquadrata nel giusto contesto».
Ovvero? «Ovvero considerando la donna finalmente come un soggetto con tutti i suoi diritti e doveri, desideri e valori. Superando i nostri media, che vedono la donna sempre come una bomba erotica, da coprire e velare o da esibire per far pubblicità a qualcosa o piacere all'uomo. Ricordando che ben venga la consapevolezza erotica, ma la priorità delle musulmane, anche per restare nel capitolo "sesso", sono soprattutto i matrimoni obbligati che diventano stupri, le violenze sessuali, le mutilazioni».
Temi che forse dalla «Beirut bene» di Joumana sono lontani. Dalle tv alle sue cantanti, il Libano nel mondo islamico è assolutamente atipico per libertà. «Certo, e parlare di sesso è e dev'essere talmente legato al contesto sociale che mi chiedo come una rivista simile possa essere diretta, come ho sentito, a "tutto il mondo arabo islamico". Perfino il Sudan ha al suo interno varie etnie, culture, tradizioni. Il Libano ha il Sud sciita, donne velate accanto a quelle in bikini. Davvero sono curiosa ma anche perplessa: un libro sul sesso, lo capisco, ma una rivista? Per essere interessante non può ignorare ma temo neanche conciliare culture e realtà così complesse». Rischia di restare una cosa da salotto libanese? «Esattamente. Anche se comunque, ripeto, il muro del silenzio va abbattuto. E ancor più va rotta quell'educazione sessuale che in realtà sono tradizioni senza scienza né rispetto dei diritti umani fatta tutta in famiglia, trasmessa da mamma a figlia, da nonna a nipote. Se al mondo ci sono 120 milioni di donne e bambine mutilate è proprio per questo motivo».

Corriere della Sera 16.12.08
Appello Internet In 24 ore 2500 adesioni. Nessun veto dal governo ma sabotaggio via email da parte degli ultranazionalisti
La lettera dei 300: «Armeni, scusateci»
La sfida degli intellettuali turchi: non neghiamo la Grande catastrofe del 1915
Il testo non parla di genocidio né di massacro e per questo ha spiazzato anche i più conservatori
di Antonio Ferrari


Un appello personale, intimo, nel quale si può specchiare la coscienza di ciascuno, è più efficace e penetrante di grida scomposte, sommari giudizi e drastiche condanne.
E' quanto hanno pensato gli oltre trecento intellettuali turchi decidendo di preparare, firmare e diffondere una lettera di scuse per la «Grande catastrofe » del 1915, quando centinaia di migliaia di armeni ottomani furono deportati in una delle più terribili pulizie etniche del secolo scorso. «La mia coscienza — si legge nell'appello — non accetta il diniego della Grande catastrofe. Respingo questa ingiustizia e simpatizzo con i sentimenti e la pena dei miei fratelli armeni. Mi scuso con loro».
Una domanda di perdono che prende forza proprio dall' understatement con cui è stato compilato il testo. Il professore di scienze politiche Baskin Oran, uno degli autori del breve documento, invitando i suoi connazionali a firmarlo, ha commentato: «La nostra preoccupazione è di essere capaci, la mattina, di guardarci allo specchio ». La lettera non è stata consegnata ai giornali, ma per la sua diffusione si è scelta l'autostrada senza barriere di Internet.
La via dell'informazione democratica globale. Sul sito (www.ozurdiliyoruz.com/default. aspx) in meno di ventiquattr'ore sono già arrivate duemilacinquecento adesioni.
L'appello, per il suo carattere personale, ha spiazzato anche i più conservatori, contrari all'iniziativa. Non si parla infatti né del genocidio né del massacro di massa degli armeni, di cui Erevan chiede da tempo il riconoscimento, più che una chiara ammissione di responsabilità. Certo vi è stata da subito la brusca reazione degli ultranazionalisti, legati a quello «Stato profondo» che condiziona la vita della Turchia. Più d'uno ha cercato di sabotare l'iniziativa, inviando email con nomi di estremisti di destra e di defunti ultraconservatori, giusto per confondere le idee.
Il silenzio del governo islamico- moderato di Recep Tayyip Erdogan e dello stesso presidente della repubblica Abdullah Gul pare una tacita conferma dell'interesse (se non proprio della simpatia) per l'appello che sembra coniugarsi con i timidi passi che stanno riavvicinando Turchia e Armenia. Le relazioni diplomatiche tra i due Paesi, dopo decenni di ostilità, erano state interrotte nel 1993, ai tempi della guerra per l'enclave del Nagorny-Karabach. Ma nel settembre scorso una partita di calcio tra le due nazionali, che si giocano la qualificazione per i mondiali del 2010 in Sudafrica, ha compiuto quasi un miracolo. Quando Gul si è presentato allo stadio, in tribuna d'onore, a fianco del suo omologo armeno. Incurante dei fischi e delle proteste, il presidente turco ha aperto la strada, che ora i diplomatici stanno faticosamente asfaltando.
Ecco perché l'appello che chiede il consenso del popolo turco, puntando non sulla denuncia ma sulla semplicità di un gesto umano compiuto per rispondere alla propria coscienza, potrebbe contribuire, con il tempo, a chiudere un capitolo doloroso, che riguarda la storia del Paese e non certo la Turchia di oggi. Non sarà facile, ma onore a chi ci sta provando, mettendoci il proprio volto e il proprio nome.

Corriere della Sera 16.12.08
Un percorso nella cultura del Novecento che per spiegare il moderno ha fatto ricorso agli autori antichi
Omero e Sofocle nostri contemporanei
Dall'«Ulisse» dublinese di Joyce all'«Antigone» di Brecht contro le SS
di Dino Messina


I classici sono tra noi. La loro presenza rivoluzionaria nella cultura e nelle emozioni stesse del Novecento è testimoniata da un'opera per tutte, che continuamente rimanda alla mitologia greca: «L'interpretazione dei sogni» di Sigmund Freud, uscita nel 1899, un anno prima che cominciasse il secolo delle ideologie, il secolo più violento della storia, il secolo della modernità, che per spiegare il nuovo, per prenderne le giuste distanze, ha dovuto aggrapparsi ai classici greci e latini, a volte unica ancora di salvezza di fronte al cambiamento. Ecco qualche spunto di lettura, nella consapevolezza che ciascuno può suggerire un proprio percorso alternativo.
In principio fu Omero. «Solenne e paffuto, Buck Mulligan comparve dall'alto delle scale, portando un bacile di schiuma su cui erano posati in croce uno specchio e un rasoio. Una vestaglia gialla, discinta, gli era sorretta delicatamente dalla mite aria mattutina. Levò alto il bacile e intonò: Introibo ad altare Dei». L'avete riconosciuto? Ma sì, è l'incipit dell'«Ulisse» di James Joyce, dove Stephen Dedalus è Telemaco, Buck Mulligan, suo amico, è Antinoo, Leopold Bloom, il protagonista, è Ulisse, nei panni di un pubblicitario ebreo dublinese che si sente straniero in patria e ha sposato la carnale Molly, una Penelope non tanto fedele. Il capolavoro di Joyce, che si svolge in una sola giornata, dalla mattina a notte inoltrata, raccontando l'ordinario viaggio di un uomo dall'apparenza ordinaria per le strade e i bar di Dublino, è considerato l'omaggio maggiore del Novecento alla grande cultura classica. Non importa che lo scrittore irlandese componga un mosaico di stili, divertendosi a giocare con la prosa da feuilleton o con quella da manualistica, l'intenzione dichiarata è davvero fare i conti con l'epica omerica, che però dev'essere attualizzata e, se necessario banalizzata, per raccontare la vita e la sensibilità dell'uomo moderno. Modernità espressa soprattutto dal «flusso di coscienza».
Chi considerava l'«Ulisse» di James Joyce il punto di non ritorno dall'epica classica si è dovuto ricredere quando nel 1990, oltre settant'anni dopo i gorgoglii di Leopold Bloom, è comparso sulla scena internazionale il poema «Oméros» di Derek Walcott: ottomila versi divisi in sette libri e sessantaquattro capitoli che sono valsi al poeta caraibico (nato a Saint Lucia nel 1930) il massimo riconoscimento letterario, il premio Nobel, nel 1992. I meno informati, soprattutto in Italia, dove per leggere l'opera nella bella traduzione di Andrea Molesini per Adelphi, abbiamo dovuto attendere il 2003, hanno gridato al Carneade: chi è costui? Ma gli specialisti, come Sergio Perosa o Luigi Sampietro, ci avevano subito avvertito che Derek Walcott, uno splendido signore dagli occhi verdi e dalla carnagione di mulatto, negli anni Ottanta formava a Boston, con Joseph Brodskij e Séamous Heaney, il più incredibile trio poetico che si sia visto: all'università di Harvard, dove insegnavano, li chiamavano i magnifici tre. Sarebbero tutti stati insigniti del Nobel.
Se Joyce e Walcott sono l'alfa e l'omega del rapporto che il Novecento ha avuto con Omero, una citazione a parte merita «La guerra di Troia non si farà», dramma composto nel 1935 dal francese Jean Girodoux. «Amiamo persino le lodi che non crediamo sincere. Il privilegio dei grandi è vedere le catastrofi da una terrazza» esclama uno dei protagonisti.
È chiaro che qui non siamo nell'ambito dell'epica ma nel terreno molto più frequentato durante il Novecento: quello della denuncia.
Per quanto riguarda l'Italia, il più omerico dei romanzi del Novecento può essere considerato «Horcynus Orca» di Stefano D'Arrigo, l'epico racconto del ritorno al paese natale Cariddi di 'Ndrja Cambria, marinaio della regia marina scampato alla carneficina della seconda guerra mondiale. Una Odissea cui l'autore lavorò per oltre vent'anni, dopo la pubblicazione di un capitolo nel 1960 sul «Menabò» di Elio Vittorini, e che uscì da Mondadori nel 1975. E come dimenticare, per arrivare ai nostri giorni, la rivisitazione dell' «Iliade» di Alessandro Baricco? Il suo testo pubblicato nel 2004 e composto per il teatro attraverso ventuno monologhi di altrettanti personaggi fa rivivere le voci di pace in un poema di guerra. Tanto che lo stesso Achille ammette: «Niente, per me, vale la vita».
Oltre l'epica. Per rispondere all'angoscia contemporanea il Novecento ha attinto soprattutto al repertorio dei tre grandi drammaturghi, Eschilo, Sofocle, Euripide. A chi ha in mente il volto di Maria Callas nel film «Medea» di Pier Paolo Pasolini, ispirato all'opera di Euripide, ricordiamo che Pasolini ha tradotto l'«Orestea » di Eschilo, l'unica trilogia del teatro classico giunta sino a noi per intero. La versione pasoliniana è stata quella più rappresentata nel teatro italiano del secondo Novecento. Ma il personaggio e il dramma più frequentato dalla grande drammaturgia è forse «Antigone» di Sofocle. L'eroina che si ribella al dittatore Creonte è stata rivisitata da Bertolt Brecht e da Jean Anouilh: entrambi hanno ambientato la tragedia nella seconda guerra mondiale. La scena iniziale in Brecht, che rivede Holderlin, è un'impiccagione nell'aprile 1945 a opera di SS. E lo scorso mese, la nuova versione di Séamous Heaney, «The Burial at Thebes», rappresentata a Londra, è stata ambientata sotto la direzione di Walcott in un Paese latinoamericano retto da un dittatore.
Poeti, dei ed eroi sono tornati. Alla fine gli eroi e lo spirito dei poeti classici rivivono nella modernità. Il secolo scorso si apre con l'invocazione di un grande poeta, Costantino Kavafis, nato ad Alessandria d'Egitto da una famiglia greca, che nei suoi versi ritrova la grazia degli antenati. Kavafis fa dire al suo Ulisse: «Se per Itaca volgi il tuo viaggio / fa voti che ti sia lunga la via, / e colma di vicende e conoscenze». Così l'incanto delle voci antiche rivive in un altro testo che fece scandalo in tempi di neorealismo imperante, «Dialoghi con Leucò», che invece rimane uno dei testi più grandi di Cesare Pavese, in cui tornano a parlare Achille e Patroclo. La tedesca Christa Wolf, cresciuta nella dittatura del socialismo reale, dà invece voce a una moderna «Cassandra», che si interroga sulla sensualità e sul ruolo delle donne, sul potere e la libertà. Un altro personaggio femminile rivive in un romanzo recente, «Il salto di Saffo» (Bompiani) di Erica Jong: la poetessa, prossima alla vecchiaia, vuole evitare l'onta di una vita senza eros, gettandosi da una rupe. E prima di compiere il gesto, ricorda i tanti amori che l'hanno condotta ai confini del mondo conosciuto e del piacere.
Come concludere senza ricordare «Le nozze di Cadmo e Armonia» (Adelphi, 1988) in cui Roberto Calasso racconta, attraverso l'ultimo banchetto tra gli dei e gli uomini, la grande mitologia greca.

Corriere della Sera 16.12.08
Il testo George Orwell si confronta con le opere di Wells, Morris e Swift
Il tema La vanità di qualsiasi modello fondato sulla ricerca della perfezione
Può un socialista essere felice?
Dal Natale di Charles Dickens alle ideologie utopistiche La vera gioia non si può immaginare né programmare
di George Orwell


Il Natale ci fa pensare quasi automaticamente a Charles Dickens, e per due buone ragioni. La prima è che Dickens è uno dei pochi scrittori inglesi ad aver scritto sul Natale, che è la festa più amata dagli inglesi, ma ha ispirato poche opere letterarie. Ci sono i canti, i Christmas Carols, quasi tutti di origini medievali; c'è una manciata di poesie di Robert Bridges, T.S. Eliot e qualche altro, c'è Dickens; e poco di più. La seconda ragione è che tra gli scrittori moderni Dickens è uno dei pochi, quasi l'unico, a offrire un'immagine convincente della felicità.
Dickens ha parlato del Natale due volte, in un capitolo del Circolo Pickwick e nel Canto di Natale. Quest'ultimo racconto venne letto a Lenin morente che, secondo la moglie, ne trovò del tutto intollerabile «il sentimentalismo borghese». In un certo senso aveva ragione, ma se fosse stato in condizioni di salute migliori si sarebbe forse accorto che quel racconto ha dei risvolti sociologici interessanti. Anzitutto, per quanto Dickens calchi la mano e il «sentimentalismo» di Tiny Tim possa sembrare sgradevole, la famiglia Cratchit pare proprio divertirsi. Ha l'aria felice, a differenza, per esempio, dei cittadini di Notizie da nessun luogo di William Morris. Inoltre, la loro felicità deriva soprattutto dal contrasto, e il fatto che Dickens se ne renda conto è uno dei segreti della sua forza. Sono contenti perché una volta tanto hanno cibo in abbondanza. Il lupo è alla porta, ma sta scodinzolando. Il vapore del pudding natalizio aleggia su uno scenario fatto di banchi di pegni e di duro lavoro e accanto alla tavola imbandita il fantasma di Scrooge è sempre presente. Bob Cratchit vuole perfino brindare alla salute di Scrooge, cosa che la signora Cratchit, giustamente, rifiuta di fare. I Cratchit riescono a godersi il Natale proprio perché viene solo una volta all'anno. La loro felicità è convincente proprio per questo. La loro felicità è convincente perché è descritta come provvisoria.
Tutti i tentativi di descrivere una condizione di felicità permanente, d'altro canto, si sono risolti in un fallimento. Le Utopie (a proposito, la parola Utopia non significa «bel luogo», ma «luogo inesistente ») sono comparse spesso nella letteratura degli ultimi tre o quattrocento anni, ma quelle «positive» sono immancabilmente poco attraenti, e di solito anche prive di vitalità.
Le Utopie moderne di gran lunga più note sono quelle di H.G. Wells. La visione del futuro prefigurata da Wells è enunciata appieno in due libri scritti all'inizio degli anni Venti, The Dream e Men Like Gods. Vi si trova un'immagine del mondo che a Wells sarebbe piaciuto, o che pensava gli sarebbe piaciuto. È un mondo in cui le note dominanti sono l'edonismo illuminato e la curiosità scientifica. Tutti i mali e le miserie di cui soffriamo sono scomparsi. L'ignoranza, la guerra, la povertà, la sporcizia, la malattia, la frustrazione, la fame, la paura, la fatica opprimente, la superstizione non ci sono più. Così descritto, non potremmo negare che sia il genere di mondo a cui tutti aspiriamo. Tutti noi vogliamo abolire quel che Wells vuole abolire. Ma c'è qualcuno che voglia veramente vivere in un'Utopia wellsiana? È semmai il contrario: non dover vivere in un mondo come quello è ormai diventata una questione politica ben presente. Un libro come Il mondo nuovo è espressione della paura che l'uomo moderno nutre nei confronti della società edonistica razionalizzata che ha il potere di creare. Uno scrittore cattolico ha affermato recentemente che le Utopie sono oggi tecnicamente possibili, e che ora il vero problema è come evitarle. Non possiamo limitarci a ritenere ridicola quest'osservazione e a ignorarla, perché una delle molle del movimento fascista è proprio il desiderio di evitare un mondo troppo razionale e comodo.
Tutte le Utopie «positive» sembrano simili nell'ipotizzare la perfezione ed essere incapaci di dare un'idea della felicità. Notizie da nessun luogo è una specie di versione edulcorata dell'Utopia wellsiana. Tutti sono gentili e ragionevoli, la tappezzeria viene tutta da Liberty, il miglior negozio, ma si avverte una vaga malinconia. Colpisce, però, che neanche Jonathan Swift, uno degli scrittori più ricchi d'immaginazione, riesca meglio degli altri a costruire un'Utopia «positiva».
La prima parte dei Viaggi di Gulliver è probabilmente la critica più feroce alla società umana che sia mai stata scritta. Ogni parola di quel libro è ancora attuale; a tratti vi si trovano prefigurazioni dettagliate degli orrori politici del nostro tempo. Swift fallisce, però, quando cerca di presentarci una razza di individui che suscitano la sua ammirazione. Nell'ultima parte, in antitesi agli sgradevoli Yahoo, vengono mostrati i nobili Houyhnhnms, cavalli intelligenti e privi delle debolezze umane. Questi cavalli, nonostante il loro spirito elevato e l'infallibile buon senso, sono creature piuttosto noiose. Come gli abitanti di tante altre Utopie, si preoccupano soprattutto di evitare i problemi.
Conducono vite monotone, controllate, «ragionevoli», libere non solo dai litigi, dal disordine o da incertezze di ogni genere, ma anche dalla «passione», compreso l'amore fisico. Scelgono i compagni seguendo principi eugenetici, evitano gli eccessi dei sentimenti, e sembrano quasi contenti di morire quando giunge la loro ora. All'inizio del libro Swift mostra dove la follia e la ribalderia portano l'uomo: ma se si eliminano la follia e la ribalderia, ciò che rimane sembra essere un'esistenza tiepida, che non ha molto senso vivere.
I tentativi di descrivere l'approdo a una felicità ultraterrena non hanno avuto maggiore successo. Come Utopia il Paradiso è un fiasco, mentre l'Inferno occupa una posizione ragguardevole in letteratura, ed è stato spesso descritto in modo dettagliato e convincente.
Sappiamo bene che il Paradiso cristiano, come è di solito rappresentato, non attrarrebbe nessuno. (...) Molti pastori evangelici, molti preti gesuiti (anche nel terribile sermone in Ritratto dell'artista da giovane di James Joyce) hanno spaventato a morte i fedeli con le loro rappresentazioni dell'Inferno. Ma quando si passa al Paradiso, si torna invariabilmente a valersi di parole come «estasi» e «beatitudine», senza fare molto per cercare di spiegare in che cosa consistano. Forse il passo più vitale su questo argomento è quello, famoso, di Tertulliano, in cui si dice che una delle maggiori gioie del Paradiso è guardare le torture dei dannati. Le versioni pagane del Paradiso sono forse un po' migliori. Si ha la sensazione che nei campi elisi ci sia sempre il tramonto. L'Olimpo, dove vivevano gli dei, con il nettare e l'ambrosia, le ninfe ed Ebe, «puttane immortali» come le ha chiamate D.H. Lawrence, potrà essere un po' più interessante del Paradiso cristiano, ma non fa venir voglia di passarci molto tempo. Il Paradiso musulmano, con le sue 77 urì (vergini) per ogni uomo, tutte presumibilmente desiderose di attenzioni allo stesso momento, è un vero e proprio incubo. Nemmeno gli spiritualisti, che ci assicurano di continuo che «tutto è luminoso e bello», riescono a descrivere una qualche attività dell'altro mondo che una persona avveduta possa trovare, se non attraente, almeno sopportabile.
Nello stesso modo si risolvono i tentativi di descrivere la perfetta felicità che non siano né utopistici né ultraterreni, ma semplicemente sensuali. Danno sempre l'impressione di essere vuoti o volgari, o entrambe le cose. All'inizio di La pulzella d'Orléans, Voltaire descrive la vita di Carlo IX con la sua amante Agnes Sorel. Erano «sempre felici », dice. E in cosa consisteva la loro felicità? Un susseguirsi incessante di feste, libagioni, partite di caccia e amplessi. Chi, dopo qualche settimana, non si stancherebbe di un'esistenza simile? Rabelais parla delle anime fortunate che si divertono nell'aldilà, come consolazione per essersela passata male in questo mondo. Cantano una canzone che si potrebbe grossolanamente tradurre così: «Saltare, danzare, far scherzi, bere vino bianco e rosso, e non far niente tutto il giorno se non contare monete d'oro». Che noia, in fin dei conti! L'idea vana del divertimento senza fine è ben raffigurata nel quadro di Brueghel Il paese di cuccagna, dove tre grassoni giacciono addormentati uno accanto all'altro, tra uova sode e cosce di pollo pronte a farsi mangiare.
Sembra che gli esseri umani non sappiano descrivere, né forse immaginare, la felicità se non in termini di contrasto con una opposta condizione. Per questo da un'epoca all'altra il concetto di Paradiso o quello di Utopia cambiano. Nella società preindustriale il Paradiso era descritto come un luogo di infinito riposo, e lastricato d'oro, perché l'essere umano medio conosceva solo la fatica del lavoro e la povertà. Le urì del Paradiso musulmano riflettevano una società poligama dove la maggior parte delle donne scomparivano negli harem dei ricchi. Ma queste immagini di «eterna beatitudine» sono sempre poco attraenti perché quando la beatitudine diventa eterna (eternità intesa come tempo infinito), il termine di paragone scompare. Alcuni motivi convenzionali radicati nella nostra letteratura sono nati da condizioni fisiche che ora hanno cessato di esistere. Ne è un esempio il culto della primavera. Nel Medioevo la primavera non significava rondini e fiori di campo. Significava verdura, latte e carne fresca dopo parecchi mesi di maiale salato consumato in capanne fumose e prive di finestre. I canti della primavera erano allegri, «Se la carne poco costa, e le femmine son care, e i bulletti vanno apposta tutt'intorno a gironzare, non ci resta che mangiare, stare allegri e ringraziare il buon Dio che ci largì l'allegria di questo dì» (Shakespeare, Enrico IV), perché c'erano buone ragioni per rallegrarsi. L'inverno era finito, questo era il fatto principale. Lo stesso Natale, una festa pre-cristiana, è probabilmente nato perché, di tanto in tanto, mangiate e bevute fuori del comune aiutavano a interrompere l'insopportabile inverno nordico.
L'incapacità del genere umano di immaginare la felicità in forme diverse dalla liberazione dalla fatica o dal dolore pone ai socialisti un grave problema. Dickens sa descrivere una famiglia stretta dalla povertà che si butta su un'anatra arrosto, e farla apparire felice; allo stesso tempo, gli abitanti di universi perfetti non mostrano nessuna allegria spontanea e sono di solito assai poco attraenti. Ma ovviamente noi non vogliamo il mondo descritto da Dickens, né, probabilmente, nessuno dei mondi che avrebbe potuto immaginare. L'obiettivo dei socialisti non è una società dove alla fine tutto si risolve perché vecchi signori gentili regalano tacchini. Il nostro obiettivo non è forse una società in cui la «carità» non sia necessaria? Vogliamo un mondo in cui Scrooge, con i suoi dividendi, e Tiny Tim, con la sua gamba storpia, siano entrambi impensabili. Significa che aspiriamo a un'Utopia senza dolore? A rischio di dire una cosa che i redattori del Tribune
potrebbero non approvare, affermo che il vero scopo del socialismo non è la felicità. La felicità finora è stata una conseguenza occasionale e, per quel che ne sappiamo, potrebbe rimanere tale. Il vero scopo del socialismo è la fratellanza umana. Spesso lo si pensa, ma di solito non lo si dice, o non lo si dice a voce abbastanza alta. Gli uomini passano la vita in strazianti lotte politiche, si uccidono in guerre civili, o vengono torturati nelle prigioni della Gestapo, non per costruire un qualche Paradiso con riscaldamento centralizzato, aria condizionata e illuminazione al neon, ma perché vogliono un mondo in cui gli esseri umani si amino, anziché derubarsi e uccidersi a vicenda. Questo è per loro un primo passo. Quale direzione poi prenderanno non è dato sapere, e il tentativo di prevederlo accuratamente non fa che confondere le cose.
Il pensiero socialista deve immaginare un futuro, ma solo in senso lato. Spesso bisogna tendere a obiettivi che si vedono solo in modo indistinto. In questo momento, ad esempio, il mondo è in guerra e vuole la pace. Il mondo, però, non ha esperienza di pace, non ne ha mai avuta, a meno che non sia esistito il Buon Selvaggio. Il mondo vuole qualcosa della cui esistenza è solo vagamente consapevole, che non riesce a definire con precisione. Questo Natale migliaia di uomini verseranno il loro sangue sulla neve russa, o annegheranno in acque gelate, o si faranno a pezzi nelle isole paludose del Pacifico; bambini senza casa andranno in cerca di cibo tra le rovine delle città tedesche. Far sì che questo non accada più è giusto. Ma dire con precisione come sarà un mondo in pace è tutt'altra cosa.
Quasi tutti i creatori di Utopie facevano pensare a un uomo con il mal di denti, per il quale la felicità consiste quindi nel non avere mal di denti. Volevano costruire una società perfetta prolungando all'infinito una condizione apprezzabile solo perché temporanea. Sarebbe meglio dire che ci sono delle linee lungo le quali l'umanità deve muoversi, che il disegno strategico è tracciato, ma che fare previsioni dettagliate non è affar nostro. Chiunque cerchi di immaginare la perfezione ne mette in luce solo la vacuità. È successo anche a un grande scrittore come Swift, che sa mettere perfettamente alla berlina un vescovo o un uomo politico: quando cerca però di creare un superuomo, ci dà l'impressione, opposta alle sue intenzioni, che i maleodoranti Yahoo avessero più possibilità di evolversi degli illuminati Houyhnhnms.
(Traduzione di Maria Sepa)

Corriere della Sera 16.12.08
Riscoperte. Dodici divertimenti
Laura, Petrarca e il volo d'amore dei gabbiani
di Armando Torno


Ogni epigramma è volto dal latino in italiano: l'argomento centrale è la metamorfosi

Petrarca scrisse degli epigrammi latini. Il loro carattere, quasi sempre occasionale e leggero, li rende ancora oggi freschi, sorprendenti. Giuseppe Billanovich in Petrarca letterato (Edizioni di Storia e Letteratura) lasciò una fascinosa ipotesi, ricordando che forse esistette un quaderno ove il poeta «riunì i suoi versi improvvisati». Ora Francisco Rico, studioso tra i più apprezzati del sommo autore, ne ha raccolti dodici che gli sono sembrati «di maggior valore tra quelli di attribuzione sicura». Li ha intitolati Gabbiani (Adelphi Edizioni, pp. 104, e 5,50).
Scritti per lo più in distici elegiaci (ma cinque sono in esametri caudati), soltanto due di essi furono pubblicati per volontà dell'autore che li incluse nelle Lettere Familiari.
Rico così spiega la traduzione: «Dato per scontato che non potevo azzardarmi a volgere in italiano il Petrarca latino, ho chiesto ad alcune grandi studiose ed eccellenti amiche di farlo per me, e di farlo senz'altro in limpida prosa». Ogni epigramma è stato poi commentato e annotato nel senso alto del termine, tanto che il lettore intraprende con questo svelto libretto dodici percorsi. Sono viaggi ideali che nascono dalle parole del sommo umanista per approdare in luoghi privilegiati della cultura occidentale.
Perché il titolo Gabbiani? È quello del terzo epigramma di codesta raccolta, datato 1341. Sembra che Petrarca — ricorda Rico — navigando alla volta del-l'Italia, dinanzi alle coste di Roma, risentisse in sé gli echi di una allora nota canzone che gli attuali studiosi di folklore conoscono come Le trasformazioni.
È una conversazione tra l'amante e l'amata, nella quale l'uomo promette alla donna che, se prenderà le sembianze di un certo essere, egli la inseguirà tramutandosi. L'amore, in altri termini, cambierà la sua natura. Petrarca improvvisò un dialogo fittizio con un amico caro, forse il musicista fiammingo Ludovico di Beringen, o il nobile romano Lello Tosetti: anche se non rivela in quale «pulcra avis» potrebbe mutarsi Laura, Rico conclude: «Chi, solcando il Mediterraneo, allude a un uccello che vola in stormo e si sposta sull'acqua non può che riferirsi al gabbiano».
Una libertà, un sogno filosofico, una fantasia dietro cui si avverte un soffio platonico: seguendolo si scopre che l'amore trasforma l'amante nell'amato o «in amatos mores » (così nel Secretum), nel modello dell'amato. O, scostandosi da questa ipotesi, si può scegliere un'altra via: l'amico è un alter idem e con lui si vive un accordo totale. Nasce in tal modo la speranza che i due giungano all'identica metamorfosi; se così fosse, hanno seguito una nozione aristotelica, mediata da Cicerone.
Questo è un esempio dei dodici possibili. Non sono degli inediti ma aiutano a entrare in un universo di sensazioni gentili. Tra l'altro, dell'epigramma ricordato c'è già una raffinata traduzione italiana di Michele Feo in Petrarca nel tempo (Bandecchi; Vivaldi, Pontedera 2003).

Corriere della Sera 16.12.08
Spallate e macerie
di Massimo Franco


Il fatto che Antonio Di Pietro gioisca perché il suo partito ha quasi sestuplicato i voti ufficializza il cannibalismo in atto nel centrosinistra. È, almeno nelle sue intenzioni, l'inizio di una lunga spallata che dovrebbe avere come traguardo un riequilibrio col Pd alle europee di primavera. Nelle elezioni regionali in Abruzzo la scommessa non era tanto su chi avrebbe vinto fra i due schieramenti: il successo del centrodestra era previsto, anche per lo scandalo che a luglio aveva portato all'arresto del governatore Ottaviano Del Turco, del Pd. L'incognita riguardava i contraccolpi nel campo dei perdenti.
Il Partito democratico poco sopra al 20% e l'Idv intorno al 15 porterebbe a rispondere che la geografia dell'opposizione cambia: l'esercito di Veltroni si sta rapidamente logorando, e quello di Di Pietro ingrassando. Ma l'astensione che sfiora la metà del totale, quasi 30 punti meno delle politiche, allunga su tutto il sistema l'ombra della sconfitta: perfino sul Pdl berlusconiano che ha vinto. E rende la soddisfazione dipietrista vagamente autoconsolatoria. Dietro il trionfo del non voto non c'è soltanto un giudizio negativo sul malaffare nella regione, ma sull'insieme dei partiti.
Neppure il candidato preteso e ottenuto dall'Idv è riuscito a convincere i delusi; a mobilitarli e a portarli alle urne. La traduzione elettorale di una politica vista come una variante di «guardie e ladri» ha rivelato ancora una volta tutti i suoi limiti. Ridimensiona il centrosinistra; non gli evita un tracollo; drena una parte consistente del consenso del Pd, ma radicalizzandolo e dunque rendendolo meno spendibile. Insomma, Di Pietro canta vittoria su un panorama di macerie; e da oggi i suoi rapporti con gli alleati diventeranno, se possibile, ancora più avvelenati.
Ironizzare sui «ma anche » veltroniani ed esaltare la propria affermazione ai danni del Pd significa dichiarare la guerra dentro l'opposizione. Un simile atteggiamento dice che Di Pietro considera, o comunque vuole vedere la «sindrome abruzzese» come una tendenza non locale ma nazionale; e che ha una spietata determinazione ad approfittarne. Si candida come leader non solo dell'Idv ma anche degli spezzoni dell'estrema sinistra esclusi dal Parlamento, che hanno in odio il Pd; e come campione di un antiberlusconismo irriducibile.
Il sogno sempre meno nascosto è quello di trasformarsi in una sorta di Umberto Bossi del centrosinistra: il capo di una «Lega nazionale», pronta a succhiare voti alleati. Ma non sarebbe giusto additare l'ex pm di Mani pulite come la causa dei problemi del Pd. Semmai ne è il sintomo. Sottolinea ed esaspera l'identità indefinita della creatura veltroniana. E ripropone la domanda sui motivi veri che hanno indotto il Pd a sceglierlo come alleato.
Sono più comprensibili le ragioni per le quali Berlusconi lo ama come avversario: l'antiberlusconismo di Di Pietro infiamma i cuori di una parte dell'opposizione; e in parallelo contribuisce a farla perdere.

l’Unità 16.12.08
Il capo della P2 è convinto che la sinistra stia pagando la lotta contro la massoneria
E il primo obiettivo è Cioni perché «è stato il capofila della guerra contro le logge»
di Vladimiro Frulletti


«La crisi del Pd a Firenze? Le logge si sono ribellate»
È bufera su Gelli
La situazione difficile del centrosinistra fiorentino per l’ex Venerabile sarebbe una vendetta della massoneria che in riva all’Arno è potentissima.
«Non ci occupiamo di elezioni» dice il Grande Ordine.

«Che con le primarie fiorentine si siano scatenati i pruriti dei poteri forti è ormai un fatto assodato». Già da un po’ Graziano Cioni, assessore di Firenze (che nell’inchiesta su Castello è accusato di corruzione e violenza privata) e aspirante sindaco, sentiva puzza di bruciato. Fino a ieri erano timori, brutte sensazioni. Ora, ne è convinto, c’è la prova. Le parole del Venerabile Gran Maestro della fu P2. Di Licio Gelli che ieri alla Stampa, tra le tante cose, ha anche detto la sua «verità» sulla crisi del Pd a Firenze: «Lì le Logge sono da sempre potentissime e si sono ribellate». È vero che sono divise e «in guerra», ma «l’unica cosa che le unisce» è «il malumore verso la sinistra fiorentina che per anni ha fatto una battaglia ossessiva contro la massoneria». E in particolare verso Cioni che «è stato il capofila, nel Pci fiorentino, della guerra contro le logge...e quelli se la sono legata». E lo storico Aldo Nola ricorda che fu l’allora senatore Cioni a passare a l’Unità le liste dei massoni toscani da cui nacque un libro (ma l’ex vicecaporedattore Pugliese smentisce) e a presentare nel ‘93, assieme a altri 70 parlamentari del Pds, una proposta di legge che prevedeva il divieto ai pubblici dipendenti (magistrati per primi) di far parte di «associazioni operanti in modo occulto o clandestino». Proposta che Cioni rivendica. «Da Gelli - spiega - è stato mandato un messaggio inquietante. Sono un personaggio scomodo e mi aspetto di tutto. Non nascondo di essere preoccupato. Le sue parole giungono in un momento delicato per Firenze: ci sono appalti in corso, le elezioni, le primarie del Pd». Per certi interessi, scrive Cioni sul suo sito, sono « inaffidabile e incontrollabile». Un’accusa contro certi poteri forti in cui però Cioni non mette la magistratura. «C’è una coincidenza - scrive - ma sono sicuro che l’inchiesta di castello sia ineccepibile dal punto di vista formale. La magistratura non è da chiamarsi in causa per questo». Il problema è la «lettura distorta» dell’inchiesta che l’ha voluta trasformare «in un processo mediatico e politico immediato», «capitato a fagiolo per inquinare» le primarie. A cui però Cioni ribadisce che non ha nessuna intenzione di rinunciare.
Resta da misurare la fondatezza delle parole di Gelli. «Tutte panzane - le bolla Gustavo Raffi, Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia - noi non ci occupiamo di elezioni né nella città dei medici, né altrove». E a riprova che il Venerabile le «spara grosse» il presidente del Goi della Toscana Stefano Bisi entra nel dettaglio: «lui dice che a Firenze il Goi avrebbe 520 logge, ma in tutto saranno al massimo una quarantina». E anche il presidente del consiglio della Regione Toscana Riccardo Nencini contesta la fondatezza delle affermazioni di Gelli «perché non è vero come afferma lui che in toscana c’è una legge che prevede una dichiarazione di appartenenza alla massoneria per partecipare a pubblici appalti». Eppure la «verità» di Gelli all’ex parlamentare fiorentino del Pci Alberto Cecchi, già vicepresidente della commissione d’inchiesta sulla P2, appare plausibile. «A Firenze - spiega - la massoneria ha da sempre un peso straordinario. Superiore a quello che può avere ad esempio in città come Torino o Roma».

l’Unità 16.12.08
Gelli e la politica. Ormai il cerchio si chiude
di Nicola Tranfaglia


Uno dei quotidiani più diffusi in Italia (si colloca subito dietro "Il Corriere della sera","La Repubblica" e "Il Sole 24 ore"), parlo de "la Stampa", di Torino, diretta da Giulio Anselmi, ha pubblicato ieri un'intervista lunga una pagina intera a Licio Gelli, il Venerabile della Loggia P2, ritornato agli onori della cronaca non solo politica, ora presente ogni settimana su Odeon TV.
La giustizia italiana, malgrado numerosi processi intentati negli ultimi venticinque anni dopo la scoperta della Loggia e l'inchiesta parlamentare del 1982, non è giunta - come succede sempre nei confronti dei ricchi e dei potenti - a nessun risultato.
Sicchè Licio Gelli è un cittadino libero e dotato di idee assai precise su sé stesso, come sull'Italia. Per prima cosa fa una domanda retorica al giornalista: "Il mio piano rinascita ha trionfato, non crede?" E subito dopo: "Berlusconi se ne é letteralmente abbeverato, la giustizia e le carriere separate dei giudici, le tv, i club rotariani in politica…Già, proprio come Forza Italia. Apprezzo che non abbia mai rinnegato la sua iscrizione alla P2, e del resto come poteva?"
I riferimenti di Gelli sono limpidi. Quando parla del piano rinascita, ricorda il suo "Piano di rinascita democratica" sequestrato a sua figlia all'aeroporto di Linate, che prevedeva appunto l'addomesticamento della stampa e della tv (chi potrebbe negarlo oggi?), la divisione dei sindacati (innegabile, senza dubbio), la separazione delle carriere e altri obbiettivi minori.
E non si può dar torto a Gelli quando dice che Berlusconi se ne è "abbeverato".
Quel che è difficile accettare della diagnosi generale di Gelli è che la crisi della sinistra, di cui tanti parlano, derivi dall'espansione delle logge massoniche di cui parla il Venerabile. A Firenze enumera 520 logge a Palazzo Vecchio e 500 a Palazzo Vitelleschi e si lamenta per le "discriminazioni" che, a suo avviso, ci sono in alcune regioni come Marche e Toscana. Poi aggiunge che ormai (finito il Pci) non ci sarebbe più la sinistra: ma qui cade in contraddizione perché se la giunta fiorentina di Dominici non gli pare più di sinistra ma poi gli pare in crisi….
Tra Veltroni e D'Alema non vede differenze e preferisce, nettamente, la moglie di quest'ultimo che è una nota archivista alla quale si è rivolto per depositare le carte innocue di carattere storico che aveva nella sua villa.
È ormai in pista e, a proposito della P2, afferma senza esitazioni: "La P2? La rifarei tranquillamente…" E ribadisce: "Meglio burattinaio che burattino."
Il cerchio sembra ormai chiudersi, dopo vent'anni di turbolente vicende, ritornare alla casella iniziale.
Ma è possibile che gli italiani non se ne accorgano? Che sia giunta a questo punto di declino la nostra democrazia?

il Riformista 16.12.08
Così si suicida un partito
di Stefano Cappellini


ANALISI. Come nello scorso aprile il leader democratico si è di nuovo riaffidato all'ex pm, col risultato che il suo partito prende in regione quanto i Ds avevano da soli tre anni fa. Costantini ha meno voti della coalizione. L'onda giustizialista premia solo l'Idv. Ma cresce la fronda anti-Tonino: Latorre, Follini e Parisi attaccano. D'Alema prepara un duro intervento per la direzione.

Peggio di così a Walter Veltroni e al Pd non poteva andare. La sconfitta del centrosinistra in Abruzzo era messa in conto, non foss'altro per le disgrazie giudiziarie che hanno travolto la giunta Del Turco. Ma il modo in cui è arrivata racconta di un disastro politico e le sue conseguenze non si fermeranno a L'Aquila. Complice un astensionismo di massa, che ha evidentemente penalizzato entrambi gli schieramenti, i numeri delle urne raccontano che alla fine la partita per la presidenza della regione si poteva giocare. Magari a patto che il Pd non si accodasse a un candidato capace di raccogliere diversi punti percentuali in meno delle liste che lo hanno sostenuto. Il dipietrista Carlo Costantini perde infatti netto dal pidiellino Gianni Chiodi, nonostante un quasi testa a testa tra le due coalizioni. Inutile girarci intorno: è stata clamorosamente toppata la scelta del candidato.
Non solo: come effetto collaterale della scelta di affidarsi al casting dipietrista Veltroni si ritrova un Pd cannibalizzato dall'Italia dei valori e ridotto in regione a un mortificante 20 per cento (ma il dato definitivo potrebbe essere addirittura inferiore), ovvero poco più di quanto i Ds riuscivano a conquistare da soli alle regionali del 2005. Senza contare il pesantissimo meno 13 per cento rispetto alle politiche dello scorso aprile. Una Waterloo abruzzese, insomma, ma quasi interamente figlia di scelte prese a Roma.
In Abruzzo è stato infatti ripetuto in piccolo, ma con effetti che potrebbero essere persino più devastanti, il medesimo errore compiuto prima delle elezioni nazionali. Allora tirava vento di antipolitica e di piazze anti-casta e al Loft, l'ex quartier generale democratico, si pensò che l'unico partito che avrebbe aggiunto voti alla corsa semi-solitaria del Pd sarebbe stata l'Italia dei valori del giustiziere Tonino. Non andò così, un po' perché era stato sopravvalutato l'effetto Grillo sulle urne, un po' perché Di Pietro rubò voti alla sinistra radicale e in parte allo stesso Pd senza pescarne dal centrodestra - come tutte le analisi dei flussi elettorali hanno dimostrato. Sono seguiti, tra Pd e Idv, mesi di patti traditi e reciproche scomuniche. Veltroni è arrivato a dire che Di Pietro non «conosce l'alfabeto democratico», salvo rivolgersi proprio all'analfabeta per tappare la falla del dopo Del Turco. Esattamente come era accaduto per il dopo-Prodi. In mezzo, però, è tornata la questione morale.
Se il segretario democratico pensava di cavalcare l'onda giustizialista, di usare l'immagine dell'ex pm per allontanare dal suo partito l'ombra della malapolitica, specie in una regione così duramente squassata dalle inchieste della magistratura, ha di nuovo sbagliato i conti. Quella giustizialista è un'onda che premia sempre e solo Di Pietro. Il quale continua a ingrassarsi a spese dell'alleato nel mentre lo condanna alla sconfitta. E per giunta lo svillaneggia pure, come ha fatto l'ex pm nelle prime dichiarazioni a scrutinio in corso. Perché Di Pietro non ha altro scopo che ingrandire l'azienda personale. Tanto peggio per chi glielo consente.
Non pago di aver raddoppiato i voti in Abruzzo in sei mesi e di averli quasi decuplicati rispetto a tre anni fa, ieri Di Pietro non s'è nemmeno curato di commentare la sconfitta - cui il suo Costantini ha chiaramente contribuito - ma si è precipitato a magnificare il grande balzo in avanti del suo partito. Dopo essere entrato in Parlamento a spese della sinistra, trascinato dal voto utile che l'alleanza col Pd gli ha regalato, ora dopo il voto abruzzese l'ex pm può persino vantare numeri che gli permettono di accreditarsi come forza antagonista al Pd nella guida dell'opposizione. Proprio un bel risultato. Di cui non si può certo dare la colpa a Bruno Vespa, reo secondo il Pd di aver invitato a commentare il voto a Porta a porta solo il leader dell'Idv e non un esponente democrat.
«I dati dell'astensione in Abruzzo sono impressionanti: ha votato il 30 per cento in meno delle politiche. Vuol dire che c'è malessere, stanchezza e anche critica nei nostri confronti». Questo era, fino alle 21 di ieri, l'unico commento pervenuto da parte di Veltroni. Non una parola sul caso Di Pietro e sul senso di questa nuova sconfitta.
Ma nel partito si annuncia bufera. D'Alema prepara un intervento ad hoc per la direzione del 19 dicembre. Attacca Nicola Latorre: «A me non preoccupa la crescita di Di Pietro, preoccupa il calo del Pd. Ragioniamo sul fatto che Di Pietro stia erodendo elettorato più a noi che ai nostri avversari». Marco Follini parla di «costo politico dell'alleanza con Di Pietro». E Artuso Parisi: «Spero veramente che Veltroni rinsavisca che legga finalmente il filo che lega i messaggi ripetuti che ci vengono dagli elettori a partire dal voto di aprile». E Beppe Fioroni: «Il rammarico è che se ci fosse stato l'accordo con l'Udc avremmo vinto». Ma Fioroni non si premura di aggiungere che se un accordo con l'Udc è risultato impossibile è stato anche per via dell'impossibilità di tenere insieme Casini e Di Pietro.
Dall'altra parte esulta così Maurizio Gasparri: «Il voto in Abruzzo dimostra la tendenza suicida del Partito democratico, che avendo consegnato la guida e la linea dell'opposizione a Di Pietro rischia di crollare irrimediabilmente nei consensi». Qualcuno può dargli torto?

Corriere della Sera 16.12.08
Direttore sotto assedio «Se non mi cacciano resto altri 10 anni. Meno copie? Quando il partito era al governo»
Sansonetti va in trincea: il Prc è moribondo Ferrero con gli stalinisti ma la pensa come me
intervista di Fabrizio Roncone


ROMA — «Senti, te lo dico subito: per quest'intervista abbiamo un'oretta, non di più. Poi devo andare a fare la prima pagina e...».
Non molli la poltrona, eh?
«No, guarda, allora questo è un concetto che va chiarito subito: io, finché non mi cacciano dalla direzione di Liberazione,
non solo non me ne vado, ma continuo pure a fare il giornale che penso sia giusto».
( Piero Sansonetti ha 57 anni e lo conoscete, lo vedete — spesso — alla tivù: la barba lunga e poi i maglioni a collo alto, le giacche di velluto, i ragionamenti sempre lucidi, a volte spiazzanti, un giornalista di sinistra di assoluto rango, mai banale, mai troppo ortodosso, sebbene abbia cominciato la professione all'Unità, dov'è rimasto per 29 anni, arrivando fino all'incarico di condirettore: quando poi Veltroni prese il comando del quotidiano fondato da Antonio Gramsci, e intuì quant'era bravo, e libero, e adorato da un pezzo della redazione, il barbuto, con mille cortesie, com'è nel cerimoniale dei giornali, fu spedito a fare il corrispondente a New York. Un bel posto, ma piuttosto distante).
Tu resisti, qui a «Liberazione», ma intanto il Comitato politico di Rifondazione, di fatto, ti sfiducia. Paolo Ferrero ti accusa di sostenere un altro progetto, di perdere copie e di aver accumulato 3 milioni d'euro di debito.
«Andiamo con ordine. Mi sono andato a rivedere le prime pagine dell'ultimo mese. Sai su quali argomenti abbiamo aperto? La questione salariale, l'oscurantismo del Vaticano, i diritti civili, il razzismo, i morti sul lavoro... E sempre tenendo un tono, come dire? radicale».
Ma non militante.
«Senti, io cerco di fare un giornale di idee. E di storie. Alcuni giorni fa ne ho intercettata una bellissima. Due barconi di immigrati in balìa del mare forza 9. La Guardia di Finanza che chiede aiuto ai pescatori di Mazara del Vallo, gli unici capaci di governare una barca tra quelle onde. E loro, che pure per prudenza avevano scelto di non andare a pesca, escono lo stesso...».
Grandissima storia.
«I comunicati di partito, francamente, mi appassionano di meno».
Comunque dirigi un giornale di partito, certe regole le conoscevi.
«Anche loro conoscevano me. Mi chiamarono e furono chiari: sappiamo che non hai la tessera e che sei un tipo libero. Ma per noi l'importante è che fai un giornale di sinistra».
Chi ti fece questo discorso?
«Fausto Bertinotti».
Discussioni con lui?
«Tante, e alcune anche forti. Dopo un anno che Rifondazione stava al governo, cominciammo a scrivere: andate via da Palazzo Chigi. Dove, per altro, c'era anche un certo Paolo Ferrero che faceva il ministro... secondo te è lo stesso che ora guida Rifondazione?».
Secondo me, sì.
«Coincidenza curiosa, eh? Ora però ti dico delle copie. Sai quando ne abbiamo perse un buon 15%? Tra il 2006 e il 2007. Cioè quando il partito era al governo. Però poi ne diffondiamo anche centomila, a Milano e Roma, con la diffusione gratuita del pomeriggio. E poi c'è il giornale online, seguitissimo. No, ascoltami: Liberazione è viva, impone temi, scatena polemiche. È il partito, purtroppo, che è moribondo».
Hai un buco di 3 milioni d'euro nel bilancio.
«Due milioni sono sempre stati fisiologici. Ma, ora, è vero, ne abbiamo accumulato uno in più. Spiegabile: intanto abbiamo ripreso 5, 6 giornalisti dopo l'esperienza in Parlamento, tra cui Cannavò, Gagliardi e Forgione. Stipendi veri, che incidono. Come la raccolta pubblicitaria, sempre più difficile con un partito allo sbando, e come i tagli del finanziamento pubblico».
Come penseresti di uscirne?
«C'è un piano di ristrutturazione: bilancio in pareggio nel 2009».
Tagli?
«I giornalisti sono 40. I poligrafici, 18. Si procede con pensionamenti e cassa integrazione a rotazione».
La redazione con chi sta?
«Non tocca a me dirlo. Esci in corridoio, e chiedi».
Ti stimano in parecchi.
«La redazione è convinta che dobbiamo lavorare per fare un giornale che ficchi dentro la mente della sinistra un concetto: la libertà è davanti a tutto, è il valore numero uno».
Discorso poco comunista.
«Tutta la storia del comunismo va ripensata. Anzi, ti dico di più: io non discuto con nessuno se non stabiliamo, in partenza, che proviamo ribrezzo per ogni dittatura».
Ora ti sei giocato definitivamente la poltrona.
«Guarda, Ferrero io lo conosco e so che, su certe cose, la pensa come me. Purtroppo, ha fatto maggioranza nel partito con settori profondamente stalinisti e e brezneviani».
Sei un po' Bertinottiano.
«Sono un giornalista libero. Che considera Bertinotti un maestro».
È vero che tornerai all'«Unità», a fare il vicedirettore?
«Non è vero».
E allora? Che farai dopo?
«Ma dopo quando? Allora non hai capito... io conto di restare qui per altri dieci anni...».

il Riformista 16.12.08
Rifondazione perde pezzi. E Fausto tace
di Serenella Mattera


La ferita c'è. Il partito della Rifondazione comunista perde i primi pezzi e Paolo Ferrero, cui il congresso di luglio ha consegnato la segreteria, non può che prenderne atto. È andato a Firenze ieri. Dove due dei tre consiglieri comunali del suo partito sono passati a un nuovo gruppo, "La Sinistra", assieme a colleghi di Sd e Pdci. Quasi un'anticipazione su piccola scala del sodalizio inaugurato sabato all'Ambra Jovinelli di Roma. Lì, con la benedizione di Fausto Bertinotti, l'area di Rifondazione che fa capo a Nichi Vendola, ha iniziato un cammino comune con i cugini di Sinistra democratica, una parte dei Verdi e del Pdci. Non si parla ancora di scissione del Prc, anche perché il fronte vendoliano non è così compatto. Ma la battaglia fratricida non è più dissimulata.
La frattura tra le due aree del partito facenti capo a Vendola e Ferrero, mai sanata dopo il congresso di Chianciano, è emersa nel comitato politico nazionale, indetto in contemporanea con la manifestazione dell'Ambra Jovinelli. «In quel teatro l'Associazione per la sinistra ha dato vita a un'assemblea molto incoraggiante, in cui è emersa una voglia di partecipazione forte a un progetto di ricostruzione della sinistra. Il comitato politico del partito è stato invece disarmante e triste», riassume Franco Giordano, ex segretario del Prc e fedelissimo di Fausto Bertinotti. Non dello stesso parere, naturalmente, Paolo Ferrero, che rivendica al comitato da lui presieduto un «positivo bilancio dei lavori». Il punto su cui i due, con le rispettive aree, più divergono è quello dell'affaire Liberazione. La poltrona del direttore Piero Sansonetti è sempre meno salda. Soprattutto dopo la copertina di domenica, dedicata alla manifestazione dell'Ambra: l'intollerabile prova provata delle simpatie per la minoranza del partito e di un «legame con un progetto alternativo» che Ferrero non può digerire. E che è testimoniato, in effetti, dalla strenua difesa del direttore da parte dei vendoliani.
La mozione congressuale del governatore pugliese, però, non è compatta. Da un lato Vendola stesso, Giordano e Migliore, guidano il fronte più deciso sulla via della creazione di un nuovo soggetto della sinistra, esteso anche al di fuori del Prc. Dall'altro, c'è chi frena. Come Augusto Rocchi, Tommaso Sodano e Milziade Caprili, bertinottiani di ferro, che vogliono «continuare a lavorare dentro il Prc». Domenica i due filoni interni alla minoranza si sono divisi su un ordine del giorno. E una cosa è certa: se Vendola decidesse per la scissione, di cui peraltro nessuno parla ancora esplicitamente, in questo momento perderebbe dei pezzi importanti. Una parola risolutiva al riguardo potrebbe arrivare soltanto da Fausto Bertinotti, comune riferimento, ma lui continua a tacere.
Intanto ieri sera a Firenze Paolo Ferrero è andato a riaffermare la linea del partito. Quella sua, della maggioranza. Alle elezioni amministrative, il Prc andrà da solo nei comuni con più di 15mila abitanti e nelle province. E a Firenze non sarà in coalizione con il Pd, da cui lo divide la questione morale. Ma alle primarie di coalizione parteciperanno due consiglieri comunali eletti nelle liste del Prc e ora fuori dal partito. Leonardo Pieri e Mbaye Diaw hanno costituito un nuovo gruppo, «La Sinistra», in cui sono confluiti anche i quattro consiglieri di Sd e uno dei tre Comunisti italiani. E ora, secondo Ferrero, sono «subalterni al Pd». La stessa subalternità, che a Ferrero sembra di intravedere anche nel «nuovo partitino della sinistra» che potrebbero nascere da qui a qualche mese a livello nazionale.