giovedì 18 dicembre 2008

Liberazione 18.12.08
L'immagine-simbolo dell'89 di cui alcuni hanno paura
Quel Muro che cadendo ha liberato noi comunisti
di Rina Gagliardi


Io - a differenza di coloro che (beati loro?) hanno oggi venti o venticinque anni - il Muro di Berlino l'ho visto. E fu un pugno allo stomaco, una fiumana di sensazioni angosciose - uno choc, per quanto ci si credesse preparati alla visione. Era l'estate del 1980 - l'estate di Solidarnosc in Polonia. Per arrivare a Berlino in macchina, bisognava prendere l'autostrada della Ddr, quella dalla quale era severamente vietato uscire e anche fermarsi - del resto, per due o trecento chilometri non vedevi l'ombra di una stazione di servizio, solo poliziotti che stazionavano su desolate aree di sosta. Poi, l'arrivo nella grande, stupenda capitale tedesca. Ma il Muro non era, nient'affatto, un muro, così come la parola te lo fa balenare in testa: era un sistema di muraglioni largo cinquanta metri, percorso da centinaia di torrette presidiate da soldati con mitra. Una costruzione imponente e minacciosa nel mezzo della città - un po' come se a Roma ci si trovasse di colpo con piazza Venezia e via del Corso spaccate in due metà. E l'angoscia si intensificava nel contatto con le "due" Berlino: di qua, ad ovest, il profluvio di negozi, di luci sfavillanti, di suoni ininterrotti della Kufusterdam, di là, ad est, la distesa di grigio della Stalinallee, di larghezza disumana e di impressionante silenzio, interrotto, ogni tanto, dall'inconfondibile clangore (e odore) delle Trabant. Di qua, il trionfo dell'Occidente, la vetrina di una libertà senza confini che si celebrava tutta e soltanto nella Merce e nell'Artificio; di là, dove nell'Alexanderplatz c'era il cuore della vera Berlino, non c'era quasi nulla, solo l'impalpabile (ma ferreo) messaggio leggibile in ogni angolo: Qui nessuno è libero.
Ma neppure noi eravamo liberi, se la scelta era ridotta a quelle che le due Berlino rappresentavano con tanta forza: la modernizzazione capitalistica sfrenata dell'Ovest, l'oppressione burocratica dell'Est. Il Mercato e il "Socialismo reale". Fu per questo (anche e soprattutto per questo) che, quando quel 9 novembre 1989 il Muro crollò di schianto, picconato da una folla pacificamente euforica, avvertii un senso di liberazione - proprio come il morso di una tenaglia che ti ha imprigionato per anni e che ora, finalmente, si allenta. No, non era certo un "mondo nuovo" che incominciava, lo sapevamo fin da allora. Era, però, un mondo vecchio che finiva, sepolto dalle sue contraddizioni, dalle sue menzogne, dai suoi fallimenti. Un mondo che aveva usurpato il nome - bellissimo - di socialismo e che aveva fallito nel suo obiettivo fondamentale: costruire una società di liberi e di eguali, o almeno avviarla. Ma da dove può cominciare una nuova storia, per il socialismo, se non dalla morte fisica e politica di una illusione?

Tutti capirono subito il valore simbolico di quel muro che cadeva a pezzi - perché, se no, quella frenesia per accaparrarsene un pezzettino, il più piccolo e il più improbabile? Tutti si sentirono felici di prender parte a quella de-costruzione di massa. E' pur vero che la sorte del regime di Honecker era segnata, e che la fine fu particolarmente ingloriosa, comprese le spese urbanistiche folli di uno Stato ormai finanziariamente agonizzante. Ma l'atto concreto del picconamento, mattone dopo mattone, calcina dopo calcina, conteneva una carica liberatoria immensa. Esattamente duecento anni prima, il popolo di Parigi non aveva assaltato la Bastiglia, ignobile carcere ormai quasi vuoto ma simbolo-principe dell'ancièn régime, e l'aveva demolita integralmente, senza lasciarne neppure un sasso? Appunto: i "picconatori" del Muro, in quella notte di (quasi) vent'anni fa, non erano mossi da null'altro che dalla voglia di cancellare quella rappresentazione così brutale e massiccia dell'oppressione. No, non avevano come loro meta il trionfo del capitalismo, o l'imperversare della globalizzazione, o la rivincita del mercato - così come i rivoluzionari dell'89 non pensavano al Terrore e alla ghigliottina di serie come "compimento" naturale della loro azione. Giacché la storia, l'esplosione di soggettività che talora fa la storia, non è mai una sequenza lineare e obbligata di cause ed effetti: contiene mille possibilità, e milioni speranze, che non si realizzano - che addirittura si rovesciano nel loro inverso. Lo diceva una bellissima canzone scritta quasi cinquant'anni fa da Franco Fortini: «Tutti gli amori cominciano bene/ l'amore d'una donna, l'amore d'un lavoro/ ed anche l'amore per la libertà/ Spesso gli amori finiscono male/....ma non si perde più/ quel che è stato vero un nostro giorno…».
Ma è proprio questo, dal mio punto di vista, l'elemento più sconcertante del dibattito scoppiato sul Muro e scatenato dal logo della tessera dei Giovani comunisti: il revisionismo storico, sia pure di segno rovesciato rispetto a quello dominante. Oppure, ma fa quasi lo stesso, un pessimo "storicismo assoluto" di sapore crociano. Ambedue queste impostazioni hanno in comune un vizio: si rapportano ad un evento non per quello che è stato e ha significato nel momento in cui si è prodotto, ma per ciò che è accaduto dopo, anche in seguito all'evento stesso. Non per caso Croce diceva che «la storia non si fa con i se»: la catena degli eventi, il processo del farsi dello Spirito, è dominato da leggi ferree, da causazioni obbligate, da effetti altrettanto incontestabili. Così, la verità di un fatto storico non sta mai dentro di esso, ma sempre fuori di esso - è una verità che il fatto o i fatti successivi si incaricheranno di rivelare nella sua essenza. Così, secondo diversi compagni, la verità del crollo del muro di Berlino sta tutta dopo di esso, e soltanto dopo ciò che è accaduto: il trionfo del capitalismo e del libero mercato che ha contrassegnato gli anni '90 (e non solo), nonché la crisi che è intervenuta, dopo di allora, nel movimento operaio mondiale, nella sinistra, nei partiti comunisti. Ma non vi accorgete che ragionare così è drammaticamente fuorviante e pericoloso? Infatti, lo fanno i professionisti del revisionismo storico: che giudicano la Rivoluzione Francese dalle follie del Terrore; o che valutano il senso della Rivoluzione d'ottobre dai gulag di Stalin. Notoriamente è Nolte, il re del revisionismo storico, a spingere al limite la sua posizione, quando sostiene, più o meno che il bolscevismo ha prodotto il nazismo e dunque come tale va classificata la sua principale responsabilità storica. Naturalmente, ogni evento storico, Muro di Berlino, compreso, va costantemente riletto, reinterpretato, perfino revisionato anche alla luce del "dopo" e nel "dopo" che esso ha contribuito a determinare - anche, nel caso, per trarne lezioni e modificare quelle che, magari, fino ad un attimo prima, erano solide certezze. Ma non si può assecondare la carica revisionistica fino al punto, come dicevo, di cancellare la concretezza determinata di quell'evento - il suo "qui e ora" - e di annullarne l'autonomia e il valore. Per noi, per i comunisti del XXIesimo secolo, quel 9 novembre 1989 resta il simbolo della libertà che avevamo finalmente conquistato: quando parlavamo della grande possibile "meta finale" della nostra lotta, non intendevamo fare, rifare, la Ddr, o l'Urss, o la Bulgaria. Non avevamo più modelli di riferimento, è vero, ma potevamo ricominciare a lottare per un mondo liberato dallo sfruttamento capitalistico, dal profitto, dal dominio delle merci, dall'oppressione sessuale - e anche dalle tirannie dei partiti unici, dei sindacati di Stato, delle Pravda, delle burocrazie, delle Stasi.

Ci siamo riusciti a mettere in pratica, a far diventare pratica politica di massa, un tale ambizioso progetto di lotta per la libertà e l'eguaglianza? Certo che no. Certo che siamo lontanissimi, anzi ce ne stiamo allontanando a ritmi vorticosi - e non gli ultimi venti, ma i trent'anni che ci stanno alle spalle hanno segnato, nel loro insieme, una condizione di regressione politica, sociale, culturale, più che allarmante. Ma, ancora una volta, mi appare sconcertante la reazione di chi reagisce alle difficoltà del presente e del futuro con la categoria della nostalgia - ognuno, si sa, ha le proprie, radicate nella pelle e nel cuore, prima che nella testa. In tale propensione nostalgica, a volte perfino poco consapevole, si colloca il rifiuto politico ed emotivo del crollo dell'89. Non è dichiarato esplicitamente se si rimpiange davvero il mondo perduto del socialismo autoritario di Stato, se si guarda, adesso, alla Ddr (e al fu "campo socialista") come a società tutto sommato invidiabili, se si pensa che quei modelli riguadagnino credibilità - magari come proposte strategiche (e di società) buone per uscire dalla crisi economica e sociale in corso. Ma se l'abbattimento del Muro viene percepito, addirittura, come simbolo della nostra sconfitta, come crollo delle nostre speranze, come l'evento negativo che suggella negativamente il ventesimo secolo, non si ripiomba fatalmente nel rimpianto di tutto ciò che c'era, c'è stato, prima? Dal tentativo di "salvare un sogno" non si finisce per precipitare, da capo, nell'incubo?
Qualcuno obietterà che, così ragionando, si condanna tutta la nostra storia e si autorizza la storia stessa a condannarci, "definitivamente". No, cari compagni e compagne che sognate Honecker o Breznev o Ceasescu, non è davvero questo il punto: la storia degli ultimi duecento anni resta segnata, in profondità, dal movimento operaio, da milioni di comunisti, socialisti e rivoluzionari che hanno fatto, vinto e perso, milioni di battaglie, da speranze e pratiche che hanno concorso a cambiare la civiltà in cui viviamo. Insomma, dalle infinite scalate al cielo che sono state tentate, esperite, sviluppate, comprese le grandi rotture rivoluzionarie. Questa stessa storia on può ridursi, con improvvise torsioni iperpolitiche, alle esperienze statuali, di governo, di regime - alla conquista vittoriosa del potere politico e alle varie dittature non "del" ma "sul" proletariato. Questa è la verità, certo contraddittoria e complessa, certo gloriosa e nefanda, che ci ha fatto ritenere che fosse possibile, nientemeno, che la rifondazione comunista: l'uscita da sinistra dallo stalinismo. Dall'oppressione di quel Muro che cadendo liberò anche noi. Come diceva Franco Fortini con parole che non hanno bisogno di alcuna revisione: «altri nel mondo si vorranno bene/ altri lavoreranno senza pene/ altri vivranno in libertà».

il Riformista 18.12.08
Le procure stanno per sciogliere un altro partito?
di Antonio Polito


Non metto la mano sul fuoco per nessuno dei tanti indagati e arrestati di questa seconda Tangentopoli. Ma, se permettete, non la metto neanche per i pm che hanno riaperto il festival delle retate (meno che mai se uno di loro si chiama Woodcock). Tira una brutta aria, e non solo per il Pd. Se la politica italiana non tiene i nervi saldi, se tutti i politici non resistono alla tentazione di fare al nemico ciò che non vorrebbero fosse fatto a loro, rischia di finire come l'altra volta. Per la serie: come ti sciolgo un partito.
Di fronte al vero e proprio proprio assalto sincronizzato che alcune procure hanno lanciato contro le amministrazioni locali rette dal Pd, si può infatti reagire in due modi. Il secondo è chiedersi che fine rischia di fare la democrazia italiana, se il maggior partito di opposizione viene messo fuori legge. Il primo è gongolare, o perché il Pd è l'avversario politico, o per gusto di maramaldeggiare su un corpo debole e gracile, o perché - perfino dentro il Pd - può sembrare un buon modo di regolare i conti nel gruppo dirigente. Si vedono in giro molti esempi del primo tipo. La stampa di destra, solitamente pignola in fatto di garantismo, stavolta è tutta dalla parte dei pm, e li invita esplicitamente ad affondare il coltello. Berlusconi, che per molto meno avrebbe urlato al golpe delle toghe rosse se fosse toccata a lui, si gode lo spettacolo in religioso silenzio.
Devo però aggiungere che una buona mano alla nuova deriva giustizialista, all'idea cioè di riformare la politica con le manette, l'ha data proprio il gruppo dirigente del Pd, cioè del partito sotto scacco, che sembra vittima della sindrome di Stoccolma. Veltroni e i suoi hanno infatti sposato in pieno l'interpretazione della crisi del loro partito come effetto della questione morale. In Abruzzo sostengono di aver perso per quello, proprio come dice Di Pietro. E di fronte alle innumerevoli inchieste rispondono che ne approfitteranno per decapitare i gruppi dirigenti locali e per sostituirli con commissari e uomini di fiducia. Dichiarano apertamente di voler procedere al rinnovamento del partito cogliendo l'occasione offerta loro dalle procure. Da ora in poi, solo dirigenti nati col Pd, dicono. Questo non è il mio partito, dice Veltroni.

il Riformista 18.12.08
Riecco le manette
di Peppino Caldarola, ex direttore dell’Unità


I Palazzi della politica tornano a tremare. Un tg, un'agenzia di stampa, l'ultima edizione dei quotidiani possono annunciare l'inchiesta clamorosa che mette in ombra quella appena bruciata dalla cronaca. Al telefono gli abitanti del Palazzo parlano a monosillabi o con strani giri di parole ("si, no, ..azz', merd.., ho capito") che dovrebbero disorientare il maresciallo Zappalà messo in ascolto dal pm di turno. La signora che beve il caffè al tavoli del bar potrebbe avere un microfono direzionale, meglio alzarsi e camminare. Perché quel giovanotto ci punta addosso il telefono con la microcamera? Si scrutano le facce dei nemici ma soprattutto quelle degli amici: che vuol dire quel sorriso ironico? Una riunione di partito o di giunta finita in una lite colossale può preannunciare una disgrazia giudiziaria ( "hai litigato con quello, ma non sai che è amico del giudice?"). Un vero inferno.
È dal '92 che il Palazzo ha perso la pace. Un avviso di garanzia, un arresto, la confessione dell'amico imprenditore mettevano nei guai politici di lungo corso. Fin da allora l'occhio attento del politico scafato guardava al di là dell'iniziativa giudiziaria per capire chi c'era dietro. Perché dietro un'inchiesta non c'era il mariuolo o il magistrato occhiuto, ci doveva essere il burattinaio che suggeriva le piste, rovinava le carriere, spezzava gli affari, uccideva partiti interi. La teoria del complotto lasciava le suggestioni comuniste sul "doppio stato" e si rifugiava nelle cucine della politica, spesso anche con cuochi internazionali. Quante volte abbiamo letto o sentito sussurrare che dietro "Mani Pulite" c'erano gli americani che volevano vendicarsi di Craxi per Sigonella o di Andreotti per il filo-arabismo della Dc. Oppure i complottisti più nostrani vedevano la manina del Pci, più precisamente di Luciano Violante, dietro tutti i pm che indagavano sui dirigenti del pentapartito? E' toccato persino a Cossiga di apparire come il burattinaio di Di Pietro, indicato nei boatos ricorrenti come uomo suo in quanto entrambi legati ai servizi.
Le nuove inchieste hanno ridato fiato alla ricerca dei burattinai. La questione morale viene indagata con veemenza o dottrina sui giornali, le parti politiche si scambiano l'accusa di immoralità, ma quelli che sanno spiegano a quattr'occhi chi c'è veramente dietro e che cosa davvero sta succedendo. Ne vengono fuori western all'italiana in cui gli incubi politici prendono il sopravvento sugli eventi reali e i retroscenisti trionfano.
Il primo film si intitola "La vendetta del Caimano" e vede Berlusconi, finalmente con gli stivali con i tacchi alti, aggirarsi nei palazzi di giustizia per vendicarsi dei suoi persecutori. Dietro le inchieste c'è sicuramente lui, spiegano gli sceneggiatori di questo film, ovviamente, dato il protagonista, a luci rosse. Il Caimano furioso finalmente si toglie di torno una classe dirigente avversaria che lo ha tormentato per anni con la questione morale. L'ufficiale di collegamento con le procure è il lungo e allampanato avvocato Ghedini, a suo agio nella parte di Mortimer, mentre Emilio Fede davanti al saloon con l'ennesimo bicchierino in mano sghignazza quando vede nella polvere i nemici del Caimano. Vicino al patibolo Capezzone dà l'ultimo calcio in culo ai condannati.
In questi stessi giorni scrittori dalla penna fine si stanno esercitando su un altro copione, ambientato fra le dune di Sabaudia, che si chiamerà semplicemente "Resurrezione!" e vede protagonista assoluto Walter Veltroni. Nella scena principale Walter, con la faccia tirata perché trattiene il fiato per tener su la pancetta, fa imprigionare i descamisados di D'Alema dopo averli fatti circondare di una pattuglia di sceriffi guidati da Massimo Brutti. Walter avanza severo mentre dietro di lui si affannano, per via della panza, Goffredo Bettini e Giorgio Tonini che si dirigono in direzione del mulo su cui è seduto Nicola Latorre per consegnarli un pizzinone con la sentenza di condanna.
Più realista la terza squadra di sceneggiatori che lavora al mastodontico "Dio perdona, Montenero no ", in cui un Di Pietro avvolto in una giacca chiara di pelle di pecora, alla testa di fazenderos delle procure italiane, parte all'assalto della città del vizio. La carovana è affollata, c'è Woodcok che per fare il fenomeno si è portato Federica Sciarelli mentre Travaglio gira in una bara fuoriserie con accanto Furio Colombo con volant azzurri di Gattinoni. Tre film di successo per le prossime proiezioni di Natale. Se credete che abbiamo scherzato fatevi raccontare da un cronista politico ben introdotto "quel che si dice a Roma". Non si parla d'altro.

Repubblica 18.12.08
Assemblea all'Università Roma Tre
Saviano: centrosinistra connivente da anni


ROMA - «Al di là delle attuali vicende in corso a Napoli e di come andranno a finire, una cosa va detta: che il centrosinistra avesse relazioni con la criminalità organizzata lo si sapeva da dieci anni. Non a caso la Campania e la Calabria, feudi del centrosinistra, hanno il record per crimini di questo tipo». È una delle "frecciate" della lezione tenuta ieri da Roberto Saviano, autore di "Gomorra", all´Università Roma Tre. Lo scrittore era stato invitato dagli studenti dell´Onda.
Saviano ha fatto appello alla consapevolezza degli elettori per spezzare l’abbraccio del malaffare sulla politica: «Gli elettori di sinistra e di destra devono una volta per sempre, al di là delle loro idee politiche, scegliere persone diverse a rappresentarli». E ha aggiunto che «essere accusato dalla mia gente di aver diffamato la mia terra è una cosa ingiusta: quello che emerge in ogni inchiesta è che, al di là del fatto se sei di destra o di sinistra, sei coinvolto in certe cose perchè è così che funziona». La lezione di Saviano, oltre ai riferimenti politici, si è basata sulla storia della camorra raccontata attraverso foto emblematiche di vittime della criminalità. «E´ una vera e propria guerra quelle che si combatte al Sud - ha sottolineato lo scrittore -. Una guerra che ha fatto quattromila morti, più del fondamentalismo islamico in Europa».

Repubblica 18.12.08
La volontà di una donna
di Umberto Veronesi


Siamo ormai alla guerra di parole che sovrasta la legge e il diritto all’autodeterminazione

IL caos regna sul caso Englaro, trasforma il dibattito in una guerra di parole. Eluana è viva o non è viva; i trattamenti sono cure o accanimento; l´esito della sua storia è una questione medica, giuridica o politica.
Eppure ha parlato semplicemente e chiaramente Eluana: «Io non voglio esistere così», diceva indicando il suo amico in coma vegetativo, riferendosi inequivocabilmente a quel corpo che stava davanti a lei, a come lo vedeva e lo percepiva, provandone terrore. Non ci sono giochi di parole: proprio quello ad ogni costo non voleva Eluana , e da lì dobbiamo ripartire, per non perderci nella "tragedia degli equivoci". La confusione è sempre una cattiva consigliera perché alla fine delle polemiche abbandona la gente alla sfiducia sconsolata nella capacità della società, attraverso le sue istituzioni, di aiutare i suoi cittadini proprio nelle situazioni più complesse e drammatiche, quando la collettività e i suoi servizi dovrebbero invece essere di sostegno e di incoraggiamento.
Occorre allora riconcentrarsi sul tema: la volontà di Eluana. Se qualcuno ha dei dubbi deve fermarsi lì: se effettivamente quella del rifiuto della vita vegetativa fosse davvero la scelta lucida della ragazza. Resta da vedere perché mai dovremmo mettere in dubbio il lavoro paziente e meticoloso dei nostri giudici che hanno ricostruito questa volontà, emettendo una sentenza che sapevano perfettamente sarebbe stata altamente impopolare. E perché mai un padre adorante verso la propria "bambina", come dice Beppe Englaro, avrebbe dovuto battersi per anni per realizzare tale volontà, affrontando la gogna mediatica e la distruzione della sua vita personale?
A prescindere dalle considerazioni puramente umane, però, i dubbi sono legittimi perché non esiste purtroppo un documento firmato che riporti il pensiero di Eluana. Ma se invece siamo d´accordo che la volontà di Eluana è quella ricostruita dalla magistratura, allora la confusione su chi decide che cosa è subito dissipata. Decide Eluana e la sua decisione va rispettata. Se io scelgo che preferisco morire piuttosto che farmi amputare un arto, come è successo pochi anni fa nel caso della signora siciliana, nessuno può tagliarmi una gamba, esercitando una violenza che per me è tortura. Su questo punto non si può transigere perché significherebbe accettare che nel nostro paese la società è autorizzata a perpetrare violenza nei confronti dei suoi cittadini. E questo non è vero né per la magistratura, né per la scienza , né per il Vaticano, né per la politica. Come ricorda Carlo Casonato, grande esperto di diritto costituzionale comparato e responsabile del Progetto Biodiritto "il diritto di disporre della propria vita esiste. E´ sancito dall´articolo 13 sulla libertà personale e dall´articolo 32 della Costituzione, secondo il quale nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario e anche dall´articolo 35 del Codice di Deontologia Medica che conferma che non è consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona.". Sappia quindi la gente che c´è un punto fermo : nessuno può violare questo diritto e c´è chi si impegna a farlo rispettare sempre e comunque nella sua sostanza. La confusione si crea piuttosto sulla forma e si alimenta delle definizioni e delle prese di posizione politiche e ideologiche. Sono mesi che dalle pagine dei giornali e dagli schermi di televisioni e computer ci ossessiona la figura di una donna nella dirompente bellezza dei suoi vent´anni: Eluana con il cappello nero, Eluana in tuta rossa fiammante sulla neve, Eluana che esce dalla doccia e ride. Eluana oggi non è quella delle foto. E´ una donna di quasi quarant´anni anni, senza sorriso, senza espressione negli occhi, senza vita di relazione, senza coscienza, senza controllo di un corpo, che è ormai un involucro in disfacimento. La sua vita meravigliosa si è spenta per sempre 16 anni fa.

Repubblica 18.12.08
Stefano Rodotà: "Atto del governo impugnabile"
"In grave pericolo il principio di legalità"
di vla.po.


Si proroga una guerriglia giuridica contraria al sentimento di umanità e di carità cristiana

ROMA - L´intervento di Sacconi? «È una grave rottura della legalità, che disconosce una sentenza passata in giudicato e preannuncia un´azione parlamentare volta a comprimere il diritto a decidere liberamente della propria vita». Stefano Rodotà non nasconde la sua preoccupazione. Il giurista legge negli ultimi atti della vicenda Englaro, «l´estrema debolezza del principio di laicità e la messa in discussione del rifiuto alle cure quale diritto della persona».
Professore, i medici devono dare retta ai giudici o ai ministri?
«Un fatto è certo: chiunque adempierà alla volontà di Eluana non commetterà un illecito. La sentenza della Cassazione ha infatti ricostruito con grande rigore quella che è la situazione vigente in Italia, con riferimento alla Costituzione, alla legge sul Servizio sanitario nazionale, alle sentenze precedenti e al codice di deontologia medica. Il tentativo di privare di significato vincolante normativo la Cassazione è già stato fatto col conflitto d´attribuzione sollevato dal Parlamento e respinto dalla Consulta. Ora, con una forzatura inaccettabile ci si riprova».
I giudici potrebbero allora impugnare l´atto di Sacconi?
«Certo, questa rottura della legalità legittima un nuovo conflitto d´attribuzione. Stavolta contro il governo. Ma così si finirebbe per prorogare questa guerriglia giuridica, contraria a un sentimento di carità cristiana e di umanità verso la famiglia Englaro».
Come ne esce da questa vicenda il principio di laicità?
«Questi atti hanno valore intimidatorio e denunciano un´estrema debolezza del principio di laicità. Ricordo un caso per tutti: la non partecipazione al voto del Pd quando in Parlamento si discusse del conflitto d´attribuzione. Il partito democratico non ebbe purtroppo il coraggio di votare contro».

Repubblica 18.12.08
Sul Partenone l'appello dei ragazzi greci "Studenti d'Europa protestate con noi"
Era il sogno di Panagulis, far sventolare da lassù una bandiera rossa
di Renato Caprile


Ciò che rimase un sogno per Alekos Panagulis, come racconta Oriana Fallaci nel suo Un uomo, è riuscito ieri a un pugno di liceali greci: far sventolare sull´Acropoli, il punto più alto e carico di storia di Atene, un mega striscione di 360 metri quadrati con la parola "resistenza" scritta in cinque lingue: greco, italiano, francese, inglese e tedesco. Resistenza al potere, che al tempo di Panagulis era nelle mani dei colonnelli e oggi in quelle di un governo di centro destra, forse corrotto e inefficiente, ma democraticamente eletto. Hanno fatto comunque in fretta a rimuovere quello striscione, Anzi a rimuoverli, perché ce n´era anche un altro che invitava oggi gli studenti europei a una giornata di protesta: per ora hanno risposto solo i coetanei francesi, in lotta contro una riforma che minaccia l´istruzione pubblica. La tempestività della polizia di Karamanlis non ha evitato però che l´originale iniziativa dei ragazzi greci facesse il giro del mondo. E si è adontato non poco il primo ministro, giudicando quell´azione «non scusabile» perché gravemente lesiva dell´immagine della Grecia.
Dopo dodici giorni di inferno urbano con decine di banche e centinaia di negozi assaltati con danni per oltre un miliardo di euro, la parte più ragionevole del movimento esce finalmente fuori. Non prende le distanze dai kukulofori, gli incappucciati, i duri e puri che hanno ingaggiato decine di scontri a colpi di molotov con la polizia, ma prova a coinvolgere gli studenti di altri paesi. Una richiesta di solidarietà che lascia ben sperare nell´evoluzione di una crisi che nei primi giorni aveva solo il sapore della vendetta per la morte di un ragazzo di quindici anni, Alexis Grigoropulos, ucciso da un poliziotto il 6 dicembre scorso.
I senza volto continuano a darci dentro anche se con meno intensità dei primi giorni. Ieri hanno lanciato bottiglie molotov contro un pullmino delle forze speciali, poi si sono concentrati fuori dal Palazzo di giustizia per bersagliare con sassi, uova e yogurth gli agenti in tenuta anti-sommossa. «Maiali, liberate i nostri compagni arrestati», lo slogan scandito per ore. Sono 300 finora quelli fermati.
Rischia molto Karamanlis, che per ora non si dimette ma si scusa per le bustarelle intascate da alcuni suoi ministri. Evidentemente non basta. Crisi economica ed arroganza delle forze dell´ordine fanno temere che gli studenti non molleranno facilmente. Oggi si replica ad Atene e Salonicco, ma si spera nel segno del "partito dello striscione".

il Riformista 18.12.08
L'incubo neonazista assale la Baviera
di Giovanni Boggero


Divieto. Quest'anno, nel land, le aggressioni sono aumentate del 75%, in controtendenza rispetto al trend nazionale. E c'è chi vuole mettere al bando l'estrema destra.

È un tranquillo sabato pomeriggio di dicembre quando Alois Mannichl, capo della polizia di Passau, una cittadina nel sud della Baviera, torna a casa dal lavoro. Passano pochi istanti e l'uomo si ritrova investito dalla furia omicida di un giovane sui 20 anni, che gli pianta un coltello nel petto, a pochi centimetri dal cuore. Prima di fuggire, lasciando il poliziotto in un lago di sangue, gli dice: «Adesso quei porci poliziotti di sinistra come te non potranno più calpestare le tombe dei nostri camerati».
Sono questi gli istanti più drammatici dell'ultima aggressione a sfondo neonazista avvenute in Germania nel 2008. Eppure questa, più delle altre, ha sconvolto l'intero Paese per l'insolita natura del bersaglio: non più feroci rappresaglie contro gli immigrati, ma una pugnalata inferta ad un servitore dello Stato.
All'indomani del tragico episodio, dal quale Mannichl è miracolosamente uscito indenne, la Baviera si è così scoperta più vulnerabile che mai. I dati parlano chiaro: nel solo anno in corso le aggressioni da parte di gruppi estremisti di destra nella regione di Monaco sono aumentate di circa il 75%. Un trend del tutto opposto a quello nazionale, dove gli scontri causati da cellule vicine all'Npd, il partito nazionaldemocratico, sono dati in progressivo calo.
Non è più soltanto l'Est, dunque, frustrato da una cronica arretratezza economica e sociale, ad essere terreno fertile per la propaganda neonazista. Ora l'allarme è giunto anche ad Ovest. Il neo-presidente della Baviera Seehofer (Csu) ha parlato di un attacco allo Stato di diritto, al quale occorrerà rispondere con fermezza, se il caso anche giocando la carta della messa fuori legge dell'Npd.
Il dibattito sulle sorti della minuscola formazione di estrema destra, che vanta una discreta rappresentanza in due parlamentini regionali, torna dunque ad infiammarsi. Tra i più scettici dell'ipotesi di messa al bando, i democristiani, che ricordano come già nel 2003 il Tribunale di Karlsruhe si fosse espresso negativamente sulla questione. Inoltre un mero divieto non sarebbe risolutivo, potendo pur sempre la galassia neonazista prosperare sotto nuove forme.
Dal canto suo, il Ministro della Giustizia Zypries (Spd) ha giudicato insufficienti gli elementi a carico dell'Npd per poter instaurare un procedimento. Nel suo stesso partito, tuttavia, sono molti a pensarla in maniera diversa, chiedendo a gran voce il rispetto della legge che bolla come incostituzionali i partiti che minacciano le istituzioni democratiche. «I partiti in Germania collegano la società allo Stato e proprio per questo devono essere sottoposti ad un controllo più incisivo», dice al Riformista il professor Jörg Luther, docente di diritto pubblico presso l'Università del Piemonte orientale. Resta tuttavia ancora da chiarire se tra i gravi fatti di Passau e l'Npd possa stabilirsi un nesso inequivocabile. Il rischio è infatti che la connessione non vi sia e il ricorso si traduca in un nuovo fallimento.

il Riformista 18.12.08
Il comunismo italo-russo ha "incenerito" i Gramsci
di Andrea Di Consoli


GIANCARLO LEHNER. Il libro mette sotto accusa Togliatti, il Pci e quanti hanno espropriato dei diritti e di una vera speranza di salvezza il filosofo e la sua famiglia.

«Lingue di legno» definì Giancarlo Lehner (giornalista, storico e parlamentare del Pdl) i comunisti italiani in Russia; i comunisti, s'intende, che stavano "lassù", ai vertici del Comintern (gli stalinisti italiani). È da un decennio che Lehner si è dato, in qualità di storico militante, il compito di "riscattare" le vittime comuniste italiane della carneficina stalinista; pure, il compito di "accusare" le tante connivenze, reticenze e "doppiezze" degli stalinisti di casa nostra.
Tutto questo Lehner lo ha fatto da socialista critico, da "neo-trotzkista"; o, se si preferisce, da socialista di destra. Il suo nuovo libro è intitolato La famiglia Gramsci in Russia (Mondadori, 366 pagine, 20 euro), ed è diviso in due parti: nella prima Lehner ricostruisce la triste vicenda umana, politica ed editoriale di "Nino" Gramsci; nella seconda sono pubblicati gli atroci diari di Margarita e Olga Gramsci.
È un libro che fa male, perché il corpo di Gramsci è stato divorato non soltanto dalle impossibili penurie dell'infanzia (sin dall'età di quattro anni il piccolo Antonio soffrì di una grave forma di tubercolosi ossea, nonché di denutrizione), ma dalla violenza fascista, e dalla più sottile (ma non meno criminale) violenza comunista (Pci-Pcus). Come disse Benito Mussolini, «la realtà è che Gramsci, dopo un breve periodo di permanenza al reclusorio, ebbe la concessione di vivere in cliniche semiprivate o completamente private. Ed è morto di malattia non di piombo, come succede ai generali, ai diplomatici, ai gerarchi comunisti di Russia, quando dissentono - anche un poco - da Stalin come sarebbe accaduto al Gramsci stesso se fosse andato a Mosca». Nessuno sconto a Mussolini, è ovvio, ma nessuno sconto neanche a Togliatti, al "compagno Ercoli", responsabile di numerose (e colpevoli) ambiguità nei confronti di Gramsci (fece di tutto per liberarlo? Quanti erano davvero i Quaderni del carcere? 30? 34?). Lehner parte dalla fine, dal 23 luglio del 2007, quando a Mosca muore, in piena povertà, e senza assistenza medica, Giuliano Gramsci, figlio di Antonio. Com'è possibile che muoia in povertà "l'erede" del più grande martire comunista italiano? E il Partito? E la Fondazione Gramsci? E i diritti d'autore di Gramsci, anzitutto grande scrittore, letto e tradotto in tutto il mondo? Ebbene, Lehner ricostruisce tutta la vicenda, informandoci che i diritti d'autore di Gramsci furono a suo tempo "espropriati" da Togliatti ai legittimi eredi a favore del Pci. E gli eredi? Senza una lira, né per il passato né per il presente.
Questa triste vicenda è solo l'ultima beffa di un calvario che inizia nel 1926 con l'arresto di Gramsci. Scrive Lehner: «Gramsci libero sarebbe stato per Togliatti, Grieco e l'intera dirigenza del Pci una micidiale mina vagante. Il modo migliore per mantenere lo status quo carcerario consisteva nel far montare rumorosamente a livello propagandistico il caso Gramsci, quando sarebbe stato opportuno il silenzio». Lehner ricostruisce con dichiarazioni e testimonianze ufficiali il sempre crescente divario tra "l'eresia" gramsciana e l'ortodossia stalinista di Togliatti. Senza, beninteso, nascondersi la propria personale distanza da Gramsci, in specie dal "primo", quello più moralista; e senza farne un santo di comodo. Anzi, dichiarandosi anzitutto ammiratore della prosa ellittica e obliqua e spiraliforme di Gramsci. Né ci nasconde la rabbia per le sofferenze patite della "famiglia Gramsci", vittima delle bugie e delle reticenze del Pci.
Leggere questo libro significa vaccinarsi ulteriormente contro il comunismo italiano di fede russa; significa ripercorrere l'altrettanto vergognosa operazione di censura a cui i Quaderni furono sottoposti dallo stesso Togliatti; significa rileggere la vicenda umana di un grande intellettuale, il cui vitto carcerario «veniva innaffiato con gli sputi di due scopini, uno dei quali era tubercoloso».

Corriere della Sera 18.12.08
Religioni miccia dei popoli
di Luciano Canfora


Il sofista Crizia, in un dramma satiresco che qualcuno attribuiva invece ad Euripide, sviluppò la teoria, poi divenuta celebre, secondo cui gli dèi furono inventati per tenere a freno gli uomini: per costringerli a comportamenti morali, o meglio a non delinquere. L'ipotesi di Crizia contiene non trascurabili elementi di verità. La conferma della sua fondatezza viene per esempio dall'esperienza romana. Polibio, ammiratore del sistema romano, scrisse: «Secondo un proposito preciso gli antichi hanno inculcato nelle masse le nozioni sugli dèi e l'al di là». Tali idee — notava il grande storico — «tengono a freno le violente passioni delle masse». E concludeva: «Sconsiderati i moderni che cercano di disperdere queste illusioni». A ragion veduta perciò fu detto, da un moderno non conformista, che le religioni sono «l'oppio dei popoli». Ma il tempo nostro ci mostra uno spettacolo ben più allarmante: le religioni scatenano ormai la reciproca violenza dei popoli. Non più oppio ma miccia.

Corriere della Sera 18.12.08
Le imprese di Cheng Ho su History Channel
Il falso mito del buon cinese
di Giuseppe Galasso


Quei viaggi servivano alla politica di potenza

Il programma «La flotta dei tesori» del canale televisivo History Channel tratta della marina cinese sotto gli imperatori Ming (uso la vecchia grafia) Yong-lo e Hsüan-tê. La flotta, in varii viaggi fra il 1405 e il 1430, al comando dell'eunuco Cheng Ho, solcò il Pacifico e l'Oceano Indiano fino al Golfo Persico, al Mar Rosso e all'Africa orientale. Si afferma che le navi cinesi erano più grandi e di tecnica più avanzata di quelle europee. Si esaltano i risultati dei viaggi e lo spirito che li ispirava, non, come quello europeo, di conquista e sfruttamento, bensì di commercio e conoscenza. Poi, si dice, su una linea di nazionalismo rivendicazionista oggi più viva che mai, la Cina rinunciò al mare (ma aveva, si dice, già scoperto anche l'America), e tutta la storia del mondo ne risentì.
Le imprese navali cinesi sono, però, già ben note. Questo, dunque, non è affatto in discussione. Fa, invece, riflettere il modo in cui se ne parla: ossia in un confronto fra storia cinese e storia europea, in cui i cinesi, più avanzati in tutto, più umani e tolleranti, fanno la parte buona e brillante, gli europei la parte cattiva e opaca.
Che sia così si può dubitare, però, già per ciò che dice lo stesso Hystory Channel sul compito di Cheng Ho, ossia di far riconoscere dai sovrani di altri Paesi la superiorità cinese e ottenerne un tributo. Nessun disinteresse, quindi. Quei viaggi servivano alla politica di potenza, per cui la Cina impose la sua egemonia nell'Estremo Oriente, conquistò varii Paesi e rese altri suoi tributari (anche il Giappone). E si sa che vi si rinunciò perché li si ritenne superflui per la propria potenza continentale, costosissimi e senza utilità economica, benché aprissero la via al commercio e all'emigrazione cinese in Asia sud-orientale. Insomma, come sempre e ovunque, una «normale» linea di espansione economica e di ampliamento di una sfera di influenza politica. Se esibizione della forza e diplomazia non bastavano, puntuale era il ricorso alle armi.
Così, del resto, i cinesi facevano da sempre, costruendo una delle civiltà più importanti e di successo, e trasformando le loro etnie originarie in un grande popolo imperiale, che ha sottomesso e assimilato per lingua e cultura quelli di altra etnia e cultura in uno spazio di ampiezza continentale. E così hanno fatto tutti i popoli imperiali antichi e moderni. Che dire quando si sente parlare della tolleranza, ad esempio, di arabi o turchi? Gli arabi in breve tempo imposero il loro dominio, la loro lingua e la loro religione in un'area vastissima a popoli di grande civiltà e di tutt'altra lingua e religione. Lo fecero distribuendo fiori e ramoscelli di olivo? Quanto ai turchi, chiedetelo ai popoli balcanici o agli armeni. E che direbbero i popoli vittime degli aztechi per i sacrifici umani sull'ingenua mitezza dei loro dominatori, contrapposta alla sanguinaria furia dei conquistatori spagnoli? Si potrebbe continuare a volontà, ma basta riconoscere che Adamo ed Eva, Caino e Abele sono progenitori comuni di tutti gli uomini.
Altra questione è perché solo l'Europa sia giunta alla rivoluzione della modernità. Perché la modernità non è nata nel mondo ellenistico-romano o in Cina, visto il loro grado di sviluppo? La loro è una «storia spezzata», un destino interrotto?
Il problema, in sé, è inconsistente. La storia condiziona il presente, ma trarne il futuro è un altro affare, e non ha nulla di fatale o di automatico. Tutto, progresso o arresto o regresso, è sempre in gioco. La modernità europea non è stata un caso, né la piratesca o fortunata appropriazione di qualcosa che stava lì, dietro l'angolo, in attesa di qualcuno. Il grande problema del «perché non prima o altrove?» ha una risposta banale: «Perché così non fu». La modernità europea è nata da uno spirito, che altrove o prima non vi fu perché… non vi fu. Dov'è il mistero? Vi sono ragioni speciali per cui altri non approdarono alla modernità? Non lo si volle, non vi si pensò, non se ne sentì il bisogno, non se ne vide la possibilità. Non basta?
Basta e avanza. Si noti, semmai, che la modernità europea è stata quella che si sa. Una modernità ellenistico-romana o cinese sarebbe stata diversa. Non era scritto né che la modernità vi fosse, né quale dovesse essere. Del resto, oggi gli europei appaiono seduti sul loro passato (peraltro, spesso e molto rinnegato), superati o superabili da altri, senza un'ansia di proseguire la modernità o di andar oltre pari a quella che ebbero nel costruirla. Ma anche in ciò non vi è alcuna storia spezzata o destino interrotto. C'è solo la storia, una storia.

l’Unità 18.12.08
Il regalo della Gelmini per Natale: i maestri faranno i supplenti
di Maristella Iervasi


La Gelmini usa i docenti come tappabuchi: quelli di ruolo faranno i supplenti. Via il modulo, stop alla compresenza. Le classi a tempo pieno non aumentano. Seconda lingua alle medie ma solo per gli italiani.
Il pacco di Natale della Gelmini alle famiglie e agli insegnanti è pronto. Con i regolamenti applicativi sul primo ciclo (infanzia, elementari e medie) e la riorganizzazione della rete scolastica che oggi il Consiglio dei ministri si appresta ad approvare, si assesta un duro colpo alla scuola: salta il modello pedagogico del modulo, il tempo pieno resta ma solo come quantità oraria: ci sarà un maestro al mattino ed uno al pomeriggio. Stop alla compresenza del team in tutte le classi, dalla prima alla quinta. Addirittura, i docenti di ruolo che per la cura dimagrante all’istruzione imposta da Tremonti - 8 miliardi di tagli in tre anni - fossero in esubero, potrebbero finire a fare i supplenti con un massimo di 3 scuole di riferimento nella provincia. In pratica sarebbero jolly senza confini d’insegnamento: potrebbero cioè (ri)tornare alla scuola dell’infanzia o impiegati per il sostegno. Maria Coscia, responsabile scuola Pd: «Hanno dovuto cedere sull’opzione delle famiglie ma per far quadrare i conti dei tagli stanno distruggendo la primaria. Un’imposizione di nuove regole fuori dal verbale consegnato ai sindacati e che esulano persino da quando scritto nel piano di riforma». Mimmo Pantaleo, Flc-Cgil: «Attacco feroce, altro che valorizzazione della scuola».
IL VERTICE ieri con Tremonti. Il Miur è riuscita a convincere il Tesoro che l’obiettivo del risparmio di 42.105 posti docente per l’anno scolastico 2009/2010, di cui 10mila alla primaria, è realizzabile, proprio facendo saltare la compresenza in tutte le classi. Con il maestro unico o prevalente a 24 ore solo nelle prime classi (stimate in 19.700) si risparmierebbero 7-8mila posti d’insegnante. Con la scuola a 27 ore, altri 5mila. E se le famiglie scegliessero il modello a 30 ore il risparmio salirebbe a 2.300 posti docente. Le cattedre a 18 ore alle medie e superiori e così via. Ma quel che sfugge alla Gelmini maestra unica è il grande caos che tutto questo provocherà fin da subito e per i prossimi anni nelle scuole.
La continuità didattica verrebbe messa a rischio mentre verrebbe scombinata l’organizzazione. Se prima nel modulo c’erano 3 insegnanti che ruotavano su 2 classi, ora ci sarebbero 6 ore che non si potranno più fare. E così a catena, la questione dell’organico con la pesante perdita dei posti e le “regole” sulla mobilità da rispettare. Senza contare i problemi legati alla disomogeneità: il Sud con un alto numero di personale scolastico a tempo indeterminato, il Nord e il Centro «butteranno» fuori dalla scuola i precari. Una gestione-pasticcio. Dal 2010-2011 inoltre si aprirebbe un altro giro di valzer: dovrebbero aumentare gli alunni per classe e il maestro unico verrebbe esteso a regime nelle classi successive alle prime. E scatterebbe anche la riforma dei licei e degli istituti tecnici.
TEMPO PIENO La protesta dell’Onda, del sindacato e del Pd, ha costretto la Gelmini a confermare due docenti per classe. Ma altro che tempo pieno «incrementato del 50%», come ha dichiarato Berlusconi. Restano gli stessi posti dell’anno scolastico in corso, ma con una differenza sostanziale: tempo scuola a specchio e non tempo pieno. Fine delle uscite didattiche e laboratori.
MOBILITÀ I docenti di ruolo in esubero verranno utilizzati «prioritariamente» nell’ambito della scuola di titolarità e in subordine in ambito provinciale «su posto o frazione di posto relativo ad altro insegnamento, anche in diverso grado di istruzione», se in possesso di abilitazione o titolo di studio.
REGIONI Potrebbero dare battaglia sull’erogazione dei servizi. I plessi della scuola dell’infanzia sono ammessi solo con almeno 30 bimbi iscritti; per la primaria 50; nei centri urbani 2 corsi completi.

l’Unità 18.12.08
«Eccidi armeni. Noi turchi dobbiamo chiedere scusa»


Assieme ai docenti universitari Ahmet Insel, Baskin Oran, Cengiz Aktar, lo scrittore Ali Bayramoglu ha diffuso via Internet un manifesto per invitare i concittadini a chiedere finalmente scusa al popolo armeno per i massacri di un secolo fa. Al telefono da Istanbul spiega il significato dell’iniziativa.
Perché questo appello, signor Bayramoglu, e perché proprio ora?
«È la naturale evoluzione di un processo di democratizzazione e avvicinamento all’Europa, in corso da alcuni anni. I cambiamenti politici e sociali sono sfociati in una crisi di identità sociale e nazionale. La democratizzazione non significa solo smilitarizzazione dello Stato o allargamento dei campi di libertà. Comporta anche una sorta di investigazione della società su se stessa. Democratici o nazionalisti, abbiamo cominciato a discutere della nostra storia e della nostra identità, rispetto alle quali il genocidio armeno del 1915 ha un posto importante. Il dibattito è accanito e fa maturare la ricerca della nostra identità. L’appello è scaturito spontaneamente. Si è pensato che era il momento di fare un passo ulteriore. L’idea di lanciare una campagna era nata comunque dopo l’assassinio del nostro amico Hrant Dink (giornalista turco di origine armena ucciso a Istanbul il 19 gennaio 2007)».
Parlate di catastrofe, non di genocidio. Perché?
«Il nostro scopo è che tutti i turchi, tutti coloro che vivono nel territorio anatolico, trovino in quel testo la possibilità di esprimere la loro coscienza. Sappiamo che alcuni rifiutano di definire genocidio gli eventi del 1915. Preferiscono parlare di massacri. Per noi questo è poco importante. Quel che conta è che davanti a quella tragedia la coscienza di ciascuno non taccia. Non ci interessa formulare un verdetto. Nel testo compaiono vocaboli come catastrofe, dolore, coscienza, perdono. Facciamo appello al senso di umanità in maniera che tutti i turchi possano riconoscervisi. Se parli di genocidio, oggi la discussione si blocca, perché entrano in gioco questioni che riguardano lo Stato e il mondo politico. Noi abbiamo voluto invece che l’appello avesse un carattere civile, personale. Se in futuro lo Stato si scuserà con gli armeni potrà farlo a partire da una sorta di mandato sociale che con la nostra iniziativa avremmo contribuito a formare. Sarà la società a chiedere allo Stato di scusarsi. La nostra campagna serve a preparare quella base di legittimità».
Per il premier Erdogan la vostra iniziativa servirà solo a creare tensioni. Come spiega questo atteggiamento?
«Il premier sbaglia. Ripete i soliti argomenti: campagna pericolosa, contraria all’interesse nazionale, etc. Per il capo di Stato Gul invece essa rientra nella libertà d’espressione. Il suo è un approccio molto positivo. Ha preso le distanze certo, ma è giusto, perché non è un affare della presidenza della Repubblica, è un movimento civile. Comunque il dibattito andrà avanti, malgrado Erdogan, e speriamo che anche lui cambi idea. Del resto siamo consapevoli che la ricerca di democratizzazione avviene in un contesto conflittuale».
La Germania ha fatto i conti con il nazismo. Perché in Turchia si fatica ad ammettere colpe riguardanti un’epoca tramontata, quella ottomana?
«L’identità turca ha una sua specificità. Si è formata attraverso la migrazione di popoli nomadi ed una standardizzazione religiosa ha fatto da supporto alla nascita dello Stato-nazione. La memoria delle nostre origini è strettamente connessa alle sofferenze subite o inflitte, ma molti ricordano solo le prime. Se si parla dei fatti del 1915, viene subito evocata la presenza di armeni fra le truppe russe che occuparono le terre ottomane. Con il nostro messaggio vogliamo stimolare una riflessione più approfondita. Parte dei concittadini aderisce, parte reagisce negativamente. Ma il cambiamento andrà avanti. In pochi giorni ai 300 firmatari iniziali se ne sono già aggiunti 15mila. Se in un anno arriveremo a 200-250mila sarà un successo enorme. Qualcuno ci criticherà perché non compare la parola genocidio nel documento, o perché non chiamiamo in causa lo Stato turco. Pazienza. Credo che abbiamo fatto una cosa importante».

l’Unità 18.12.08
Castelli di carta
Il futuro è solo web e il Pulitzer si adegua
di Marina Mastroluca


Tagli, vendite in calo e un futuro sul web. Il caso del New York Times che ha ipotecato il grattacielo
della sede non è fenomeno isolato. Il declino dei giornali è un fatto come la progressiva crescita
dell’on line. Resterà solo la free press? La profezia di Meyer: nel 2043 stamperemo le ultime copie

Verso il buio. Nelle previsioni a partire dal 2012 alcune testate chiuderanno il formato su carta
La progressiva crescita dell’on line si riflette anche sulla pubblicità: in un anno è aumentata del 32,45%
E la leadership è troppo vecchia per gestire un cambiamento che non è stata capace di prevedere

Non è mai buon segno quando una grande casata porta al banco dei pegni i gioielli di famiglia. Così, quando pochi giorni fa la famiglia Sulzberger ha annunciato la decisione di ipotecare il grattacielo che ospita il New York Times - 52 piani disegnati da Renzo Piano e inaugurati appena un anno fa - il segnale arrivato all’intero comparto è stato quello di un pollice verso. Crisi economica e pubblicità in calo, hanno spiegato i giornali, il New York Times vittima della recessione come gli operai della General Motors. Perché, è noto, quando l’economia non gira si fermano anche le rotative, le vendite calano. Nel 2008 il New York Times ha perso il 3,58% delle copie. Il Los Angeles Times è sceso del 5,20% e il Chigaco Tribune del 7,75%, l’8 dicembre scorso il gruppo Tribune ha avviato le pratiche per la bancarotta.
Non è però solo la crisi di questi mesi. Negli ultimi cinque anni la diffusione dei giornali cartacei Usa è calata dell’8,05%, oltre il 3% solo nel 2007. Con punte più o meno aspre, il declino dei quotidiani tradizionali sembra ormai un fatto incontrovertibile, la crisi ha solo dato una mano. E la stessa tendenza si registra in Europa, soprattutto nel versante occidentale. La flessione è meno drammatica, ma ugualmente costante: meno 5,9 per cento di copie dal 2003, un balzo all’indietro del 2,7% solo l’anno scorso, corretto in un segno più solo dalla ricca presenza della stampa gratuita. Nella Vecchia Europa solo i quotidiani tedeschi, con le loro colonne scritte fitte fitte e un sistema di abbonamenti che copre il 90% del venduto, riescono a resistere all’erosione delle copie, il lungo autunno dei fogli di giornale.
È un autunno tutto occidentale, perché a guardare le cifre del rapporto annuale della World Association of Newspaper, la stampa tradizionale non va poi così male. Ogni giorno 532 milioni di persone comprano un quotidiano, nel 2003 erano 486 milioni, ma il grosso della torta è lontano da noi, in Asia: 276 milioni di giornali vengono venduti tra Cina, India e Giappone. La mappa della diffusione della stampa quasi coincide con quella dei Paesi a maggiore crescita economica - e spesso con quella della minore penetrazione delle nuove tecnologie che stanno cambiando il sistema dell’informazione. All’opposto, il fenomeno Obama è una conferma di quanto idee e notizie scorrano ormai - e ben più rapidamente - in canali diversi dalla stampa cartacea. E lo conferma anche la decisione di aprire dal prossimo anno il premio Pulitzer agli articoli pubblicati esclusivamente sul web. «Un’evoluzione logica».
Il declino dei giornali di carta in Occidente è un fatto, come lo è la progressiva crescita dell’on line, che si riflette anche nella crescita esponenziale della pubblicità via web, più 32,45% in un solo anno a livello globale. La pubblicità, vitale per l’editoria, aumenta anche sulla carta stampata - in Europa più 2% nel 2007 - eppure ai giornali non basta. Nell’aprile scorso ha fatto notizia lo sciopero dei giornalisti di Le Monde, all’annuncio del taglio di 130 posti di lavoro, dopo che nel 2005 ne erano già stati cancellati 200 tra tipografia e amministrazione. Ma è un decennio che si taglia. Nel Regno Unito, dove la contrazione delle vendite ha superato il 10% in cinque anni, persino il Financial Times, unica testata a guadagnare terreno, ha dovuto tagliare 50 posti di lavoro.
Tagli alle redazioni e ai costi. Formati ridotti o ridottissimi, uso del colore - più per offrire pubblicità appetibili, che altro - tante foto e testi ridimensionati pensando ad un lettore indaffarato. Giornali supermarket pieni di gadget. Le ricette dell’editoria europea per frenare la disfatta sono andate in questa direzione. Ha cominciato il britannico Independent a rimpicciolire le sue pagine nel 2003 e gli altri sono andati a seguire. Un modo per strizzare l’occhio ai pendolari, rendendo più agevole la lettura su un treno affollato, tagliando al tempo stesso le spese della carta. Formule che in qualche caso hanno rallentato il declino, ma senza vere inversioni di tendenza. Perché, dicono le statistiche, i giornali non arrivano alle fasce più giovani del mercato. I lettori tradizionali sfiorano la cinquantina e per forza di cose andranno scemando nel tempo. Il New York Times ormai da tempo ha più lettori on line che su carta, 1,5 milioni contro 1 milione.
I giovani leggono, ma sempre di meno su carta, preferiscono l’informazione parcellizzata delle e-mail e degli sms. E più ancora fanno affidamento al tam tam dei blog, un modello di informazione dal basso che scavalca l’informazione codificata dei giornali o dei tg ed è percepita come più affidabile. Il giornale lo scorrono sul web, anche se uno studio statunitense mostra che l’81% dei lettori on line di un quotidiano tende a leggere pure la versione cartacea, magari occasionalmente, senza spendere: le generazioni tecnologiche il giornale lo vogliono gratis e veloce.
È la logica che sta anche dietro al fenomeno della free press, che in Europa ha visto una crescita travolgente. Tra i sei quotidiani gratuiti più diffusi al mondo, cinque sono europei e di questi tre sono spagnoli, 1 italiano (Leggo). Gratuiti e veloci, con informazioni in pillole che si riesce a mandare giù prima di scendere dal metrò. Venti minuti al massimo. È quanto secondo il quotidiano giapponese Aashi Shimbun - forte di 12 milioni di copie vendute ogni giorno - il lettore medio è disposto a dedicare alla lettura delle notizie. Venti minuti è anche il nome della testata free press che dilaga in Spagna e in Francia. Su carta resterà solo la free press?
2043. Philip Meyer, docente di giornalismo all’Università della North Carolina, solo quattro anni fa indicava questa data come l’anno in cui sarebbe stata stampata l’ultima copia del New York Times. Negli Usa sono convinti che il processo sia irreversibile. All’American Press Institute poche settimane fa i leader dei principali gruppi editoriali si sono riuniti a porte chiuse per ragionare sul trend, quasi una terapia di gruppo. Il succo è che la leadership dei giornali è troppo vecchia per gestire un cambiamento che non riesce ad immaginare. L’Europa appare più timida nel cercare soluzioni. E chissà che alla fine l’accelerazione non venga da una valutazione di impatto ambientale: quanto costa in Co2 produrre e distribuire un primitivo giornale di carta?

l’Unità 18.12.08
In Italia si legge ma non si compra


Se Atene piange Sparta non ride. Se negli Stati Uniti i quotidiani stanno attraversando un momento di difficoltà strutturale, in Italia le cose non vanno meglio. La congiuntura economica, una scarsa propensione all’acquisto, una distorta raccolta pubblicitaria, tutta orientata sulle televisioni, fanno in modo che nel nostro paese vendite e pubblicità rimangano al palo. Il dato numerico, d’altronde, parla chiaro. Secondo la Federazione degli editori, che ha monitorato 58 testate, ad ottobre tra abbonati ed edicole si sono vendute in media 4 milioni 700mila copie al giorno, e cioè il 3,7 per cento in meno rispetto all’ottobre del 2007 (quando le copie vendute sono state 4 milioni e 900mila). Se si va indietro nel tempo e si arriva al 2000 si scopre, poi, che la flessione è stata ancora più marcata: oltre il 9%.
Eppure, in base a quanto raccolto dal Censis, in Italia i livelli di lettura non sono affatto depressi. L’ultimo studio ha messo in evidenza come nel 2007 il 79% della popolazione sopra i 14 anni sia entrato in contatto con l’informazione quotidiana. Tra questi il 67% legge un giornale a pagamento, il 34,7% la free press, il 21,1% legge notizie fornite in Internet. In valori assoluti si tratta di 40 milioni di persone totali. Questo perché, sempre secondo la Fieg, i giornali restano sempre il principale strumento di democrazia a disposizione dei cittadini per capire gli eventi e orientarsi.
Nel nostro paese quindi si legge ma non si compra. Un po’ perché c’è una generale contrazione dei livelli di reddito personale , quindi, della relativa capacità di spesa. Pesano poi anche condizioni sociali. Se al nord, che presenta livelli di reddito più alti, le copie vendute sono 114 ogni mille abitanti, e al centro 104, al sud queste si riducono a 60. Inoltre l’Italia sconta anche un pessimo circuito distributivo imperniato essenzialmente sulle edicole. Se vuoi un giornale, alle volte, devi camminare e non poco. E questo ha decretato anche il successo della free press. Che spesso te le trovi al bar sotto casa. Nel 2007 in Italia le 7 principali testate hanno raggiunto le 4 milioni di copie distribuite, mentre le principali tre (Leggo, City, Metro) sono state «viste», secondo l’ Audipress, da oltre 5 milioni di persone al giorno.
Se i livelli di lettura sono così alti la pubblicità non decolla. Se nel 2000 i ricavi pubblicitari rappresentavano il 58% del fatturato editoriale nel 2007 rappresentano il 45%. «E il 2008 sarà ancora peggiore» spiega Paolo Duranti direttore Nielsen Media Sud Europa. Per i quotidiani si prevede una flessione nei ricavi pubblicitari del 5%. «Il fatto è che in Italia - spiega ancora Duranti - la pubblicità dipende da pochi settori merceologici: auto, abbigliamento e finanza». Che non stanno proprio in salute. «Per risparmiare si tende a sostituire la pubblicità nei quotidiani con quella in Internet». Che, alle aziende, costa meno, ma agli editori fa contrarre il giro di affari. E se nel 2006 su 60 imprese editrici 22 erano in perdita per il futuro il numero potrebbe aumentare.

mercoledì 17 dicembre 2008

il Riformista 17.12.08
Dimezzato, smarrito, inquisito
Un partito alla sbarra
Cavalcare la sconfitta. Il segretario del Pd usa la débacle abruzzese per lanciare una rivoluzione interna e azzerare gli avversari, ma è il primo a essere sotto processo. Nuovi arresti a Pescara e Potenza


«Ogni volta che il vecchio si aggrappa ai nostri piedi il Pd paga un prezzo». Walter Veltroni si prepara a cavalcare la sconfitta abruzzese e a lanciare la «fase tre» del Partito democratico. L'appuntamento sarà alla direzione di venerdì, in cui il segretario - come gli sta suggerendo Goffredo Bettini - potrebbe decidere di mettere ai voti la sua relazione.
Dentro il Pd tiene banco il tema della rottura dell'alleanza con Antonio Di Pietro. Giorgio Tonini, intervistato dal Riformista, replica: «Non è questo il problema. Il Pd può contare solo sulle sue forze e deve scegliere di correre da solo. Dobbiamo cominciare una traversata nel deserto, che può anche rivelarsi lunga e faticosa, ma che rappresenta la nostra unica scelta».
L'ostacolo più grosso per il Pd sono le inchieste giudiziarie. Avanza l'inchiesta della procura di Pescara, che ha proceduto agli arresti domiciliari del sindaco D'Alfonso e che ora indaga anche sul numero uno di Air One Carlo Toto. Nell'ordinanza prodotta dal gip spuntano tangenti, benefit, contributi elettorali non dichiarati e persino un aereo privato.
Scoppia anche il caso Basilicata. In manette l'amministratore delegato di Total, Lionel Levha, coinvolto anche il deputato democrat Salvatore Margiotta, che si è subito autosospeso dal partito.

Repubblica 17.12.08
Senza indulgenze
di Ezio Mauro


La richiesta d´arresto di un deputato in Basilicata, per presunte tangenti legate al petrolio, l´arresto del sindaco di Pescara per il sospetto di tangenti sugli appalti. Dopo i casi di Napoli e Firenze, sul Pd l´onda giudiziaria cresce e anche se bisogna ripetere come sempre che dobbiamo attendere i risultati dell´inchiesta prima di formulare giudizi, questo è il momento di afferrare quel partito per i capelli, prima che affondi.
Nessuno può pensare, onestamente, che il Pd sia un rifugio di faccendieri. Ma non c´è alcun dubbio che se nel Paese il problema della corruzione è riesploso, nel confine critico tra la politica e gli affari, i Democratici si mostrano oggi vulnerabili e permeabili al malcostume nella loro periferia assessorile, mentre le speranze e le attese che accompagnarono la nascita del Pd erano ben diverse.
Scricchiolano entrambi gli elementi della coppia con cui il Pd presentò la sua novità: la moralità pubblica, l´innovazione politica. È difficile infatti non legare le notizie che arrivano dalle Procure con la débacle elettorale in Abruzzo, e soprattutto con l´astensionismo di sinistra che l´ha preparata, dando spazio solo a Di Pietro, ambiguo alleato-concorrente.
L´unico rimedio è uno strappo di innovazione che faccia piazza pulita di vecchi apparati e di metodi ancora più vecchi, renda il partito trasparente, contendibile e aperto a forze davvero nuove nella società, col rischio necessario del ricambio. Per fare questo, serve una classe dirigente coraggiosa e consapevole del pericolo mortale che corre, perché indulgenze e ritardi oggi ? quando il Paese in crisi avrebbe bisogno di un pensiero e di una politica davvero alternativi alla destra ? sono peggio che errori: sono colpe.

Corriere della Sera 17.12.08
Pechino festeggia i 30 anni delle riforme di Deng e vuol riconoscere «un ruolo più ampio» alle formazioni politiche
Le cifre Il partito comunista ha oltre 73 milioni di membri, nelle altre organizzazioni gli iscritti sono da 20 mila a 181 mila
Cina, la riscoperta dei partiti
Quelli legali sono 8. Riconoscono il ruolo guida del Pcc Libro bianco del governo per il «rilancio del pluralismo»
di Marco Del Corona


PECHINO — Li chiamano «vasi da fiori». Decorano l'arredo monocromatico della Repubblica Popolare: è un modo per dire che accanto al Partito comunista ci sono anche loro, gli otto piccoli partiti democratici legali. Tutti insieme sembrano mostrare che quello di Pechino, formalmente, non è un regime a partito unico, anche se si tratta di gruppi che riconoscono – come da Costituzione – il ruolo guida del Pcc.
A trent'anni dall'avvio delle riforme economiche di Deng Xiaoping, ora la Cina ha deciso di dare una spolverata ai suoi vasi, consapevole che potrebbero tornare utili, almeno in termini di immagine. E con un impulso insieme propagandistico e politico sta spingendo perché il ruolo dei partiti democratici venga allargato e soprattutto conosciuto e riconosciuto.
I loro nomi rimandano a un'altra era: Comitato rivoluzionario del Kuomintang, Associazione per la promozione della democrazia, Società Jiu San, Partito dei contadini e degli operai… Restituiscono — come congelate nel tempo — la Cina degli anni Trenta e Quaranta, la rivalità mortale che divideva i comunisti di Mao Zedong e i nazionalisti di Chang Kai-shek, l'epoca della resistenza contro gli invasori giapponesi, la guerra civile. I partitini erano «terze forze» intermedie alle due più grandi, sono stati fondati allora e — questo spiega la loro sopravvivenza nel sistema cinese — tutti finirono col sostenere il Pcc, affiancandolo in un fronte unito sino alla fondazione della Repubblica Popolare e oltre.
Nella primavera dell'anno scorso, per la prima volta dal 1972 è stato affidato un ministero (Scienza e Tecnologia) a un esponente di una formazione democratica, Wan Gang del Partito Zhi Gong. In novembre, il governo cinese ha pubblicato il primo «libro bianco » sul ruolo dei partitini, per mettere ordine in una serie di aggiustamenti legislativi. Ora che Pechino festeggia l'«apertura» di Deng (18 dicembre 1978), vi abbina il rilancio del pluralismo «con caratteristiche cinesi».
«Dall'ultimo congresso del Pcc, se si leggono bene le dichiarazioni finali, è emerso che all'evoluzione della democrazia cinese dovrebbero corrispondere una crescita economica e sociale e un incremento della partecipazione popolare alla politica. Per questo va riconosciuto ai partiti democratici un ruolo più ampio»: Li Xiaoning dirige il centro studi sul «fronte unito» all'Accademia centrale del socialismo e sottolinea che la consultazione tra il Partito comunista e le forze minori funziona, anzi «è uno dei quattro cardini del nostro sistema politico». Ha partecipato alla stesura del libro bianco, «sei mesi di lavoro», e Li al Corriere spiega che «è una peculiarità tutta cinese che i partiti politici collaborino ordinatamente al bene comune sotto la guida del Pcc anziché farsi concorrenza, come in Occidente».
Sono forze minime rispetto al Partito comunista e ai suoi 73 milioni di membri. La maggiore, la Lega democratica cinese, conta 181 mila iscritti; la più piccola, la Lega autonoma democratica di Taiwan, supera di poco i 20 mila. Il luogo deputato a far sentire la loro voce è l'Assemblea consultiva, l'organo che costituì il primo parlamento della Repubblica Popolare, mentre oggi è stato quasi del tutto svuotato di poteri reali dall'Assemblea nazionale. Inoltre, i leader comunisti convocano i «compagni democratici» (e i senza partito) per ordinare indagini su temi scientifici o economici, per sondare gli umori delle élite intellettuali: Cheng Siwei dell'Associazione per la costruzione democratica, ad esempio, ricorda le sue proposte fiscali. Questo perché gli otto partiti pescano da categorie specifiche della società, ingegneri, medici, famiglie di cinesi d'oltremare o di Taiwan, seguendo un'idea di rappresentanza che non appare troppo distante dalle corporazioni durante il fascismo.
«Chi vuole i propri interessi rappresentati da un partito che non sia il Pcc — aggiunge Li — può rivolgersi a uno fra gli 8 che sente più affine». L'orientamento è di riservare ai non comunisti i ministeri tecnici. Così, a Chen Zhu — non iscritto ad alcun partito — è stata affidata la Sanità. Wan Gang, ministro della Scienza in quota al Partito Zhi Gong, ha definito la propria nomina «un nuovo atto nel processo di costruzione della democrazia».
Tuttavia, gli osservatori esterni non condividono tanto ottimismo. Andrew J. Nathan, cattedra alla Columbia University e studi importanti sulla Tienanmen, nutre uno scetticismo radicale: «Questi gruppi — dice al Corriere
— sono sempre serviti come strumenti di una politica da "fronte unito", ma non hanno un vero peso. L'unico partito che comanda non ha interesse a dividere il potere. Per come la vedo io, il corso delle riforme politiche in Cina non prevede alcuna forma di pluralismo. I loro dirigenti sono accademici importanti e su materie tecniche hanno fatto un buon lavoro, ma non producono nuove idee in campo politico».
Eppure, per Zhou Shuzhen, del Centro studi sulla Politica contemporanea dell'Università del Popolo, «è importante far vedere che i partiti contano, la globalizzazione ne ha rilanciato il ruolo ovunque. Qui la lealtà rispetto al Pcc è data dalla storia comune, dalla lotta anti- giapponese. Non appartengono alle grandi famiglie dei partiti come si intendono in Occidente, socialisti, liberali, conservatori, religiosi. Magari gli 8 non sono tutti convinti dell'ineluttabilità del comunismo, ma sul socialismo concordano… ». I partitini funzionano come blanda camera di compensazione, non è un caso che il regime decise un primo rilancio a fine '89, l'anno della Tienanmen e della caduta del Muro. Da allora i loro esponenti hanno ricevuto incarichi da viceministro in giù, sia a livello centrale che provinciale.
Non ci si possono aspettare critiche al Pcc, dunque, nonostante la retorica sulla «mutua sorveglianza », né i partitini hanno potere di attrazione nei confronti dei veri dissidenti. Chi è fuori dal sistema resta fuori. Qualcuno che, invece, osserva con attenzione la formula cinese di «democrazia consultativa» c'è, ed è la Russia autocratica del putiniano Dimitri Medvedev. Sia Li Xiaoning sia Zhou Shuzhen sono reduci da viaggi a Mosca. Russia Unita, la formazione di Putin, potrebbe essere interessata – sostengono in conversazioni distinte i due studiosi – a uno sviluppo del quadro politico e istituzionale modellato su quanto ha elaborato la Cina. Una capriola della storia, visto che fu Stalin negli anni Trenta a concepire la strategia del «fronte unito», alleanze «popolari» a guida comunista. Tutto ritorna. E se i vasi restano vasi, almeno i fiori si possono cambiare.

Corriere della Sera 17.12.08
Il leader del Rcck Zhou Tienong
«Il modello? Partecipare al potere»
di M.D.C.


PECHINO – Zhou Tienong è leader del Comitato rivoluzionario del Kuomintang (Rcck), un partito che si è staccato da sinistra dal Kuomintang di Chiang Kai-shek. Zhou è l'unico dirigente fra quelli degli otto partiti non comunisti ad aver accettato di rispondere alle domande del
Corriere, anche se in forma scritta, dopo una lunghissima gestazione e con una formulazione estremamente prudente.
Qual è la motivazione che, nella Cina di oggi, spinge qualcuno ad aderire al Comitato rivoluzionario del Kuomintang?
«Significa prendere atto del sistema dei partiti politici proprio della Cina e poi condividere il programma e gli obiettivi dell'Rcck. Noi siamo impegnati a fare della Cina un Paese socialista moderno, prospero, forte, democratico, civile e armonioso, sotto la guida del Partito comunista. Nel seguire le direttive dello Stato e le politiche del governo, l'Rcck oltre a tutelare i diritti e gli interessi dei suoi membri, eredita, sviluppa e rilancia spirito e pensiero di Sun Yat-sen (fondatore nel 1912 della prima Repubblica cinese, ndr)».
In quale modo incidete sui processi decisionali?
«Partecipiamo alle discussioni del Comitato centrale del Pcc, del governo, all'assemblea consultiva, sottoponiamo temi al Pcc, ascoltiamo la società civile. I commenti e i suggerimenti vengono sempre ascoltati dal Partito-guida».
Quali sono i margini di evoluzione del vostro partito?
«Per svolgere bene la sua funzione, un partito si deve ben sviluppare. Nei prossimi 5 anni perfezioneremo l'organizzazione, miglioreremo il livello di quadri e membri, incorporeremo i professionisti necessari agli affari di Stato, e presteremo attenzione alla costruzione teorica di un partito che partecipa al potere. Faremo sì che il mondo comprenda il sistema partitico cinese e la logica dei partiti "partecipativi"».
Zhou Tienong

Corriere della Sera 17.12.08
Fini: «Leggi razziali, un'infamia Anche la Chiesa si adeguò»
Critiche da Avvenire e Civiltà cattolica: sconcertante. Veltroni: verità storica
Il discorso del presidente della Camera durante una cerimonia per i 70 anni dall'emanazione delle norme razziste
di M.Antonietta Calabrò


ROMA — «L'ideologia fascista non spiega da sola l'infamia delle leggi razziali». Il presidente della Camera Gianfranco Fini ha definito le leggi razziali «un'infamia storica. C'è da chiedersi perché la società italiana si sia adeguata nel suo insieme alla legislazione antiebraica e perché, salvo talune luminose eccezioni, non siano state registrate manifestazioni particolari di resistenza. Nemmeno, mi duole dirlo, da parte della Chiesa cattolica ». Un concetto che ha subito suscitato forti polemiche, specie sul ruolo della Chiesa, ma confermato poi da Fini.
Critiche forti da esponenti politici cattolici di entrambi gli schieramenti. E forti reazioni dei media cattolici (da
Civiltà cattolica all'Avvenire). «Riscriverei pari pari questo concetto», ha ribadito Fini in serata. D'accordo con lui il leader del Pd Walter Veltroni: «Sono una verità storica, una verità palmare». La posizione di Fini, che è la terza carica dello Stato, ha creato «stupore e turbamento» negli ambienti vaticani. Il presidente della Camera sottolinea «il carattere autoritario del regime» ma parla anche degli «angoli bui dell'anima italiana» in «un Paese profondamente cattolico». Fini ha parlato in una occasione ufficiale, la cerimonia di scopertura di una lapide alla Camera in ricordo dei 70 anni dall'emanazione delle leggi razziali. Leggeva un testo scritto, davanti a molti esponenti della comunità ebraica, dal presidente dell'Unione delle Comunità ebraiche, Renzo Gattegna («ha detto una verità storica »), al direttore del Centro di documentazione ebraica di Milano, Michele Sarfatti, al presidente della Comunità romana, Riccardo Pacifici, a Nedo Fiano, sopravvissuto ad Auschwitz (che ha reso una toccante testimonianza). I parlamentari cattolici del Pd e del Pdl (Lupi, Farinone, Binetti, Farina, Carra) hanno in sostanza accusato Fini di alimentare la «leggenda nera» della Chiesa alleata di fascismo e nazismo. L'udc Volontè ha chiesto spiegazioni in aula. Ma Fini ha ribattuto di non essere tenuto a illustrare il suo pensiero all'Assemblea.
Dalla Santa Sede nessuna presa di posizione ufficiale: il portavoce della Sala Stampa, padre Lombardi, ha declinato qualsiasi commento, e anche il cardinale Bertone. La reazione vaticana è stata affidata a padre Giovanni Sale, storico della Civiltà Cattolica che ha definito «sconcertanti» le parole di Fini, che «non conosce una pagina di storia nazionale ». E ha messo in evidenza che con le accuse alla Chiesa, restano in ombra le primarie responsabilità del regime fascista. Forse le sue dichiarazioni sono frutto di una «svista, di un cercare un correo a delle responsabilità che il presidente Fini vuole in parte coprire che fanno parte della sua storia, anche se non di quella recente».
Gianni Letta, sottosegretario alla Presidenza, secondo il resoconto dell'agenzia parlamentare
Il Velino (vicina al Pdl) ha ricevuto una telefonata in cui gli sono state espresse le preoccupazioni di Oltretevere. In ogni caso, un paio di ore dopo a margine di un altro convegno, Fini ha avuto un colloquio a Montecitorio con lo stesso Letta (che in serata ha aperto una mostra al Vittoriano sulle leggi razziali «come atto di scusa nei confronti degli ebrei»). Nel pomeriggio era intervenuto il presidente del Senato Renato Schifani sottolineando «la concretezza di un'azione quotidiana costante, determinata e talora silenziosa» resa da tanti a favore degli ebrei. «Fini scivola su leggi razziali e Chiesa» ha titolato il sito web di Avvenire.
La Radio vaticana a dimostrazione che «non è vero che la Chiesa italiana non si oppose » ha ricordato, con l'intervista a due storici, Riccardi e Malgeri, che Pio XI nel settembre 1938 pronunciò in Vaticano un memorabile discorso: «L'antisemitismo è inammissibile. Spiritualmente siamo tutti semiti».

Corriere della Sera 17.12.08
Come reagimmo Nel '38 e negli anni seguenti un fragoroso silenzio
Intellettuali, senatori e antifascisti illustri: tacquero (quasi) tutti
di Pierluigi Battista


Gli scrittori. Non protestarono quegli autori che firmarono libri e antologie scolastiche al posto dei loro colleghi epurati

La «non reazione» della Chiesa, certo. Ma nel '38 e negli anni successivi non reagì, non parlò, non si oppose nessuno. Il silenzio imbarazzato o accondiscendente nei confronti delle leggi razziali promulgate dal fascismo coinvolse cattolici e laici, conservatori e progressisti. Le eccezioni furono rarissime. Gli ebrei vennero lasciati soli, come il padre di Giorgio nel Giardino dei Finzi-Contini di Giorgio Bassani, iscritto al Fascio di Ferrara, volontario nella Prima guerra mondiale.Nel '38 il personaggio di Bassani vide improvvisamente la sua famiglia messa ai margini della società, dal partito, dalle biblioteche, dal circolo del tennis, senza che nessuno, ma proprio nessuno spendesse una parola contro la discriminazione. Vittorio Foa, che mai recriminò contro i coetanei che facevano carriera mentre lui languiva nelle prigioni fasciste, verso la fine della sua vita ruppe il suo riserbo («non so bene perché diavolo lo faccio ») e scrisse: «Non uno di quegli illustri antifascisti aveva detto una sola parola contro la cacciata degli ebrei dalle scuole, dalle università, dal lavoro, contro quella che è stata un'immonda violenza».
Dieci anni fa Giulio Andreotti si chiese perché non si fossero avviate indagini critiche «sul comportamento di senatori come Croce, De Nicola, Albertini, Frassati, che disertarono la seduta del 20 dicembre 1938 facendo passare senza opposizione la legislazione antisemita ». Vero. Ma non risultano commenti altrettanto indignati di Andreotti sulle accuse che padre Agostino Gemelli, Presidente della Pontificia Accademia delle Scienze, mosse nel '39 all'indirizzo degli ebrei, «popolo deicida» che «va ramingo per il mondo » a scontare le conseguenze di quell'«orribile delitto ». E a proposito di Croce fa molta impressione leggere, nel libro
L'espulsione degli ebrei dalle accademie italiane di Annalisa Capristo, l'elenco degli intellettuali che risposero con zelo ed entusiasmo al censimento per identificare «i membri di razza ebraica delle Accademie, degli Istituti e delle Associazioni di scienze, lettere ed arti che cesseranno di far parte di dette istituzioni». Bastava una compilazione burocratica e svogliata dei moduli, per chi non avesse avuto il coraggio di sottrarsi a quel compito infame. E invece i Giorgio Morandi e i Gianfranco Contini, i Roberto Longhi e i Natalino Sapegno, i Nicola Abbagnano e gli Antonio Banfi, gli Alessandro Passerin d'Entrèves e i Giuseppe Siri (e centinaia con loro, illustri come loro) vollero sfoggiare «l'aggiunta di esplicite dichiarazioni antisemite sotto forma di precisazioni ai vari quesiti tenuti nella scheda». Da Luigi Einaudi, che sottolineò orgoglioso «l'appartenenza alla religione cattolica ab immemorabile», a Ugo Ojetti, che fu puntuale fino alla pignoleria: «Cattolico romano, dai dieci ai sedici anni ho servito tutte le domeniche».
Solitaria eccezione, appunto, quella di Benedetto Croce, che rispedì al mittente i moduli della vergogna con impareggiabile sarcasmo: «L'unico effetto della richiesta dichiarazione sarebbe di farmi arrossire, costringendo me, che ho per cognome CROCE, all'atto odioso e ridicolo insieme di protestare che non sono ebreo, proprio quando questa gente è perseguitata».
Era già una «persecuzione »: ci voleva poco a capirlo, malgrado i risibili rosari autoassolutori del «non sapemmo » e del «non capimmo».
Mentre Alberto Moravia implorava le autorità fasciste perché gli venisse data la possibilità di continuare a scrivere sulle riviste («sono cattolico fin dalla nascita, mio padre è israelita, ma mia madre è di sangue puro »), Guido Piovene recensiva rapito Contra Judeos di Telesio Interlandi. Il giovane cattolico Gabriele De Rosa (in un «libercolo » che lo storico decenni dopo avrebbe definito «goffo e scriteriato ») inveiva contro «il focolare ebraico» in Palestina, alimentato dal popolo responsabile della crocifissione di Gesù Cristo. Il giovane Giorgio Bocca discettava sui pericoli del piano ebraico di conquista del mondo rivelata dai (falsi) Protocolli dei savi Anziani di Sion. Giulio Carlo Argan, colto collaboratore del regime per la difesa dei beni culturali e artistici, in una corrispondenza del 1939 dagli Stati Uniti dissertava sull'influenza del «potentissimo elemento ebraico» in America. Una fornitissima appendice documentaria apparsa nella seconda edizione del «lungo viaggio» di Ruggero Zangrandi «attraverso il fascismo» descrisse nel 1962 l'ampiezza del consenso servile degli intellettuali alla politica antisemita del regime, ricostruito per la prima volta in quegli stessi anni da Renzo De Felice nella Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo.
Rosetta Loy, nel suo libro
La parola ebreo, ha definito la «Difesa della Razza» una «rivista dalla grafica aggressiva e anticonvenzionale che aveva tra i suoi finanziatori la Banca Commerciale ». Sandro Gerbi ha confermato che sul quindicinale fossero comparsi «talvolta avvisi pubblicitari della Comit, del credito Italiano, della Ras, dell'Ina e via dicendo», precisando però che quelle inserzioni erano il frutto di «chiare direttive "superiori" del Minculpop e non di scelte autonome e di dirigenti delle singole aziende». Non furono scelte «autonome». Ma furono o no, anch'esse, l'esito di una tacita «non reazione»?
«Non reagirono» gli scrittori che, come è documentato dall'Elenco di Giorgio Fabre, non si rifiutarono di firmare i manuali e le antologie scolastiche al posto degli autori ebrei il cui nome era ostracizzato e dannato. Non reagirono i docenti universitari che ereditarono le cattedre lasciate vacanti dai colleghi estromessi a causa della legislazione antisemita. Roberto Finzi ha rivelato che per Ernesto Rossi, in carcere, la cacciata dei docenti ebrei avrebbe rappresentato «una manna per tutti i candidati che si affolleranno ora ai concorsi». Rossi non si sbagliava: l'«affollamento » fu macroscopico, corale, macchiato solo da qualche residuale caso di coscienza. Un capitolo controverso di viltà collettiva che faticherà a chiudersi anche nell'Italia democratica. Alberto Cavaglion ha ricordato che la cattedra di letteratura italiana sottratta ad Attilio Momigliano sotto l'effetto delle leggi razziali «dopo la fine della guerra sarà sdoppiata perché fosse restituita a chi era stato illegittimamente cacciato, ma anche per non scomodare chi al suo posto era tranquillamente subentrato». Chi, in altre parole, non aveva «reagito» nel '38 e negli anni successivi non perderà la cattedra. E del resto le leggi razziali saranno completamente e radicalmente soppresse solo nel 1947, con una lentezza che forse tradì il turbamento per non aver saputo contrastare, coralmente e individualmente, l'abiezione della legislazione antiebraica. La vergogna per non aver «reagito»: con poche, ammirevoli, sporadiche eccezioni.

l’Unità 17.12.08
Luzzatto: se vuole provare il contrario il Vaticano
tiri fuori le carte
di Umberto De Giovannangeli


«Invece di gridare alla bugia, la Santa Sede farebbe bene a mostrare documenti che contestino le affermazioni di Fini. Ma temo che non lo farà». Così Amos Luzzatto, ex presidente delle comunità ebraiche italiane.
«Invece di contestare le affermazioni, del tutto condivisibili, della terza carica dello Stato, il Vaticano farebbe meglio a rendere pubblici dei documenti che dimostrino il contrario. Ma se non l’hanno fatto fino ad oggi, dubito che lo faranno in futuro». A sostenerlo è una delle figure più autorevoli dell’ebraismo italiano: Amos Luzzatto, già presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane.
Professor Luzzatto, come valuta le affermazioni del presidente della Camera, Gianfranco Fini, sull’adeguamento della Chiesa alle Leggi razziali?
«Nel merito condivido il giudizio formulato dal presidente della Camera. Quello dei silenzi e delle ambiguità della Chiesa sulle Leggi razziali, è un problema che personalmente ho sollevato più volte, ricordando in particolare che già all’uscita dei provvedimenti razziali emanati dal regime fascista, l’unica sostanziale espressione di condanna del Vaticano è stata rilevare che quei provvedimenti antisemiti erano un vulnus al Concordato, perché contrastavano la validità dei matrimoni religiosi fra ariani e non ariani. Altre proteste ufficiali, tranne la frase di Pio XI “siamo tutti spiritualmente semiti” non ne conosciamo. E questa è la premessa per il più duro e tragico silenzio durante lo sterminio. Mi lasci aggiungere che ritengo molto importante che questo severo e fondato, giudizio sull’atteggiamento reticente della Chiesa verso le Leggi razziali, sia stato formulato dalla terza carica dello Stato».
Resta la contrarietà della Santa Sede.
«Mi ascolti bene: il giorno che il Vaticano potesse o volesse produrre documenti che dimostrino il contrario da quanto ricordato da Fini, quel giorno sarei l’uomo più felice sulla terra. Ma se finora quei documenti non li hanno prodotti, temo proprio che non ce ne siano».
Insisto. Radio vaticana ha contestato come «non vere» le considerazioni del presidente della Camera.
«Lo ribadisco: invece di gridare alle bugie, che tirino fuori documenti contrari. Non basta indignarsi. Si è detto che Pio XI aveva fatto preparare una enciclica sull’unità del genere umano. Sta di fatto che quella enciclica non è mai stata pubblicata. E a proposito di silenzi, vorrei dire un’ultima cosa...».
Quale, professor Luzzatto?
«In una occasione così solenne come quella di oggi (ieri, ndr) mi sarei atteso che a parlare fosse qualche personalità di primo piano della Santa Sede. Così non è stato, e di ciò me ne rammarico. Perché dimostra che quel vulnus non è venuto meno, 70 anni dopo».

Corriere della Sera 17.12.08
Una grande mostra dedicata al padre del neoclassicismo italiano si aprirà a Forlì il 25 gennaio
Il ritorno di Canova: duecento capolavori e due scoperte


Una delle contestazioni mosse alla «mostramania» che dilaga nel nostro sistema museale è la mancanza di una ragione scientifica che giustifichi una rassegna. E che non sia, ovviamente, la legge degli incassi. Non sarà, per fortuna, questo il caso della grande mostra «Canova - L'ideale classico tra scultura e pittura» che si aprirà nei Musei di San Domenico a Forlì il 25 gennaio 2009 per chiudere il 21 giugno. Per il semplice fatto che i curatori (Fernando Mazzocca e Sergéj Androsov ma il comitato scientifico è presieduto da Antonio Paolucci, attuale direttore dei Musei Vaticani dov'è stato presentato ieri l'appuntamento) proporranno tanto agli studiosi quanto al pubblico due inediti di Antonio Canova.
Un piccolo olio su tela, una «Mezza figura di fanciullo in atto di guardare un uccello », in realtà un ritratto del giovane principe polacco Henryk Lubomirski come San Giovannino: una «stesura veloce» come scrive Fernando Mazzocca, al punto che si intravvede ancora la trama della tela «come spesso nei dipinti canoviani». E una seconda versione del famoso ritratto di Domenico Cimarosa, qui in forma di erma.
Forlì e l'intera area romagnola furono luoghi fondamentali non solo per Canova ma per tutto il momento neoclassico. Puntare su questo sfondo geografico e culturale per ora non inserito nei grandi circuiti turistici è la interessante scommessa della mostra, organizzata in collaborazione con i Musei Vaticani, le Soprintendenze di Firenze, Roma e di Bologna, Ferrara, Forlì-Cesena, Ravenna e Rimini, i musei Civici veneziani e il museo Correr, ovviamente la straordinaria Gipsoteca canoviana di Possagno. Ci sarà tutto Canova: sculture, disegni, pitture. Duecento capolavori ricostruiranno il suo itinerario creativo.
Soddisfatto Antonio Paolucci: «Come Raffaello, Antonio Canova regalò al mondo la consolazione della Bellezza».

Repubblica 17.12.08
"L´Italia chieda scusa per le bombe sulla Spagna"
Madrid sui raid aerei fascisti del 1938
di Alessandro Oppes


MADRID - Il governo Zapatero chiederà all´Italia di scusarsi per un bombardamento compiuto dall´aviazione di Mussolini nel 1938, durante la Guerra Civile spagnola, nel quale morirono 64 persone. Lo ha annunciato in Parlamento il ministro degli Esteri Miguel Angel Moratinos, in risposta a una domanda del senatore del Partito nazionalista basco Iñaki Anasagasti, che ricordava come già in passato l´ambasciatore tedesco a Madrid sia andato a Guernica a «chiedere perdono» per ciò che aveva fatto negli stessi anni la Legión Condor, supportata peraltro dagli italiani.
Moratinos ha assicurato che si metterà in contatto con l´ambasciatore d´Italia Pasquale Terracciano perché si possa arrivare a organizzare «un atto pubblico di scuse» per il bombardamento di Alcoy, città della provincia di Alicante, nella regione di Valencia. Il 20 settembre 1938, dieci bombardieri «Savoia Marchetti SM-79» partiti dallo scalo di Son Sant Joan, a Maiorca, scaricarono sulla cittadina 8800 chili di esplosivo provocando una strage. Il ritorno di quella tragedia è ritornato di attualità negli ultimi mesi perché quest´anno ricorrono i settant´anni da quel bombardamento, riaprendo così vecchie ferite.
Proprio ad Alcoy, una mostra ha presentato di recente immagini molto crude di quei fatti: si tratta delle foto scattate da bordo degli aerei dai piloti prima, durante e dopo i bombardamenti. Immagini che sono state messe a disposizione dal Ministero della Difesa italiano.
Già nel giugno scorso il senatore Anasagasti - in passato per lunghi anni capogruppo dei nazionalisti baschi alle Cortes - aveva chiesto al governo di pretendere le scuse dell´Italia per quei fatti. Gli aveva risposto il ministro della Cultura César Antonio Molina sostenendo che l´esecutivo avrebbe «esaminato il caso». Sei mesi dopo, arriva il sì di Moratinos all´iniziativa, sulla cui realizzazione dovrà pronunciarsi il governo italiano. Il senatore basco ha anche ricordato al ministro degli Esteri il «malessere provocato a Saragozza» il 2 novembre scorso dalla presenza dell´ambasciatore Terracciano a una messa celebrata per i caduti italiani nella Guerra Civile e che, nelle parole di Anasagasti, è degenerata in una «manifestazione di nostalgici» del fascismo. Moratinos ha ricordato la precisazione pubblica fatta dalla rappresentanza diplomatica italiana, secondo cui l´atto al quale partecipò l´ambasciatore era dedicato «a tutti i caduti italiani, tanto quelli che appoggiarono Franco come i brigatisti internazionali» e che è consistito in una commemorazione di tutti i defunti, in cui Terracciano ha deposto una corona di fiori «per tutti i caduti».

Repubblica 17.12.08
Provocazione dell´Economist: la nostra è l´epoca della cultura E i numeri confermano: più musei, più libri, più arte di massa
L’era dell´intelligenza siamo tutti più colti
Persino questo non è un paese per sciocchi, né un´età così mediocre come sembra
di Alessandra Retico


Altro che cultura spazzatura e starlet, questa è l´epoca dell´intelligenza di massa. La gente guarda e guarderà pure la tv trash, ma poi va al museo, al concerto, usa il web. Non è un´incongruenza, è la ricca eterogeneità della nostra era. Discute del tema More Intelligent Life, sofisticato trimestrale dell´Economist, elencando studi e osservazioni empiriche come: le mostre d´arte fanno il pieno di visitatori, i programmi di musica classica alla radio non hanno mai avuto tanti ascoltatori, i festival letterari si moltiplicano ovunque, i lettori di tabloid sono anche quelli che si accapigliano appassionatamente per guadagnarsi un posto alla Royal Opera House.
Nonostante la tesi dominante di un declino e di una barbarie intellettuale generale e anche nostrana, si allungano le file al botteghino per pagare il biglietto di ingresso a uno dei 1300 festival che ogni anno si organizzano in Italia: della letteratura, della scienza, della mente, dell´economia. Persino questo non è un paese per sciocchi, né un´età così mediocre come a volte sembra. Internet, le nuove tecnologie, i musei meno mausolei, l´articolazione dell´offerta, la fame nuova e curiosa della domanda ci stanno portando verso una nuova articolazione dell´intelligenza: più diffusa e complessa, meno rigida e classista. Gossip e volgarità da intrattenimento televisivo aumentano, ma con il crescere parallelo di altre forme di appetito intellettuale. Persino il reality show oggi ha ambizioni alte, quasi di formazione dell´opinione: il caso dell´Isola dei Famosi 2008, punte di oltre 9 milioni di spettatori per l´ultima puntata che ha incoronato la vincitrice Vladimir Luxuria, dimostrerebbe che il pubblico sono in realtà molti pubblici diversi, che dal divano mandano un sms che non equivale certo a un voto politico, ma a un gusto sì.
L´antropologia del consumo culturale è più mista. Piena di contraddizioni ma proprio per questo più variegata e dinamica. Contro la tesi dominante che sms, sitcom, videogiochi e web ci rendono una delle generazioni più stupide della storia umana, è possibile, leggendo i fenomeni più laicamente, che questa sia una vera età dell´oro della conoscenza. Tutti i paesi ricchi sembrano accomunati dalla tendenza a frantumare la distinzione classica tra cultura alta e bassa e i cittadini a preferire un ruolo di consumatori attivi piuttosto che di spettatori mentalmente imbolsiti. A Parigi la gente va più al Louvre che alla Torre Eiffel, a Londra alla Tate Modern, al British Museum e alla National Gallery anziché al circo techno del London Eye (la ruota panoramica sul Tamigi). In Italia anche, come il Censis ha registrato nel Rapporto 2008, «si devono evidenziare nuovi percorsi di fruizione culturale: che si agglutinano intorno a eventi e festival che fanno riferimento a fenomeni e linguaggi del pensiero complesso». Nell´ultimo decennio, aggiunge l´Istat, sono aumentati tutti i consumi culturali, dal teatro, ai concerti, al cinema. E se la tv resta il principale mezzo d´informazione con l´85,6 per cento che la vede almeno tre volte alla settimana, l´informatizzazione è cresciuta vertiginosamente specie tra i giovani (14-29 anni): l´utenza complessiva del web è salita dal 61 per cento all´83. I lettori forti rimangono tali e certo l´istruzione e le possibilità economiche contano: ma non sempre. La fame di cose buone cresce, è sempre più democratica, il menù lo si vuole assortito: si va a Bergamo in 75mila per seguire la scienza e in 100mila a Trento per ascoltare di economia, in 170mila a Mantova per la letteratura. L´intelligenza è anche pop.

il Riformista 17.12.08
Arriva l'Onda. Sarkò per una volta fa retromarcia
di Lu. Seb.


SINDROME GRECA. Le proteste degli studenti spingono l'Eliseo a posticipare la riforma delle scuole superiori. Passo indietro anche sul lavoro domenicale. L'uomo della rupture scopre l'immobilismo. Per evitare il caos in piazza sotto le feste.

Parigi. Dopo mesi di trionfi, il duro ritorno alla realtà. Quella francese, che per Nicolas Sarkozy, impegnato a mietere successi sulla scena internazionale in qualità di presidente di turno dell'Ue, si è rivelata più aspra di quanto sospettasse. Rientrato a Parigi e spaventato dalla «sindrome greca» che sembra ormai aleggiare anche sulla Francia, Sarkozy ha infatti deciso di fare dietrofront sulla riforma della scuola e del lavoro domenicale per evitare che la situazione sociale degeneri e il paese si ritrovi nel caos nel pieno di una recessione che già di per sé promette lacrime e sangue. Per la prima volta da quando è entrato all'Eliseo, Sarkò deroga alla "rupture" e si trincera cautelativamente nel suo peggior demone: l'immobilismo. Un colpo di scena inatteso. Ancora tre giorni fa il ministro dell'Educazione nazionale Xavier Darcos aveva rilasciato una lunga intervista per scendere nel dettaglio della sua riforma dell'istruzione secondaria e presentarla ai francesi che da un paio di settimane avevano visto i figli ricominciare ad occupare qualche liceo. Niente di importante, solo i primi inizi di un movimento di protesta che Darcos aveva definito «rituale».
Le agitazioni degli studenti e degli insegnanti contro i tagli d'organico erano già cominciate in maggio, ma allora il presidente aveva chiosato che «ormai quando c'è uno sciopero non se ne accorge più nessuno». Un po' spocchioso Sarkò allora era sulla cresta dell'onda e il suo ministro dell'Educazione ricevette l'incarico di portare a termine la riforma con determinazione e sfoggio di volontarismo.
Darcos, peso massimo del sarkozismo nel governo Fillon, non se lo fece dire due volte e alla ripresa della scuola dichiarò che «la moratoria non fa parte del suo vocabolario». Avanti col taglio di altri 13mila posti e la riforma della didattica. E qualche giorno fa, dopo le prime proteste dei sindacati e le prime occupazioni, ancora una manifestazione d'intransigenza quando ha affermato di non essere «il ministro dell'esitazione nazionale». Sempre in quell'occasione Darcos analizzava le prime scintille del movimento definendolo «senza parola d'ordine» e agitato da perturbatori che non «si sa da dove vengano e cosa vogliano».
Ecco, deve esser stata proprio questa analisi a spingere Sarkozy all'altolà, per non trovarsi di fronte ad un movimento disorganizzato che possa degenerare come in Grecia. Nessuno si fa illusioni in Francia, neanche Sarkò. Le banlieues sono sempre sul punto dell'esplosione, e basterebbe una vicenda meno tragica di quella greca per farle saltare di nuovo. Se la rivolta delle periferie si dovesse saldare con un movimento studentesco scomposto e una crisi sociale accelerata dai licenziamenti previsti durante la recessione, la situazione diventerebbe ingestibile. Di qui il dietrofront cautelativo, e il rinvio della riforma, come dice Darcos, all'anno prossimo. Fatto sta che rinvio o meno, Sarkozy ha agito come non avrebbe mai voluto. Cioè come Jacques Chirac, che ritirò ben tre riforme della scuola. La differenza è che l'ex presidente le sospese dopo movimenti di massa. Come nel 2006 in occasione del Cpe.
Per salvare le apparenze della "rupture", Sarkò si è invece mosso diversamente sul lavoro domenicale. Per evitare che anche il suo partito si spaccasse su una misura piuttosto osteggiata dal paese, lunedì ne ha svuotato la sostanza e ha deciso di portare da 5 a 10 le aperture eccezionali già concesse ai grandi magazzini. Niente di più per il momento. Meglio l'attendismo che uno scenario greco.