venerdì 19 dicembre 2008

Liberazione 4.11.08
Il capitalismo sta diventando il maggior nemico dell'umanità: ecco la contraddizione principale
Non si tratta di di archiviare una parola ancora viva. Si tratta di dare una politica alla sinistra
Può l'identità comunista essere motore di un soggetto politico non minoritario?
di Rina Gagliardi


La discussione che si sta sviluppando su Liberazione è molto interessante e ricca di utili stimoli. Posso avanzare, però, un dubbio, anzi una preoccupazione? Temo che si tenda, quasi fatalmente, a sovrapporre due piani che, per quanto intrecciati siano, dovrebbero restare distinti: quello dell'identità ideologica (e ideale) e quello della politica (il che fare). Insomma, il rischio è quello di cadere, volenti o nolenti, in quella "deriva identitaria" (o "antiidentitaria", che fa quasi lo stesso) che è non da oggi fonte di danni incommensurabili. Mi spiego, partendo, come è giusto, da me. Se qualcuno mi interroga su "che cosa sono" la mia risposta è chiara e "semplice": sono comunista. Se quello stesso qualcuno vuole sapere, subito dopo, che cosa consegue, per me, da questa dichiarazione, appunto, ideologica e ideale, la mia risposta è altrettanto chiara e "semplice": in questa fase storica, qui e ora, in Italia e in Europa, questa identità va investita nella costruzione di un nuovo soggetto politico. Anticapitalista, radicale e di massa. La sinistra. Una sfida, appunto, che si gioca soprattutto sul terreno della politica e che non deriva dalle o dalla appartenenza ideologica. Una sfida che riguarda oggi anche (se non soprattutto) coloro che non dismettono di declinarsi come comunisti, la loro determinazione, la loro coerenza.
Cercherò di argomentare questa tesi nelle righe che seguono (e scusandomi anzitempo per il necessario schematismo). Intanto, però, va sgomberato il terreno da una polemica alquanto sgradevole: qui non c'è alcuna proposta di abiura o di "pentimento" e soprattutto non c'è alcuna bis-Bolognina. Non solo perché sono passati quasi vent'anni e, rispetto all'89, siamo davvero in un'altra epoca.
Ma perché il parallelo tra il Pci (che in quell'anno aveva ancora un milione e mezzo di iscritti, era attorno al 27 per cento elettorale, aveva una presenza maggioritaria nel sindacato e usufruiva di un fortissimo tessuto di relazioni sociali), e Rifondazione comunista ridotta al 3 per cento, è semplicemente ridicolo.Chi, come da ultimo il segretario Ferrero, usa lo spettro della Bolognina per ottenerne il facile consenso dei militanti (più di pancia che di testa, più emotivo che razionale), dimostra, come minimo, di non volere o di non sapere ascoltare le posizioni diverse dalle sue. E, come massimo, ripiomba in quella "cultura del tradimento" che nel movimento operaio è pratica antichissima - mai sradicata e mai neppure seriamente criticata. Dalla caricatura delle posizioni altrui si passa alla denigrazione e alla delegittimazione morale, quindi al sospetto sistematico e alla accusa, appunto, di "tradimento" - cedimento, imborghesimento, deviazione. Davvero il segretario del Prc pensa che Fausto Bertinotti, Nicky Vendola, Franco Giordano, e la quasi metà degli iscritti di Rifondazione che hanno condiviso la loro posizione congressuale, abbiano l'obiettivo, nientemeno, che di mettere in scena una "farsa"? Davvero ritiene che sia corretto rappresentarli, di fatto, come l'ennesima variante di Giuseppe Flavio? Davvero non ha nulla da replicare al ragionamento sul cambio epocale di paradigma proposto da Marcello Cini? Su queste basi, ahimé, la discussione è davvero difficile, anche se non possiamo, anzi non dobbiamo rassegnarci al classico dialogo tra sordi
Anche a me pare che l'identità comunista - che per altro andrà meglio definita - non sia né da archiviare né da considerare obsoleta. Del resto, il comunismo (non il "socialismo scientifico") pervade di sé la storia umana e la cultura da molti secoli, da molto prima che il modo di produzione capitalistico si dispiegasse nelle sue potenzialità. In epoca moderna, (senza riandare alla rivolta di Spartaco o alla comunità dolciniana), se ne scorgono tracce nei levellers inglesi, in qualche protoilluminista radicale (pensate all'abate Meslier che di giorno faceva il curato e di notte scriveva un diario che arrivava a preconizzare il comunismo come unica salvezza della società) e in qualche rivoluzionario di Francia, in molti carbonari ottocenteschi (la "Società dei sublimi maestri perfetti" di Buonarroti aveva il comunismo come sua meta finale, ciò che era noto soltanto ai gradi più alti dell'organizzazione che lo tenevano gelosamente segreto). Quand'è che da utopia o sogno il comunismo diventa un produttore di soggettività politica? Non solo, ovviamente, quando s'incontra con il movimento operaio, ma tutte le volte che la storia esige salti, rotture, avanzamenti, scalate al cielo: la Rivoluzione d'ottobre, la lunga marcia della Cina, in Italia (e non solo) l'organizzazione dell'antifascismo e della Resistenza - ma poi la Costituzione repubblicana e il "Partito nuovo" di Togliatti. In tutte queste circostanze (e certo in altre), il soggetto politico comunista interviene per "piegare la storia", il corso naturale degli eventi, nella direzione che è in grado di determinare: sia essa la salvezza dalla guerra (Lenin) sia essa l'urgenza del riscatto dalla barbarie del fascismo e del fascismo, sia essa, infine, come è accaduto da noi, la sfida della creazione di una vera e propria controsocietà, che dava libertà e dignità al popolo a cui era negata. Ricordo - qui - i momenti più alti, oltre che i "successi" del comunismo, non certo perché non ne veda le degenerazioni successive (gli orrori dello stalinismo, la statolatria, la riduzione della nostra lotta alla conquista del potere politico), ma perché mi pare molto evidente la "connessione produttiva" che, in tutte queste felici circostanze, si è stabilita tra identità e azione politica. Lenin, ripeto, non ruppe con il Partito Socialdemocratico Russo per ragioni ideologiche o nominalistiche, ma per ragioni politiche. Togliatti e il gruppo dirigente del Pci dell'Italia repubblicana conquistarono un enorme prestigio per il ruolo determinante svolto nella lotta antifascista. Viceversa, in assenza di questa connessione forte, i partiti comunisti, i comunisti organizzati in quanto tali, si sono spesso ridotti a piccoli gruppi,talora settari, comunque irrilevanti (chi ne volesse vedere qualcuno da vicino può utilmente frequentare l'annuale meeting organizzato ad Atene dal Kke).
Ora la domanda cruciale a cui bisognerebbe rispondere con una qualche sincerità è la seguente: oggi, in Italia, in Europa, ci sono le condizioni per far vivere fruttuosamente questa "connessione produttiva" tra identità e politica? Può, cioè, l'identità comunista essere alla base di una soggettività politica in termini che non siano a fortiori limitati e minoritari? Fuori da certezze assolute (sono pronta a ricredermi di fronte a fatti e risultati reali), temo che in questa fase storica una tale coincidenza non si dia. Almeno per tre ragioni.
La prima, quella che salta agli occhi, è l'entità della sconfitta che abbiamo subito, come Rifondazione comunista e come campo della sinistra. Se tutto si riducesse ad un unico errore politico, quello di "essere andati al governo", come ha scritto il compagno Ferrero, la terapia sarebbe facile, facilissima: non "si va più al governo", mai più, (anche per volontà degli avversari, va da sè) e come per incanto il Prc e l'alternativa rifioriscono. Purtroppo, invece, non si è trattato di una pur grave "crisi di assestamento", dovuta magari a una linea sbagliata o alla sopravvalutazione dei rapporti di forza o ad altre ragioni che andranno analizzate, ma di una débacle politica vera e propria. Ora, la sinistra non c'è più: cancellata dal Parlamento, assente dal sistema dell'informazione, dispersa in pezzi, divisa, consunta nella sua credibilità e nei suoi gruppi dirigenti, non uno escluso. Possono i comuniste e le comuniste non considerare la drammaticità di questo panorama come il loro principale assillo politico? Possono far finta di non sapere che, così continuando, ciascuno nei suoi recinti, nei suoi riti, nelle sue stanze, nei suoi comunicati, quel che si prospetta, nella società e nella cultura italiana, è un destino di mera marginalità?
La seconda ragione la indicava già su queste colonne Marcello Cini ed attiene al colossale mutamento maturato nell'ultimo ventennio: il processo che abbiamo altrove definito come la "rivoluzione capitalistica" restauratrice e che, in sostanza, sta segmentando, dividendo, triturando i soggetti tradizionali dell'antagonismo. Ciò che non significa, nient'affatto, che scompare la contraddizione tra capitale e lavoro, o che si dilegua il proletariato (che anzi, nel mondo globalizzato, tende a crescere), o, men che mai, che il capitalismo globale stia garantendo all'umanità "magnifiche sorti e progressive": è davvero l'esatto rovescio, come si evince dalle cronache della crisi finanziaria, dalle guerre, dalla crescita abnorme delle disuguaglianze, dalle catastrofi climatiche ed ambientali che pendono sulla nostra testa. Significa, molto più crudamente e crudelmente, che per la prima volta nella storia dell'ultimo secolo e mezzo, la partita non si gioca più nello scontro finale tra il modo di produzione del capitale e il movimento operaio organizzato. Che forse stiamo arrivando alle soglie della profezia marxiana del "Manifesto", "la comune rovina delle classi in lotta". E che il capitalismo, la mercificazione galoppante di ogni sfera della vita umana (e animale), la logica dell'impresa e del mercato come paradigma assoluto e l'ossessione del Pil sono entrate in contraddizione frontale con la sopravvivenza della specie umana. Non sarà per queste ragioni di fondo che è così difficile - anche per i cultori più affezionati dell'ortodossia - avventurarsi nei meandri della "contraddizione principale"? Il capitalismo sta diventando, palesemente, il maggior nemico dell'umanità: ecco la contraddizione principale. Perciò non ci fa più la cortesia, se così si può dire, di allevare, unificandolo oggettivamente nelle grande manifattura, il proprio becchino: ecco il paradosso che forse non ci aspettavamo. Il paradosso che mai come in questa fase storica si vanno accumulando le ragioni di insostenibilità del modo di produzione dominante, ma si vanno smarrendo le forze del cambiamento, i soggetti dell'alternativa. I becchini.
La terza ragione è il logico corollario delle due precedenti: se un ciclo storico si va concludendo, bisogna adeguare la propria azione al nuovo ciclo che si sta aprendo. Non sto parlando, ovviamente, di tattica, ma di un salto deciso dell' innovazione e della pratica politica dei comunisti - a loro volta dispersi, divisi, diversi l'uno dall'altro per cultura politica, visione del mondo, riferimenti alla storia, idee per il futuro. Non è vero, nient'affatto, che la nozione di comunismo è chiara, univoca, quasi monolitica, e quella di sinistra generica: esistono mille comunismi e mille sinistre potenziali. Ma, soprattutto, siamo tutti (spero) comunisti multiidentitari: luxemburghiani (pochi, come me), o trotskysti, o gramsciani, o togliattiani, ma siamo anche femministe, ambientalisti, pacifiste, libertarie. Se vogliamo che questa ricchezza non diventi un malinconico residuo o un rifugio individuale, è tempo di fare di essa la possibile nuova leva della politica - il nuovo becchino di massa e di popolo che potrà nascere solo in questa temperie, nella mescolanza delle identità e perfino dei desideri. E' tempo (ce lo dicono studenti e prof che fanno tremare i palazzi berlusconiani) di un nuovo "balzo della tigre".
l’Unità 19.12.08
Caso Eluana, la clinica denuncia: il ministro tenta di intimidirci
di Federica Fantozzi


La clinica chiede garanzie formali e denuncia il ricatto del ministro Sacconi. Anche la Corte di Cassazione ribadisce che l’atto di Sacconi non può vanificare la sentenza, e ventila anche l’uso del «ricovero coatto».
Di fronte alle «intimidazioni» del ministro del Welfare la casa di cura «Città di Udine» ribadisce la propria disponibilità «a patto che la Regione si prenda la responsabilità di condividere con un atto inequivocabile questo percorso che noi riteniamo di civiltà e pietas». Al termine di un pomeriggio da cardiopalma, tra voci che Eluana Englaro fosse lì lì per essere trasferita a Udine, l’esito del consiglio di amministrazione è ancora uno stallo. La struttura privata, che al terzo piano ha già pronta una stanza e una squadra di una ventina volontari esterni per accompagnare Eluana al distacco del sondino, non si accontenta della presa di posizione del governatore Tondo. Invoca garanzie formali per evitare che la stessa maggioranza, dove l’assessore alla Sanità Kosic si era messo di traverso, sconfessi il presidente o, peggio, che una giunta in futuro chieda ai sanitari conto della disobbedienza al diktat di Sacconi.
È l’amministratore delegato Claudio Riccobon a comunicare il nuovo stop, frutto di una trattativa con Tondo che chiedeva di non essere messo con le spalle al muro. Incertezza fino all’ultimo: Riccobon sta per iniziare la conferenza, poi ci ripensa e si immerge in una conversazione telefonica. La richiesta della clinica allunga i tempi, è prevedibile che ci voglia qualche giorno per il parere della direzione tecnica o dell’Agenzia della Sanità (gli organismi competenti), ma lascia aperto uno spiraglio. Infatti Tondo continua a pensare che «si tratti di un rapporto tra privati», rafforzando l’idea che alla fine l’orientamento sarà questo. Vale a dire una trattativa privatistica in cui la Regione nonentra e che dunque è fuori dall’ambito di applicazione della circolare ministeriale. Anche Kosic ieri sera adotta questa linea.
Ma il comunicato della «Città di Udine» è soprattutto un j’accuse che contiene parole pesantissime sul titolare del Welfare: «Di fronte a un decreto ormai inoppugnabile e definitivo lancia intimidazioni per colpire l’azienda nel suo interesse vitale arrivando a minacciare la revoca dell’accreditamento al servizio sanitario nazionale. Non ci sono parole per commentare: un ministro deve comportarsi in maniera diversa». Davanti a lettere anonime di insulti come «boia», al paragone «con i nazisti nei campi di sterminio», la clinica ribadisce che la scelta «su base volontaria e in forma gratuita» è stata dettata da «pura umanità per consentire a una famiglia di tornare nella sua terra, per porre fine a uno strazio che dura 17 anni» e di cui «tanti benpensanti cercano pilatescamente di lavarsi le mani».
È l’ultimo colpo di scena nell’odissea della ragazza in coma dal 1992 per un incidente d’auto ma mai abbandonata dal padre Beppino e dallo zio Armando che hanno affrontato un lungo percorso giudiziario ottenendo infine il diritto di interrompere l’alimentazione artificiale. In mattinata anche la Corte di Cassazione, per bocca del sostituto procuratore generale Marcello Matera, aveva chiarito che l’atto di indirizzo di Sacconi «è destinato solo alle strutture amministrative non può vanificare una sentenza» ventilando anche come «teoricamente possibile il ricorso alla forza pubblica», cioè al ricovero coatto, se nessuno volesse accogliere Eluana. Un’ipotesi che gli avvocati stanno valutando in queste ore ma considerano un’extrema ratio di fronte al perdurare del muro contro muro. Al momento perdura la speranza che il «chiarimento» richiesto dalla clinica possa venire esaudito dalla Regione. Si mostra ottimista l’avvocato della famiglia Vittorio Angiolini. Anche la curatrice di Eluana Franca Alessio si limita a sperare che Tondo confermi le sue aperture. Riccobon ritiene che «i tempi possono essere mantenuti brevi, si tratta solo di capire se e come la Regione intende applicare l’atto». Oggi il procuratore di Udine incontra i vertici della clinica.
Il presidente della Conferenza delle Regioni Vasco Errani giudica la presa di posizione di Sacconi «giuridicamente ininfluente». Ma il sottosegretario Roccella insiste: «Il Friuli la segua o sarà frattura con il governo».

l’Unità 19.12.08
L’etica e l’ingerenza di Sacconi
di Vittorio Angiolini


La Corte Costituzionale tedesca, tempo fa, ha ipotizzato che l’aborto, considerato illecito, potesse essere ammesso qualora la donna si sottoponesse preventivamente ad un’opera di persuasione «etica», con cui lo Stato le ricordasse come la scelta di abortire fosse riprovevole.
Giuristi tedeschi ed europei, anche cattolici, criticarono la Corte, sottolineando come compito dello Stato non possa essere quello di ingerirsi nell’ «etica» e nelle «coscienze» individuali, ma debba essere solo quello di distinguere, con sanzioni adeguate, i comportamenti vietati da quelli ammessi e da quelli protetti come diritto dell’individuo.
L’intervento del Ministro Sacconi sul caso Englaro ripropone il problema: il Ministro stesso dice di non aver vincolato comportamenti, non avendone la competenza, ma dice di aver voluto operare un richiamo doveroso «eticamente». Il problema è di nuovo quello di un’autorità statale che vuole porsi come autorità in campo «etico». La questione non è secondaria. La «bio-etica» esige un dibattito ampio, a cui tutti siano ammessi liberamente e senza esclusioni, neanche a carico di chi rivendica la libertà di propri convincimenti religiosi. La «bio-etica», non può divenire «bio-politica», ossia rimessa alla mano statale e pubblica. Lo Stato e la politica che vogliono appropriarsi dell’«etica» sono, per fortuna, solo un ricordo triste.
Lo Stato faccia il compito suo, che è quello di dare norme giuridiche di comportamento e che, nel caso di Eluana, è un compito ormai esaurito, essendo giunti ad una sentenza definitiva.
Per il resto, anche sugli stati vegetativi, il dibattito liberamente. In campo «etico», l’opinione del Ministro vale quella di qualunque altro cittadino, in quanto non si traduca, o come nel caso nostro sia persino intraducibile, in regole di diritto.

Repubblica 19.12.08
L’offensiva neodogmatica
di Gad Lerner


Ogni giorno di più la Chiesa di Benedetto XVI mostra un volto arcigno alle donne e agli uomini del suo tempo. Accusa di «statolatria» il governo spagnolo, colpevole di «indottrinamento laico».

Scomunica le sentenze della magistratura italiana sul caso Englaro, paragonandole a una condanna a morte. Proclama l´impossibilità del dialogo interreligioso, raccomandando di «mettere tra parentesi la propria fede» quando ci si confronta con le altrui confessioni.
Il papa stesso si erge a maestro di dottrine politiche affermando ? nell´insolita, entusiastica, lettera a Marcello Pera ? che l´unica cultura liberale possibile sarebbe quella radicata nell´immagine cristiana di Dio. Sposando così la forzatura identitaria del "dobbiamo dirci cristiani" e vincolando le scelte etiche della collettività al principio unilaterale dell´agire "come se Dio ci fosse". Il Dio trinitario cristiano, naturalmente, per l´ennesima volta nominato invano.
L´attacco diretto alla Spagna segnala il disorientamento con cui la Chiesa reagisce alla perdita del ruolo di guida esclusiva della morale pubblica, nell´epoca della biopolitica. Sfiduciato nella sua capacità di esercitare una testimonianza evangelica, Benedetto XVI punta sul rafforzamento di un fronte laico conservatore che assuma la dottrina cattolica come ideologia dell´"ordine naturale"; per influenzare così le scelte inedite che le democrazie sono chiamate a compiere di fronte ai progressi tecnico-scientifici e all´evoluzione dei comportamenti familiari.
Ma il tono virulento che ormai contraddistingue l´attuale pontificato ? più politico che teologico ? rivela tutta la sua debolezza proprio quando deve fare i conti con le vicissitudini storiche da cui tale debolezza scaturisce. Non a caso il predecessore Giovanni Paolo II aveva impostato il Giubileo del bimillenario cristiano su un tema controverso come la "purificazione della memoria", vincendo le perplessità della Congregazione per la Dottrina della fede. Se la gerarchia cattolica oggi soffre un deficit di credibilità in Spagna, ciò non deriva anche dalla sua infausta alleanza col franchismo? E non a caso, nell´Italia clericale ma scristianizzata di oggi, abbiamo dovuto assistere a una reazione tanto stizzita dopo le parole di Gianfranco Fini sulla vergogna del 1938. Un´offensiva autoassolutoria che sarebbe stata impensabile solo qualche anno fa.
Ho provato disagio di fronte alla raffica di dichiarazioni lanciate all´unisono da storici cattolici che pure avevano scritto pagine tutt´altro che reticenti quando il clima era diverso. A sentirli ora, irriconoscibili, è parso quasi che la vicenda delle leggi razziali non riguardasse la Chiesa, e anzi la Chiesa potesse andare orgogliosa del modo in cui si comportarono allora i suoi principali esponenti.
Tale superba rappresentazione di sé medesima, aggravata dall´uso di parole sprezzanti nei confronti di chi osa metterla in dubbio, si scontra con una mole di documenti incontrovertibili e noti da tempo. Basterebbe rileggere la corrispondenza tra il gesuita Pietro Tacchi Venturi e il segretario di Stato della Santa Sede, Luigi Maglione, nelle settimane successive alla caduta del fascismo. Quando gli alti prelati si adoperarono per evitare che Badoglio cancellasse in toto la normativa sugli ebrei, «la quale secondo i nostri principii e le tradizioni della Chiesa cattolica ha bensì disposizioni che vanno abrogate, ma ne contiene pure altre meritevoli di conferma». Di fatto nel 1943 il Vaticano chiedeva solo la "riabilitazione" degli ebrei convertiti. Che gli altri restassero pure discriminati: le leggi razziali andavano corrette ma non soppresse.
Del resto sette anni prima, il 14 e il 19 agosto 1938, l´Osservatore romano aveva pubblicato due articoli in cui ? dopo aver vantato le benemerenze accumulate dai papi in difesa degli ebrei nel corso della storia ? rivendicava le proibizioni cui essi venivano assoggettati, motivate non da "ostracismo di razza", bensì dalla «difesa della religione e dell´ordine sociale, che si vedeva minacciato dall´ebraismo». Questo era il modo in cui la Chiesa pensò di reagire alla svolta razzista del regime. Perché stupirsene, visto che negli stessi giorni il governo Mussolini rassicurava per iscritto padre Tacchi Venturi con le seguenti, beffarde parole: "Gli ebrei non saranno sottoposti a trattamenti peggiori di quello usato loro per secoli e secoli dai papi». Erano trascorsi meno di settant´anni dalla definitiva chiusura del ghetto di Roma.
Oggi che il dialogo ebraico-cristiano è di nuovo ostacolato dalla pretesa teologica di conversione del popolo di Gesù, sarebbe bene che, invece di sbandierare una dura opposizione alle leggi razziali che purtroppo non c´è mai stata, gli uomini di Chiesa ricordassero la dottrina antigiudaica vigente nel 1938 (e sconfessata solo nel 1965): cioè l´accusa di "deicidio" con cui venivano spiegati diciannove secoli di discriminazioni. Tanto è vero che il Vaticano denunciava come perniciose le posizioni di leadership culturale assunte dagli ebrei nelle democrazie occidentali. Come stupirsi se poi la società italiana tollerò l´infamia delle leggi razziali?
Tutto ciò è stato materia dolorosa di riflessione nella Chiesa cattolica, da Giovanni XXIII a Giovanni Paolo II. Ma ora di nuovo scatta l´anatema. Contro Gianfranco Fini, inchiodato alle sue origini fasciste. E contro Walter Veltroni, colpevole di avergli dato ragione.
Colpisce il richiamo all´ordine rivolto ieri da Avvenire ai dirigenti cattolici del Partito democratico: perché non criticate il vostro segretario, lasciando tale incombenza solo alla pattuglia dei "teodem"?
L´offensiva neodogmatica della Chiesa arcigna non può fare a meno di questi richiami caricaturali all´infallibilità. Il dubbio è bandito, fede e ragione coincidono così come dottrina e natura. Che si tratti di bioetica, di ordinamento familiare, di finanziamento delle scuole cattoliche, o di interpretazioni storiche.
Stranamente tale severità viene meno solo allorquando i politici amici contraddicono i precetti evangelici dell´accoglienza e sparano accuse di "catto-comunismo" sui vescovi che li richiamano. Perché la Chiesa arcigna s´illude di lucrare vantaggi dal conservatorismo laico, e lo supporta a costo di trasmettere disagio in chi vive il cristianesimo come testimonianza di vita. In diversi incontri pubblici cui ho partecipato nelle settimane scorse dentro sedi parrocchiali e istituzionali, mi è capitato per la prima volta di sentire applausi rivolti a sacerdoti e fedeli che criticavano apertamente il papa.

Repubblica 19.12.08
L'influenza internazionale del fascismo nella campagna contro gli ebrei
Così l'Italia esportò le leggi antisemite
di Michele Sarfatti


Budapest e Bucarest, Tirana e la Spagna di Franco. Sono diversi i paesi che guardarono al modello italiano. Un terreno ancora da esplorare

Pubblichiamo parte dell´Introduzione di al numero speciale de «La Rassegna Mensile di Israel» sulle leggi antisemite del 1938

Sulla legislazione antisemita del 1938 possiamo osservare che sono da tempo disponibili alcune indagini sulla reazione degli italiani antifascisti in Francia e un primo approfondimento sull´intera comunità italiana negli Stati Uniti. Ma ci manca una panoramica generale dettagliata, tale cioè da dare conto sia dell´insieme dei comportamenti nei vari paesi, sia delle tante specifiche vicende. Quasi nulla poi è stato scritto sulle reazioni degli altri governi: gli alleati/alleandi tedesco e giapponese (quest´ultimo indubitabilmente "non ariano"), quelli sotto effettiva influenza italiana, quelli sui quali l´Italia intendeva esercitare influenza, quelli neutrali od ostili, quelli che rientravano nella classificazione di "semiti", pur se "non ebrei", quelli "latini" a tendenza autoritaria.
Per comprendere quanto estesa possa essere l´utilità di queste ricerche e riflessioni, basti richiamare alcune considerazioni sviluppate da Klaus Voigt, pur in un volume dedicato precipuamente al trattamento degli ebrei tedeschi nell´Italia fascista antisemita: «Non si è finora riflettuto sui contraccolpi che la complicità di Mussolini nella politica razziale ebbe sulla situazione degli ebrei in Germania. Con l´introduzione delle leggi razziali in Italia, l´alleanza veniva rafforzata al punto che Hitler poteva dare senz´altro inizio a una fase di più violenta persecuzione degli ebrei. Siamo quindi autorizzati a chiederci se il pogrom della "notte dei cristalli", che ebbe luogo un mese dopo la seduta del Gran consiglio del fascismo, avrebbe as sunto le stesse dimensioni se Hitler avesse dovuto ancora corteggiare Mussolini». La domanda è stata formulata quasi venti anni or sono, le risposte non sono ancora pervenute.
Il divieto radicale di celebrazione di matrimoni del «cittadino italiano di razza ariana» con «persona appartenente ad altra razza», inserito dal regime fascista nel decreto legge 17 novembre 1938 n. 1728, costituì anche una notevole svolta nelle complesse relazioni tra regime fascista e Santa Sede. Infatti nel gennaio 1937 il governo aveva optato per non inserire tale divieto nel decreto legge sui «rapporti fra nazionali e indigeni» nelle colonie, motivando la decisione con «considerazioni di opportunità in rapporto allo spirito informatore dei Patti Lateranensi». (...) Ebbene, questo nuovo divieto italiano, questo successo mussoliniano del novembre 1938, ebbe un´influenza grave e reale fuori d´Italia: venne infatti esplicitamente richiamato in occasione della sua introduzione in altri Paesi. Così, il 2 novembre 1940, mentre l´Ungheria si stava appunto predisponendo a varare tale normativa (nei confronti dei soli matrimoni tra «ariani» ed «ebrei»), il Nunzio a Budapest Angelo Rotta riferì a Roma: «L´esempio poi dell´Italia riesce qui molto funesto». (...)
Gli Stati europei sottoposti a una netta influenza italiana erano pochi, nonché in genere piccoli e di limitato peso specifico. E però essi esistettero. Ne deriva che è oggi legittimo e doveroso indagare quanto quell´influenza concernesse anche l´antisemitismo e il razzismo. In attesa che vengano sviluppate ricerche a carattere ampio e approfondito, si possono intanto richiamare alcuni documenti isolati, testimonianti volta a volta o l´intenzione del governo fascista di esportare la propria legislazione, o la volontà degli altri governi di tenerne conto, almeno in parte. Ad esempio, poco prima dell´invasione italiana dell´Albania dell´aprile 1939, l´ambasciata di quel Paese a Roma comunicò a Tirana di avere «l´impressione che il governo italiano non vede di buon occhio la venuta degli ebrei nella nostra terra e tantomeno la loro sistemazione». Lo studioso che ha reperito il documento, Artan Puto, ritiene che i provvedimenti albanesi del 1938-1939 contro l´immigrazione di ebrei erano motivati più dalla volontà di mostrarsi allineati all´Italia che dalla crescita dell´antisemitismo nella popolazione o nel governo. (...)
Dalla parte opposta del Mediterraneo vi era la Spagna del vittorioso Francisco Franco, con il governo insediato a Burgos. Questo seguiva i nuovi avvenimenti della penisola con grande attenzione e non poche preoccupazioni, dipendendo dal sostegno italiano e necessitando altresì ottimi rapporti con la Santa Sede. Uno studio di Isidro Gonzales Garcia illustra in particolare due casi, entrambi concernenti persone battezzate e non italiane. Il primo, un avvocato ventottenne, intenzionato a lavorare presso la stessa compagnia assicuratrice che lo impiegava in Italia, venne ammesso. La seconda, una giovane che intendeva sposare un italiano non ebreo, da tempo combattente per Franco, no. Il motivo addotto per quest´ultima decisione è proprio il divieto legislativo italiano di matrimoni «razzialmente misti». Pur essendo ella raccomandata da un vescovo italiano, nel suo caso Burgos scelse esplicitamente di non porsi in contrasto col regime fascista. (...)
Tirana, Burgos e San Marino costituiscono un´area internazionale di influenza diretta decisamente modesta. Ma si è detto che quella indiretta raggiungeva Budapest e Bucarest. Insomma, l´Italia di Mussolini ebbe un qualche ruolo nell´estensione della normativa antiebraica. Vale la pena di studiarlo e conoscerlo meglio.

Repubblica 19.12.08
Quando si dice lo giuro
Un saggio di Giorgio Agamben
di Gustavo Zagrebelsky


Conosciamo il giuramento come pertinente alla sfera del sacro e in seguito come istituto giuridico per lo studioso si tratta di una storia che in origine riguarda la parola
Le cose sono molto cambiate nel corso dei secoli e oggi si vive senza un patto giurato
In principio l´atto del giurare mette la lingua umana in relazione con quella divina

La molla intellettuale comune a molta parte delle ricerche di Giorgio Agamben è l´interesse per l´archeologia dell´essere umano, archeologia non come risalita della corrente del tempo verso le origini, ma come scoperta di principi costitutivi e fondativi: arcani, da arké, per l´appunto. C´è molta differenza tra queste ricerche e, per esempio, quella che si potrebbe dire di antropologia filosofica elementare di un Arnold Gehlen, in Italia noto soprattutto per il suo volume tradotto da Feltrinelli nel 1983, col titolo L´uomo. Qui si sviluppa un nucleo concettuale, l´idea dell´essere umano come eccesso di pulsioni che si "istituzionalizza" per tenerle sotto controllo e, su questa idea, si compone un sistema. Questo accenno serve per differenza. In Agamben, è il contrario. Egli, per così dire, segue segni e tracce, dovunque si trovino: certo nella preistoria o ultra-storia, nella storia e perfino nella "poststoria", ma anche nella filosofia, nella filologia, nella linguistica, nella teologia, nella politica, nella fisiologia, nella psicologia, nell´arte e perfino nel diritto. Insomma, un seguire le piste che conducono dovunque si possa trovare qualcosa di utile. Per muoversi così, occorre illimitata curiosità unita a eccezionale vastità del sapere. In ogni caso, sono travolte le consuete divisioni disciplinari accademiche, onde definire Agamben un "filosofo" è certo riduttivo.
Il risultato, secondo il titolo di un suo volume del 2003, è L´aperto, l´essere umano indefinito che viene definendosi, mai definitivamente, entro campi di tensione che, oggi, a differenza d´un tempo, mettono in questione l´esistenza stessa di una sostanza, un´ontologia minima, comune a tutti gli esseri umani e costante in ogni tempo. Davvero, l´uomo non è più una «natura umana», ma qualcosa da ridefinire continuamente attraverso scomposizioni e composizioni dall´esito sempre variabile. I campi di tensione sono i più diversi, determinati da forze materiali ed elaborati culturalmente: corporeità-spiritualità, macchina-organismo, tenebre-luce, tempo finito-tempo infinito, animalità-umanità, eccetera, fino al dualismo radicale vita-morte, proprio dell´epoca della biopolitica e della «nuda vita».
Nel libro che qui si presenta, Il sacramento del linguaggio. Archeologia del giuramento (Laterza), l´essere umano è considerato nella tensione tra parola significante e oggetto significato. Nel momento in cui l´essere vivente si percepisce come parlante, percepisce anche una realtà esterna che deve essere in corrispondenza, deve essere "corrisposta" dal discorso. Ma non c´è nessuna garanzia di corrispondenza, c´è invece uno spazio vuoto, una distanza incolmabile che nessuna parola, nessuna moltiplicazione di parole può colmare: anzi, si potrebbe dire che il moltiplicare le parole moltiplica questi spazi. Poiché la parola detta non è detta soltanto per sé dal parlante, ma è detta in funzione della comunicazione con altri, per costoro la parola diventa a sua volta una "cosa", un significato che ha bisogno d´essere afferrato attraverso un significante, cioè un´altra parola. Questa può anche essere la medesima della prima, ma con questa entra in un rapporto di indeterminatezza analogo a quello che legava la prima parola alla cosa significata. In altri termini, il linguaggio umano e i rapporti sociali che esso stabilisce sono una somma di innumerevoli spazi intermedi di comprensioni incerte, di fiducia carente, di equivoci, di menzogne, di inganni possibili, di sospetti inevitabili. L´essere umano sta in questo vasto luogo incerto, che le sue parole delimitano da una parte, e la realtà cui il linguaggio si riferisce delimita dall´altra. Qui, in questo spazio, si collocano l´essere umano, in quanto "parlante", e il suo giuramento.
Il giuramento, così come lo conosciamo, è un istituto della religione e del diritto: un´affermazione (di un fatto o di una promessa), assistita dall´evocazione della divinità, o comunque di qualcosa di sacro, come testimone o garante, e da un´auto-maledizione in caso di spergiuro. L´apparato sanzionatorio è messo in moto da norme e strumenti religiosi o giuridici. Sempre secondo le idee ricevute, in base a un paradigma esplicativo di portata generale, in origine il giuramento sarebbe appartenuto alla sfera del sacro, poi, attraverso processi di differenziazione del diritto dalla religione, sarebbe divenuto un istituto giuridico.
Ma, secondo Agamben, la ricerca dell´arké ci porta altrove, rispetto alla religione e al diritto. Il giuramento, nella sua essenza, sarebbe una vicenda della parola, non dell´autorità. Religione e diritto intervengono semmai in un secondo momento, a supporto di un deficit di linguaggio. Il giuramento è una proposizione di validità della parola, cioè di rispondenza fedele del significante al significato; esso non riguarda, in origine, una promessa (di dire la verità, di adempiere un impegno preso) nei confronti dell´udente, ma riguarda il linguaggio stesso e, come tale, appartiene al suo "statuto" e alla condizione di parlante.
L´archetipo della parola è la parola di Dio, la parola creatrice. «E Dio disse: sia la luce. E la luce fu» (Gen 1, 3). La parola di Dio è vera, è la parola per eccellenza, perché essendo creatrice, non ha di fronte a sé "cose significate" cui deve corrispondenza, anzi non ha nulla «di fronte a sé», che non sia nella parola che realizza se stessa. La parola divina è l´esempio più chiaro di "performativo": l´atto linguistico che non descrive uno stato di cose, ma produce immediatamente un fatto, realizzando il suo significato. Sotto questo aspetto, si comprende che Dio non giuri, perché - si può dire - in verità ogni sua parola è un giuramento. Sotto un altro aspetto, si può aggiungere che ogni parola divina è miracolo. «Talità kum», fanciulla alzati, disse il Cristo alla figlia morta del capo della Sinagoga (Mc 6, 41) e la fanciulla si alzò. Ecco un altro esempio della potenza creatrice della parola divina.
Nel modo che è possibile, il giuramento degli esseri umani è un modo di mettere la loro lingua in comunicazione con quella divina, sotto l´aspetto che più d´ogni altro interessa: la corrispondenza tra significante (la parola) e il significato (la cosa), ciò che è alla base della fiducia, la risorsa essenziale per la costruzione di qualsiasi forma di convivenza tra gli umani. Un esempio di "performativo" nel linguaggio umano è certo linguaggio giuridico. «Uti lingua nuncupassit, ita ius esto», dicevano le XII Tavole (come correttamente sarà detto dalla parola, così sarà per il diritto). Un altro è il "sì" che si pronuncia davanti all´ufficiale dello stato civile che, di per sé, produce lo status coniugale. Un altro ancora è il linguaggio legislativo, quando esso determina situazioni giuridiche: l´extra-comunitario che entra nel nostro Paese, in assenza di determinate condizioni, è "clandestino". Qui davvero le parole creano le cose, le situazioni. Ma si vede l´irriducibile differenza rispetto alla parola divina: mentre questa deriva da un potere totalmente fondato su se stesso (l´ «io sono colui che sono» del roveto ardente), la parola umana, per produrre i suoi effetti, ha sempre bisogno di fondare la sua validità su qualcosa, una norma (le XII Tavole o il codice civile) o un principio che la precede come un criterio di validità. Anche la legge è sottoposta a un test di validità. In un supremo esercizio di teologia politica, potremmo dire che lo Stato, assunto come assoluto, cioè come colui che ha detronizzato Dio, potrebbe ambire ad auto-assegnarsi la parola creatrice, la parola che non dipende che da se stessa: lo Stato che potesse auto-definirsi, per analogia, «io, lo Stato, sono colui che sono stato». Ma ciò non è nemmeno per le teorie più marcate in senso assolutistico: lo Stato di Thomas Hobbes è pur sempre e solo un Dio "mortale", di cui occorre comunque poter giustificare la sua "vita".
In breve, il giuramento è un performativo: vuole legare fino a far coincidere la parola con la cosa. Ma, per gli umani, occorre che il giuramento stesso risponda a un criterio di validità. Il criterio è: i giuramenti sono vincolanti. Ma il giuramento non esclude lo spergiuro; l´invocazione del nome di Dio non è garanzia ch´essa non sia "invano". Il perché i giuramenti fossero e dovessero essere vincolanti, per molti secoli è dipeso dalla presenza, testimoniale o vendicatrice, di Dio.
Oggi non è, palesemente, più così, in particolare nella sfera pubblica. Il giuramento, che Machiavelli metteva a base della gloria romana, più ancora che l´obbedienza alle leggi; il giuramento da cui, per Locke, poteva scaturire l´appartenenza al patto sociale, con la conseguenza che gli atei, che non potevano giurare, dovevano esserne esclusi; il giuramento, dunque, non figura più al posto d´onore delle istituzioni politiche, che la secolarizzazione ha reso autonome dalla dimensione del sacro. Dove residua, ha perso questo suo carattere, essendosi trasformato in una semplice «promessa solenne» (Corte costituzionale, sent. n. 334 del 1969), oppure essendo divenuto facoltativo (Corte costituzionale, sent. n. 117 del 1979). L´integrità della parola è rimessa interamente alla auto-responsabilità verso gli altri, potremmo dire alla responsabilità politica di chi la usa. Forse, c´è un rapporto tra evanescenza del giuramento ed evanescenza di questa responsabilità. La menzogna, magari spudoratamente spergiurata; la parola detta e poi subito dopo contraddetta; la parola che vaga male-detta, indipendentemente da ogni legame con un significato: tutto ciò ha invaso la nostra vita e costituisce uno dei non minori segni di disfacimento di convivenza. Il libro di Agamben inizia e termina con la citazione da Paolo Prodi, Il sacramento del potere. Il giuramento politico nella storia costituzionale dell´Occidente (1992). In questo libro si constatava che le nostre generazioni convivono, pur senza fondarsi su alcun patto giurato, e ci si chiedeva se la novità non dovesse indurre a riflettere su una capitale trasformazioni delle modalità di associazione politica. Agamben, riprendendo questo spunto, conclude con queste osservazioni la sua diagnosi circa la dissociazione tra parola e cosa, causa ed effetto di radicale de-responsabilizzazione del parlante rispetto al parlare e alle cose di cui parla, prima che rispetto all´ascoltatore: «da una parte sta ora il vivente, sempre più ridotto a una realtà puramente biologica e a nuda vita, e, dall´altra, il parlante, separato artificiosamente da esso, attraverso una molteplicità di dispositivi tecnico-mediatici, in un´esperienza della parola sempre più vana, di cui gli è impossibile rispondere e in cui qualcosa come un´esperienza politica diventa sempre più precaria».
Anche questo è un tassello, non tra i meno preoccupanti, per la comprensione di che cosa sia quella materia mobile, aperta, che è l´essere umano.

Corriere della Sera 19.12.08
L'intervista Carlo Podda, leader sindacale della Funzione pubblica
La Cgil: molte zone d'ombra, la sinistra sbaglia
di Enrico Marro


ROMA — «Il Pd fa quello che vuole, loro fanno politica e magari, in questa fase, hanno bisogno di scambiarsi segnali di dialogo con la maggioranza. Comunque al Senato si sono astenuti, mica hanno votato sì, e forse alla Camera le cose andranno diversamente. In ogni caso, a me, da sindacalista, la riforma Brunetta continua a non piacere». Carlo Podda, leader della Funzione pubblica-Cgil, non si sposta di un millimetro nonostante in Senato la riforma per migliorare l'efficienza della pubblica amministrazione sia passata anche con l'astensione dei Pd, compresi gli ex Cgil Paolo Nerozzi e Achille Passoni.
Come sindacalista non le piace, ma magari è una riforma che ai cittadini serve.
«Guardi, per migliorare i servizi pubblici non servono leggi, ma bisogna concentrarsi sull'organizzazione del lavoro. Di leggi ne abbiamo anche troppe. Ci sono norme sulla trasparenza, sull'autocertificazione, sul diritto all'informazione del cittadino che non vengono ancora applicate».
Nella riforma Brunetta ci sono molte norme tese a migliorare l'organizzazione del lavoro, perché non riconoscerlo?
«Io vedo soprattutto un arretramento della contrattazione rispetto alla legge. Che è esattamente il percorso inverso a quello che si decise nel '92 dopo Tangentopoli, grazie alla privatizzazione del rapporto di lavoro pubblico alla quale lavorarono Sabino Cassese e lo stesso ministro Maurizio Sacconi, allora per conto di Giuliano Amato. Ora in tempi di ritorno della questione morale, non mi pare opportuno riportare la politica nell'amministrazione. Se a questo aggiunge che il governo ha appena deciso un nuovo rinvio della class action...».
Non salva nulla di questa riforma?
«Guardo con interesse all'Authority che dovrebbe vigilare sul sistema di valutazione dell'amministrazione. Ma anche qui vedo delle zone d'ombra, a partire dalla remunerazione dei 4 membri di vertice, che dovrebbe assorbire 1,2 milioni, senza che questi compensi siano legati ai risultati dell'attività della stessa Authority. Mi pare un po' strano per un organo che basa tutto sul merito».
Intanto, mentre la riforma si propone di migliorare la situazione, la Fp-Cgil risponde lanciando un nuovo sciopero generale per il 13 febbraio.
«Lo sciopero lo abbiamo deciso per altri motivi: il taglio delle retribuzioni dallo scorso luglio, un contratto che vale quanto una social card, la mancata assunzione di 60 mila precari. Quanto allo scopo della riforma, di buone intenzioni sono lastricate le vie dell'inferno... ».

l’Unità 19.12.08
Medici senza frontiere chiede alla Regione Calabria servizi igienici e acqua potabile
Lavorano anche 12 ore per 20 euro, vivono nella paura senza gas e luce
I 1500 del lager nell’aranceto
Msf: immigrati come bestie
di Eduardo Di Blasi


Nelle campagne di Gioia Tauro, da novembre a marzo, si riversano migliaia di immigrati, per lo più clandestini. Lavorano nelle campagne. Guadagnano in media 240 euro al mese. Soffrono fame e freddo.
Da novembre a marzo. Agrumi, freddo, fame. Due fabbriche abbandonate, una vecchia cartiera e un ex deposito nella piana di Gioia Tauro. Da un paio d’anni sono diventate rifugio di oltre 1500 persone. Extracomunitari arrivati dal Sud del mondo al Sud Italia. San Ferdinando, Rosarno, Rizziconi.
Giovani, per lo più: l’84% afferma una ricerca condotta da Medici Senza Frontiere, ha tra i venti e i quarant’anni. Braccia per le arance, stipate nei capannoni.
Antonio Virgilio. responsabile dei progetti italiani Msf, nel chiedere che la Regione Calabria ottemperi all’impegno preso nel settembre scorso di installare servizi igienici, docce e fontane con acqua potabile, racconta a parole quello che video e fotografie dell’associazione già dicono: «All’interno di questi due capannoni, senza acqua, gas e elettricità, si costruiscono casupole di cartone, e per riscaldarsi fanno fuochi che rendono l’aria irrespirabile. Patiscono fame e freddo».
La settimana scorsa Msf ha distribuito beni di prima necessità, «sapone, spazzolino, dentifricio e un sacco a pelo». C’è un dottore di Msf che fa assistenza medica in questo inferno. Ne è uscito un screening medico che fa riflettere. «Arrivano in buone condizioni di salute - spiega Virgilio - si ammalano in 6-12 mesi. Tutte le patologie che abbiamo individuato sono collegate a condizioni di lavoro. A causa della scarsa protezione sul lavoro, sono affetti da micosi perché sono sempre a contatto con agenti chimici e fitofarmaci. Soffrono di problemi osteo-muscolari dovuti alla cattiva postura e alla durezza del lavoro, di gastriti e gastroenteriti per bassa qualità e quantità di cibo e acqua. Hanno problemi alle vie respiratorie perché vivono in ambienti insalubri. In una casa dormono in quaranta, su materassi di fortuna. Sono patologie comuni che si storicizzano perché, essendo esclusi, non accedono alle cure». E’ una vita d’inferno, ma non solo. È un modello produttivo che attraversa una crisi: «C’è grossa precarietà perché c’è poco lavoro. Restano due tre giorni senza mangiare. Vivono in mezzo ai propri escrementi e all’immondizia sotto i tetti sfondati di queste due fabbriche».
Siamo davanti a un fenomeno di sfruttamento massiccio di migliaia di vulnerabili, irregolari nel 75% dei casi. «Forza lavoro nascosta che comunque è necessaria per un certo tipo di economia agricola del sud». Fondamentale, si direbbe, proprio perché in parte schiavizzata. «Se vediamo quante persone lavorano nei campi, capiamo che questo tipo di produzione ha bisogno di un numero di forza lavoro che il decreto sui flussi non copre. Utilizzare forza lavoro a basso costo permette di poter essere più competitivi», constata Virgilio.
Sono migliaia gli stranieri che passano l’inverno in questa piana, e semmai si spostano a Foggia a fare i pomodori o nel Metaponto per le angurie in estate. Poi in Sicilia per la vendemmia. Una massa di persone senza casa. Braccia di schiavi. «Lavori 10-12 ore al giorno per 20 euro, in alloggi di fortuna disumani e a causa della scarsità di lavoro patisci anche la fame».
Di più: il 16% afferma di essere stato vittima della popolazione locale. Per cause di «lavoro», come il rifugiato sudanese «picchiato dal caporale davanti ai suoi compagni perché si lamentava delle remunerazione». Ai due ragazzi feriti a colpi d’arma da fuoco a Rosarno tre giorni fa. «C’è una paura diffusa. e sempre più difficile vivere». sempre se questa può chiamarsi vita.

Repubblica 19.12.08
Bertinotti: è fallito il partito liquido
intervista di Umberto Rosso


«Il partito leggero di Veltroni è fallito. È diventato il partito degli assessori, ecco perché è permeabile ai potentati economici». Fausto Bertinotti spiega così la questione morale nel Pd.

Bertinotti: la questione morale investe il Pd perché è in mano ai sindaci
"Caro Walter, ammettiamolo il partito leggero ha perso a sinistra serve un big bang"

La politica liquida fa proliferare i potentati locali Il baricentro si è spostato nelle periferie: il centro non governa più, comandano gli amministratori
Siamo di fronte ad una crisi di sistema. Investe il Pd che è il fronte più avanzato dell´innovazione
Mi chiedo perché sia diventato così ingombrante il peso di costruttori e imprenditori

Presidente Bertinotti, siamo di fronte ad una nuova Tangentopoli, che si abbatte sul Pd, oppure si tratta di singoli episodi di corruzione e malaffare?
«Siamo di fronte ad una crisi di sistema. Investe il Partito democratico semplicemente per la ragione che il Pd, contrariamente a quel che pensano quasi tutti, è la frontiera più avanzata dell´innovazione. Ed è proprio una certa innovazione del nostro sistema la causa prima di quel che sta succedendo».
Ma è come nel ´92?
«La Tangentopoli di allora e i fatti di oggi sono fenomeni diversi, due risposte sbagliate alla crisi della Prima Repubblica. La Tangentopoli del ´92 è fotografata dall´analisi di Berlinguer. I partiti per salvare se stessi occupano tutto, fagocitano lo Stato. Craxi, nella sua chiamata di correo alla Camera, dice: l´ho fatto per salvare i partiti. Che naturalmente non lottano più in nome degli ideali ma provano a sopravvivere attraverso una crescita del loro potere».
La Tangentopoli di oggi?
«E´ quasi il contrario. I partiti diventano partiti del leader e si dissolvono. Nel Pdl, Berlusconi "a machiavella", come direbbero dalle mie parti per intendere machiavellico, tiene insieme il partito del capo e le singole forze politiche, come la Lega e An. Il Pd invece, in questo senso più innovatore, è il partito del leader allo stato fluido, come direbbe Bauman. Ma la dissoluzione del partito cosa fa nascere? I potentati locali. Senza una reale struttura oligarchica al centro, fragile, si appoggia al partito dei sindaci. Sotto il partito del leader ecco così i potenti locali. Il baricentro del potere si è spostato qui. Comandano gli amministratori».
Ma perché la dislocazione "in basso" dovrebbe essere veicolo di corruzione?
«Non di per sé, ma è la miscela con altri fattori che provoca l´esplosione. Intanto, un rovesciamento dell´etica costituente: oggi l´economia comanda sulla politica, che è sempre sotto schiaffo, tende a farsi gradita alle grandi banche, ai costruttori, agli immobiliaristi, ai potentati».
Un fenomeno non nuovo...
«Aggiungiamo l´ultimo elemento: una vera e propria controriforma del quadro istituzionale. Il Parlamento è svuotato rispetto al governo ma è ancora nulla rispetto a quel che è successo a livello locale. I consigli comunali letteralmente non contano più niente. Le giunte sono un insieme di assessori dotati di potere sovrano. Ogni singolo assessore è fuori controllo: ha una delega dal sindaco, il quale è in grado di intervenire solo sulle cose su cui sta, e non risponde di fatto al consiglio comunale. I centri di potere locali sono così diventati irresponsabili democraticamente. Chiamati ad occuparsi di servizi pubblici ormai privatizzati...».
Erano servizi spesso costosi e inefficienti.
«Non lo nego. Ma quando la mensa degli ospedali era un servizio interno, non da affidare in appalto, il rapporto fra affari e politica era precluso a monte. Lo stesso può valere, che so, per le lavanderie degli ospedali. Oppure per i cimiteri, che ormai non sono più luoghi di culto ma di affari. Il tutto, mentre vengono meno le funzioni pubbliche».
In che senso?
«Perché è diventato così ingombrante il peso di costruttori e di immobiliaristi? Ma perché i piani urbanistici, e quindi il ruolo pubblico, subiscono una revisione attraverso quel che viene definito urbanistica contrattata. Il potere pubblico entra sistematicamente in una contrattazione con i privati, ti cedo una parte del territorio e tu mi fai un´opera. Un ragionamento analogo si può fare per gli inceneritori. Così si è spalancata alla strada alla discrezionalità. Non a caso nessuno degli episodi emersi riguarda il finanziamento illecito ai partiti ma lo scambio diretto fra un dirigente politico dotato di potere amministrativo e un soggetto economico».
Il partito degli assessori allora agisce solo per sé.
«Ma è un´organizzazione del consenso elettorale, ovvero il punto nevralgico del nuovo partito leggero. Privo della forza dell´oligarchia, e senza la forza della pressione di massa, il partito leggero ha come stella fissa la vittoria delle elezioni. Voti non olet. Quello che olet lo fa il potentato locale, che "scherma" il partito. Per questa ragione la sollecitazione a "bonificare", per quanto sacrosanta, temo sia inefficace. Per bonificare, bisogna mettere mano a quel sistema. Togli una mela marcia e ne marciscono altre dieci. Il contagio è ambientale. La politica non può delegare alla magistratura».
Si fronteggiano due modi di affrontare la bufera, vedi Napoli. Il sindaco Iervolino giura sulla sua onestà, rimpasta la giunta e va avanti. L´Italia dei Valori esce a tappeto da tutte le giunte della Campania.
«Dipende dal livello delle indagini ma ci sono casi in cui non ce la fai comunque. Sulla moralità della Iervolino pronto a mettere la mano sul fuoco, ma superato un limite di soglia c´è il problema di come un atto politico viene percepito in una città, in un territorio. Non cedo nulla al populismo ma devi poter ritrovare la parola, e a volte per farlo non resta che una discontinuità assoluta, e il voto. Magari per ripresentarsi. Detto questo, io penso però che bisognerebbe cominciare dal grande per arrivare al piccolo».
Dal vertice del Pd.
«Occorre riaprire la discussione sulle forme di democrazia nel territorio. Per esempio certe grandi opere meriterebbero il vaglio di una consultazione referendaria. L´altra questione è tutta politica».
Qual è?
«E´ il momento di reinventare i partiti democratici, di massa e pesanti. La questione morale dovrebbe essere colta come un´occasione di riforma, che intanto riguarda la sinistra. Se il Pd viene coinvolto, invece di scandalizzarsi bisogna guardare alle cause profonde e pensare ad un vero e proprio big bang. Perché oggi in Italia nella lotta politica la sinistra non c´è, e il partito leggero moderno si è rivelato esposto a rischi cui il vecchio Pci, con tutti i suoi limiti, era immune. Ammettiamo che un ciclo è fallito, senza colpevolizzare nessuno. Serve un nuovo inizio, in cui tutti si mettano a disposizione».

Repubblica 19.12.08
Il Paese senza dimissioni
di Francesco Merlo


È un tripudio di "vado avanti" (Villari e Iervolino), "se lasciassi sarei un irresponsabile" (Loiero e Bassolino)

LE DIMISSIONI in Italia sono sempre state una nobile rarità. Ma solo ora sono diventate ignobili, ripugnanti e vili. E dunque davvero qui non si dimette più nessuno.
Nessun topo si sente fuori posto nel formaggio, e nessuno ha l´autorevolezza di imporre le dimissioni a nessuno. Eppure in passato nessun Bassolino e nessuna Iervolino avrebbero potuto resistere al consiglio imperioso di lasciare la poltrona fosse pure per sacrificarsi, nel rito collettivo del capro espiatorio, al bene comune e a un´idea alta di futuro.
E una volta ci si dimetteva anche per amor proprio. Al contrario di quel che pensa Rosa Russo Iervolino ? «vado avanti per difendere la mia onorabilità» ? si lascia non solo quando ci si sente ?al di sotto´, ma anche quando ci si sente ?al di sopra´, come fu, per esempio, il caso di De Gaulle che andò via senza dare spiegazioni e perciò permise a Raymond Aron di scrivere: «E´ un piacere ascoltare il silenzio di quest´uomo».
Insomma, le dimissioni, specie quelle che non vengono date ma sempre rimandate, misurano, oltre che la struttura morale dell´individuo, la dignità etica del luogo in cui ci si muove e il prestigio e la forza politica di chi (non) riesce ad ottenerle.
E basti pensare alla debolezza di un partito che applaude il sindaco di Firenze, Leonardo Domenici, perché sentendosi fuori posto egli si è incatenato al suo posto. Dinanzi alla giustizia non ci sono partiti e il segretario di un partito non è un avvocato. In questi casi, la solidarietà o è inutile o è astuta, o è insensata o è corriva. Non si possono confondere i due piani e, infatti, tutti sanno che Veltroni ha per esempio, sotto sotto chiesto, senza riuscire ad averle, le dimissioni di Bassolino al quale è stata tuttavia espressa solidarietà pubblica: «piena e totale fiducia» dunque, ma secondo la famosa formula filosofica del ?qui lo dico e qui lo nego´, bene illustrata al paragrafo due, comma quarto dell´autorevole trattato «Mamma, Ciccio mi tocca; toccami Ciccio, che mamma non c´è».
Alla fine dunque si capisce solo che Veltroni non ha la forza di fare dimettere Bassolino e la Iervolino, ma neppure Villari e Loiero? Eppure una volta ci si dimetteva perché amavi e credevi, oltre che nelle istituzioni, anche nel partito: uscivi per rafforzare il tuo partito. Mi racconta un dirigente del Pd di un Veltroni sconsolato: «Nessuno mi ha creduto e io stesso ormai faccio fatica a credermi. Ma sono mesi che chiedo la testa di Bassolino». Sfiducia in privato, fiducia in pubblico.
Il punto è che non è vero che dimettersi significa ammettere la propria colpevolezza penale ma soltanto la propria inadeguatezza. Dimettersi è dire ?sorry´ e scansarsi, confessare l´errore e non il crimine, e magari anche l´illusione, il sogno fortissimo: scusatemi, pardon. Dimettersi, prima d´esservi costretti, è anche intelligenza, eleganza, è una battuta di spirito.
Prendete invece l´assessore di Firenze Graziano Cioni che, da solo, ha pronunziato una dopo l´altra tutte quelle frasi del repertorio militare alle quali sempre si ricorre a ridosso della fine, da «rimango al mio posto di combattimento» a «non mi arrenderò mai». E infatti qui è un tripudio di «vado avanti» (Villari e Iervolino), «se mi dimettessi sarei un irresponsabile» (Loiero e Bassolino), «non mi consegnerò ai nemici» , «io sono un combattente». Sono tutti Menenio Agrippa, tutti Coriolano, tutti Enrico Toti. E però la metafora di guerra non precede le dimissioni, che in fondo non compromettono il futuro, ma l´irreversibile uscita di scena, la sconfitta definitiva.
E´ vero che in Italia anche in passato le dimissioni erano un lungo sfinimento e si ricorda per esempio un discorso di Forlani con tre finali diversi perché la Dc aveva elaborato la rimozione-promozione, il dimettersi per immettersi in nuovi poteri e un´infinità di altre combinazioni, ?dimissioni con riserva´, ?dimissioni mai´, ?reincarico´, ?sfiducia´?Ma non si era mai vista una resistenza così estesa e così bipartisan. E poi, diciamolo chiaro: non eravamo abituati alla faccia tosta di sinistra, alla sfrontatezza di sinistra, all´impudenza di sinistra che non si vergogna di se stessa. Ancora un passo e arriviamo a Cuffaro che non solo non si dimetteva, ma disarmava il Diritto festeggiando la condanna con i cannoli.
Ecco dunque Villari che può autoproclamarsi eroe della democrazia perché nessuno ha i titoli per farlo vergognare. Villari ha ragione a iscrivere anche il proprio trasformismo nella democrazia italiana. Da La Marmora a Mastella, dai ribaltoni di De Pretis e Minghetti a quelli di D´Alema e Bossi, dalla cacciata di Ricasoli alle cacciate di Prodi: «cospirazioncelle di gabinetto» le chiamava già il primo direttore del Corriere della Sera Eugenio Torelli-Viollier. E però anche dentro il trasformismo nessuno poteva sfuggire all´imposizione delle dimissioni che alla fine smontavano i conflitti e disarmavano le ideologie. E invece qui Agazio Loiero annunzia «non deporrò le armi», Bocchino pensa che l´accusa contro di lui sia «kafkiana», Lusetti ammette d´essere «distratto», ma di dimissioni non ne parla nessuno.
Per non dire del sottosegretario all´Economia Nicola Cosentino, coordinatore di Forza Italia in Campania, indagato per fatti terribili.
Abbassamento della soglia della dignità collettiva? Bassolino ha detto di non leggere i documenti che firma, parodiando così gli imputati di Norimberga. E Marta Vincenzi, sindaco di Genova, quando arrestarono il suo portavoce annunziò: «E´ il giorno più triste della mia vita». Dimissioni? «No. Farò piazza pulita». Ma i portavoce, i sottopanza, i segretari e gli alterego sono solo disgrazie? Gli italiani hanno il diritto di pensarli come protesi, come il guanto che indossa la casalinga per toccare i residui di cucina senza sporcarsi. E l´errore? Quanti errori bisogna commettere prima di ammettere l´incompetenza che non te li ha fatti riconoscere?
Eppure i non dimissionari, dietro l´inadeguatezza dei loro predecessori, furono pronti a scoprire coraggiosamente i delitti e le complicità: delitti non penali ma civili, delitti di indecenza, di sciatteria, di volgarità politica. Ebbene adesso dietro la propria inadeguatezza tutti coraggiosamente scoprono che esistono le cattive azioni senza autore, le malefatte senza malfattori, i colpevoli dall´innocenza adamantina. Così il deputato Margiotta e il sindaco di Pescara, che è stato arrestato ma non si è ancora dimesso.
Insomma le dimissioni sono state definitivamente cancellate dalla politica italiana. Le sole che continueremo a ricordare sono quelle di Francesco Cossiga che, travolto dal senso di colpa, lasciò il ministero dell´Interno dopo l´assassinio di Aldo Moro, e quelle di Dino Zoff che da allenatore della Nazionale non sopportò gli insulti del premier Berlusconi. Nel paese del ?posto fisso´, ecco dunque chi si dimette: il disturbato e il galantuomo.

Corriere della Sera 19.12.08
La soluzione sbagliata
di Gian Antonio Stella


«No San Vitur? Ahi ahi ahi ahi!» Pare passato un secolo da quando
Cuore faceva il verso a uno spot televisivo sbeffeggiando chi non era ancora finito a San Vittore e pubblicava il «bollettino dei latitanti » e sparava titoli come «Scatta l'ora legale / Panico tra i socialisti». Da quando Massimo D'Alema liquidava le parole di Bettino Craxi su Mario Chiesa dicendo che dare del «mariuolo » a qualcuno era «un modo troppo semplice di cavarsela». Da quando la notizia di un avviso di garanzia all'ex premier Giovanni Goria fu accolta dall'assemblea diessina con un applauso.
Mal comune mezzo gaudio? Non hanno senso, a destra, certi commenti del tipo «chi di tangenti ferisce, di tangenti perisce». Sono forse comprensibili, da parte di coloro che per anni sono stati additati come i monopolisti della mala- politica. Ma non hanno senso. Così come appare insensato quel sollievo a sinistra nel sottolineare che nelle retate e negli scandali di questi giorni, tra tanti esponenti del Pd, è rimasto invischiato anche qualche protagonista della destra, quale ad esempio Italo Bocchino.
Il guaio è che il nodo della corruzione in Italia, al di là delle sorti giudiziarie degli indagati, cui auguriamo di dimostrare un'innocenza cristallina, è rimasto irrisolto dai tempi in cui Silvio Berlusconi racconta che «a Milano non si poteva costruire niente se non ti presentavi con l'assegno in bocca». Lo dicono decine di processi in tutto il Paese. Lo confermano gli studi di Grazia Mannozzi e Piercamillo Davigo che esaminando 20 anni di casellari giudiziari hanno accertato che la bustarella non è tramontata mai anche perché le condanne per corruzione (poi ci sono le assoluzioni, le prescrizioni...) sono nel 98% dei casi inferiori ai due anni. Lo denuncia la Banca Mondiale, secondo cui se ne vanno in tangenti, in Italia, 50 miliardi di euro l'anno, tutti soldi che poi, a causa dei rincari delle commesse, pesano sulle tasche dei cittadini. Così come pesano ancora sulle pubbliche casse le mazzette di una volta, che secondo il centro Einaudi di Torino incisero, soltanto negli anni Ottanta, «dal 10 a quasi il 15% del deficit complessivo».
Lo testimoniano infine le classifiche sulla percezione della corruttela elaborate da Transparency:
nel 1993, in piena Tangentopoli, eravamo al 30˚posto tra i Paesi virtuosi. Nel 2007 stavamo al 41˚e quest'anno siamo precipitati al 55˚.Dietro (a parte la Grecia che di questo passo sorpasseremo a ritroso) abbiamo solo Paesi come la Turchia, la Tunisia, la Georgia, la Colombia... Davanti abbiamo il Portorico, il Botswana, Cipro... Qualcuno obietterà che si tratta di graduatorie da prendere con le pinze. Giusto. Ma certo la nostra reputazione, in questo settore, è pessima.
La tentazione che pare serpeggiare qua e là, a destra e a sinistra, è quella di uscirne dando una regolata alla magistratura: meno inchieste, meno arresti, meno scandali, meno indignazione popolare, meno astensione alle urne. Ma ammesso che qualche giudice abbia esagerato: sarebbe questa la soluzione?

il Riformista 19.12.08
Alleanze. Soccorso azzurro alla vigilia della delicata direzione Pd
La giustizia riavvicina Silvio e Walter
Veltroni oggi in direzione cavalcherà la questione morale
di Tommaso Labate


In vista del delicatissimo passaggio della Direzione odierna Walter Veltroni non può contare sul fu "fedele alleato" Antonio Di Pietro, che ieri è tornato ad attaccare il Pd per il voto contrario alle richieste della magistratura nei confronti di Antonio Margiotta. Ma un altro alleato di peso, il segretario del Pd, l'ha trovato: Silvio Berlusconi. In un passaggio chiave del consiglio dei ministri di ieri, subito dopo la relazione di Maroni sull'inchiesta in corso a Napoli («Non è possibile sciogliere il consiglio comunale», ha chiarito il titolare del Viminale), il premier si è messo a parlare del Pd e ha chiarito: «Noi siamo da sempre garantisti, sia per quanto riguarda noi che per gli altri. Io spero che i fatti vengano ridimensionati». A onor del vero, l'uscita del Cavaliere, che ha ribadito l'esigenza di dar vita «insieme all'opposizione» a una riforma della giustizia, ha sorpreso assai poco gli altri componenti della sua squadra di governo. Per un semplicissimo motivo: il presidente del Consiglio sa benissimo che un Pd stritolato manu giudiziaria, e quindi eccessivamente debole, non avvantaggia il nascituro Pdl. Anzi. Come ha ammesso il vicecapogruppo al Senato Gaetano Quagliariello sul Foglio di ieri, «Pd e Pdl sono legati da un destino speculare: se il bipartitismo crolla da una parte, finisce anche dall'altra».
Così, complice l'ennesimo consiglio della colomba Letta (di cui ieri ha detto: «A palazzo Chigi fa il superman tutti i giorni. Non so come faccia a leggere tutto...»), «Silvio» ha dato il via libera al soccorso azzurro nei confronti del Pd. E la stilettata al veleno («Ora voglio vedere con che faccia torneranno ad attaccarmi per seguire Di Pietro»), affidata a pochi intimi, è rimasta nel cassetto. Per ora.
Berlusconi o non Berlusconi, Veltroni è convinto di superare senza danni l'esame di oggi. In vista della direzione che si riunirà stamatina, il segretario ha lavorato a una relazione che tiene conto dello stato d'emergenza in cui versa il partito e della necessità di "aprire" agli avversari interni. Il messaggio indirizzato a D'Alema, «Walter» l'ha affidato a Bersani: «Pier Luigi, soprattutto in questo momento dobbiamo dare all'esterno un segnale d'unità» (tra l'altro, va segnalato che per tutta la giornata Maurizio Migliavacca ha mediato con lo stato maggiore dalemiano). Morale? Le «leggi speciali» anticipate ieri dal Riformista dovrebbero rimanere nel pacchetto che sarà oggi votato dal Parlamento del partito. A dispetto dell'«unità di crisi» invocata da Chiamparino e del «direttorio» chiesto da Marco Minniti, «proporremo - come ha dichiarato ieri Beppe Fioroni - una revisione statutaria che rafforzi i poteri del segretario su alcune decisioni che richiedono tempi rapidi, ma anche modifiche sulle primarie che vanno fatte non sempre ma valutate caso per caso consultando i dirigenti sul territorio, e infine radicamento e tesseramento».
Tra gli stessi veltrones, il «tutto il potere al segretario» viene declinato in due modi. In chiave tecnico-formale (i Popolari) e in chiave «politica» (versione Bettini). Nalla relazione, in cui ribadirà la necessità di «azzerare e ripartire» dove serve (come a Napoli), Veltroni potrebbe non sposare fino in fondo nessuna delle due declinazioni. E il discorso di D'Alema? «Dipenderà dalla relazione del segretario», ha confidato il presidente di ItalianiEuropei. La resa dei conti, a meno di clamorosi colpi di scena, sembra esclusa. Se così fosse, l'ordine del giorno che raccoglierà gli spunti più significativi della relazione del leader (più le modifiche ai regolamenti) passerà a larghissima maggioranza.
E il Lingotto 2, annunciato in precedenza? Rimarrà nella relazione di «Walter». Martedì, a Ballarò, Enrico Morando, consigliere di Veltroni, ha citato «la prefettura di Milano» come esempio da seguire per rapidità, efficienza e risparmi. Non è escluso che il segretario, coniugando i temi della giustizia e della pubblica amministrazione, non faccia riferimento al medesimo modello. Come non è escluso un passaggio veltroniano su riforme istituzionali e legge elettorale. In questo caso, però, il modello da seguire non sarebbe quello milanese. Bensì quello «francese». Come nella versione originale del Lingotto.

il Riformista 19.12.08
Cicchitto solidale con gli avversari: «Un partito ridotto così male non serve a nessuno»
«Dobbiamo salvare il Pd. Ma la smettano di piegare la testa alla magistratura»
Il capogruppo alla Camera del Pdl: «Vanno aiutati, anche se a parti rovesciate loro ci avrebbero asfaltato».
intervista di Paolo Rodari


Fabrizio Cicchitto, la tempesta giudiziaria si sta abbattendo sul Partito democratico. Cosa facciamo?
Facciamo che salviamo il Pd. Nel senso che se il principale partito dell'opposizione deve essere fatto fuori dalla magistratura, come sembra stiano mettendosi le cose, allora occorre salvarlo.
Lei è proprio un garantista…
Lo sono. Per me il garantismo è una fede. E deve sempre valere. Anche se non so dire se, a parti rovesciate, sarebbe successa la medesima cosa.
Se al posto del Pd oggi ci foste voi, cosa succederebbe?
Ho paura che ci avrebbero asfaltato, ma non fa niente. Io li voglio salvare lo stesso.
Siamo davanti a una seconda Tangentopoli?
Non esageriamo. Siamo all'inizio di una possibile seconda Tangentopoli.
Cosa sta succedendo?
Il problema sta proprio qui. Nessuno può dire cosa stia succedendo. Si sa soltanto che per la prima volta gli eredi del partito comunista si trovano nel tritacarne della magistratura. Passati indenni ai finanziamenti sottobanco dell'Unione Sovietica e delle cooperative, adesso la storia arriva a presentare il proprio conto. Ma perché proprio ora e chi esattamente vi sia dietro, non so spiegarlo.
Su chi ci sia dietro proviamo ad arrivarci dopo. Adesso mi dica: vuole salvare il Pd per puro zelo garantista o anche per altri motivi?
Beh, c'è anche una questione di opportunità politica. A noi la fine del Pd non serve. A noi serve un Pd forte, col quale sia possibile mettere in campo quelle riforme bipartisan che lo stesso Veltroni, prima del grande tradimento, aveva detto di voler fare.
Grande tradimento?
Il tradimento elettorale. Aveva detto che voleva andare alle elezioni da solo. E noi avevamo reagito a questa sua bella intuizione unendo le forze con il solo accordo con la Lega. Poi lui ha deciso di imbarcare Antonio Di Pietro rifiutando, tra l'altro, i socialisti. Ha ceduto e si è condannato da solo. Se avesse resistito avrebbe comunque perso le elezioni, ma avrebbe posto in essere le basi perché alla prossima tornata elettorale ottenesse un risultato diverso. Non so se la prossima volta avrebbe vinto, ma senz'altro un Pd riformista e indipendente avrebbe rischiato di fare molto bene.
Perché Veltroni ha agito così, secondo lei?
Forse pensava che gli avrebbe giovato cavalcare l'antiberlusconismo e il giustizionalismo. Ma così facendo ha ottenuto il risulato di allontanare gli elettori riformisti da sé: ora un po' voteranno Udc, altri verranno da noi.
Dall'Abruzzo Veltroni può ricominciare?
Dovrebbe ricominciare. Mi auguro che la sconfitta, sia elettorale che politica, spinga l'intero partito a una profonda revisione: o con Di Pietro o da soli per una politica delle riforme e dunque davvero riformista.
Dunque il Pd prossimo futuro è ancora targato Veltroni secondo lei?
Questo non lo so. Perché sia così, tanto per cominciare, bisognerebbe reagire alla magistratura in altro modo.
Ad esempio?
Basta piegare la testa. Basta lamentarsi. Ma reagire cercando di scalfire la deleteria leadership che Di Pietro oggi oggettivamente si è guadagnato e, insieme, ammettendo che sulla questione morale si ha ben poco da dire.
Nel caso Veltroni non ce la faccia, chi dopo di lui?
Non ho un nome e se ce l'avessi non lo farei perché lo condannerei alla morte. Politica, s'intende.
Di Pietro comunque sta andando alla grande…
Secondo me è anche aiutato. Non ho mai visto stampa e tv così favorevoli nei suoi confronti. È quasi imbarazzante.
Manca l'ultima questione. Chi c'è dietro tutto questo bailamme?
Domanda da cento milioni di dollari. Non so rispondere. Certo il succeso politico di Di Pietro fa pensare.

l’Unità Roma 19.12.08
Ospiti preziosi a palazzo Massimo per scoprire il patrimonio archeologico
di Adele Cambria


«Spesso girando per il Museo archeologico vedo visitatori un po’ distratti, scolaresche che si trascinano svogliate per le sale, pur ricche di capolavori, e mi chiedo: che cosa possiamo fare?»
Così, con la sua ardente semplicità, parla Rita Paris, che dirige (appassionatamente) il Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo, inaugurato dieci anni fa da un governo di centrosinistra, e festeggiato ieri con un itinerario a sorpresa condensato nell’invito misterioso: ”Scopri il Massimo”. (Da oggi fino al 7 giugno del 2009). Al Professor Claudio Strinati è toccato illustrare la prima delle “scoperte” che si offrono ai visitatori del Museo. Si tratta - in prestito dalla Fondazione Sorgente Group - del bellissimo ritratto scultoreo del giovane Marcello, designato da Augusto come suo successore e morto invece a vent’anni. Virgilio gli dedica i versi con cui gli si rivolge, nella sua visita all’Averno, Enea: «O fanciullo degno di compianto, se potessi infrangere il fato, tu sarai Marcello…» La testa è stata confermata dallo storico Antonio Giuliano come desunta dalla maschera di cera che i romani usavano prendere dal volto dei defunti molto amati.(Augusto volle che le ceneri di Marcello riposassero nel suo mausoleo a Campo Marzio). E Rita Paris, facendoci da guida nella visita, sottolinea come le screziature del marmo, non restaurato compiutamente, aggiungano fascino a un volto quasi adolescenziale. Mentre le luci azzurrine, studiate dall’architetta Francesca Storaro, formano - dice il Professor Strinati - un alone di romantico lutto e malinconia attorno al personaggio. Che forse fu ucciso dal veleno, nella villa di Baia, su mandato di Livia, la dark lady che voleva sul trono di Augusto il proprio figlio, Tiberio.
Il paradiso in una stanza
Ma tante altre storie “con figure” troverete nelle altre opere in esposizione. La tomba di Patron, un medico greco del I° sec.a.C. fu scoperta nel 1842 tra Via Latina e Porta Capena dall’archeologo G.P.Campana. Ma la sua collezione fu messa all’asta, probabilmente al Monte di Pietà, nel 1861 ed acquistata in gran parte dall’Ermitage a San Pietroburgo, e, per i frammenti superstiti della tomba del medico, dal Louvre. Françoise Gaultier è arrivata da Parigi per presentare ciò che resta del manufatto. Nella pittura parietale del corteo funebre è riconoscibile la figlia di Patron, Appoleia, che reclina il capo sul petto, con tristezza, e, in una iscrizione marmorea, benedice il padre. Il quale ha lasciato inciso sul marmo un suo poema: «Intorno alla mia tomba nessun pipistrello, ma ogni sorta di incantevole albero…» Perciò il titolo dato a questi frammenti, arricchiti da alberi e uccelli è: «Il paradiso in una stanza».

giovedì 18 dicembre 2008

Liberazione 18.12.08
L'immagine-simbolo dell'89 di cui alcuni hanno paura
Quel Muro che cadendo ha liberato noi comunisti
di Rina Gagliardi


Io - a differenza di coloro che (beati loro?) hanno oggi venti o venticinque anni - il Muro di Berlino l'ho visto. E fu un pugno allo stomaco, una fiumana di sensazioni angosciose - uno choc, per quanto ci si credesse preparati alla visione. Era l'estate del 1980 - l'estate di Solidarnosc in Polonia. Per arrivare a Berlino in macchina, bisognava prendere l'autostrada della Ddr, quella dalla quale era severamente vietato uscire e anche fermarsi - del resto, per due o trecento chilometri non vedevi l'ombra di una stazione di servizio, solo poliziotti che stazionavano su desolate aree di sosta. Poi, l'arrivo nella grande, stupenda capitale tedesca. Ma il Muro non era, nient'affatto, un muro, così come la parola te lo fa balenare in testa: era un sistema di muraglioni largo cinquanta metri, percorso da centinaia di torrette presidiate da soldati con mitra. Una costruzione imponente e minacciosa nel mezzo della città - un po' come se a Roma ci si trovasse di colpo con piazza Venezia e via del Corso spaccate in due metà. E l'angoscia si intensificava nel contatto con le "due" Berlino: di qua, ad ovest, il profluvio di negozi, di luci sfavillanti, di suoni ininterrotti della Kufusterdam, di là, ad est, la distesa di grigio della Stalinallee, di larghezza disumana e di impressionante silenzio, interrotto, ogni tanto, dall'inconfondibile clangore (e odore) delle Trabant. Di qua, il trionfo dell'Occidente, la vetrina di una libertà senza confini che si celebrava tutta e soltanto nella Merce e nell'Artificio; di là, dove nell'Alexanderplatz c'era il cuore della vera Berlino, non c'era quasi nulla, solo l'impalpabile (ma ferreo) messaggio leggibile in ogni angolo: Qui nessuno è libero.
Ma neppure noi eravamo liberi, se la scelta era ridotta a quelle che le due Berlino rappresentavano con tanta forza: la modernizzazione capitalistica sfrenata dell'Ovest, l'oppressione burocratica dell'Est. Il Mercato e il "Socialismo reale". Fu per questo (anche e soprattutto per questo) che, quando quel 9 novembre 1989 il Muro crollò di schianto, picconato da una folla pacificamente euforica, avvertii un senso di liberazione - proprio come il morso di una tenaglia che ti ha imprigionato per anni e che ora, finalmente, si allenta. No, non era certo un "mondo nuovo" che incominciava, lo sapevamo fin da allora. Era, però, un mondo vecchio che finiva, sepolto dalle sue contraddizioni, dalle sue menzogne, dai suoi fallimenti. Un mondo che aveva usurpato il nome - bellissimo - di socialismo e che aveva fallito nel suo obiettivo fondamentale: costruire una società di liberi e di eguali, o almeno avviarla. Ma da dove può cominciare una nuova storia, per il socialismo, se non dalla morte fisica e politica di una illusione?

Tutti capirono subito il valore simbolico di quel muro che cadeva a pezzi - perché, se no, quella frenesia per accaparrarsene un pezzettino, il più piccolo e il più improbabile? Tutti si sentirono felici di prender parte a quella de-costruzione di massa. E' pur vero che la sorte del regime di Honecker era segnata, e che la fine fu particolarmente ingloriosa, comprese le spese urbanistiche folli di uno Stato ormai finanziariamente agonizzante. Ma l'atto concreto del picconamento, mattone dopo mattone, calcina dopo calcina, conteneva una carica liberatoria immensa. Esattamente duecento anni prima, il popolo di Parigi non aveva assaltato la Bastiglia, ignobile carcere ormai quasi vuoto ma simbolo-principe dell'ancièn régime, e l'aveva demolita integralmente, senza lasciarne neppure un sasso? Appunto: i "picconatori" del Muro, in quella notte di (quasi) vent'anni fa, non erano mossi da null'altro che dalla voglia di cancellare quella rappresentazione così brutale e massiccia dell'oppressione. No, non avevano come loro meta il trionfo del capitalismo, o l'imperversare della globalizzazione, o la rivincita del mercato - così come i rivoluzionari dell'89 non pensavano al Terrore e alla ghigliottina di serie come "compimento" naturale della loro azione. Giacché la storia, l'esplosione di soggettività che talora fa la storia, non è mai una sequenza lineare e obbligata di cause ed effetti: contiene mille possibilità, e milioni speranze, che non si realizzano - che addirittura si rovesciano nel loro inverso. Lo diceva una bellissima canzone scritta quasi cinquant'anni fa da Franco Fortini: «Tutti gli amori cominciano bene/ l'amore d'una donna, l'amore d'un lavoro/ ed anche l'amore per la libertà/ Spesso gli amori finiscono male/....ma non si perde più/ quel che è stato vero un nostro giorno…».
Ma è proprio questo, dal mio punto di vista, l'elemento più sconcertante del dibattito scoppiato sul Muro e scatenato dal logo della tessera dei Giovani comunisti: il revisionismo storico, sia pure di segno rovesciato rispetto a quello dominante. Oppure, ma fa quasi lo stesso, un pessimo "storicismo assoluto" di sapore crociano. Ambedue queste impostazioni hanno in comune un vizio: si rapportano ad un evento non per quello che è stato e ha significato nel momento in cui si è prodotto, ma per ciò che è accaduto dopo, anche in seguito all'evento stesso. Non per caso Croce diceva che «la storia non si fa con i se»: la catena degli eventi, il processo del farsi dello Spirito, è dominato da leggi ferree, da causazioni obbligate, da effetti altrettanto incontestabili. Così, la verità di un fatto storico non sta mai dentro di esso, ma sempre fuori di esso - è una verità che il fatto o i fatti successivi si incaricheranno di rivelare nella sua essenza. Così, secondo diversi compagni, la verità del crollo del muro di Berlino sta tutta dopo di esso, e soltanto dopo ciò che è accaduto: il trionfo del capitalismo e del libero mercato che ha contrassegnato gli anni '90 (e non solo), nonché la crisi che è intervenuta, dopo di allora, nel movimento operaio mondiale, nella sinistra, nei partiti comunisti. Ma non vi accorgete che ragionare così è drammaticamente fuorviante e pericoloso? Infatti, lo fanno i professionisti del revisionismo storico: che giudicano la Rivoluzione Francese dalle follie del Terrore; o che valutano il senso della Rivoluzione d'ottobre dai gulag di Stalin. Notoriamente è Nolte, il re del revisionismo storico, a spingere al limite la sua posizione, quando sostiene, più o meno che il bolscevismo ha prodotto il nazismo e dunque come tale va classificata la sua principale responsabilità storica. Naturalmente, ogni evento storico, Muro di Berlino, compreso, va costantemente riletto, reinterpretato, perfino revisionato anche alla luce del "dopo" e nel "dopo" che esso ha contribuito a determinare - anche, nel caso, per trarne lezioni e modificare quelle che, magari, fino ad un attimo prima, erano solide certezze. Ma non si può assecondare la carica revisionistica fino al punto, come dicevo, di cancellare la concretezza determinata di quell'evento - il suo "qui e ora" - e di annullarne l'autonomia e il valore. Per noi, per i comunisti del XXIesimo secolo, quel 9 novembre 1989 resta il simbolo della libertà che avevamo finalmente conquistato: quando parlavamo della grande possibile "meta finale" della nostra lotta, non intendevamo fare, rifare, la Ddr, o l'Urss, o la Bulgaria. Non avevamo più modelli di riferimento, è vero, ma potevamo ricominciare a lottare per un mondo liberato dallo sfruttamento capitalistico, dal profitto, dal dominio delle merci, dall'oppressione sessuale - e anche dalle tirannie dei partiti unici, dei sindacati di Stato, delle Pravda, delle burocrazie, delle Stasi.

Ci siamo riusciti a mettere in pratica, a far diventare pratica politica di massa, un tale ambizioso progetto di lotta per la libertà e l'eguaglianza? Certo che no. Certo che siamo lontanissimi, anzi ce ne stiamo allontanando a ritmi vorticosi - e non gli ultimi venti, ma i trent'anni che ci stanno alle spalle hanno segnato, nel loro insieme, una condizione di regressione politica, sociale, culturale, più che allarmante. Ma, ancora una volta, mi appare sconcertante la reazione di chi reagisce alle difficoltà del presente e del futuro con la categoria della nostalgia - ognuno, si sa, ha le proprie, radicate nella pelle e nel cuore, prima che nella testa. In tale propensione nostalgica, a volte perfino poco consapevole, si colloca il rifiuto politico ed emotivo del crollo dell'89. Non è dichiarato esplicitamente se si rimpiange davvero il mondo perduto del socialismo autoritario di Stato, se si guarda, adesso, alla Ddr (e al fu "campo socialista") come a società tutto sommato invidiabili, se si pensa che quei modelli riguadagnino credibilità - magari come proposte strategiche (e di società) buone per uscire dalla crisi economica e sociale in corso. Ma se l'abbattimento del Muro viene percepito, addirittura, come simbolo della nostra sconfitta, come crollo delle nostre speranze, come l'evento negativo che suggella negativamente il ventesimo secolo, non si ripiomba fatalmente nel rimpianto di tutto ciò che c'era, c'è stato, prima? Dal tentativo di "salvare un sogno" non si finisce per precipitare, da capo, nell'incubo?
Qualcuno obietterà che, così ragionando, si condanna tutta la nostra storia e si autorizza la storia stessa a condannarci, "definitivamente". No, cari compagni e compagne che sognate Honecker o Breznev o Ceasescu, non è davvero questo il punto: la storia degli ultimi duecento anni resta segnata, in profondità, dal movimento operaio, da milioni di comunisti, socialisti e rivoluzionari che hanno fatto, vinto e perso, milioni di battaglie, da speranze e pratiche che hanno concorso a cambiare la civiltà in cui viviamo. Insomma, dalle infinite scalate al cielo che sono state tentate, esperite, sviluppate, comprese le grandi rotture rivoluzionarie. Questa stessa storia on può ridursi, con improvvise torsioni iperpolitiche, alle esperienze statuali, di governo, di regime - alla conquista vittoriosa del potere politico e alle varie dittature non "del" ma "sul" proletariato. Questa è la verità, certo contraddittoria e complessa, certo gloriosa e nefanda, che ci ha fatto ritenere che fosse possibile, nientemeno, che la rifondazione comunista: l'uscita da sinistra dallo stalinismo. Dall'oppressione di quel Muro che cadendo liberò anche noi. Come diceva Franco Fortini con parole che non hanno bisogno di alcuna revisione: «altri nel mondo si vorranno bene/ altri lavoreranno senza pene/ altri vivranno in libertà».

il Riformista 18.12.08
Le procure stanno per sciogliere un altro partito?
di Antonio Polito


Non metto la mano sul fuoco per nessuno dei tanti indagati e arrestati di questa seconda Tangentopoli. Ma, se permettete, non la metto neanche per i pm che hanno riaperto il festival delle retate (meno che mai se uno di loro si chiama Woodcock). Tira una brutta aria, e non solo per il Pd. Se la politica italiana non tiene i nervi saldi, se tutti i politici non resistono alla tentazione di fare al nemico ciò che non vorrebbero fosse fatto a loro, rischia di finire come l'altra volta. Per la serie: come ti sciolgo un partito.
Di fronte al vero e proprio proprio assalto sincronizzato che alcune procure hanno lanciato contro le amministrazioni locali rette dal Pd, si può infatti reagire in due modi. Il secondo è chiedersi che fine rischia di fare la democrazia italiana, se il maggior partito di opposizione viene messo fuori legge. Il primo è gongolare, o perché il Pd è l'avversario politico, o per gusto di maramaldeggiare su un corpo debole e gracile, o perché - perfino dentro il Pd - può sembrare un buon modo di regolare i conti nel gruppo dirigente. Si vedono in giro molti esempi del primo tipo. La stampa di destra, solitamente pignola in fatto di garantismo, stavolta è tutta dalla parte dei pm, e li invita esplicitamente ad affondare il coltello. Berlusconi, che per molto meno avrebbe urlato al golpe delle toghe rosse se fosse toccata a lui, si gode lo spettacolo in religioso silenzio.
Devo però aggiungere che una buona mano alla nuova deriva giustizialista, all'idea cioè di riformare la politica con le manette, l'ha data proprio il gruppo dirigente del Pd, cioè del partito sotto scacco, che sembra vittima della sindrome di Stoccolma. Veltroni e i suoi hanno infatti sposato in pieno l'interpretazione della crisi del loro partito come effetto della questione morale. In Abruzzo sostengono di aver perso per quello, proprio come dice Di Pietro. E di fronte alle innumerevoli inchieste rispondono che ne approfitteranno per decapitare i gruppi dirigenti locali e per sostituirli con commissari e uomini di fiducia. Dichiarano apertamente di voler procedere al rinnovamento del partito cogliendo l'occasione offerta loro dalle procure. Da ora in poi, solo dirigenti nati col Pd, dicono. Questo non è il mio partito, dice Veltroni.

il Riformista 18.12.08
Riecco le manette
di Peppino Caldarola, ex direttore dell’Unità


I Palazzi della politica tornano a tremare. Un tg, un'agenzia di stampa, l'ultima edizione dei quotidiani possono annunciare l'inchiesta clamorosa che mette in ombra quella appena bruciata dalla cronaca. Al telefono gli abitanti del Palazzo parlano a monosillabi o con strani giri di parole ("si, no, ..azz', merd.., ho capito") che dovrebbero disorientare il maresciallo Zappalà messo in ascolto dal pm di turno. La signora che beve il caffè al tavoli del bar potrebbe avere un microfono direzionale, meglio alzarsi e camminare. Perché quel giovanotto ci punta addosso il telefono con la microcamera? Si scrutano le facce dei nemici ma soprattutto quelle degli amici: che vuol dire quel sorriso ironico? Una riunione di partito o di giunta finita in una lite colossale può preannunciare una disgrazia giudiziaria ( "hai litigato con quello, ma non sai che è amico del giudice?"). Un vero inferno.
È dal '92 che il Palazzo ha perso la pace. Un avviso di garanzia, un arresto, la confessione dell'amico imprenditore mettevano nei guai politici di lungo corso. Fin da allora l'occhio attento del politico scafato guardava al di là dell'iniziativa giudiziaria per capire chi c'era dietro. Perché dietro un'inchiesta non c'era il mariuolo o il magistrato occhiuto, ci doveva essere il burattinaio che suggeriva le piste, rovinava le carriere, spezzava gli affari, uccideva partiti interi. La teoria del complotto lasciava le suggestioni comuniste sul "doppio stato" e si rifugiava nelle cucine della politica, spesso anche con cuochi internazionali. Quante volte abbiamo letto o sentito sussurrare che dietro "Mani Pulite" c'erano gli americani che volevano vendicarsi di Craxi per Sigonella o di Andreotti per il filo-arabismo della Dc. Oppure i complottisti più nostrani vedevano la manina del Pci, più precisamente di Luciano Violante, dietro tutti i pm che indagavano sui dirigenti del pentapartito? E' toccato persino a Cossiga di apparire come il burattinaio di Di Pietro, indicato nei boatos ricorrenti come uomo suo in quanto entrambi legati ai servizi.
Le nuove inchieste hanno ridato fiato alla ricerca dei burattinai. La questione morale viene indagata con veemenza o dottrina sui giornali, le parti politiche si scambiano l'accusa di immoralità, ma quelli che sanno spiegano a quattr'occhi chi c'è veramente dietro e che cosa davvero sta succedendo. Ne vengono fuori western all'italiana in cui gli incubi politici prendono il sopravvento sugli eventi reali e i retroscenisti trionfano.
Il primo film si intitola "La vendetta del Caimano" e vede Berlusconi, finalmente con gli stivali con i tacchi alti, aggirarsi nei palazzi di giustizia per vendicarsi dei suoi persecutori. Dietro le inchieste c'è sicuramente lui, spiegano gli sceneggiatori di questo film, ovviamente, dato il protagonista, a luci rosse. Il Caimano furioso finalmente si toglie di torno una classe dirigente avversaria che lo ha tormentato per anni con la questione morale. L'ufficiale di collegamento con le procure è il lungo e allampanato avvocato Ghedini, a suo agio nella parte di Mortimer, mentre Emilio Fede davanti al saloon con l'ennesimo bicchierino in mano sghignazza quando vede nella polvere i nemici del Caimano. Vicino al patibolo Capezzone dà l'ultimo calcio in culo ai condannati.
In questi stessi giorni scrittori dalla penna fine si stanno esercitando su un altro copione, ambientato fra le dune di Sabaudia, che si chiamerà semplicemente "Resurrezione!" e vede protagonista assoluto Walter Veltroni. Nella scena principale Walter, con la faccia tirata perché trattiene il fiato per tener su la pancetta, fa imprigionare i descamisados di D'Alema dopo averli fatti circondare di una pattuglia di sceriffi guidati da Massimo Brutti. Walter avanza severo mentre dietro di lui si affannano, per via della panza, Goffredo Bettini e Giorgio Tonini che si dirigono in direzione del mulo su cui è seduto Nicola Latorre per consegnarli un pizzinone con la sentenza di condanna.
Più realista la terza squadra di sceneggiatori che lavora al mastodontico "Dio perdona, Montenero no ", in cui un Di Pietro avvolto in una giacca chiara di pelle di pecora, alla testa di fazenderos delle procure italiane, parte all'assalto della città del vizio. La carovana è affollata, c'è Woodcok che per fare il fenomeno si è portato Federica Sciarelli mentre Travaglio gira in una bara fuoriserie con accanto Furio Colombo con volant azzurri di Gattinoni. Tre film di successo per le prossime proiezioni di Natale. Se credete che abbiamo scherzato fatevi raccontare da un cronista politico ben introdotto "quel che si dice a Roma". Non si parla d'altro.

Repubblica 18.12.08
Assemblea all'Università Roma Tre
Saviano: centrosinistra connivente da anni


ROMA - «Al di là delle attuali vicende in corso a Napoli e di come andranno a finire, una cosa va detta: che il centrosinistra avesse relazioni con la criminalità organizzata lo si sapeva da dieci anni. Non a caso la Campania e la Calabria, feudi del centrosinistra, hanno il record per crimini di questo tipo». È una delle "frecciate" della lezione tenuta ieri da Roberto Saviano, autore di "Gomorra", all´Università Roma Tre. Lo scrittore era stato invitato dagli studenti dell´Onda.
Saviano ha fatto appello alla consapevolezza degli elettori per spezzare l’abbraccio del malaffare sulla politica: «Gli elettori di sinistra e di destra devono una volta per sempre, al di là delle loro idee politiche, scegliere persone diverse a rappresentarli». E ha aggiunto che «essere accusato dalla mia gente di aver diffamato la mia terra è una cosa ingiusta: quello che emerge in ogni inchiesta è che, al di là del fatto se sei di destra o di sinistra, sei coinvolto in certe cose perchè è così che funziona». La lezione di Saviano, oltre ai riferimenti politici, si è basata sulla storia della camorra raccontata attraverso foto emblematiche di vittime della criminalità. «E´ una vera e propria guerra quelle che si combatte al Sud - ha sottolineato lo scrittore -. Una guerra che ha fatto quattromila morti, più del fondamentalismo islamico in Europa».

Repubblica 18.12.08
La volontà di una donna
di Umberto Veronesi


Siamo ormai alla guerra di parole che sovrasta la legge e il diritto all’autodeterminazione

IL caos regna sul caso Englaro, trasforma il dibattito in una guerra di parole. Eluana è viva o non è viva; i trattamenti sono cure o accanimento; l´esito della sua storia è una questione medica, giuridica o politica.
Eppure ha parlato semplicemente e chiaramente Eluana: «Io non voglio esistere così», diceva indicando il suo amico in coma vegetativo, riferendosi inequivocabilmente a quel corpo che stava davanti a lei, a come lo vedeva e lo percepiva, provandone terrore. Non ci sono giochi di parole: proprio quello ad ogni costo non voleva Eluana , e da lì dobbiamo ripartire, per non perderci nella "tragedia degli equivoci". La confusione è sempre una cattiva consigliera perché alla fine delle polemiche abbandona la gente alla sfiducia sconsolata nella capacità della società, attraverso le sue istituzioni, di aiutare i suoi cittadini proprio nelle situazioni più complesse e drammatiche, quando la collettività e i suoi servizi dovrebbero invece essere di sostegno e di incoraggiamento.
Occorre allora riconcentrarsi sul tema: la volontà di Eluana. Se qualcuno ha dei dubbi deve fermarsi lì: se effettivamente quella del rifiuto della vita vegetativa fosse davvero la scelta lucida della ragazza. Resta da vedere perché mai dovremmo mettere in dubbio il lavoro paziente e meticoloso dei nostri giudici che hanno ricostruito questa volontà, emettendo una sentenza che sapevano perfettamente sarebbe stata altamente impopolare. E perché mai un padre adorante verso la propria "bambina", come dice Beppe Englaro, avrebbe dovuto battersi per anni per realizzare tale volontà, affrontando la gogna mediatica e la distruzione della sua vita personale?
A prescindere dalle considerazioni puramente umane, però, i dubbi sono legittimi perché non esiste purtroppo un documento firmato che riporti il pensiero di Eluana. Ma se invece siamo d´accordo che la volontà di Eluana è quella ricostruita dalla magistratura, allora la confusione su chi decide che cosa è subito dissipata. Decide Eluana e la sua decisione va rispettata. Se io scelgo che preferisco morire piuttosto che farmi amputare un arto, come è successo pochi anni fa nel caso della signora siciliana, nessuno può tagliarmi una gamba, esercitando una violenza che per me è tortura. Su questo punto non si può transigere perché significherebbe accettare che nel nostro paese la società è autorizzata a perpetrare violenza nei confronti dei suoi cittadini. E questo non è vero né per la magistratura, né per la scienza , né per il Vaticano, né per la politica. Come ricorda Carlo Casonato, grande esperto di diritto costituzionale comparato e responsabile del Progetto Biodiritto "il diritto di disporre della propria vita esiste. E´ sancito dall´articolo 13 sulla libertà personale e dall´articolo 32 della Costituzione, secondo il quale nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario e anche dall´articolo 35 del Codice di Deontologia Medica che conferma che non è consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona.". Sappia quindi la gente che c´è un punto fermo : nessuno può violare questo diritto e c´è chi si impegna a farlo rispettare sempre e comunque nella sua sostanza. La confusione si crea piuttosto sulla forma e si alimenta delle definizioni e delle prese di posizione politiche e ideologiche. Sono mesi che dalle pagine dei giornali e dagli schermi di televisioni e computer ci ossessiona la figura di una donna nella dirompente bellezza dei suoi vent´anni: Eluana con il cappello nero, Eluana in tuta rossa fiammante sulla neve, Eluana che esce dalla doccia e ride. Eluana oggi non è quella delle foto. E´ una donna di quasi quarant´anni anni, senza sorriso, senza espressione negli occhi, senza vita di relazione, senza coscienza, senza controllo di un corpo, che è ormai un involucro in disfacimento. La sua vita meravigliosa si è spenta per sempre 16 anni fa.

Repubblica 18.12.08
Stefano Rodotà: "Atto del governo impugnabile"
"In grave pericolo il principio di legalità"
di vla.po.


Si proroga una guerriglia giuridica contraria al sentimento di umanità e di carità cristiana

ROMA - L´intervento di Sacconi? «È una grave rottura della legalità, che disconosce una sentenza passata in giudicato e preannuncia un´azione parlamentare volta a comprimere il diritto a decidere liberamente della propria vita». Stefano Rodotà non nasconde la sua preoccupazione. Il giurista legge negli ultimi atti della vicenda Englaro, «l´estrema debolezza del principio di laicità e la messa in discussione del rifiuto alle cure quale diritto della persona».
Professore, i medici devono dare retta ai giudici o ai ministri?
«Un fatto è certo: chiunque adempierà alla volontà di Eluana non commetterà un illecito. La sentenza della Cassazione ha infatti ricostruito con grande rigore quella che è la situazione vigente in Italia, con riferimento alla Costituzione, alla legge sul Servizio sanitario nazionale, alle sentenze precedenti e al codice di deontologia medica. Il tentativo di privare di significato vincolante normativo la Cassazione è già stato fatto col conflitto d´attribuzione sollevato dal Parlamento e respinto dalla Consulta. Ora, con una forzatura inaccettabile ci si riprova».
I giudici potrebbero allora impugnare l´atto di Sacconi?
«Certo, questa rottura della legalità legittima un nuovo conflitto d´attribuzione. Stavolta contro il governo. Ma così si finirebbe per prorogare questa guerriglia giuridica, contraria a un sentimento di carità cristiana e di umanità verso la famiglia Englaro».
Come ne esce da questa vicenda il principio di laicità?
«Questi atti hanno valore intimidatorio e denunciano un´estrema debolezza del principio di laicità. Ricordo un caso per tutti: la non partecipazione al voto del Pd quando in Parlamento si discusse del conflitto d´attribuzione. Il partito democratico non ebbe purtroppo il coraggio di votare contro».

Repubblica 18.12.08
Sul Partenone l'appello dei ragazzi greci "Studenti d'Europa protestate con noi"
Era il sogno di Panagulis, far sventolare da lassù una bandiera rossa
di Renato Caprile


Ciò che rimase un sogno per Alekos Panagulis, come racconta Oriana Fallaci nel suo Un uomo, è riuscito ieri a un pugno di liceali greci: far sventolare sull´Acropoli, il punto più alto e carico di storia di Atene, un mega striscione di 360 metri quadrati con la parola "resistenza" scritta in cinque lingue: greco, italiano, francese, inglese e tedesco. Resistenza al potere, che al tempo di Panagulis era nelle mani dei colonnelli e oggi in quelle di un governo di centro destra, forse corrotto e inefficiente, ma democraticamente eletto. Hanno fatto comunque in fretta a rimuovere quello striscione, Anzi a rimuoverli, perché ce n´era anche un altro che invitava oggi gli studenti europei a una giornata di protesta: per ora hanno risposto solo i coetanei francesi, in lotta contro una riforma che minaccia l´istruzione pubblica. La tempestività della polizia di Karamanlis non ha evitato però che l´originale iniziativa dei ragazzi greci facesse il giro del mondo. E si è adontato non poco il primo ministro, giudicando quell´azione «non scusabile» perché gravemente lesiva dell´immagine della Grecia.
Dopo dodici giorni di inferno urbano con decine di banche e centinaia di negozi assaltati con danni per oltre un miliardo di euro, la parte più ragionevole del movimento esce finalmente fuori. Non prende le distanze dai kukulofori, gli incappucciati, i duri e puri che hanno ingaggiato decine di scontri a colpi di molotov con la polizia, ma prova a coinvolgere gli studenti di altri paesi. Una richiesta di solidarietà che lascia ben sperare nell´evoluzione di una crisi che nei primi giorni aveva solo il sapore della vendetta per la morte di un ragazzo di quindici anni, Alexis Grigoropulos, ucciso da un poliziotto il 6 dicembre scorso.
I senza volto continuano a darci dentro anche se con meno intensità dei primi giorni. Ieri hanno lanciato bottiglie molotov contro un pullmino delle forze speciali, poi si sono concentrati fuori dal Palazzo di giustizia per bersagliare con sassi, uova e yogurth gli agenti in tenuta anti-sommossa. «Maiali, liberate i nostri compagni arrestati», lo slogan scandito per ore. Sono 300 finora quelli fermati.
Rischia molto Karamanlis, che per ora non si dimette ma si scusa per le bustarelle intascate da alcuni suoi ministri. Evidentemente non basta. Crisi economica ed arroganza delle forze dell´ordine fanno temere che gli studenti non molleranno facilmente. Oggi si replica ad Atene e Salonicco, ma si spera nel segno del "partito dello striscione".

il Riformista 18.12.08
L'incubo neonazista assale la Baviera
di Giovanni Boggero


Divieto. Quest'anno, nel land, le aggressioni sono aumentate del 75%, in controtendenza rispetto al trend nazionale. E c'è chi vuole mettere al bando l'estrema destra.

È un tranquillo sabato pomeriggio di dicembre quando Alois Mannichl, capo della polizia di Passau, una cittadina nel sud della Baviera, torna a casa dal lavoro. Passano pochi istanti e l'uomo si ritrova investito dalla furia omicida di un giovane sui 20 anni, che gli pianta un coltello nel petto, a pochi centimetri dal cuore. Prima di fuggire, lasciando il poliziotto in un lago di sangue, gli dice: «Adesso quei porci poliziotti di sinistra come te non potranno più calpestare le tombe dei nostri camerati».
Sono questi gli istanti più drammatici dell'ultima aggressione a sfondo neonazista avvenute in Germania nel 2008. Eppure questa, più delle altre, ha sconvolto l'intero Paese per l'insolita natura del bersaglio: non più feroci rappresaglie contro gli immigrati, ma una pugnalata inferta ad un servitore dello Stato.
All'indomani del tragico episodio, dal quale Mannichl è miracolosamente uscito indenne, la Baviera si è così scoperta più vulnerabile che mai. I dati parlano chiaro: nel solo anno in corso le aggressioni da parte di gruppi estremisti di destra nella regione di Monaco sono aumentate di circa il 75%. Un trend del tutto opposto a quello nazionale, dove gli scontri causati da cellule vicine all'Npd, il partito nazionaldemocratico, sono dati in progressivo calo.
Non è più soltanto l'Est, dunque, frustrato da una cronica arretratezza economica e sociale, ad essere terreno fertile per la propaganda neonazista. Ora l'allarme è giunto anche ad Ovest. Il neo-presidente della Baviera Seehofer (Csu) ha parlato di un attacco allo Stato di diritto, al quale occorrerà rispondere con fermezza, se il caso anche giocando la carta della messa fuori legge dell'Npd.
Il dibattito sulle sorti della minuscola formazione di estrema destra, che vanta una discreta rappresentanza in due parlamentini regionali, torna dunque ad infiammarsi. Tra i più scettici dell'ipotesi di messa al bando, i democristiani, che ricordano come già nel 2003 il Tribunale di Karlsruhe si fosse espresso negativamente sulla questione. Inoltre un mero divieto non sarebbe risolutivo, potendo pur sempre la galassia neonazista prosperare sotto nuove forme.
Dal canto suo, il Ministro della Giustizia Zypries (Spd) ha giudicato insufficienti gli elementi a carico dell'Npd per poter instaurare un procedimento. Nel suo stesso partito, tuttavia, sono molti a pensarla in maniera diversa, chiedendo a gran voce il rispetto della legge che bolla come incostituzionali i partiti che minacciano le istituzioni democratiche. «I partiti in Germania collegano la società allo Stato e proprio per questo devono essere sottoposti ad un controllo più incisivo», dice al Riformista il professor Jörg Luther, docente di diritto pubblico presso l'Università del Piemonte orientale. Resta tuttavia ancora da chiarire se tra i gravi fatti di Passau e l'Npd possa stabilirsi un nesso inequivocabile. Il rischio è infatti che la connessione non vi sia e il ricorso si traduca in un nuovo fallimento.

il Riformista 18.12.08
Il comunismo italo-russo ha "incenerito" i Gramsci
di Andrea Di Consoli


GIANCARLO LEHNER. Il libro mette sotto accusa Togliatti, il Pci e quanti hanno espropriato dei diritti e di una vera speranza di salvezza il filosofo e la sua famiglia.

«Lingue di legno» definì Giancarlo Lehner (giornalista, storico e parlamentare del Pdl) i comunisti italiani in Russia; i comunisti, s'intende, che stavano "lassù", ai vertici del Comintern (gli stalinisti italiani). È da un decennio che Lehner si è dato, in qualità di storico militante, il compito di "riscattare" le vittime comuniste italiane della carneficina stalinista; pure, il compito di "accusare" le tante connivenze, reticenze e "doppiezze" degli stalinisti di casa nostra.
Tutto questo Lehner lo ha fatto da socialista critico, da "neo-trotzkista"; o, se si preferisce, da socialista di destra. Il suo nuovo libro è intitolato La famiglia Gramsci in Russia (Mondadori, 366 pagine, 20 euro), ed è diviso in due parti: nella prima Lehner ricostruisce la triste vicenda umana, politica ed editoriale di "Nino" Gramsci; nella seconda sono pubblicati gli atroci diari di Margarita e Olga Gramsci.
È un libro che fa male, perché il corpo di Gramsci è stato divorato non soltanto dalle impossibili penurie dell'infanzia (sin dall'età di quattro anni il piccolo Antonio soffrì di una grave forma di tubercolosi ossea, nonché di denutrizione), ma dalla violenza fascista, e dalla più sottile (ma non meno criminale) violenza comunista (Pci-Pcus). Come disse Benito Mussolini, «la realtà è che Gramsci, dopo un breve periodo di permanenza al reclusorio, ebbe la concessione di vivere in cliniche semiprivate o completamente private. Ed è morto di malattia non di piombo, come succede ai generali, ai diplomatici, ai gerarchi comunisti di Russia, quando dissentono - anche un poco - da Stalin come sarebbe accaduto al Gramsci stesso se fosse andato a Mosca». Nessuno sconto a Mussolini, è ovvio, ma nessuno sconto neanche a Togliatti, al "compagno Ercoli", responsabile di numerose (e colpevoli) ambiguità nei confronti di Gramsci (fece di tutto per liberarlo? Quanti erano davvero i Quaderni del carcere? 30? 34?). Lehner parte dalla fine, dal 23 luglio del 2007, quando a Mosca muore, in piena povertà, e senza assistenza medica, Giuliano Gramsci, figlio di Antonio. Com'è possibile che muoia in povertà "l'erede" del più grande martire comunista italiano? E il Partito? E la Fondazione Gramsci? E i diritti d'autore di Gramsci, anzitutto grande scrittore, letto e tradotto in tutto il mondo? Ebbene, Lehner ricostruisce tutta la vicenda, informandoci che i diritti d'autore di Gramsci furono a suo tempo "espropriati" da Togliatti ai legittimi eredi a favore del Pci. E gli eredi? Senza una lira, né per il passato né per il presente.
Questa triste vicenda è solo l'ultima beffa di un calvario che inizia nel 1926 con l'arresto di Gramsci. Scrive Lehner: «Gramsci libero sarebbe stato per Togliatti, Grieco e l'intera dirigenza del Pci una micidiale mina vagante. Il modo migliore per mantenere lo status quo carcerario consisteva nel far montare rumorosamente a livello propagandistico il caso Gramsci, quando sarebbe stato opportuno il silenzio». Lehner ricostruisce con dichiarazioni e testimonianze ufficiali il sempre crescente divario tra "l'eresia" gramsciana e l'ortodossia stalinista di Togliatti. Senza, beninteso, nascondersi la propria personale distanza da Gramsci, in specie dal "primo", quello più moralista; e senza farne un santo di comodo. Anzi, dichiarandosi anzitutto ammiratore della prosa ellittica e obliqua e spiraliforme di Gramsci. Né ci nasconde la rabbia per le sofferenze patite della "famiglia Gramsci", vittima delle bugie e delle reticenze del Pci.
Leggere questo libro significa vaccinarsi ulteriormente contro il comunismo italiano di fede russa; significa ripercorrere l'altrettanto vergognosa operazione di censura a cui i Quaderni furono sottoposti dallo stesso Togliatti; significa rileggere la vicenda umana di un grande intellettuale, il cui vitto carcerario «veniva innaffiato con gli sputi di due scopini, uno dei quali era tubercoloso».

Corriere della Sera 18.12.08
Religioni miccia dei popoli
di Luciano Canfora


Il sofista Crizia, in un dramma satiresco che qualcuno attribuiva invece ad Euripide, sviluppò la teoria, poi divenuta celebre, secondo cui gli dèi furono inventati per tenere a freno gli uomini: per costringerli a comportamenti morali, o meglio a non delinquere. L'ipotesi di Crizia contiene non trascurabili elementi di verità. La conferma della sua fondatezza viene per esempio dall'esperienza romana. Polibio, ammiratore del sistema romano, scrisse: «Secondo un proposito preciso gli antichi hanno inculcato nelle masse le nozioni sugli dèi e l'al di là». Tali idee — notava il grande storico — «tengono a freno le violente passioni delle masse». E concludeva: «Sconsiderati i moderni che cercano di disperdere queste illusioni». A ragion veduta perciò fu detto, da un moderno non conformista, che le religioni sono «l'oppio dei popoli». Ma il tempo nostro ci mostra uno spettacolo ben più allarmante: le religioni scatenano ormai la reciproca violenza dei popoli. Non più oppio ma miccia.

Corriere della Sera 18.12.08
Le imprese di Cheng Ho su History Channel
Il falso mito del buon cinese
di Giuseppe Galasso


Quei viaggi servivano alla politica di potenza

Il programma «La flotta dei tesori» del canale televisivo History Channel tratta della marina cinese sotto gli imperatori Ming (uso la vecchia grafia) Yong-lo e Hsüan-tê. La flotta, in varii viaggi fra il 1405 e il 1430, al comando dell'eunuco Cheng Ho, solcò il Pacifico e l'Oceano Indiano fino al Golfo Persico, al Mar Rosso e all'Africa orientale. Si afferma che le navi cinesi erano più grandi e di tecnica più avanzata di quelle europee. Si esaltano i risultati dei viaggi e lo spirito che li ispirava, non, come quello europeo, di conquista e sfruttamento, bensì di commercio e conoscenza. Poi, si dice, su una linea di nazionalismo rivendicazionista oggi più viva che mai, la Cina rinunciò al mare (ma aveva, si dice, già scoperto anche l'America), e tutta la storia del mondo ne risentì.
Le imprese navali cinesi sono, però, già ben note. Questo, dunque, non è affatto in discussione. Fa, invece, riflettere il modo in cui se ne parla: ossia in un confronto fra storia cinese e storia europea, in cui i cinesi, più avanzati in tutto, più umani e tolleranti, fanno la parte buona e brillante, gli europei la parte cattiva e opaca.
Che sia così si può dubitare, però, già per ciò che dice lo stesso Hystory Channel sul compito di Cheng Ho, ossia di far riconoscere dai sovrani di altri Paesi la superiorità cinese e ottenerne un tributo. Nessun disinteresse, quindi. Quei viaggi servivano alla politica di potenza, per cui la Cina impose la sua egemonia nell'Estremo Oriente, conquistò varii Paesi e rese altri suoi tributari (anche il Giappone). E si sa che vi si rinunciò perché li si ritenne superflui per la propria potenza continentale, costosissimi e senza utilità economica, benché aprissero la via al commercio e all'emigrazione cinese in Asia sud-orientale. Insomma, come sempre e ovunque, una «normale» linea di espansione economica e di ampliamento di una sfera di influenza politica. Se esibizione della forza e diplomazia non bastavano, puntuale era il ricorso alle armi.
Così, del resto, i cinesi facevano da sempre, costruendo una delle civiltà più importanti e di successo, e trasformando le loro etnie originarie in un grande popolo imperiale, che ha sottomesso e assimilato per lingua e cultura quelli di altra etnia e cultura in uno spazio di ampiezza continentale. E così hanno fatto tutti i popoli imperiali antichi e moderni. Che dire quando si sente parlare della tolleranza, ad esempio, di arabi o turchi? Gli arabi in breve tempo imposero il loro dominio, la loro lingua e la loro religione in un'area vastissima a popoli di grande civiltà e di tutt'altra lingua e religione. Lo fecero distribuendo fiori e ramoscelli di olivo? Quanto ai turchi, chiedetelo ai popoli balcanici o agli armeni. E che direbbero i popoli vittime degli aztechi per i sacrifici umani sull'ingenua mitezza dei loro dominatori, contrapposta alla sanguinaria furia dei conquistatori spagnoli? Si potrebbe continuare a volontà, ma basta riconoscere che Adamo ed Eva, Caino e Abele sono progenitori comuni di tutti gli uomini.
Altra questione è perché solo l'Europa sia giunta alla rivoluzione della modernità. Perché la modernità non è nata nel mondo ellenistico-romano o in Cina, visto il loro grado di sviluppo? La loro è una «storia spezzata», un destino interrotto?
Il problema, in sé, è inconsistente. La storia condiziona il presente, ma trarne il futuro è un altro affare, e non ha nulla di fatale o di automatico. Tutto, progresso o arresto o regresso, è sempre in gioco. La modernità europea non è stata un caso, né la piratesca o fortunata appropriazione di qualcosa che stava lì, dietro l'angolo, in attesa di qualcuno. Il grande problema del «perché non prima o altrove?» ha una risposta banale: «Perché così non fu». La modernità europea è nata da uno spirito, che altrove o prima non vi fu perché… non vi fu. Dov'è il mistero? Vi sono ragioni speciali per cui altri non approdarono alla modernità? Non lo si volle, non vi si pensò, non se ne sentì il bisogno, non se ne vide la possibilità. Non basta?
Basta e avanza. Si noti, semmai, che la modernità europea è stata quella che si sa. Una modernità ellenistico-romana o cinese sarebbe stata diversa. Non era scritto né che la modernità vi fosse, né quale dovesse essere. Del resto, oggi gli europei appaiono seduti sul loro passato (peraltro, spesso e molto rinnegato), superati o superabili da altri, senza un'ansia di proseguire la modernità o di andar oltre pari a quella che ebbero nel costruirla. Ma anche in ciò non vi è alcuna storia spezzata o destino interrotto. C'è solo la storia, una storia.

l’Unità 18.12.08
Il regalo della Gelmini per Natale: i maestri faranno i supplenti
di Maristella Iervasi


La Gelmini usa i docenti come tappabuchi: quelli di ruolo faranno i supplenti. Via il modulo, stop alla compresenza. Le classi a tempo pieno non aumentano. Seconda lingua alle medie ma solo per gli italiani.
Il pacco di Natale della Gelmini alle famiglie e agli insegnanti è pronto. Con i regolamenti applicativi sul primo ciclo (infanzia, elementari e medie) e la riorganizzazione della rete scolastica che oggi il Consiglio dei ministri si appresta ad approvare, si assesta un duro colpo alla scuola: salta il modello pedagogico del modulo, il tempo pieno resta ma solo come quantità oraria: ci sarà un maestro al mattino ed uno al pomeriggio. Stop alla compresenza del team in tutte le classi, dalla prima alla quinta. Addirittura, i docenti di ruolo che per la cura dimagrante all’istruzione imposta da Tremonti - 8 miliardi di tagli in tre anni - fossero in esubero, potrebbero finire a fare i supplenti con un massimo di 3 scuole di riferimento nella provincia. In pratica sarebbero jolly senza confini d’insegnamento: potrebbero cioè (ri)tornare alla scuola dell’infanzia o impiegati per il sostegno. Maria Coscia, responsabile scuola Pd: «Hanno dovuto cedere sull’opzione delle famiglie ma per far quadrare i conti dei tagli stanno distruggendo la primaria. Un’imposizione di nuove regole fuori dal verbale consegnato ai sindacati e che esulano persino da quando scritto nel piano di riforma». Mimmo Pantaleo, Flc-Cgil: «Attacco feroce, altro che valorizzazione della scuola».
IL VERTICE ieri con Tremonti. Il Miur è riuscita a convincere il Tesoro che l’obiettivo del risparmio di 42.105 posti docente per l’anno scolastico 2009/2010, di cui 10mila alla primaria, è realizzabile, proprio facendo saltare la compresenza in tutte le classi. Con il maestro unico o prevalente a 24 ore solo nelle prime classi (stimate in 19.700) si risparmierebbero 7-8mila posti d’insegnante. Con la scuola a 27 ore, altri 5mila. E se le famiglie scegliessero il modello a 30 ore il risparmio salirebbe a 2.300 posti docente. Le cattedre a 18 ore alle medie e superiori e così via. Ma quel che sfugge alla Gelmini maestra unica è il grande caos che tutto questo provocherà fin da subito e per i prossimi anni nelle scuole.
La continuità didattica verrebbe messa a rischio mentre verrebbe scombinata l’organizzazione. Se prima nel modulo c’erano 3 insegnanti che ruotavano su 2 classi, ora ci sarebbero 6 ore che non si potranno più fare. E così a catena, la questione dell’organico con la pesante perdita dei posti e le “regole” sulla mobilità da rispettare. Senza contare i problemi legati alla disomogeneità: il Sud con un alto numero di personale scolastico a tempo indeterminato, il Nord e il Centro «butteranno» fuori dalla scuola i precari. Una gestione-pasticcio. Dal 2010-2011 inoltre si aprirebbe un altro giro di valzer: dovrebbero aumentare gli alunni per classe e il maestro unico verrebbe esteso a regime nelle classi successive alle prime. E scatterebbe anche la riforma dei licei e degli istituti tecnici.
TEMPO PIENO La protesta dell’Onda, del sindacato e del Pd, ha costretto la Gelmini a confermare due docenti per classe. Ma altro che tempo pieno «incrementato del 50%», come ha dichiarato Berlusconi. Restano gli stessi posti dell’anno scolastico in corso, ma con una differenza sostanziale: tempo scuola a specchio e non tempo pieno. Fine delle uscite didattiche e laboratori.
MOBILITÀ I docenti di ruolo in esubero verranno utilizzati «prioritariamente» nell’ambito della scuola di titolarità e in subordine in ambito provinciale «su posto o frazione di posto relativo ad altro insegnamento, anche in diverso grado di istruzione», se in possesso di abilitazione o titolo di studio.
REGIONI Potrebbero dare battaglia sull’erogazione dei servizi. I plessi della scuola dell’infanzia sono ammessi solo con almeno 30 bimbi iscritti; per la primaria 50; nei centri urbani 2 corsi completi.

l’Unità 18.12.08
«Eccidi armeni. Noi turchi dobbiamo chiedere scusa»


Assieme ai docenti universitari Ahmet Insel, Baskin Oran, Cengiz Aktar, lo scrittore Ali Bayramoglu ha diffuso via Internet un manifesto per invitare i concittadini a chiedere finalmente scusa al popolo armeno per i massacri di un secolo fa. Al telefono da Istanbul spiega il significato dell’iniziativa.
Perché questo appello, signor Bayramoglu, e perché proprio ora?
«È la naturale evoluzione di un processo di democratizzazione e avvicinamento all’Europa, in corso da alcuni anni. I cambiamenti politici e sociali sono sfociati in una crisi di identità sociale e nazionale. La democratizzazione non significa solo smilitarizzazione dello Stato o allargamento dei campi di libertà. Comporta anche una sorta di investigazione della società su se stessa. Democratici o nazionalisti, abbiamo cominciato a discutere della nostra storia e della nostra identità, rispetto alle quali il genocidio armeno del 1915 ha un posto importante. Il dibattito è accanito e fa maturare la ricerca della nostra identità. L’appello è scaturito spontaneamente. Si è pensato che era il momento di fare un passo ulteriore. L’idea di lanciare una campagna era nata comunque dopo l’assassinio del nostro amico Hrant Dink (giornalista turco di origine armena ucciso a Istanbul il 19 gennaio 2007)».
Parlate di catastrofe, non di genocidio. Perché?
«Il nostro scopo è che tutti i turchi, tutti coloro che vivono nel territorio anatolico, trovino in quel testo la possibilità di esprimere la loro coscienza. Sappiamo che alcuni rifiutano di definire genocidio gli eventi del 1915. Preferiscono parlare di massacri. Per noi questo è poco importante. Quel che conta è che davanti a quella tragedia la coscienza di ciascuno non taccia. Non ci interessa formulare un verdetto. Nel testo compaiono vocaboli come catastrofe, dolore, coscienza, perdono. Facciamo appello al senso di umanità in maniera che tutti i turchi possano riconoscervisi. Se parli di genocidio, oggi la discussione si blocca, perché entrano in gioco questioni che riguardano lo Stato e il mondo politico. Noi abbiamo voluto invece che l’appello avesse un carattere civile, personale. Se in futuro lo Stato si scuserà con gli armeni potrà farlo a partire da una sorta di mandato sociale che con la nostra iniziativa avremmo contribuito a formare. Sarà la società a chiedere allo Stato di scusarsi. La nostra campagna serve a preparare quella base di legittimità».
Per il premier Erdogan la vostra iniziativa servirà solo a creare tensioni. Come spiega questo atteggiamento?
«Il premier sbaglia. Ripete i soliti argomenti: campagna pericolosa, contraria all’interesse nazionale, etc. Per il capo di Stato Gul invece essa rientra nella libertà d’espressione. Il suo è un approccio molto positivo. Ha preso le distanze certo, ma è giusto, perché non è un affare della presidenza della Repubblica, è un movimento civile. Comunque il dibattito andrà avanti, malgrado Erdogan, e speriamo che anche lui cambi idea. Del resto siamo consapevoli che la ricerca di democratizzazione avviene in un contesto conflittuale».
La Germania ha fatto i conti con il nazismo. Perché in Turchia si fatica ad ammettere colpe riguardanti un’epoca tramontata, quella ottomana?
«L’identità turca ha una sua specificità. Si è formata attraverso la migrazione di popoli nomadi ed una standardizzazione religiosa ha fatto da supporto alla nascita dello Stato-nazione. La memoria delle nostre origini è strettamente connessa alle sofferenze subite o inflitte, ma molti ricordano solo le prime. Se si parla dei fatti del 1915, viene subito evocata la presenza di armeni fra le truppe russe che occuparono le terre ottomane. Con il nostro messaggio vogliamo stimolare una riflessione più approfondita. Parte dei concittadini aderisce, parte reagisce negativamente. Ma il cambiamento andrà avanti. In pochi giorni ai 300 firmatari iniziali se ne sono già aggiunti 15mila. Se in un anno arriveremo a 200-250mila sarà un successo enorme. Qualcuno ci criticherà perché non compare la parola genocidio nel documento, o perché non chiamiamo in causa lo Stato turco. Pazienza. Credo che abbiamo fatto una cosa importante».

l’Unità 18.12.08
Castelli di carta
Il futuro è solo web e il Pulitzer si adegua
di Marina Mastroluca


Tagli, vendite in calo e un futuro sul web. Il caso del New York Times che ha ipotecato il grattacielo
della sede non è fenomeno isolato. Il declino dei giornali è un fatto come la progressiva crescita
dell’on line. Resterà solo la free press? La profezia di Meyer: nel 2043 stamperemo le ultime copie

Verso il buio. Nelle previsioni a partire dal 2012 alcune testate chiuderanno il formato su carta
La progressiva crescita dell’on line si riflette anche sulla pubblicità: in un anno è aumentata del 32,45%
E la leadership è troppo vecchia per gestire un cambiamento che non è stata capace di prevedere

Non è mai buon segno quando una grande casata porta al banco dei pegni i gioielli di famiglia. Così, quando pochi giorni fa la famiglia Sulzberger ha annunciato la decisione di ipotecare il grattacielo che ospita il New York Times - 52 piani disegnati da Renzo Piano e inaugurati appena un anno fa - il segnale arrivato all’intero comparto è stato quello di un pollice verso. Crisi economica e pubblicità in calo, hanno spiegato i giornali, il New York Times vittima della recessione come gli operai della General Motors. Perché, è noto, quando l’economia non gira si fermano anche le rotative, le vendite calano. Nel 2008 il New York Times ha perso il 3,58% delle copie. Il Los Angeles Times è sceso del 5,20% e il Chigaco Tribune del 7,75%, l’8 dicembre scorso il gruppo Tribune ha avviato le pratiche per la bancarotta.
Non è però solo la crisi di questi mesi. Negli ultimi cinque anni la diffusione dei giornali cartacei Usa è calata dell’8,05%, oltre il 3% solo nel 2007. Con punte più o meno aspre, il declino dei quotidiani tradizionali sembra ormai un fatto incontrovertibile, la crisi ha solo dato una mano. E la stessa tendenza si registra in Europa, soprattutto nel versante occidentale. La flessione è meno drammatica, ma ugualmente costante: meno 5,9 per cento di copie dal 2003, un balzo all’indietro del 2,7% solo l’anno scorso, corretto in un segno più solo dalla ricca presenza della stampa gratuita. Nella Vecchia Europa solo i quotidiani tedeschi, con le loro colonne scritte fitte fitte e un sistema di abbonamenti che copre il 90% del venduto, riescono a resistere all’erosione delle copie, il lungo autunno dei fogli di giornale.
È un autunno tutto occidentale, perché a guardare le cifre del rapporto annuale della World Association of Newspaper, la stampa tradizionale non va poi così male. Ogni giorno 532 milioni di persone comprano un quotidiano, nel 2003 erano 486 milioni, ma il grosso della torta è lontano da noi, in Asia: 276 milioni di giornali vengono venduti tra Cina, India e Giappone. La mappa della diffusione della stampa quasi coincide con quella dei Paesi a maggiore crescita economica - e spesso con quella della minore penetrazione delle nuove tecnologie che stanno cambiando il sistema dell’informazione. All’opposto, il fenomeno Obama è una conferma di quanto idee e notizie scorrano ormai - e ben più rapidamente - in canali diversi dalla stampa cartacea. E lo conferma anche la decisione di aprire dal prossimo anno il premio Pulitzer agli articoli pubblicati esclusivamente sul web. «Un’evoluzione logica».
Il declino dei giornali di carta in Occidente è un fatto, come lo è la progressiva crescita dell’on line, che si riflette anche nella crescita esponenziale della pubblicità via web, più 32,45% in un solo anno a livello globale. La pubblicità, vitale per l’editoria, aumenta anche sulla carta stampata - in Europa più 2% nel 2007 - eppure ai giornali non basta. Nell’aprile scorso ha fatto notizia lo sciopero dei giornalisti di Le Monde, all’annuncio del taglio di 130 posti di lavoro, dopo che nel 2005 ne erano già stati cancellati 200 tra tipografia e amministrazione. Ma è un decennio che si taglia. Nel Regno Unito, dove la contrazione delle vendite ha superato il 10% in cinque anni, persino il Financial Times, unica testata a guadagnare terreno, ha dovuto tagliare 50 posti di lavoro.
Tagli alle redazioni e ai costi. Formati ridotti o ridottissimi, uso del colore - più per offrire pubblicità appetibili, che altro - tante foto e testi ridimensionati pensando ad un lettore indaffarato. Giornali supermarket pieni di gadget. Le ricette dell’editoria europea per frenare la disfatta sono andate in questa direzione. Ha cominciato il britannico Independent a rimpicciolire le sue pagine nel 2003 e gli altri sono andati a seguire. Un modo per strizzare l’occhio ai pendolari, rendendo più agevole la lettura su un treno affollato, tagliando al tempo stesso le spese della carta. Formule che in qualche caso hanno rallentato il declino, ma senza vere inversioni di tendenza. Perché, dicono le statistiche, i giornali non arrivano alle fasce più giovani del mercato. I lettori tradizionali sfiorano la cinquantina e per forza di cose andranno scemando nel tempo. Il New York Times ormai da tempo ha più lettori on line che su carta, 1,5 milioni contro 1 milione.
I giovani leggono, ma sempre di meno su carta, preferiscono l’informazione parcellizzata delle e-mail e degli sms. E più ancora fanno affidamento al tam tam dei blog, un modello di informazione dal basso che scavalca l’informazione codificata dei giornali o dei tg ed è percepita come più affidabile. Il giornale lo scorrono sul web, anche se uno studio statunitense mostra che l’81% dei lettori on line di un quotidiano tende a leggere pure la versione cartacea, magari occasionalmente, senza spendere: le generazioni tecnologiche il giornale lo vogliono gratis e veloce.
È la logica che sta anche dietro al fenomeno della free press, che in Europa ha visto una crescita travolgente. Tra i sei quotidiani gratuiti più diffusi al mondo, cinque sono europei e di questi tre sono spagnoli, 1 italiano (Leggo). Gratuiti e veloci, con informazioni in pillole che si riesce a mandare giù prima di scendere dal metrò. Venti minuti al massimo. È quanto secondo il quotidiano giapponese Aashi Shimbun - forte di 12 milioni di copie vendute ogni giorno - il lettore medio è disposto a dedicare alla lettura delle notizie. Venti minuti è anche il nome della testata free press che dilaga in Spagna e in Francia. Su carta resterà solo la free press?
2043. Philip Meyer, docente di giornalismo all’Università della North Carolina, solo quattro anni fa indicava questa data come l’anno in cui sarebbe stata stampata l’ultima copia del New York Times. Negli Usa sono convinti che il processo sia irreversibile. All’American Press Institute poche settimane fa i leader dei principali gruppi editoriali si sono riuniti a porte chiuse per ragionare sul trend, quasi una terapia di gruppo. Il succo è che la leadership dei giornali è troppo vecchia per gestire un cambiamento che non riesce ad immaginare. L’Europa appare più timida nel cercare soluzioni. E chissà che alla fine l’accelerazione non venga da una valutazione di impatto ambientale: quanto costa in Co2 produrre e distribuire un primitivo giornale di carta?

l’Unità 18.12.08
In Italia si legge ma non si compra


Se Atene piange Sparta non ride. Se negli Stati Uniti i quotidiani stanno attraversando un momento di difficoltà strutturale, in Italia le cose non vanno meglio. La congiuntura economica, una scarsa propensione all’acquisto, una distorta raccolta pubblicitaria, tutta orientata sulle televisioni, fanno in modo che nel nostro paese vendite e pubblicità rimangano al palo. Il dato numerico, d’altronde, parla chiaro. Secondo la Federazione degli editori, che ha monitorato 58 testate, ad ottobre tra abbonati ed edicole si sono vendute in media 4 milioni 700mila copie al giorno, e cioè il 3,7 per cento in meno rispetto all’ottobre del 2007 (quando le copie vendute sono state 4 milioni e 900mila). Se si va indietro nel tempo e si arriva al 2000 si scopre, poi, che la flessione è stata ancora più marcata: oltre il 9%.
Eppure, in base a quanto raccolto dal Censis, in Italia i livelli di lettura non sono affatto depressi. L’ultimo studio ha messo in evidenza come nel 2007 il 79% della popolazione sopra i 14 anni sia entrato in contatto con l’informazione quotidiana. Tra questi il 67% legge un giornale a pagamento, il 34,7% la free press, il 21,1% legge notizie fornite in Internet. In valori assoluti si tratta di 40 milioni di persone totali. Questo perché, sempre secondo la Fieg, i giornali restano sempre il principale strumento di democrazia a disposizione dei cittadini per capire gli eventi e orientarsi.
Nel nostro paese quindi si legge ma non si compra. Un po’ perché c’è una generale contrazione dei livelli di reddito personale , quindi, della relativa capacità di spesa. Pesano poi anche condizioni sociali. Se al nord, che presenta livelli di reddito più alti, le copie vendute sono 114 ogni mille abitanti, e al centro 104, al sud queste si riducono a 60. Inoltre l’Italia sconta anche un pessimo circuito distributivo imperniato essenzialmente sulle edicole. Se vuoi un giornale, alle volte, devi camminare e non poco. E questo ha decretato anche il successo della free press. Che spesso te le trovi al bar sotto casa. Nel 2007 in Italia le 7 principali testate hanno raggiunto le 4 milioni di copie distribuite, mentre le principali tre (Leggo, City, Metro) sono state «viste», secondo l’ Audipress, da oltre 5 milioni di persone al giorno.
Se i livelli di lettura sono così alti la pubblicità non decolla. Se nel 2000 i ricavi pubblicitari rappresentavano il 58% del fatturato editoriale nel 2007 rappresentano il 45%. «E il 2008 sarà ancora peggiore» spiega Paolo Duranti direttore Nielsen Media Sud Europa. Per i quotidiani si prevede una flessione nei ricavi pubblicitari del 5%. «Il fatto è che in Italia - spiega ancora Duranti - la pubblicità dipende da pochi settori merceologici: auto, abbigliamento e finanza». Che non stanno proprio in salute. «Per risparmiare si tende a sostituire la pubblicità nei quotidiani con quella in Internet». Che, alle aziende, costa meno, ma agli editori fa contrarre il giro di affari. E se nel 2006 su 60 imprese editrici 22 erano in perdita per il futuro il numero potrebbe aumentare.