lunedì 22 dicembre 2008

Repubblica 22.12.08
Se la Chiesa esige uno "Stato cristiano"
di Carlo Galli


Era parecchio tempo che non si sentiva utilizzare, nel dibattito pubblico, il termine "statolatria" (culto dello Stato): se ne è servito l´arcivescovo Angelo Amato per polemizzare contro l´Educazione alla cittadinanza, nuova materia di insegnamento nella Spagna di Zapatero. Per il prelato si tratta di un "indottrinamento laicista" che rinnova, in forme mutate, la pretesa dello Stato di esercitare sui cittadini un´autorità non solo legale, esteriore, ma anche pedagogica e morale, interiore. Uno Stato che fa concorrenza a Dio.
Un tempo, con "statolatria" la cultura cattolica definiva polemicamente il fascismo, col quale la Chiesa si era conciliata ma di cui non poteva accettare il ruolo "totale" che esso assegnava alla statualità, e anche gli esiti politici dell´idealismo tedesco e italiano. Lo Stato è per Hegel «l´ingresso di Dio nel mondo», e per Gentile è «Stato etico»: lo Stato realizza il compimento della vita dell´uomo, è la fonte della sua esistenza storica, morale e politica, è l´orizzonte di ogni legittimità.
Espressione estrema della lotta moderna contro il principio d´autorità ecclesiastico, lo Stato etico viene prima del singolo e dei suoi diritti soggettivi, e, con la sua prassi educativa, porta l´arbitrio dei privati ad aderire pienamente e consapevolmente (e qui starebbe la vera libertà) a quella vita collettiva (la "nazione") di cui lo Stato è l´espressione storica più piena e razionale.
Contro questo culto dello Stato si muovevano i socialisti, che nello Stato vedevano soprattutto l´aspetto giuridico del dominio di classe, i liberali (non tutti) ostili al superamento della centralità etica, giuridica e politica del singolo soggetto, e appunto anche il cattolicesimo che al potere autoreferenziale di uno Stato così inteso opponeva l´autonomia della Chiesa e della persona, entrambe di origine divina.
Ma che cosa significa il ricorso polemico al termine "statolatria" nel dibattito di oggi, quando lo Stato, con ogni evidenza, non ha più quelle pretese? Quando lo Stato etico è un´esperienza sconfitta dalla storia, e tutta la riflessione politica e morale, si orienta altrove per individuare le coordinate della libertà individuale e collettiva? Qual è la ragione di questo anacronismo lessicale?
Siamo davanti, di fatto, all´equiparazione dello Stato laico contemporaneo allo Stato etico, all´assimilazione dell´educazione dei giovani alla cittadinanza democratica con la trasmissione autoritaria di specifici contenuti dottrinari, al timore che quando lo Stato educa al rispetto dei diritti realizzi una limitazione della libertà personale e collettiva, che il potere sia ormai (secondo le parole dell´arcivescovo) "biopolitico", che cioè si intrometta nella vita intima delle persone.
Ora, in questa argomentazione sono evidenti alcuni limiti: il primo è che tutto ciò sembra ricalcare le polemiche ecclesiastiche ottocentesche contro l´istruzione pubblica promossa dallo Stato, vista come una violazione dei diritti delle famiglie. Il secondo è che la Chiesa definisce "biopolitica" la legge di uno Stato, ma non la propria impressionante serie di divieti, che vincolano gravemente i diritti dei singoli credenti a determinare in modo autonomo come vivere, amare, procreare, morire. Il terzo limite è infine che qui si interpreta polemicamente come un contenuto ideologico particolare (e pericoloso) proprio quel principio di laicità dello Stato che è al contrario la condizione universale formale che fonda e garantisce la coesistenza dei singoli soggetti e dei gruppi sociali.
Lo Stato laico (quale cerca di essere la Spagna) non può non insegnare ai giovani il pluralismo e la tolleranza. E non può non spiegare, a tutti i cittadini, che la legittimità del legame politico democratico e dei doveri che ne derivano sta nel fatto che le leggi dello Stato rispettano e valorizzano i diritti umani, civili, sociali e politici, e non servono ad affermare un´identità religiosa o culturale (né, ovviamente, etnica), neppure se è quella della maggioranza. Questo non è l´insegnamento di un´ideologia che fa dello Stato un idolatrico concorrente di Dio, ma della libertà dei moderni, e dei contemporanei.
E se non si vuole comprendere che la laicità dello Stato non è un opinabile valore fra gli altri ma è la decisione fondamentale della civiltà moderna che realizza la tutela politica della libera espressione sociale di ogni possibile fede e cultura, dell´uguale dignità dei più vari progetti di vita purché non implichino violenza e dominio su altri; se si critica e si combatte come statolatria, come culto dello Stato, l´esistenza e l´azione di uno Stato che rende possibili tutti i culti (e anche il rifiuto dei culti) e tutte le culture; allora in realtà non si vuole, al di là delle espressioni verbali, uno Stato laico ma uno Stato cristiano, o almeno uno Stato che di fatto privilegia il cristianesimo. Come la distinzione fra laicità e laicismo, così il ricorso al termine "statolatria" è quindi più che una scelta linguistica: è un chiaro segno, fra molti altri, di un preciso indirizzo di politica ecclesiastica di cui farebbero bene a essere consapevoli tutti quei laici che del ruolo dello Stato hanno ancora un concetto adeguato.

Repubblica 22.12.08
Il silenzio delle sentinelle
di Giuseppe D’Avanzo


Dovremmo aver imparato in questi quindici anni che, nonostante l´abitudine alla menzogna, Berlusconi non nasconde mai i suoi appetiti. Il sermone di fine anno ci ricorda che la sua bulimia non conosce argini.
Vuole il presidenzialismo come il compimento della sua biografia personale. Non si accontenta di avere in pugno due poteri su tre. Dopo aver asservito il Parlamento al governo, pretende ora che evapori l´autonomia della magistratura. Dice che la riforma della giustizia è pronta e sarà battezzata al primo Consiglio dei ministri del 2009. Anticipa quel che ci sarà scritto: i pubblici ministeri se le scordino le indagini. Diventeranno lavoro esclusivo delle polizie subalterne al ministro dell´Interno, quindi affar suo che governa in nome del popolo. I pubblici ministeri, ammonisce, diventeranno soltanto «avvocati dell´accusa». Andranno in aula «con il cappello in mano» davanti al giudice a rappresentare come notai, o come burocrati più o meno sapienti, le ragioni del poliziotto. Dunque, del governo. Con un colpo solo, si liquidano l´eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge (art. 3 della Costituzione, «Tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge»); l´indipendenza della magistratura (art. 104, «La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere»); l´unicità dell´ordine giudiziario (art. 107, «I magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni»); l´obbligatorietà dell´azione penale (art. 112 ««Il pubblico ministero ha l´obbligo di esercitare l´azione penale»); la dipendenza della polizia giudiziaria dal pm (art. 109, «L´autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria»).
Soltanto un effetto autoinibitorio può impedire di udire, nelle "novità" di Berlusconi, una vibrazione conosciuta e cupissima. Anche a rischio di indispettire il suo alleato decisivo (Bossi), il mago di Arcore rimuove - per il momento - il federalismo dalle priorità del 2009 per rilanciare il castigo delle toghe e la nascita della repubblica presidenziale. Sarà un gaffeur o un arrogante, sarà per ingenuità o per superbia, Berlusconi propone la necessità di una riforma costituzionale con le stesse parole - e per le stesse ragioni - di Licio Gelli. Se non lo si ricorda, davvero «le memorie deperiscono e i fatti fluttuano», come ripete nel deserto Franco Cordero. Appena il 4 dicembre il «maestro venerabile» della P2, intervistato da Klaus Davi, ha detto: «Nel mio piano di rinascita prevedevo la creazione di una repubblica presidenziale, perché dà più responsabilità e potere a chi guida il Paese, cosa che nella repubblica parlamentare manca». Berlusconi, 20 dicembre: «Sono convinto che il presidenzialismo sia la formula costituzionale che può portare al migliore risultato per il governo del paese. L´architettura attuale non permette di prendere decisioni tempestive e non dà poteri al premier».
Fa venire freddo alle ossa il farfuglio dell´opposizione di fronte a questo funesto programma da realizzare presto (si annotano soltanto parole che dicono d´altro). E´ un silenzio che lascia temere o lo stato confusionale di opposizioni ormai assuefatte al peggio o un´altra letale tentazione di quella commedia bicamerale che, senza sfiorare il conflitto di interessi, concesse al mago di Arcore l´impero mediatico e, in nome del primato della politica sulla giustizia, la vendetta sulla magistratura. Dio non voglia che, con il prepotente ritorno al proscenio di qualche campione di quel tempo, la stagione si rinnovi. In una giornata di sconcerto, sono così un balsamo le parole di Giuseppe Dossetti, padre della Costituzione e dello Stato poi fattosi monaco (le ha ricordate ieri Filippo Ceccarelli). Vale la pena tornarci ancora su.
In memoria del suo grande amico Giuseppe Lazzati, e in coincidenza della prima vittoria delle destre, Dossetti pronuncia un discorso famoso. Il titolo lo ricava da un salmo di Isaia (21,11) «Sentinella, quanto resta della notte?». In quei giorni del 1994, egli vede affiorare un male diagnosticato con molti anni di anticipo: la supremazia di una concezione individualistica, in cui il diritto costituzionale regredisce a diritto commerciale (il primato del contratto, l´eclissi del patto di fedeltà); il dissolversi di ogni legame comunitario, mascherato dietro l´appello al "federalismo" (il "politico" diventa pura contrattazione economica); il rifiuto esplicito di una responsabilità collettiva in ordine alla promozione del bene comune (la comunità è fratturata sotto un martello che la sbriciola in componenti sempre più piccole sino alla riduzione al singolo individuo). Non si può sperare, dice Dossetti e parla ai cattolici, che si possa uscire dalla «nostra notte» «rinunziando a un giudizio severo nei confronti dell´attuale governo in cambio di un atteggiamento rispettoso verso la Chiesa o di una qualche concessione accattivante in questo o quel campo (la politica familiare, la politica scolastica)».
Dossetti non nega la necessità di cambiamenti. Elenca: riforma della pubblica amministrazione; contrasto alle degenerazioni dello Stato sociale; lotta alla criminalità organizzata; valorizzazione della piccola e media imprenditoria; riforma del bicameralismo; promozione delle autonomie locali. Teme però riforme costituzionali ispirate da uno «spirito di sopraffazione e di rapina». «C´è - avverte - una soglia che deve essere rispettata in modo assoluto. Questa soglia sarebbe oltrepassata da ogni modificazione che si volesse apportare ai diritti inviolabili civili, politici, sociali previsti dalla Costituzione. E così va pure ripetuto per una qualunque soluzione che intaccasse il principio della divisione e dell´equilibrio dei poteri fondamentali, legislativo, esecutivo e giudiziario, cioè per l´avvio, che potrebbe essere irreversibile, di un potenziamento dell´esecutivo ai danni del legislativo ancorché fosse realizzato attraverso referendum che potrebbero trasformarsi in forma di plebiscito». I referendum, segnati da «una forte emotività imperniata su una figura di grande seduttore», possono trasformarsi infatti «da legittimo mezzo di democrazia diretta in un consenso artefatto e irrazionale che appunto dà luogo a una forma non più referendaria ma plebiscitaria». Il "padre costituente" denuncia senza sofismi quel che vede dietro la «trasformazione di una grande casa economico-finanziaria in Signoria politica». Vede la nascita, «attraverso la manipolazione mediatica dell´opinione», di «un principato più o meno illuminato, con coreografia medicea». Dossetti chiede allora ai cristiani di «riconoscere la notte per notte» e di opporre «un rifiuto cristiano» ritenendo che «non ci sia possibilità per le coscienze cristiane di nessuna trattativa».
Nessuna trattativa. Per trovare queste parole che aiutano a sperare ancora in una via diurna, si deve ricordare Dossetti. Dove sono le "sentinelle" a cui si può chiedere oggi: «Quanto resta della notte»?

Repubblica 22.12.08
Un team tedesco al lavoro nella Valle dei Re il sito archeologico può svelare altri segreti
Nefertiti. Riparte la caccia alla regina più bella
Gli scavi si svolgono sotto tombe individuate decenni fa
di Andrea Tarquini


BERLINO. Si risveglia, alla vigilia delle feste, la leggenda della bellissima Nefertiti. In riserbo, ma solo fino a ieri quando lo ha rivelato l´edizione domenicale del Frankfurter Allgemeine, un team internazionale di archeologi, guidato da Otto Schaden, ha ripreso da novembre a scavare tra i siti tombali della mitica Valle dei Re a Luxor, in Egitto. Schaden e gli altri ricercatori non si sbilanciano, ma speculazioni, rumors e speranze segrete rilanciano la possibilità di trovare infine il sarcofago o la mummia della splendida regina, moglie del faraone Achenaton. O di altri membri della famiglia che, regnando, introdusse brevemente il monoteismo. Come in un romanzo d´avventure, o in un film di Indiana Jones, ma con pieno rigore scientifico, rinasce la grande ambizione dei contemporanei di ritrovare i resti di quei Grandi di millenni e millenni or sono.
«Io non mi abbandono a speculazioni, noi scaviamo e basta. Speriamo però che la prossima stagione di scavi ci porti a nuove informazioni», dice Otto Schaden. Non si presta alle voci sulla speranza di trovare Nefertiti. All´inizio di gennaio egli tornerà in Egitto per la ripresa dei lavori. Quel che conta è che ha l´appoggio del potentissimo Zahi Hawass, il direttore del Supreme council of antiquities, cioè l´authority egiziana per il patrimonio artistico dell´antichità. E´ a Schaden stesso che si deve la scoperta, nel 2006, del sito tombale KV 63. Individuato per caso, come molti altri. Gli scavi ora ripresi si svolgono sotto tombe già individuate decenni fa.
La valle dei re è sempre stata piena di sorprese sensazionali. Nel 1912, Theodore Davis disse «ho la sensazione che ormai abbiamo trovato tutto scavando nella valle», ma appena dieci anni dopo l´archeologo britannico Howard Carter lo smentì, trovando la famosa tomba del faraone Tutankhamon. Il colpo di scena si ripeterà oggi? «E´ ragionevole aspettarsi nuove scoperte», afferma Otto Schaden.
E´ da millenni che la Valle dei Re appassiona, affascina e incuriosisce. Invano i faraoni la progettarono, sperando di riposare in pace nelle loro misteriose tombe sotterranee. Già nel 25 avanti Cristo lo storico e geografo Strabone descrisse la Valle come «un luogo con almeno quaranta cripte reali scavate nelle rocce, che vale la pena visitare». Le tombe erano undici-tredici secoli più vecchie di lui, molti ladri, i tombaroli dell´epoca, ne avevano già saccheggiate alcune.
La leggenda più affascinante resta quella di Nefertiti. Della splendida regina ci resta oggi solo il famoso busto, custodito nel Museo di Berlino. Una delle più belle immagini femminili nell´arte, da quando il genere umano esiste. La meravigliosa Nefertiti era moglie di Akhenaton, il faraone che decise di abolire il mondo politeista dell´antica religione egiziana e impose d´autorità il primo culto monoteista, quello del dio solare Aton. La scelta non piacque a molti. Tutankhamon, considerato probabile figlio di Akhenaton, salì sul trono ad appena nove anni, qualche tempo dopo la morte di Akhenaton, e sotto il suo regno il politeismo fu restaurato.
Ma dove sono oggi i resti di Nefertiti, o di Ankesenpaaton, la figlia di Akhenaton? La caccia è in corso da secoli. Nel 1827 il britannico John G. Wilkinson catalogò i siti tombali, enumerandoli come "KV" (dalle iniziali di Kings´Valley, valle dei re, appunto) più un numero. Nel 1922, Carter scoprì Tutankhamon. Nel 1995 un team guidato da Kent Weeks trovò le presunte mummie di figli di Ramsete II: La scoperta del sito KV 63 è cominciata scavando e trovando i resti di umili capanne degli operai o schiavi che costruirono le tombe. Poi, sotto, sono stati trovati i sarcofagi vuoti. Forse, si pensa da tempo, le sepolture di Akhenaton e della sua famiglia furono traslate altrove dopo il ripristino del politeismo. Il potente Zahi Hawass, che in un primo tempo non ne voleva sapere di nuovi scavi, ha infine dato il suo accordo. E la rincorsa della leggenda ricomincia, laggiù nella Valle dei Re.

Repubblica 22.12.08
Cantimori tra Ribbentrop e Molotov
In un libro perduto ritrovato da Simoncelli, lo storico sosteneva di fatto il patto tra Hitler e Stalin sottolineandone le affinità ideali
Fascista negli anni '20, divenne comunista proprio alla fine degli anni '30
Dopo che la Germania invase l'Urss però, lo studioso ne impedì la pubblicazione
di Leopoldo Fabiani


Un libro "perduto", ora ritrovato. Un autore che preme per mettersi all´opera e poi fa di tutto perché la sua fatica non veda le stampe. Un´immersione pericolosa nelle ribollenti ideologie totalitarie del Novecento che ha anche l´ambizione di essere una raffinata operazione politica. Lo specchio della vita di un intellettuale segnata da scelte tormentate e ripensamenti dolorosi.
Tutto questo si trova nella vicenda del volume mai pubblicato da Delio Cantimori, il grande storico autore del fondamentale studio sugli Eretici italiani del Cinquecento, il maestro che nel dopoguerra era stato definito «il patriarca della storiografia marxista». Nel 1939, su committenza di Gioacchino Volpe, si era assunto il compito di produrre una Storia del Movimento nazionalsocialista dal ´19 al ´33, che avrebbe dovuto essere pubblicata dall´Ispi (Istituto di studi sulla politica internazionale) ma che, appunto, era andata perduta. Ora Paolo Simoncelli, professore di Storia moderna alla Sapienza di Roma, ha ritrovato il volume, anzi per meglio dire, ne ha ritrovato due grossi tronconi, uno manoscritto e l´altro dattiloscritto, e ha dedicato a questa scoperta un saggio, Cantimori e il libro mai edito, (Le Lettere, Pagg. 154, euro 18) che ripercorre, con un attentissimo lavoro di ricostruzione delle fonti, la storia e il contenuto del testo "perduto", svelando parecchi particolari sorprendenti e rivelatori del tormentato percorso intellettuale e politico di Cantimori fra le ideologie totalitarie del ´900. Il suo passaggio dal fascismo al comunismo, proprio verso la fine degli anni ´30, la milizia nel Pci, da cui uscì nel ´56, sono stati al centro di polemiche lontane e recenti: Cantimori è stato dipinto come uno dei tanti "voltagabbana" che si sono messi al sicuro alla fine del regime fascista gettandosi nelle braccia dei comunisti; oppure la cultura di sinistra è stata accusata di nascondere i trascorsi fascisti dei suoi intellettuali più prestigiosi; o ancora gli allievi dello storico di volerne fare "un santino". Ma il caso di Cantimori è particolarmente complesso e il ritrovamento del volume "perduto" sta lì a dimostrarlo, per le vicende curiose del testo e per il suo particolare contenuto.
Già la questione della committenza del libro è piuttosto singolare: lo storico romagnolo (era nato a Russi, in provincia di Ravenna, nel 1904) rivendica in una lettera a Gioacchino Volpe i suoi meriti di studioso del nazionalsocialismo, ricorda di averne scritto fin dal 1928, di aver tradotto testi di Carl Schmitt, di aver curato la voce "Nazionalsocialismo" nel Dizionario di politica pubblicato dal Partito fascista. Cantimori nel ´39, grazie alla moglie Emma, comunista e attiva nella rete illegale del "Soccorso Rosso", sta passando o è già passato al comunismo ed è comunque in contatto con l´apparato clandestino del Pci. Ma non si tira indietro dinanzi al compito di scrivere sul nazismo, al contrario, elenca le sue benemerenze, a mostrare quanto ci tenga. Altra sorpresa, due anni dopo quando alla fine del ´41 lo studioso consegna l´opera all´editore. Con il pretesto di un contrasto sulle traduzioni dal tedesco di alcuni documenti (si tratta di un lavoro destinato alle scuole e alle università, in una collana di raccolte di documenti introdotte e commentate) ostacola, ritarda, impedisce la pubblicazione del libro. Poi la guerra farà il resto.
Come si spiega questo cambiamento? Per trovare una risposta bisogna vedere da vicino il taglio tutto particolare con cui lo storico romagnolo ha affrontato la storia del nazionalsocialismo. E cioè la grande attenzione portata alle correnti della sinistra nazionalsocialista, alle convergenze di questa con i movimenti nazionalbolscevichi, alle leghe, ai corpi franchi, a tutto quel ribollire di forze rivoluzionarie di destra e di sinistra che nella Germania degli anni ´20 si combattevano duramente ma avevano in comune non pochi avversari: la Repubblica di Weimar (nella quale erano dunque perseguitati), la pace di Versailles, il parlamentarismo, il liberalismo, la società borghese, la proprietà privata. Cantimori, che conosceva benissimo la lingua tedesca, aveva vissuto in Germania tra il 1927 e il 1928, e, da giovane fascista di sinistra, aveva subito la fascinazione di quei movimenti violenti, di quel magma politico incandescente che prometteva di dar vita a un mondo nuovo, e da cui invece sarebbe scaturito il regime nazista. Ma ora, all´inizio degli anni ´40 la situazione era del tutto diversa e l´insistenza sui tratti comuni tra il nazionalsocialismo "movimentista" e il "nazionalbolscevismo" prendeva tutto un altro significato.
«Quando Cantimori si assume l´onere di scrivere il libro - dice Simoncelli - il patto Ribbentrop-Molotov sancisce l´alleanza tra Terzo Reich e Unione Sovietica. Due anni dopo, quando lo consegna, Hitler ha dato il via all´invasione della Russia. Possiamo ipotizzare allora, che l´intento iniziale dello storico fosse quello di mostrare come quell´alleanza diplomatica e militare non fosse poi troppo "innaturale" e che invece non mancavano i punti di contatto tra le ideologie che ispiravano i due regimi. Operazione che alla fine del 1941 non aveva più senso, ed ecco allora che si spiega perché Cantimori colse al volo il primo pretesto possibile per mandare tutto a monte».
Ma l´insistenza di Cantimori sui tratti rivoluzionari del nazionalscocialismo, così come su quelli del fascismo, non è limitata al libro "perduto" e percorre anche tutti i sui scritti sulla Germania degli anni ´30. «Non c´è dubbio - aggiunge Simoncelli - che Cantimori preferisse di gran lunga il momento "movimentista" a quello della cristallizzazione in regime. Non gli piace il Fascismo che firma i Patti Lateranensi, non ama l´Hitler divenuto cancelliere, ha simpatie trotzkiste, persino nei suoi studi di storia religiosa preferisce gli eretici a Lutero che riporta tutto all´ordine. Perciò nel suo itinerario dal fascismo al comunismo, io non vedo una scelta opportunista, ma una certa coerenza».
La classica distinzione di Renzo De Felice tra fascismo "movimento" e fascismo "regime" si deve con tutta probabilità alle suggestioni di Cantimori, che del biografo di Mussolini fu "maestro", anche se De Felice si era laureato con Federico Chabod. «Esistono due lettere commoventi di Cantimori a De Felice - rivela Simoncelli - che riguardano il primo volume della biografia, Mussolini il rivoluzionario. Ma esiste soprattutto un dattiloscritto dell´opera che il maestro ha restituito all´allievo pieno di annotazioni a margine sulla propria giovanile fede fascista. Il manoscritto è però un documento privato e come tale non consultabile».
Tra coloro che erano stati giovani negli anni Venti e Trenta del ´900, Cantimori non fu certo il solo a cadere in quell´errore. A pensare che il crollo catastrofico dei regimi parlamentari (in Italia, in Germania, in Spagna), la loro debolezza (in Francia e Gran Bretagna) di fronte ai totalitarismi fosse irrimediabile. Non una fase critica della loro storia, suscettibile di riscatto, ma la fine definitiva di un intero mondo, la vecchia Europa borghese, materialista, esangue e mediocre. E che la "rivoluzione" con i suoi sconvolgimenti avrebbe generato un mondo nuovo, rivitalizzato da energie fresche.
Ma, a differenza di tanti altri, lo storico ammise i suoi errori, in pubblico e a se stesso, in un´autoanalisi perfino spietata. In un ricordo di Federico Chabod, il grande storico liberale e antifascista, aveva scritto: «Nell´anno in cui Chabod aiutava Salvemini a passare clandestinamente il confine, io mi iscrivevo al partito fascista, immaginando che questo avrebbe fatto la rivoluzione repubblicana, sindacale, nazionale di Corridoni e di Mazzini». Nel 1956, dopo il XX congresso del Pcus, aveva deciso di non rinnovare la tessera del Pci. Una delusione dalla quale gli fu difficile riprendersi. Ne derivò, ha scritto Gennaro Sasso «un senso di amarezza e anche di fallimento che Cantimori di lì in poi provò per il resto della sua vita». Come testimonia un appunto privato di quel periodo: «I miei grandi sbagli: Credere di capire qualcosa di politica; Credere che i fascisti la rivoluzione l´avrebbero fatta loro; Saltare fra i comunisti. Iscrivermi al Pci. Lasciare i miei studi per tradurre Marx ecc. Ritirarsi nei propri studi, l´unico rimedio. Finire pulitamente una vita disordinata e polverosa».

Repubblica 22.12.08
Firenze
Guercino. La scuola, la maniera. I disegni agli Uffizi


Gabinetto dei Disegni e delle Stampe. Fino al 22 febbraio
Giovan Francesco Barbieri, detto il Guercino, è uno dei protagonisti più interessanti nel panorama del disegno italiano del Seicento, per capacità inventiva, vigore e perizia tecnica. Apprezzato già dai suoi contemporanei anche per la "gustosa facilità" che caratterizza la sua produzione grafica. Il museo fiorentino che possiede un nucleo importante di fogli propone oggi una mostra curata da Marzia Faietti e Giorgio Marini. Tra le opere, da notare soprattutto gli studi di figura. Da segnalare anche la presenza di disegni giovanili, eseguiti prima del soggiorno romano del 1621-'23. Completano il panorama i fogli degli artisti del suo studio.

Corriere della Sera 22.12.08
Il segretario Prc: sì alla settimana corta anti-licenziamenti
Ferrero: giusto copiare la Merkel
di Roberto Bagnoli


Per reperire i fondi servono tassa di successione, più imposte sopra i 100 mila euro e sulle rendite finanziarie

ROMA — «Mi sembra una ottima idea perché mantiene il rapporto di lavoro, riduce a tutti l'orario ed evita l'emarginazione e i licenziamenti perché nessuno deve essere lasciato solo». Paolo Ferrero, da cinque mesi segretario di Rifondazione ed ex ministro della Solidarietà sociale, si schiera a favore della proposta per affrontare la crisi avanzata dal cancelliere tedesco Angela Merkel di ridurre la settimana lavorativa a 3-4 giorni, poi ripresa dalla Cisl e rilanciata dallo stesso Silvio Berlusconi.
Una notizia, Rifondazione d'accordo con il Cavaliere.
«In realtà è lui che è d'accordo con noi perché Rifondazione ha sempre sostenuto la riduzione dell'orario di lavoro, la cassa integrazione a rotazione e altri strumenti di solidarietà. Sì alla Merkel ma con qualche aggiustamento».
Quale?
«La struttura produttiva italiana è fatta di piccolissime imprese, con una media di 3 dipendenti, che sono quelle destinate a essere le più colpite. Bisognerebbe quindi estendere il provvedimento anche a loro, anche alle partite Iva, anche ai garzoni. E questo per due motivi: non si disgrega il tessuto sociale e si attua una manovra anticiclica per difendere i salari e non comprimere i consumi».
Significa avere risorse molto maggiori. E dove si prendono?
«Per reperire i soldi qualche ricetta ce l'avrei. Primo: rimettere la tassa di successione e introdurre una patrimoniale sopra i 500 mila euro. Secondo: aumentare le aliquote fiscali al di sopra dei 100 mila euro annui di imponibile. In Danimarca sono al 60% e non vedo perché da noi non possano arrivare al 50%. E poi ancora: portare le imposte sulle rendite finanziarie al 20% per valori sopra 200-300 mila euro e tagliare le spese militari. Senza contare l'evasione che questo governo sta di nuovo coltivando. In sintesi, le risorse ci sono eccome, sono solo mal distribuite».
Gli onorevoli Mazzuca e Casoli, del Pdl, stanno preparando una proposta di legge sulla settimana supercorta. Lei ha qualche anticipazione?
«No e devo dire che sono preoccupato perché spesso la fregatura sta nel dettaglio. Io mi sono pronunciato su quanto ho letto della Merkel ma non so cosa sta facendo il governo».
Per Berlusconi ci vorrebbe anche una Authority per evitare abusi. Che ne dice?
«Inutile. Serve solo per moltiplicare la burocrazia e creare poltrone con superstipendi da 300-400 mila euro. In fin dei conti la cassa integrazione ha sempre funzionato bene senza authority e la proposta Merkel non è altro che una estensione della Cig».
Prossimo passo di Rifondazione un'apertura al contratto unico (proposta Boeri-Ichino) fatto proprio da Veltroni?
«No. Perché la situazione italiana dimostra che la quantità di occupazione non è data dal grado di flessibilità ma dal livello effettivo di tecnologie negli apparati produttivi. Al Sud mancano investimenti non flessibilità. Il nostro tasso di occupazione è al 57% contro l'80% della Danimarca eppure la nostra flessibilità — con lavoro interinale, contratti a termine etc — è molto maggiore».
Sempre in zona Pd, secondo lei la questione morale viene affrontata in modo corretto o no?
«Direi che non viene affrontato il centro della questione che è il fallimento delle misure messe in campo per arginare il fenomeno Mani pulite e Tangentopoli dal 1993 in poi. Da lì se ne uscì dicendo che il pubblico è una schifezza e bisogna puntare sul privato. Ma le mazzette o i favori che vengono fuori adesso sono proprio nel privato e negli appalti in outsourcing. Veltroni ha un bel dire basta con i capobastone, ma ogni collegio uninominale ne ha uno».
Qualsiasi ipotesi di un riavvicinamento di Rifondazione al centrosinistra sembra sempre più lontana.
«Vedremo caso per caso. In Abruzzo, per esempio, alle primarie del Pd ha vinto uno che è indagato e Veltroni mica lo aveva tolto. Se vanno avanti così non ci accorderemo nemmeno a livello locale».

Repubblica 22.12.08
Stasera su RaiUno per l'omaggio a Puccini, la replica del film-opera di Andermann
"Tosca", tutta in una notte


Per le celebrazioni del 150° anniversario della nascita di Giacomo Puccini, RaiUno riproporrà alle 23 Tosca nei luoghi e nelle ore di Tosca. Il «Live film», ideato e prodotto da Andrea Andermann, ha avuto uno straordinario impatto planetario, quando è stato trasmesso dal vivo, da Roma nel luglio del 1992, in 107 Paesi del mondo. Grande cast: il tenore Placido Domingo nel ruolo di Cavaradossi, Catherine Malfitano nel ruolo di Tosca e Ruggero Raimondi in quello di Scarpia. Sul podio il maestro Zubin Mehta, la regia è di Giuseppe Patroni Griffi, la fotografia di Vittorio Storaro. «Potremmo mai immaginare il mondo dell´opera oggi senza Giacomo Puccini?», si chiede Domingo, che fu straordinario interprete del film-opera, «Interpreti e pubblico gli devono moltissimo».

domenica 21 dicembre 2008

Repubblica 21.12.08
L’ossessione del Cavaliere
di Filippo Ceccarelli


E´ una monarchia presidenziale, prima che una Repubblica, quella che Silvio Berlusconi ha delineato al termine dell´interminabile conferenza stampa di fine anno. Un principato elettivo, ha lasciato capire l´aspirante unico sventolando un paio di volte il 72 per cento dei consensi di cui già disporrebbe.
O meglio, considerata la necessaria unanimità che pure ha voluto evocare, si tratterebbe di una signoria plebiscitaria: questo è l´esito dichiarato del prossimo quadriennio che del resto era ben inscritto, visioni e simboli, nella maestosa ambientazione di villa Madama, fra statue, cipressi, fontane e amorini, scenografia affidata a Raffaello Sanzio, Sangallo, Giulio Romano e Baldassarre Peruzzi, oltre s´intende al fidatissimo Gasparotti, regista d´ogni prestazione scenica del Cavaliere.
Certo faceva impressione veder questo imminente (forse) sovrano presidenziale, collocato comunque in quello scenario di magnificenza; e non per accarezzare profezie o indulgere a vetero catastrofismi penitenziali, ma un po´ veniva anche da pensare al vecchio Giuseppe Dossetti, il professorino democristiano della Costituente poi divenuto monaco, che nel 1994 fece a tempo a prevedere, "verificandosi certe condizioni oggettive e attraverso una manipolazione mediatica dell´opinione", come il berlusconismo, che traeva origine da "una grande casa economica finanziaria fattasi Signoria politica", ecco, il berlusconismo si sarebbe potuto evolvere per l´appunto "in un principato più o meno illuminato, con coreografia medicea" aggiungeva preziosamente don Pippo Dossetti.
E il fatto, guarda caso, è che quel gioiello rinascimentale di villa Madama fu commissionato da Giulio de´ Medici, il futuro papa Clemente VII. Come un papa, comunque, Berlusconi sembrava felice. A proposito: i rapporti con la Santa Sede non sono mai stati migliori. Anche con i giornalisti, che pure ha paternalisticamente designati come "birichini", non va male. Nessuno scontro, nessuno sgarbo, il buffet era rimarchevole, e lì si sono viste un sacco di belle ragazze che giornaliste in verità non erano, o almeno non sembravano per audace eleganza, ma di sicuro facevano effetto, e poi lui era contento. Nel potere è sempre successo. E comunque.
L´Italia ha riacquistato il suo prestigio nel mondo. Lo Stato, vedi Napoli, è tornato a essere e a fare lo Stato. L´Alitalia eccola qui: salva e tutta nazionale - giacché l´Air France avrebbe dirottato i turisti sui castelli della Loira anziché sulle nostre città d´arte. I problemi energetici si risolveranno con le centrali. Le infrastrutture - non più dette "grandi opere" - finalmente si faranno. La giustizia verrà riformata, sia quella civile che quella penale; l´evasione fiscale sarà combattuta, sta per partire una campagna; la pubblica amministrazione sarà digitalizzata - e anche questa è parso di averla già sentita. La formula in uso, nelle sue varie articolazioni: "Abbiamo avviato un grande lavoro".
L´introduzione, che lo stesso presidente ha avuto il cuore di definire "prolissa", è durata tre quarti d´ora. Berlusconi ha parlato dietro un tavolo marrone chiaro e posticcio che decisamente, almeno dal vivo, stonava con il resto. Pure il tele-padellone grigiastro con il simbolo della Presidenza del Consiglio faceva a pugni con il tabernacolo d´avorio intarsiato e le sue figurine nude. Mentre sulla testa del Cavaliere gravava l´affresco di un gigante, ebbro e debitamente discinto, con mega-zufolo e clava. Senza farla troppo lunga, né troppo complicata, è stata la sagra dell´ottimismo necessitato. Tutto va bene, madama la marchesa. A dire il vero, in tutta onestà, non c´è politico, non c´è potente, non c´è presidente che in occasioni del genere non reciti questa parte. Ma Berlusconi, che viene dalla cultura della pubblicità, è meglio di chiunque altro. Quello che non va bene è sempre colpa di qualche altro (sinistra e ambientalisti); le difficoltà riguardano sempre il passato; le magagne sono sempre ereditarie. La crisi c´è, ma proprio per questo bisogna essere ottimisti, invece la tv a volte mette ansia, e allora è peggio. In questa indispensabile dissimulazione l´uomo si conferma un prodigio di maestria. Lo tradisce appena qualche segno, qualche gesto, qualche spia del linguaggio extra-verbale, il piede che batte il nervosismo, la mano dell´insincerità che s´infila nella tasca interna, tipo Napoleone. L´altro ieri ha raccontato ai dipendenti di Palazzo Chigi, con cui ha anche cantato, di aver appeso a un elicottero un pupazzo di Superman con la sua faccia di Superman. Ieri invece è apparso sobrio, misurato, al massimo intermittente, cioè ora benevolo e ora più freddo, ora larvatamente populista e ora istituzionale. Solo che Berlusconi è Berlusconi e quindi a volte esagera. Così ha spiegato che a fare quel mestiere lui non si "diverte", come diceva l´Avvocato Agnelli, ma lo fa "per spirito di sacrificio" - però mentre lo diceva si torceva le mani. Ha accennato al tema dei successori. Ha rivelato di sfuggita che con Veltroni, a suo tempo, volevano fare insieme la legge per le europee, con clausola ed eurodeputati nominati dall´alto. A proposito di questi ultimi, quelli davvero preparati, se n´è uscito con una sorprendente citazione virgiliana: "Apparent rari Nantes in gurgite vasto". A un certo punto gli è scappato: "In una precedente fase del nostro governo", e si è capito che era un plurale majestatis. Per il resto l´egolatria si è declinata su tutti i campi dell´attività di governo. Io, io, io, me, mi, eccetera. Ha candidamente ammesso che sarebbe felice di avere "un´opposizione, come si dice, di Sua Maestà". La monarchia presidenziale comunque la prescrive, e non è detto che Berlusconi prima o poi non la ottenga.

Repubblica 21.12.08
Berlusconi e il chiodo fisso del Quirinale. "Quel posto spetta a noi", ha sempre detto. Ma è obbligato a un´intesa entro il 2013
E per il Colle il Cavaliere cerca la sponda D'Alema
"Con lui si può parlare, altro che Veltroni". La tentazione dell'accordo
di Claudio Tito


ROMA - «Il Quirinale spetta a noi». Era il 9 aprile scorso. Silvio Berlusconi non riuscì a trattenere il suo pensiero sulla presidenza della Repubblica. Svelò senza prudenze l´obiettivo inseguito da tempo. Perché da tempo il Cavaliere ha puntato le sue fiches sul Colle. Nel frattempo, da quel 9 aprile, è salito a Palazzo Chigi e ha cercato di impostare un rapporto corretto con Giorgio Napolitano. Ma quelle parole non sono affatto scomparse dal suo vocabolario politico.
Anche il rilancio di ieri sulla «grande riforma» rappresenta l´ultimo passo per avvicinarsi al Quirinale. Che, però, richiede una premessa che al momento non si è concretizzata: un´intesa con l´opposizione. «Con questa opposizione, però, io non posso stringere nessun accordo. Con Veltroni - ripete da giorni - non posso discutere, non è credibile. E soprattutto non conta più nemmeno nel suo partito. Come faccio a parlare con uno che si fa comandare a bacchetta da Di Pietro. Lì deve cambiare tutto».
Nessun accordo, quindi, «con questa opposizione». Con «un´altra», però, il discorso cambierebbe. L´offerta formulata ieri, infatti, è rivolta proprio a «quell´altra» «sponda» del Pd. Secondo il presidente del consiglio, infatti, l´idea di dar vita ad un processo che modifichi la Costituzione costituisce il migliore «salvacondotto» per dialogare con Massimo D´Alema. Fin da maggio il canale con l´ex premier diessino è stato riaperto attraverso alcuni «ambasciatori» esterni alla politica. «Con lui si può parlare, rispetta i patti. Me lo dice pure Bossi». Non solo. Basti pensare che pur di bypassare Veltroni, qualche giorno fa il Cavaliere si era detto disponibile - in una riunione riservata con i suoi fedelissimi - a trattare sulla giustizia persino con Luciano Violante, con cui i rapporti non sono mai stati idilliaci: «Almeno è uno autorevole».
Insomma il biennio 2009-2010 per Berlusconi dovrà scorrere lungo tre direttrici: Federalismo-Giustizia-Riforme costituzionali. Il primo punto per esaudire le esigenze leghiste, il secondo per assecondare le spinte di Forza Italia e il terzo per ricucire i fili del confronto con una parte del Pd. «I provvedimenti sulle riforme istituzionali - dice allora senza mezzi termini, Gaetano Quagliariello il forzista che più si occupa di questi temi - sono già pronti. Sono pronti e nei prossimi mesi la discussione potrebbe già cominciare nelle commissioni parlamentari». E le linee di fondo che li ispirano sono riferibili più al premierato che al presidenzialismo di tipo americano. Non è un caso che il capo del governo abbia fatto riferimento ai poteri di cui godono i premier europei.
«Bisogna - è il ragionamento svolto negli ultimi incontri con i vertici di Forza Italia - legare l´esecutivo alla volontà popolare, assegnandogli pure più autonomia». Una soluzione predisposta appositamente per instaurare un dialogo con il versante «dalemiano» dei democratici e anche con con l´Udc di Casini. E per scavalcare quello che a Palazzo Grazioli definiscono sempre più un asse: quello di Veltroni e Gianfranco Fini. Quello che nella prossima primavera potrebbe prendere ancora più corpo con il referendum elettorale e che a Palazzo Chigi invece intendono far naufragare al più presto. Anche perché l´obiettivo-premierato comporterebbe la definizione di una nuova legge elettorale che mal si concilierebbe con il sistema che uscirebbe dalle urne referendarie. Non è allora nemmeno un caso che il leader di An ieri sia improvvisamente scomparso dalla lista berlusconiana dei potenziali candidati alla successione nel Pdl: «Ci sono tanti ministri giovani», ha sibillinamente osservato il premier. Ma la definizione di «ministri giovani» non deve aver fatto piacere nemmeno a Giulio Tremonti.
Sta di fatto che Berlusconi è sicuro che solo se riuscirà a confezionare la «Grande Riforma» con «il 100 per cento del consenso» potrà schiacciare quel chiodo fisso che è diventato il Quirinale. Raggiungere quella meta di cui parla nelle riunioni più riservate. E´ insomma convinto di poter salire sul massimo scranno istituzionale solo in qualità di «padre» della Terza Repubblica. Anche perché se la Costituzione non verrà cambiata, il successore di Giorgio Napolitano verrà eletto dal prossimo Parlamento e non da questo. E nel 2013 neanche il Cavaliere potrà garantirsi una maggioranza sufficientemente ampia per varcare il portone del Quirinale senza i voti del centrosinistra.

il Riformista 21.12.08
Presidenzialismo La nuova frontiera di Berlusconi
«Riformo la giustizia e punto al presidenzialismo»
Stop intercettazioni
di Alessandro De Angelis


ACCELERAZIONI. Il premier nella conferenza di fine anno difende l'operato del governo, annuncia la riforma della giustizia per gennaio e rilancia sul nucleare. Sulle riforme istituzionali: «Italia pronta per l'elezione diretta del capo dello Stato».

Ci sarà un «emendamento del governo» per restringere la possibilità di intercettazioni telefoniche. Lo annuncia Silvio Berlusconi nella conferenza di fine anno. Il presidente del Consiglio ricorda di essersi subito detto «insoddisfatto» del ddl governativo in discussione. Il premier ha poi espresso la sua idea sul presidenzialismo: «L'Italia è pronta, è una forma di governo che la renderebbe più moderna e competitiva». Infine un passaggio su Napoli: «Non abbiamo voluto il commissariamento, ma lancio un appello agli interessati perché si dimettano e si possano indire nuove elezioni».

Avanti, con ottimismo. Silvio Berlusconi coglie l'occasione del consueto incontro di fine anno con i giornalisti per mandare il suoi biglietti d'auguri. Alla sinistra, che ha lasciato «un'eredita pesante» a partire dall'euro, «moneta ipervalutata». Ai media, che alimentano contrasti: «Serve un'informazione più distesa e non basata sulle contrapposizioni, cosa che invece avviene nei talk show e provoca l'allontanamento dei cittadini della politica». E che aprono un clima di sfiducia: «Questa canzone della crisi che quando uno apre la tv si spaventa porta ad avere paura anche se non ha nulla da temere».
Mostra i muscoli il premier: «I sondaggi dicono che il gradimento sul presidente del Consiglio è al 72 per cento». E ancora: «Sono orgoglioso di questa squadra di governo. In sette mesi non ho mai avuto una delusione, neanche la più piccola». E difende a spada tratta l'operato di questi mesi, capitolo dopo capitolo. Sulla finanziaria: «Grazie alla trasformazione della finanziaria da quinquennale a triennale abbiamo evitato l'assalto alla diligenza». Sulla crisi: «Il nostro sforzo ha fatto da apripista per la soluzione dei problemi». E sul credito riscosso nelle sedi internazionali: «Sono stato il primo presidente del Consiglio che il 10 ottobre ha invertito la regola che vieta l'intervento dello Stato nel mercato e ha annunciato che lo Stato metteva la sua garanzia sulle banche». Una decisione, ricorda, che all'inizio, non era condivisa: «C'è voluto tempo e fatica per convincere prima la Germania, la Francia e la Gran Bretagna». Ma che ha permesso di varare un piano di interventi che hanno «evitato il panico, l'assalto dei risparmiatori agli sportelli delle banche per ritirare i risparmi, e un ritorno alla crisi del 1929».
Ai consumatori chiede tranquillità. Alla politica decisione. E sui principali dossier del governo dossier annuncia un'accelerazione. A partire - neanche a dirlo - dalla giustizia: «Presenteremo la riforma al primo consiglio dei ministri di gennaio». Al centro, la separazione delle carriere: «Il fulcro della riforma sarà - ha spiegato il premier - la separazione degli ordini dei magistrati giudicanti da quello dei pm, che chiameremo avvocati dell'accusa, che dovranno essere dislocati in altri uffici, e che dovranno avere nei confronti dei giudici gli stessi doveri e gli stessi diritti che hanno gli avvocati della difesa». Al guardasigilli Alfano - seduto in prima fila - dice: avanti con chi ci sta: «Sarebbe una farsa se mi sedessi al tavolo con chi dice che sono un corruttore, un dittatore argentino». Anche se lascia qualche margine di manovra: «Chi ha nelle mani la riforma ha l'autonomia di incontrarsi con tutti». Sul capitolo intercettazioni però non si tratta. E annuncia un giro di vite: «Presenteremo un emendamento» - dice - visto che rispetto al disegno iniziale nella legge in discussione alla Camera «è stata inserita anche la possibilità di fare intercettazioni anche nelle indagini su reati contro la Pubblica amministrazione». E questo - aggiunge - «non cambierebbe di molto una situazione inaccettabile». Anche sull'energia Berlusconi imprime un cambio di passo: «Bisogna ricominciare con il nucleare». Un discorso interrotto a causa delle scelte fatte dalla sinistra: «Avevamo pronte due centrali nucleari per la produzione dell'energia elettrica e la sinistra ambientalista ecologista e i verdi hanno proibito che questo accadesse». Ma ora - ha precisato - è necessario «differenziare le fonti di approvvigionamento perché abbiamo il rischio di un black out».
Non spara ad alzo zero sul Pd anche se attacca il giustizialismo: «Noi saremmo felici di dialogare con l'opposizione. Ma il Pd ha problemi a separarsi da Di Pietro, partito assolutamente non democratico». E punta l'indice sulla questione morale, sfoggiando spirito garantista: «Gli arresti avvenuti nella giunta del Comune di Napoli darebbero al governo la possibilità di intervenire con un commissariamento del Comune e l'indizione di nuove elezioni». Tuttavia - ha proseguito - il governo ha voluto evitare «un ritorno indietro della storia recente nel clima di Tangentopoli». Anche se questo - ha aggiunto - «non impedisce di lanciare un pubblico appello agli interessati perché si dimettano e si possano indire nuove elezioni». Ma è sul fronte sulle riforme istituzionali che cala l'asso, in nome del decisionismo: «L'Italia è pronta ad una riforma presidenzialista». Difende l'uso dei decreti, ricorda che Napolitano li ha controfirmati tutti. E sottolinea come servano meccanismi decisionali più rapidi: «L'architettura istituzionale attuale non consente tempestività di decisioni e non conferisce al presidente del Consiglio i poteri che sono necessari per essere tempestivo ed incisivo». Ma su questo il braccio di ferro non è all'ordine del giorno: il presidenzialismo «si deve fare solo non divisi, c'è bisogno che ci sia il 100 per cento».

Repubblica 21.12.08
Scelta riformista o cesarismo autoritario
di Eugenio Scalfari


I PARTITI non fanno più politica. Hanno degenerato e questa è l´origine dei mali d´Italia. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani, oppure distorcendoli senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello: non sono più organizzazioni che promuovono la maturazione civile e l´iniziativa del popolo, ma piuttosto federazioni di correnti e di camarille, ciascuna con un "boss" e dei "sotto-boss".
I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le istituzioni a partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai, alcuni grandi giornali.
Molti italiani si accorgono benissimo del mercimonio che si fa dello Stato e delle sopraffazioni, dei favoritismi, delle discriminazioni. Ma gran parte di loro è sotto ricatto. Hanno ottenuto vantaggi o sperano di riceverne o temono di non riceverne più.
La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendovi dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell´amministrazione, bisogna scovarli, denunciarli e metterli in galera. La questione morale nell´Italia di oggi fa tutt´uno con l´occupazione dello Stato da parte dei partiti, fa tutt´uno con la guerra per bande, fa tutt´uno con la concezione della politica e con i metodi di governo.
Ecco perché la questione morale è il centro del problema italiano ed ecco perché i partiti possono provare ad esser forze di serio rinnovamento soltanto se affronteranno in pieno la questione morale andando alle sue cause politiche.
Queste righe che fin qui avete letto non le ho scritte io, non sono farina del mio sacco anche se le condivido parola per parola, e non sono neppure la citazione di qualche discorso di uomini politici di sinistra o di destra pronunciati in questi giorni.
Queste frasi le ha pronunciate Enrico Berlinguer in un´intervista pubblicata su Repubblica il 28 luglio del 1981, cioè ventisette anni fa e undici anni prima dell´inizio di Tangentopoli, ma è tremenda la loro attualità. È tremenda perché significa che quel vizio non è stato estirpato e neppure scalfito. Permane esattamente come l´allora segretario del Partito comunista italiano l´aveva diagnosticato, con l´aggravante che ora la "diversità" comunista è caduta insieme all´ideologia che ne era in qualche modo il presidio.
Che sia caduta l´ideologia è senza dubbio un bene. La diversità non ha avuto più alcun appiglio ed è caduta anch´essa. La destra in questi giorni festeggia perché la sinistra non potrà più invocarla come un elemento di superiorità. Finalmente, dicono i berlusconiani, siamo tutti eguali.
Ma eguali nel peggio. Non sono le virtù civiche della destra ad essersi elevate dalla ricerca del bene proprio a quella del bene comune ma, semmai, quelle della sinistra ad essersi indebolite.
Quanto agli italiani, è vero che una parte di loro era ed è sotto ricatto come diceva Berlinguer, a causa dei favori ricevuti o attesi, ma la parte maggiore è soltanto schifata, ha perso fiducia, non ha più speranze, travolge nella stessa condanna la politica, i partiti, le istituzioni, la magistratura, le banche, il mercato. Metà degli elettori non vota più. Soltanto il Quirinale è esente da questo crollo di credibilità. È importante che il presidente della Repubblica riscuota fiducia e rispetto da una quasi unanimità dei cittadini, ma non è sufficiente.
Il centrodestra, malgrado alcuni recenti scricchiolii, ha ancora il compatto sostegno dei suoi elettori, anche se su una base che si va restringendo.
Il centrosinistra, cioè il Partito democratico, ha fatto l´altro ieri la sua prima resa dei conti. C´è stato un ampio dibattito, una seria autocritica, le premesse d´una nuova partenza a poco più d´un anno dall´esordio. L´accoglienza dei "media" è stata nel complesso tiepida.
Come spesso accade, le cronache hanno dato maggior risalto alle polemiche interne che alle diagnosi condivise. Il mestiere crudele del giornalismo reclama soluzioni nette, bianco o nero, chi ha vinto e chi ha perso. Non sempre questo criterio riesce a cogliere la sostanza e meno che mai quando lo si applica alla politica. Perciò mettiamoci occhiali appropriati e guardiamo più a fondo quanto sta accadendo.
* * *
«Disuguaglianza sociale. Il dramma che l´Italia oggi sta vivendo è contenuto in queste due parole. Disuguaglianza sociale. È questa la grande, moderna questione che si pone oggi di fronte a noi. Colpevole non vedere, non rendersene conto. Imperdonabile non sentire bruciante sulla nostra pelle, per le nostre coscienze, il dovere di offrire risposte a questa realtà».
Le cronache dei giornali di ieri non riportano queste parole o ne fanno un cenno distratto, eppure esse aprono la relazione di Veltroni all´assise del Partito democratico e il fatto che non si tratti d´uno slogan ma di una drammatica constatazione è documentato da un lungo elenco di cifre e di situazioni che occupano la prima parte del discorso del segretario del Pd.
Sono cifre e situazioni che conosciamo, che provengono da fonti ufficiali e che non raccontano soltanto quanto avviene in Italia ma in tutto l´Occidente e in tutto il pianeta. La settimana scorsa citammo il pensiero di Joseph Stiglitz, premio Nobel dell´economia che individuava anche lui nella distribuzione malformata della ricchezza la piaga del mondo intero.
Si è scritto e detto che problemi di queste dimensioni non si affrontano soltanto con specifici provvedimenti se alle loro spalle non c´è una scelta culturale. Qual è la cultura della sinistra? Ebbene, è questa la cultura della sinistra: combattere la disuguaglianza sociale con tutti i mezzi che la politica è in grado di mobilitare. Nella relazione del segretario del Pd questi mezzi sono ampiamente elencati. Descritti. Confrontati con le risorse disponibili. Collocati dentro un calendario preciso. Dimostrati compatibili con le regole europee. Calati in un impegno programmatico. Non è questo che tutti gli osservatori e i critici indipendenti suggerivano, chiedevano, reclamavano? Ed ora che la risposta è arrivata ed è stata confortata da un voto quasi unanime, facciamo finta che si tratti solo di parole? Volevate dunque veleni e pugnali? Non siamo proprio noi, osservatori e critici indipendenti, a ricordare che in politica le parole sono pietre?
* * *
L´elenco degli obiettivi concreti, dei mezzi necessari a realizzarli, è lungo ed occupa almeno un terzo di quel documento, ma il punto centrale è questo: bisogna usare la leva del bilancio, la politica monetaria non basta più.
Bisogna cioè mandare il bilancio in deficit per il 2009 che sarà l´anno terribile della recessione. In deficit di un punto di pil, 16 miliardi di euro da aggiungere a quello stentato mezzo punto che Tremonti ha finora stanziato e che è chiaramente insufficiente a far fronte alla tempesta. Si tratta dunque di 22 miliardi complessivi per alleggerire il peso fiscale sul lavoro e sulle famiglie con effetti duraturi, per estendere alla massa di lavoratori precari la cassa integrazione, per istituire un sostegno di disoccupazione che duri almeno due anni. Nello stesso tempo occorre approvare un piano di rientro graduale del deficit nei limiti europei, che ci riporti all´equilibrio nel corso del biennio 2010-2011.
Questa è la proposta nelle sue linee essenziali. Una proposta da sinistra di governo, europea e responsabile, sulla quale raccogliere forza, consenso, alleanze politiche e sociali.
* * *
Ci sono altri punti nel programma di Veltroni: scuola e università, riforma della giustizia, energie alternative al petrolio, regole di mercato a tutela della concorrenza e delle pari opportunità sociali.
Ma i temi sui quali si aspettava al varco il segretario del Pd non erano questi. La mancanza di programmi alimenta la geremiade delle critiche, ma quando quella lacuna viene colmata le teste si voltano subito dall´altra parte perché i programmi annoiano chi è chiamato a dare un giudizio veloce e semplificato. Sicché si aspettava Veltroni al varco sul tema delle alleanze secondo l´adagio «dimmi con chi stai e ti dirò chi sei». Lo aspettavano al varco i "media" ma anche all´interno del Partito democratico.
Follini aveva presentato un ordine del giorno anti-Di Pietro, Enrico Letta e anche Massimo D´Alema guardavano con favore a quella proposta proponendo un´alleanza stabile con l´Udc di Casini. Altri perseguivano invece accordi con la sinistra di Vendola e di Bertinotti. Prospettive astratte sotto l´apparenza della concretezza.
Se il partito di Casini si alleasse stabilmente con il Pd perderebbe a dir poco metà dei suoi elettori che sarebbero risucchiati nell´area berlusconiana. E se il Pd si alleasse stabilmente con la sinistra di Vendola, perderebbe gran parte degli ex Margherita che sarebbero risucchiati da Casini. Proposte di questo genere non sono dunque politicamente apprezzabili.
E vero invece che il Pd è oggettivamente il partito più forte dell´opposizione. Se riuscirà a rilanciare la sua immagine, le altre opposizioni, ciascuna nei suoi modi e nei suoi tempi, troveranno elementi di raccordo per marciare separati e colpire uniti il comune avversario.
Resta il problema Di Pietro che però non è la causa ma l´effetto della crisi del Pd. Di Pietro ha intercettato il "grillismo" che è l´effetto della debolezza dei partiti della sinistra e del riformismo democratico. Se il riformismo non delude, il "grillismo" declina e di Pietro anche. Con lui comunque l´alleanza è rotta da un pezzo. Alleanze locali non fanno testo anche se è meglio limitarle al minimo.
* * *
Veltroni ha fatto molti errori. Ha perso troppo tempo e non ha avuto idee chiare sulla natura del partito da creare. Ha ragione D´Alema di lamentare un´amalgama senza strutture. Ha ragione Chiamparino di reclamare un ascolto finora scarso delle esigenze del Nord. Hanno ragione i molti che reclamano rigore e non tolleranza verso le pastette di molti amministratori meridionali Il dibattito è stato vivace e in certi momenti aspro.
Contributi di valore sono venuti da D´Alema, Reichlin, Ruffolo, Bersani. Bassolino ha parlato anche lui senza neppure una volta nominare Napoli e la Campania. Una reticenza di queste proporzioni non si era mai vista prima da parte di un vecchio dirigente politico. A volte il vino migliora con gli anni ma altre volte svapora e diventa aceto. Il caso Bassolino è uno di questi.
* * *
Non si può eludere la domanda se Veltroni esca rafforzato da questo dibattito e se il Partito democratico possa superare la pessima congiuntura delle ultime settimane. Se è vero che la questione morale e quella della disuguaglianza sociale costituiscono il cuore del problema italiano (e mondiale), aver messo tutte e due al primo posto nell´agenda del Pd dà buone prospettive al rilancio di quel partito. In parte dipende da Veltroni, D´Alema, Bersani, Franceschini, Marini e gli altri dirigenti vecchi e nuovi. In parte dai giovani di seconda e terza fila per i quali è venuta l´ora di farsi avanti. Ma in grandissima parte da tutti quelli che sperano e vogliono un riformismo serio, audace e vorrei dire allegro, impegnato, competitivo, creativo. Il partito deve fornire le infrastrutture affinché il riformismo divenga adulto e sia luogo di rinnovamento di una società spaventata e atterrita.
Se il riformismo pianterà le sue radici anche la destra cambierà. La società italiana cambierà. Al di là delle diverse opinioni, questa dovrebbe essere una speranza comune nella direzione che ogni giorno ci indica Giorgio Napolitano insieme con lui Ciampi e Scalfaro. Per il bene della democrazia e della Repubblica.
* * *
Post Scriptum. Ieri sera Berlusconi ha lanciato l´ennesima provocazione: ha proposto l´elezione diretta del Capo dello Stato, cioè un plebiscito sul suo nome. Ha aggiunto che lo metterà in votazione tra qualche tempo. Si completerebbe così il disegno che da tempo porta avanti di uno stravolgimento costituzionale culminante nel cesarismo. Davanti ad un personaggio di questa natura non si capisce come possa nascere il Partito della libertà, cioè l´unione tra Forza Italia e An con dentro Fini che pochi giorni fa ha condannato il cesarismo mentre Bossi dichiarava: «Non vogliamo monarchie». O sono tutti ipocriti o sono tutti ammattiti.
In queste condizioni il Pd e le altre forze di opposizione sono la sola diga che possa trattenere l´Italia in un quadro democratico europeo impedendo un´avventura con sbocchi autoritari. La grande crisi del 1929 produsse due soluzioni politiche nel mondo occidentale: quella democratica di Roosevelt e quella fascista e nazista. Le condizioni attuali non sono quelle di allora ma la scelta è ancora una volta questa. Noi italiani abbiamo già dato.

Repubblica 21.12.08
Il "non luogo" dei democratici
di Ilvo Diamanti


La ragione del disorientamento del Pd e del centrosinistra è, forse, più semplice di quel si pensa, anche se sgradevole. Molto semplicemente: nostalgia dell´unità. O meglio: dell´Unione. Un sentimento diffuso fra gli elettori di centrosinistra, che non si sono rassegnati davvero alla scelta di correre da soli. O, almeno, ci hanno ripensato. Non intendiamo dare giudizi retrospettivi, ma è ciò che emerge dagli orientamenti degli elettori, rilevati da un sondaggio, condotto nei giorni scorsi su un campione rappresentativo (di 1500 casi) da Demos (per i dettagli: www.demos.it).
1. Per quel che riguarda le intenzioni di voto, le stime confermano le tendenze indicate da altri sondaggi in questa fase (Ipsos, Ispo, Swg). In particolare: a) il centrodestra mantiene il distacco emerso alle elezioni di aprile. Il Pdl si attesta oltre il 37%, la Lega ha scavalcato largamente il 9%. Mentre a centrosinistra il Pd è scivolato sotto il 28% e l´Idv/lista Di Pietro ha più che raddoppiato il suo peso elettorale, raggiungendo la Lega. Fra gli altri, l´Udc tiene la sua base, intorno al 6%, mentre le forze della Sinistra (Rc, Verdi ecc.) mostrano segni di recupero.
2. Se consideriamo il grado di vicinanza ai partiti espresso dagli elettori, emerge un dato singolare quanto significativo. Il Pd intercetta più voti che simpatie. Infatti, la quota di elettori che lo sente "vicino" è, di poco, inferiore rispetto alle intenzioni di voto (26,7%). Al contrario della lista Di Pietro, il cui elettorato "amico" è doppio (19%) rispetto alle intenzioni di voto. Il dato, peraltro, riflette quanto avviene nel centrodestra, dove l´elettorato "amico" della Lega è di tre volte superiore alle intenzioni di voto, mentre il peso degli elettori vicini al Pdl risulta sensibilmente inferiore all´incidenza elettorale (di 6 punti percentuali). In altri termini: c´è una quota di elettori che, oggi, voterebbe Pd e Pdl "nonostante": per inerzia o per calcolo, mentre "il cuore" e l´istinto li spingerebbe altrove.
3. Tuttavia, non è possibile porre Pd e Pdl sullo stesso piano. I problemi del Pdl riflettono l´unificazione ancora incompiuta fra i due partiti fondatori, Fi e An. Inoltre, il Pdl (secondo i sondaggi) non ha perduto consensi elettorali dopo il voto di aprile. Il Pd sì. E parecchi. La tentazione di chiamare in causa la "questione morale" che ha investito le amministrazioni locali di centrosinistra è comprensibile e, in qualche misura, fondata. Ma il paragone con il 1992 ci pare improponibile. Allora si trattò di una crisi di sistema, che investì i partiti di governo, a livello centrale. Oggi le inchieste coinvolgono l´opposizione, già fiaccata dal voto. Alla periferia. La ragione principale del disamore verso il Pd, a nostro avviso, è diversa. Per citare Gian Enrico Rusconi (sulla Stampa): «La questione morale è solo un sintomo dell´impotenza politica».
4. Parafrasando Marc Augé, diremmo che il Pd appare ancora un "non luogo" politico. Un posto di passaggio, un poco anonimo. Non una casa stabile. Capace di fornire identità e memoria. Lo suggerisce l´orizzonte dei riferimenti politici espresso dagli elettori del Pd, tutt´altro che unitario e autosufficiente. Il 30% di essi si dice vicino all´Idv, il 10% all´Udc e il 22% ai partiti della Sinistra. Tra gli elettori che votarono per il Pd nello scorso aprile, la percentuale degli amici di Di Pietro sale di circa 4 punti percentuali. La stessa misura, circa, di quanti, dopo le elezioni, hanno spostato la scelta di voto dall´Idv al Pd. Ciò suggerisce che l´elettorato del Pd sia contiguo a quello dell´Idv e si sovrapponga ad esso in molti punti.
Ma l´elettorato del Pd si sente vicino anche agli altri partiti di opposizione. All´Udc e alla Sinistra radicale. Tanto che li vorrebbe alleati. In particolare, oltre il 50% degli elettori vicini al Pd vorrebbe allearsi con Di Pietro, il 37% con l´Udc, altrettanti con la Sinistra radicale. Il 39%, per la verità, preferirebbe che il Pd continuasse la sua marcia solitaria, ma circa un terzo di essi accetterebbe di allearsi con le altre forze di opposizione. In particolare con l´Idv e l´Udc.
5. Il principale problema del Pd, a nostro avviso, richiama, dunque, la difficoltà di delimitare con chiarezza il proprio "terreno di caccia". I suoi elettori - potenziali e reali - continuano a immaginarsi parte di un´area più ampia, a cui partecipano gli alleati di ieri: la Sinistra e soprattutto Di Pietro. Ma anche l´Udc. La prospettiva a cui Veltroni (e non solo lui) intendeva sfuggire quando, nello scorso gennaio, annunciò l´intenzione di far correre da solo il Pd. Naturalmente, le obiezioni a questa lettura sono immediate quanto legittime: a) l´Unione è improponibile; la sua fine è stata sancita dal risultato deludente del 2006 e dall´esperienza controversa ed estenuante del governo Prodi; b) i riferimenti di programma e di valore fra i partiti di opposizione erano e restano distanti e, talora, incompatibili; c) il percorso del Pd è appena partito, occorre attendere perché si radichi fra gli elettori.
6. Tuttavia, è evidente la perdita di appeal del Pd da quando si è affacciato sulla scena politica. Nei primi mesi dell´anno il suo elettorato potenziale era molto più ampio. Di circa 20 punti percentuali. È, peraltro, comprensibile anche la ragione "politica" di questo sfaldamento: l´incapacità di andare "oltre" Berlusconi. Lo slittamento di una parte dei suoi elettori verso Di Pietro sottolinea, infatti, una domanda di opposizione "antiberlusconiana". Frustrante per chi (come noi) pensa a un´alternativa capace di esprimere le proprie specifiche ragioni. Il problema, purtroppo, è che Berlusconi stesso contrasta questo disegno. Perché, più di ogni altro contenuto, lui (la sua immagine, i suoi interessi) resta il principale collante e, al tempo stesso, la principale fonte di identità del governo e della maggioranza. Oggi più di ieri. Non solo perché la Lega fa di tutto per marcare le proprie differenze, per sottolineare la propria missione di "partito del Nord". Ma perché il Pdl, ancor più del Pd, appare una casa abitata da inquilini diffidenti, l´uno dell´altro. Nel centrodestra, così, coabitano in tanti, diversi più che mai. Ex democristiani e socialisti, federalisti, secessionisti e nazionalisti, liberisti e colbertiani, postfascisti (e nostalgici). Ultracattolici e libertini. Nordisti e sudisti. Antidipietristi e anticomunisti. Tutti insieme. È l´Unione di Destra. Tenuta insieme e identificata da Berlusconi. Il berlusconismo è, quindi, l´ideologia dominante della seconda Repubblica ma, al tempo stesso, una tecnica di coalizione. Il Pd, da solo, senza interpretare e coalizzare l´antiberlusconismo non andrà mai molto oltre il 30%. Il che significa, con questa legge elettorale: rassegnarsi all´opposizione eterna.

l’Unità 21.12.08
Noi e la voce di Gramsci
di Dario Fo


Oggi il popolo della sinistra discute sull’esigenza assoluta di ripristinare il senso morale e riproporre, se non si vuole assistere allo sfascio del movimento riformista, una svolta radicale del comportamento e di tutto il programma. Per questo cambiamento, ci racconta Fo, si ricordano Gramsci e Berlinguer...

La memoria di una vita bruciata giorno per giorno dentro le carceri ingoiata dall’oblio

Una lettera del ’29: «I libri, le riviste, danno solo idee generali, abbozzi di correnti non definite della vita del mondo giacché è difficile riescano a dare l’impressione immediata, diretta, viva della vita di Pietro, Paolo o Giovanni, cioè di singole persone reali, senza capire i quali non si possono neanche capire i loro comportamenti... e quindi ciò che è generalizzato»

Oggi tutto il popolo della sinistra discute sull'esigenza assoluta di ripristinare il senso morale e riproporre, se non vogliamo assistere al totale sfascio del movimento riformista, una svolta radicale del comportamento e di tutto il nostro programma sia organizzativo che culturale. Ed è proprio in conseguenza a questo impellente cambiamento che si fa il nome di due grandi dirigenti della sinistra storica: Berlinguer e Gramsci.
Ed era tempo che ci si riferisse al loro esempio e agli insegnamenti proposti sia con lo scritto che con l'azione diretta; in particolare mi capita spesso, dialogando con studenti anche impegnati nella politica, di parlare di Gramsci e mi devo render conto che essi della vita e delle lotte affrontate da questo grande personaggio caposaldo della nostra storia sociale e civile sono quasi completamente all'oscuro. Un uomo di enorme valore intellettuale e morale i cui testi sulla storia degli intellettuali, le sue Lettere e i Quaderni dal carcere sono stati tradotti in tutte le lingue del pianeta e studiati in ogni università di prestigio, dimenticato. Come è possibile? La memoria di una vita bruciata giorno per giorno dentro le carceri e nelle isole penitenziarie, ingoiata dalla polvere dell'oblio! Tanto per cominciare a Milano, capitale della regione più attiva e produttiva d'Italia, Antonio Gramsci è un estraneo ricordato solo dai vecchi operai scaricati nella più anonima periferia mentre i giovani quasi lo ignorano, eppure varrebbe la pena almeno ricordarlo se non altro per aver fondato in questa città nel 1924 il quotidiano più famoso del Partito comunista, l'Unità.
Il suo approccio intenso seppur drammatico con Milano lo realizza nel 1926, anno in cui viene arrestato a Roma e dopo una breve permanenza a Regina Cœli viene trasportato a Ustica per qualche settimana, quindi sempre nello stesso anno raggiunge Milano accolto nelle carceri di San Vittore, un penitenziario davvero monumentale a pianta centrale e struttura stellare con le celle disposte su tre piani a vista. Michel Foucault, in uno studio sulle carceri del 900 indica questa di San Vittore come una delle opere di costrizione strutturalmente più moderne. Per Antonio Gramsci è forse l'unico incontro con la cultura architettonica della metropoli lombarda. Ci rimane tre anni durante i quali imposta uno studio sui maggiori protagonisti della cultura italiana. Di qui viene tradotto nella colonia penale di Turi, presso Bari, pare per motivi di salute: evidentemente il clima e l'ambiente carcerario di Milano non gli erano molto propizi. Queste sono le uniche notizie di cui disponiamo riguardo il rapporto con la capitale lombarda. Tutti sappiamo che Gramsci è nato in un piccolo paese della Sardegna meridionale: nel 1902 consegue la licenza elementare, quindi nel 1908 frequenta il liceo classico a Cagliari e si appassiona allo studio delle lettere, della storia e della matematica. Quest'ultimo è un particolare poco conosciuto. In un suo breve scritto dal carcere commenta questa sua "attenzione" verso la matematica (da non confondere con l'aritmetica che è altra cosa) e la abbina alla geometria analitica e proiettiva: si tratta di una scienza che costringe a scoprire la logica e a superare il concetto di «terminato», cioè concluso. In analisi logica geometrica nulla è definitivo: tutto ha un suo svolgimento che spesso capovolge il primo aspetto geometrico per cui un punto nello spazio se appena sposti la tua posizione, o meglio punto di vista, puoi renderti conto che in verità si tratta di una retta tagliata in sezione. E questo è il presupposto della logica e della dialettica.
Quasi appresso c'è un altro commento di Gramsci a proposito di geometria e matematica: si tratta del metodo davvero geniale impiegato da Eratostene di Cirene nel III a.c. per analizzare i fenomeni astronomici. Il giovane studioso greco arrivò a misurare la circonferenza della Terra servendosi di due aste di un braccio e mezzo l'una: una conficcata alla periferia di Siene, l'altra in un prato presso Alessandria. In quel momento a Siene il Sole si trovava allo zenit, quindi proiettava i propri raggi perfettamente in verticale quindi il bastone infisso non produceva ombra alcuna, mentre nello stesso giorno l'altro bastone conficcato nel prato di Alessandria produceva un'ombra di mezzo palmo. Grazie a queste due misure il giovane Eratostene riuscì a calcolare appunto la circonferenza della Terra in termini quasi esatti e perfino la distanza dalla Terra al Sole. E qui Gramsci fa notare che a chi conosce il metodo dell'analisi proiettata è sufficiente una breve asta per calcolare distanze immense o addirittura infinite.
Più tardi trovandosi egli in carcere, grazie a una lettera del novembre del 1929 alla moglie Giulia, possiamo cogliere il modo del tutto inconsueto con cui Gramsci pensa di proporre uno studio sulla «storia degli intellettuali», quale testimonianza di un popolo e di una nazione. Antonio Gramsci dichiara esplicitamente: «I libri, le riviste, danno solo idee generali, abbozzi di correnti non definite della vita del mondo giacché è difficile riescano dare l'impressione immediata, diretta, viva della vita di Pietro, Paolo o Giovanni, cioè di singole persone reali, senza capire i quali non si possono neanche capire i loro comportamenti quotidiani e da cosa siano determinati e quindi di ciò che è universalizzato e generalizzato».
La città del Nord Italia che ha veramente segnato la formazione umana e culturale di Gramsci non è quindi Milano, ma Torino. Egli giunse in quella città grazie a una borsa di studio che lo introduceva nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell'università del centro industriale più importante d'Italia. Il capoluogo piemontese in quel periodo viveva in pieno il boom economico e industriale. La Fiat e la Lancia con i loro stabilimenti hanno chiamato dal Sud più di sessantamila immigrati in cerca di lavoro. È il tempo in cui gli operai organizzano imponenti lotte di fabbrica e nascono le prime associazioni sindacali, è il tempo in cui gli operai riescono a imporre la loro presenza nelle decisioni fondamentali del lavoro insieme ai rappresentanti dei padroni. In questo periodo della sua vita, Gramsci studiando i processi produttivi nelle fabbriche, si impegna per far acquisire alla classe lavoratrice «la coscienza e l'orgoglio di produttori». Collabora con alcuni giornali quali il Grido del popolo, foglio comunista di Torino e più tardi con l'Avanti!. Scrive su argomenti di lotta e di prassi politica, ma si appassiona anche al mondo dello spettacolo fino a diventare critico teatrale. E' uno dei primi a capire che il dividere in categorie distinte la tragedia e la commedia, la farsa e il dramma è un errore che produce un concetto del tutto conservatore se non addirittura reazionario. «L'umorismo e il senso del grottesco - sostiene - sono espressioni di altissimo valore e solo una cultura ottusa e bassamente classista può pensare di catalogare a livelli inferiori tutto ciò che produca riso e divertimento - anzi dichiara - Il primo valore di un'opera teatrale è l'attenzione che sa suscitare e il divertimento è l'aggancio più efficace perché si produca l'ascolto e l'attenzione». Sappiamo che per lungo tempo Gramsci tenne in gran considerazione il teatro e le novelle di Pirandello. Oltretutto, lo dichiara esplicitamente, la sua origine culturale nasce dallo studio di Benedetto Croce, ma questo suo modo di giudicare e considerare il valore del filosofo e del commediografo siciliano subiranno una sterzata a capovolta in conseguenza della sua terribile esperienza dentro le carceri del fascismo.
Un primo importante effetto lo acquisì presso l'isola di Ustica grazie al rapporto con i carcerati, alcuni politici, ma altri condannati per crimini comuni coi quali ebbe subito un rapporto particolare. Sapendolo colto e disponibile, i detenuti politici gli chiesero di organizzare una serie di lezioni alle quali avrebbero potuto partecipare anche i cosiddetti comuni. La richiesta di partecipazione fu superiore al previsto cosicché si decise di dividere i corsi a livelli diversi secondo il grado di preparazione degli allievi.

Gramsci ha scritto alcuni commenti a proposito di questa esperienza rendendosi conto che durante quelle sedute spesso si trovava ad apprendere più che a procurare insegnamenti.
Scoprì che alcuni di quei carcerati conoscevano canti popolari della loro più antica tradizione che ripetevano forme poetiche con ritmi e cadenze che Gramsci aveva appreso studiando i novellatori medievali e del Rinascimento. A questo proposito accenna ad una ballata che propone lo stesso andamento di doppio settenario o endecasillabo con un novenario nel mezzo dei canti prodotti nella corte di Federico II di Svevia.
Credo di aver indovinato di che strambotto si tratti: un canto in cui l'innamorato fa l'elogio della sua donna alla maniera dei poeti arabi che operavano nell'VIII secolo in Sicilia. Il cantore popolare a sua volta ci presenta la sua bella che si sta affacciando al balcone: la ragazza splende come la luna ed i suoi occhi sono due stelle della sera. Più o meno il canto dovrebbe essere questo:
A na fenestra se spontao la luna
intrammezza a du stidde Diana:
su tanti li baliori che me duna,
pari lu lampu de la tramontana.
Cioè:
A una finestra è spuntata la luna
con intrammezzo due stelle Diana:
son tali i bagliori che mi dona,
pare il lampo della tramontana.
Gramsci a questo proposito ricorda la definizione di Benedetto Croce davanti ai canti popolari: «Si tratta - dichiara il filologo - di ripetizioni meccaniche di poemi della cultura superiore e - ribadisce - la cultura dominante è sempre espressione della classe dominante». Ma ecco che Gramsci si rende conto forse per la prima volta che questa definizione è del tutto falsa giacché quel canto in volgare siculo certamente è di origine più antica delle ballate prodotte dai poeti di corte di Federico imperatore e quindi anche la metrica e i ritmi espressi dal popolo nascono qualche secolo prima di quelli che ritroviamo sui libri di testo della poesia aulica del Duecento, testi che ci hanno sempre insegnato essere all'origine della poesia italica. Ma l'emozione più alta Gramsci la prova assistendo sempre ad Ustica, forse nell'ora d'aria, quindi nel campo interno al carcere, ad un'esibizione di due carcerati originari delle valli montane della Calabria, molto probabilmente dediti alla pastorizia. Essi armati ciascuno di un bastone si producono in un duello feroce e nello stesso tempo di un'eleganza straordinaria: più che lottare con l'intento di colpirsi, i due contendenti si producono in danze fatte di scatti agilissimi nei quali fanno roteare i bastoni cozzando l'un contro l'altro i legni a velocità inaudita. Muovono rovesciando il corpo e passando i bastoni da una all'altra mano compiendo vere giravolte con le quali sfuggono a botti tremendi seguiti da grida secche e cantate quasi a sfottò.
Egli commenta: «Non era di certo quella un'esibizione fine a se stessa: la bravura dei due contendenti non era tanto espressa dal tentativo di colpire duramente l'avversario, quanto piuttosto quello di riuscire non colpirsi l'un l'altro dando al contrario l'impressione di volersi massacrare a vicenda. Ad un certo punto ho intuito che quella pantomima era parte di un rito molto antico prodotto con lo scopo di allenamento ad un conflitto vero dove il nemico non era solo da considerarsi un essere umano, ma poteva tradursi in orso o lupo o addirittura in branco di lupi. Quel roteare vorticoso del bastone e quello sfuggire con salti e affondi rovesciati era certo il prodotto di un agire per cercare di sopravvivere ad attacchi di morte».
Tutto il popolo di sinistra è di certo a conoscenza delle diatribe e dei conflitti che allontanarono definitivamente Palmiro Togliatti da Gramsci ed è quindi quasi paradossale scoprire che il primo a credere nel valore universale delle opere del più importante intellettuale del Partito comunista si sia rivelato proprio Togliatti. Egli mirava a fare di questo suo antagonista il teorico di una «riforma intellettuale e morale» in continuità con il Risorgimento. Il punto massimo dell'assurdo di questa operazione sta nel fatto che Togliatti intendesse realizzare un'azione di politica culturale «finalizzata ad attenuare la vocazione proletaria del Pci» e per far questo aveva pensato di servirsi del maggior sostenitore del valore inarrivabile della cultura popolare.
Un paradosso, appunto, iacché è risaputo che il contenzioso che determinò l'irrisolvibile diverbio furono proprio le idee «costituzionali» di Gramsci - il suo cosiddetto «comunismo liberale» -, ritenute fortemente eretiche in quanto oltretutto in contrasto con la linea cosiddetta del «social-fascismo» imposta da Mosca, e fu proprio quella drastica censura a produrre quell'isolamento in carcere che gli causò la fine d'ogni contatto umano: una situazione che lo portò alla più dolorosa delle condizioni. «Potevo preventivare i colpi degli avversari che combattevo, - scrive in una lettera alla cognata Tania nel 1930 - non potevo preventivare che dei colpi mi sarebbero arrivati anche da altre parti, da dove meno potevo aspettarli». Ad ingigantire questa situazione giunge in carcere una serie di lettere inviate a tutti i detenuti politici in attesa di processo: in queste missive a firma di Ruggero Grieco, lo scrivente compie una gaffe madornale poiché indica Gramsci, Terracini e Scoccimarro come i massimi capi del partito. Insomma, si tratta di una autentica delazione, uno sgambetto mortale. Gramsci si sente tradito, messo con le spalle al muro. Di certo è un tale colpo basso che gli crea una vera e propria débacle fisica e morale: la sua salute peggiora a vista d'occhio. Inoltre possiamo ben dire che questa trappola infame allontanò per sempre Gramsci dal partito, proprio lui che con tanta forza aveva lottato per farlo nascere.

l’Unità 21.12.08
Prc, offensiva finale per rimuovere il direttore di «Liberazione»
La lettera dei giornalisti: «Caro Ferrero, non renderti ostaggio di questa logica stalinista»
di s.c.


Dentro Rifondazione comunista parte la seconda parte dell’offensiva su Liberazione e su Piero Sansonetti, direttore non gradito all’attuale maggioranza. Domani è convocata la Direzione del partito, e le voci della vigilia dicono che sarà una riunione dal clima infuocato. Paolo Ferrero, dopo aver incassato il via libera del Comitato politico nazionale, chiederà anche a questo organismo più ristretto un voto sul quotidiano del partito: il giornale deve dar voce alla linea del Prc, che non è quella della costituente della sinistra cara a Nichi Vendola. E vista la maggioranza su cui può contare Ferrero ci sarà una nuova e pesante sfiducia politica nei confronti di Sansonetti. In più nel pomeriggio si riunisce l’assemblea dei soci che editano il giornale, organismo che ha la facoltà di convocare il Consiglio di amministrazione. Il quale, a sua volta, è quello che ha il potere di cambiare il direttore.
I vendoliani sanno che c’è poco da fare per fermare l’offensiva lanciata da Ferrero in tandem con Claudio Grassi, ma non rinunciano alle barricate, anzi. Tra le ipotesi in campo c’è anche quella di uscire da tutti gli organismi dirigenti, a cominciare dalla Direzione. Il Cda è composto non a maggioranza ferreriana. E quindi la prima riunione si chiuderà con un nulla di fatto. Ma il proprietario del giornale, cioè il partito, può sfiduciare il Cda e sostituirlo con un amministratore unico. Ed è dato per assodato che il giorno della prossima convocazione, il 30 dicembre, Sansonetti verrà sfiduciato definitivamente.
Chi non si rassegna è la redazione di Liberazione. Un ultimo appello è stato sottoscritto dalla maggioranza dei giornalisti e verrà pubblicato sulla prima pagina di oggi: «Questo giornale, così come lo conosciamo, così come in questi anni abbiamo contribuito a fare, non ci sarà più. Qualcuno ne sarà felice, noi no. Ci rivolgiamo a te, Ferrero, perché non ti renda responsabile di questa operazione reazionaria e non ti renda ostaggio di una logica stalinista, che non ti è mai appartenuta».

il Riformista 21.12.08
Anno nuovo, direttore nuovo. Liberazione verso il cambio
di Alessandro Da Rold


C'è chi parla di «purghe staliniane», c'è chi ribatte che di "staliniano", nell'eterno scontro tra Rifondazione Comunista e Liberazione, ci sia davvero ben poco

C'è chi parla di «purghe staliniane», c'è chi ribatte che di "staliniano", nell'eterno scontro tra Rifondazione Comunista e Liberazione, ci sia davvero ben poco. Più che altro, è la storia di un giornale, in grave dissesto economico, da tempo non più sulla linea della voce ufficiale del partito e quella di una folta schiera di lavoratori, tra giornalisti e grafici, spaventati per l'incertezza del loro futuro. La risposta dovrebbe arrivare entro la fine dell'anno, tra meno di dieci giorni, quando la direzione del quotidiano prenderà una decisione netta. O almeno è questa la sensazione più accreditata, perché i prossimi giorni si preannunciano molto complessi, soprattutto dal punto di vista amministrativo e burocratico, in perfetto stile comunista. Ma problemi potrebbero sorgere pure dal punto di vista politico, perché - fanno notare voci ben informate - dal braccio di ferro tra il direttore Piero Sansonetti e il segretario Paolo Ferrero, «è stato soprattutto quest'ultimo a uscirne con una immagine negativa, di evidente mancanza di decisionismo».
I problemi sono noti. Il direttore Sansonetti non può essere rimosso per semplice decisione della direzione del partito. La competenza in materia è del cda, formatosi ai tempi della segreteria di Bertinotti e composto da vendoliani, tra cui compaiono Ritanna Armeni e Rina Gagliardi. Domani si riunirà la direzione di Rifondazione Comunista e con tutta probabilità sarà data indicazione allo stesso cda del quotidiano di sostituire il direttore. Problema: nessun membro del cda vuole rimuovere Sansonetti. E qui iniziano a comparire le probabilità più variegate, perché fonti vicine a Ferrero ricordano che l'attuale direttore potrebbe rimanere comunque al suo posto, ma con una posizione più defilata. Verrà scelto un altro sopra di lui. In questo modo si eviterebbe la «purga staliniana». Ma, altre voci forse più pessimiste (o realiste) segnalano che Sansonetti verrà rimosso sicuramente dal suo posto insieme a tutto il Cda.
Il 30 dicembre Ferrero chiederà alla direzione del partito di sostituire tutti i componenti del consiglio di amministrazione, ne verranno nominati dei nuovi, con un nuovo direttore. Da qui partirà il progetto di ristrutturazione del giornale, che - rassicurano i più vicini a Ferrero - non comporterà licenziamenti di stampo politico, ma un semplice rinnovamento interno con le risorse a disposizione. La minoranza vendoliana pare avere le ore contate. Sansonetti ripete che di dimissioni non vuol sentire parlare. E intanto Claudio Grassi, esponente della segreteria del Prc e responsabile Organizzazione, interviene a gamba tesa, contraddicendo l'articolo di Sergio Bellucci, presidente del cda. «Il calo delle vendite c'è: sono inaccettabili i risultati della gestione Sansonetti e inaccettabili le sue interviste. Il disastro economico e editoriale del nostro giornale è inappellabile. I dati stanno agli atti. Il partito ha dato al giornale, nei quattro anni di direzione Sansonetti, 9.576.000 euro. Circa venti miliardi di vecchie lire».

il Riformista 21.12.08
Il Prc apparecchia il pranzo popolare


Non solo pane. Ma anche pasta, caffè e altro. La campagna contro il caro vita condotta dal Partito di Rifondazione Comunista è iniziata da mesi. Ma, in vista del prossimo Natale, il partito guidato da Paolo Ferrero rinnova la provocazione in maniera decisa. E, nei prossimi giorni, i rifondaroli distribuiranno dieci tonnellate di pasta a prezzo controllato, bissando l'esperienza che, nei mesi scorsi, ha fatto registrare un certo successo e che è piaciuta molto al cosiddetto "popolo della quarta settimana": il pane fresco a un euro al chilo. Dopo la "pagnotta rossa", ecco la pasta. «C'è chi ha le mani in pasta e chi la pasta la distribuisce a prezzi calmierati», questo lo slogan improvvisato dal responsabile del Dipartimento Partito Sociale del Prc, Francesco Piobbichi. «Mentre la questione morale imperversa evidenziando il bipolarismo degli affari - aggiunge - il Prc scende in campo anche questa settimana contro il carovita denunciando le speculazioni sui generi di prima necessità, chiedendo il prezzo politico per i generi alimentari di largo consumo, l'aumento di salari e pensioni, l'allargamento degli ammortizzatori sociali per tutti». L'iniziativa apre le porte anche ad altri prodotti di largo consumo. Piobbichi, infatti, annuncia che «a partire da questo fine settimana e fino alla prossima, i Gap, "Gruppi di acquisto popolare", distribuiranno dieci tonnellate di pane, a un euro al chilo, e dieci di pasta a prezzo contenuto, oltre che centinaia di chili di riso e caffè». Il pranzo è servito. (Emanuele Pugliese)

Repubblica 21.12.08
Campagna del Prc con Enrico Berlinguer
di Alberto Custodero


ROMA - «L´intuizione di Enrico Berlinguer è valida oggi più che mai: è evidente che in Italia c´è una "questione morale" grande come una casa che tocca pesantemente il Pd. Ma che coinvolge anche il Pdl». Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione comunista, spiega perché ha fatto tappezzare Roma con un manifesto che ripropone la denuncia dell´ex segretario del Pci sulla "questione morale".
Ferrero, perché ricordare oggi la campagna moralizzatrice del Pci degli anni Ottanta?
«In Berlinguer c´era il forte senso etico della diversità comunista, che è e deve essere un riferimento ancora attuale. Oggi, a mio parere, a sinistra è venuta meno l´attenzione sulla "questione morale"».
Rispetto agli anni di Berlinguer, cosa è cambiato?
«Oggi assistiamo a un intreccio bipartisan molto inquietante fra i due partiti più grandi, Pd e Pdl. Mentre noi riusciamo a denunciare gli scandali anche quando siamo in maggioranza (l´Amiat a Torino, la sanità a Pescara, global service a Napoli), alcuni esponenti di destra riescono a essere implicati nelle indagini anche quando sono all´opposizione di un governo di centrosinistra».
Ma allora qual è la differenza rispetto agli anni di Tangentopoli?
«Invece di tanti partiti, oggi ci sono tanti boss locali che fanno affari. La ricetta per uscire da Tangentopoli è fallita: i partiti di massa come spazio pubblico si sono sfasciati e sono rimaste solo consorterie trasversali. C´è, poi, una congiuntura perversa».
Quale?
«Che la crisi politica s´intreccia con quella economica. Anche qui siamo di fronte al fallimento delle politiche liberiste: ci avevano detto che con salari e pensioni bassi, con flessibilità e precarietà ci sarebbe stato il buon funzionamento dell´economia. Il sistema economico, invece, s´è avvitato nella recessione proprio perché la gente non ha più potere d´acquisto».

il Riformista 21.12.08
UK. Nelle babygang comandano le teenager


È nuovo allarme per le baby-bande in Gran Bretagna. Una inchiesta del quotidiano britannico "The Guardian" evidenzia la tragica escalation di crimini commessi da minori, soprattutto adolescenti. Nella settimana della condanna di un 13enne per il barbaro assassinio di un ragazzino di 11 anni l'anno scorso, subito dopo una partita di pallone, oggi il Regno Unito torna ad interrogarsi sul fenomeno delle baby gangs. Secondo il comandante della polizia metropolitana di Londra, Sue Akers, ascoltata dal quotidiano britannico, l'età dei membri delle bande sarebbe in netta diminuzione e le loro azioni criminali sarebbero diventate assai più violente. Una rabbia che esplode per un niente e che sempre più spesso può avere tragiche conseguenze. La questione è al centro dell'attenzione, non solo dell'opinione pubblica britannica, ma anche delle autorità. L'obiettivo prioritario per il ministero degli Interni e le forze di polizia è riuscire a ridurre (e prevenire) gli atti criminali dei ragazzini entro il 2009. Obiettivo arduo da conseguire, se si pensa che solo nel 2008 in Gran Bretagna si sono verificati 66 omicidi compiuti da teen-agers, la maggior parte dei quali per mezzo di coltelli, arma preferita dai baby-gangsters. I dati mettono, inoltre, in evidenza un'altra "novità" rispetto al passato; si moltiplicano, infatti, le bande solo al femminile e le ragazze sembrano anche avere il primato per violenza ed efferatezza nei crimini. Bambine di poco più di 10 anni allenate ad utilizzare armi, a uccidere e a rubare. Insomma, ci sarà molto da fare nel 2009 per i poliziotti della Regina.

il Riformista 21.12.08
Joumana Haddad. Scrivo col mio corpo per la libertà delle arabe
Poetessa e giornalista, ha ideato una rivista, Jasad, definita il Playboy del Libano. Sul primo numero c'è una donna nuda
di Andreana Saint Amour


38 anni, cattolica, di famiglia tradizionalista Joumana Haddad parla sette lingue, tra cui ...

«Scrivere per me non è solo un atto cerebrale. Io scrivo con la testa ma anche con le unghie. La scrittura è un atto fisico concreto. Quando lascio la penna provo una soddisfazione che è simile al piacere sessuale». Joumana Haddad, poetessa, giornalista, ideatrice e direttrice del trimestrale Jasad, (corpo), scrive con il corpo. Body Talk è il titolo dell'editoriale che presenterà al pubblico la più chiacchierata e attesa rivista in lingua araba, vietata ai minori di 18 anni, che da domani sarà nelle edicole e nelle librerie di Beirut . Siamo oltre la body art perché la vera sfida per il mondo arabo e per il mondo occidentale non è rappresentare, ma parlare del corpo.
Perché Jasad? «Perché il corpo è la verità di tutti noi», si legge nell'editoriale, «è la nostra verità individuale, e la nostra verità collettiva. Ed è la nostra identità, e il nostro tratto distintivo, e il nostro linguaggio. E certamente perché questo corpo è stato sottratto alla nostra vita, alla nostra cultura e alla nostra lingua araba». In copertina sul primo numero di Jasad c'è un corpo nudo femminile perfettamente leggibile sotto un drappo rosso, la J è disegnata come una manetta aperta perché «è necessario rompere i tabù». La stampa, e non solo quella locale, ha presentato Jasad come la versione araba di Playboy partendo da un equivoco di fondo: «Nel mondo arabo quando si pronuncia la parola corpo si pensa subito alle sue implicazioni erotiche e non si va oltre» spiega Haddad, «ma è sconcertante accorgersi che anche nel mondo occidentale quando una donna araba parla di corpo si arrivi alle stesse banali conclusioni. Finora chi ha giudicato questo mio progetto lo ha fatto partendo da un pregiudizio senza aver visto o letto il prodotto finito. Intellettuali, artisti e scrittori arabi, uomini e donne, parleranno del corpo in tutte le sue declinazioni: erotiche, sociali ed etiche/anti-estetiche» con l'imperativo di liberare il corpo arabo. In pratica, almeno da noi in Occidente, si può dire che si è aperta una polemica immaginando un prodotto che non è mai esistito. Una virtualità che la dice lunga sulla capacità di analisi della «nostra» cultura rispetto alla complessa realtà di un mondo arabo difficilmente riconducibile a un unico modulo.
Ma c'è un dato che va messo a fuoco. Jasad esce in Libano, una nazione in terra mediorientale ma di forte cultura (inclusa la lingua dominante) francese in cui convivono costumi rigorosamente tradizionali accanto a quelli occidentali senza che i due universi entrino in collisione. Sicuramente l'effetto più dirompente si registrerà nel resto del Medio Oriente, quello più marcatamente musulmano, e nel Maghreb dove la rivista sarà distribuita per abbonamento. Le critiche sono molte, le aspettative anche, «ognuno troverà quello che sta cercando». Quindi, a ben guardare, non si tratta di infrangere un tabù perché Joumana Haddad a 38 anni i tabù li ha già abbattuti tutti. Molto tempo fa. Cattolica, famiglia tradizionalista, sette lingue parlate fluentemente, tra cui un impeccabile italiano. Separata dal primo marito, due figli di 9 e 16 anni, da qualche tempo ha un nuovo compagno ma ha deciso di non viverci insieme non per timore di sfidare i pregiudizi musulmani, ma perché, dice, la convivenza è nemica di qualsiasi coppia. Joumana, sia come donna che come letterata, incarna la doppia identità del Libano: non rinnega le sue radici ma adotta un costume di vita fortemente occidentalizzato. L'ideale per creare un ponte tra due realtà che dialogano con difficoltà.
Scrive poesie erotiche molto esplicite e crude che ruotano attorno all'onnipresente tema del corpo con cui ha cominciato a fare i conti a dodici anni leggendo di nascosto il Marchese de Sade. Aspettava che i genitori uscissero di casa, prendeva una sedia, si arrampicava verso l'ultimo scaffale della biblioteca paterna, quello dei libri proibiti che le hanno insegnato cosa significasse libertà mentale. «In Libano la libertà mentale non la puoi usare, ma la puoi raccontare». Però sul suo sito, tradotto in sette lingue, che si apre con un "benvenuti nella notte di Joumana Haddad" sulle note di un motivo arabeggiante, sono disponibili solo le poesie più castigate dove non c'è traccia di erotismo. E se avesse avuto due figlie femmine avrebbe spostato de Sade in basso, su scaffali più raggiungibili? «Glielo avrei fatto leggere a 12 anni. Così come i miei figli sanno tutto quello che c'è da sapere sulle donne. Le donne arabe si lamentano della loro condizione, ma sono le prime a non scardinarla. Hanno la grave responsabilità di crescere i figli maschi con gli stessi valori dei loro padri. La vera nemica della donna è la donna stessa». Per chiudere il cerchio, questa è la stessa tesi che, a qualche migliaio di chilometri di distanza, enuncia un campione delle libertà civili in Iran come l'avvocatessa premio Nobel Shirin Ebadi, che da anni punta il dito contro l'educazione che le donne riservano ai figli maschi. Cioè contro l'incapacità di rompere una catena maschilista, che produce e perpetua delitti e disperazione.
Delicata, discreta e incerta nell'esibire la sua bellezza, Joumana Haddad non porta traccia nei modi e nelle parole della sua personale rivoluzione. La sua attitudine si scontra con la sua letteratura. Non ama molto farsi fotografare e anzi teme, di fronte all'obiettivo, che il suo aspetto risulti alterato. Ma ha idee chiare sul proprio patrimonio intellettuale: «Devo nutrire la testa. Ho avuto un tesoro tra le mani, una libertà mentale che spesso non era possibile usare in Libano. La scrittura è stata per me il modo per trovare una zona franca dove parlare di tutto, senza tabù. Un esercizio quotidiano per convincere gli altri che quello che stavo facendo era importante». Naturalmente giorno per giorno, senza clamori perché, dice, «i grandi cambiamenti si fanno nel microscopico». Proprio perché scrittura e mutamento dei costumi per Joumana procedono di pari passo. Insieme alla sua rivista dove «ognuno troverà quello che sta cercando». Soprattutto le donne, finalmente padrone del loro corpo.

Corriere della Sera 21.12.08
Il maggiore sociologo delle religioni, che si definisce «né credente né ateo», si schiera con Benedetto XVI. E va oltre
Anche il laicismo erede del cristianesimo
Rodney Stark: fede basata su ragione e diritti umani
di Maria Antonietta Calabrò


L'Europa: «La natura dell'Occidente non può non essere fondata sui principi della religione. Lo stesso impegno per le libertà richiama quelle radici»

Americano, Rodney Stark è considerato il più importante studioso mondiale di sociologia della religione. Ha insegnato all'Università di Washington, ora è docente alla Baylor University in Texas. È noto nel mondo accademico per l'applicazione della Teoria della scelta razionale nella sociologia della religione. Ha scritto 28 libri e 144 articoli scientifici tra i quali nel 2004, Facts, Fable and Darwin, una critica del fatto che la Teoria dell'Evoluzione venga insegnata nelle scuole «come una verità eterna». Tra i suoi libri più recenti, La vittoria della Ragione (Random House), Le città di Dio (Harper) e La scoperta di Dio (Harper) pubblicati in Italia da Lindau. Nonostante la reticenza a discutere le sue idee religiose ha affermato in un'intervista di «non essere un uomo di fede, ma nemmeno un ateo» o ancora ha dichiarato di essere «un cristiano indipendente».
Stark è «d'accordo» con quanto sostiene il Papa nella lettera pubblicata dal Corriere della Sera che fa da prefazione al libro di Marcello Pera Perché dobbiamo dirci cristiani (Mondadori). E cioè che senza il ritorno al tronco da cui è nato (il cristianesimo) il liberalismo e i diritti umani universali, che esso porta con sé, si disseccano. «Ha ragione Benedetto XVI — afferma il professore — quando sostiene che l'impegno per i diritti umani richiede radici cristiane». Per un motivo basilare. «L'attenzione deve sempre essere concentrata sull'individuo, la dignità e la libertà di coscienza della persona, e non sullo Stato. Quando l'attenzione si sposta sullo Stato, sottolineando quanto il rispetto dei diritti umani sia fondamentale per l'interesse comune, le libertà sembrano erodersi velocemente, poiché interferendo con "altre" libertà, interferiscono con il bene dello Stato». Questo è tanto più vero in questo momento storico, in cui la stessa idea di progresso viene messa in questione a livello planetario a motivo del crollo generalizzato dei mercati e dello sviluppo. E si torna a discutere di radici cristiane e di laicità. Luciano Canfora ha affrontato proprio ieri sul Corriere due saggi sulle relazioni tra fede, democrazia e uguaglianza. Mentre sempre ieri è stato André Glucksmann a denunciare gli errori dell'Occidente (secolarizzato) in tema di diritti umani.
«Il ruolo che il Cristianesimo deve assumere nelle crisi globali odierne — commenta Stark — deve essere un ritorno alle virtù: onestà, generosità, modestia e soprattutto un ritorno alla fede nella sacralità della vita umana».
La religione cristiana può dare inoltre un sostanziale contributo alla ripresa della forza della ragione e della razionalità. «Fin dai primi tempi, il Cristianesimo ha proposto la ragione come essenziale per la fede. Dio è visto come estremamente razionale. Di conseguenza le regole e le verità date da Dio devono essere razionali. Perciò, il modo per estendere la nostra conoscenza di Dio è ragionando, non in primo luogo attraverso la meditazione ed il misticismo. Questa è una tradizione cominciata nell'Ebraismo — spiega Stark — ma i teologi cristiani hanno posto assai minore enfasi nell'interpretazione della Legge e molte più attenzioni sull'esistenza e le intenzioni di Dio. Quando questa concezione razionale si estese alla Creazione di Dio, nacque la scienza».
C'è una straordinaria assonanza tra questi ragionamenti e il discorso di Benedetto XVI all'Università di Ratisbona nel settembre 2006, quando il Papa ha invitato l'Islam a tenere in conto la ragione evitando il ricorso alla violenza. L'Islam contemporaneo può recepire questo invito? «Tragicamente, non vedo come oggi l'Islam possa scegliere la ragione invece che la violenza», commenta il professore. «C'è una adeguata base teologica nella religione islamica per sostenere la coesistenza pacifica tra le diverse religioni, ma al momento non c'è abbastanza volontà perché questo accada». Eppure l'analisi sociologica del caso americano porta a concludere che «la coesistenza pacifica di più culti religiosi può certamente essere possibile, dal momento che sembra esistere negli Stati Uniti».
Cosa diversa è il cosiddetto concetto del «dialogo interreligioso» che, afferma Ratzinger, in quanto tale «non è possibile senza mettere tra parentesi la propria fede». Cosa ne pensa Stark? La risposta è fulminante: «Se i partecipanti al "dialogo interreligioso" non hanno un fermo impegno con la loro fede, non c'è nulla di cui discutere, dal momento che non si possono accordare su alcunché, e sovente non si accordano su nulla».
Stark è realista e non si nasconde che quella indicata da Benedetto XVI (un autentico liberalismo, la dignità della persona) non è una prospettiva facile. Innanzitutto per un motivo politico: «La libertà è difficile da gestire e i capi di Stato non hanno la capacità di tollerare alcun tipo di disordine».
Cosa accadrà? Il laicismo «perderà» la nostra civiltà? Stark non dice «sì» o «no», ma sottolinea un clamoroso paradosso riscontrabile della storia del cristianesimo. «La grande ironia è che gli occidentali, confidando solo su se stessi, propongono il secolarismo laicista, ma dipendono in realtà interamente da una forte e radicata cultura cristiana. Anche la loro fede nel progresso è cristiana nelle sue origini e nelle sue basi». Infine, il professore indica una «cura» inaspettata e sorprendente «contro il dilagare del relativismo»: «Il maggior numero possibile di cristiani dovrebbe scegliere di lavorare nel mondo dei mass media. Allo stesso tempo i cristiani più abbienti dovrebbero comprare o fondare nuove tv e giornali».
Ma intanto nuovi mondi si aprono e sono come fecondati dalla «scoperta di Dio» e dalla «vittoria della ragione», propria della cristianità. Stark vede tutti i segnali di una nuova «ascesa del cristianesimo» in Oriente. «Se si vuole incontrare gruppi di persone le cui vite sono state trasformate dalla fede cristiana e che dimostrano una seria motivazione alla libertà e alla dignità umana — conclude Stark — è necessario visitare una chiesa "domestica" in Cina. Non solo il Cristianesimo si sta espandendo rapidamente in questa nazione, ma attrae in particolar modo la parte più erudita e sofisticata della società cinese ».
(Ha collaborato Laura Nasso)

Corriere della Sera 21.12.08
Uno studio americano su oltre 5 mila persone analizza i meccanismi di diffusione della gioia
La felicità è davvero contagiosa
Sorpresa: è più facile "prenderla" da amici e vicini che dal partner
Perché il contagio scatti conta il grado di vicinanza con la persona felice e il tipo di rapporto che si ha con lei
di Elena Meli


Si sa, il riso è contagioso. Ma lo è pure un sentimento complesso e profondo come la felicità, a prima vista l'emozione più privata e personale che ci sia. Esser felici è (anche) una questione di gruppo, perché se lo sono amici, vicini e parenti sarà molto più probabile che lo diventiamo pure noi.
L'ha appena scoperto Nicholas Christakis, un sociologo di Harvard, che ha scandagliato la vita di oltre 5 mila persone per verificare se le reti sociali, quell'intrico di relazioni più o meno strette che abbiamo con gli altri, abbiano qualche effetto sul nostro benessere.
I dati raccolti in vent'anni di osservazioni, pubblicati ora sul British Medical Journal,
dimostrano che la felicità è un benevolo virus trasmesso soprattutto dagli amici. Per diffondersi ha bisogno del contatto (la probabilità di diventare felici per interposta persona si affievolisce se l'amico "cuor contento" abita lontano), ma è così potente da "infettarci" perfino con tre gradi di separazione: se è felice l'amico dell'amico di un nostro amico, per imperscrutabili motivi finiamo per star meglio pure noi.
Siamo invece immuni dalla felicità dei colleghi e, a sorpresa, è più contagiosa la felicità dei vicini di casa di quella del partner (perché la convivenza, forse, è più stressante delle liti di condominio).
«Siamo animali sociali: già sapevamo che vivere in mezzo agli altri è importante per il nostro benessere— osserva Federico Colombo, presidente della Società italiana di psicologia positiva —. Il dato davvero nuovo è che non basta frequentare tante persone per sentirci meglio, occorre che queste siano felici. Perché felicità non significa solo soddisfare i propri desideri personali, ma anche dare un senso alla propria vita attraverso il rapporto con gli altri».
Prima di togliere il saluto agli amici depressi, c'è da chiedersi se sia vero anche il contrario: chi va con lo zoppo impara a zoppicare?
«Certo, avere intorno qualcuno che si lamenta sempre rende più difficile restare felici. Ma nessuno è mai pessimista al 100 per cento, in più chi è felice riesce comunque a cogliere aspetti positivi che l'altro non vede: in altri termini anche l'umore nero è contagioso, ma in misura minore » assicura Colombo.
Facciamo però un passo indietro: siamo così sicuri che sia semplice definire un concetto ineffabile come la felicità? Fior di studi hanno cercato di dirci che cos'è e di misu-rarla, ma neanche gli esperti si sono messi d'accordo: «Secondo alcuni la felicità è un' emozione soggettiva, di breve durata: possiamo solo aspettare (e sperare) che ci "cada" addosso, senza poter far molto per trattenerla spiega Colombo.
«Si è fatta strada, però, anche l'idea opposta — continua — e cioè che la felicità sia una condizione durevole, che consiste nel provare più emozioni positive che negative. È naturalmente più probabile che siano felici gli estroversi e chi ha molte relazioni, ma anche chi dà valore alla propria felicità e orienta le proprie scelte in modo da ottenerla, o chi ha obiettivi chiari e lavora per raggiungerli. La felicità quindi si può imparare. O, meglio ancora, possiamo costruircela».
Non esiste una ricetta valida per tutti, ma qualche consiglio forse sì. E a Natale servono eccome: per alcuni luminarie e auguri sono la cifra del periodo più nero dell'anno, quando stress e depressione si accentuano (a fine dicembre aumentano gli infarti, e non è un caso). Tanto che viene da chiedersi se la felicità obbligata del Natale sia anch' essa positiva e contagiosa, o non sia invece deprimente. «Se viviamo le riunioni di famiglia come un vuoto rituale, la felicità altrui lascerà il tempo che trova. Se le vediamo come un'occasione per raccontarsi e rinsaldare i legami, le feste possono aiutarci a costruire la felicità. Tutto sta nel cercare di dare un senso che sia vero per noi stessi a ciò che facciamo» conclude lo psicologo.