martedì 23 dicembre 2008


Il Messaggero 9.11.1977
Psiche e società
Tutti insieme intimamente
Ecco la cronaca di una seduta
di Luigi Vaccari

I giovani della Nuova Sinistra scoprono un nuovo pianeta: l'Analisi Collettiva. Un po' dovunque stanno infatti spuntando gruppi e seminari psicoterapeutici. Alcuni di questi "collettivi" hanno raggiunto dimensioni "monstre": fino a 200 partecipanti a seduta! E' un importante sintomo psico/politico. Ma qual è il suo vero senso? La riscoperta dell'anima? Un ritorno agli Esercizi spirituali? L'inizio di una fuga dalla politica?
Lei, sui 30, la voce concitata: "Senti Massimo, vorrei dire una cosa ai compagni. Giovedì scorso sono arrivata alle 5 e un quarto, c'era già la fila, ma io non mi ci sono messa, ho rifiutato quest'imposizione, sono entrata e mi sono seduta. Oggi sono arrivata alle 5 meno un quarto, e anche oggi c'era già la fila , e io mi sono opposta, la fila no...... Sono stata violentata: " Tu non sai stare coi compagni " , mi hanno urlato. Sono stata violentata per tre quarti d'ora... Ero venuta serena, in questa settimana molte cose mi si erano chiarite, ora ho le idee di nuovo confuse... Perchè succedono queste cose? ... Queste cose non devono succedere, non possono succedere...."
Massimo, sorridente ma fermo: "Quando l'organizzazione la fanno i compagni non c'è più la sensazione di dominio".
Lei, scossa da un tremito, gli occhi di lacrime: " Allora vorrà dire che devo venire alle tre..."
Massimo "E' la stessa difficoltà di tutti" Poi, dopo una pausa, con una smorfia di compiacimento: "....E propone la nascita di un terzo seminario " .
Lei è una dei 150-200 protagonisti dell'incontro confessione che si tiene il giovedì all'Istituto di psichiatria dell'Università, al 47 di viale di Villa Massimo al Nomentano. E altrettanti ne intervengono a quello del martedì, che ha aperto un anno e mezzo fa la strada. Giovani ma anche meno giovani. Ragazzi ma anche tante ragazze. Studenti, forse del liceo forse universitari, ma anche gente che lavora.
Massimo è Massimo Fagioli, uno psichiatra approdato dopo esperienze varie alla psicanalisi ufficiale e successivamente allontanatosene. I due seminari a cui si può liberamente partecipare, testimoniano un insolito tentativo di analisi collettiva, la capacità liberatoria di raccontarsi in pubblico cercando il significato di sogni che sono spesso incubi lunghi e sofferti.
L'appuntamento è in una sala al primo piano, di 40-45 metri quadrati. Il portone dell'istituto viene aperto mezz'ora prima dell'inizio di questo straordinario transfert comune. Quando tutti aspettano da tempo, pazienti. In una fila molto ordinata e poco italiana. La corsa esplode sulla breve rampa di scale che porta al luogo della riunione. Per occupare le pochissime sedie che vi si trovano, e anche i braccioli. Alcuni si sistemano su sgabelli pieghevoli, portati da casa e dall'incerto equilibrio. Altri siedono in terra, come coloro che non riescono ad entrare e restano nello stretto e breve corridoio.
L'analisi occupa due ore: dalle 18 alle 20 e dalle 10 alle 12 il martedì. L'attesa è ingannata diversamente. Chi fuma, le ragazze soprattutto. Su un cartello. " Qui è vietato fumare", qualcuno ha aggiunto fra qui ed è un "non" a lapis, e fanno da posacenere anche lattine vuote di noccioline che passano di mano. Chi legge, faticando nei movimenti: Il Manifesto, L'Espresso, Lotta Continua. Chi parla con chi gli sta accanto, e il tono è sommesso. Pochi sono tirati nei tratti del volto. Pochissimi sembrano preoccupati, anche se qualcuno fissa il vuoto.
Quando compare Massimo, molto puntuale, a fatica riesce a raggiungere la sua sedia dirimpetto alle porte della sala, spalle a una finestra che come le altre adesso viene chiusa
E c'è subito fumo . E caldo. Tanti, e tante, si sfilano i pullover. E si comincia, dopo il lamento protesta di colei che aveva rifiutato la fila, con Adele. La quale non sa, dice, se viene per una curiosità intellettuale, lei è una giornalista, o per se stessa. Ad ogni modo, dopo aver partecipato quattro volte ha fatto un sogno.
"Posso raccontarlo?" domanda.
Massimo: "se tu chiedi il permesso non vuoi avere capito niente "
Un giovane: " Io, invece, Massimo...."
Adele: " Ma lo racconto o no? "
Tutti ridono
Massimo: "sarebbe una punizione troppo grossa... Avanti, avanti ."
E Adele : "Stavo su un sentierino di una montagna a San Brunello, in Calabria, con dei ragazzi che erano i miei figli e i loro amici..."
Quando ha concluso, Massimo le spiega che nel suo sogno ci sono un sacco di intuizioni ma anche di negazioni. E c'è la sua difficoltà di essere compagna. E non solo non ci sono ruoli sociali, ma neppure quelli familiari ne quelli personali. E il rosso che ad un tratto appare significa le donne che ritrovano le loro mestruazioni senza sentirsi castrate.
Una ragazza sui 25, orecchini ad anello, argentina bianca e sopra una maglietta bordò col collo aperto, ricorda le difficoltà per arrivare fino al gruppo, poi, dopo l'ultimo incontro una serie di sogni: "Era morta mia madre, io dovevo verificare questa morte, andavo al cimitero ma volevo che mi accompagnassero, e mi accompagnava un ragazzo", la scena cambia: "Io abbraccio il ragazzo, ma compare mio padre e ci divide" Secondo sogno: Lei si prepara a fare l'amore , ma le vengono le mestruazioni. Terzo sogno: " Io incontro Massimo, mi dice che mi vuole parlare, anch'io gli dico che devo parlargli ma posso perdere il posto in farmacia".
Massimo interpreta così: la separazione dalla madre è possibile solo se si è in compagnia, per fare un'analisi a fondo occorre il rapporto collettivo. Poi il compito del padre: ma il ragazzo lei se lo sceglie da se... Terza proposizione: per venire al seminario c'è il rischio del licenziamento. La realizzazione analitica, d'altra parte, non è qualcosa che può restare nel chiuso dello studio privato. Ma deve uscire fuori. E allora diventa anche un fatto politico...
Maglione grigio a giro collo, occhiali da vista chiari, folta barba, borsello, un pacchetto di MS e uno di cerini sulle ginocchia, un giovanotto racconta che se ne stava seduto fuori, sulle scale, e non poteva andare al seminario perchè gli mancava l'apparecchio ortopedico, non poteva salire. Arrivavano i compagni, però, e lo portavano su loro. " Finito il seminario se ne vanno e mi lasciano li, e io dico " che stronzi" ... Mi metto carponi, si, ce la faccio. Mi vergogno un pochino ma riesco a farcela....."
E Massimo: Il tutore ortopedico... Ne può fare a meno nel momento in cui si è insieme... Ma che cos'è il tutore ortopedico? È la passività di fronte alla mammina, al papino, alla zietta, fino al governo Andreotti. Che scompare purché ci sia un lavoro collettivo.
Gli interventi si inseguono. Uno dietro l'altro. senza una sosta, una riflessione. Alle risposte di Massimo non c'è replica.
Un'altra ragazza, di cui arriva solo la voce: "Io prima andavo al martedì. Vengo al giovedì da due settimane e mi sono sentita a disagio, mi sembrava di aver abbandonato un buon lavoro... Ho sognato che stavo al seminario, ma non era in una stanza, era in strada, e c'erano alcuni che camminavano, altri che sonnecchiavano. Vedo Silvio che sonnecchia, gli do un bacio, gli dico " su dai ", bacio un altro ragazzo, poi ne sveglio un terzo, sempre con un bacio, facciamo l'amore ed è un rapporto molto dolce, molto tenero...
Massimo chiarisce che il modo per non farsi abbandonare è proprio il terzo rapporto, cioè il terzo seminario, cioè aumentare il lavoro, anche in senso qualitativo.
Un altro giovanotto sui 20 dice: "Ho sognato che stavamo aspettando il seminario su una distesa erbosa, arriva un gruppo di persone, ci sono anche il miei genitori i quali vengono con noi. Ma vogliono sapere, soprattutto mia madre assume un ruolo molto interlocutrice..."
E Massimo risponde: se si fa il terzo seminario ci si può occupare anche dei genitori...
Si va avanti su questa chiave di lettura. Su questa relazione molto stretta fra sogno e seminario. Seminario come riferimento costante, fino all'ossessione o all'incubo. Seminario come abbandono ultimo e disperato. Per fuggire una solitudine assoluta e tragica. E Massimo che parla ora della paura ora ha bisogno di una sua ulteriore dilatazione, dopo che c'è già stato lo sdoppiamento. " Qui c'è una precisa richiesta: non fare il terzo seminario, sennò perdo questa possibilità di analisi che ho raggiunta", replica ad una ragazza dalla voce contratta, lo sguardo basso. Che aveva ricordato con queste parole il suo sogno: " C'era come una gara, resistere in una situazione dove l'aria era poca. Poi mi accorgo che la gente ci stava bene e dico " andiamo più in basso". Ci vado con un'amica e ci troviamo come in un cunicolo, come nella metropolitana a Londra. Ma io avevo la sensazione di salire, incontro un uomo nero, usciamo fuori ed è Roma..."
Il rapporto col seminario vale anche per una lei sui 28, che la notte precedente ha ripercorso due storie sentimentali, " e con il primo ragazzo parlavo pacatamente, con il secondo soffrendo molto" Per un lui sui 25, che era su una spiaggia con un amico, incontrava una suora con un cesto, nel cesto c'erano tre tartarughe, le tartarughe si infilavano nel mare, un lungo tunnel.... Per un'altra lei sui 27, che perdeva un treno per una questione di minuti, ne perdeva un secondo, però riusciva ad arrivare dove doveva arrivare.
Se n'è andata un'ora, Superando braccia, gambe, teste, a mo' di slalom, il cronista guadagna con molto impegno e molto sudore il corridoio. Un ragazzotto che non s'è ancora raccontato, chiede: " quando esce l'articolo sul giornale? " Risposta: la prossima settimana. " Speriamo di non leggere stronzate". Ne hanno dette ? Ed il ragazzo sorride, con un sorriso di meraviglia e di stupore, come dire: " Ma vuoi scherzare? ".

Il Messaggero 9.11.1977
Chi è il Padrone del Discorso?
di Ruggero Guarini

Questi gruppi di "analisi collettiva", e i molti altri analoghi spuntati un po’ dappertutto in Italia, sono un grosso fenomeno psico-politico un "sintomo collettivo" che bisognerebbe decifrare. Ma chi può farlo?
Il sociologo? Costui può offrirci soltanto degli strumenti empirici, utili per misurare le dimensione esterne del fenomeno ( diffusione di queste pratiche, composizione sociale dei gruppi, età media dei partecipanti, loro identità politica e così via ) ma insufficienti a definire il senso.
Il politico? il suo sguardo è troppo interessato. Nel migliore dei casi ,in questo fenomeno che lo prende di contropiede, egli si sforzerà di cogliere quegli elementi che gli sembreranno funzionali al suo "discorso " : se esprimerà consenso, vi avrà scorto la possibilità di riassorbirlo o di annetterselo; se emetterà un giudizio di condanna, vi avrà visto un segno per lui minaccioso, di fuga dalla politica.
Lo psicoanalista? I suoi strumenti teorici sono essenziali ma essendo egli stesso un frammento della "formazione sintomatica" che occorre decifrare, sarà troppo coinvolto nella cosa per poterne parlare col necessario distacco.
Limitiamoci dunque a porre tre elementari quesiti:
1) Un mucchio di circa duecento persone è ancora un gruppo psicoterapeutico? E se non è più questo che cosa è? Un circolo culturale? Un’associazione di mutuo soccorso? Un collettivo dedito a una nuova specie di "esercizi spirituali"?
2) Un individuo che a centinaia di pazienti riuniti intorno a lui distribuisce come noccioline manciate di interpretazioni di sogni lapsus deliri e fobie è davvero un analista"? E se non lo è, che diavolo sarà? Un pedagogo? Un confessore? Un leader?
3) Qual è il rapporto fra l’identità politica dei partecipanti (quasi tutti giovani della nuova sinistra) e questo loro "bisogno" di una pratica metapolitica ? Le due attività sono complementari (nel senso che l’analisi di gruppo, omogenea al "personale" e al "privato" compensa le lacune e colma i buchi lasciati aperti o prodotti dall’attività politica), o sono invece contraddittori, al punto che alla lunga una delle due pratiche sia destinata a prevalere sull’altra, magari fini a liquidarla? Detto con altre parole: questa dicotomia dello Psichico e del Politico si configura come una convivenza pacifica di domini separati o come un conflitto di dimensioni antitetiche?
Infine enunciamo qualcosa che è meno e più di un’ipotesi (è un'ovvia constatazione): oggi c’è in giro una grande domanda di Anima. Il risultato è certamente qualcosa di meno noioso della consueta Grande Chiacchiera politica, ma sarebbe ancora meglio se nelle pratiche generate da questa massiccia domanda non si riproducesse la solita dialettica dello Schiavo e del Padrone…
Insomma questi ragazzi dovrebbero un po’ interrogarsi su quelle nuove forme di "potere" che in questi loro gruppi si vanno articolando intorno a una figura che non cessa di porsi - in quanto interpretante e analizzante - come un nuovo Padrone del discorso.
Chi è questo nuovo Padrone? Un maestro di coscienza? Un genitore morale? Un altro padre politico?
Questo sarebbe il caso più derisorio: il Politico che rispunta, travestito da Psicomante, proprio nel luogo in cui il gregge, forse senza saperlo, progetta di abolirlo!

Il Messaggero 9.11.1977
Un analista che rifiuta Freud
Intervista a Massimo Fagioli
di Fulvio Stinchelli

Quarantasei anni, faccia scavata e sguardo ardente dietro le lenti fumè un passato di rissoso eretico freudiano alle spalle, Massimo Fagioli è oggi lo psicoanalista italiano di gran lunga più seguito e ascoltato. Da due anni, nello spazio universitario concessogli dall’illuminato pluralismo del professor Reda per l’intercessione del suo amico e collega Nicola Lalli, tiene seminari bisettimanali sempre più affollati. Terapia di gruppo? Psicodramma? L’autore di “Istinto di morte e conoscenza” respinge seccamente queste definizioni-etichetta che “lo soffocano”, dice, “senza appartenergli”. Mezzo scienziato e mezzo profeta, rinnega paternità, filosofie e ideologie: Freud? Un pasticcione. Lacan? Un altro che non ha capito niente. La psicoanalisi? Si, purché sia quella che passa per l’ “inconscio marecalmo”, la “fantasia di sparizione” e l’ “istinto di annullamento”. Sono questi i tre cardini della “scoperta” su cui ruotano ossessivamente la dottrina e la “predicazione” di Fagioli. Lo incontriamo nel suo quieto studio di Via Nomentana, in una cornice rigorosamente freudiana: pochi libri, quadri anonimi, scrittoio modesto, poltrone comode e il sacro divanetto. Osserviamo. “Qualcosa di Herr Professor comunque rimane”. Risponde: “Restano le analisi individuali che continuo a fare, perché i seminari sono gratuiti, ma il mio vero campo d’azione è l’analisi collettiva, una cosa che Freud non ha mai fatto”. Prima di arrivare all’analisi collettiva, che è il successo del giorno, vogliamo soffermarci un attimo sul punto di partenza? “Per me tutto cominciò al liceo, quando, vivendo in ambiente medico, feci la prima osservazione: Le malattie psichiche distruggono più di quelle fisiche. Una gamba rotta o una broncopolmonite trovavano soluzione mentre i pazienti depressi venivano liquidati col manicomio. Decisi allora di fare medicina e specializzarmi in psichiatria. Dopo la laurea, la pratica presso l’ospedale psichiatrico di Venezia. Per un anno e mezzo mi attenni al ruolo e alle disposizioni: non dovevo far altro che girare la chiavetta e zac: elettroshock. Allora mi chiesi: ma cosa sto facendo? Sto alla catena di montaggio? Avvito le teste? Me ne andai e cominciò un periodo duro per me. Prima Verona, dove mi cacciarono perché ero “rosso”, poi approdai a Padova, dove un minimo di ricerca si faceva. E lì mi venne la prima ispirazione. Dissi: l’istinto di morte è l’istinto di morte, d’accordo, ma questi, i malati, non muovono un dito. Dov’è tutta questa aggressività? Un esempio? Reparto agitati: trenta ricoverati, due infermieri. Mai accaduto un incidente. Allora, quest’istinto di morte non è distruzione. Incominciai così a studiare questo istinto passando e andando sempre più a fondo nel rapporto con l’inconscio. Mi trasferii in Svizzera, dove ebbi modo di superare la sindrome del malato per vedere cosa ci fosse dietro. Nel ’64 feci la mia analisi personale, la svolta fondamentale”. C’è un episodio cui puoi legare questo del passaggio dalla psichiatria alla psicoanalisi? “Si, ed è connesso a un paziente il quale, un giorno, mi rimproverò di non averlo assistito in una determinata circostanza e di avergli, quindi, “fatto del male”. Ma se quel giorno, mi dissi, io ero in ospedale, come posso avergli fatto del male? Fu un’illuminazione: è l’assenza che fa del male. Cos’è l’assenza? E’ una pulsione attiva di annullamento”. Qui spunta Lacan…. “No. Lacan dice che è una mancanza. La mia, ripeto, è pulsione attiva di annullamento. La si può verificare nel “Non visto” e nel gioco infantile del “Bubù settete”, dove il bambino appare e sparisce. Di qui mille passaggi, verifiche e confronti. Una storia lunga, che comincia, però, qui: dalla scoperta dell’annullamento”. Arrivando a questa scoperta e nel lavoro successivo, l’insegnamento di Freud l’ha tenuto presente? “L’ho rifiutato e lo rifiuto totalmente”.
Anche tu, però, in questa ricerca , pratichi “l’arte del sospetto”? “Ma nemmeno per idea. Il sospetto parte da una verità precostituita e accertata: Io mi metto in sospetto se temo che tu mi dia un pugno: La mia ricerca non ha condizionamenti di questo tipo”. E’ importante, secondo te, che Freud sia nato”? “Io, sulla nascita delle persone, evito di intervenire. Giusto che sia nato, lo sbaglio è che si è messo a fare lo psicoanalista. Se avesse fatto il medico generico sarebbe stato molto meglio. Diciamo le cose come stanno: esiste una bibliografia enorme, opera di predecessori di Freud, che sta a dimostrare che Freud non ha scoperto niente.
Se una certa società e una certa cultura lo idealizzano tanto ciò è dovuto al fatto che con Freud l’analisi non si fa e questa società ha paura che la gente faccia l’analisi, perché fare l’analisi sul serio significa vederci chiaro, rendersi conto dei “mucchi di sabbia” di tanta cultura, significa imparare a dire si no. E chi sa dire di no rimette tutto in discussione: affare scomodo. Freud, invece, è comodo perché finge di fare l’analisi. Infatti, non ha metodo, si limita a codificare la non-trasformazione umana. La sua è un’analisi interminabile, perché parte dal punto di vista che non c’è niente da fare e allora ricade nella vecchia psicoterapia di sostegno. Roba dei tempi di Ippocrate. Non c’è trasformazione…..”. Invece, nella tua c’è, a quanto lasci capire. ma prima di te? “C’è Marx. Ecco uno che aveva intuito la psicoanalisi, parlando di trasformazione. Mi riferisco al giovane Marx, quello dei “Manoscritti” e dell’”Ideologia tedesca”. Meno male che anche tu ha un padre, ma veniamo ai tempi nostri: quando ti sei deciso a rompere con la Società di Psicoanalisi Italiana? “E’ una storia risaputa. Comunque, fu nel ’68. Sentii che i tempi erano matura per tirar fuori quel che avevo scoperto e già praticavo. Pubblicai il mio primo libro e fu l’innesco della reazione a catena che mi ha portato agli attuali seminari basati sull’analisi collettiva”. Anche qui c’entra Marx? “Eh, sì. Perché tutta quella gente raccolta intorno a me parla, racconta, domanda, ascolta e domanda ancora. E torna, puntualmente, senza che nessun le abbia fissato un appuntamento né un programma d’analisi.
Tutti insieme, senza pudori né resistenze. Indubbiamente, trovano quel che stavano cercando. Tutti insieme, collettivamente. Siamo dunque lontano dall’analisi individuale. Un po’ come la presa di coscienza nella fabbrica, Per me è la conferma di essere sulla via giusta. Io non uccido il paziente come fa l’analista dall’alto del suo ruolo e del suo diploma, nel chiuso dello studio. Io li affronto, lì, seduto in mezzo a a loro che sono centinaia, pronti a rimbeccarmi se dico stupidaggini. Perché la gente conosce l’analisi più di quanto comunemente si creda”. Qual’è la differenza tra analisi individuale e analisi collettiva? “All’analisi individuale si presenta, quasi sempre, un uomo che sta molto male: è confuso, annullante, depresso. In quel caso deva fare quasi tutto l’analista, cogliendo il problema e cerando di risolverlo, direi a dispetto dello stesso analizzando che vuol distruggere l’analista. Questo, in un certo senso si verifica anche al seminario, ma lì la risposta è collettiva. A volte io non faccio che interpretare il sogno di uno per rispondere a quello di un altro. E’ la conferma che l’uomo è un essere sociale. Vedi che Marx torna sempre? Voglio dire che il problema della ragazza la cui madre le dà della puttana perché esce la sera è problema di migliaia di persone, non è il problema per-sonale di quella singola ragazza con quella madre. Questo è il mio lavoro, in poche parole. E allora si capisce perché tutto ciò rappresenta la distruzione di Freud”.
Repubblica 23.12.08
L'ombra della scissione sul Prc. Liberazione rischia di essere venduta
Ferrero: c'è un editore. I vendoliani lasciano la direzione
Sansonetti: "Il giornale è l'unica cosa che resta della sinistra radicale"
di Giovanna Casadio


ROMA - E ora il quotidiano di Rifondazione comunista, Liberazione, l´ultimo asset del partito, è in vendita. La cosa, annunciata in direzione ieri dal segretario Paolo Ferrero con molte cautele e distinguo, porta il Prc sull´orlo della scissione. Al centro della tempesta appunto, l´interesse di un editore per Liberazione e la richiesta del segretario di avere mandato a trattare. Una carta a sorpresa che Ferrero ha messo sul tavolo di una direzione già segnata dalla guerra tra fazioni. Tutti contro tutti, quando il segretario esprime il suo "no" al piano industriale di salvataggio del quotidiano che ha un rosso profondo di bilancio, è insomma a rischio fallimento.
I "vendoliani", la minoranza che ha sostenuto al congresso Nichi Vendola, già erano pronti ad andarsene dalla direzione per difendere il direttore del quotidiano Piero Sansonetti, di cui Ferrero vuole la testa. E l´hanno fatto dopo il colpo di teatro del segretario. «Un editore ha manifestato interessamento... state tranquilli non è Berlusconi», cerca di alleggerire il clima Ferrero. Ma non vuole dire di più. Il segretario ci tiene a precisare che non bluffa, che comportamento più lineare non poteva adottare, che è prematuro parlare di vendita ma vuole andare a vedere se la strada di un eventuale acquirente è perseguibile. Con le garanzie del caso, che cioè Liberazione resti il quotidiano del Prc. Il nome dell´editore? Ferrero non risponde e il tesoriere Sergio Boccadutri, bertinottiano, neppure. Ma l´ipotesi più accreditata sembra quella di Luca Bonaccorsi, editore di Left, che per la verità è stato vicino al lider maximo Fausto Bertinotti, come lui seguace dello psichiatra Massimo Fagioli. Cresce il sospetto che i bertinottiani di stretta osservanza stiano per mollare l´area-Vendola rompendo il sodalizio con l´ex segretario Franco Giordano, con Gennaro Migliore, con Patrizia Sentinelli.
Intanto Ferrero incontra il cdr del quotidiano. Non convince. Liberazione entra in sciopero, oggi non sarà in edicola e decide un pacchetto di altri quattro giorni di sciopero se non ci sarà chiarezza su tutto, sulla bocciatura del piano industriale presentato, sull´offerta di acquisto, sul futuro della testata. Sansonetti si sfoga: «Prendo atto che Liberazione è in vendita, mi auguro che non ci sia il disegno di farla morire perché sarebbe stupido, siamo l´unica cosa che resta della sinistra radicale».
Si fanno anche ipotesi di altri acquirenti, che vi sia un interesse di Nicola Grauso, di Renato Soru, di Michele Di Salvo. «Di Salvo è un nome privo di fondamento», smentisce Ferrero. E attacca: «Abbandonare la direzione, sollevare questo putiferio è l´alibi per una rottura». Migliore replica: «Non siamo noi a volere la scissione, sono loro che ci vogliono cacciare...». Comunque, la direzione di quello che fino a un anno fa era il più grande partito della sinistra radicale, sia pure monca di una minoranza, ha dato il via libera alla trattativa per la vendita del quotidiano.

l’Unità 23.12.08
Liberazione in sciopero e spunta un compratore


La direzione nazionale del Prc ha respinto ieri mattina, con i voti della sola maggioranza di Paolo Ferrero, il piano di ristrutturazione del quotidiano Liberazione, dando mandato alla segreteria del partito di approfondire i contatti con un eventuale «compratore» della testata organo del Prc. La prima decisione, spiega in una nota Ferrero, sarebbe tutta economica: «È necessario che il bilancio del prossimo anno sia in pareggio, perché il partito non ha i soldi per continuare a coprire il deficit». Anche il piano di ristrutturazione presentato, spiega il presidente del cda di Liberazione Sergio Bellucci, prevedeva, anche attraverso lo sforzo di 2 anni di cassa integrazione, il pareggio di bilancio nel 2009. Eppure, constata: «Nessuno ha pensato di discutere con me di quei numeri nella direzione politica convocata appositamente per discuterne. È una cosa che non succede in nessun giornale del mondo». Della seconda decisione, quella di verificare la disponibilità di un acquirente, i contorni sono incerti, anche se gira il nome di Luca Bonaccorsi, editore di Left. Lo stesso Ferrero afferma che «una proposta definitiva ancora non c’è». E se dal punto di vista interno c’è da registrare come la minoranza vendoliana del partito abbia abbandonato la direzione non riconoscendo le risoluzioni approvate a maggioranza, la redazione resta in agitazione. Andrea Milluzzi del cdr conferma la proclamazione di un giorno di sciopero (oggi Liberazione non sarà in edicola). Il 30 dicembre si riunisce l’assemblea degli azionisti che dovrebbe disegnare un nuovo cda. La battaglia per il controllo del giornale è partita. E alcuni vedono anche in questo passaggio l’intenzione di far saltare la direzione di Piero Sansonetti.

Corriere della Sera 23.12.08
Sarebbe Bonaccorsi di «Left» l'editore interessato al giornale prc
Ferrero pronto a vendere Liberazione. A un vendoliano
di Andrea Garibaldi


ROMA — Un editore vuole comprare Liberazione, il quotidiano di Rifondazione comunista. La notizia è stata data dal segretario Ferrero nella direzione del partito. Ferrero ha specificato, sorridendo: «Non è Berlusconi». Ma, dice chi è vicino al segretario, si tratta di un imprenditore contro il quale sarà difficile fare battaglie. Infatti, il nome più probabile è quello di Luca Bonaccorsi, editore della rivista Left. Bonaccorsi su Left dà ampio spazio allo psicanalista anti-freudiano Massimo Fagioli, che ha un forte legame intellettuale con Fausto Bertinotti, ex segretario del partito e «padre nobile» della minoranza di Nichi Vendola, sconfitta da Ferrero. Questa rete di relazioni può creare imbarazzo ai vendoliani, che ieri hanno abbandonato per protesta la direzione.
L'«editore misterioso» — ha spiegato Ferrero— ha assicurato che salverà i posti di lavoro e che il giornale resterà organo del partito. Ferrero ha chiesto un mandato per verificare l'offerta. La minoranza «vendoliana» (ma Vendola non c'era) voleva conoscere il nome dell'editore, Ferrero non ha voluto rivelarlo «in questa fase» e la minoranza ha sbattuto la porta. L'accusa all'attuale segreteria è di voler portare il giornale al fallimento e sollevare dal comando il direttore attuale, Piero Sansonetti. A questo punto appare quasi impossibile una ricomposizione, mentre è già iniziato l'avvicinamento fra vendoliani e Sinistra democratica di Mussi e Fava. Ma Bonaccorsi, il presunto editore, negli ultimi tempi è stato uno dei vendoliani che si è battuto per evitare scissioni.
Nella direzione di ieri Ferrero ha anche bocciato il piano industriale presentato dal consiglio di amministrazione del giornale. Il piano prevede il pareggio di bilancio nel 2009, ma non conterrebbe sufficienti garanzie finanziarie. Per questo oggi la redazione di Liberazione sciopera: chiede un nuovo piano entro fine anno. Per sanare il deficit del quotidiano quest'anno il partito ha impiegato tre milioni e mezzo di euro.

il Riformista 23.12.08
Ferrero, Liberazione e mister X. «C'è un editore ma non dico chi»
di Alessandro De Angelis


RIFONDAZIONE. Il segretario boccia il piano di rilancio del quotidiano. E annuncia un acquirente misterioso. I vendoliani lasciano la direzione del partito: «È illegale». I giornalisti proclamano un giorno di sciopero.

Il copione era già scritto. Con gli uomini di Ferrero pronti a chiedere la testa del direttore di Liberazione Piero Sansonetti. E la minoranza di Nichi Vendola pronta a fare le barricate. E invece ieri il parlamentino di Rifondazione si è trasformato in casinò (nel senso del gioco d'azzardo). Il colpo di scena quando prende la parola Ferrero. Che, nell'ordine, prima chiede la bocciatura del piano editoriale per il rilancio del giornale già approvato dal cda, e pure dalla Fieg e dall'Fnsi. Poi cala l'asso: «C'è un editore che ha manifestato al sottoscritto l'intenzione di fare una offerta per acquistare Liberazione». Ma non lo mostra: «Fare il nome sarebbe poco serio, non c'è ancora una proposta definitiva». Su questo però chiede alla direzione un mandato «esplorativo». Dal momento che - a suo giudizio - la proposta sarebbe più vantaggiosa di quella attuale.
Si vota. E passa la linea Ferrero. È caos: «Stiamo giocando a Teresina. Quattro carte sono scoperte ma la più importante è coperta» afferma Alfonso Gianni. I vendoliani lasciano la sala. Il giovane leader Gennaro Migliore ci va giù duro: «Ci autosospendiamo dalla direzione perché è grave che si scelga a carte coperte. Si vota a fiducia: la maggioranza non sapeva il nome dell'editore e detesta quello che facciamo». Si materializza il fantasma della scissione: «Ormai - dicono in molti - siamo su un piano inclinato. Pochi mesi e ce ne andiamo». Anche se non tutti condividono la linea. Alcuni colonnelli del subcomandante Fausto - da Augusto Rocchi a Tommaso Sodano da Raffaele Tecce a Milziade Caprili - criticano Ferrero ma non si autosospendono da nulla. E sulla scissione il ragionamento suona più o meno così: «Il punto non è andare con Fava e quattro gatti. Ma vedere se si apre una dialettica interna al Pd».
La guerra di Liberazione si trasferisce sulle agenzie. La minoranza ci va giù dura: parla di non rispetto della «legalità» e manda una lettera a Ferrero: «La bocciatura del piano industriale volto al risanamento della testata è una scelta gravissima. Così si arriva al fallimento del giornale». E tuona: «La direzione è nulla». Replica del segretario: «Alla proposta di rilancio si risponde con inaccettabile demagogia, in cui ogni occasione è buona per creare disinformazione». Ma la carta rimane coperta. Nemmeno i fedelissimi di Ferrero dicono di conoscere il misterioso editore.
Lo scontro prende la via del tribunale. Ritanna Armeni, membro del cda del giornale spiega: «È una situazione pazzesca che il segretario parli con la direzione e non con noi e bocci un piano che avrebbe risanato il giornale. Verificherò la legalità e vedrò il da farsi nelle sedi opportune».
Mentre Ferrero incontra in un clima infuocato il cdr del giornale iniziano a circolare i primi nomi sull'ipotetico mister X. Come Michele Di Salvo, editore di una casa edritice napoletana, il cui nome è spuntato anche durante la vicenda dell'Unità. Si parla anche di Feltrinelli. Ma la tesi più accreditata nel quotidiano è che mister X non ci sia: «Bocciando il piano approvato dalla Fieg e dall'Fnsi si blocca anche la trattativa sindacale. A questo punto il cda ha l'obbligo di andare in tribunale altrimenti il quotidiano fallisce». Il giornale diventa una trincea. L'incontro tra Ferrero e il comitato di redazione è tesissimo. Ma nemmeno in quella sede Ferrero scopre la carta. Al Riformista dice: «Non sono un giocatore di poker. L'editore c'è ma non lo dico. Dico che è non è Di Salvo. E non è neanche Berlusconi. E aggiungo che per ora non c'è nessuna vendita del giornale. Qualsiasi decisione su Liberazione sarà valutata dalla direzione nazionale». Ma i giornalisti non ci stanno e proclamano un giorno di sciopero. Il giornale non sarà in edicola. Oggi.

l’Unità 23.12.08
Eluana, Strasburgo dice «no» ai ricorsi dei gruppi cattolici. L’ira del Vaticano
di Federica Fantozzi


L’Europa conferma: si tratta di una vicenda privata. Intanto la struttura di Udine conferma la propria disponibilità ad accogliere la ragazza. E anche la Lega friulana dice: il governo stia fuori dalla vicenda.
La Corte Europea per i diritti dell’uomo dà ragione alla famiglia di Eluana Englaro, la donna in stato vegetativo da 16 anni che ha ottenuto il diritto di morire al termine di una decennale battaglia giudiziaria. La Corte ha respinto giudicandolo «irricevibile» perché «totalmente infondato» il ricorso presentato da varie associazioni italiane contro la sentenza della Corte d’Appello di Milano che autorizza l’interruzione dell’alimentazione artificiale.
A fine novembre la Corte europea aveva già bocciato la procedura d’urgenza stabilendo per il caso l’iter normale. Adesso, la storia è finita. «Nessuna sorpresa - dice papà Beppino -. Mi aspettavo che fosse irricevibile da quando è stato presentato».
Dal Vaticano replica il cardinale Javier Lozano Barragan, sorta di “ministro della Salute” d’Oltretevere. L’uomo non può decidere sulla vita, ha detto il porporato, e «ammazzare un innocente è qualcosa di totalmente negativo». Secondo Barragan «Sacconi ha fatto una circolare dicendo che non si deve staccare la spina. La bontà o malignità di una azione non dipende da ciò che un uomo o una collettività decidono, ma da una realtà oggettiva, la vita».
Anche per il ministro degli Esteri Franco Frattini «la posizione del governo è corretta». Il segretario del Pri Francesco Nucara invece invita Sacconi «a ritirare la circolare».
La Corte Europea ha spiegato che la richiesta di discutere il caso è «irricevibile» in quanto «non è sufficiente che una legge o una sentenza violi di per sé i diritti protetti dalla Convenzione per i diritti dell’uomo, ma deve essere stata applicata a detrimento» della Convenzione stessa. Inoltre, si legge nel provvedimento, «i ricorrenti non hanno nessun legame diretto con Eluana» e quindi non possono «essere considerati vittime dirette della sentenza».
L’atto di cui «criticano il risultato e temono le conseguenze» non li tocca direttamente perché la decisione della Corte d’appello riguarda «solo le parti direttamente coinvolte» e «i fatti oggetto» della decisione. L’Europa, insomma, conferma che si tratta di una vicenda privata riguardante Eluana e i suoi familiari e non chi si senta colpito nella propria sensibilità.
È l’impostazione che sta prevalendo anche in Italia. In Friuli, nella clinica “Città di Udine”, la stanza per Eluana è ancora pronta. Il governatore Renzo Tondo, dopo aver dichiarato che la Regione «si asterrà da atti politici» ha chiarito che non esiste possibilità di revocare la convenzione alla clinica, come ventilato dalla direttiva Sacconi. E ieri, il presidente del consiglio regionale, il leghista Ballaman, si è detto d’accordo: «L’intervento del governo è stato un errore. È un fatto privato: posso auspicare che la ragazza continui a vivere, ma non entrare nelle decisioni del papà». L’Udc, che a parole minaccia la crisi, è rimasto solo.

Repubblica 23.12.08
Il Dottor Pillola "La mia Ru486 e le donne"
di Anais Ginori


Diffusa in tutto il mondo, dall´anno prossimo arriverà, tra le polemiche, anche in Italia E dal suo studio parigino il padre della pillola abortiva, Emile-Etienne Baulieu, avverte: "Siete in ritardo, spero non vogliate riaprire un dibattito che altrove è chiuso da un pezzo"
"È un simbolo che il Vaticano non ama perché unisce la scienza al femminismo"
"Quando comincia la vita? Dipende dalla donna. È una questione tutta psicologica"

PARIGI. Nel caos organizzato del suo ufficio, l´opera completa di Pasteur e le ultime riviste scientifiche si mischiano ai frivoli schizzi della pittrice Niki de Saint Phalle. Per entrare bisogna superare pile di libri a terra. Sulla scrivania, accanto ai figli e ai nipoti, c´è la fotografia di Gregory Pincus, padre della pillola contraccettiva. All´età di ottantadue anni appena compiuti, Emile-Etienne Baulieu dovrebbe già essere in pensione. Ma continua ad occupare attivamente una stanza all´Inserm di Parigi, l´istituto nazionale per la ricerca, dove dirige e smista consulenze, ricerche, conferenze. E´ l´inventore della pillola abortiva. Mister Ru486. Ovvero l´acronimo tra la casa farmaceutica (Roussel-Uclaf) e il numero della molecola di mifepristone. La pillola della discordia, "kill pill" per i nemici, che in Italia non è mai stata approvata. «Non mi faccia polemizzare» premette subito lui, dopo essersi inchinato per un desueto baciamano. In realtà, Baulieu è abituato a fare l´avvocato di se stesso.
«La Ru486 è un simbolo che il Vaticano non ama perché - sostiene - la scienza si è alleata con il femminismo».
Completo scuro, pochissimi capelli bianchi, sguardo diretto e un sorriso ammiccante, quest´uomo sembra non voler invecchiare. Ha presieduto l´Accademia delle Scienze fino al 2004, ed è ancora una centrale di potere e affari del mondo medico francese. In questi giorni chiede spesso alla segretaria una rassegna stampa dal nostro paese. «I problemi di coscienza sull´aborto - commenta - sono vecchi quanto l´umanità. Non sarò certo io a poterli risolvere definitivamente». Baulieu fa spallucce. «Nella mia vita ho subìto anatemi, minacce, assalti. Per parlare al College de France, vent´anni fa, dovettero darmi la scorta. Quando arrivai a Washington, negli anni Novanta, trovai cartelli che mi paragonavano a Mengele. Ma è acqua passata, ormai. L´Italia mi sembra incredibilmente in ritardo: vuole riaprire un dibattito che altrove non esiste più da decenni». Prende da un cassetto una cartella di fogli. «Quando viaggio per conferenze cito spesso questa frase: "In fondo nessuno può essere sicuro di quando comincia la vita umana". E´ di Joseph Ratzinger, quando era a capo della Congregazione per la Dottrina e la Fede. Come intellettuale lo rispetto molto, ma è ovvio che adesso siamo su fronti opposti».
La scoperta della pillola avvenne quasi per caso nel 1982. «Cercavamo un sistema per inibire i ricettori del progesterone, l´ormone della gravidanza - racconta Baulieu - Assunto entro le prime settimane dal concepimento, il mifepristone impedisce all´ovulo fecondato di impiantarsi nell´utero, provocando un aborto spontaneo. Alcune delle pazienti sulle quali l´abbiamo sperimentata in Svizzera - ricorda - già dopo qualche giorno andavano a sciare senza problemi». L´aborto chimico è comunque doloroso. Due giorni aver preso la pillola va assunta un´altra sostanza (la prostaglandina) che provoca le contrazioni per l´espulsione dell´embrione. «Non dico certo che sia piacevole, né facile: nessuna pillola e nessun medico potranno alleviare il dramma di un aborto. Io - continua Baulieu - ho voluto soltanto offrire la possibilità di scegliere. La Ru486 permette di vivere questo brutto momento a casa propria, nell´intimità, aiutate da famigliari e amici. Ma conosco molte donne che mi hanno confessato di non voler pensare a niente e lasciare tutto al lavoro dei medici: in questo caso anche io consiglio l´anestesia e l´operazione».
La Ru486 è autorizzata in quasi tutto il mondo. Viene usata ogni anno da tre milioni di donne, secondo alcune stime. E´ un farmaco approvato dall´Unione europea, vietato soltanto in Irlanda, Portogallo e Italia. L´ultimo rinvio della nostra Agenzia per il Farmaco non coglie di sorpresa Baulieu. «In fatto di retorica voi italiani siete molto forti. Posso solo replicare con i fatti» commenta con una smorfia ironica. In Francia, dove la Ru486 è commercializzata dal 1989, metà delle donne (il 46%) sceglie l´aborto chimico. Nel settore pubblico la percentuale è leggermente più alta (49%) ed è in continuo aumento. La pillola «anticongestionale», come la chiama Baulieu, non ha spostato le statistiche dell´aborto che, negli ultimi trent´anni, rimangono stabili. E´ venduta in India e in Cina come farmaco generico.
Dall´anno scorso, il ministro della Salute francese ha deciso che può essere prescritta anche fuori dalle strutture ospedaliere, da medici autorizzati o presso consultori famigliari. La Ru486 è permessa fino al quarantanovesimo giorno dal ciclo mestruale: dopo è possibile unicamente l´aborto chirurgico. Il protocollo, i dati. Baulieu ha un atteggiamento impassibile. Si scalda soltanto quando, con un moto d´orgoglio, rivendica i risultati della sua invenzione. «Il successo clinico è del 95% - spiega - e i rischi di complicazioni vengono considerati minimi, comunque non superiori a quelli che comporta l´asportazione chirurgica dell´embrione».
La storia della Ru486 non assomiglia a quella di nessun altro farmaco. Baulieu conserva ritagli di giornali, spezzoni di trasmissioni. «E´ stato così fin dall´inizio. Il vecchio cardinal Lustiger disse che si trattava di "un´arma chimica contro il feto". E la campagna di demonizzazione ha quasi funzionato. Nel 1988 stavo parlando a un convegno in Brasile quando salirono sul palco per avvertirmi che la commercializzazione della pillola era stata bloccata in Francia. Il gruppo farmaceutico aveva deciso di rinunciare al nuovo prodotto per paura dei boicottaggi: una cosa incredibile, no? Il proprietario del brevetto, Wolfgang Hilger, era un fervente cattolico. Ma il governo socialista - continua Baulieu - costrinse la multinazionale tedesca a fare retromarcia: la pillola abortiva tornò dopo pochi giorni sul mercato. "Quella medicina è proprietà morale delle donne" disse il ministro Claude Evin. Ecco, mi piace pensare che la Ru486 è delle donne, sono loro a dover decidere. Io d´altra parte non ho più nessuna partecipazione economica con la società produttrice».
La battaglia industriale si ripeté anche negli Stati Uniti, con lo stesso copione. Alla fine, Clinton decise di far registrare il brevetto a una Ong, il Population Council. «Il ritardo dell´Italia mi addolora - commenta lo scienziato - Il mifepristone è una sostanza che potrebbe anche avere altre indicazioni, come la cura di alcuni tumori, ma questo non viene mai ricordato». Baulieu è nato Emile Blum da una famiglia ebrea dell´Alsazia. Durante l´occupazione nazista cambiò nome e divenne partigiano. «Sono stato iscritto a lungo al Partito comunista, poi ho capito che potevo essere utile in altro modo». Negli anni Sessanta ha vissuto in America, lavorando con Pincus. L´altra sua scoperta, l´ormone Dhea che dovrebbe rallentare l´invecchiamento, ha acceso speranze ma con risultati deludenti. "Monsieur longue vie" ha scritto Le Monde nel ricordare la sua «vita vissuta» tra belle donne, artisti e mondanità. «Ho capito che quello che veramente mi rimproverano - aggiunge - è di aver privato i medici del loro potere di condizionamento sull´universo femminile». E´ la tesi di un vecchio pamphlet americano, La pillola che può fermare le guerre sull´aborto e perché le americane non ce l´hanno di Lawrence Lader, scritto nel pieno del dibattito sulla registrazione della pillola negli Stati Uniti, già quindici anni fa.
Monsieur Ru486 non porta sulla coscienza il peso di milioni di "bambini mai nati". «Anche gli spermatozoi sono vivi eppure ne vanno persi milioni senza nessun problema etico». Quando un ovulo fecondato diventa un bambino? L´anziano medico risponde senza esitazioni. In automatico. «Ho due risposte. La prima è a partire dal momento in cui gli altri cominciano a riconoscerlo come tale. Nel caso della società a partire dalla sua nascita. Tuttavia, la seconda risposta mi sembra più precisa: tutto dipende dalla donna, dal momento in cui la donna comincia a sentire questo embrione come un nuovo essere. Quando una donna ha un ritardo, lo esprime giustamente così: "Ho un ritardo". Alcune settimane dopo, comincia a dire: "Sono incinta". Però ha bisogno di un tempo considerevole per dire: "Aspetto un bambino". E´ soggettivo. E´ tutta una questione psicologica».

Repubblica 23.12.08
Il medicinale da febbraio nelle strutture pubbliche
Dopo il "nulla osta" scoppia la rivolta degli obiettori


Il farmaco sarà somministrato in ospedale, stesse procedure previste dalla legge 194

Arriverà, ma per le donne sarà una corsa ad ostacoli. Perché il problema non è soltanto la pillola abortiva, i suoi presunti effetti collaterali, i rischi ancora da verificare, l´ombra lunga di alcune morti sospette. No, al centro della battaglia italiana contro la Ru486, che a febbraio, probabilmente, sarà disponibile nei reparti di ginecologia di gran parte degli ospedali italiani, c´è la dura offensiva contro la legge 194, una vera e propria crociata contro l´aborto legale dettata dalle gerarchie vaticane, che negli ultimi anni ha reso sempre più difficile l´interruzione volontaria di gravidanza nelle strutture pubbliche. Con parole nette e chiare il direttore dell´Aifa, l´agenzia italiana del farmaco, Guido Rasi, ha specificato nei giorni scorsi che "nulla osta" ormai nel nostro paese all´approvazione della pillola della casa francese Exelgyn, l´alternativa chimica all´aborto chirurgico. La Ru486 infatti è stata già autorizzata dall´Emea, l´agenzia europea del farmaco, e per il principio del "mutuo riconoscimento", tutti gli stati che fanno parte dell´Unione Europea devono rispettare quella decisione. Quindi nei primi mesi del 2009, dopo un passaggio tecnico che dovrà stabilire i costi e le tariffe del farmaco, la procedura di autorizzazione arriverà sui tavoli del consiglio di amministrazione dell´Aifa, che darà il via libera.

Repubblica 23.12.08
La dittatura mediatica
di Giovanni Valentini


È sintomatico che, nelle reazioni polemiche alla boutade di Silvio Berlusconi sul presidenzialismo, in pochi abbiano sentito finora la decenza di ricordare il macroscopico conflitto di interessi che grava tuttora su di lui, capo del governo e capo di un´azienda che funziona in regime di concessione pubblica.
E dunque, controparte di se stesso, in quanto locatore e nello stesso tempo conduttore delle frequenze televisive che appartengono allo Stato. Quasi che una tale anomalia fosse stata rimossa dalla memoria collettiva, abrogata dall´opinione pubblica, cancellata dalla consapevolezza nazionale.
A parte le pudiche allusioni di Walter Veltroni che ieri s´è dichiarato contrario al presidenzialismo «nelle condizioni date e con le distorsioni già esistenti», è mancata o comunque è stata carente nelle file dell´opposizione una replica netta e precisa su questo punto. Sarà che ormai il Paese ha metabolizzato il problema; sarà che oggi, con Berlusconi per la quarta volta al governo in quindici anni, la questione appare praticamente insanabile; oppure sarà per la cattiva coscienza che perseguita ancora il centrosinistra per non essere riuscito a risolverla quando era in maggioranza. Fatto sta che, fra tutte le motivazioni a favore o contro il presidenzialismo, questo argomento è rimasto nell´ombra, virtualmente accantonato, come se fosse stato messo in archivio o nel congelatore.
Si dirà: ma tanto ormai Berlusconi fa il presidente del Consiglio, che differenza c´è se diventa presidente della Repubblica? D´accordo. È già uno scandalo gravissimo che il conflitto di interessi in capo al premier non sia stato risolto finora, nonostante le promesse e gli impegni assunti pubblicamente. E anzi, non sarebbe mai troppo tardi per rimuovere la trave, tanto più quando si va a guardare la pagliuzza nell´occhio altrui, come nel caso di Renato Soru, governatore dimissionario della Sardegna.
Ma un presidente della Repubblica eletto direttamente dal popolo, e per di più con poteri esecutivi, proprietario di tre network privati, titolare di una concentrazione televisiva e pubblicitaria senza uguali al mondo, né in quello civile né in quello incivile, riunirebbe nelle proprie mani troppi poteri per risultare compatibile con un livello minimo di legittimità e autorità democratica. La sua sarebbe, a tutti gli effetti, una dittatura mediatica. E allora il capo dello Stato rischierebbe di non rappresentare più l´unità nazionale, il garante supremo della vita politica, la "guida della Nazione".
Sappiamo bene che al di qua o al di là dell´Atlantico, dall´America alla Francia, esistono regimi presidenziali dotati di pesi e contrappesi, con tutti i crismi della democrazia. In nessuno di questi Paesi, però, un tycoon televisivo è mai diventato premier e meno che mai potrebbe diventare capo dello Stato. Il "modello Berlusconi" è un inedito assoluto, universale, planetario. Un "unicum" non replicato e non replicabile.
Ma la verità è che a questo punto il danno è stato già fatto, i buoi sono scappati dalla stalla e perciò sarebbe inutile chiuderla adesso. Nell´Italia berlusconiana, il regime presidenziale ha un rapporto simbiotico con la dittatura mediatica: nel senso che l´uno è funzionale all´altra e viceversa. Dopo aver imposto dalla metà degli anni Ottanta l´egemonia della sua cultura o incultura televisiva, su cui poi ha costruito la leadership politica che gli ha assicurato la maggioranza e il governo del Paese, ora Berlusconi vuole tentare l´ultimo colpo, l´assalto finale al Colle, il salto nell´empireo dei "padri della Patria". E in linea con la sua natura predatoria e populistica, non cerca soltanto un´elezione, tantomeno tra i banchi del Parlamento; ma piuttosto un referendum o meglio un plebiscito, nelle strade, nelle piazze, nei gazebo. Se potesse, anzi, gli basterebbe certamente un sondaggio d´opinione o magari un televoto.
A quasi dieci anni di distanza, dunque, vale ancora l´ammonimento che il senatore a vita Gianni Agnelli consegnò al nostro direttore in un´intervista apparsa su Repubblica il giorno dell´elezione di Carlo Azeglio Ciampi al Quirinale. Alla domanda se non pensasse che quella sarebbe stata l´ultima votazione parlamentare del Capo dello Stato, l´Avvocato rispose: «Francamente, penso che sarebbe un errore. Vedo troppi rischi in un´elezione diretta del presidente della Repubblica, senza il filtro delle Camere per un ruolo così delicato e di garanzia. Con le televisioni, tutto diventa troppo semplice, esagerato, con pericoli di populismo. Meglio di no». Ecco, troppo semplice, esagerato: proprio così.

Repubblica 23.12.08
Weimar, una crisi esemplare
di Lucio Villari


Lo storico americano Weitz ricostruisce gli anni della repubblica. La vita artistica e letteraria, i divertimenti. E gli insegnamenti che lascia
Adolf Hitler giunse al potere nel rispetto formale delle regole istituzionali
Un´indagine a tutto campo su quell´esperienza storica fu avviata solo nel 1973
La risonanza di quelle vicende si avverte davanti ai malesseri di certe democrazie
I frequenti ricorsi alle urne e gli insanabili contrasti fra i partiti di sinistra

C´è una insidia intellettuale e ideologica nel riaprire il discorso storico sulla repubblica di Weimar. È l´insidia del suo «pacifico» tramonto (non è stata infatti abbattuta né da una rivoluzione, né da un colpo si Stato) avvenuto tra faticose crisi politiche, frequenti ricorsi alle urne, insanabili contrasti tra i partiti della sinistra (una socialdemocrazia forte, riformatrice e autorevole e un partito comunista, piccolo, estremista, in attesa della rivoluzione) e mentre dilagavano una destra reazionaria e un centro moderato sostenuti dall´estensione e variabilità sociale delle loro componenti: i ricchi dell´industria, delle finanze e delle grandi proprietà terriere, alcuni milioni di disoccupati provocati dalla crisi economica, le alte gerarchie cattoliche o protestanti, i militari revanscisti, gli intellettuali inquieti e falliti, i «benpensanti» e giovani nazionalisti, impazienti che volevano vendicare la sconfitta subita nella grande guerra. Un fronte ampio e deciso, saldato dal rifiuto dei trattati di pace di Versailles: trattati, per la verità, politicamente ciechi e ingiusti nei confronti del popolo tedesco.
Un tramonto, dunque, che affascina con insistenza politologi, giornalisti e naturalmente gli storici; costretti, questi ultimi, a suggerire nuove interpretazioni di una storia ormai ben conosciuta e forse senza più grandi misteri nascosti.
Se tra le ricerche più recenti vale la pena di ricordare quella di Eric D. Weitz, uno storico americano dell´Università del Minnesota intitolata La Germania di Weimar. Utopia e tragedia (Einaudi, traduzione di Piero Arlorio, tavole e illustrazioni, pagg. 438, euro 38), tanti sono stati i libri e gli articoli dedicati a Weimar, ai suoi protagonisti (con preferenza, in fondo, per quelli di destra, da Heidegger a Jünger a Carl Schmitt) ed ai suoi scenari della politica e della cultura. L´interesse degli storici è tuttavia meno contingente e strumentale di quello dei politologi e dei giornalisti ed è prevalentemente indirizzato al racconto della vita di quella repubblica più che alla descrizione delle sue malattie e della sua forse non inevitabile morte. Risiede, in definitiva, nella intenzione di inscrivere la storia di Weimar in quella della attuale democrazia tedesca, ritrovando gli elementi attivi di una continuità e di una tradizione culturale e artistica, e il lascito della verità e dignità dell´agire politico più che considerarla il prologo del dramma del Reich nazista.
È anche vero però che la risonanza che da sempre ha la storia dei quattordici anni di democrazia vissuti dalla Germania dal 1919 all´avvento di Hitler, si avverte con più forza ogni volta che nelle democrazie dell´Occidente (soprattutto in Italia) affiorano malesseri sociali e il tormento delle instabilità politiche. Infatti il pensiero va subito a quell´esperienza tedesca e scattano meccanismi di esorcizzazione, mescolati però all´ammirazione di quanti hanno capito quel che è accaduto in un tempo della politica e della vita civile della Germania che fu comunque positivo e creativo. Ammirazione per una democrazia originale, sperimentata per la prima volta nel Novecento in uno dei luoghi dell´Europa più degni e mentre irrompeva nel vecchio continente la società di massa, anzi la «rivoluzione delle masse» (o anche l´«uomo-massa» e «Metropolis», per dirla in linguaggio weimariano), la loro modernizzazione, la loro americanizzazione. E a questo proposito è interessante e inquietante la definizione che nel l930 aveva dato Thomas Mann del nazionalsocialismo: «Una ondata gigantesca di barbarie eccentrica e di fiera delle vanità democratiche di massa».
Weimar non può essere perciò un comodo e neutrale metro sociologico o, come avrebbe detto uno dei suoi fondatori, Max Weber, un Ideal Typus della democrazia moderna. È piuttosto un insieme di problemi, la cui lettura scientifica, cioè storiografica, è necessaria per correggere le deformazioni ideologiche della storia tedesca del Novecento (rinchiusa ormai in media televisivi e cinematografici i cui orizzonti sono soltanto quelli del nazismo) e certe approssimazioni della stessa storiografia contemporanea, per lo più non tedesca, poiché per fortuna i tedeschi sono stati più bravi di noi nell´elaborare il lutto del loro Fascismo. E poi per scoprire, se è possibile, le ragioni di questa stessa storia, per dare un significato meno spettrale all´intrecciarsi di eventi (le crisi economiche e sociali, la socialdemocrazia e il comunismo, la razionalizzazione capitalistica, il formarsi del nazionalsocialismo, il teatro, il cinema, la musica, gli spettacoli, i poeti di Weimar, la «cultura di Weimar») che fanno di quella repubblica il laboratorio di una transizione a una modernità globale interrotta bruscamente nel l933 e poi posta per un decennio al servizio di idee politiche e programmi di azione completamente opposti.
Sappiamo bene quali possono essere i rischi di una ricostruzione a tesi della storia di Weimar. Weimar stessa si è presentata sotto una lente di ingrandimento; come se gran parte delle cose avvenute in quegli anni siano state più grandi e «meravigliose» del normale. Forse per questo gli storici tedeschi hanno atteso fino al l973, a un convegno storico internazionale tenuto a Bochum, per avviare una indagine a tutto campo su di essa. E ricordiamo pure che in quel periodo la Germania era divisa in due Stati, vi era il muro di Berlino e incombeva la guerra fredda. Non è escluso quindi che anche il ricordo e la riflessione su Weimar possano essere stati un piccolo contributo alla caduta di quel muro e alla riunificazione politica e culturale del popolo tedesco. Al tempo della repubblica di Weimar altre divisioni penetravano in Germania e nella sua nascente democrazia: la presenza in Europa del comunismo sovietico, le tensioni sociali, la lotta di classe (allora i «borghesi» e i «proletari» erano delle realtà ben visibili), un´economia capitalistica nella quale convivevano la organizzazione, la razionalizzazione e la depressione. La Germania di Weimar ha sopportato infatti il peso di due grandi crisi economiche. La prima, dovuta alla sconfitta nella prima guerra mondiale: la terribile inflazione dei primi anni ?20 che ne seguì fu in gran parte indotta dalle potenze vincitrici, Francia e Gran Bretagna, con la richiesta di esose riparazioni dei «danni di guerra» non si sa se per punire una Germania imperiale (responsabile quanto loro della prima guerra mondiale) che comunque non esisteva più, o per rallentare l´evoluzione istituzionale della repubblica tedesca verso un inedito modello di democrazia progressiva e socialmente più giusta. Almeno settecentomila tedeschi morirono di fame e di stenti in quegli anni. La seconda crisi, proveniente dal crollo di Wall Street del 1929, investì la ancora debole razionalizzazione industriale, finanziaria e commerciale cominciata cinque anni prima grazie al Piano Dawes, cioè grazie ai dollari di società e banche statunitensi.
Nel primo caso, il capitalismo tedesco si riprese dall´inflazione grazie alle strategie monetarie del banchiere Hjalmar Schacht (che rivalutò il marco strappandolo all´abisso in cui era caduto nel l923, quando un pezzo di pane costava miliardi), alla fiducia da lui cercata nei circoli finanziari inglesi e ai crediti del Piano Dawes, ma gli imprenditori si impegnarono, in cambio, a evitare lo svolgimento della democrazia tedesca verso uno «Stato sociale» ante litteram. Fu la prima grande difficoltà creata al partito socialdemocratico al governo e alla sua guida teorica, l´economista marxista Rudolf Hilferding.
Nel secondo caso, l´avvento del nazismo distrusse le basi istituzionali e formali della repubblica, anche se, è necessario ripeterlo, Hitler giunse al potere nel rispetto delle forme weimariane. E non si trattava comunque di «forme vuote», come le statue colossali della decadenza imperiale romana, e come fece credere il giornale conservatore inglese Times (ecco una prova dell´immagine negativa che dà l´instabilità della democrazia) che salutò nel governo di Hitler, che aveva la maggioranza al Reichstag, «il ritorno a un corretto sistema parlamentare».
Paradosso per paradosso, si può ben dire infatti che la repubblica di Weimar finì idealmente per mano di coloro che avrebbero dovuto sostenerla, i liberali, i cattolici del «Centro» anzitutto e che invece si piegarono al grande capitale e al populismo revanscista del nazismo che sigillò il tutto. In questo quadro (a parte l´utopia rivoluzionaria dei comunisti) resta ovviamente aperto il problema del ruolo giocato dal partito socialdemocratico tedesco al quale Rudolf Hilferding avrebbe voluto invece, tra difficoltà e incomprensioni, affidare il compito di preparare una pianificazione generale dell´economia capitalistica nell´ambito però degli istituti della democrazia; una prospettiva di lungo periodo che fu avversata, tra gli altri. anche dagli interessi corporativi e di breve periodo dei sindacati.
Il punto di non ritorno non fu soltanto il 1933; la data esatta sarebbe il 1930, quando fu eletto cancelliere il cattolico liberale Heinrich Bruning. Il suo metodo di governo fu accusato di presidenzialismo, di abuso di decreti legge e di scarsa convinzione sul ruolo dei partiti dentro le istituzioni. In verità il governo Bruning (al quale comunque non parteciparono i socialdemocratici) fu l´ultima carta giocata dalla repubblica per salvarsi dalla Destra, dei nazionalsocialisti, dai comunisti e dalla crisi importata dall´America.
Penso che i due anni del governo Bruning siano stati la chiave di volta politica dell´indebolimento «involontario» della democrazia di Weimar. Bruning governò la crisi economica adottando gli strumenti della deflazione (controllo dei prezzi, riduzioni dei salari, intervento sul mercato) puntando su un efficiente presidenzialismo e rafforzando il potere esecutivo, ma con un obiettivo positivo e preciso: bloccare il nazionalsocialismo (era stato deciso lo scioglimento delle formazioni paramilitari naziste, ma anche comuniste), affrontare la depressione economica con iniziative e controlli pubblici (come di lì a poco farà Roosevelt con il New Deal in America); fermare la pressione francese e inglese sulle riparazioni dei danni di guerra (si trattava di decine di milioni di marchi-oro che la Germania avrebbe dovuto pagare fino al 1952). Dai paesi vincitori era stata concessa, per la verità, una moratoria sulle rate dei pagamenti, ma in quel momento drammatico per l´economia tedesca (i disoccupati erano sei milioni) erano indispensabili, appunto, atti democratici fortemente impegnativi: una politica di controllo deflattivo dei prezzi contro gli speculatori, l´aumento delle tasse ai più abbienti, «piani di lavoro» per la disoccupazione; intervento diretto dello Stato sulla produzione industriale. Erano strategie, discusse o criticate anche nell´ambito dei sindacati e del partito socialdemocratico, ma la Destra e i comunisti attaccarono frontalmente e duramente Bruning che nel maggio 1932 diede le dimissioni. Fu sostituito, dopo un tentativo pacificatore del generale von Schleicher da un cattolico più gradito ai conservatori, Franz von Papen. Ed ecco infatti la sua prima dichiarazione in Parlamento: «Il governo ha di mira il ritorno ai principi dell´economia di mercato».
Come si vede, ho parlato della crisi finale della repubblica di Weimar più che della sua storia. Nella quale vi furono forme e momenti felici, divertenti, meno drammatici di quanto non sembri. Di questi aspetti si occupa tra l´altro la ricerca, citata all´inizio, di Eric D. Weitz, che disegna la cultura di Weimar e immette il lettore nei luoghi e nelle atmosfere dove le arti figurative, il cinema, le architetture, la letteratura, la musica, i Kabarett sprigionavano i linguaggi delle avanguardie, della sperimentazione, dell´inconsueto. Il cuore è Berlino, la città che pare rinnovata con la felicità e la leggerezza di Parigi e di Londra. Il capitolo «Camminando per la città» (comincia con «Weimar era Berlino; Berlino Weimar») è proprio il racconto affascinante di una città dove tutto ha il segno della vitalità. È il momento in cui i berlinesi scoprono il Jazz. La musica negra e americana che spezza convenzioni e schemi tradizionali e senza la quale, dice Weitz, nè Kurt Weill né Brecht avrebbero imposto il loro stile agli spettacoli che li resero famosi. La Weimar raccontata da Weitz è anche il teatro della liberazione della donna tedesca. Il capitolo molto suggestivo «Corpi e sesso» spiega bene, ad esempio, la scoperta della sessualità disinibita che è simmetrica della modernizzazione accelerata, tecnologica, socializzata che la società di massa comincia a gustare per tutti gli anni Venti. Il cinema, i dischi, la moda sportiva, la fotografia, gli oggetti «Novecento», l´intraprendenza femminile, il nudo e la purezza della bellezza (peccato che Weitz non ricordi il contributo che, prima del nazismo, a questa immagine della figura umana come dei paesaggi naturali diede l´attrice e regista Leni Riefenstahl) sono nel libro di Weitz i contrappunti di una analisi storica e di un giudizio politico e morale sulla repubblica di Weimar assolutamente condivisibili. Tornano alla ribalta la rivoluzione architettonica di Gropius, Mendelsohn, Bruno Taut, le analisi filosofiche di Heidegger, Kracauer, Bloch, i pittori e i registi cinematografici dell´Espressionismo, i romanzi e i presagi di Junger, Joseph Roth, Benjamin. .. Insomma, l´Utopia di cui parla il titolo del libro. Un «tempo moderno» che la tragedia del l933 farà sparire dalla Germania ma che continuerà a vivere altrove, soprattutto negli Stati Uniti; un mondo che il racconto di Weitz restituisce alle verità relative e immodificabili di una storia del Novecento.

Repubblica 23.12.08
Un convegno sui disegni ritrovati
Il regalo di Leonardo da Vinci
di Cesare De Seta


Il Museo del Louvre ha avviato con il suo centro di ricerca e restauro una sistematica indagine sulle opere di Leonardo da Vinci: si cominciò nel 2004 quando fu ricollocata in una nuova teca e in un rinnovato allestimento la Gioconda. Proseguendo nel lavoro con la Vergine, il bambino Gesù e sant´Anna, dipinta sul legno, un conservatore si è accorto che sul retro si vedeva chiaramente una testa di cavallo e un cranio disegnato a metà.
Una tale eccezionale rivelazione ha galvanizzato i restauratori, i quali - con le tecniche più avanzate - hanno scoperto anche l´esistenza di un disegno di Gesù adolescente con un agnello. I disegni sono tracciati a carboncino sulla base di pioppo, l´uso di una riflettografia a raggi infrarossi ha consentito di riconoscere assai meglio quello che a occhi nudi si scorge. La testa del cavallo che si legge anche senza le attrezzature sofisticate è di 18 centimetri di altezza per 10 di larghezza: ed essa evoca i cavalli nel disegno per la distrutta Battaglia di Anghiari; il mezzo cranio con la cavità orbitale, un frammento della cavità nasale e mezza mascella con denti misura 16,5 cm per 10 cm.
La terza immagine è la più dilavata dal tempo e ad occhio nudo è praticamente illeggibile: un giovane Gesù con la testa girata verso destra che gioca con un agnello. Definire la scoperta eccezionale non è un´esagerazione, perché disegni di tal tipo sul retro di un´opera sono assai rari e nessuno se ne conosce di Leonardo. Con la cautela del caso il Louvre annuncia un convegno per giugno: i disegni, siano essi o non autografi di Leonardo, sono di una straordinaria fattura. Dunque, con la buona pace di Dan Brown, il genio di Vinci ci ha forse lanciato un messaggio, fatto un dono: largesse, dicono i francesi.

Corriere della Sera 23.12.08
Ordine pubblico L'ipotesi di composti colorati per riconoscere i facinorosi
Basta lacrimogeni pericolosi La polizia lancerà bombe d'acqua
Decisione di Manganelli in vista del G8 alla Maddalena
di Dino Martirano


Una commissione tecnica studierà le alternative entro gennaio. Candelotti subito vietati all'interno degli stadi
ROMA — Dopo quaranta anni di onorato e talvolta contestato servizio, la polizia ha deciso di mandare in pensione i candelotti di gas lacrimogeno (orto-cloro- benzal malonitrile) utilizzati per disperdere le manifestazioni di piazza non autorizzate e per respingere gli attacchi degli ultrà fuori e dentro gli stadi. Così, anche in vista del prossimo G8 che si terrà in Sardegna sull'isola della Maddalena, già nel 2009 le forze di polizia torneranno a dotarsi dei vecchi idranti (a getto) e inaugureranno moderni lanciatori d'acqua (a pioggia) che applicano il principio mai tramontato della catapulta. Per disperdere una folla potenzialmente minacciosa, dunque, i reparti mobili ristabilirebbero l'ordine pubblico facendo cadere dal cielo bombe d'acqua (da un chilo, ma anche da 5 e 10 chili) addizionate col più classico dei composti aromatici, l'anilina che tinge di rosso e rende riconoscibili i più facinorosi, e magari con una componente urticante al peperoncino che provoca bruciore agli occhi, alle narici e alla bocca senza, assicurano gli esperti, gli effetti tossici causati dal gas.
«I gas lacrimogeni coinvolgono anche chi non c'entra niente, provocando tra l'altro un effetto-guerra. E, a volte, possono essere addirittura controproducenti per le forze di polizia». Partendo da queste considerazioni, il capo della polizia Antonio Manganelli ha dato mandato al prefetto Oscar Fioriolli di individuare una soluzione alternativa entro il 31 gennaio. La commissione tecnica guidata da Fioriolli — che è responsabile di tutta la formazione della polizia e quindi anche del nuovo istituto superiore per l'ordine pubblico — presto dovrebbe fornire soluzioni già sperimentate sul campo, pronte poi per essere messe a punto in vista del G8 della Maddalena: «Il primo senza lacrimogeni», commentano al Viminale.
In occasione del G8 di Genova, quando furono sparati ben 6.200 candelotti con gas lacrimogeno, vennero utilizzati anche gli idranti della Forestale a difesa della zona rossa: il getto d'acqua, però, una volta intercettato dalle inferriate diventava una pioggerellina. Ecco allora che, sull'esempio di altri Paesi della Ue, il Viminale si sta orientando sui lanciatori d'acqua. Tutta da mettere a punto, comunque, la nuova tecnica di ordine pubblico negli stadi: di sicuro i gas lacrimogeni non verranno più utilizzati negli impianti, all'interno dei quali provocano gravi problemi soprattutto agli spettatori pacifici non coinvolti nei disordini. Il nuovo corso sull'ordine pubblico, basato sull'affinamento delle tecniche di intervento e sulla formazione, ha permesso al ministro dell'Interno Roberto Maroni di presentare alla conferenza stampa di fine anno un quadro meno drammatico sulla violenza negli stadi: rispetto al 2007, sono diminuiti gli incontri con feriti (meno 25%), i feriti tra le forze di polizia (meno 40%) e le persone arrestate (meno 57%).
A questo va aggiunto un minor impiego di personale di rinforzo (meno 23%) che è stato utilizzato in altri servizi. Il ministro Maroni ha annunciato che entro la fine dei campionati in corso tutte le squadre di serie A e B dovranno distribuire la «tessera del tifoso» per certificare quelli «con la T maiuscola, distinguendoli dai teppisti».
«Non vogliamo — ha spiegato il responsabile dell'Interno — chiudere gli stadi come ha detto troppo frettolosamente qualche presidente di società di calcio. Noi però dobbiamo garantire la sicurezza, non i bilanci delle società che devono investire sulla tessera del tifoso per avere stadi pieni e sicuri».

Corriere della Sera 23.12.08
Lo studio di María José Vega
Quando i mostri sono profezie
di Nuccio Ordine


Quando si parla di «mostri», nel linguaggio comune, è sempre necessario ricorrere ai contesti. Si tratta di un termine che conserva una straordinaria ambiguità. Può indicare, nello stesso tempo, una persona che si distingue per eccezionali qualità negative («è uno spietato mostro») o positive («è un mostro sacro»). Un'ambivalenza che caratterizza l'essere mostruoso (umano, animale o misto) nella gran parte della letteratura occidentale. Nella cultura rinascimentale, in particolare, nasce un profondo interesse per la teratologia, disciplina che si occupa «di cose mostruose o incredibili ». Nel Cinquecento, infatti, abbiamo una vera e propria esplosione di libri di prodigi, di cataloghi, di storie di mostri, di fatti ed eventi straordinari. Perché, come la radice etimologica conferma, un monstrum vuole innanzitutto
monstrare.
Cosa può significare, per esempio, il ritrovamento di due strani e spaventosi mostri? Il primo (con testa d'asino, seno di donna, squame di pesce, coda con capo di rapace) segnalato nel 1496 a Roma lungo le rive del Tevere, vicino a Castel Sant'Angelo. E il secondo (un vitello completamente deforme) nato a Friburgo l'8 dicembre del 1522. Per Lutero e Melantone, senza dubbio alcuno, si tratta di due prodigi attraverso cui Dio ha voluto mostrare la mostruosità del papato e del monacato: l'asinus pontificius,
infatti, si manifesta a due passi dalla residenza papale, mentre il vitulomonachus si presenta con tutte le caratteristiche somatiche di un monaco. Corredato da eloquenti immagini e da dotte citazioni scritturali, il satirico pamphlet diventa nel 1523 uno straordinario strumento di propaganda politica e religiosa della Riforma.
Alla fine degli anni Settanta, già Jean Céard propose una prima fondamentale analisi del dibattito sui mostri nella letteratura classica e rinascimentale nel suo insuperato lavoro La natura e i prodigi (Droz 1996). Adesso María José Vega — brillante studiosa spagnola del Rinascimento europeo — in Mostri e prodigi all'epoca della Riforma (Salerno editrice, pp. 152, e
11) ha circoscritto la sua indagine a una documentata rassegna di questo genere letterario nello specifico ambito delle querelles religiose. I mostri non sono soltanto deviazioni del corso della natura: la loro presenza può essere interpretata come un «segno» di qualcosa che si manifesterà nel futuro, come espressione della volontà divina. Ma a differenza dei testi profetici, che riguardano solo pochi eletti, i prodigi (veri o inventati) vanno considerati come profezie «vive» che si impongono all'attenzione di tutti in maniera eclatante.
Pagine che dovrebbero far riflettere in un momento in cui profeti e profezie hanno di nuovo la pretesa di anticipare per noi il futuro.

il Riformista 23.12.08
La grande paura di Roma. Subbuglio in Campidoglio
Romolo e Romeo
Allarme rosso nella capitale. In attesa dell'onda lunga dello tsunami napoletano, la Regione di sinistra tira fuori gli scheletri di Storace e il Comune di destra cerca quelli di Veltroni
di Alessandro Calvi


Non si ferma l'inchiesta napoletana sul gruppo Romeo. E spuntano nuovi particolari imbarazzanti: biglietti gratis, favori, raccomandazioni. Nel frattempo la capitale trema.
Roma sembra infatti il modello al quale a Napoli si guardava. Per questo si attende con ansia di capire come si muoverà la procura capitolina. Ma già alcuni magistrati sono al lavoro.
La Regione guidata da Marrazzo ha infatti chiesto che sia fatta chiarezza sulla vendita del patrimonio immobiliare delle Asl ai tempi della giunta di centrodestra. E in Campidoglio si passa al setaccio la gestione del patrimonio immobiliare comunale ai tempi di Veltroni.
E, mentre tutti chiedono commissioni d'inchiesta, oggi il Pd romano farà il punto con una conferenza stampa.

POLEMICA. Continuano a rimbalzare le voci sull'approdo nella Capitale dell'inchiesta napoletana. I poli si rinfacciano le responsabilità.

roma bucata. Non è la scena di un film. Un camion inghiottito da una voragine apertasi nella strada. Un´immagine inconsueta, che ieri purtroppo si è presentata nei pressi del Vaticano, via della Stazione di San Pietro.

«No al maxiappalto». Firmato: «Romolo e Remo (no Romeo)». Gianni Alemanno era da poco diventato sindaco di Roma, battendo Francesco Rutelli e prendendosi la poltrona occupata fino a pochi giorni prima da Walter Veltroni. E i muri di Roma vengono coperti da manifesti anonimi. Il testo - su fondo nero - è apparso ai romani piuttosto enigmatico. Non agli addetti ai lavori.
Allora, l'inchiesta sugli affari di Alfredo Romeo era di là da finire sui giornali. Ma qualcuno quella storia la conosceva bene. E forse in quel modo ha voluto lanciare un segnale a chi era in grado di comprenderlo. Oggi, invece, quella storia riempie le pagine dei giornali e produce una certa preoccupazione nel Pd. E intanto, mentre nella capitale si cerca di capire conseguenze avrà l'inchiesta napoletana, i magistrati sono al lavoro in procura e alla Corte dei Conti. Lo scontro a Roma si è concentrato sui patrimoni immobiliari di Campidoglio e Regione. E il nome di Romeo, in un modo o nell'altro, compare sempre.
«Le carte sono già in procura, le hanno portate i dirigenti generali delle Asl con il mio sostegno». Così, ieri, Piero Marrazzo raccontava come sulla gestione della vendita degli immobili delle Asl romane si sia appuntata l'attenzione della magistratura e della stessa amministrazione che. già dalla scorsa primavera, ha chiesto chiarezza su una operazione che presenterebbe alcuni punti poco chiari. Si tratta di 926 immobili di pregio, dei quali 850 furono rogitati tra il 2003 e il 2004 dalla Bnl che si sarebbe avvalsa della Romeo per trovare gli acquirenti. La rendita fu di 231.161.846 euro. «Patrimonio sottostimato», ha detto Marrazzo. E non solo. Sarebbe stato affidato dalla Bnl alla Gepra Lazio, una società con sede a Dublino della quale divenne titolare successivamente la Aib Worthytrust Limited. «Mi domando - ha detto Marrazzo - perchè si sia andati a Dublino e perché le quote del veicolo siano finite nel Bagliato del Jersey, paradiso fiscale della Manica». E c'è anche chi chiede una inchiesta amministrativa come Alessio D'Amato, consigliere reginale Pd.
All'epoca, ricorda D'Amato, alla guida della Regione c'era Francesco Storace che, nei giorni scorsi, aveva chiesto a sua volta una commissione d'inchiesta sui rapporti tra Romeo e Campidoglio. Ma anche il Campidoglio vorrebbe vederci chiaro nella gestione del proprio patrimonio immobiliare del quale Romeo si occupa dal 1997, da quando vinse l'appalto bandito dalla giunta Rutelli, che fu rinnovato nel 2005, in era Veltroni. L'assessore al Patrimonio, Alfredo Antoniozzi, infatti, sta facendo passare tutto al setaccio ma Claudio Minelli, suo predecessore, non sembra preoccupato. Non esclude possano essere stati commessi degli errori ma rivendica il lavoro svolto. «Stiamo parlando di situazioni difficili, complesse», dice. «Parliamo - aggiunge - della riscossione del canone delle case popolari, una questione socialmente pesante». E spiega che quell'appalto «servì a mettere ordine e a dare una struttura più solida al meccanismo di riscossione».
Il clima in città è pesante. Roma sembra il modello al quale si guardava a Napoli. E a Roma sembra ci si aspetti che da un momento all'altro accada qualcosa. Nel frattempo, il sindaco Alemanno garantisce piena collaborazione con i magistrati che indagano sugli appalti affidati al gruppo Romeo. E Dagospia ieri ha pubblicato poche righe che non sono passate inosservate. «Caso Romeo: fu Caltagirone a "ordinare" ad Alemanno di annullare il contratto da 700 milioni». «Si avvisano i signori naviganti che Francesco Gaetano Caltagirone è assolutamente tranquillo sulla vicenda del maxiappalto capitolino all'imprenditore Romeo», l'incipit del breve testo.
Ma è nel Pd che l'aria è più pesante. Oggi i protagonisti della scorsa stagione amministrativa faranno il punto nel corso di una conferenza stampa. Ci saranno i vertici del Pd, con in testa Roberto Morassut, assessore a Roma con Veltroni. E ci saranno anche altri componenti di quella giunta, a partire da Marco Causi - era al Bilancio - che sul maxiappalto stradale nei giorni scorsi ha fatto una mezza marcia indietro, tanto che il Corriere della Sera di sabato scorso scriveva: «Il Pd romano e il caso Romeo. Causi: "Abbiamo sbagliato"». Tutti oggi siedono in Parlamento, al riparo dalle inchieste grazie alla immunità.
Discorso diverso per Minelli e per un altro protagonista di quella stagione: Giancarlo D'Alessandro, ex assessore ai Lavori pubblici. Dalemiano, i suoi rapporti con Veltroni sono andati a fasi alterne. Forse qualcuno non gli perdonava quel marchio o forse una certa autonomia rispetto al sindaco. Quando Goffredo Bettini si schierò con Veltroni, tutto sembrò ricomporsi. Di certo, però, quando si trattò di fare le liste per le politiche, il suo nome non era tra quelli che poi avrebbero fatto il salto dalla giunta alla Camera. Da anni si occupava anche di Europa. Il seggio a Bruxelles potrebbe essere un risarcimento politico.
Ma a quel seggio potrebbero guardare anche altri. Goffredo Bettini, ad esempio, l'inventore del modello romano, al quale, forse, a questo punto l'idea di volare in Europa non dispiace affatto.

il Riformista 23.12.08
L'alba tragica in cui morì Messina
di Fabrizio d'Esposito


28 DICEMBRE 1908. L'Apocalisse arrivò di lunedì. Al teatro della città davano l'Aida di Verdi. Trenta secondi esatti. Alle cinque e ventuno minuti del 28 dicembre. I sopravvissuti giurano che il boato, cupo e infinito, fu accompagnato da una luce abbagliante.

Messina, 28 dicembre 1908. L'altra sera, ultima domenica di questo 1908, pioveva a Messina. Al Vittorio Emanuele, il teatro della città sullo stretto, davano l'Aida di Giuseppe Verdi. L'Apocalisse è arrivata all'alba di lunedì. Trenta secondi esatti. Alle cinque e ventuno minuti del 28 dicembre. Qualche sopravvissuto giura che il boato, cupo e assordante e infinito, è stato accompagnato da una luce abbagliante. Quasi un'aurora boreale. Fino a domenica scorsa, Messina aveva centocinquantamila abitanti, compresi i villaggi del circondario. Quanti sono oggi? I superstiti si aggirano tra le macerie piangendo e scavando con le mani. Voci raccolte nel caos di queste ore parlano di sessantamila vittime. Addirittura centomila. In una sola parola: terremoto. Una catastrofe. Vista dal mare, Messina non esiste più. Un'enorme nuvola bianca di polvere arrossata dai bagliori dei primi incendi. Alla Marina, la famosa Palazzata è ridotta a un cumulo di detriti. L'Assunta, patrona della città, non ha potuto nulla contro la natura. Unde malum? Da dove viene il male?
L'unica casa rimasta in piedi è in viale San Martino, nel centro della città. Il proprietario, un medico che si chiama Vincenzo Cammareri, l'ha fatta costruire a due piani dopo i terremoti del decennio scorso. Qui la terra trema da secoli. L'ultimo disastroso sisma fu nel 1783. Messina venne ricostruita dai Borboni. L'epicentro è stato sul fondo dello stretto. Un'ellisse dall'asse maggiore di quaranta chilometri. Una voragine lungo il trentottesimo parallelo, lo stesso del terremoto di San Francisco di due anni fa. Sette virgola due gradi della scala Richter. Davanti a Taormina, poi, una frana sottomarina ha provocato lo tsunami. Le onde hanno viaggiato a cento chilometri all'ora e sono arrivate sulla costa dieci minuti dopo la scossa delle cinque e ventuno. Le più tremende sono state tre, che si sono abbattute sulla terraferma a partire da un'altezza di dieci metri. Tra le due sponde dello stretto, tra Messina e Reggio Calabria, non ci sono più luci. Ecco che cosa racconta il comandante Falkenburg del traghetto Calabria, in mare al momento del boato con trecento passeggeri a bordo: «Il terremoto è arrivato con un fragore cupo, prolungato, che sembra venire dalle profondità del mare e mi inchioda al mio posto; poi, prima che io avessi potuto fermare l'attenzione sul fenomeno insolito, sento il Calabria colare a picco, con rapidità spaventosa, mentre un urlo di terrore si levava dai passeggeri che erano sul ponte e nei saloni di prima e seconda classe. Distinguo nettamente, illuminate dai bagliori fuggevoli dei fari di bordo, due muraglie di acqua scavare un baratro in cui il Calabria s'inabissa. Poi, con la stessa fulminea rapidità, si risale alla superficie; lunghissime ondulazioni imprimono al ferry boat un impressionante movimento di beccheggio. Ed ecco spegnersi successivamente sulle due rive i lumi di Villa, di Reggio, di Messina».
A Roma, sul continente, il presidente del Consiglio Giovanni Giolitti è al lavoro a Palazzo Braschi, sede del governo, dopo la pausa natalizia. Dalle prefetture di Catanzaro, Palermo e Catania arrivano telegrammi che informano di scosse di terremoto, ma senza troppi danni. Silenzio, invece, da Messina e da Reggio Calabria. Giolitti rimane freddo, non si scompone. I terremoti nel Mezzogiorno sono la normalità. Il premier liberale si irrita pure quando gli portano il testo di un messaggio spedito da un paesino calabrese, Martirano: «Violentissima scossa terremoto stamane che ha finito rovinare gli ultimi ruderi avanzati flagello 1905. Ha gittato nel massimo sconforto panico popolazione la quale fra tanto lusso di leggi non ancora per indolenza burocratica italiana può vederne attuata alcuna suo profitto». La risposta di Giolitti, che è anche ministro dell'Interno, è indirizzata al prefetto di Catanzaro: «Voglia Vostra Signoria rivolgere sindaco Martirano severo richiamo per telegramma sconveniente da lui diretto questo ministero e vedere se sia il caso di adottare rigorose misure».
Alle tre e mezza del pomeriggio, però, da Siracusa arriva un telegramma di due sole parole: «Messina distrutta». Lo firma Antonio Barreca. Il terremoto lo ha colto sul diretto Messina-Siracusa. Barreca è un ambulantista postale. Per tre ore a piedi va alla ricerca di un telegrafo funzionante. Lo trova alla stazione di Scaletta. Da lì trasmette a Riposto che inoltra a Siracusa. «Messina distrutta». Ma a Roma nessuno gli crede. Due ore dopo, alle cinque e mezza, dalla torpediniera Spica, che dalle acque di Messina si sposta a Marina di Nicotera, viene trasmesso un altro inquietante messaggio: «Ore 5.20 terremoto distrusse buona parte Messina - Giudico morti molte centinaia - case crollate sgombro macerie insufficienti mezzi locali - urgono soccorsi per sgombro vettovagliamento assistenza feriti - ogni aiuto sarà insufficiente. Belleni». Belleni è un militare. Nel porto di Messina si trovano alcuni navi della Marina italiana. Ma la maggior parte degli equipaggi è in licenza per Natale. A Palazzo Braschi, pur di non credere al terremoto, si paventa un attacco dell'Austria, alleato diffidente. I giornalisti iniziano a radunarsi. Aspettano Giolitti. Il premier si concede malvolentieri: «Non è possibile! Abbiate pazienza! Attendete prima di diffondere la notizia, qualcuno ha confuso la distruzione di qualche casa con la fine del mondo». Per fortuna, nel porto di Messina ci sono i russi e gli inglesi.
Stamattina, alle sette, i primi a sbarcare nella città distrutta sono stati i marinai della flotta imperiale zarista. Due le corazzate nel porto: la Cesarevic e la Slava. I marinai russi si sono divisi in gruppi. Scavano per ore e ore. Si cercano i sepolti vivi. Si dà da mangiare e da bere ai superstiti che si aggirano coperti solo da cenci insanguinati. Si iniziano ad imbarcare i profughi. Poi arrivano gli inglesi. Di soldati italiani nemmeno l'ombra. Su Messina aleggia un gigantesco odore della morte. Una puzza insopportabile. A vista si spara su cani, gatti e sciacalli umani che rovistano tra le macerie alla ricerca di cadaveri e soldi. Messina è una necropoli senza fine.
Messina 29 dicembre. I nostri sono arrivati, finalmente. Un giorno di ritardo rispetto alle flotte di russi e inglesi. Una donna con il capo bendato se la prende con una pattuglia del Regio Esercito: «Ora venite? Ora che il terremoto è finito?». Una squadra di soccorso intercetta un'altra voce femminile. Stavolta proveniente da una montagna di travi e mattoni. Ci sono anche dei vicini di casa. Dicono ai soldati che la donna si chiama Virginia Ceraolo. «Virginia, mi senti?». «Sissignore». «Dove sei? Sei ferita?». «Sono sana, sono sotto al letto». «Hai fame?». «Nossignore, ho sete!». Per tirare fuori la donna ci sono volute dodici ore di scavo. Alla fine quando è stata estratta dalle macerie si è scoperto che si chiama Giovannina Scarfì e non Virginia Ceraolo. Ha finto di essere quest'ultima per essere sicura di essere salvata. Tra gli italiani, c'è un ufficiale che cercano tutti. È un tenente piemontese di nome Lubatti. Ha un udito incredibile. Gira di notte e di giorno, appoggia l'orecchio ai detriti e non sbaglia mai. Lubatti è il rabdomante dei gemiti. Trenta persone sono vive grazie a lui.
Nell'Isola ci sono circa duecento persone. Urlano per le scosse di assestamento. Si avviano verso il mare. Qui chiamano l'Isola la zona tra via Garibaldi, via Fossata, via San Liberale e piazza Vittorio Emanuele. Il mare è nella direzione della piazza. Il maremoto ha coperto tutto d'acqua. La Palazzata è diventata una serie sinistra di monconi inguardabili. I superstiti hanno fame. Si arrangiano con baccalà crudo e le riserve di fichi secchi, messi da parte per l'inverno. Un giovane medico, il dottor Rossi, che ha salvato mamma e sorella dalle macerie adesso si dà da fare per gli altri. Scopre che l'ospedale civico, quello militare e il pronto soccorso della Croce rossa sono stati rasi al suolo. Verso il municipio c'è un uomo che grida per attirare l'attenzione. Sembra un ossesso. È Ludovico Fulci, già deputato a Roma. «Dottore, salvi mio fratello! Salvi mio fratello». Nicolò Fulci, fratello di Ludovico, è stato sottosegretario alle Poste con il governo Zanardelli. I Fulci sono giolittiani. La famiglia politicamente più influente di Messina. Per salvare Nicolò Fulci arrivano anche i soldati. Ma inutilmente. Del giovane, ma già famoso professore socialista, Gaetano Salvemini non si hanno invece notizie. La moglie e quattro figli sono sepolti sotto le macerie della loro casa. Ma lui non si trova. Si pensa sia morto. Dal partito, a firma di Benito Mussolini, è già arrivato un messaggio di cordoglio.
I soldati italiani sono al comando del generale Francesco Mazza. Ha 67 anni. Per i messinesi è subito diventato un bersaglio e un modo di dire. «Non capire una mazza». Il generale si è rintanato a bordo di un piroscafo e sinora non ha mai messo piede sulla terraferma. La mattina si alza alle nove e impiega quaranta minuti per sorbire una tazza di cioccolato. Poi due ore per la colazione e altre due per il pranzo. Poi ancora fuma e finalmente comunica con Giolitti. Mazza è l'emblema della reazione lenta, burocratica dello Stato. Nelle riunioni coi sottoposti si discute sul rispetto ottuso della catena di comando degli ordini. E la priorità è sorvegliare i tesori sepolti delle banche crollate. Oppure gli ori dei nobili. La scelta è tra la borsa e la vita. Dalle campagne circostanti si è riversata su Messina una folla di disperati. Sono contadini ma anche ladri. Per non parlare dei detenuti superstiti che in gruppo si dedicano al saccheggio, in qualche caso tranciando orecchie di donna per accaparrarsi i monili che ancora pendono. Due soldati russi ne hanno presi due, di ladri. Sul posto c'è il cadavere di una donna mutilata da poco. I due sciacalli vengono portati dinnanzi a un ufficiale, che dalla tasca prende la pistola d'ordinanza. Adesso i ladri sono mantenuti da quattro militari zaristi. L'ufficiale pronuncia tre parole in italiano, accentandole curiosamente alla francese: «Ladrò condannatò a mortè». E il rumore di due spari, uno dopo l'altro, si perde nell'aria immobile della città fantasma.
Nel frattempo continuano le scosse di assestamento. I superstiti vivono in preda al terrore. Hanno paura che ne arrivi un'altra devastante. Ma non c'è quasi più nulla che possa crollare. Messina sembra una città persa per sempre. Ci sarà mai la ricostruzione? O sarà meglio bombardarla dal mare per distruggerla completamente e farla risorgere altrove? Tra i vivi rimasti, in molti si vergognano di chiedere l'elemosina. Un professore ebreo, Dino Provenzal è riuscito a salvarsi. Dormiva, come tutti la scorsa notte. A chi lo avvicina racconta: «Vidi aprirsi metà del soffitto, scorsi un cielo pieno di stelle, udii distintamente il tic tac della sveglia e corsi dietro a mia moglie che si era slanciata verso la stanza della donna di servizio per cercarvi dei fiammiferi. Camminavo lentamente, un po' perché non so correre a piedi nudi, un po' perché non avendo gli occhiali non vedevo bene dove andavo e un po' anche perché il pavimento mi tremava sotto i piedi. Giunto sulla soglia della stanza della donna, mi fermai in ascolto perché, non vedendo più mia moglie, pensavo fosse andata da un'altra parte per raggiungere le scale: in mezzo a mille urli e gemiti umani, al frastuono dei tegoli che cadevano, a rumori d'ogni genere, udii la voce che mi parve lontanissima di mia moglie: "Non venire: qui si precipita. Sono caduta quaggiù, ma non sono ferita"». Il professore Provenzal asserisce anche di aver visto una strana luce illuminare tutti gli oggetti della sua camera. Nonostante fosse buio. Un bagliore come l'aurora boreale. I colori dell'Apocalisse. Prima il boato assordante poi il fracasso dello tsunami. Il terremoto ha distrutto Messina.
(1. continua)

il manifesto 23.12.08
PRC Ferrero ottiene un mandato esplorativo per cedere il giornale salvando organico e legame col partito. «Vendoliani» in rivolta
Sfiducia al cda, Liberazione in vendita: in pista l'editore del guru Fagioli
di Matteo Bartocci


Giornata convulsa è dire poco. A via del Policlinico, sede nazionale di Rifondazione, si consuma l'ennesimo show down tra maggioranza e minoranza «vendoliana» sulle spoglie di Liberazione, il giornale del partito diretto da Piero Sansonetti. Il segretario annuncia in direzione che si è fatto avanti per lettera un possibile compratore del giornale. Nomi Ferrero non ne fa, ma annuncia pubblicamente che l'acquirente si è impegnato ad avviare una trattativa mantenendo livelli occupazionali e legame politico con Rifondazione. L'operazione è molto ambiziosa, e tra i possibili imprenditori interessati il nome più accreditato è quello di Luca Bonaccorsi, editore di Left, pupillo del guru di Bertinotti Massimo Fagioli. Bonaccorsi, interpellato dal manifesto a tarda sera, non conferma né smentisce: «Dentro il Prc c'è una dialettica molto delicata in cui non voglio interferire. Soprattutto perché è una comunità politica alla quale sono molto legato. Certo è che sono un editore e non posso escludere il sogno di un grande giomale di sinistra». Il caso Left in questo caso potrebbe fornire spunti interessanti: prevede un doppio direttore, uno politico dedicato all'attualità (e alla vita del partito) e uno editoriaìe, che sì occupa soprattutto della cultura e dell'apertura verso l'esterno.
Certo è che la «comunità politica» Rifemdazione viene scossa da tre onde sismiche in un solo giorno. Prima l'annuncio della possibile vendita del giornale. Poi, poche ore dopo, il benservito del tesoriere Sergio Boccadutri al consiglio di amministrazione (a maggioram:a «vendoliana») che entro il 30 dicembre dovrà dimettersi per ìa sfiducia del partito-proprietario sul piano di rilancio del giornale. Infine, ultimo atto, la redazione di Liberazione che decide a stretta maggioranza di scioperare per la giornata di oggi a causa della «confusione» che regna tra editore, proprietà e direzione sul futuro del giornale. Tutto ciò proprio alla vigilia dell'apertura, prevista stamane, delle trattative al ministero del lavoro sulla crisi del giornale. Trattative che a questo punto slittano all'anno nuovo.
I fatti. La direzione, assenti i vendoliani per protesta, ha bocciato il piano di crisi stilato da cda e Sansonetti. L'obiettivo di 6.400-8mila copie viene giudicato irrealistico, così come l'aumento di prezzo nel week end e i tagli alla distribuzione e all'organico (attraverso prepensionamenti e scivoli, pesanti soprattutto per ì poligrafici, via in lO su 18). In sostanza, non sarebbe garantito il pareggio di bilancio entro il 2009 chiesto all'ultimo comitato politico.
Ma la partita è più politica che editoriale. I «vendoliani» già alla vigilia erano pronti a fare della sfiducia a Sansonetti il casus belli per l'uscita dal partito. Rina Gagliardi, ex senatrice ed ex vicedirettrice, minaccia addirittura le vie legali. «Del merito non gliene frega nulla, vogliono solo delegittimare l'attuale maggioranza», commenta Alberto Burgio, dirigente di Essere comunisti. L'annuncio della possibile «privatizzazione» li ha spiazzati e convinti comunque ad abbandonare i lavori.
Nei corridoi già si parla di un futuro giornale «popolare, proletario, molto sensibile alla crisi materiale dei lavoratori». E Ferrero respinge tutte le critiche: «Non posso trattare nell'ombra. Per questo, senza fare nomi a garanzia dei possibili acquirenti, ho comunque informato tutti della proposta. Con tutte le garanzie, la vendita è un'opportunità in più, non in meno, e se non la verificassi mi accuserebbero comunque di voler far fallire Liberazione. I fatti sono che noi abbiamo ripianato il buco del 2008 e ci preoccupiarno del giornale. Mi sembra invece che la minoranza voglia rovesciare il tavolo a ogni costo. Ormai è una cultura che non mi appartiene».

Repubblica Genova 23.12.08
Sanguineti e la festa più magra "Un abisso tra ricchi e poveri"
"Dagli studenti l'unica novità, la politica sempre più lontana dalla gente, la giunta Vincenzi non ha dato risposte a Genova"
di Wanda Valli


Il Natale del poeta, Edoardo Sanguineti, è un ricordo d´infanzia, il cielo del presepe dipinto dallo zio, è la conquista di uno sguardo laico con la fine del culto dei regali. E´ il timore dell´oggi, della crisi che sta dividendo di netto, come una forbice impietosa, la società in due grandi classi, i ricchi e gli altri. Con il lavoro sempre più a rischio e la sinistra che deve inventare una nuova opposizione, come hanno fatto gli studenti dell´Onda. È, anche, il Natale, un giorno di festa insieme con Luca, due anni ancora da compiere, l´ultimo nipote. E l´attesa della festa prediletta, il Capodanno.
Professor Sanguineti, ricordi di un Natale dell´infanzia?
«Ormai è un tempo lontano, credo di averlo festeggiato seguendo un´educazione tradizionale, con il presepe e non l´albero. Ho lasciato Genova a tre anni, dunque i miei Natali erano a Torino. Abitavamo in un palazzo che aveva due scale, in una, in un alloggio, stavamo noi, nell´altra la famiglia di mio zio. Lui, pittore dilettante piuttosto bravo, era uno specialista nel dipingere il fondale del presepe con i colori tipici del tramonto, e a me è rimasta impressa l´immagine di quel cielo rosso che stava alle spalle delle statuine, di tutto. Il Natale era un giorno di festa, per me bambino, poi, a poco a poco mi staccai dal presepe, dal culto dei regali, dall´arrivo del Bambin Gesù che li portava e, gradualmente, assunsi uno sguardo laico, capii che quello era un mondo da favola, anche attraente, ma inconsistente».
Il Natale 2008 come sarà?
«Eravamo abituati a un Natale di consumo, a una festa molto laicizzata dagli anni del boom economico del dopoguerra. Sembrava una situazione stabile, invece la crisi ha svelato che non è così. Quindi sarà il Natale delle mille previsioni, un Natale di svolta e tutti osservano e segnalano la divaricazione fortissima tra chi può permettersi ogni lusso, una minoranza molto forte, e la maggior parte delle persone che si ritrova a disagio».
Che cosa la preoccupa di più?
«Se è vero che la crisi è planetaria davvero, quello che segna, in negativo, il Natale e il nuovo anno, è la caduta dei posti di lavoro. Genova vive più o meno la stessa realtà dell´Italia perché se al sud ci sono meno posti di lavoro e la vita costa meno, al nord c´è più lavoro ma la vita più cara, è così dappertutto, è una situazione che abbraccia tutti i paesi progrediti dell´Europa e del mondo. Senza soffermarsi sui drammi di continenti come l´Africa».
A Genova, comunque, si festeggerà. O no?
«Vivremo un Natale cauto, vedo, per esempio, prenotazioni nei ristoranti, magari per la notte di Capodanno, a prezzi molto calcolati, per chi decide di concedersi questo come regalo, ma ripeto il pericolo più forte è il numero dei disoccupati o sottooccupati perché chi guida lo sviluppo cerca di ridurre enormemente i numeri del personale».
Genova ha tradizione di città accorta, attenta, anche nei momenti difficili. Aiuterà a affrontare incertezza e crisi?
«Appartiene alla tradizione della città il suo senso di cautela, di risparmio, da qui nasce la fama del genovese avaro che non è così, in realtà. Però, in generale, osservo la caccia alle tessere di povertà, è diventata quasi una corsa, mentre si prova a contenere i prezzi. E si torna allo stesso punto: una società spaccata in due».
Due sole classi, i ricchi e gli altri?
«C´è una divaricazione in due grandi categorie, chi può permettersi tutto, la minoranza, e gli altri. Non a caso si è tornati a rileggere Marx con attenzione, lui che già si rendeva conto del mondo globalizzato, e non è un caso se le diverse forme di gioco alla "Gratta e vinci" sono diventate un rifugio, un affidarsi alla sorte».
E´ il Natale della questione morale, per la sinistra.
«Sono in crisi le speranze riposte su una compattezza del Pd, ora devono ripensare da capo a come essere opposizione. L´unica, vera e forte, finora, è stata l´Onda degli studenti. Berlusconi segue la sua strada di politico seduttivo che punta al presidenzialismo, eppure sono convinto che la spaccatura tra il consenso e la realtà sarà forte»
Nella Genova delle istituzioni è cambiato, qualcosa?
«Le attese riposte nella signora sindaco sono rimaste tali, la svolta non è ancora avvenuta e vale un po´ per tutta la Liguria».
Professor Sanguineti, nessun regalo, nessuna festa per lei?
«Io sono sempre stato incline al Capodanno, da quando ero giovane, la sentivo come festa più laica, del resto noi siamo pagani tinti di cristianesimo».
Quindi un Natale come gli altri giorni?
«Ora abbiamo l´ultimo nipote, Luca, che si avvia verso i due anni, e per lui e con lui, sarà un giorno di festa».

Il Foglio 23.7.08 prima pagina
Falce e macello
Secondo il filosofo bertinottiano Fagioli, "Vendola e Ferrero non valgono neppure mezzo Fausto"
"Vendola è cattolico, dunque non può fare il segretario. Ferrero è valdese, ma è un fatto privato"
intervista di Salvatore Merlo


Roma. Il "professor" Massimo Fagioli parla lungo e denso. Il suo fraseggio è così affollato di dottrine che è difficile individuare il soggetto, il verbo e il predicato. Ma poi a una domanda sulla successione al trono di Rifondazione (domani il congresso) risponde chiaro: "Né Paolo Ferrero né Nichi Vendola valgono mezzo Bertinotti. Vendola poi è un'aporia vivente. È all'unisono cattolico, comunista e omosessuale. È mai possibile conciliare queste tre identità?". Pasolini lo faceva. "Ma non era candidato alla segreteria - dice Fagioli - Ferrero è rimasto ai tempi della svolta occhettiana, è incartato nel passato marxista leninista. Ridicolo". Dice così il professore, il settantenne psichiatra che da quattro anni mantiene un sodalizio intellettuale con Fausto Bertinotti. Qualcuno ("i cretini", dice lui) lo definisce il guru del subcomandante Fausto. "Fu nel 2004 - racconta al Foglio - che con Bertinotti ci ritrovammo nell'avviare la svolta non violenta" del partito. Un passaggio storico. Da allora l'ex presidente della Camera ha preso le distanze dalle violenze dei noglobal e ha emarginato Nunzio D'Erme, celebre per avere sparso letame davanti all'abitazione romana del Cav. Un rapporto, quello tra Fagioli e Bertinotti, difficile da decifrare. Abbastanza intenso da aver fatto storcere il naso a molti nel Prc e nella sinistra in genere. Epica la lite con Giulietto Chiesa, che abbandonò la rivista Left all'arrivo del professore, capo - diceva Chiesa - "di una setta". "Io offro una nuova strada da percorrere spiega Fagioli - dopo il fallimento del comunismo perseguo 'la realtà umana'". Mica poco. Un orizzonte che pare abbia ispirato anche l'ultima - non riuscitissima per la verità - svolta bertinottiana, il lancio di quella sinistra Arcobaleno poi naufragata lontano dal Parlamento. L'ultimo incontro tra i due è avvenuto lunedì scorso, quando Bertinotti ha presentato il sesto numero della rivista "Alternative" a un pubblico di così detti "fagiolini", il gruppo di persone (qualche centinaio) che quattro volte alla settimana in piazza San Cosimato, nel rione Trastevere, partecipa a mastodontiche sedute di analisi collettiva che Fagioli chiama "psicoterapia di folla", Cosa ha detto a Bertinotti? "Che il cardine della nuova sinistra non è più la classe operaia, ma sono gli immigrati. Questo è il terreno del nuovo scontro. Anche gli italiani in America, prima di diventare operai, erano immigrati".
Ma Bertinotti ha lasciato, si ritira per "dedicarsi alla ricerca - ha spiegato lunedì - alla teoria politica più che alla prassi". Una perdita insostituibile per Fagioli, a cui i giovani duellanti di Rifondazione, Ferrero e Vendola, non piacciono affatto. Specie Vendola. "Come si fa ad accettare che il segretario di Rifondazione sia un cattolico praticante? Si rischia una sindrome bipolare, dissociativa. La religione cattolica non è un fatto personale. Come scriveva l'altro giorno Ritanna Armeni su Liberazione: la realtà umana conta in politica. Vendola è cattolico e in quanto tale non può fare il segretario". Ma anche Ferrero è uomo religioso, è valdese. "Sì - dice Fagioli - ma essere valdesi è un fatto privato. La chiesa valdese non ha mai avuto influenze sulla politica e lo stato. Come farà invece Vendola a proseguire nel solco del pensiero laico tracciato in Europa da Zapatero su aborto, divorzio, fecondazione assistita ed eutanasia? Si iscriva al partito di Casini". Eppure Vendola si è spesso smarcato dal Vaticano ed è un libertario omosessuale. "È lo stesso discorso. La sessualità è un fatto privato, che si può coltivare all'interno di associazioni di scopo, ma non si può proporlo come identità politica. E poi cattolico e omosessuale sono in contraddizione - continua Fagioli - Non bisogna confondersi le idee, tanto più che noi ci proponiamo di cercare la realtà umana. Insomma chi è Nichi Vendola? Non si capisce". Sarà. Ma è il favorito e gode della stima di Bertinotti (e non solo).

Agenzia Radicale 23.12.08
Liberazione, il quotidiano di Rifondazione, è in vendita Il direttore Sansonetti: "Si fa fuori l'ultima cosa della sinistra del Prc"


Il segretario di Rifondazione Comunista annuncia alla direzione del partito l'intenzione di metter in vendita il quotidiano Liberazione, che un editore non indicato ha intenzione di acquistare. Per fare questo Paolo Ferrero ha portato la questione nell'organismo dirigente del Prc per ottenere il mandato a trattare. "Un editore ha manifestato interessamento... state tranquilli non è Berlusconi", cerca di alleggerire il clima Ferrero. Ma non vuole dire di più.
Che non sia una mera operazione di editoria commerciale è chiaro, sia perché si tratta di un quotidiano di partito, sia perché in Rifondazione, dopo l'ultimo congresso si sono venuti a delineare due schieramenti che hanno spaccato il partito in due. Tutti contro tutti, quando il segretario esprime il suo "no" al piano industriale di salvataggio del quotidiano che ha un rosso profondo di bilancio, è insomma a rischio fallimento.
Una carta a sorpresa - scrive Repubblica.it - che Ferrero ha messo sul tavolo di una direzione già segnata dalla guerra tra fazioni. Tutti contro tutti, quando il segretario esprime il suo "no" al piano industriale di salvataggio del quotidiano che ha un rosso profondo di bilancio, è insomma a rischio fallimento. I "vendoliani", la minoranza che ha sostenuto al congresso Nichi Vendola, già erano pronti ad andarsene dalla direzione per difendere il direttore del quotidiano Piero Sansonetti, di cui Ferrero vuole la testa.
Il segretario - sottolinea sempre Repubblica.it - ci tiene a precisare che non bluffa, che comportamento più lineare non poteva adottare, che è prematuro parlare di vendita ma vuole andare a vedere se la strada di un eventuale acquirente è perseguibile. Con le garanzie del caso, che cioè Liberazione resti il quotidiano del Prc. Il nome dell'editore? Ferrero non risponde e il tesoriere Sergio Boccadutri, bertinottiano, neppure. Ma l'ipotesi più accreditata sembra quella di Luca Bonaccorsi, editore di Left, che per la verità è stato vicino al leader maximo Fausto Bertinotti, come lui seguace dello psichiatra Massimo Fagioli. Cresce il sospetto che i bertinottiani di stretta osservanza stiano per mollare l'area-Vendola rompendo il sodalizio con l'ex segretario Franco Giordano, con Gennaro Migliore, con Patrizia Sentinelli.
La situazione di tensione comunque non diminuisce neanche con l'incontro di Ferrero con il comitato di redazione. Il direttore Sansonetti interviene duramente: "Prendo atto che Liberazione è in vendita, mi auguro che non ci sia il disegno di farla morire perché sarebbe stupido, siamo l'unica cosa che resta della sinistra radicale".
Il giornale entra in sciopero, oggi 23 dicembre non sarà in edicola e sono stati previsti altri quattro giorni senza uscita se "non ci sarà chiarezza su tutto, sulla bocciatura del piano industriale presentato, sull'offerta di acquisto, sul futuro della testata". Lo scontro interno diventa sempre più duro.
Ferrero attacca: "Abbandonare la direzione, sollevare questo putiferio è l'alibi per una rottura". Migliore replica: "Non siamo noi a volere la scissione, sono loro che ci vogliono cacciare...". Comunque - conclude Repubblica.it -, la direzione di quello che fino a un anno fa era il più grande partito della sinistra radicale, sia pure monca di una minoranza, ha dato il via libera alla trattativa per la vendita del quotidiano.

Il Resto del Carlino, Il Giorno, La Nazione 23.12.08
Ferrero vende Liberazione «Ho una buona offerta»
Si fa il nome di Bonaccorsi. Rissa con i «vendoliani»
di Elena G. Polidori


Minoranza: «Il vero obiettivo del segretario è il fallimento del quotidiano»
L’accusa. il segretario del Prc ferrero contesta la linea politica di Liberazione, troppo vicina, dice alla minoranza del partito. Inoltre il quotidiano direttoda sansonetti perde copie e soldi

ROMA È sulle sorti di Liberazione, il quotidiano del Prc, che sì è consumato Ieri l'ennesimo - e forse definitivo - scontro tra la minoranza del partito, Rifondazione per la Sinistra, capitanata da Niki Vendola, e la maggioranza del segretario Paolo Ferrero. L'ennesima lite si è consumata in direzione con gli ex bertinottiani guidati dal governatore della Puglia, che se ne sono andati dalla riunione costringendo la maggioranza ad approvare da sola un documento che potrebbe portare al rilancio, ma anche - sospettano i vendoliani - al fallimento del quotidiano del Prc. La direzione, con all'ordine del giorno il tema del giornale guidato da Piero Sansonetti, era stata convocata dopo che il comitato politico nazionale aveva in sostanza «sfiduciato» il direttore e chiesto un piano di ristrutturazione editoriale per portare il bilancio in pareggio nel 2009. Piano che ieri è stato rigettato dalla direzione. Non solo: sempre. in direzione il segre. tario Ferrera, ha avanzato l'ipotesi di una vendita del giornale spiegando che un editore (probabilmente Bonaccorsi, editore di Left, ma non ci sono conferme) «in queste settimane ha avanzato l'intenzione di fare un'offerta per acquistare Liberazione - ecco le parole di Ferrera - segnalando la propria disponibilità a mantenere gli attuali livelli occupazionali, a rilanciare la testata e mantenerne il ruolo di organo del partito». Ferrera, hanno subito attaccato i vendoliani, ha taciuto sull'identità dell'acquirente, chiedendo tuttavia carta bianca per valutare la proposta, senza alcuna garanzia. Di qui l'abbandono della direzione e la denuncia di un atteggiamento «lesivo dei più ovvi criteri di trasparenza e persino legalità».
Non solo: i vendoliani hanno denuciato la «scelta gravissima» che svelerebbe la volontà di sfiduciare Sansonetti e far fallire il giornale. Tutta demagogia, è stata la risposta della segreteria («noi vogliamo il rilancio di Liberazione», ha spiegato Ferrera, e il nome dell'editore non è stato fatto «per questione di riservatezza») tant'è che, alla fine, è stato approvato un documento che dà mandato al segretario di valutare l'offerta avanzata. Documento che per i vendoliani è da considerarsi nullo: la questione verrà nuovamente esaminata. Persone vicine alla segreteria hanno fatto trapelare che, comunque, i rapporti con l'acquirente sarebbe già in fase avanzata, al punto che un notaio starebbe stilando un'ipotesi di protocollo d'intesa tra le parti. Tutto si chiarirà a breve: l'assemblea dei soci del quotidiano è convocata per il 30 dicembre mentre ieri i giornalisti di Liberazione hanno proclamato una giornata di sciopero. In ogni caso, al di la' del merito, il tema rischia di accelerare e rendere senza ritorno il percorso verso la scissione, già più volte ventilata dal gruppo guidato da Vendola.