mercoledì 24 dicembre 2008

Repubblica 24.12.08
Il piano di acquisto del giornale
Doppio direttore nel futuro di Liberazione


ROMA - La resa dei conti tra i rifondaroli passa attraverso il quotidiano Liberazione. Che oggi, dopo lo sciopero, sarà in edicola e pubblica il piano di acquisto presentato al segretario del Prc Paolo Ferrero e al tesoriere Sergio Boccadutri da Luca Bonaccorsi - l´editore di Left, molto vicino fino a qualche tempo fa a Fausto Bertinotti. Quindi, in futuro il quotidiano comunista dovrebbe avere due direttori: uno responsabile, com´è usuale, e l´altro politico-editoriale (che spetterà al partito e al suo segretario scegliere), il quale «ha diritto a un fondo politico in prima pagina in tutte le uscite del quotidiano. Inoltre sono di sua competenza la gestione delle pagine dedicate alla vita del partito, gli appuntamenti, il dibattito interno». Persino le lettere, sarebbero "politicamente" blindate, affidate cioè direttore-fiduciario, come la pubblicazione di allegati legati a festival, congressi, campagne elettorali. Una sorta di commissario politico? Né ci sarebbe una clausola di salvaguardia dell´occupazione. I 37 giornalisti di Liberazione con il direttore Piero Sansonetti sono sul piede di guerra, preoccupati per un´operazione che ritengono fatta per incassare i finanziamenti pubblici ai giornali di partito. Se ci saranno. Sospetto che sarebbe confermato dalla clausola in cui si parla di un obbligo di riservatezza fino al 31 gennaio prossimo, quando appunto si saprà se quegli stanziamenti ci sono o meno. La minoranza che fa capo a Nichi Vendola si dice «indignata» e contropropone, se vendita ci dev´essere, una gara vera e propria: si prendano cioè in considerazione altri editori interessati. La Fnsi in una nota esprime «preoccupazione e allarme per le voci di vendita di Liberazione», e ricorda che Left è «sotto sequestro giudiziazio e al centro di un vasto contenzioso giuslavoristico».

Corriere della Sera 24.12.08
Il nodo del quotidiano di Rifondazione
Ricetta Ferrero-Left: a «Liberazione» due direttori, uno per la politica
di Andrea Garibaldi


ROMA — Due direttori per Liberazione, organo di Rifondazione comunista. Uno politico/editoriale che se vuole può scrivere tutti i giorni un fondo in prima pagina, che gestisce le pagine sulla vita di partito, su campagne elettorali e congressi. Il secondo, direttore responsabile che si occupa del resto. Questa è l'ipotesi su cui Rifondazione lavora per il futuro del suo quotidiano, assieme a Luca Bonaccorsi, editore della rivista Left, molto vicina allo psichiatra-guru Massimo Fagioli e tramite questo a Bertinotti e alla minoranza di Vendola. Bonaccorsi si è fatto avanti per acquisire la maggioranza della proprietà del giornale.
Il comitato di redazione di Liberazione ora minaccia «scioperi uno dopo l'altro». In gran parte i giornalisti si stringono attorno al direttore Sansonetti che ha firmato in questi anni un giornale vivace e svincolato dal partito, soprattutto dopo la vittoria di Paolo Ferrero al congresso di luglio. Dice Anubi Lussurgiu D'Avossa, del Cdr: «Tutto il progetto ci pare di corto respiro. Giusto per arrivare alle elezioni europee».
«Dobbiamo ancora cominciare a trattare con l'editore, e ogni decisione sarà sottoposta alla direzione del partito — dice Ferrero —. Questo polverone mi sembra alzato da chi ha deciso di fare una scissione e vuole screditare ogni nostro passo».
Ieri Giordano e Migliore, due degli avversari di Ferrero, hanno incontrato l'editore in pectore Bonaccorsi, per manifestare il loro dissenso sull'operazione. «Bonaccorsi ha risposto che questo per lui sarà un buon affare», racconta Giordano. I «vendoliani» chiederanno al segretario che le trattative per trovare un editore a Liberazione vengano estese ad altri possibili acquirenti. La Federazione nazionale della stampa ha espresso «sconcerto» per l'eventuale passaggio di Liberazione all'editore di Left, «giornale carico di vertenze, anche legali, a cui sono stati costretti i giornalisti».

il Riformista 24.12.08
Liberazione in vendita, la Fnsi chiede chiarimenti


«Destano preoccupazione e allarme le ricorrenti voci di cessione di Liberazione (il quotidiano di partito di Rifondazione Comunista, ndr), in quota rilevante, se non maggioritaria, a Luca Bonaccorsi, già editore di Left, giornale sotto sequestro giudiziale e al centro di un vasto contenzioso anche giuslavoristico». È quanto comunica in una nota la Federazione Nazionale della Stampa. «I partiti - si legge - sono liberi di non pubblicare più i loro giornali o, in caso contrario, di fissarne la loro missione. Ma operazioni nebulose come quelle di cui si parla con insistenza sono qualcosa di più di un passaggio a un editore privato, pur mantenendo il marchio e il controllo politico del partito sul giornale. Esse suscitano sconcerto e debbono essere perciò chiarite al più presto, nelle sedi proprie, comprese quelle sindacali». In serata è intervenuto il segretario di Rifondazione, Paolo Ferrero, dicendosi «d'accordo con le preoccupazioni della Fnsi, volte - come sostiene l'autorevole rappresentanza nazionale dei giornalisti italiani - a far sì che le lotte interne e intestine al Prc non distruggano il patrimonio che il quotidiano del partito Liberazione rappresenta per Rifondazione e per la sinistra italiana».

il manifesto on line 23.12.08
Giornali di partito, ne vogliamo o no?
di Matteo Bartocci


L'ex Pci poi Ds ha venduto l'Unità «fondata da Antonio Gramsci nel 1924» all'inventore di Tiscali e astro nascente del partito democratico Renato Soru. E nell'anno che verrà anche Rifondazione comunista potrebbe decidere di «liberarsi» della sua Liberazione, lasciandola "quotidiano del Prc" (più di nome che di fatto) ed essenzialmente allo scopo di conservare i finanziamenti pubblici per i giornali di partito. In fondo - e la storia del manifesto lo dimostra - si può essere comunisti senza la tessera e fare un quotidiano radicalmente di sinistra senza avere un editore alle spalle che non siano le donne e gli uomini che quel giornale vogliono far vivere e crescere come avete dimostrato con passione in queste difficilissime settimane di sottoscrizione. Aldilà del conflitto interno a Rifondazione, la vicenda di Liberazione pone quesiti più complessivi. Nel 2009 i giornali di partito hanno ancora un senso? Cancellarli è un bene o un male per la qualità della politica, soprattutto per quella di sinistra? E' alle porte solo la soppressione di centri culturali o la prosecuzione della battaglia con altri e nuovi strumenti - come Internet o canali Tv modello "You Dem" o "Red" - in grado di garantire livelli altissimi di partecipazione diretta? E' la rinuncia alla famosa egemonia culturale oppure il proseguimento della lotta con altri mezzi? La discussione è aperta e attuale come non mai.

il manifesto 24.12.08
Il cacciatore di giornali quasi falliti ma finanziati
La 'formula Bonaccorsi', il futuro editore di Rifondazione
di Andrea Fabozzi


Prima Avvenimenti, poi Notizie Verdi, poi EcoTv. E ora potrebbe toccare al quotidiano di Rifondazione comunista Liberazione la sorte di essere inghiottito nella galassia quasi-imprenditoriale dì Luca Bonaccorsi, esuberante quarantenne romano, già bancario e nipote di banchiere, poi broker a Londra. La carriera nei giornali di sinistra, per Bonaccorsi, inizia nel dicembre del 2005 quando entra nel consiglio di amministrazione di Avvenimenti, un finanziamento pubbìico in quanto cooperativa di giornalisti, testa d'inchiesta sull'orlo del secondo fallimento consecutivo. Direttore Adalberto Minucci, elegante senatore della sinistra ex Pci, già al capo della redazione di Rinascita ai tempi di Enrico Berlinguer. Condirettore, Giulietta Chiesa, all'epoca già un ex della Stampa libero battitore della sinistra.
Il rapporto con i direttori salta sin dal primo numero del settimanale rimaneggiato dai nuovi soci. Fra le pagine che partono in tipografia 'spunta' una rubrica a firma di Massimo Fagioli, lo psichiatra collettivista (cioè fondatore dell'Analisi collettiva) di cui è seguace e discepolo Bonaccorsi, ma anche Fausto Beltinotti, e anche un pezzo dei dirigenti bertinottiani. Il direttore si ribella, finisce licenziato, con nessuna cortesia all'uscita: un secco fax alla redazione annuncia la sua rimozione. Il tribunale gli dà ragione e gli concede cospicui risarcimenti.
Il settimanale si chiama Left (per finta, perché all'anagrafe di Palazzo Chigi, da dove arrivano i contributi per l'editoria, continua a chiamarsi Avvenimenti, pena la fine delle erogazioni). È l'acronimo di 'Libertà, Eguaglianza, Fraternità', si dice nel primo numero; Ma la 'T'? La 'T' significa 'trasformazione', mantra dell'analisi collettiva, è lo stesso Fagioli a rivelarlo nella sua rubrica. Di più, ricorda Chiesa che la lettura della rubrica di Fagioli, proprio in quei primissimi numeri, si rivela profetica oggi più che mai: «In mezzo a una valanga di frasi. di difficilissima decifrazione, faceva capire che la linea editoriale di Left Avvenimenti l'aveva prefigurata lui alcuni mesi prima, ma proponeva ai lettori il suo 'sogno', cioè di mettere in collegamento Left con Liberazione. Con tutto il rispetto per il mio amico Piero Sansonetti (direttore di Liberazione, ndr) questo non era nei patti, cioè nella linea editoriale concordata». Espulso il primo paio di direttori, un anno dopo la stessa sorte tocca a Andrea Purgatori, cronista di razza e autore dello scoop su Ustica, e Alberto Ferrigolo, ex manifesto. Anche lì, un braccio di ferro sulla direzione del giornale finisce, in pochi mesi, in tribunale. Per qualche migliaio di euro non corrisposti la testata finisce «sotto sequestro giudiziale e al centro di un vasto contenzioso anche giuslavoristico», come ieri la federazione nazionale della stampa ricordava, preoccupatissima per le mire di cui ora è oggetto Liberazione. Il vizietto dell'editore Bonaccorsi, in questo periodo, è quello di avere trappe casacche in redazione: amministratore delegato, redattore dell'economico, direttore occulto. Un direttore vero non resiste più del tempo che ci vuole per capirlo. Per due volte, nel corso del 2007, l'ordine dei giornalisti diffida il direttore che prende il posto di Purgatori e Ferrigolo - Pino Di Maula, fagiolino - di far assumere le scelte giornalistiche all'editore. Oggi di Di Maula è dato in uscita. la nuova direttrice dovrebbe essere Donatella Coccoli, in curriculum il fatto di essere curatrice del sito Siena & Maremma, fagiolina pure lei.
In realtà quella di Left non è la prima esperienza editoriale di Bonaccorsi: c'è una partecipazione in Amore&Psiche, l'elegante libreria della capitale che all'Analisi collettiva fa riferimento e che dallo psichiatra è stata persino disegnata (il professore si diletta di architettura, di teatro e di altro). La vicenda con la libreria si chiude male, ma è lì, probabilmente, che Bonaccorsi comincia a formare l'idea di sé come editore, forgiatore di idee, mecenate. E il 'sogno' di fare un giornale che rifondi la sinistra sulla base della «ricerca», della «trasformazione», della «realtà umana», del «rapporto uomo-donna». Un sogno già sognato, come abbiamo visto, dal professor Fagioli. Un sogno che piace anche a Bertinotti, visto che sceglie proprio Bonaccorsi come editore della sua rivista teorica Alternative per il socialismo.
Ma è in Left che Bonaccorsi mette a punto la sua formula di imprenditore senza capitale, che rileva testate sull'orlo del fallimento, anche fortemente indebitate, ma dotate di finanziamento pubblico. E le inserisce più o meno silenziosamente nella galassia fagiolina. Dopo Left tocca a Notizie Verdi, organo ufficiale del partito ambientalista attualmente in stand-by ma che presto tornerà a uscire quotidianamente. Poi a EcoTv. Ora forse a Liberazione. In Left l'ex broker investe poco. Ma all'inizio in società entra l'imprenditore Ivan Gardini, che è marito della sorella di Luca, Ilaria. anche lei 'pupilla' di Fagioli. Dopo qualche anno però Gardini si disimpegna. Al suo posto arriva un imprenditore di internet, Matteo Fago, fagiolino di stretta osservanza. Infine le testate: sono salvate a metà. Mezze vive, ovvero mezze morte: la 'formula della trasformazione' prevede una convivenza fra il soggetto istituzionale che rastrella il finanziamento pubblico (la cooperativa, l'organo di partito) e la cultura fagiolina che dilaga ovunque, occhieggia persino nella cronaca.

il manifesto 24.12.08
LA FNSI. «Operazione nebulosa e sconcertante»


La Federazione nazionale della stampa si dice allarmata dalla voci di cessione di Liberazione, «in quota rilevante, se non maggioritaria, a Luca Bonaccorsi, già editore di Left, giornale sotto sequestro giudiziale e al centro di un contenzioso anche giuslavoristico», Per il sindacato quelle di cui si parla sono «operazioni nebulose» che «suscitano sconcerto e debbono essere chiarite al più presto», Fnsi e Associazione stampa romana chiedono dunque alla proprietà e al partito di tornare al tavolo delle relazioni sindacali dopo che il piano di risanamento e rilancio «è stato, di fatto, bocciato dall'azionista di controllo della stessa proprietà», Mentre «c'è bisogno di un clima di fiducia e di chiarezza, non solo per la tutela dei posti di lavoro» rna anche «per il futuro di un quotidiano di idee che è e può continuare ad essere voce importante del pluralisrno dell'informazione finché poggia le sue radici su un territorio solido e senza ambiguità».

il manifesto 24.12.08
PRC. Si tratta tra scomuniche e sospetti
Liberazione in vendita manda il partito in tilt
di Matteo Bartocci


In un momento così difficile, con il partito fuori dal parlamento, «chi si compra Liberazione si compra Rifondazione». La voce dal sen fuggita a via del Policlinico forse esagera. Ma rende bene i toni da ultimi giorni di Pompei che si respirano nel Prc attorno all'ipotesi di vendita del giornale all'editore del settimanale Left.
Fagiolino e bertinottiano doc, improvvisamente su Luca Bonaccorsi si sprecano gli improperi dei compagni di strada. «La sua è una pura speculazione finanziaria - tuona Franco Giordano, che arriva a un millimetro dal fatidico «traditore» - la mia cultura mi fa essere distante sia dagli imprenditori di questo tipo che da un gruppo dirigente del partito ormai compiutamente sta1inista». Eppure il possibile acquirente di Liberazione era in prima fila il 13 dicembre scorso al battesimo del «partito della sinistra» all'Ambra Jovinelli. Ed è addirittura tra i primi firmatari del manifesto fondativo. Senza contare che finora è l'editore di Alternative, bimestrale di Bertinotti.
L'ex presidente della camera non commenta ma dai dirigenti a lui più vicini si arriva quasi agli insulti. Alfonso Giannii: «Operazione pessima politicamente e spregiudicata finanziariamente». Di più, «la doppiezza manifestata da questa persona è sconcertante - accusa Rina Gagliardi - a sinistra ormai la questione morale non riguarda solo il Pd». Autocritica poca. «Certo, è spiacevole che Bonaccorsi abbia iniziato un rapporto con Bertinotti - riconosce Gianni - ma sono certo che nessuno nella minoranza, a parte il tesoriere Boccadutri, sapeva della trattativa fino a lunedì».
Trattativa che né il segretario Paolo Ferrero né il numero due Claudio Grassi danno per conclusa. «Servono garanzie precise», dice uno scettico Grassi. «Non c'è nulla di definito, va tutto verificato accuratamente», assicura un Ferrero stufo degli attacchi di una minoranza che, accusa, «usa il giornale per distruggere Rifondazione pensando di crearsi così uno spazio politico per la scissione». Tuttavia la bozza di preaccordo presentata da Bonaccorsi al segretario contiene clausole molto precise. Come il doppio direttore e la «spartizione» delle pagine.
E' previsto un direttore politico nominato dal partito che avrà diritto al fondo di prima pagina e al resoconto del dibattito interno (in questo caso si sussurra di una scelta interna alla redazione). Mentre il direttore editoriale (presumibilmente lo stesso Bonaccorsi) gestirà praticamente tutto il giornale.
Una cosa è certa: neanche Bonaccorsi vede di buon occhio Piero Sansonetti. In un incontro di ieri, a tu per tu con Franco Giordano e Gennaro Migliore proprio nella sede di Left, ha fatto capire ai suoi interlocutori ed (ex?) amici, che la linea editoriale attuale va rovesciata, che il calo di copie è tutta colpa di Sansonetti, che insistere con lo scontro verso lo zoccolo duro del partito è una follia e che sì, anche se l'operazione è molto «ghiotta» dal punto di vista finanziario «politicamente» il tempo gli darà ragione. In privato Bonaccorsi dà la trattativa quasi per fatta. E anche gli attacchi durissimi dei «vendoliani» alla fine potrebbero giovargli per fiaccare le resistenze nella variegata maggioranza del Prc. Con il risultato paradossale di un editore «bertinottiano» per un giornale «ferreriano». Sia come sia, «ormai non mi fido più neanche di me stesso», si sfoga Alfonso Gianni. Mentre Claudio Grassi ha il telefono rovente per i tanti che gli chiedono se è vero che «vuole vendere il giornale a Bertinotti».
In uno scenario quasi operistico, i fatti veri rischiano di restare sullo sfondo. Per il «tornado Bonaccorsi» è passata quasi inosservata la revoca del cda di Liberazione operativa dal 30 dicembre. Un passaggio dall'attuale maggioranza «vendoliana» a un controllo «ferreriano» (in pole come ad c'è Mauro Belisario) che prelude, entro gennaio, con o senza vendita, alla sfiducia formale a Sansonetti.
Del resto, come svela un retroscena significativo, sulla privatizzazione del giornale ora le parti si sono curiosamente invertite. Non più tardi di due mesi fa il presidente uscente del cda Sergio Bellucci in un incontro riservato con Ferrero aveva chiesto di poter verificare la possibile vendita allargata ad editori esterni. Un'idea allora bocciata dal segretario, che l'ha sposata solo dopo la lettera di Bonaccorsi, e che i «vendoliani» ora ripresenteranno entro pochi giorni.
Al di là delle dichiarazioni al vetriolo, è probabile che il giornale si avvii a uno stato di crisi light, limitato a pochi prepensionamenti, per galleggiare fino alle europee di giugno. Nella bozza di accordo con l'editore di Left è perfino prevista una clausola di riacquisto da parte del partito con prezzo a tempo (200mila euro l'anno). Se il progetto non dovesse funzionare, alla fine Bonaccorsi non ci rimetterà un euro (grazie al finanziamento pubblico) e il partito potrà disfarsi della testata senza dissanguarsi e senza perdere una tribuna preziosa per un'elezione che è questione di vita o di morte. Raramente giornale e partito hanno avuto destini così intrecciati

il manifesto 24.12.08
Sinistra. La psiche e il partito. L'equivoco di una relazione pericolosa
di Ida Dominijanni


Dicono i buoni informati che Luca Bonaccorsi non muova paglia che Massimo Fagioli non voglia. Del resto, Left docet: di Fagioli, la testata di Bonaccorsi non solo ospita la rubrica settimanale (due pagine di libere associazioni secondo il gergo psicoanalitico, di pensieri in libertà secondo il senso comune che qualche volta è più pregnante degli specialismi), causa non ultima di tensioni con tutti i precedenti direttori, ma riprende, sparsa per il giornale e soprattutto nelle pagine culturali, l'intera filosofia (comprese le bordate contro Freud e Foucault, i pentimenti sul Sessantotto finito in anaffettività, disperazione e lotta armata, le diagnosi di «malattia» per l'omosessualità eccetera). Però si sa che il transfert è transfert, e che spesso le sue dinamiche non sono fra le più lineari. I buoni informati aggiungono infatti che fra il maestro e l'allievo i rapporti sono tutt'altro che semplici, hanno conosciuto momenti di rottura drastica e non sono improntati alla più tersa reciprocità: tradotto, Bonaccorsi è ostaggio di Fagioli, ma non vale il viceversa e a Fagioli è già capitato e potrebbe capitare ancora di mollarlo. Dunque niente - se non alcuni spiacevoli precedenti, ad esempio il fatto che il licenziamento di Giulietto Chiesa dalla direzione di Left fu deciso in una seduta dell'analisi collettiva - autorizza a pensare che il gran sacerdote dell'analisi collettiva stia dietro l'iniziativa spericolata presa da Bonaccorsi nei confronti di Liberazione. Ma si può dire per questo che ne sia del tutto fuori?
Dal punto di vista di Luca Bonaccorsi prendersi l'organo del Prc è un'operazione che non fa una grinza, e che il bizzarro contratto proposto per il rilancio della testata che prevede un direttore politico e un direttore culturale, rende perfetta. L'uomo è convinto di avere sulle proprie spalle l'eredità della sinistra italiana ed europea, e che sia solo per ignavia e incompetenza di chi la dirige se essa non vola nel vento del magnifiche sorti e progressive ben più in alto, per dire, di quel modesto uomo di immagine che è secondo lui Barack Obama.
Ma è altresì convinto, da buon fagioliano, che si tratti di farla passare per una sorta di lavaggio del cervello, di ridarle la psiche perduta, di depurarla di maestri perversi e di teorie scadute eccetera eccetera. Niente di meglio, all'uopo, che una sana divisione del lavoro: un pugno di ferro sulla politica, che garantisca fedeltà alla linea del partito, e uno d'acciaio sul sociale e la cultura, che garantiscano l'ortodossia dell'interpretazione. Pare Stalin, ma è Fagioli. La quintessenza dell'analisi collettiva, macchina oliata - ma oggi non poco grippata, a giudicare dalle testimonianze di transfughi che girano sul Web - per ripulire i cervelli e riempirli con l'ideologia del guru.
Vista da qui, si capisce forse meglio di quante trappole fosse lastricata la seduzione di Massimo Fagioli nei confronti di Rifondazione, e segnatamente di Fausto Bertinotti, che oggi accusa il colpo di una pugnalata imprevista. Non è questione di contenuti, idee, opinioni: di questi, nessuno si sognerebbe di mettere in questione l'assoluta libertà. È questione di un metodo, più propriamente di una pratica, che invece di libertà non ne lascia neanche un po', stringendo chiunque ci capiti nelle maglie di relazioni coartate e come tali reversibili, pronte a capovolgersi nel loro contrario. Non è con la «rifondazione» della sinistra che si sposa l'«eresia» psichiatrica del predicatore romano, ma precisamente con la sua anima più autoritaria e settaria.

Liberazione 24.12.08
Un commissario politico a Liberazione?
Cancelliamo quell'accordo e iniziamo daccapo
di Piero Sansonetti


Cari amici e compagni lettori, siamo nei guai. Liberazione è a rischio, è a rischio la sua autonomia, la sua libertà, cioè gli elementi essenziali che garantiscono che un giornale sia un giornale.
Vi riassumo gli avvenimenti delle ultime 24 ore (che hanno provocato lo sciopero dei giornalisti di Liberazione, e oggi hanno prodotto una nota ufficiale, molto molto severa, del sindacato). E' successo questo: lunedì pomeriggio si è riunita la Direzione del Prc e ha bocciato (a stretta maggioranza) il piano di ristrutturazione e di rilancio del giornale, che era stato varato dal consiglio di amministrazione (e alla cui stesura avevo partecipato). Non è stata presentata nessuna motivazione ragionevole per questa decisione. Bocciato e basta. Il piano, che prevedeva l'annullamento del deficit e dunque un bilancio in pareggio, era stato accolto come base di trattativa dal sindacato dei giornalisti e dal comitato di redazione. Oggi la trattativa si sarebbe dovuta aprire. Ma è saltata. La bocciatura da parte del partito - di per sé - non ha peso giuridico, ma è un siluro politico formidabile, che mette a rischio la sopravvivenza del giornale. Alla bocciatura del piano, la direzione del Prc (sempre a stretta maggioranza) ha fatto seguire altre due decisioni. La prima - gravissima - è quella di chiedere la revoca del consiglio di amministrazione del giornale, con un vero e proprio colpo di mano, forse inedito nella storia dell'editoria italiana del dopoguerra. La seconda è quella di annunciare la probabile vendita del giornale ad un editore privato. Il nome dell'editore doveva restare segreto, ma noi lo abbiamo scoperto: si tratta di Luca Bonaccorsi, una persona che noi conosciamo bene e con il quale abbiamo anche rapporti di simpatia, ma che finora - lo sottolinea la nota dell'Fnsi - come editore non ha dato molte garanzie (e deve affrontare diverse cause di lavoro avviate dai suoi dipendenti o ex dipendenti). Tutto questo è successo lunedì sera. Ieri abbiamo saputo delle cose che hanno ancora accresciuto il nostro allarme, e anche - lo confessiamo - il nostro incredulo stupore. E cioè siamo venuti a sapere che esiste una proposta di accordo, messa nero su bianco dall'editore Bonaccorsi, che la presenta come il riassunto «delle intese intercorse fino ad oggi» con i rappresentanti della proprietà (e dunque del partito).
In queste intese ci sono tre cose, tra le altre, che colpiscono e lasciano interdetti. La prima riguarda l'impegno a difendere «gli attuali livelli occupazionali», e cioè a «non licenziare». E' vero che questo impegno viene assunto solennemente, come effettivamente era stato assicurato lunedì durante la riunione della Direzione, ma con un piccolo codicillo che recita così: «compatibilmente con lo sviluppo della società editrice conseguente al suo rilancio». Che vuol dire? Che se per caso questo rilancio non ci sarà, come è un po' più che probabile, l'editore potrà ristrutturare l'azienda come meglio credere e mandare a casa chi pare a lui.
La seconda cosa che colpisce riguarda l'autonomia generale del giornale, dichiarata apertamente un pericolo da abbattere. Dice testualmente l'accordo: «gli obiettivi dell'operazione: ...tutela del controllo della linea politica del giornale da parte della segreteria del partito». Ora, a me hanno detto che esageravo quando paragonavo certe idee sulla libertà dell'informazione alle idee brezneviane. Però dovete ammettere che questo concetto, secondo il quale la segreteria del partito è titolare della linea del giornale, in Occidente non era mai stato dichiarato. Altro che bollettino di partito!
La terza cosa che lascia davvero interdetti è la proposta di doppia direzione. E' scritto testualmente nell'accordo che ci sarà un direttore responsabile che però non avrà voce sulla linea politica del giornale e addirittura non potrà decidere chi sono gli editorialisti e quali editoriali pubblicare. Ora voi capite che un direttore che non può decidere chi scrive l'editoriale, né può scriverlo lui, più che un direttore è un cretino. Questo mezzo direttore dovrà occuparsi solo della cronaca e della cultura, sempre che i temi culturali non investano scelte di linea politica. Tutto il resto spetterà ad una figura definita «direttore politico editoriale», designato dal partito e che avrà poteri assoluti. Un vero e proprio commissario politico. Tutto questo, naturalmente, in violazione del contratto nazionale di lavoro. Ma la violazione del contratto di lavoro non è neppure l'aspetto più grave: l'aspetto più grave è la violazione di qualunque idea di libera informazione e di qualunque rispetto per l'autonomia e per i diritti dei giornalisti. E' la concezione totalitaria, che sembra persino un po' una farsa, una esagerazione caricaturale di vecchie idee autoritarie degli anni 50.
Diciamo che di positivo, in questo preaccordo, c'è solo una cosa: che è un "preliminare" d'accordo, una specie di compromesso di vendita, ma non è ancora definitivo. Ritengo abbastanza probabile che sia frutto di un equivoco o di qualche problema di "impreparazione" in chi ha trattato l'affare. Francamente sono convinto che Paolo Ferrero non possa far passare una cosa del genere, e per di più farlo furtivamente nei giorni delle vacanze natalizie, e oltretutto attraverso il «putsch» dell'esautoramento del consiglio di amministrazione.
Noi siamo qui per sollecitare un ripensamento, e per ribadire che questa redazione è disponibile ad ogni trattativa per salvare il giornale. Diciamo la verità: non è rimasto più molto a sinistra, non ci sono grandi segnali di vita. Liberazione è uno dei pochi «organismi viventi». Che senso ha tentare di raderla al suolo? Qual è il motivo vero? Perché è un giornale contrario alle dittature? Perché non ama il muro di Berlino? Perché è troppo amica degli omosessuali e delle femministe? Perché fu troppo libera e critica col governo Prodi? Perché aspira a un nuovo soggetto unitario della sinistra? Perché non ama i riti e le burocrazie di partito? Perché troppe volte antepone il culto della libertà a tutto il resto? O addirittura perché è troppo radicale nelle sue battaglie a difesa degli immigrati, o a difesa dei lavoratori, dei loro diritti, delle lotte della classe operaia?
Non è possibile dare una risposta positiva a nessuna di queste domande. A nessuna. Allora forse c'è ancora il tempo per ricominciare a dialogare. Per cercare una via di salvezza di questo patrimonio, che non appartiene a nessuno, che è di tutta la sinistra e che è una ricchezza, che non può essere dispersa, per il sistema dell'informazione. Cancelliamo quella proposta di accordo e ricominciamo daccapo.

La Stampa 24.12.08
Il quotidiano del Prc
Il patron di Left più vicino all'acquisto di Liberazione


ROMA. Ormai è ufficiale: l'editore che vuole comprare Liberazione è Luca Bonaccorsi, attuale patron del settimanale Left nonché discepolo dello psicoanalista Massimo Fagioli, a sua volta amico ed estimatore di Fausto Bertinotti. Il paradosso è che anche Bonaccorsi è un bertinottiano, tanto che fa parte della minoranza di Rifondazione attualmente guidata da Vendola e che si oppone strenuamente alla linea del segretario Ferrero in vista di una futura, probabile scissione. Non a caso ieri due esponenti di spicco di quest'area, Giordano e Migliore, sono andati a chiedere spiegazioni direttamente a Bonaccorsi. Il quale ha confermato il suo progetto, cercando di convincerli a lasciar perdere l'attuale direttore Sansonetti «che ormai ha fatto il suo tempo». Il giornale che ha in mente Bonaccorsi è diviso in due parti, quella più piccola affidata al direttore politico (un uomo di fiducia di Ferrero) e quella più ampia a lui, per fare un'informazione tagliata con le lenti del fagiolismo. Che non è solo una particolare terapia psicoanalitica ma anche una visione del mondo. Nel frattempo la Fnsi si dice molto preoccupata di questa prospettiva, visto che Bonaccorsi ha già diverse vertenze in corso che riguardano il suo settimanale.

Apcom 23.12.08 18:32
Editoria, Fnsi: preoccupati per voci su cessione quotidiano Liberazione


“Destano preoccupazione e allarme le ricorrenti voci di cessione di Liberazione, in quota rilevante, se non maggioritaria, a Luca Bonaccorsi, già editore di Left, giornale sotto sequestro giudiziale e al centro di un vasto contenzioso anche giuslavoristico". Lo dice una nota della Fnsi, come riporta l'AdnKronos. "I partiti sono liberi di non pubblicare più i loro giornali o, in caso contrario, di fissarne la loro missione. Ma operazioni nebulose come quelle di cui si parla con insistenza sono qualcosa di più di un passaggio ad un editore privato, pur mantenendo il marchio e il controllo politico del partito sul giornale. Esse suscitano sconcerto e debbono essere perciò chiarite al più presto, nelle sedi proprie, comprese quelle sindacali", prosegue la nota della Fnsi.
La Fnsi, insieme all'Associazione della Stampa Romana, chiede alla proprietà e al partito di Rifondazione comunista che "faccia chiarezza su voci e programmi e che torni rapidamente al tavolo delle relazioni sindacali, per il quale il sindacato si era già attrezzato ad affrontare il piano di risanamento e rilancio presentato a norma di legge e di contratto e che è stato, di fatto, bocciato dall'azionista di controllo della stessa proprietà".

Adnkronos 23.12.08 ore 22.30 ca
Editoria: Ferroro, nessuna vendita di “Liberazione” in corso


Roma, 23 dic. (Adnkronos) - "Sono molto d'accordo con le preoccupazioni della Fnsi, volte - come sostiene l'autorevole rappresentanza nazionale dei giornalisti italiani - a far si' che le lotte interne e intestine al Prc non distruggano il patrimonio che il quotidiano del partito 'Liberazione' rappresenta per Rifondazione e per la sinistra italiana. Proprio per questo, io in prima persona e tutta la segreteria del Prc lavora da mesi, tra mille difficolta' e mille campagne di stampa contrarie e ostili, al rilancio - oltre che alla salvezza dei posti di lavoro - di 'Liberazione', e proprio per questo qualsiasi offerta di acquisto del quotidiano del partito dovesse mai concretizzarsi, essa sara' attentamente valutata dalla proprieta', cioe' dal partito-editore, in ogni suo elemento e caratteristica, e immediatamente portata a conoscenza e discussa con le organizzazioni sindacali, interne e di categoria". Lo afferma il segretario del Prc Paolo Ferrero.
"Proprio per questo motivo, abbiamo valutato - come segretario, segreteria e Direzione nazionale del Prc - che prima che vi fosse qualsiasi offerta concreta e valutabile seriamente di acquisto della testata 'Liberazione', sarebbe stato del tutto assurdo e controproducente - prosegue il leader di Rifondazione - montare il polverone di pretestuose polemiche e finti scandali che si sta montando in questi giorni sulla stampa da parte di una area ben specifica del partito. E' questo polverone, sono queste polemiche e accuse che hanno un unico, concreto e relae obiettivo: distruggere il patrimonio di 'Liberazione', la sua storia e il suo futuro, quello che tutti - a parole - dicono di voler preservare e difendere".
"Una sola cosa e' sicura, come ho gia' detto ieri sera: non c'e' nessuna vendita di 'Liberazione' in corso, oggi. C'e' solo l'impegno, assiduo e costante, della proprieta' e del partito-editore, come abbondantemente e con dispendio di molte energie e risorse del partito e' stato sempre fatto, in questi anni e in questi mesi e giorni, a continuare a garantire, tutti i giorni, l'uscita del quotidiano del Prc, a coprirne il cospicuo deficit, a garantire i posti di lavoro e tutto il necessario affinche' 'Liberazione' - conclude Ferrero - possa uscire ogni giorno, scrivere, diffondere, esserci. Alla Fnsi e a Stampa romana, infine, assicuro che il tavolo con le organizzazioni sindacali, interne e nazionali, con cui il dialogo non si e' mai interrotto, sara' ripreso al piu' presto, nel pieno rispetto delle prerogative di tutti".

Aprile on line 23 dicembre 2008, 23:09
Liberazione, è ancora polemica
di Marzia Bonacci


Lunedì la Direzione ha dato mandato a Ferrero di verificare le condizioni per la vendita del quotidiano, senza che il segretario svelasse l'identità del presunto acquirente. Un atteggiamento che ha fatto saltare i nervi dei vendoliani e accresciuto lo scontro interno. Oggi le voci su Bonaccorsi, editore di Left, come possibile nuovo proprietario, mentre la Fnsi lancia l'allarme
A ventiquattro ore dalla Direzione del partito che ha dato mandato alla segreteria di verificare le condizioni per la vendita di Liberazione, la polemica non si placa all'interno del Prc e tracima i confini politici, coinvolgendo anche le rappresentanze sindacali. Nel giorno in cui il giornale ha scelto di non uscire in edicola, è la Federazione nazionale della stampa a lanciare l'allarme.
L'atteggiamento del segretario Ferrero, che ieri ha chiesto e incassato l'autorizzazione ad iniziare un dialogo con un possibile acquirente della testata, di cui non ha voluto rivelare il nome facendo infuriare l'area dei vendoliani, la Fnsi non nasconde la sua preoccupazione per la scelta compiuta dalla dirigenza del Prc di bocciare il piano di risanamento fin qui confezionato, aprendo la strada della vendita.
Un passaggio di proprietà che all'inizio appariva avvolto da mistero, per la reticenza del segretario a svelare nome e cognome dell'interessato a comprare il quotidiano comunista, ma che già nella tarda serata di lunedì cominciava a diradarsi, con i rumors ad indicare in Luca Bonaccorsi, editore di Left, il soggetto pronto a scendere in campo per salvare dal deficit il giornale diretto da Sansonetti.
Una ipotesi, una voce, quella che chiama in causa Bonaccorsi, che per la Fnsi desta "preoccupazione e allarme", perché si tratta dell'editore di un giornale "sottosequestro giudiziale" e soprattutto "al centro di un vasto contenzioso giuslavoristico", con in corso "diverse vertenze, anche legali, cui sono stati costretti i giornalisti". Oltre a questo, il sindacato dell'informazione, preoccupato anche per le ricadute occupazionali della vicenda, punta l'indice verso il comportamento della segreteria del partito e verso il tentativo di vendita da essa portato avanti: "operazioni nebulose" che rappresentano "qualcosa di piu' di un passaggio ad un editore privato, pur mantenendo il marchio e il controllo politico del partito sul giornale".
Rispetto a queste voci, la Federazione ammonisce il Prc e la sua leadership: "debbono essere chiarite al piu' presto" e "si torni rapidamente al tavolo delle relazioni sindacali". Per la Fnsi, infatti, "il sindacato si era gia' attrezzato ad affrontare il piano di risanamento e rilancio presentato a norma di legge e di contratto", una proposta che mirava a portare il bilancio in pareggio nel 2009 ma che è stata bocciata da Rifondazione.
"Sono molto d'accordo con le preoccupazioni della Fnsi", ha replicato Ferrero, ricordando come qualsiasi offerta di acquisto "sarà attentamente valutata dalla proprietà", cioè dal partito-editore, oltre ad essere "discussa con le organizzazioni sindacali". Tanto che lo stesso Ferrero ha annunciato la ripresa del tavolo concertativo "al più presto e nel rispetto delle prerogative di tutti". Il segretario ha anche voluto sgombrare il campo dalle ambiguità sostenendo che attualmente "non c'è nessuna vendita in corso" e che l'obiettivo resta quello di "continuare a garantire l'uscita del quotidiano, a coprirne il cospicuo deficit, a garantire i posti di lavoro". Ma il numero uno del Prc non ha lesinato i colpi politici verso l'altra parte del partito: "una area ben specifica", la chiama accusandola di "montare il polverone di pretestuose polemiche e finti scandali sulla stampa".
I vendoliani da parte loro non risparmiano il fuoco di risposta. "Siamo sbigottiti e indignati - afferma una nota di Rifondazione per la Sinistra - per aver dovuto apprendere dai giornali l'identità del misterioso editore interessato all'acquisto di Liberazione". Un atteggiamento che non risponde agli obiettivi di "difendere il partito, e tanto meno la democrazia e il dibattito al suo interno". Riguardo alla possibile acquisizione di Bonaccorsi, la minoranza, che accusa Ferrero e i suoi di voler epurare la direzione del giornale per ragioni politiche sfruttando la situazione di dissesto finanziario, non nascondo la sua contrarietà. "Non garantisce né la salvaguardia dell'occupazione, né la piena autonomia degli indirizzi politici e culturali del giornale né, infine, la conferma, per noi imprescindibile, di Sansonetti alla direzione di Liberazione", denunciano.
Stigmatizzato infine il comportamento tenuto durante la Direzione di lunedì dal segretario: la reticenza a svelare l'identità del soggetto interessato a comprare il quotidiano, che li ha spinti a lasciare i lavori, secondo loro "è lesivo dei più ovvi criteri di trasparenza e persino legalità".
Accuse che Ferrero liquida però come demagogiche: "noi vogliamo il rilancio di 'Liberazione'" e il nome dell'editore non è stato fatto "per questione di riservatezza", ha assicurato.
Del futuro del giornale ora si discuterà ancora in Direzione dopo che la segreteria avrà approfondito i termini di una eventuale offerta per la sua vendita. Ma il casus Sansonetti rischia di accelerare anche i processi di uscita dal Prc da parte del "partito nel partito", ovvero gli ex bertinottiani in minoranza.

Repubblica 24.12.08
Il futuro della ricerca
di Ignazio Marino


Caro direttore, in questi giorni le ricette per far fronte alla crisi economica fioriscono quasi quotidianamente sulle prime pagine dei giornali italiani. Leggo, attento, le riflessioni di tanti politici ed analisti, ma raramente mi imbatto in soluzioni che considerino la ricerca scientifica ed insieme la trasparenza, il merito e la competenza, chiavi di volta del futuro del nostro Paese. « è il solito visionario - penseranno alcuni - per uscire da questa crisi bisogna far riprendere i consumi, mettendo i soldi in tasca al ceto medio». Sarà, ma la visione appare corta, lo sguardo miope.
Basta guardarsi intorno: nel pieno della crisi economica globale, la Francia ha deciso di investire in ricerca circa il 2% del Pil, la Svezia è oltre il 4% e noi, dove siamo? La nostra Finanziaria, dal precedente, già vergognoso 1,1%, ci trascina allo 0,9%: nell´Europa a 15, peggio di noi fanno solo Portogallo e Grecia.
Il futuro dell´Italia è nelle mani di giovani donne e giovani uomini competenti, creativi e pronti a mettersi alla prova, ma troppo spesso oppressi dai tagli alla ricerca e da opachi criteri nell´assegnazione delle cattedre universitarie, largamente in mano ai baroni e agli amici degli amici.
è vero che ripensare l´intero sistema è cosa lunga e complessa, è anche vero però che l´attesa di tempi migliori va colmata con piccoli, decisi segnali nella giusta direzione.
La rivoluzione - diceva Bruno Munari - va fatta senza che nessuno se ne accorga. Un primo passo lo abbiamo mosso assegnando, con gli emendamenti alla Finanziaria 2007, 15 milioni di euro ai progetti di 26 giovani ricercatori, scelti tra oltre 1700, da un gruppo di scienziati under 40, per metà stranieri, secondo il criterio della peer review (la valutazione tra pari).
Il secondo passo stavamo per compierlo e questa volta, con l´articolo che riuscii ad inserire nella Finanziaria 2008, i finanziamenti disponibili ammontavano a ben 81 milioni di euro.
Un altro gradino, sul quale però l´attuale Governo si è voluto fermare: quegli 81 milioni di euro sono già stanziati, pronti per essere assegnati, ma andranno perduti se il Ministero della Salute e quello dell´Università e della Ricerca non pubblicheranno, entro il 31 dicembre 2008, il bando di concorso.
Il Ministro Sacconi il 7 novembre scorso, alla presenza del Capo dello Stato, al Quirinale, aveva solennemente garantito che avrebbe fatto quanto di sua competenza, per consentire ai nostri giovani migliori di avere, anche quest´anno, un bando dedicato a loro.
Dopo tutto gli stanziamenti ci sono, messi a disposizione dalla Finanziaria del Governo Prodi.
Questo mero passaggio formale, in cui - voglio ribadirlo - non c´è da investire nuovi denari, permetterebbe, tra l´altro, al Governo Berlusconi una straordinaria operazione di marketing politico. Ma allora perché ci vuole tanto a mettere una firma?
Ormai, al 31 dicembre, mancano pochi giorni. Un assurdo conto alla rovescia che forse vedrà i corrotti, padri e figli delle clientele accademiche, festeggiare il Capodanno due volte e i nostri migliori cervelli, caparbiamente al lavoro negli scantinati delle Facoltà per due lire, due volte sentirsi sconfitti, magari ripensando alla generosa offerta di un ateneo americano, rifiutata con la speranza di un futuro in Italia.
La speranza, ecco un´altra parola necessaria per pensare al domani.
Con chi vorranno brindare i Ministri Sacconi e Gelmini?
(L´autore è presidente della Commissione Parlamentare d´inchiesta sul SSN del Senato della Repubblica)

Repubblica 24.12.08
Cinquant´anni fa, Castro e Che Guevara entravano all´Avana. Viaggio nell´isola che cerca una via per il futuro. Dopo Fidel
di Bernardo Valli


Il primo gennaio 1959 i "barbudos" di Castro e Che Guevara entravano all´Avana. Oggi l´isola è avvolta in un´atmosfera di decadente sopravvivenza. E per sfuggire al naufragio cerca ancora una sua strada. Siamo andati a vedere quale

L´AVANA. Riassumo le prime impressioni che mi investono sbarcando a Cuba, dove cinquant´anni fa è nata una rivoluzione sopravvissuta all´ecatombe del comunismo. Un angolo del mondo non paragonabile ad altri. Ma è ancora comunista quest´isola subtropicale, che ha ispirato, penso in egual misura, romanticismo e ripulsa? E che continua a sollecitare l´immaginazione, appunto romantica, nell´America latina? Mentre su una microscopica automobile sudcoreana risalivo la Rampa, il viale sul quale si affacciano ambiziosi edifici, ho posto la domanda alla donna seduta al mio fianco: una quasi cinquantenne con vecchie radici familiari alto borghesi, alle quali si sente legata, pur non essendo indifferente al carisma di Fidel, la cui ombra protettrice e ossessionante l´accompagna dalla nascita. La risposta è stata netta: «Noi non siamo comunisti, siamo fidelisti».
Eppure sei anni fa, quando il comunismo era già morto e sepolto in Russia e aveva cambiato faccia in Cina e in Vietnam, più di otto milioni di cubani (su undici che ne conta l´isola) hanno approvato un testo in cui si afferma che "il socialismo e il sistema politico e sociale rivoluzionario stabilito nella Costituzione sono irrevocabili" e che "Cuba non ritornerà mai al capitalismo".
Un plebiscito al 98% solleva inevitabili dubbi, resta tuttavia che qui fidelismo e socialismo reale possono essere al tempo stesso distinti e un´unica cosa. E´ un mistero simile a quello della Trinità. «E adesso?» ho chiesto ancora alla fidelista non comunista, mentre eravamo sempre nel quartiere moderno del Vedado. L´ultraottantenne Fidel, malato, si è ritirato tra le quinte, e il fratello Raul, il successore con qualche anno in meno, non ha alcun carisma. Come riuscirà a sopravvivere il fidelismo? Questa volta la risposta è stata una smorfia. Seguita dal nome (affibbiato a Raul) di un roditore, che soltanto i cinesi considerano il simbolo dell´abbondanza.
E´ evidente, Raul non entusiasma. E´ un militare. C´è stata persino, nel quartiere di Miramar, un sobborgo privilegiato, una piccola, penso timida e quindi tollerata, manifestazione in favore di Fidel e contro Raul. Quasi fosse una polemica in famiglia, i manifestanti rimpiangevano la flessibilità di Fidel e condannavano il rigore di Raul. Dietro Raul c´è comunque sempre Fidel. Il linguaggio dei cubani è spesso schietto: soprattutto a quattrocchi con gli stranieri, ai quali vogliono dimostrare che se ne infischiano della censura, che non hanno paura della repressione, pur non detestando obbligatoriamente il regime, sia esso fidelista o comunista.
I cubani amano il "bel gesto". Sono spavaldi. Il loro eroe nazionale nella lotta per l´indipendenza, José Marti, era un poeta, non un rozzo soldato come erano spesso gli altri Libertadores dell´America spagnola. Vale la pena ricordare un altro personaggio sia pure minore: l´avvocato Eduardo Chibas, morto negli anni Trenta, e deciso nemico della corruzione. Un giorno denunciò gli abusi del potere parlando a Radio Habana e alla fine si sparò un colpo di pistola alla tempia davanti al microfono, affinché tutti i cubani udissero l´esplosione. Decine di migliaia di uomini e donne seguirono la sua bara. «Non dimentichi questo aspetto del carattere cubano», mi ripete uno scrittore che ha subìto le angherie del regime ma è rimasto, non è fuggito a Miami, perché ama «la sua isola». L´orgoglio, la caparbietà, la passione, pesano nella vicenda cubana.
Ma non andiamo tanto in fretta. In un uomo non cerchi le tracce dell´adolescente conosciuto cinquant´anni prima. Sarebbe una pretesa assurda. Almeno in parte, questo vale anche per una rivoluzione, come quella cubana, invecchiata nel volto e nella mente. La ritrovo con le rughe e tuttavia con gli stessi slogan, che hanno resistito, immutabili, come lo sono i dati anagrafici per un individuo.
Il contrasto tra linguaggio ufficiale, ancora giovanile, e la realtà, sottoposta all´ingiuria del tempo, è un po´ patetico. Desta tristezza un anziano acciaccato che parla il linguaggio dell´adolescenza. Quella che era rivoluzione è slittata con gli anni in una atmosfera di conservazione, di stentata e incantata sopravvivenza. Vale a dire una decadenza, che sfugge, sia pure tra drammi e angosce, al naufragio.
E´ un fenomeno.
Un fenomeno è senz´altro il sistema monetario. E´ un ritratto rivelatore della società cubana. Si tratta di un esercizio di alto equilibrismo, al tempo stesso rigoroso e permissivo. Il primo aspetto, quello rigoroso, basato su una carta annonaria ("libreta"), impone un razionamento di generi commestibili che di fatto garantisce a tutti una base alimentare. Ogni mese un cubano ha diritto a dieci uova, la prima metà a 0,15 pesos cadauno, i restanti a 0,90 pesos sempre cadauno; a una libbra (cioè 0,454 kg) di pollo a 0,70 pesos; a una libbra di pesce con testa per 0,35 pesos o a circa trecento grammi senza testa; e a mezza libbra di carne tritata di vario tipo a circa 0,17 pesos. Se si calcola che ci vogliono 25 pesos per un dollaro, questa razione mensile (ha calcolato Roger Cohen del New York Times) costa 25 centesimi di dollaro, o (calcolo io) circa 20 centesimi di euro. Poca cosa dunque, poiché un salario mensile medio si aggira sui 20 dollari. Me in questo conto della spesa disciplinato dalla libreta non sono inclusi lo zucchero, sei libbre al mese; il latte, un litro quotidiano per chi ha meno di sette anni; il riso, sette libbre al mese; l´olio, 0,25 di libbra sempre al mese; e altri commestibili minori. Il problema è che i prodotti inclusi nella libreta non si trovano sempre. Spesso mancano. E quindi un cubano è alla continua ricerca o è in continua attesa.
Esistono tuttavia due monete: la prima (in pesos) è destinata a circolare nell´"area comunista": è quella con cui sono pagati i salari e che dà accesso ai prodotti razionati o ad altri non molto apprezzati, in vendita nei negozi normali. La seconda moneta (in pesos convertibili, ancorati al dollaro, chiamati Cuc) spalancano le porte all´esigua, circoscritta, controllata "area capitalista", dove si trovano i beni di consumo non accessibili a chi dispone dei pesos comuni. Nei negozi in cui si acquista in Cuc c´è quasi di tutto: dalla buona carne al buon whisky, ai vari prodotti di lusso. I Cuc circolano soprattutto nei luoghi frequentati dai turisti, nei quali sono occupati migliaia di cubani privilegiati, che ne approfittano. L´aspetto permissivo del sistema economico si rivela quando tollera in una certa misura, sia la caccia ai Cuc sia l´arte di arrangiarsi, sviluppatasi ai margini della legalità, e di cui i cubani sono diventati dei virtuosi. Il regime sa socchiudere gli occhi, ma li apre e colpisce quando lo ritiene opportuno. La permissività diventa cosi un metodo efficace perché rende vulnerabili gran parte dei cubani.
Dopo un volo di dieci ore (compiuto ogni anno da legioni di turisti assetati di esotismo, di sole e di sesso) passo dall´Europa natalizia, accecata dalle luminarie di Harrods´, delle Galeries Lafayette e della Rinascente, al semibuio dell´Avana. Le ultime luci del tramonto rendono ancor più magiche le ombre di quella che resta, nel declino, la più affascinante città dei Caraibi. Anzi, dell´intera America Latina. Quel che seduce è il crepuscolo non inquinato dalle pubblicità luminose di Londra, di Parigi, di Milano: un crepuscolo incontaminato che fa compiere un salto di decenni a ritroso, fino ad incontrare un´epoca preconsumistica. Dove non esistono le chiassose scritte incandescenti esaltanti una mutanda o un reggiseno. E´ come immergersi in un mondo rilassante, in un emisfero sfuggito ai giganteschi falò al neon che incendiano le nostre città.
Sembra di essere capitati in un angolo del pianeta scampato all´appiattimento che ha cancellato le diversità alla cui ricerca partiva il vero viaggiatore, ormai sopraffatto da turisti e rappresentanti di commercio. Eppure l´ancora esotica Cuba, esotica anche politicamente, sopravvive grazie ai turisti. E non al meglio di quella specie. E´ uno dei paradossi.
Il semibuio, non turbato dalle vampate al neon, preserva le sagome eleganti dei palazzi, nasconde le crepe delle facciate art déco, rococo, barocche, neoclassiche dell´Habana Vieja, in parte restaurate (dal geniale storico dell´arte Eusebio Leal Spengler, col denaro benefico e ben speso dell´Unesco). Le strade in decomposizione di un altro quartiere, il Centro Habana, sembrano, invece, nella penombra, un sobborgo medievale. Lo scrittore, che ha superato le asperità del regime grazie alla irrinunciabile fedeltà alla sua isola, mi ha detto sorridendo: « Da noi la macchina del tempo sbanda, avanza e arretra zigzagando».
Quando arrivi sul Malecon, il lungomare, ti trovi davanti un´ampia baia deserta. Non c´è una barca. Uno yacth. Un traghetto illuminato. Un galleggiante con orchestra o ristorante. Niente. E´ il vuoto. Niente di quello che si troverebbe in qualsiasi altro mare caldo, frequentato dai turisti. Lì, sul Malecon, battuto dalle onde quando il mare è agitato, sino a spruzzare l´ingresso dell´hotel Riviera, senti quanto sia isolata Cuba. Il mare è una frontiera sorvegliata. Un immenso no man´s land. Miami è a sole novanta miglia. E là, nell´America nemica, vivono almeno settecentomila cubani esuli e ostili alla Cuba fidelista o comunista, in attesa di una rivincita.
L´Hotel Riviera, in bilico sul Malecon, è un grande albergo un po´ sdrucito che, senza badare a spese, il capo mafioso Meyer Lansky costruì negli anni Cinquanta, poco prima dell´avvento della rivoluzione. Lansky era convinto che il casinò annidato nell´albergo e affacciato sulla baia avrebbe attirato yachts e piroscafi, sino a umiliare le dieci o più bische concorrenti disperse nell´isola. Lucky Luciano fu uno degli ultimi ospiti. Il vuoto, il silenzio, davanti al Malecon, e l´assenza dei più vistosi e fastidiosi segni del consumismo, hanno un loro preciso fascino. Ma il prezzo di questa quiete, di questa calma, non è soltanto il declino, come ha argomentato un garbato reporter nordamericano che mi ha preceduto. E´ molto di più.
Nessuno ha scoperto la formula della "rivoluzione permanente", capace di rinnovarsi puntualmente, grazie a un elisir simile a quello di lunga vita, introvabile, per gli uomini. Nate generose, spavalde, spietate, le rivoluzioni muoiono raggrinzite, ripiegate su se stesse, se non spalancano le porte agli incentivi materiali che definivano superflui, pensando di possedere quelli morali, terribilmente effimeri. L´isola può apparire un laboratorio antico, animato da alchimisti sopravvissuti alla storia della scienza e della politica. Alchimisti che per ora hanno rifiutato gli aggiornamenti del "comunismo di mercato" cinese o di quello simile del Vietnam.
Nella curiosità per il fenomeno cubano c´è una variabile e contrastata dose di ammirazione per la caparbia resistenza dell´isola minuscola rispetto alla superpotenza ostile alle sue porte. E´ un sentimento spontaneo, estraneo ad ogni ideologia e ancor più ad ogni calcolo razionale, che impedisce di considerare Cuba una scheggia di paleocomunismo come la remota Corea del Nord, con la sua arida, a volte sinistra immagine. Il paragone, azzardato da tanti, è ingiusto e inesatto. Cuba è un´altra cosa.
Anche questo è uno dei primi pensieri che mi investono ritornando a Cuba a pochi giorni dall´anniversario dell´ingresso dei barbudos all´Avana, avvenuto nelle prime ore del 1959, quando il dittatore Fulgencio Batista, abbandonato precipitosamente il veglione di Capodanno, animato da ambasciatori, turisti miliardari e alti esponenti della Mafia di Chicago e di New York, s´era appena involato su un aereo carico di dollari per la vicina Repubblica domenicana dove l´attendeva un altro caudillo, amico degli Stati Uniti, Rafael Trujillo.
(1 - continua)

Repubblica 24.12.08
Un cieco ha completato un percorso a ostacoli senza aiuti Così alcuni scienziati hanno provato che l´intuito è innato
Il sesto senso esiste e non è paranormale
di Marina Cavallieri


L´esperimento internazionale dimostra che nel cervello dell´uomo restano capacità primitive che non sono andate perse e si riattivano in caso di necessità

ROMA. Un cieco attraversa un corridoio riuscendo a schivare tutti gli ostacoli, evitando ogni cosa che si frappone all´uscita. Si muove senza bastone, con prudente sicurezza, guidato da un radar invisibile, da una misteriosa convinzione interiore, da un sesto senso.
Questo è l´ultimo esperimento fatto dagli scienziati per indagare su quella sfera delle nostre percezioni che orienta le azioni ma al di fuori di ogni consapevolezza. Percezioni che si possono chiamare di volta in volta intuito, ispirazione, premonizione. Sensazioni che trascendono la logica e sono spiegabili semplicemente con una frase: «Me lo sentivo». E tutti, anche i più razionali e scettici, devono ammettere che lo hanno detto almeno una volta.
«Abbiamo studiato un paziente molto raro, completamente cieco per due lesioni successive che hanno distrutto la corteccia visiva primaria di entrambi gli emisferi, gli abbiamo chiesto di attraversare un corridoio con degli ostacoli, lo abbiamo messo davanti a una traiettoria complessa che ha superato, senza che neanche lui dopo sapesse spiegare il perché», racconta Marco Tamietto, neuropsicologo, ricercatore dell´Università di Torino. Tamietto ha collaborato a una ricerca internazionale guidata dalla scienziata olandese Beatrice de Galder, pubblicata su Current Biology.
La scienza da sempre s´ingegna per scoprire l´origine del sesto senso, per dargli una base biologica e sottrarlo definitivamente all´ambito dell´irrazionale, del mistico, del soprannaturale, per riportare una capacità misteriosa e sfuggente dentro uno schema comprensibile, dentro dei confini fisici. Il sesto senso è quell´istinto che aggiusta la rotta dei nostri comportamenti, che ci fa evitare gli ostacoli, bloccarci quando vorremo partire, voltarci all´improvviso mentre attraversiamo la strada, ma è anche ciò che ci fa sentire conosciute persone mai viste, prendere decisioni contro ogni logica. È l´intuizione rapida che collega in una frazione di secondo elementi distanti e fa dire ad Archimede "Eureka" e a Sherlock Holmes "Elementare, Watson".
«Già negli anni 70 - dice Tamietto - era stato fatto un esperimento simile con delle scimmie, anche loro prive di vista, anche loro erano riuscite a fare un percorso evitando gli ostacoli. Si pensava che potessero fare questo perché avevano mantenuto delle capacità che l´uomo con l´evoluzione aveva perso. Invece con questo esperimento si dimostra che l´uomo ha ancora queste competenze, capacità primitive ereditate dai suoi antenati che non sono andate perdute. Queste competenze sono mediate da strutture sottocorticali, dal collicolo superiore, e si riattivano in alcune situazioni».
Forse le scoperte scientifiche tolgono fascino a capacità misteriose ma almeno ammettono che non sono solo frutto di una fervida fantasia. «Esistono delle capacità che sono al di fuori della consapevolezza cosciente che influenzano la quotidianità - aggiunge il ricercatore - il nostro cervello è in grado di elaborare informazioni al di fuori della coscienza mandandoci messaggi che determinano scelte apparentemente incomprensibili». In quei momenti si ha la sensazione di mettersi in contatto con un potere profondo e per un istante di ritrovare la metà perduta.

Repubblica 24.12.08
Il mistero del bambino
Miti e storia dietro i simboli del natale. Fin dall´età pagana
Quando Virgilio ne cantò la nascita
di Maurizio Bettini


Per molti fu una profezia dell´avvento di Cristo. Ma nel mondo classico bimbi e culle ricorrono spesso
Nella quarta ecloga il poeta dell´Eneide annunciò l´avvento di un "puer" e di una nuova era
Sarebbe stato l´imperatore Costantino a "cristianizzare" quei versi
Molte leggende riguardano fanciulli che avrebbero cambiato gli eventi

All´inizio della quarta ecloga Virgilio aveva avvertito le Muse: sto per cantare qualcosa di più grande, arbusti e tamerici non bastano più! La poesia bucolica, con le sue selve abitate da pastori innamorati, cede il passo a ben altro annunzio. Di che si trattava? Nientemeno che di una nuova era, profetizzata dalla Sibilla di Cuma. L´ordine dei tempi ricomincia da capo, aveva detto la veggente, e una nuova progenie sta per scendere dal cielo. Torna l´età dell´oro, mentre la Vergine, cioè la giustizia, scende nuovamente fra gli uomini. E se ancora restano tracce della colpa, quella provocata dagli orrori della guerra civile, con il "suo" avvento anch´esse saranno cancellate. Ma l´avvento di chi? Di un bambino.
La grande invenzione che dà vita alla quarta ecloga è per l´appunto questa: la fine dell´orrore e l´inizio di un tempo nuovo vengono fatti coincidere con la nascita di un puer. Un bambino vero, al quale si chiede di sorridere ai propri genitori - la madre lo ha portato in grembo per nove mesi, lo merita - affinché essi ricambino a loro volta quel sorriso; ma nello stesso tempo un bambino divino.
Il puer infatti è destinato a vivere con gli dei, mentre attorno alla sua culla le meraviglie si moltiplicano. Cade il velenoso serpente assieme ad ogni erba mortifera, le pecore non debbono più temere i leoni e le caprette offrono fiduciose le mammelle gonfie di latte. Nel frattempo, la culla in cui giace il puer si riempie spontaneamente di fiori profumati. La rinascita del mondo, nella quarta ecloga di Virgilio, si annunzia dunque in questo modo. Vi era di che colpire la fantasia di chiunque. Anche di un imperatore.
Quasi quattro secoli dopo, infatti, Costantino tenne un´omelia per il venerdì santo indirizzandola «all´assemblea dei devoti di Dio». In questo discorso l´imperatore - lo stesso che dichiarò cristiano l´impero - compì un atto che avrebbe mutato il destino della quarta ecloga: la cristianizzò. L´intenzione era chiara. Dimostrare che la nuova religione aveva dalla sua perfino il maggior poeta di Roma. Secondo Costantino, infatti, Virgilio aveva parlato in modo coperto, per timore di rappresaglie, ma la sua volontà di annunziare il Salvatore era chiara. Chi altro poteva essere la «Vergine» dell´ecloga se non Maria? E quale segno più esplicito del velenoso serpente che «cade» contestualmente alla nascita del bambino? Anche sulla culla del puer, in verità, Costantino compì un´operazione di sottile ermeneutica cristiana - anzi, di abile falsificazione. Nella versione greca del testo di Virgilio, offerta ai fedeli dall´imperatore, la «culla» in cui giace il bambino viene sostituita dalle «fasce» che lo avvolgono.
Perché? La spiegazione è teologica. Nel Vangelo di Luca, quando l´angelo annuncia ai pastori la nascita del Salvatore, lo fa con queste parole: «ed ecco il segno: troverete il bambino avvolto nelle fasce e deposto in una mangiatoia». Le fasce formano una parte imprescindibile dello scenario cristiano, costituiscono addirittura un «segno» della divinità. Sostituendole alla «culla» di Virgilio, Costantino identificava definitivamente il puer dell´ecloga con il bambino Gesù.
Gli studiosi continuano a chiedersi se questa orazione sia davvero opera dell´imperatore - o meglio, di qualche letterato di corte - oppure l´abile montatura di un falsario. Ma questo importa poco. Negli stessi anni, infatti, un analogo tentativo di cristianizzare l´ecloga era stato compiuto anche da Lattanzio; e qualora l´autore dell´orazione fosse non Costantino, ma un falsario, ciò non farebbe che confermare il desiderio, da parte della nuova religione, di avere dalla propria parte il maggior poeta romano. In ogni caso, al contenuto messianico dell´ecloga credettero fermamente, nel corso del tempo, personaggi come Pietro Abelardo o Dante Alighieri; e innumerevoli generazioni di cristiani hanno continuato a credervi. Ma allora, chi fu veramente il puer della quarta ecloga?
Torniamo all´inizio della vicenda. Siamo nel 43 avanti Cristo, nel pieno della sanguinosa guerra civile fra Ottaviano e Antonio. Inutile dire che, a questa data, Virgilio non poteva avere alcuna nozione del cristianesimo, per il semplice fatto che esso non era ancora nato. L´ecloga è dedicata a Pollione, console di quell´anno, per cui si potrebbe semplicemente pensare che il puer fosse figlio di costui. Ma davvero Virgilio avrebbe potuto celebrare il rampollo del console come se si fosse trattato di un fanciullo divino, il cui avvento doveva segnare un rinnovamento cosmico?
Sarebbe stato troppo. Non sono mancate perciò interpretazioni più mistiche, o esoteriche, dell´ecloga, secondo le quali il poeta si sarebbe ispirato a culti egiziani o a testi giudaici. Ma quale senso avrebbe avuto, per il pubblico di Virgilio, la ripresa di temi o motivi biblici di cui in quel tempo a Roma si conosceva ben poco? Non facciamoci ingannare dall´importanza che il giudaismo, specie attraverso la mediazione cristiana, ha assunto nel seguito della storia occidentale: la cultura dei Romani, nel primo secolo a. C., era ben diversa dalla nostra. In realtà, non sapremo mai chi fu il puer della quarta ecloga. Ma forse possiamo saperne di più sulla sua culla.
Nella tradizione antica, infatti, altri bambini giacquero in una culla dai caratteri divini. Dioniso prima di tutto, deposto dopo la nascita in un lìknon, un ventilabro: ossia una sorta di cesto, aperto su uno dei lati, che veniva utilizzato per separare il grano dalla pula. Gli antichi definivano «mistico» il lìknon di Dioniso, e liknìtes, «quello del ventilabro», era uno dei nomi con cui il dio veniva invocato nei misteri. Ma anche Zeus, nella grotta di Creta che lo ospitò neonato, fu deposto in una «culla dorata», mentre la capra Amaltea gli porgeva la mammella e l´ape Panacride gli dispensava il proprio miele; e ancora in una «sacra culla» giacque Hermes, il futuro uccisore di Argo.
Sono gli innumerevoli miti che ci raccontano la storia di bambini, destinati a cambiare il corso degli eventi, che proprio per questo ebbero anche una nascita straordinaria. Non solo Dioniso o Zeus, ma anche Ciro il grande o Romolo e Remo, eroi che, quando vennero al mondo, trovarono ad accoglierli una natura inaspettatamente benevola. Acque che placano il loro corso vorticoso, piante che nutrono, animali del bosco o della campagna - un lupa per i gemelli romani, una cagna per Ciro - che esibiscono mansuetudine, e in questo modo forniscono un «segno» indiscutibile del superiore destino che attende l´eroe. Proprio quel che avviene attorno al puer di Virgilio.
Di questa medesima schiera fa parte anche il piccolo Gesù del Vangelo di Luca. Anche lui deposto in una culla insolita, la mangiatoia, proprio come Dioniso nel ventilabro; anche lui circondato da una natura splendente e miracolosa. Guardata con gli occhi dell´antropologo del mondo antico, l´interpretazione della quarta ecloga fornita da Costantino finisce in realtà per rovesciarsi. Se l´imperatore credeva che il puer virgiliano fosse una metafora del Salvatore, a noi sembra piuttosto il contrario. La tradizione cristiana della nascita di Gesù - con il suo scenario di meraviglie, le sue greggi, la sua coppia di animali soccorrevoli - ricorda molto il modo in cui Virgilio, oltre un secolo prima che i vangeli fossero redatti, aveva descritto l´avvento del misterioso puer destinato a rinnovare il mondo.
Il fatto è che entrambe queste nascite sono episodi del ciclo millenario del bambino meraviglioso. All´interno di questo ciclo miti e racconti hanno continuato ad inseguirsi, ad alludersi, a cercarsi, in un gioco che non si è mai interrotto. Come dire che, quando oggi si sparge il muschio attorno alla mangiatoia, nel presepio, o si dispongono le caprette fuori dalla grotta, si ricompone uno scenario al quale ha verosimilmente contribuito anche Virgilio.

l’Unità 24.12.08
Darfur, 6000 bambini soldato
Nel mondo oltre 250mila
di Umberto De Giovannangeli


6000 sono i bambini-soldato presenti nella regione sudanese del Darfur, 8mila nell’intero Sudan.
700mila sono i bambini nati e cresciuti in situazione di guerra nel Darfur. Secondo l’Unicef sono circa 2,3 milioni i bambini colpiti dal conflitto in Darfur.
250mila; una cifra in crescita. Sono i bambini-soldato che combattono nel mondo; il 40% sono bambine.
9 sono gli eserciti che utilizzano i piccoli per azioni di guerra o per spionaggio. A questi si aggiungono decine di movimenti di guerriglia in particolare in Asia e Africa.

Usati come strumenti di morte. Plasmati come macchine per uccidere. Senza memoria. Senza futuro. Sono i bambini soldato. Almeno 6mila combattono nel Darfur. Oltre 250mila nel mondo, denuncia l’Unicef.
Una denuncia sconvolgente. Che riporta l’attenzione su una tragedia senza fine: quella del Darfur. E dei suoi bambini. Ci sono 6 mila bambini soldato in Darfur, la regione nell’Ovest del Sudan in guerra civile, mentre circa due milioni di bambini sono stati colpiti da questo conflitto. A documentarlo è Ted Chaiban, rappresentante in Sudan del fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia (Unicef). «Tutti i gruppi e le fazioni in Darfur fanno ricorso ai bambini.
BAMBINI VIOLATI
Pensiamo che approssimativamente in tutto il Sudan i bambini soldato siano 8mila, di cui 6mila solo in Darfur», rileva Chaiban, aggiungendo che «ciò non significa che tutti portino le armi e combattano; è possibile che fiancheggino i gruppi armati». «Due milioni di bambini sono stati colpiti dal conflitto e tra di loro, io penso che 700 mila siano nati dopo il 2004. Questi bambini hanno vissuto unicamente in zone di guerra» ha spiegato poi Chaiban. Secondo le autorità sudanesi i bambini sarebbero circa il 50% dei 4 milioni di persone che hanno subito le conseguenze della guerra civile che insanguina l’Ovest del Sudan da sei anni. L’Unicef ha moltiplicato gli sforzi per liberare i bambini soldato. Quest’anno 99 bambini, associati al movimento ribelle Giustizia e Uguaglianza, sono stati smobilitati dopo un attentato a Khartoum; 116 altri piccoli soldati guidati da Minni Minawi, che ha firmato un accordo con il governo, dovrebbero essere ugualmente smobilitati in coordinamento con l’Unicef. «Ogni bambino che si è trovato in una situazione di conflitto, che è stato testimone, o anche peggio, ha partecipato ad azioni violente viene disumanizzato - sottolinea Chaiban - sanno che c’è qualcosa di sbagliato ma non sanno dire cosa. Si tratta di una situazione che li rende insensibili e impedisce una loro crescita normale, con effetti più gravi che vive la stessa esperienza». I bambini soldato.
TRAGEDIA GLOBALE
Un dramma che non riguarda solo il Darfur. Oggi - rileva il Global Report 2008 sui «Child soldiers» - sono 9 gli eserciti che utilizzano i piccoli in guerra, con una leggera diminuzione rispetto ai 10 del 2004, per un totale di almeno 250mila minori, di cui il 40% sono bambine. Bambini combattono nell’esercito regolare in Birmania, nella lotta armata contro le minoranze etniche, ma anche in Ciad, Repubblica democratica del Congo, Somalia, Sudan, Uganda e Yemen. I guerriglieri stessi utilizzano bambini soldato: in Afghanistan, Iraq e Pakistan sono stati impiegati come attentatori suicidi. In Africa le guerriglie hanno utilizzato recentemente i minori in guerra in Burundi, Ciad, Costa d’Avorio, Liberia, Nigeria, Repubblica Centrafricana, Repubblica Democratica del Congo, Somalia, Sudan ed Uganda. Ragazzi palestinesi - rileva ancora il rapporto - sono stati utilizzati come scudi umani dall’esercito israeliano e soldati inglesi minorenni di 18 anni sono stati inviati in Iraq fino a metà del 2005. Gli eserciti governativi utilizzano i bambini in gruppi di supporto o come spie ed informatori. Tale utilizzo li espone al rischio, qualora catturati dagli eserciti, che vengano trattati da criminali e non da vittime. Il rapporto documenta la detenzione di bambini di appena 9 anni incarcerati in Burundi, di minori maltrattati o torturati in Israele, di minori catturati in Afghanistan e detenuti dagli Stati Uniti a Guantanamo, in spregio del diritto internazionale. Un ruolo chiave nel prevenire e porre fine all'arruolamento è svolto dai programmi di disarmo riabilitazione e recupero, che però hanno avuto un impatto limitato, soprattutto a causa della scarsità di fondi; 14mila ex baby soldato non hanno potuto farvi ricorso: sono le bambine ad essere particolarmente penalizzate, di cui solo l’8-15% accede a tali programmi.

l’Unità 24.12.08
Tecnici, il diploma con il visto di Confindustria
Regalo della Gelmini
di Maristella Iervasi


Confindustria ce l’ha fatta a mettere le mani su un pezzo della scuola pubblica. La Gelmini ha trascritto tutte i «suggerimenti» dell’action plain nello schema di regolamento per gli istituti tecnici.
Nelle slide che ha consegnato ai giornalisti dopo il consiglio dei ministri prima di Natale, la Gelmini maestra unica si è guardata bene di scoprire le carte. Ma il regolamento sul riordino degli istituti tecnici, ora all’esame del governo, «parla» chiaro: Confindustria avanti tutta nella governance di un pezzo della scuola pubblica. Come anticipato da l’Unità il 13 novembre scorso, saranno proprio gli industriali a «comandare» sui percorsi d’istruzione. Addirittura con l’istituzione di un Cda negli istituti - che la Gelmini ha preferito chiamare comitato tecnico-scientifico per non destare sospetti -. E non finisce qui: le imprese faranno parte delle commissioni finali per gli esami di stato. I docenti tecno-pratici verranno sostituiti da personale «scelto» direttamente dalle imprese. Sul piano didattico, la nuova materia di Scienze integrate: un mix di fisica, chimica e scienze. Tutti «consigli» degli imprenditori, elaborati nel 2007 nell’«action plain» del settore Education (contenuti, governance e risorse umane), rilanciati nell’ottobre scorso da Confindustria ai presidi del Nord, che la Gelmini ora ha trascritto punto per punto nello schema di regolamento attuativo. Un anno di attesa per far «digerire» la linea, spacciata come novità. Poi dal 2010 l’attuazione del piano. Ma ecco come gli industriali metteranno le mani (ma non i soldi, il finanziamento resterà a carico dello Stato) su un pezzo di scuola.
TECNICI SUPERIORI
La giungla dei 39 indirizzi e delle 204 tipologie di corsi verrà sfoltita ad 11 indirizzi - come Confidustria ha suggerito - e distinti in 2 settori: tecnologico (meccanica, trasporti, elettronica ed elettrotecnica, informatica, comunicazione, chimica, tessile, agricoltura, costruzioni) ed economico (amministrazione, finanza e marketing, turismo). Gli istituti tecnici - si legge nel regolamento Gelmini - «costituiscono il riferimento degli istituti tecnici superiori con l’obiettivo prioritario di sostenere lo sviluppo delle professioni tecniche a livello terziario, con le specializzazioni richieste dal mondo del lavoro, con particolare riferimento alle piccole e medie imprese». Avranno avranno un orario annuale di 1.065 ore corrispondenti a 32 ore settimanali di lezione di 60 minuti contro le attuali 36 di 50 minuti. I percorsi saranno strutturati in 2+2+1 (primo biennio con contenuto formativo di base, secondo bienno specialistico a seconda degli indirizzi e quinto anno di perfezionamento).
INGLESE
Confindustria si è detta contraria alle due lingue straniere: «non è realistico» si legge nell’action plain e ha «suggerito» anzi che un’altra disciplina venga studiata in lingua inglese. La Gelmini ha subito raccolto: ha inserito la possibilità di insegnare 1 disciplina tecnica in british.
INTERROGANO LE AZIENDE
Articolo 6 del regolamento, valutazione e titoli finali: «Le commissioni di esame si possono avvalere di esperti del mondo economico e produttivo con documentata esperienza nel settore di riferimento».
COMITATO TECNICO-SCIENTIFICO
Come se le scuole pubbliche fossero aziende. «Se il termine Cda disturba - precisa Confindustria - se ne può trovare un altro. Ma non si può prescindere da uno specifico modello di governo degli istituti tecnici, data la loro precisa missione: formare i quadri intermedi che devono contribuire allo sviluppo delle aziende di produzioni e servizi». Da qui la soluzione Gelmini: i futuri tecnici saranno organizzati per dipartimenti, «avranno un comitato tecnico-scientifico a cui parteciperanno esperti provenienti dal mondo del lavoro e della ricerca».

l’Unità 24.12.08
Secondo biennio, la Cgil scuola si mobilita


Il Comitato direttivo della Cgil nazionale ha approvato un ordine del giorno che «condividendo il giudizio negativo della Federazione lavoratori della conoscenza sull’accordo relativo al 2° biennio del contratto del personale della scuola statale e la conseguente decisione di non sottoscrivere l’intesa» - firmata solo da Cisl e Uil -, impegna «tutte le strutture a sostenere l’ampia campagna di assemblee di informazione, di discussione e mobilitazione nei luoghi di lavoro e la richiesta del referendum tra i lavoratori». La Flc-Cgil ribadisce il giudizio contrario all'accordo: «destruttura» il contratto nazionale e «codifica la progressiva riduzione degli stipendi». Per il sindacato, «la firma separata del contratto indebolisce la possibilità di incidere sulle scelte di Governo.

l’Unità 24.12.08
Accordo senza la Cgil per il contratto Parastato


La trattativa all'Aran per il rinnovo del contratto per il personale degli enti pubblici non economici si è conclusa con la sottoscrizione di un accordo separato. Lo riferisce la Fp-Cgil, che annuncia ricorsi in tribunale.
«Questo accordo non interviene sul potere d'acquisto dei lavoratori e non restituisce i soldi sottratti dalle loro tasche con la legge Tremonti - dice il segretario generale Carlo Podda - il contratto è stato sottoscritto da Cisl e Uil, senza l'adesione del 51% delle organizzazioni sindacali, fatto di una gravità politica inaudita, peraltro illegittimo dal punto di vista normativo».
«Altro fattore insolito è la dinamica con cui la seduta si è conclusa - aggiunge il leader della Fp - si stava procedendo alla firma senza che le organizzazioni sindacali avessero dichiarato le loro posizioni, fatto che certifica i nostri sospetti su una preparazione preventiva dell'incontro in tavoli non istituzionali».
L'intesa siglata da Cisl e Uil prevede un aumento di 78 euro destinati ad incremento tabellare, 10 euro all'indennità di ente e altri 10 al fondo di produttività (98 euro in tutto).

l’Unità 24.12.08
Darwin non piace ai texani
di Bruno Gravagnuolo


Sciocchezzaio di Natale. C’è solo l’imbarazzo della scelta, a spigolare tra articoli culturali e commenti. Ecco alcune perle, tratte dai pensierini di due «maestri» e comparse su Corsera e Repubblica di domenica. Rodney Stark, ad esempio, che non è un cantante rock. Ma «il maggiore sociologo delle religioni», come lo presenta sul quotidiano milanese Maria Antonietta Calabrò. E che dice lo scienziato della Baylor University del Texas? Si oppone al fatto che «la teoria dell’evoluzione venga insegnata come verità eterna». Strano, questi texani vedono le cose sottosopra. Non già che sono i creazionisti, a voler imporre la loro verità come assoluta, ma il contrario. Non già che l’evoluzione è una teoria falsificabile, e l’altra no. Ma il contrario. Andiamo avanti con Stark. Che dice: «Fin dall’inizio il Cristianesimo ha fatto appello alla ragione, regole e verità date da Dio devono essere razionali...». Strano. Ma Agostino non teorizzava il «credo quia absurdum»? E Gesù non propugnava l’amore assoluto e senza limiti? E a Nicea e Calcedonia non si impose il dogma del’Uno che si fa Tre e viceversa? E non si dovrà attendere Tommaso per riequilibrare un po’ la la fede con la ragione? Ancora Stark: «Bravo il Papa che invita l’Islam alla ragione!». Per poi aggiungere che sì, nel Corano c’è la tolleranza, ma.. insomma questi islamici «non hanno abbastanza volontà»...Altro che Texas, questa è roba da chierichetti nostrani (per solito più acuti). Infine, battuta «fulminante»: «Il dialogo? Senza fermo impegno sulla fede non c’è nulla da discutere, visto che non ci può accordare su alcunché...». Dialettica texana, e chi ci capisce è bravo! Passiamo infine a Marc Lazar, storico francese. Che su Repubblica proclama: la sinistra non sa capire e criticare la destra. Non capisce Sarkozy e Berlusconi. E invece di darsi leader forti come loro, li distrugge e li fa a pezzi, vedi Royal e Veltroni. Conclusione: bisogna «personalizzare» le nostre democrazie. Complimenti a Lazar. ha capito tutto. Per battere la destra vuol (continuare) a fare come la destra. Buona notte, e buon Natale.

Corriere della Sera 24.12.08
L'onda delle inchieste mette sulla difensiva l'intero centrosinistra
di Massimo Franco


Di Pietro difende i suoi anni da ministro e i veltroniani le scelte per Roma

Colpisce vedere un Antonio Di Pietro sulla difensiva: costretto a spiegare quello che fece quando era ministro delle Infrastrutture; a rivendicare la rimozione del provveditore alle opere pubbliche di Campania e Molise, Mario Mautone, in rapporti ambigui col figlio, Cristiano Di Pietro; e a pronunciare un «buon lavoro ai magistrati! » a denti stretti. Il leader dell'Idv assicura di non avere nulla da temere. Ma poi adombra una manovra pilotata contro di lui. Fa presente che alcune intercettazioni telefoniche sono filtrate «proprio dopo il voto in Abruzzo» in cui il suo partito, pur sconfitto, è cresciuto molto; e dopo il suo annuncio che l'Idv lascerà le giunte in Campania. È il segno di un'inchiesta che suscita molte domande e per ora dà poche risposte.
Ma da Napoli si allarga fino a lambire le persone e gli ambienti più impensati. Evoca comportamenti discutibili che danzano in una nuvola di ambiguità: vicende così opache da candidarsi a diventare ipotesi di reato. La schiuma delle indagini ieri ha raggiunto indirettamente il Campidoglio. La conferenza stampa di Marco Causi, ex assessore al Bilancio di Veltroni sindaco, ha cercato di dissolvere le ombre. Ma la conferenza in sé ha finito per sottolineare l'imbarazzo per i rapporti con l'azienda di servizi di Alfredo Romeo.
È difficile, per ora, dire dove finisca l'aspetto dell'interesse personale o politico legittimo, e cominci qualcosa di diverso. La coincidenza con le polemiche sulla limitazione delle intercettazioni telefoniche, suggerisce cautela. Da settimane il governo Berlusconi preme per una riforma della giustizia, contrastata da magistrati e opposizione, ma anche da alleati come An e Lega. Il rischio che sulle indagini si inseriscano manovre strumentali da ogni parte, non si può escludere. Alcune rivelazioni appaiono funzionali alle richieste di chi chiede un giro di vite. Tuttavia, prevedere l'epilogo appare impossibile. Si può solo osservare una classe politica sotto scacco, col centrosinistra particolarmente esposto, dall'Abruzzo alla Campania, alla Toscana; e presto, a sentire i maligni, al Lazio.
Non solo. Il rapporto fra il Pd veltroniano e l'Idv di Di Pietro viene messo alla prova proprio da queste inchieste. La tentazione di additare un complotto è tenuta a freno, ma rimane in agguato. Assecondarla significherebbe offrire il fianco alle ironie degli avversari. L'alternativa è accettare le proposte berlusconiane di riforma, che costringerebbero il centrosinistra a rimettere in discussione, prima che una politica, una cultura. Sono veleni destinati a fluire a lungo. Non rappresentano un buon viatico, alla vigilia di un anno già allarmante per l'economia. Eppure, fino a che non si troverà una soluzione, o almeno un compromesso, nessuno sarà in grado di fermare una deriva che tende a delegittimare tutti.

il Riformista 24.12.08
Il cupio dissolvi del Pd
di Marco Vitale


Prendo le mosse dall'eccellente e oggettivo articolo di Pansa sulla incurabilità del Pd, così come è. L'argomentare di Pansa è molto convincente. La situazione è chiara: andando avanti così il Pd va verso una lenta estinzione e, personalmente, la lettura di Pansa, pur amara, mi sembra seria e realistica.
Forse possiamo fare a meno del Pd. Ma possiamo fare a meno di un partito che bilanci il crescente potere del centro-destra? A me sembra di no, a meno che accettiamo consapevolmente lo scivolamento verso il partito-coalizione praticamente unico. Eppure come stanno le cose, questa appare come una deriva inevitabile, nella prospettiva illustrata da Pansa. L'unica speranza è che il centro-destra, accecato da troppo successo, faccia qualche grosso errore sul piano istituzionale, suscitando timori ed indignazione e ricompattando il fronte alternativo. Ma è una speranza modesta, perché mi sembra che i "berluscones" si siano fatti anche furbi. E allora?
Quello che sta avvenendo è conseguenza logica e inevitabile di un errore di impostazione iniziale. Quando nacque il progetto Pd, si suscitarono entusiasmi parlando di un partito di massa, culturalmente aperto, aggregato intorno ad una visione e non a un semplice patto di potere. Ma nei fatti andò molto diversamente. Nacque solo un patto di potere tra le nomenclature dei Ds e della Margherita.
Questo fu evidente da subito e da subito suscitò un sofferto e critico riflusso. Da questa impostazione iniziale deriva tutto il resto, compreso l'affarismo e la corruzione. Ma soprattutto la mancanza di una visione, la natura di un partito «che non sa cosa fare, non sa come farlo e non sa con chi farlo» (Pansa).
Bisogna correggere quell'errore iniziale. Quello che occorre non è il cambiare questo o quel personaggio, ma fare una rifondazione che rimuova quell'errore iniziale. La proposta è che si dia vita ad una costituente del Pd che realizzi una rifondazione del partito facendone veramente un soggetto aperto, che sappia andare oltre alle nomenclature. Ed insieme ad un soggetto che si ridia una struttura territoriale e organizzativa seria ed una disciplina per evitare la situazione in cui «il primo che si alza comanda». Questa potrebbe anche rappresentare la via e l'occasione appropriata per un riesame delle alleanze. Non sono così ingenuo da pensare che questa iniziativa possa essere presa dagli attuali capi delle nomenclature senza una adeguata pressione. Ma nutro la speranza che possa essere promossa da uomini di valore, che hanno fatto bene nei rispettivi incarichi (penso ad esempio a Chiamparino a Torino, a Pericu a Genova e a parecchi altri) o che hanno una storia positiva nella loro professione o attività culturale, e che, quindi, abbiano la capacità di mobilitare le energie valide del Paese. La parola d'ordine dovrebbe essere: una rifondazione per un partito di pensiero e di interessi popolari, un partito con un progetto positivo, un partito aperto alle energie che esprime il Paese, un partito organizzato in modo serio. La speranza è che un'azione di questo tipo forte ed autorevole, se sostenuta da una seria campagna stampa e se troverà una risposta generosa dal popolo delle primarie, finisca per trascinare anche i riluttanti capi della nomenclatura. Mi rendo conto che è difficile. Ma, perso per perso, varrebbe la pena di tentare. O c'è qualche alternativa più facile ed efficace? Forse è possibile, anche se non comune, correggere degli errori d'impostazione. Bisogna sforzarsi di reagire alla deriva di cui parlò Leopold von Ranke con queste parole: «Non è cecità, non è ignoranza quella che manda alla rovina uomini e Stati. Non a lungo resta loro celato dove li condurrà la strada imboccata. Ma in essi è un impulso, favorito dalla loro natura, rafforzato dall'abitudine, cui non si oppongono e che li trascina in avanti, finché possiedono ancora un residuo di vita… I più vedono la propria rovina di fronte a sé, eppure vi si gettano a capofitto».

il Riformista 24.12.08
Rivoluzione o reducismo? Contro-agiografia del '68
di Marco Gervasoni


Finalmente un libro sul Sessantotto il cui autore non è né un reduce né vive del mito. Spesso gli "anni formidabili" sono stati studiati a metà tra l'autobiografia e l'agiografia. Qui invece si respira un'aria di politicamente scorretto. Sognando la rivoluzione. La sinistra italiana e le origini del '68 (Mauro Pagliai editore, 15 euro) di Danilo Breschi tratta in realtà degli anni che hanno preparato il '68.
Il linguaggio di quella stagione nacque da un gruppo di intellettuali, di politici e di riviste di quegli anni, dai titoli ora evocativi e minacciosi (Quaderni rossi, Classe operaia, Il Potere operaio) ora più blandi (Il progresso veneto) ma non meno ricchi di contenuti esplosivi. A far uscire queste riviste un variegato mondo di già maturi politici socialisti delusi dal nascente centro-sinistra (Raniero Panzieri, Vittorio Foa), di trentenni letterati e filosofi come Alberto Asor Rosa, Mario Tronti, Toni Negri, di ventenni "normalisti" come Adriano Sofri e Gian Mario Cazzaniga. La loro dottrina era "l'operaismo", fissato in un testo chiave dell'epoca come Operai e capitale di Tronti, uscito nel 1966. Chi erano i loro principali nemici? La Dc più conservatrice? Le legislazione ancora per certi aspetti arretrata e liberticida? L'assenza di garanzie e di diritti minimi per quei lavoratori di cui si facevano interpreti? No, il nemico principale era il riformismo che, nel caso italiano, significava il centro-sinistra di Moro e Nenni.
Fa impressione il volume di fuoco, per il momento solo verbale (ma Valerio Morucci fu un accanito lettore di Tronti), che Asor Rosa, Tronti, Negri, Sofri e gli altri riversarono contro un esperimento, quasi ancor prima che partisse. Il governo "repressivo" era quello di Moro, uno degli statisti più progressisti del nostro paese e il Partito socialista al governo uno dei più a sinistra dell'Europa occidentale. Questo livore nei confronti del centro-sinistra caratterizzò poi tutto il '68 quando il movimento si augurò la presenza di un governo reazionario che facesse esplodere "le contraddizioni". Il Pci criticava l'operaismo riconoscendovi però un figlio forse un po' sbandato ma tutt'altro che degenere. Altrimenti come avrebbe visto la luce presso una casa editrice come Einaudi Operai e capitale di un filosofo alle prime armi? Ma l'abbraccio tra il Pci e i giovani occupanti avvenne tra il '67 e il '68. Un abbraccio che non è solo tattico. Le occupazioni universitarie costituirono una bombola di ossigeno per un Pci in crisi, che finì per coprire le azioni del movimento per ritrovare un ruolo.
Ma la favola di un partito già pronto a governare, già "riformista" e perciò estraneo alla violenza è appunto una favola. L'autore si ferma al '68 ma chi studiasse il rapporto tra il Pci e violenza rossa scoprirebbe un Pci assai più connivente con il mito della violenza rivoluzionaria. È questo sogno a spingere gli operaisti a odiare il riformismo e la democrazia, a sovrapporre alle figure concrete degli operai negli anni del boom una mistica classe. Idee e parole che alimentarono più di una generazione, con esiti spesso tragici ma a volte anche comici e grotteschi.

il Riformista 24.12.08
Il centenario del terremoto di Messina/2 Distruzione e morte come in una guerra che continua
«Fermate gli sciacalli pure a suon di fucilate» incitava Bissolati
di Fabrizio d'Esposito


LEGGE MARZIALE. La si invoca per fermare l'assalto alle macerie e ai cadaveri anche durante la visita di Vittorio Emanuele, arrivato con la regina Elena. I soccorsi portati da don Orione. L'angoscia di Salvemini.
Diario di morte. Una delle più drammatiche foto scattate 100 anni fa a Messina dopo il terremoto. ...

Messina, 30 dicembre 1908. Il fetore dei cadaveri forma una cappa asfissiante su tutta la città. È una puzza che sa di zolfo e sale. Da palude mefitica. Irrespirabile. Chi non resiste alla nausea, sviene. L'arcivescovo ha benedetto le macerie che ancora intrappolano corpi flaccidi e gonfi, senza vita. Ha intonato il Requiem Aeternam. Stamattina alle nove è arrivato il re. È arrivato da mare con la regina. Ma Elena di Montenegro non è sbarcata. Troppo pericolose le rovine del terremoto di lunedì scorso. Ha visitato le altre navi dei profughi. Quello che resta di Messina vive sull'acqua. Una città galleggiante. Vittorio Emanuele ha fatto un sopralluogo col ministro della Giustizia, Vittorio Emanuele Orlando. Ha girato per i rioni della Marina. È salito su alcuni cumuli di detriti. Ripeteva, ogni volta: «È terribile, è terribile». Al premier Giolitti ha telegrafato un messaggio secco: «Il disastro è immenso e molto più grande di quanto si può immaginare». Sul Corso Primo Settembre il re ha visto un bambino piangere. Gli si è avvicinato. Il bimbo voleva baciargli la mano. Vittorio Emanuele l'ha preso in braccio e gli ha accarezzato la fronte. Un orfano.
La visita del re non ha impedito le scosse di assestamento. Né i saccheggi degli sciacalli. I carabinieri ne hanno ucciso un altro, che tentava di scappare. Persino i socialisti sono a favore dell'esecuzione istantanea. Scrive stamattina il direttore dell'Avanti Leonida Bissolati: «Profittando del disastro, tutti gli elementi sociali perversi o pervertiti, si danno a correre le rovine, invadono le case deserte per sfogare i loro istinti di selvaggia rapina. Si dice che il Governo abbia telegrafato concedendo pieni poteri alle autorità militari per salvare le sventurate popolazioni dall'assalto di quei feroci. Noi non esitiamo ad approvare il provvedimento. Noi diciamo che in casi come questi la difesa sociale può farsi legittimamente anche a suono di fucilate. Uomini che si lanciano al saccheggio in quest'ora, non sono uomini ma lupi. E van trattati come lupi». Si invoca la legge marziale, dunque. E si parla anche di proclamare lo stato d'assedio. Sembra una guerra. Ma è un terremoto. I militari vorrebbero evacuare la città. E distruggerla per sempre. I sopravvissuti vengono ricattati: cibo a bordo dei piroscafi e solo se si accetta di essere deportati altrove. Da superstiti a profughi. I soldati italiani vengono descritti come oziosi dai loro colleghi russi e inglesi. Sono arrivati dopo, con un giorno di ritardo. Eppure la Marina italiana divora milioni di lire dal bilancio del governo. Da Roma si provano a difendere: «Il disastro ci ha colpiti in pieno periodo di ferie, quando gli equipaggi sono ridotti alla metà, e in pieno inverno, nell'epoca in cui s'iniziano i lavori di riparazione delle unità e di riordinamento delle squadre. La nostra flotta era nelle peggiori condizioni e non si possono far confronti con navi e squadre ancorate in prossimità delle regioni colpite».
Quando un popolo piange cerca anche eroi e capri espiatori. I messinesi inveiscono contro gli speculatori, gli sciacalli e lo Stato. Ma invocano la regina Elena e il deputato Peppino Micheli. A bordo delle navi che ospitano i superstiti la sovrana d'Italia ha assistito i malati come una vera infermiera. E il Quirinale, dicono, sarebbe pronto a trasformarsi in una sartoria per cucire abiti da mandare quaggiù. Il cuore italiano. Dalle altre città arrivano notizie sulle passeggiate di beneficenza: sono carri che sfilano per le strade raccogliendo viveri e vestiti. Giuseppe Micheli è un deputato di Parma. Ha trentaquattro anni ed è un omone coi mustacchi all'insù. Le sue baracche vengono già chiamate Michelopoli. Per lui, il generale Mazza, una sorta di pro-dittatore del sisma, ha derogato all'ordine che vieta il soccorso a chi non si imbarca. La baracca numero uno di Micheli è il quartier generale della rinascita. Quelli che sono rimasti si rivolgono a lui per ogni evenienza. Micheli smista e stampa pure un bollettino quotidiano. Nella baracca numero due si presentano le domande per continuare a scavare e per entrare liberamente nella città. Nella tre, infine, si fanno gli accertamenti informativi prima di rilasciare i permessi. Micheli è un politico cattolico e Messina ha una grande tradizione massonica e anticlericale. Fino a cinque anni fa, sindaco della città è stato il repubblicano Antonio Martino.
Messina, primi di gennaio del nuovo anno. Sull'Apocalisse del 28 dicembre si sta consumando una feroce battaglia tra cattolici e laici. In città è arrivato anche don Luigi Orione, il fondatore della Piccola Opera della Divina Provvidenza. Don Orione ha molti nemici. Il clero locale lo ostacola. E coi massoni lotta sulla sorte degli orfani. I militari vorrebbero farli adottare dall'esercito come mascotte. Uno per ogni reggimento. Ma resterebbe comunque il problema delle orfane. Don Orione è instancabile nel raccogliere i bimbi rimasti senza il papà e la mamma. Ed è implacabile contro massoni, democratici, socialisti e repubblicani. Ha fatto stampare un volantino in migliaia di copie per far conoscere alla popolazione superstite una poesia anticlericale pubblicata da un giornalino umoristico sette giorni prima del terremoto: «O bambinello mio/ vero uomo e vero Dio/ per amore della tua croce/ fa sentire la nostra voce/ Tu che sai, che non sei ignoto/ manda a tutti un terremoto». Ma non è l'unica profezia di sventura. Si racconta che il 26 dicembre, due giorni prima della catastrofe avvenuta all'alba di lunedì, un ebanista di nome Girolamo Bruno è stato condannato a due anni di carcere per furto. In tribunale c'era anche la madre dell'uomo, Carmela, che quando ha ascoltato la sentenza è andata via con gli occhi dilatati e urlando contro i giudici: «Mala nova! Avi a véniri u tirrimotu cu ll'occhi e v'avi a 'mmazzari a vui birbanti e a tutta Missina». «Maledizione! Ha da venire un terremoto con gli occhi e ha da ammazzare voi birbanti e tutta Messina».
L'educazione futura degli orfani sta dividendo in maniera cruenta laici e cattolici. Questi ultimi vedono come il fumo negli occhi, fumo di Satana, per la precisione, il Patronato intitolato alla regina Elena e istituito dal Comitato centrale di soccorso del governo. Eclatante il caso dei sessanta orfani cattolici aiutati dai valdesi di Firenze. Denuncia Giuseppe Toniolo, presidente dell'Unione popolare fra i cattolici d'Italia: «Bisogna opporsi con tutte le forze e tutti i mezzi a chi nelle sue losche vedute avesse scorto nella catastrofe calabrese e siciliana un'occasione propizia per reclutare a buone condizioni la merce umana per la tratta delle bianche o per le vetrerie di Francia, ma allora perché non è da considerare con lo stesso orrore il tentativo di prostituzione morale che insidia gli innocenti bambini che oggi sono avviati a Firenze per apprendere l'eresia valdese, e che domani, forse, ingrosseranno il numero ancora troppo ristretto degli alunni di qualche convitto neutro che prepara i futuri apostati dell'Italia laica e anticlericale?».
Chi si batte affinché gli orfani restino a Messina è Gaetano Salvemini. Il Corriere della Sera nei giorni scorsi gli aveva già dedicato un commosso ricordo. Ma il giovane professore socialista si è salvato. Dice che i bambini «non devono essere scardinati dalla terra che li vide nascere; non devono diventare settentrionali». Il terremoto ha sterminato la moglie e quattro figli di Salvemini. Lui va alla ricerca del quinto, non si rassegna e a Giovanni Gentile scrive: «Voglio tornare a Messina per ricercare sotto le macerie quello dei miei bambini, Ugo, tre anni, che non trovai nei giorni passati. Può darsi il caso che sia stato salvato, mentre io non ero presente, e che vada orfano per il mondo. Appena troverò il cadavere mi metterò l'anima in pace. Se non troverò il cadavere lo cercherò vivo per il mondo»
(2. continua)