domenica 28 dicembre 2008

il Riformista 28.12.08
Bonaccorsi su Liberazione fornisce la doppia versione
Putsch. Il nuovo editore sul Corriere "licenzia" Sansonetti. Ma su Repubblica denuncia: «Troppi nemici, l'operazione non andrà in porto».
di Alessandro Da Rold


Spira un freddo gelido su Liberazione. A due giorni dall'atteso «putsch» - come lo definiscono alcuni all'interno del quotidiano comunista - sul consiglio di amministrazione, destano più di qualche dubbio le due interviste rilasciate dal probabile prossimo editore Luca Bonaccorsi a Repubblica e Corriere della Sera. Due articoli in parte contradditori - sul giornale di De Benedetti l'editore mostra un certo scetticismo sull'operazione («Temo non andrà in porto»), su quello di via Solferino anticipa alcune mosse - che confermano però due dati inequivocabili: l'attuale direttore Piero Sansonetti con tutta probabilità sarà rimosso, l'affare con l'editore bertinottiano di Left sarebbe a buon punto. Sono ancora supposizioni certo, ma sembra essere questa la sensazione più accreditata tra gli addetti ai lavori. A sciogliere ulteriori dubbi saranno appunto i prossimi giorni, quando l'attuale cda sarà cambiato dalla direzione del partito e inizierà la rivoluzione firmata Paolo Ferrero. Bonaccorsi ha le idee chiare a riguardo. Sansonetti? «Il suo tempo mi sembra esaurito. Il partito è cambiato, il giornale va cambiato». Il direttore ribatte che fino a quando vedrà nero su bianco la lettera di licenziamento lui non se ne andrà. E poi al Riformista aggiunge: «Da quando è stato nominato segretario, Ferrero non mi ha convocato neppure una volta per parlarmi della situazione». La linea finora tenuta da Rifondazione, come anche dallo stesso Bonaccorsi, su Sansonetti è una: il quotidiano ha preso una piega troppo mediatica, tra Luxuria e micro falli, dimenticando la vera inclinazione editoriale che dovrebbe avere un quotidiano comunista. Quindi, come spiega appunto Bonaccorsi, la nuova Liberazione sarà «il primo giornale italiano di inchiesta sociale e sul lavoro. Notizie, fatti, denunce che non trovi sugli altri giornali, sul lavoro, sul welfare, la pace, la politica. Dovrà stare nelle fabbriche, nelle scuole, negli ospedali».
In realtà, alla base del dissidio tra Ferrero e Sansonetti ci sarebbero questioni politiche di organizzazione dei piccoli partiti della sinistra radicale, «questioni su ci divergevo pure con Giordano - spiega il direttore - ma almeno con lui riuscivo a parlare». Intanto la proposta rilanciata ieri sul quotidiano non ha sortito alcun effetto. «Non mi ha telefonato nessuno», commenta Sansonetti. Ferrero è in Palestina e «ha sicuramente questioni più importanti a cui badare». L'idea dell'ex giornalista dell'Unità è questa: creare un comitato di garanti che assuma il ruolo vero e proprio di editore. E i nomi di quelli che secondo lui potrebbero essere le «personalità indiscusse della sinistra» alle quali chiedere di assumersi questa responsabilità sono questi: Paolo Ferrero e Fausto Bertinotti innanzitutto, e accanto a loro Lea Melandri, Mario Tronti, Luisa Boccia, Moni Ovadia, Susanna Camusso, Stefano Rodota'. Un giornale «non è di nessuno», sostiene nell'editoriale Sansonetti. Nel senso - spiega precisando di seguire un ragionamento "ideale" - che «nessuno può pretendere il dominio, né la sua redazione, né tantomeno il direttore ma nemmeno il proprietario», e aggiunge: «Io guardo esattamente da questo punto di vista la vicenda di Liberazione. Penso che non appartenga a nessuno, sia una specie di bene comune della sinistra».

Repubblica 27.12.08
Il personaggio
Liberazione, il rilancio di Sansonetti "Diamo il quotidiano ai suoi giornalisti"


ROMA - Liberazione ai 35 giornalisti di Liberazione: perché no? È l´ultima idea del direttore Piero Sansonetti, da mesi in lotta con l´attuale maggioranza di Prc guidata da Paolo Ferrero. «Sto lavorando a un´associazione di chi lavora qui. Possiamo prenderlo noi, il giornale. Vediamo come, con quali aiuti. Questa associazione può gestire la testata insieme con un comitato di garanti composto da figure illustri della sinistra italiana». Così si può andare avanti secondo Sansonetti: liberi, autonomi e soprattutto davvero di sinistra. Fra i garanti Sansonetti propone Ferrero, Bertinotti, Lea Melandri, Tronti, Luisa Boccia, Ovadia, Camusso e Rodotà. «Ma se ne possono aggiungere altri. Burgio e D´Orsi per esempio, che sono vicini alla maggioranza». L´associazione è una proposta competitiva con quella dell´editore Luca Bonaccorsi, già creatore di Left, possibile acquirente scelto da Ferrero e molto critico con Sansonetti. «Bonaccorsi accusa il Manifesto di voler cancellare Liberazione, ma può essere lui il vero affondatore. Ho molti dubbi sul fatto che voglia mettere due-tre milioni di euro nell´operazione sul giornale, penso abbia in testa ben altro. Nel settimanale Left, che non ha alcun peso, non ha messo molto denaro, questo è sicuro. So invece che punta a una svolta a destra del quotidiano con una linea antifemminista e omofoba».

Liberazione 28.12.08
Un giornale tra autonomia e logiche padronali
di Lea Melandri


Ho dato con piacere e senza esitazione la mia disponibilità a far parte del "comitato editoriale" proposto da Piero Sansonetti, come "garanzia" della continuità del lavoro svolto finora da Liberazione, e come una possibile uscita dalle secche di un dibattito che è andato sempre più scadendo in uno scontro tutto interno ai rapporti tra il partito e il giornale. Per accettare mi bastava la convinzione, più volte espressa sul quotidiano stesso da me e da altri collaboratori e lettori, che un giornale, qualunque sia la fonte di finanziamento a cui si appoggia, deve avere l'autonomia come requisito imprescindibile della libertà di informazione e di pensiero. Ma l'editoriale di ieri, 27 dicembre 2008, in cui Sansonetti espone le ragioni della sua proposta, ha contribuito ulteriormente a dissipare dubbi, interrogativi, e soprattutto stanchezze, che potevano indurmi all'attesa rassegnata di un esito qualsiasi, a cui dire semplicemente: sì o no.
Mi riferisco alle difficoltà economiche e politiche, e soprattutto al nesso di consequenzialità tra le une e le altre, che dovrebbe impedire di pensarle separatamente, un nesso che non a caso non viene mai esplicitato o discusso.
Un giornale di partito, che ha avuto il merito di aprirsi a soggetti, tematiche, movimenti gravitanti nell'area dell'impegno sociale e culturale della sinistra, e che, proprio per questo, viene osteggiato da gran parte dei militanti di quella organizzazione politica, pone innanzi tutto seri interrogativi sui fondamenti ideologici che la guidano: sul rapporto tra appartenenza e libertà, tra ciò che si considera "proprio" e ciò che accomuna ad altri, tra obbedienza, consenso e partecipazione critica. Non sono domande nuove, purtroppo. E' dal '68 in avanti che i partiti di sinistra, le loro rigidità organizzative, burocratiche e chiesastiche, le loro chiusure ideologiche verso ogni "esterno", sentito come minaccioso, vengono scosse a più riprese da movimenti nati dal basso, da quei "territori" a cui oggi guardano come a patrie perdute o miraggi, soprattutto se è il populismo di destra ad abitarli sempre più estesamente. Il caso di Liberazione perciò viene al seguito di una lunga storia di conflitti, avvicinamenti e prese di distanza, riconoscimenti reciproci e divisioni, e diventa per questo emblematico del nodo di contraddizioni irrisolte su cui si gioca il futuro della sinistra istituzionale.
L'idea "proprietaria", che oggi viene invocata dalla maggioranza del Prc, per riportare il giornale nell'alveo di una più "autentica" e "omogenea" tradizione comunista, è evidente che riguarda più la politica che i costi, come dimostra il fatto che è disposta a un cambio di proprietà economica, a condizione di riservare a sé gli editoriali e le prime pagine del quotidiano. Se la politica può essere pensata in chiave di potere esclusivo, "dominio" riservato ad alcuni, luogo di una decisionalità di conseguenza autoritaria, è perché, separandosi sempre più dalle vite e dalle persone reali, parlando il linguaggio totalitario di tutti i gruppi chiusi, è diventata un ibrido poco convincente di mestiere e di astrattezza ideologica, gergalità e semplificazione mediatica.
Dire - come si legge nell'editoriale di Sansonetti - che "un giornale è la sua storia, le sue idee, il suo ruolo, i suoi lettori, le aree e i partiti politici ai quali si rivolge e con cui dialoga", significa riconoscere che alla logica padronale - sia essa finanziaria o ideologica - si è inteso sostituire l'idea di un potere esercitato collettivamente, alla difesa di un pensiero unico, "autentico" e "omogeneo", la composizione faticosa, continua e mai definitiva, di voci diverse, a volte dissonanti, ma accomunate dalla convinzione che siano le difese, erette dalla politica tradizionale contro esperienze essenziali dell'umano, a minacciarne la sopravvivenza. La trattativa avviata per vendere Liberazione a un editore che dichiara di voler raddrizzare la rotta di un giornale portato dal suo direttore contro gli scogli pericolosi della sessualità, del femminismo, dell'omosessualità e del trans gender, dice, fuor di metafora e sia pure per interposta persona, quanto i "rifondatori" del comunismo siano lontani dai movimenti di liberazione che, di fatto, da decenni questo ripensamento lo hanno avviato, costruito pazientemente, incontrando, da parte di chi pensavano interlocutore, solo ostacoli, strumentalità, messa sotto silenzio.
Non si tratta perciò solo di "garantire" l'autonomia che ha contraddistinto la direzione attuale, ma lo spiraglio che il giornale, pur con le sue vendite limitate, ha aperto nel tormentoso rapporto tra sinistra partitica e movimenti, tra esigenze organizzative e pratiche non autoritarie, tra conflitto sociale e non violenza, tra capitalismo e forme di dominio, sfruttamento, non riducibili ai rapporti di produzione e lavoro, tra falsa neutralità delle culture maschili tuttora imperanti e femminismo.

Liberazione 28.12.08
Come salvare Liberazione. Ovvero, come affossarla
di Elettra Deiana


Sul Corriere della Sera di ieri, in un articolo firmato da Andrea Garibaldi, Luca Bonaccorsi illustra il target e la mission del perfetto giornale di partito. Il giornale è Liberazione, ancora, più o meno, quello che conosciamo da quando è diretto da Piero Sansonetti; il partito è Rifondazione comunista del dopo Chianciano, alle prese con l'ardua impresa di uscire dall'impasse politica in cui è piombata, rilanciando a piene mani "iniziativa sociale" e "comunismo". Bonaccorsi è l'editore che inaspettatamente - ma forse non tanto inaspettatamente - si è messo in pista per comprare Liberazione, mettere alla porta Piero Sansonetti, conciliare giornale e partito. Impresa non da poco, come la cronaca degli ultimi mesi e soprattutto degli ultimi giorni sta a testimoniare. Perché tutto questo non si trasformi, come è invece nelle cose, in un'operazione di commissariamento del quotidiano, ci vorrebbero, al di là delle evidenti diversità e divergenze politico-culturali tra giornale e attuale maggioranza del partito, un punto di vista condiviso, una capacità di scambio, confronto, dialogo, una non troppo divaricante volontà delle mosse tattiche e delle intenzioni strategiche.
Salvare un giornale di sinistra, un "bene comune della sinistra", non dovrebbe stare a cuore a un partito che niente di meno promette, come il nuovo Prc, il "comunismo nel futuro"? Ma nulla di tutto questo è oggi a disposizione perché Rifondazione comunista non ha scelto soltanto un'altra linea politica e un altro segretario. Ha scelto la strada della restaurazione ortodossa, che rende impossibile la convivenza e la condivisione politica con un altro soggetto di prossimità - come è sempre più o meno un giornale di partito - così diverso da sé, così mediaticamente ingombrante, così emblematicamente e ostinatamente alloglotto. L'impossibilità della convivenza con la sfida dell'innovazione e della ricerca culturale, con la provocazione delle idee, con l'ostinato inseguimento dell'utopia tra le pieghe nascoste di esperienze umane così lontane e "oscene", nel senso etimologico della parola, cioè fuori dalla scena, dalla visibilità pubblica e, soprattutto, dalla tradizione della sinistra in generale e comunista in particolare: questo è quanto, per forza di cosa, volenti o nolenti dobbiamo registrare. Chi scrive, che non è mai stata, per cultura libertaria e anche faziosità femminista, né fan di Sansonetti, né supporter acritica di Liberazione, ne ha tuttavia condiviso e ne condivide la sfida, ne apprezza la ricerca spinosa e spesso scomoda, sa quanto valga la provocazione culturale nel deserto dell'indifferenziata smemoratezza di questo presente che viviamo. Ed è proprio su questo non riconciliabile punto di attrito che si è giocata la partita tra Liberazione e il partito. Ed è sullo stesso attrito che Bonaccorsi ha giocato le sue carte. Non voglio dire nulla sull'operazione che lui fa come editore, sull'"affare" o il "non affare" imprenditoriale, sulla gamma di altre sue imprese editoriali su cui i giornali hanno dato informazioni per lo più malevole. Suscita sconcerto - è questo che mi interessa sottolineare - la pesante leggerezza delle formule con cui Bonaccorsi affronta, nella chiacchierata con Andrea Garibaldi, una questione così complessa e complicata come il rapporto tra un giornale come Liberazione e un partito come Rifondazione comunista. Il direttore Sansonetti, dice il nuovo editore in pectore, sta portando la nave dritta sugli scogli: troppo spazio a questioni che non meritano tanto inchiostro e dilapidano copie del giornale. Ed elenca: Luxuria e l'isola dei famosi, il dibattito sul "microfallo" e una compagnia al seguito di argomenti contigui che mal si conciliano con l'esigenza di sanare i debiti, valorizzare le competenze professionali della redazione, rilanciare il giornale, soddisfare la nuova segretaria del Prc. Quali saranno gli altri argomenti? Li immaginiamo. Dunque Sansonetti a casa e sui nastri di partenza una Liberazione nuovo target: primo giornale italiano di inchiesta sociale e sul lavoro, pieno di notizie neglette sugli altri quotidiani su economia, pace, welfare, ecc, ecc. Due direttori, uno responsabile che fa il giornale e uno politico (nominato dal partito si suppone) che scrive fondi e cura la vita di partito. Promesse di ogni tipo poi su debiti, mantenimento dei posti di lavoro, bilancio in pareggio tra qualche anno. Finanziamento pubblico permettendo, of course. Insomma un'operazione che mette insieme un affare e un'opzione-operazione politica. Che si chiama, quest'ultima, affossamento di una voce critica e radicale dell'informazione di sinistra e messa in cantiere di un asettico e politicamente controllato giornale "comunista", denominato, per comodità imprenditoriale, ancora come la testata che ha fatto un po' di nobile storia di sinistra del nostro Paese. In altre parole, il tutto rappresenta anche una mano robusta alla nuova maggioranza del Prc. Che volete di più? Per il momento pare esclusa la presenza nell'impresa, se essa andrà in porto, dello psichiatra Massimo Fagioli, maitre a penser col quale Luca Bonaccorsi è in sodalizio. Uno dei meriti di Piero Sansonetti, tra gli altri, è quello di aver resistito al discutibile fascino di quel maestro e di non avergli concesso spazio su Liberazione. Vedremo che cosa succederà in seguito anche su questo versante, se l'impresa a cui stanno lavorando Ferrero e Bonaccorsi dovesse andare in porto.

l’Unità 28.11.08
Messina cent’anni dopo
di Marco Bucciantini


Le baracche dove trovarono alloggio gli sfollati oggi sono ancora lì. Cinquantamila metri quadri mai abbattuti. Il grosso risale agli anni 30. Ora ci vivono gli abusivi, in assenza di politiche abitative.

Che è successo qualcosa si capisce subito. Un colpo d’occhio disarmonico, come la cattedrale che s’affaccia sulla grande piazza di sbieco: un paesaggio cubista, nella tela le montagne, il mare. I palazzi moderni, l’edilizia popolare, le troppe ruspe, le sempiterne baracche. I colori di una striscia di terra dove Messina si allunga braccata dal fardello di una storia tragica e di un futuro spento da un debito spaventoso, 140 milioni di euro. La città sembra ruzzolare in acqua, come le sue strade.
Tutto va al mare, ma le baracche resistono. Sono il vero monumento di Messina. “Celebrano” il terremoto che cent’anni fa rase al suolo il 90% delle case. Passò poi il maremoto a finire il lavoro. Eccolo, il cuore di Messina: il villaggio Matteotti, i fondi, il Ritiro, il rione Taormina: cinquantamila metri quadrati, chi c’è nato non ci fa più caso. Adele Fisichella non c’è nata. Quando è andata ad abitare nella «casetta», così la chiama, aveva sei anni. «Questo era un lavatoio», e punta la sua abitazione. Delle baracche del dopo terremoto ne rimane solo un piccolo agglomerato confuso tra i nuovi palazzi dell’Annunziata. Struttura in legno, pavimento di cemento grezzo, ci viveva da settant’anni Concetta Albano: il centenario ha fatto il miracolo, scuotendo la burocrazia che le ha fatto ottenere, tre giorni fa, l’alloggio popolare.
Il retaggio del terremoto è soprattutto la cultura delle baracche. L’ediliza fascista fu qui insolitamente modesta: il grosso di questi umilianti tuguri risale agli anni trenta. Ricostruire dopo la seconda guerra mondiale fu facile e poco dispendioso: altre baracche. Svuotate da chi ottenne in seguito l’alloggio popolare. Ma anche rivendute, affittate, mai abbattute dall’amministrazione né dall’Iacp, l’Istituto di case popolari. «Ci sono persone che occupano da cinque anni o da un giorno: è un modo per ottenere l’alloggio popolare», spiega Angela Bottari, del Pd. Si crea così una graduatoria di fatto, da sanare. Così è per Adele, e mamma, papà, il marito, i due figli e la sorella. I sette Fisichella sono entrati in queste pareti di cemento armato 26 anni fa da abusivi. E aspettano la casa popolare: «Mio padre si è ammalato ai polmoni. Ogni tanto vengono, scrivono e se ne vanno». Accanto c’è il gruppo di casupole più infami, coperte in eternit (amianto). Sono basse, alte, grosse, strette. Addossate l’una all’altra in conforto, unite dal filo dei panni stesi e dal curioso fatto che se piove l’acqua entra dal tetto. Una legge regionale del 1990 destinò alla città 500 miliardi di lire per “risanare”. Chissà dove sono finiti quei soldi: le baracche censite nel 1959 erano cinquemila, cinquant’anni dopo sono ancora tremila.
La zingara «Non ci voli la zingara a ‘ndovinari a ventura», si dice da queste parti. E sono “cartacce” quelle in mano al sindaco Giuseppe Buzzanca, Pdl, già decaduto una volta perché usò l’auto blu per raggiungere la moglie in vacanza. È «peculato d’uso». Fu allontanato dalle cariche pubbliche, è tornato al comando, vincendo le ultime elezioni. Ma questa è terra di resurrezioni: Franco Tomasello è il rettore dell’università definita in commissione antimafia «l’ente appaltante più grande del meridione». Anche lui lascia e riprende la carica. Quando molla, c’è di mezzo la procura, che ha chiesto e ottenuto per due volte la sua sospensione: è indagato per i concorsi truccati a Veterinaria (il 5 marzo inizierà il processo, il rettore è accusato di concussione e abuso d’ufficio) e per favoreggiamento in un concorso per dirigente al Policlinico (coinvolto anche il presidente della Provincia, Nanni Ricevuto, sempre Pdl). L’epicentro dei terremoti politici dunque è l’università con i suoi appetiti di potere, gli interessi di mafia e ‘ndrangheta, il nepotismo. Guardare avanti non è semplice. Il Comune è tecnicamente fallito, evita di proclamare il dissesto per non mettersi il dottore in casa (leggi: il commissario. Anche lui va e viene). Il grosso del debito è a carico dell’Atm, la municipalizzata dei trasporti, che si mangia 34 milioni di euro. In una città così adagiata, una viabilità costruita a pettine (una linea centrale tramviara, da cima a fondo, servita da linee più brevi laterali) è di sicuro successo. Eppure non c’è. Altre aziende paracomunali - con gli amici sistemati nei millanta Cda - dissipano altri 20 milioni. Ci sono anche aspetti grotteschi: «Il comune perde tutte le cause in cui è chiamato a rispondere», rivela Emilio Fragale, direttore generale ai tempi della giunta di centrosinistra (che finì commissariata). Si chiama “gestione fallimentare del contenzioso”. Avere un avvocatura debole, o inesistente, può costare milioni di euro. «Per tre anni - ricorda Fragale - l’amministrazione non era assicurata per i danni provocati dalla mancata manutenzione». Se uno cadeva dal motorino per colpa di una buca per strada, il Comune si svenava nel risarcirlo. L’incuria governa Messina: altri milioni vengono gettati per «cause non difese», le multe non sono riscosse, e i condoni sanati non sono stati incassati: doppio danno, prima all’ambiente, poi alle casse. Certe abitudini sono come macerie. Schiacciano e fanno polvere in un posto dove è successo qualcosa, ma non succede mai niente.(ha collaborato Manuela Modica)

l’Unità 28.11.08
«Si ruppe la terra poi si alzò il mare»
Le voci dei testimoni di cent’anni fa
di Marco Bucciantini


Le voci dei testimoni di cent’anni fa. Il comandante del traghetto Calabria: «Vidi le luci delle città spegnersi come inghiottite. E il dopo: «Solo macerie e corpi nudi». La polemica: a Reggio Calabria i soccorsi arrivarono 24 ore dopo. La città aveva 30mila abitanti. Ne morì la metà

Se il cielo non fosse stato nascosto e riparato dalle nubi, il terremoto avrebbe portato via anche le stelle, e quello spicchio di luna così sottile da sembrare una falce affilata, che s’intravide - un attimo appena - all’ora del tramonto. Cent’anni fa accadde questo.

Trentasette secondi Alle 5 e 21 del mattino Messina, Reggio e altri 388 comuni furono flagellati dal più devastante sisma che abbia mai colpito l’Europa. Scosse di grado XI della scala Mercalli (7,1 magnitudo Richter) Si ruppe la terra, si scatenò il mare. Circa 150mila i morti. I sopravvissuti, i testimoni, raccontarono l’apocalisse.
Il comandante del traghetto Calabria, in navigazione sullo Stretto. «Un fragore cupo sembra venire dalle profondità del mare e mi inchioda. Sento il Calabria colare a picco, con rapidità spaventosa, e l’urlo di terrore si leva dai passeggeri. Allumate dai bagliori fuggevoli dei fari di bordo, due muraglie di acqua scavano un baratro in cui lo scafo s’inabissa. Con la stessa rapidità, si risale in superficie. Ed ecco spegnersi sulle due rive i lumi di Villa, di Reggio, di Messina».
William Owen, comandante del mercantile inglese Afonwen, ancorato nel porto siciliano. «Una gigantesca forza da sotto sollevò il bastimento. Il lento boato che pareva del tuono divenne uno schianto di distruzione. L’oscurità regnò fino a che l’alba non svelò la distruzione. Per trentacinque minuti noi si stette sempre in procinto di sommergere, con il ponte inclinato di 25 gradi. Guardammo nuovamente la terra e questa sembrò aver preso qualche colore fantastico, tra il giallo e il grigio cenerino. La città era nera dal fumo, qua e là interrotta da lingue di fuoco».
Monforte, telegrafista della stazione di Messina: «Eravamo in tre al telegrafico, io, il signor Sergi e il signor Uccello. Ero alla Morse quando cominciò la scossa. Sussulti violenti durarono trenta secondi e si sentì un grido altissimo, un’invocazione suprema, un gemito di pianto che tutta Messina levava al cielo prima di morire. I muri erano sbattuti come foglie. Tegole, davanzali, finestre piovevano nelle strade. Il movimento divenne ondulatorio, fu la fine di tutto. Dagli squarci nell’edificio una luce intensissima, sembrava un’aurora boreale. Ricordo i rumori: prima uno solo, enorme, come se mille cannoni fossero stati sparati assieme. Poi un temporale di pietre. I tonfi delle case, le urla. E le campane della cattedrale cadere e pensai: addio Messina, addio vita, siamo tutti morti».
Giuseppe Valentino (che poi fu sindaco di Reggio) dall’altra parte dello Stretto dorme nella casa al terzo piano di un palazzo: «Balzai dal letto e trascinai mia moglie presso mio figlio Felice, undicenne, stringendoci tutt’e tre in gruppo. Svenni. Riaprendo gli occhi vidi mia moglie: un’immagine bianca, l’ultima, poi un sussulto vorticoso, rabbioso, salito dalle profondità della terra e quindi il silenzio di morte. Ero avviluppato dai rottami, il corpo confuso con le macerie. Mio figlio squarciò il silenzio, invocando la madre. Non poteva più rispondere, nemmeno mio fratello, di qualche camera più discosto. Felice si accaniva nel grido filiale, “Papà, non c’è speranza, sparami”. Rispondevo e il terriccio mi assaliva le labbra, la polvere soffocava il respiro, il supplizio era così atroce che la fine stessa invocavo col desiderio».
Agostino Rocca, in seguito fondatore di un grande gruppo siderurgico, era allora un bambino che il 27 dicembre andò a letto appena finita la cena, come vuole la buona educazione che a quei tempi è legge. Il giorno dopo si tornava a scuola, le vacanze natalizie erano un breve sollievo. Baciò i genitori. Mamma stava suonando il piano, l’Appassionata di Beethoven. Nell’emergere dal sonno, si confuse: «Possibile che la sveglia sia così potente?». Si tirò la coperta sugli occhi, vide il fratello straziato da una trave e le cameriere correre dalla sorella più piccola, ma la camera di Elisa è sparita. Una parte della casa fuma dagli sprofondi e s’è inghiottita anche i genitori.
Gaetano Salvemini, storico, docente a Messina. Perse tutta la famiglia, il Corsera lo dette per morto. «Di slancio andai alla finestra. Feci in tempo a spalancarla che la casa precipitò e tutto disparve in un nebbione denso, tranne il muro dove stava la finestra. Mi avvinghiai alle tende per senso di disperazione. Caddi, ma le macerie sotto avevano ormai ridotto l’urto». Scavò con le sue mani i corpi dei cinque figli morti, della moglie e della cognata.
Antonio Barreca, ambulante postale, riuscì a raggiungere a piedi, dopo tre ore, la stazione di Scaletta e di lì trasmettere a Riposto - che inoltrò a Siracusa e quindi a Roma - la notizia: «Messina distrutta». Giolitti - che ebbe il telegramma solo nel pomeriggio - non volle crederci.
Il comandante della torpediniera Spica, ferma nello Stretto, ha un quadro ridimensionato ma lucido del disastro: «Ore 5,20 terremoto distrusse buona parte Messina - Giudico morti molte centinaia - ...urgono soccorsi, ogni aiuto insufficiente».
Piedi scalzi che pestano rovine, corpi nudi che vagano nello spazio nuovo e azzerato e si radunano sul lungomare e si contano: pochi, pochissimi, e gli altri? Messina brilla della luce fredda della tragedia. L’alba e la polvere ingannano occhi che devono ricomporre la realtà, per capire e cercare. Incipriano i volti e soffocano le voci che chiamano dalla terra, sepolte e ancora vive, sepolte vive. È un tempo impossibile, inutile: per i morti e per i superstiti. Lo è soprattutto per quelli non più vivi e non ancora morti. Respirano sotto le macerie, cheteranno poco a poco. Se prima tutto è stato violento e veloce, adesso la tragedia è lenta, inesorabile e beffarda come il mare che ritira e poi torna.
All’alba di martedì 29 ecco i soccorsi, prima i russi e gli inglesi con la Royal Navy di pattuglia nel Mediterraneo. La Marina italiana è ferma a Napoli. Lo Stato arriva poco per volta, «ora venite? Ora che il terremoto è finito?», fino a piazzare 14 mila militari male organizzati tanto che il colonnello inglese Charles Delmè-Radcliffe sentenziò: «Con soccorsi tempestivi e coordinati si sarebbero potute salvare almeno diecimila vite in più». Sotto, c’è chi aspetta: Benedetto Bensaia, macellaio, viene scavato vivo due settimane dopo il sisma. Si era riparato nel vuoto ricavato fra due travi incrociate. Teneva in braccio i due figli, li ha visti morire di inedia. Urlava e picchiettava con le nocche sulle tavole: lo udì un militare che si era fermato in via Verdi per pisciare. Uscì bestemmiando, convinto di essere rimasto laggiù per tre notti. A Reggio “i nostri” giunsero 24 ore dopo: metà della popolazione era morta.
Sono giorni senza regole in una terra desolata. Saccheggi, fame, il terremoto divorò l’umanità, la trasformò, l’arrestò ai suoi stadi primitivi. Giunsero gli sciacalli perfino dalle campagne. Si arrivò alle fucilazioni dei predoni, si distinsero i russi della corazzata Cesarevic, i marinai della flotta baltica godevano di una certa libertà per l’affetto dei siciliani, commossi dalla solidarietà. Esecuzioni spesso sommarie, mai inventariate. La “macchina” si organizzò: in poco tempo il Comitato centrale di soccorso voluto da Giolitti poté gestire 25 milioni di lire (il grosso venne dall’estero, fra i più generosi gli inglesi e gli italiani d’Argentina, una donazione robusta è del Re, molto è raccolto dal territorio italiano). Sullo Stretto, gli orfani vagano contesi dal Patronato laico dello Stato e dalla Chiesa, che si appoggia a navi spagnole per razziare i bambini e spedisce in zona l’esperto d’infanzia don Luigi Orione. Sarà il “padre” che crescerà duemila ragazzi negli istituti. La terra continuò a brontolare per settimane, senza riposo, dopo il tramonto.

l’Unità 28.11.08
Il primo maledetto Kubrick
«Fear & Desire» per la prima volta in Dvd: esordio di un genio che ancora non sapeva di essere tale


Fear and Desire
Regia di Stanley Kubrick
Con Frank Silvera, Paul Mazursky, Kenneth Harp, Stephen Coit
Usa, 1953 - Distribuzione: MHE-CultMedia

Entrare in un negozio e vedere sugli scaffali Fear and Desire è, per ogni kubrickiano che si rispetti, uno shock. Il film è una leggenda, un'opera maledetta se mai ne è esistita una - e per espressa volontà del suo creatore! È il primissimo film diretto da Stanley Kubrick nel '53. Il regista aveva 25 anni e trovò i 20.000 dollari necessari alla produzione grazie alla generosità del padre e dello zio. I membri della ridottissima troupe erano tutti amici, pronti a lavorare gratis (anche se uno degli attori sarebbe diventato famoso: è il futuro regista Paul Mazursky).
Kubrick usò il film come un biglietto da visita nel giro degli indipendenti newyorkesi (Hollywood, con questa storia, non c'entra nulla) e due anni dopo diresse Il bacio dell'assassino. Appena divenuto un regista patentato, bollò Fear and Desire come «l'opera di un dilettante, l'equivalente di un disegno di un bambino» e cercò di distruggerne tutte le copie esistenti. In altre parole, Kubrick non voleva che nessuno lo vedesse.Ma la legge, nel cinema, impedisce di distruggere le tracce: copie pirata circolavano a go-go e il negativo era stato comunque depositato, e nel 1980 venne ritrovato - non chiedeteci come - in Portorico e acquisito dalla Library of Congress di Washington. E qui arriviamo ad oggi, al come e perché la Mondo Home Entertainment ha potuto pubblicarlo: una società americana - che alla MHE giurano di non poter nominare - ha acquistato i diritti del negativo conservato a Washington; gli eredi di Kubrick (la vedova Christiane e suo fratello Jan Harlan, produttore di tutti i film del cognato) hanno tentato di bloccarlo, ma hanno già perso due gradi di giudizio presso una corte americana. I buoi sono scappati e sarà inutile richiudere la stalla: i dvd in commercio sono legali a tutti gli effetti.
GUERRA, OF COURSE
La domanda vera è: com'è il film? Sul «dilettantismo» aveva ragione Stanley: è un'opera narrativamente molto ingenua, ma lascia intuire il talento di un 25enne molto dotato almeno dal punto di vista fotografico. È un film di guerra, su una guerra senza nome: 4 soldati bloccati dietro le linee nemiche cercano di tornare alla base. In passato, qualcuno si era spinto a scrivere che Kubrick l'avesse bloccato perché rinchiudeva in sé tutti i suoi film a venire. Ovviamente non è così, ma alcuni temi sono già lì: soprattutto la guerra vista come fenomeno «naturale», senza alcuna lettura ideologica, quasi come un esperimento in vitro nel quale analizzare l'aggressività insita nell'uomo.
Il dvd esce a prezzo ridotto (quasi ovunque costa 9,90 euro) ed è giusto così: il film dura un'ora, è in un'unica versione (inglese con sottotitoli, non fu mai doppiato), la qualità visiva è bassa e non ci sono extra. Ma si tratta di un «oggetto» imperdibile per gli appassionati: l'opposto di Quarto potere, la nascita di un genio che non sa ancora di essere tale.

l’Unità Firenze 28.11.08
L’Onda non si ferma nemmeno per le feste
Continua la mobilitazione, ma stavolta per poter studiare
di Silvia Casagrande


Capodanno in facoltà si occupa per studiare
Gli studenti continuano la mobilitazione nelle sedi di Sesto e di viale Morgagni anche durante le vacanze natalizie. La scelta segue la decisione degli organi di ateneo di chiudere le aule per risparmiare.

Capodanno in facoltà? Sì, ma per studiare.
«Non ci sarà nessun veglione - assicurano gli studenti che hanno deciso di portare avanti le occupazioni nelle sedi di Sesto e di viale Morgagni anche durante le vacanze natalizie -, più che altro prepariamo gli esami per la sessione di gennaio». L’Onda che in autunno protestava contro i tagli alla ricerca facendo lezione in piazza, conferma di essere un movimento impegnato più a studiare che a fare festa. D’altra parte la scelta di occupare rinunciando alle vacanze, è stata una risposta alla decisione degli organi centrali dell’ateneo di chiudere le strutture universitarie durante le feste per risparmiare e tentare di sanare il bilancio d’ateneo. «Come al solito si fa cassa tagliando i servizi agli studenti: volevano chiudere biblioteche e facoltà, impedendo a molti docenti di fare ricevimento ed esami. Agli studenti di ingegneria – spiega uno degli occupanti - verranno tolte due settimane della sessione invernale». Così, chi vuole preparare gli esami potrà farlo nelle strutture tenute aperte dagli studenti, senza aspettare la riapertura ufficiale del 7 gennaio. «Ci sono modi più intelligenti di risparmiare, senza impedirci di usare i nostri spazi – spiegano gli studenti – Per dimostrarlo stiamo stilando uno studio di risparmio energetico, telefonico e informatico grazie all’applicazione di energie alternative e tecnologie quali Voip e software libero». Oltre che a studiare, quindi, l’Onda guarda al futuro e continua quel processo di rinnovamento dell’università che chiama “autoriforma” e che passa attraverso “assemblee, cineforum e sessioni musicali per socializzare e confrontarsi”. Momenti che a quanto pare sono abbastanza partecipati. «Al plesso di viale Morgagni vengono un centinaio di ragazzi ogni giorno e una quarantina si ferma sempre anche a dormire - assicurano gli studenti – anche a Sesto almeno una trentina di persone rimangono a dormire in facoltà». Certo, qualche controindicazione c’è: per l’occupazione natalizia gli studenti si sono dovuti attrezzare con stufette elettriche e coperte, visto che nelle facoltà chiuse appunto per motivi di risparmio energetico il riscaldamento è stato spento. Ma per fortuna non saranno necessarie le candele: la corrente non è stata staccata. Al polo di Novoli e a Lettere, invece, così come nelle altre facoltà cittadine, le occupazioni sono state interrotte durante le Feste, ma gli studenti si sono dati appuntamento al nuovo anno per portare avanti la mobilitazione contro la 133. A Lettere, per esempio, gli studenti si sono salutati la scorsa settimana con una festa nel chiostro di Brunelleschi, ma hanno già ottenuto dalla preside un’ala della facoltà da autogestire nei prossimi mesi e da tenere aperta anche la sera. Fra le iniziative previste per gennaio, c’è anche quella di dare il via a corsi di italiano gratuiti per stranieri, tenuti dagli stessi studenti.

Repubblica 28.12.08
La triste storia dell’Italia corrotta
di Eugenio Scalfari


L´ITALIA è una nazione corrotta? Da sempre o da quando? E corrotto il popolo, la società nel suo complesso? Oppure è corrotta soltanto la classe dirigente del Paese e il popolo assiste, passivo e stupefatto, a questo devastante fenomeno?
Questo gruppo di domande è di nuovo alla ribalta, il tema è di nuovo di incalzante attualità e si torna a parlare dei mezzi necessari a porvi rimedio; il governo ha messo all´ordine del giorno la riforma della giustizia con il dichiarato obiettivo di affrontare le malformità dell´ordine giudiziario e di stroncare l´immoralità dilagante: un soprassalto degno di nota poiché il capo del governo è uno degli esempi più vistosi dell´immoralità pubblica o almeno così è percepito da una parte rilevante della pubblica opinione.
Appena ieri la questione morale è stata presa di petto da Giuseppe De Rita sul «Corriere della Sera» e da Guido Crainz su «Repubblica».
Quest´ultimo ne ha addirittura fatto la storia citando coloro che se ne sono occupati a partire dal 1970, molto prima della nascita di Tangentopoli che ebbe inizio nel 1992 e che contribuì ad affondare la Prima Repubblica senza tuttavia riuscire ad estirpare la corruzione che continua come e più di prima a devastare la fibra del Paese. Siamo dunque condannati senza scampo a portarci appresso questa piaga purulenta che resiste ad ogni medicina e ad ogni chirurgia?
In realtà il fenomeno è molto più antico, le sue radici affondano non già nel passato prossimo ma in quello remoto. Molto prima dell´ultima guerra e molto prima del fascismo, l´Italia liberale e monarchica era infetta nelle midolla e non mancavano neppure allora intellettuali e artisti che denunciavano con parole di fuoco il trasformismo e la corruzione. Gabriele D´Annunzio apostrofava Nitti con il soprannome di «cagoia», Salvemini prima ancora lanciava contro Giolitti pesantissime accuse.
A monte la questione morale aveva travolto Crispi e lo scandalo della Banca Romana aveva coinvolto addirittura la monarchia.
«I Vicerè», il grande romanzo storico di De Roberto è un documento spietato del malaffare nelle classi dirigenti meridionali. Lo Stato unitario ancora non esisteva ma la corruzione infestava da tempo il regno borbonico e quello papalino. Per non parlare della «romanità»: l´impero dei Cesari, anche nella fase gloriosa degli inizi e ancora più indietro risalendo a Pompeo, Catilina, Mario e alla schiera dei proconsoli che depredavano le provincie a beneficio dei propri patrimoni, fu un «combinat» di forza militare e di corruttela pubblica. Nel «De Bello Jugurtino» Sallustio fa dire a Giugurta, re di Numidia, la storica frase: «Roma, venderesti te stessa se trovassi un compratore».
Dunque esiste una vocazione fatale alla corruttela che inchioda da più di due millenni la nazione latina e poi quella italica e italiana a questa peste devastante?
* * *
Mettiamo da parte la Roma dei proconsoli e dei Cesari: depredò i sudditi a vantaggio dell´erario e dei suoi titolari come è stato fatto da tutti gli imperi. Restiamo all´Italia moderna.
Qui da noi lo Stato unitario ha avuto una presenza evanescente, estranea, lontana, vissuto più come sopraffattore che come garante del patto sociale. Più come autore di violenza che tutore di legalità. Il popolo non ha partecipato ma ha soltanto assistito alla nascita dello Stato. Quando esso si costituì il 75 per cento della popolazione era formata da contadini. Fuori dalle istituzioni, fuori dal mercato. Consumavano le poche derrate che producevano, non avevano ospedali, non mandavano i figli a scuola, le sole presenze istituzionali erano i carabinieri e gli agenti delle imposte. E i preti.
Non facevano notizia i contadini. Nascevano, figliavano, morivano.
L´opinione pubblica rappresentava soltanto il 25 per cento. Proprietari fondiari, commercianti, industriali, magistrati, professionisti, maestri e docenti, impiegati.
Da questa fetta sottile della società emergeva la classe dirigente, i capi delle amministrazioni locali e nazionale, gli ufficiali dell´esercito, gli imprenditori. Insomma la borghesia e la piccola borghesia. I deputati.
Lo Stato galleggiava sulla società la quale a sua volta galleggiava sulla moltitudine dei contadini e sui primi nuclei della classe operaia.
Lo Stato non era un simbolo né lo era la Patria. Per la maggior parte quelle parole erano sconosciute, prive di significato. Per una parte minore erano depositi di potenza legale da occupare a proprio beneficio.
Domenica scorsa ho citato l´intervista del 1981 dove Enrico Berlinguer descrive l´occupazione dello Stato e delle istituzioni da parte dei partiti, ma avrei potuto citare quasi con le stesse parole Salvemini, De Viti De Marco, Maffeo Pantaleoni, Mosca, Pareto, Luigi Einaudi, Giustino Fortunato, di cinquanta e ottanta anni prima del leader del Pci.
La corruzione italiana è un fenomeno che deriva direttamente dall´estraneità dello Stato rispetto al popolo, dall´esistenza d´una classe dirigente barricata a difesa dei suoi privilegi, dall´appropriazione delle risorse pubbliche da parte dei potenti di turno, dal proliferare delle corporazioni con proprie deontologie, propri statuti, propri privilegi; dalla criminalità organizzata e governata da leggi e codici propri. Infine, in assenza di una legalità riconosciuta, dalla necessità di supplire a quell´assenza con la corruzione spicciola, necessaria per mitigare l´arbitrio con la compravendita di indulgenze civili come da sempre ha fatto la Chiesa con le indulgenze religiose.
* * *
Mi domando se la corruzione pubblica sia un fatto solo italiano. L´ovvia risposta è no, non è solo un fatto italiano, s´incontra in tutti i paesi, dove c´è la democrazia e dove c´è la dittatura, con economie mature o sottosviluppate. Dovunque i titolari del potere si appropriano d´una quota in più di quanto gli spetterebbe, dovunque i furbi accalappiano gli allocchi i quali cercano di rivalersi sui più allocchi di loro. Ma in Italia c´è un elemento aggravante in più: la fatiscenza dello Stato, la debolezza delle istituzioni di garanzia, l´evanescenza dello stato di diritto.
Qui la verità storica impone tuttavia un approfondimento dei fatti come si sono sviluppati nel corso del tempo. C´è stato nell´ultimo secolo un graduale aumento di partecipazione del popolo alla vita pubblica, un inizio di radicamento delle istituzioni nella società.
Quest´azione educativa ha avuto come promotori il movimento socialista, il partito comunista italiano, il movimento sindacale. Nell´ultimo cinquantennio vi è stato anche un forte contributo da parte dei cattolici democratici che hanno vinto i «non possumus» emanati per oltre mezzo secolo dal Papato contro lo Stato, con il nefasto effetto di confiscare la libertà politica dei cattolici separandoli dalle istituzioni del loro paese: un fatto tutt´altro che marginale (che registra purtroppo alcuni attuali ritorni all´indietro) senza riscontro nelle democrazie d´Europa e d´America.
* * *
Se c´è stato - e c´è sicuramente stato - un processo di sviluppo democratico, esso è dovuto in larga misura alla sinistra italiana. Tanto maggiore è quindi la preoccupazione più che mai attuale di assistere ad uno scadimento anche nella sinistra per quanto riguarda gli standard di moralità.
Probabilmente lo scadimento è stato ingrandito dall´avventatezza di magistrati che dal canto loro hanno smarrito in alcune circostanze i criteri di prudenza doverosi negli accertamenti di supposti reati. I partiti dal canto loro hanno abbassato la vigilanza consentendo che il malaffare entrasse anche in luoghi politici che finora gli erano stati preclusi.
Ma la vera causa è quella indicata a suo tempo da Berlinguer: le forze politiche non debbono occupare le istituzioni, gli organi di garanzia debbono vigilare e colpire senza riguardo ai colori di bandiera, la magistratura deve funzionare come organo di controllo della legalità, la stampa deve imparare meglio e di più il suo officio di contropotere.
Da questo punto di vista una riforma della giustizia s´impone e dovrà concentrarsi su tre obiettivi:
1. la riforma del processo penale e civile affinché sia resa giustizia in tempi ragionevolmente brevi; questo è un obiettivo essenziale che i cittadini reclamano e senza il quale non si avrà alcuna riforma degna del nome.
2. Il conferimento dell´azione penale nelle mani del capo della Procura, che distribuisca il lavoro ai suoi assistenti con criteri certi e oggettivi.
3. La separazione delle funzioni tra magistrati inquirenti e giudicanti senza tuttavia dividere in due l´ordine giudiziario al quale tutte e due quelle funzioni appartengono.
Ieri il presidente del Consiglio, con una più che mai vistosa capriola rispetto a quanto aveva appena detto, ha modificato l´ordine delle priorità del governo: alla ripresa dei lavori parlamentari ci sarà anzitutto il federalismo fiscale; la riforma della giustizia verrà dopo.
Quanto al presidenzialismo, per ora è uscito dalla tabella delle priorità.
Evidentemente la Lega e Fini hanno prevalso sulla fretta di Berlusconi di stringere i tempi della svolta autoritaria. Anche la libera stampa ha contribuito a questa svolta di saggezza e vi ha contribuito soprattutto la ferma resistenza dell´opposizione a minacce e lusinghe.
Né le une né le altre sono mancate. Il fatto che non abbiano avuto successo dà buone speranze per il futuro.

Corriere della Sera 28.12.08
La figlia del sindacalista
Proposta di legge. Sabina Rossa apre agli ex terroristi: siano liberi senza il sì di noi vittime
di Giovanni Bianconi


La proposta Il testo elimina la necessità del «sicuro ravvedimento»: sufficiente la rieducazione
Sabina Rossa e gli ex terroristi: siano liberi senza il sì di noi vittime
La deputata del Pd figlia del sindacalista ucciso dalle Br: ecco la mia legge
Il testo non prevede più le indagini psicologiche e la valutazione del rapporto tra assassini e parenti delle vittime

ROMA — Ha incontrato uno degli assassini di suo padre, e poi il giudice che deve decidere sulla scarcerazione di quell'uomo. Ha detto che il brigatista che nel gennaio 1979 sparò al sindacalista Guido Rossa oggi è un'altra persona, e merita di lasciare la prigione dopo trent'anni di reclusione. Quell'uomo, l'ex brigatista Vincenzo Guagliardo, è invece ancora dentro anche perché non ha voluto pubblicizzare l'incontro con la figlia di Rossa, né s'è rivolto ad altre vittime ritenendo che fosse la forma migliore per rispettarle. E oggi Sabina Rossa, dopo il faccia a faccia con Guagliardo e altri ex militanti delle Brigate rosse fa un passo in più.
Da deputato del Partito democratico, la figlia del sindacalista ucciso dalle Br ha presentato un disegno di legge per sostituire il «sicuro ravvedimento » richiesto dal codice penale per concedere la liberazione condizionale (e che per molti giudici, compresi quelli di Guagliardo, si misura proprio dal contatto tra carnefici e vittime) con una formula diversa: può uscire dal carcere prima del fine pena, e nel caso degli ergastolani dopo 26 anni, chi ha tenuto «un comportamento tale da far ritenere concluso positivamente il percorso rieducativo di cui all'articolo 27 comma 3 della Costituzione».
Niente più indagini psicologiche alla ricerca dei sintomi del «ravvedimento», quindi. E niente più valutazione del rapporto tra gli assassini e i parenti di chi è stato assassinato. «Le vittime non hanno bisogno di vedersi affidare il peso del destino di coloro che li ha colpiti — spiega la Rossa —. Se questi contatti avvengono, non devono essere sbattuti in tribunale per dimostrare qualcosa. Devono restare in un altro ambito, non diventare metro di giudizio per decidere se un detenuto merita di uscire oppure no».
La liberazione condizionale è diventata materia delicata da quando hanno cominciato a chiederla gli ex terroristi, di sinistra e di destra, che non hanno usufruito degli sconti di pena concessi a pentiti e dissociati. Si tratta di ergastolani, condannati per omicidi, che compiuti i 26 anni di cella presentano istanza per tornare a una vita regolare fuori dalle galere, di solito quando già godono della semilibertà (all'esterno di giorno e dentro di notte).
La legge attuale prevede, appunto, che sia certificato il «sicuro ravvedimento», ma Sabina Rossa lo considera un requisito «troppo aleatorio». Per alcuni giudici, un fattore discriminante è stato proprio il comportamento del condannato nei rapporti con i familiari delle persone uccise; cioè se avesse o meno «dimostrato solidarietà nei confronti della vittima, interessandosi delle sue condizioni e facendo quanto è possibile per lenire il danno provocatole».
E' successo così che chi aveva preso contatti con i parenti delle vittime, di solito attraverso delle lettere inviate tramite gli avvocati, è stato considerato «ravveduto» ed ha lasciato il carcere definitivamente, mentre chi non l'ha fatto s'è visto negare questa possibilità. Nel caso di Guagliardo, il giudice ha detto no proprio in assenza di quei contatti, nonostante l'incontro con Sabina Rossa fosse già avvenuto. Ma l'ex br non ne ha parlato, sostenendo di considerare il silenzio «la forma di mediazione più consona alla tragicità della quale si è macchiato».
Ora Sabina Rossa, protagonista di questa vicenda in qualità di figlia dell'uomo ucciso da Guagliardo, ritiene che «una simile interpretazione della norma, che chiama in causa direttamente le vittime del reato e o loro familiari, si presti a grandi difficoltà applicative e lasci grande spazio a disomogeneità legate all'intrinseca difficoltà di lettura profonda della relazione tra condannato e vittima». Anche perché ogni magistrato decide come crede, e in passato sono state liberati pure ex terroristi che non si sono mai rivolti ai parenti dei loro «bersagli». Di qui la proposta di modificare la legge, e di ancorare l'eventuale scarcerazione a criteri più oggettivi e meno discrezionali. «Senza andare a scandagliare l'animo delle persone», dice ancora la deputata del pd, che attribuisce a questa iniziativa un significato più ampio.
«Vorrei che fosse — spiega In aula Sabina Rossa, figlia del sindacalista ucciso dalle Br e deputata del Pd — un ulteriore passo verso il superamento dei cosiddetti "anni di piombo", che non può avvenire mettendo una pietra sul passato o attraverso il silenzio. Le leggi premiali hanno messo in libertà degli assassini senza che scontassero una vera pena, mentre c'è chi dopo trent'anni è ancora in carcere pur non avendo più nulla a che fare con la persona che fu. E' un paradosso, che sarebbe bene superare con misure meno discrezionali possibili».

Corriere della Sera 28.12.08
Parigi: il genio spagnolo e i suoi maestri al Grand Palais, al Louvre e al Musée d'Orsay
C'è anche la picassata alla parigina
Daniel Buren all'Hôtel Salé. Ma non si capisce che cosa sia
di Giorgio Cortenova


Picasso, nato a Malaga nel 1881, diviene uomo con ancora i calzoni corti e qualche volta con la gonna, come si usava in certe festività nella Spagna d'allora. Una foto, mai diffusa da lui, lo inchioda in gonnella al fianco della sorellina. Quando, di lì a qualche tempo, si reca a Madrid per studiare all'Accademia, marina la scuola e trascorre le giornate al Prado.
Comincia così la vicenda di Picasso e gli «altri», quei maestri che incutevano terrore con le loro tele appese in quelle sale deserte, quando i quadri nei musei erano ancora arte da studiare e copiare, e non «beni culturali» da sfruttare turisticamente, come succede in questi giorni a Parigi, dove al genio di Picasso vengono dedicate tre mostre per dimostrare quanto la Francia sia grande anche in tempi di crisi.
Al Louvre sono esposte le opere che l'artista ha dedicato alle Donne d'Algeri nei loro appartamenti del romantico Delacroix; al Musée d'Orsay si esaminano le variazioni sul tema della Colazione sull'erba di Manet; al Grand Palais si sarebbe dovuto realizzare un confronto speculare con tutti i maestri: da El Greco a Cézanne, da Velázquez a Goya, e poi Tiziano, Poussin, Puvis, Gauguin, insomma, in 120 opere, il top dell'arte di tutti i secoli.
È chiaro che la palla avrebbe dovuto rimbalzare più forte in queste sale di capolavori, e per certi versi è cosi; ma più in alto rimbalza, più cresce la consapevolezza di trovarsi davanti ad alcuni gruppi di opere accostate con rara superficialità a uso e consumo del business
turistico. Perché le opinioni sono opinioni, ma non è possibile riferire il
Ritratto di Casamegas o il Ritratto di uno sconosciuto, del 1899, in pieno clima modernista, al Ritratto di giovane gentiluomo del Greco, invece che al simbolismo munchiano, come il linguaggio, il livore dei colori e lo slittamento di luce urlano che sia.
È solo avventuroso accostare il cubismo dell'Uomo con chitarra, del '21, al visionario San Francesco d'Assisi nella sua tomba di Francisco de Zurbarán. Di parete in parete gli esempi di simili incoerenze, svarioni — come chiamarli? — si sprecano e si rinnovano con allarmante continuità. Si pensi alle nature morte picassiane del 1908: ebbene, là vicino si vorrebbe lo stesso tema trattato da papà Cézanne. Invece no: al suo posto ci sono le nature morte di Chardin! Insomma, una «picassata alla parigina», si potrebbe dire parafrasando la definizione che di Guttuso diede un critico italiano («picassata alla siciliana»).
Ma gli equivoci di questa mega manifestazione dedicata a Picasso non finiscono qui. Al Museo che porta il suo nome è in atto un intervento di Daniel Buren che si svilupperà in progress per tutto il 2009. Non si comprende bene se sia anch'esso un omaggio a Picasso o solo una coincidenza.
Buren è nato nel 1938 e da circa 35 anni si esprime tracciando righe ovunque e comunque: un vero e proprio «pallino», se il termine non cadesse in contraddizione geometrica. Qualche mese fa, egli ha accusato lo Stato francese di non avere restaurato le sue colonne a righe al Palais Royal. Adesso gli viene data carta bianca, anzi bianconera, per l'intervento sui muri e nella corte d'entrata dell'Hôtel Salé, che ha ospitato una scuola d'arte prima di diventare Museo Picasso.
Al momento ha reso policromi molti vetri delle finestre e ha innalzato un muro di specchio tangenziale sulla parete di fondo, alto circa 30 metri, profondo circa 20 e largo quanto due delle sue famose righe, che così salgono in alto in alto e si perdono nel nulla da cui, peraltro, nascono.
Pablo Picasso: «Donne d'Algeria», dipinta ispirandosi all'opera di Eugène Delacroix
PICASSO E I MAESTRI
Parigi, Grand Palais (tel. +331/144131717), Louvre (tel. +331/140205317), Musée d'Orsay (tel. +331/140494814), Musée Picasso (tel. +331/142712521), sino al 2 febbraio

Corriere della Sera 28.12.08
Bisanzio Londra: 340 fra icone, pitture murali, avori, smalti alla Royal Academy
Teodora, una prostituta sul trono
di Flaminio Gualdoni


L'imperatore Costantino, che con l'editto del 313 ufficializza la religione cristiana in Roma, nel 330 decide di lasciare un altro segno indelebile del suo straordinario genio politico. Sul Bosforo, dove da secoli sorgeva la città di Bisanzio e dove oggi è Istanbul, egli fonda la città di Costantinopoli, destinata a diventare la «nova Roma», capitale dell'impero d'Oriente, e a sopravvivere anche quando, nel 476, Roma capitola alle invasioni barbariche.
Per oltre un millennio, sino al 1453 e alla presa da parte degli Ottomani, Costantinopoli è, a tutti gli effetti, la capitale del Mediterraneo, quella in cui la civiltà ellenistica e la romana sopravvivono fecondando la cultura moderna.
La rassegna londinese, ricca di ben 340 opere fra icone, pitture murali, mosaici, avori, smalti, oreficerie, sintetizza la vicenda di Bisanzio dal punto di vista della storia artistica e insieme di quella religiosa. Mentre la prima Roma collassa, è là che si giocano le grandi partite dei primi secoli della cristianità, dalla lotta tra gli iconoclasti che negano la possibilità di un'arte sacra figurativa e coloro che la ritengono lecita, conclusa dal secondo Concilio di Nicea nel 787, alla nascita dell'icona, forma d'arte sconosciuta in Occidente e che diviene tradizione vitalissima del cristianesimo ortodosso.
E poi, c'è la leggenda, quella di personaggi come il grande Giustiniano e la controversa moglie Teodora, prostituta ascesa al trono; quella di oggetti come il calice di Antiochia, del VI secolo, a lungo ritenuto il Santo Graal per la sua rappresentazione dell'Ultima cena; quella di luoghi come il monastero di Santa Caterina del Sinai, il più antico convento cristiano passato integro attraverso traversie plurisecolari: lo stesso Maometto in un editto si preoccupò di salvaguardarne la sacralità.
Da Santa Caterina vengono alcune opere straordinarie, icone trionfanti d'oro e d'una potente figurazione convenzionale. Le affiancano capolavori d'oreficeria come il bruciaincenso a forma di tempio proveniente dalla basilica veneziana di San Marco, la più vicina per storia al mondo bizantino, e come il Trittico Harbaville, straordinario rilievo in avorio commissionato dalla corte bizantina. Il Salterio Khludov e le Omelie di Giacomo Kokkinobaphos dicono, infine, della formidabile qualità dell'arte del libro bizantina.
Omelie di Giacomo Kokkinobaphos
BYZANTIUM 330-1453
Londra, Royal Academy of arts, sino al 22 marzo. Tel. +44/20-73008000

Liberazione 19.12.08
Marx contro i marxisti
di Anna Simone


Nel 1842 furono pubblicate le opere giovanili di Karl Marx. Tra gli scritti ve n'è uno che vale bene l'incipit di queste pagine. Nel riferire delle discussioni parlamentari sulla "Rheinische Zeitung" il filosofo di Treviri manifestava tutta la sua disapprovazione per le decisioni politiche assunte dalla Dieta della Renania nei confronti delle popolazioni nullatenenti del luogo. Questi, infatti, avevano per secoli raccolto legna dai boschi agendo de facto un diritto collettivo secolare, il legnatico . Un diritto consuetudinario che, invece, una legge della Dieta definiva e sanzionava in quegli anni come "furto" messo in atto dai poveri contro i proprietari dei boschi. A loro modo, però, i miserabili della Renania esercitavano un diritto di libertà, una forma di auto-organizzazione della loro vita, una pratica di disobbedienza nei confronti del regime proprietario, erano in altre parole un comune che eccedeva l'ordine giuridico voluto dalla Dieta della Renania. Una prassi, un'azione politica e sociale che agiva nel sistema e contro il sistema contemporaneamente.
A quasi due secoli di distanza, facendo diversi salti nel tempo, ci spostiamo a San Lorenzo, Roma. Esc, in via dei Reti, pur rischiando lo sgombero ogni giorno esercita lo stesso medesimo diritto consuetudinario contro l'ordine proprietario dei palazzinari romani e contro una politica asfittica che impedisce tutte le forme di accesso gratuito alla cultura mercificandola sino all'inverosimile. Ma i giovani e i meno giovani dell'atelier occupato non raccolgono legna, non svolgono lavori materiali. Essi producono saperi attraverso l'istituzione della Lum (Libera università metropolitana), teorizzano e praticano un'idea di comune sganciata dalle istituzioni e dagli ordinamenti giuridico-statuali, fanno politica dentro e fuori la Sapienza, organizzano seminari e, ovviamente, leggono e studiano Karl Marx. Marx e non il marxismo in tutte le sue vulgate accademiche e/o partitiche, alcune delle quali nostalgiche e fuori dal tempo al punto tale da indurre qualche giovane comunista a desiderare il simbolo del muro di Berlino sulle nuove tessere di Rifondazione (si veda il dibattito in corso in questi giorni su queste stesse pagine).
Quella di Esc e della Lum è quindi "un'altra" esperienza di lavoro politico e di lavoro cognitivo attorno all'opera di Marx, nessuna nostalgia, nessuna deriva identitaria, nessuna reazione risentita rispetto a questa storia imbrogliona del presente, nessun falso movimento messo a punto per ridefinire un'idea di comunismo fuori dalle trasformazioni reali poste in essere dagli assetti contemporanei dei sistemi di produzione e dalla nuova composizione immateriale della forza lavoro. Un'antropologia dell'attualità che non parte dai disastri elettorali del presente per cercare una forma di "redenzione" nel passato perché ha deciso di procedere al contrario. Partire dai conflitti del presente, dalle istanze di libertà mosse qui e ora dai movimenti dei precari, femministi e studenteschi per rileggere Il Capitale , I Grundrisse etc.
Questi seminari, tenutisi a Esc due anni fa, ora sono un libro costruito sotto forma di lessico, quasi un classico direi, appena edito dalla manifestolibri (Lessico Marxiano , pp. 198, euro 19). Dodici voci per dieci autori più o meno riconoscibili all'interno della tradizione operaista e post-operaista italiana (da Toni Negri a Mario Tronti, da Sandro Mezzadra a Carlo Vercellone, da Alisa del Re a Christian Marazzi, da Paolo Virno a Michele Surdi, da Augusto Illuminati a Polo Vinci). Nell'introduzione, a cura della Lum, è possibile già individuare alcune tra le linee guida principali di questo lavoro: insistere sul crinale che si pone tra teoria e prassi nell'opera marxiana attualizzando la potenza produttiva di lotte e saperi; ripartire dalle lotte sul rifiuto del lavoro salariato a dispetto di chi pensa che possa essere possibile ripristinare un ordine sociale basato sul lavoro e quindi sullo sfruttamento; sottolineare le sfumature problematiche del passaggio di fase dalla produzione retta dalla grande industria al cosiddetto general intellect ; evitare di cercare nelle teorie della giustizia le ragioni delle lotte. Linee guida a loro volta riassumibili in tre "campi" e/o "aperture" epistemologiche sull'opera marxiana: critica al concetto di storicismo perché le lotte non afferiscono ad un tempo cronologico lineare ma proseguono attraverso rotture, ricomposizioni differenziate e innovazioni che, a loro volta, producono saperi situati; rileggere le categorie di cooperazione e di forza lavoro attraverso il rapporto tra produzione e riproduzione messo in luce abbondantemente dal femminismo degli anni '70 e da parte del femminismo contemporaneo; pensare ad un'egemonia del comune ovverosia a quella modalità di produzione del lavoro vivo in grado di creare forme di cooperazione sancite anche da relazioni affettive e amicali. Un comune in grado di reggersi su ciò che Simondon ha definito come il "trans individuale", come la messa in comune di singolarità ovviamente non monadiche e identitarie, ma portatrici in sé di relazioni.
Tuttavia tra le dodici voci, quelle che appaiono davvero portatrici di uno sguardo attuale, quelle che davvero tentano di compiere un salto nel presente, provando anche a creare nuove nozioni interpretative (come quella di "forza lavoro complessa" che Virno mutua anche dalla nozione di complessità e di riduzione della complessità elaborata dalla teoria dei sistemi e dalla teoria funzional-strutturalista di Luhmann) vanno principalmente segnalate, almeno da chi scrive, "Accumulazione originaria" (Mezzadra), "Cooperazione e forza lavoro" (Virno), "Produzione/Riproduzione" (Del Re) e "Socialismo del capitale" (Marazzi). Mezzadra attualizza spingendosi sul terreno dei subaltern studies e dei postcolonial studies , accentua l'attenzione sui processi specifici di soggettivazione su scala globale contribuendo, così, a consegnare per sempre la tradizione terzomondista al ruolo che più le spetta: quello di dirigere acriticamente le sciagurate politiche di cooperazione internazionale allo sviluppo, considerate ormai da tutti gli antropologi come l'ultima frontiera del colonialismo "buono".
Alisa del Re prova, invece, ad attualizzare le sue importantissime ricerche sulla divisione sessuale del lavoro e sul lavoro domestico svolto assieme ad altre femministe padovane negli anni '70. Ragiona sulla crisi dei sistemi di Welfare contemporanei proponendoci una chiave di lettura sul lavoro salariato di riproduzione oggi. Un lavoro di cura che le nuove forme di privato sociale hanno reso di pubblica utilità andando sostanzialmente a salarizzare ciò che prima veniva fatto gratuitamente dalle donne tra le mura domestiche. Nonostante questo evidente mutamento di scala rimane, secondo lei, il lavoro gratuito di cura come una delle dimensioni più importanti del lavoro di riproduzione: «anche i knowledge workers sono stati bambini, saranno vecchi, tornano a casa a mangiare la pasta e desiderano indossare calzini puliti». Ciò che tuttavia muta di segno (tema sul quale la Del Re tende a non soffermarsi più di tanto) è, invece, la cosiddetta forza lavoro migrante femminile. Sono sempre più spesso loro, infatti, ad occuparsi del lavoro domestico e di cura all'interno di una circolarità dei bisogni e delle necessità tutt'altro che felice. Infatti l'unico affrancamento possibile che le donne continuano ad avere oggi in relazione al doppio lavoro dentro e fuori casa consiste, paradossalmente, nel salarizzare e quindi nel costringere un'altra donna a svolgere il lavoro domestico e di cura. Un mutamento che altrove abbiamo definito come processo di "badantizzazione" della società speculare al cosiddetto processo di femminilizzazione del lavoro (si veda Liberazione del 20 ottobre, 2007). Una sorta di ritorsione tesa a ridefinire il dominio di classe delle donne bianche che si credeva scomparso nei meandri dell'emancipazionismo prima e della differenza poi.
E per concludere la già citata nozione di "forza lavoro complessa" utilizzata da Virno oltre che la bella voce "Socialismo del capitale" di Christian Marazzi che, molto più di altri, compie davvero un'operazione di "spostamento" dell'analisi marxiana lavorando "solo" sul famoso corso di Foucault tenuto al Collége de France tra il '78 e il '79, Nascita della biopolitica (in nota non v'è citazione alcuna ripresa dal barbuto di Treviri). Ma se è vero che Michel Foucault in Nascita della biopolitica, più che riprendere Marx, prova a ricostruire una genealogia dei rapporti economici che si sono dati all'interno delle società, spostando sulle nozioni di capitale umano e sulla critica al concetto di società civile, è altresì vero che i suoi più autentici punti di forza rimangono legati a ciò che lui stesso definiva come movimenti di contro-condotta e di contestazione della norma. L'altro della lotta di classe. Tutti quei movimenti, cioè, prossimi a mettere in discussione qualsivoglia forma di normativizzazione e di gerarchizzazione del sé all'interno degli ordini discorsivi dati e predefiniti dai saperi-poteri. Movimenti sui quali lui, tra l'altro, differenziava il suo agire politico da quello dei marxisti francesi perché voleva capire meglio come si producono le condotte normalizzate e funzionali al sistema capitalistico, piuttosto che comprendere il sistema capitalistico in sé. Voleva capire, cioè, dove si situa la messa in scacco delle libertà e dei piaceri, una messa in scacco che può prodursi sempre e ovunque. E allora a quando un seminario organizzato da Esc e dalla Lum su Michel Foucault? Dopo Marx e con questo Marx si può fare.

Il Lessico marxiano, a cura della Lum, sarà presentato domani all'interno del Critical book&wine presso Esc.
Critical book&wine a Esc fino al 23 dicembre
Libri da gustare vini da leggere
La terza edizione di critical book&wine, mercato degli editori e dei vignaioli indipendenti, si svolgerà presso Esc, l'atelier occupato di via dei Reti 15, nel quartiere San Lorenzo a Roma, da oggi al 23 dicembre, dalle ore 16 all'una di notte i primi quattro giorni, dalle 14 alle 20 il giorno di chiusura.
A questa maratona prenatalizia di libri e vini partecipano trentuno editori tra i quali Ancora del Mediterraneo, Bruno Mondadori, DeriveApprodi, Donzelli, e/o, Fandango, Iperborea, Laterza, manifestolibri, marcosymarcos, Meltemi, , minimumfax, Nottetempo, Orecchio Acerbo, Quodlibet; e otto aziende vinicole di varie regioni italiane.
Le giornate saranno arricchite da dibattiti, performances, reeding, presentazioni ed esibizioni musicali tra i quali si segnala: oggi alle 19, il dibattito su «il lavoro e la crisi», con la presenza di Sergio Bologna; sabato, a partire dalle 18 la lettura di brani dell'ultimo romanzo di Barbara Balzerani Perché io, perché non tu , seguita dalla presentazione del libro Lessico Marxiano , con la presenza di Paolo Virno, Marco Bascetta, Augusto Illuminati, Michele Surdi; la domenica pomeriggio sarà animata da letture di vari poeti tra i quali Nanni Balestrini e Laura Pugno. Interessante lunedì 22, alle 19, il dibattito - del tutto a tema con il critical book&wine - "Il Municipio del libro a Roma", con la partecipazione del presidente del III Municipio Dario Marcucci e l'assessora alla Cultura Valentina Grippo. L'ipotesi in discussione riguarda la costruzione, appunto nel III Municipio di Roma, di una sorta di «presidio permanente del libro» animato e gestito da alcuni editori indipendenti. Intanto, tutti i libri in vendita si avvalgono di uno sconto del 20% sul prezzo di copertina.
Con questa terza edizione critical book&wine conferma la scelta di proseguire il progetto in stretta cooperazione con realtà politiche e culturali autogestite e autorganizzate. Il suo obiettivo, dichiarato alla nascita tre anni fa al centro sociale Leocavallo di Milano, è di intrecciare questa cooperazione con realtà rappresentative per qualità, anzi eccellenza, della produzione indipendente, in campo editoriale ed enologico. Ma questo progetto intende allargarsi a breve anche ai produttori indipendenti del cinema, della musica, del teatro e dell'enogastronomia. «Un progetto insieme ambizioso e difficile», spiegano gli organizzatori. «Ambizioso, perché intende, nel suo percorso di crescita, proliferare in altre città, oltre Roma e Milano, ma soprattutto nell'infinita provincia italiana, dove alligna molto di quel che costituisce materialmente la ricchezza delle produzioni culturali ed enogastronomiche indipendenti.
Difficile, perché per realizzarsi si trova costretto a misurarsi con le maledette regole dell'impresa e del mercato, regole che oltre a suscitare negli "spiriti libertari" sentimenti di contraddittorietà «ideale» comportano anche, molto più concretamente, molte difficoltà materiali, dato il contingente scenario di grave crisi economico-finanziaria».
Quindi idee e progetti, questi del critical book&wine, che con tratti di particolare originalità sanno dare buone occasioni per discussioni di grande attualità sulla crisi di un agire politico capace di concreta trasformazione sociale.
Per informazioni più dettagliate sulla programmazione dell'evento: info: www.escatelier.net


Repubblica.it 28.12.08
Roma, 18:26 Editoria: Bonaccorsi, dentro Rifondazione c'è un caso Villari


Anche dentro Rifondazione c'e' un caso Villari, quello di un signore che mentre sta aggrappato alla poltrona mettendo a rischio i lavoratori del giornale, da un lato diffonde bugie e disinformazione, dall'altro fantastica comitati e cooperative senza alcuna prospettiva. E' la replica di Luca Bonaccorsi interessato a rilevare il quotidiano del Prc 'Liberazione' alle affermazioni dell'attuale direttore, Piero Sansonetti a 'la Repubblica'. "Mi addolora molto il livello del dibattito sul futuro di Liberazione - aggiunge Bonaccorsi - Il comportamento di Sansonetti mi sembra davvero inqualificabile e le sue affermazioni a 'Repubblica' di oggi, che spero smentira', gravissime. Io antifemminista e omofobo? Ormai siamo alle bugie palesi e alla diffamazione". Quindi, "se Sansonetti pensasse ad altro oltre che alla sua poltrona saprebbe che nella carta d'intenti dell'associazione 'per la sinistra' che io ho promosso fin dagli inizi, il matrimonio gay e' stato inserito su mia proposta". E poi "saprebbe che io, ma non ricordo la sua presenza, ero in piazza con le femministe alla manifestazione contro la violenza sulle donne cosi' come a tutte quelle che l'hanno preceduta e a tutte quelle sui diritti civili" chiosa Bonaccorsi e del resto "anche Villari pontifica ogni giorno sulla sua dedizione alle istituzioni - conclude - Per il bene del giornale e' importante che la discussione torni su temi editoriali e imprenditoriali e si abbandoni la pratica degli attacchi personali, specie se diffamatori e privi di fondamento".

sabato 27 dicembre 2008

Corriere della Sera 27.12.08
Il giornale del Prc «Più spazio al partito e stop ai dibattiti sul microfallo: dilapidano copie»
«Via Sansonetti, basta sesso e Luxuria»
L'editore Bonaccorsi: salverò Liberazione, Piero porta la nave sugli scogli
L'imprenditore in trattativa col segretario Ferrero: bilancio in pareggio in tre anni, copie raddoppiabili in sei mesi
Nemici? Il manifesto prima di tutti. Lo psichiatra Fagioli come collaboratore? Assolutamente no
di Andrea Garibaldi


ROMA — Eccolo qua, l'uomo che vuole cacciare Piero Sansonetti da «Liberazione». Luca Bonaccorsi, 39 anni, alto, moro, scapolo, con la barba. Anzi, vuole prima comprare «Liberazione», il quotidiano di Rifondazione comunista e poi sostituire il direttore Sansonetti. E' così, Bonaccorsi? «Il mio obiettivo è salvare "Liberazione" e rilanciarlo, perché è un patrimonio per la sinistra. Separare l'azionista dal partito, che così non sarà più costretto a enormi esborsi di denaro. Oggi lì ci sono ottimi professionisti gestiti molto male. Sansonetti ha preso "Liberazione" a 10 mila copie, dopo tre anni è sotto le 7.000. E la situazione economica è gravissima, mette a rischio posti di lavoro».
Bonaccorsi si descrive così: ha lavorato per dieci anni fra Londra e Amsterdam, presso Bnr Amro e Paribas, investendo il denaro delle banche. Poi è tornato nella sua città, Roma, e ha rilevato "Avvenimenti", da cui ha creato la rivista "Left". Dicono che sia specializzato in giornali quasi falliti ma con contributi pubblici. Lui ribatte: «L'anno prossimo "Left" chiude in pareggio». Bonaccorsi si definisce di sinistra, mai avute tessere di partito.
Insomma Bonaccorsi, Sansonetti deve andarsene? «Piero è simpatico e perbene. Ma porta la nave dritta sugli scogli. L'esaltazione di Luxuria all'" Isola dei famosi", il dibattito sul "microfallo", la discussione sulla rivoluzione che passa per il buco del sedere, credo che abbiano dilapidato copie. Poi ha fatto cose egregie, come gli approfondimenti sui morti sul lavoro...».
Nella proposta inviata a Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione, Bonaccorsi ipotizza due direttori, uno responsabile che fa il giornale, l'altro politico che fa fondi e mette sul giornale iniziative e vita di partito. Un commissario politico per "Liberazione"? «Si tratta di garantire al partito che sul suo giornale finiscano le sue battaglie». Oggi, invece... «Un giorno sì e uno no il giornale sembra organizzato per far imbestialire l'attuale maggioranza». Quindi, Sansonetti... «O permette a qualcun altro di provarci, o accetta il cambiamento». Potrebbe restare? «Il suo tempo mi sembra esaurito. Il partito è cambiato, il giornale va cambiato». Come dovrà essere il nuovo direttore responsabile? «Un professionista in grado di far crescere la squadra, di aumentare le vendite, di dare le notizie. Ce ne sono bravi anche dentro "Liberazione"». Che giornale dovrà diventare "Liberazione"? «Il primo giornale italiano di inchiesta sociale e sul lavoro. Notizie, fatti, denunce che non trovi sugli altri giornali, sul lavoro, il welfare, la pace, la politica economica del governo. Dovrà stare nelle fabbriche, nelle scuole, negli ospedali...». Bonaccorsi è editore di Bertinotti, della sua rivista "Alternative per il socialismo". E ora sta facendo questa operazione per l'«avversario» Ferrero... «Bertinotti è legato a Piero, ma dovete chiedere a lui cosa pensa di tutto questo. Io sto facendo un'operazione imprenditoriale. Il partito prese un milione di voti e ha 70-80 mila iscritti... Le copie si possono raddoppiare in sei mesi. E in due-tre anni può andare in pareggio». Senza tagli ai posti di lavoro. «Nessun licenziamento e nessuna cassa integrazione, questo è chiaro per me. Se si scoprirà che Bonaccorsi è un bandito, il partito potrà far valere una clausola di riacquisto del giornale». Tutto ciò se sarà garantito il finanziamento pubblico ai giornali di partito? «Questo anche è chiaro». Lei quanti soldi investe? «Le trattative con Ferrero sono in corso. Saranno fatte perizie, vedremo... Il problema vero sono i nemici». Per esempio? «"Il manifesto", prima di tutti. Alcuni lì avvelenano i pozzi, mandano messaggi mafiosi a Ferrero. E poi nemici interni, quelli del tanto peggio tanto meglio, anche nella maggioranza del partito».
Lo psichiatra Massimo Fagioli, che è considerato a lei vicino, che collabora a "Left" avrà una parte anche a "Liberazione"? «Assolutamente no».

Il direttore e il comitato dei garanti
Comitato di garanti. Il direttore di Liberazione Piero Sansonetti ha lanciato la proposta di un comitato di garanti formato da «personalità indiscusse della sinistra» che assuma il ruolo vero e proprio di editore. Sansonetti ha anche citato alcuni nomi che potrebbero far parte del comitato: Paolo Ferrero e Fausto Bertinotti, Lea Melandri, Mario Tronti, Luisa Boccia, Moni Ovadia, Susanna Camusso e Stefano Rodotà. «Liberazione— ha detto il direttore — è un bene comune della sinistra».

La nascita
Liberazione esce per la prima volta il 12 ottobre 1991.
All'epoca è un mensile, diventerà quotidiano quasi quattro anni più tardi, l'8 aprile 2005. Primo direttore del settimanale fu Sergio Garavini, fondatore di Rifondazione comunista.
Terzo direttore fu Oliviero Diliberto, che nel 1998 sarà tra i fondatori dei Comunisti italiani. Primo direttore del quotidiano fu l'ex corrispondente Rai Lucio Manisco. La testata Liberazione era di proprietà di Marco Pannella: negli anni Settanta era il nome dell'organo dei Radicali.

Lo strappo

Le difficoltà tra il direttore Piero Sansonetti e Rifondazione comunista nascono dopo l'ultimo congresso che elegge segretario Paolo Ferrero, e si innestano sulle difficoltà economiche del quotidiano, a cui lavorano 35 giornalisti.
Nelle scorse settimane, ulteriore escalation, con Ferrero che dichiara: «Il giornale nel quale il partito sta investendo altri 3 milioni di euro per coprire le perdite sostiene un progetto politico alternativo al nostro. È inaccettabile». Appena prima di Natale, arriva la notizia del possibile acquisto di Liberazione da parte di Luca Bonaccorsi, già editore del setimanale Left.

Repubblica 27.12.08
Il personaggio. L’editore Luca Bonaccorsi: “Il quotidiano di Rifondazione ha troppi nemici, sono in molti a volere la sua fine”
“Insulti e bugie, non mi daranno Liberazione”
“Io speculatore? Bisognerebbe investire due-tre milioni”
di g.d.m.


ROMA - È un acquirente rassegnato, che sta per gettare la spugna. «Questa trattativa non andrà in porto, temo. Liberazione ha troppi nemici. Molti vogliono la sua fine». Chi? «Il Manifesto, per affossare un concorrente. Alcuni giornalisti, che rifiutano il cambiamento. Il gruppo di Vendola». Altri dicono che sarà lui a trascinare verso il baratro il giornale di Rifondazione comunista, a togliergli autonomia editoriale e di pensiero per conto del segretario Paolo Ferrero. Addirittura si è scritto che sia un "salvatore" interessato solo a speculare sui soldi del finanziamento pubblico. Una specie di killer. «Pazzesco. Semmai posso essere accusato di tentato suicidio. Dentro il quotidiano bisogna metterceli i soldi, non prenderli. Almeno due-tre milioni di euro per i prossimi due anni. Altro che speculatore». L´editore Luca Bonaccorsi, da sempre vicino alla galassia rifondarola, prima creatore di Left oggi accanto a Fausto Bertinotti nell´avventura di nicchia di "Alternative per il socialismo", esce dall´ombra e sente il bisogno di difendersi dagli «insulti, dalle offese personali, dalle palesi bugie» di una vicenda che ha al centro Liberazione ma racconta un´altra storia: la lenta scissione di Prc.
Bonaccorsi è giovane, è il cognato di Ivan Gardini, figlio di Raul, adesso rilancerà in edicola il quotidiano dei Verdi («un bellissimo progetto») ma vorrebbe anche comprare il giornale di Rifondazione. Però è finito in un gioco al massacro. «Siamo al furto di carteggi riservati. La mia manifestazione d´interesse era un documento privato ed è finito sui giornali. Roba da codice penale». Il quotidiano gli sta a cuore, giura. «Oggi è ai minimi termini. Vendite fiacche, raddoppio delle perdite, un prodotto di qualità medio bassa, male organizzato». Certo non è Piero Sansonetti il suo direttore ideale. «Il problema gestionale è evidente. Liberazione ha molti giornalisti bravi, perché fanno un brutto giornale?». Colpa di Sansonetti che pure «stima. Ma ci vorrebbe un direttore con meno ansia di apparire e più voglia di lavorare». Eppoi anche lui vuole un giornale autonomo, non toccherà mi i livelli occupazionali come «è scritto nella manifestazione d´interesse».
È finito in mezzo a un divorzio annunciato «e i piatti colpiscono anche me». Lo hanno calunniato, dice. «Seguace di Fagioli? Sono un suo ammiratore e basta, checché ne dica qualche giornalista diciamo fantasiosa del Manifesto». Sa che Bertinotti non condivide l´operazione. Ci prova lo stesso. Perché? «Perché è il mio lavoro». Ma è comunista? «A questa domanda preferisco non rispondere».

Il Giornale 27.12.08
«Liberazione» sdoppia i direttori


Compromesso a Liberazione, il quotidiano di Rifondazione comunista in procinto di passare nell’orbita della galassia Left dell’editore Luca Bonaccorsi, vicino allo psichiatra-guru Massimo Fagioli e, tramite lui, a Bertinotti e alla minoranza vendoliana. L’ipotesi in discussione vede due direttori affiancati: uno si occuperebbe delle pagine sulla vita del partito e l’altro gestirebbe il resto del giornale. La redazione intanto si stringe a Piero Sansonetti che ha firmato un quotidiano vivace soprattutto dopo la vittoria di Paolo Ferrero (nella foto) al congresso di luglio. E proprio Sansonetti, dalle colonne del giornale, lancia la proposta di un comitato di garanti con il ruolo di editore. Tra questi, Moni Ovadia, la Camusso e Rodotà.

Corriere della Sera 27.12.08
Il libro della Scarparo presentato dal leader Prc, ironia del quotidiano
Il manifesto e la compagna di Ferrero «Si fa aiutare». «Siete maschilisti»
di Alessandro Trocino


ROMA — Il titolo del suo romanzo: «L'arte di comandare gli uomini». Il titolo del manifesto:
«Angela Scarparo si fa presentare il libro dal fidanzato». E non si tratta di un «fidanzato » qualunque: è Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione. La Scarparo non l'ha presa bene: «Un messaggio trasversale, omertoso, mafioso: si attacca me per colpire il partito».
Il manifesto non fa commenti. Impagina la foto di Ferrero e poche righe che annunciano la presentazione del 14 gennaio alla Biblioteca Rispoli del libro. Presenti, Adele Cambria, Fulvio Abate e «il segretario di Rifondazione: il suo compagno». La Scarparo ci vede un chiaro intento polemico: «L'articolo è inserito in una pagina nella quale si attacca un progetto politico che non mi riguarda». Riguarda, in effetti, il suo «fidanzato »: si parla di Liberazione e dello scontro in atto tra il direttore Piero Sansonetti e Ferrero. «Quella del manifesto — dice la Scarparo — è un'operazione molto brutta. Strumentale, becera. È basso giornalismo. Libero mi avrebbe attaccato con più intelligenza». Mariuccia Ciotta, condirettore del manifesto, cade dalle nuvole: «Non c'era nessun intento polemico con Ferrero, con il quale abbiamo un ottimo rapporto. Era solo un divertissement leggero e satirico, che faceva notare una bizzarria: ma se la Scarparo si è offesa, ce ne scusiamo».
Il titolo del libro, «L'arte di comandare gli uomini», sembra fatto apposto per suscitare curiosità sul suo rapporto con Ferrero: «Ma è un romanzo, non c'è niente di autobiografico — dice la Scarparo — È la storia di una donna che non riesce a trovare un rapporto equilibrato con gli uomini. Avevo letto che Zola per La gioia di vivere aveva immaginato il titolo al contrario. Mi pareva una bella idea».
Si potrebbe pensare che non sia molto femminista farsi aiutare dal «fidanzato»: «Paolo mi aveva persino scritto l'introduzione e abbiamo deciso di toglierla. Nel 2007 è uscito un mio libro-intervista a lui e nessuno ha detto nulla». Ferrero comunque, non ha cambiato idea: «Il 14 sarà al mio fianco».

Corriere della Sera 27.12.08
Bastian e il drago in difesa dei sogni
«La storia infinita», capolavoro che aprì un genere Il tema dell'immaginazione contro l'aridità della realtà
di Ranieri Polese


In groppa al buon drago volante Falkor, che somiglia tanto a un dolce cagnone dal soffice pelo bianco, il giovane Bastian combatte contro i nemici del regno di Fantàsia. Strani mostri, un lupo spaventoso, ma soprattutto il nemico numero uno, il Nulla, che sta inghiottendo il felice mondo delle favole. Lui, Bastian, appartiene al mondo reale, ha un padre severo, dei perfidi compagni di scuola che lo perseguitano, soffre ancora per la perdita della madre e trova conforto solo nella lettura. Così, quando s'imbatte in un libro intitolato La storia infinita, vi si immerge fino a ritrovarsi trasportato nell'altra dimensione. Il regno di Fantàsia, appunto, dove pochi buoni come il giovane guerriero Atreyu lottano contro la minaccia di distruzione.
Tratto dalla prima parte del romanzo del tedesco Michael Ende pubblicato nel 1979 (in Italia, Longanesi 1981), il film La storia infinita esce nel 1984, coprodotto da Germania e Usa. Lo firma Wolfgang Petersen, già autore del fortunato U-Boot 96 (guerra sottomarina raccontata dalla parte dei marinai tedeschi), che poi, trasferitosi a Hollywood, dirigerà kolossal come Air Force One, Troy, Poseidon.
Americani sono gli effetti speciali — il drago volante, la vecchia tartaruga saggia, i mostri mangiapietre — che servono a rendere visibili i molti dettagli meravigliosi del libro. Le musiche sono di Giorgio Moroder, e la canzone Neverending Story sarà un hit delle classifiche metà anni 80. Ende, lo scrittore, non amò per niente questa riduzione, al punto da chiedere che il suo nome fosse tolto dai credit del film. A suo giudizio la spettacolarizzazione toglieva forza al messaggio. Produttori e regista, a ragione, replicarono che il film era diretto anche a bambini che non sapevano ancora leggere (o che non avevano ancora letto il libro), e che le immagini sensazionali contribuivano alla comprensione del romanzo. Del resto, il successo mondiale del film non solo giovò immensamente alla vendita del libro, ma servì a imprimere nell'immaginario degli spettatori, piccoli e grandi, l'idea guida di Ende, la difesa dell'immaginazione come unico riparo contro lo strapotere di una realtà sempre più arida e totalizzante.
Bastian e Atreyu, infatti, combattono contro il Nulla che distrugge la capacità di sognare e che vuole eliminare la più importante risorsa del genere umano, il diritto a immaginarsi un mondo sganciato dalle grigie logiche dell'interesse, del profitto, del calcolo. Ende era arrivato a queste convinzioni grazie a una lungo esercizio di meditazione, puntualmente testimoniato dai suoi libri, dal giovanile Le avventure di Jim Bottone a Momo su su fino agli ultimi racconti — Ende muore nel 1995, a 65 anni — de Lo specchio nello specchio e La prigione della libertà.
Mescolava, lo scrittore, gli insegnamenti della dottrina steineriana con una buona conoscenza della letteratura per adolescenti. Tolkien (Il signore degli Anelli), Narnia di C. S. Lewis, ma anche Alice di Lewis Carroll, e il sogno dell'Isola che non c'è incarnato dal Peter Pan di J. M. Barrie.
Arrivato prima della saga di Harry Potter, La storia infinita — libro e film — lascia segni profondi nell'immaginario dei cineasti.
Il tema di un nemico che distrugge le figure della fantasia si ritroverà in molte pellicole. In Shrek (2001), per esempio, in cui l'orco verde e bonaccione accoglie nella sua palude i personaggi delle fiabe scacciati da Lord Farquaad. O nella versione cinematografica del Grinch, il cattivo che ruba i regali di Natale, un mostro molto popolare tra i bambini americani che torna al successo nel film del 2000. Così accadeva anche in Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988), dove un detective privato sconfigge il malvagio che vuol distruggere Cartoonia ed eliminare i disegni animati. Ma forse il lascito più importante del film La storia infinita è l'elogio della lettura, l'invito ai piccoli spettatori a cercare le meraviglie della fantasia in quell'oggetto magico che si chiama libro.

Corriere della Sera 27.12.08
Studi svedesi e americani mettono in evidenza il ruolo delle facoltà mentali in relazione alla longevità
L'intelligenza allunga la vita
Capacità e comportamenti sono indipendenti dalla classe sociale
di Giuseppe Remuzzi


Gli scienziati lavorano da sempre per trovare qualcosa che ci dica quanto vivremo. Si sa che chi ha livelli alti di colesterolo nel sangue, chi è decisamente in sovrappeso e fuma vivrà molto meno. E c'è un altro indicatore forte almeno quanto il fumo, l'intelligenza. Lo si sospettava da tempo senza esserne certi. Una ricerca condotta in Svezia (presto pubblicata su Epidemiology) su un numero impressionante di volontari toglie tutti i dubbi.
I ricercatori hanno studiato più di un milione di ragazzi all'epoca del servizio militare con i soliti test per l'intelligenza e li hanno seguiti nel tempo. I più intelligenti si ammalavano di meno e vivevano più a lungo. E non è questione di classe sociale. La correlazione fra intelligenza e durata della vita rimane anche all'interno di classi sociali diverse. Un altro lavoro recentissimo («Vietnam Experience Study» concepito per studiare le conseguenze sulla salute dell' aver partecipato alla guerra) ha visto che i soldati più brillanti nei test di intelligenza, poi a cinquant'anni, erano meno ipertesi e avevano meno facilmente il diabete rispetto ai coetanei meno intelligenti.
«Sarà l'educazione» s'è pensato. Sì, perché ragazzi più intelligenti quasi sempre fanno scuole migliori, si laureano a pieni voti, trovano facilmente un lavoro in genere ben retribuito e in genere fanno una buona carriera. Se uno ha più conoscenze e abbastanza soldi più facilmente accede alle cure migliori. Nello studio del Vietnam però quelli più intelligenti si ammalavano di meno indipendentemente dalla scuola che avevano fatto.
Ma se non c'entrano né la posizione sociale, né la scuola, allora perché chi è più intelligente dovrebbe vivere di più? Potrebbe essere il livello di salute pre-esistente a determinare il livello di intelligenza dei ragazzi. Se uno è già un po' malato prima di partecipare agli studi, è logico che andrà peggio nei test di intelligenza e avrà più guai fisici nel tempo. E vivrà di meno. Per capirne di più sarebbe importante conoscere il peso alla nascita. Se un neonato pesa meno del normale è perché ha sofferto in utero. Lo sviluppo degli organi, compreso il cervello, è compromesso, e questo predispone a tante malattie e influisce negativamente sui livelli di intelligenza. Ma nemmeno il peso alla nascita spiega l'effetto dell'intelligenza sulla durata della vita. Questo lo si sapeva già da studi precedenti. Fra tutte le spiegazioni possibili ce n'è una apparentemente ovvia. Chi è più intelligente tende ad avere comportamenti più sani, a mangiare meglio, a fare un po' di esercizio fisico, a non guidare in modo pericoloso, a smettere di fumare a fare attenzione al peso, a non prendersi delle sbronze tutti i sabato sera. Ma se si vanno a vedere i risultati di tutti gli studi nemmeno questo basta a spiegare l'associazione tra intelligenza e durata della vita. Insomma chi è più intelligente vivrà di più, è sicuro ma perché debba essere così non lo sappiamo (e gli scienziati dovranno far di tutto per stabilirlo perché ne possano trarre vantaggio anche i meno dotati).
Quindi, chi sa di essere intelligente può dormire tra due guanciali? Dipende. George Best era un vero genio (giocava nel Manchester negli anni '60) ma beveva smodatamente, andava a donne e correva con la macchina, è morto a 59 anni per una cirrosi alcolica. Jim Morrison, Jimi Hendrix, Janis Joplin, grandi innovatori del rock sono morti tutti giovanissimi per eccessi di droga e alcool. Edmund Kean, il più grande attore della storia del teatro inglese, è morto a 46 anni dopo una vita sregolata. Il grande matematico Renato Caccioppoli si è suicidato a 55 anni per via dell'alcol (a Napoli era famoso per le sue stranezze, quando durante il fascismo fu vietato agli uomini passeggiare con cani di piccola taglia Caccioppoli andava in giro con un gallo, al guinzaglio).

Corriere della Sera 27.12.08
La pellicola fu girata sfidando la censura. Mai trasmessa in Italia, sarà proiettata a Roma
Jan Palach, l'ultimo filmato
La veglia, l'agonia, i funerali: una straordinaria testimonianza di 8 minuti
di Paolo Conti


Il bianco e nero restituisce l'atmosfera cupa, gelida e disperata della Praga del gennaio 1969. Appena 7 minuti e 49 secondi: ma «Jan 69», il breve filmato dedicato prima alla veglia durante l'agonia e poi ai funerali di Jan Palach, è un autentico e straordinario pezzo di storia audiovisiva contemporanea. Verrà proiettato in anteprima per l'Italia (dove non è mai stato proposto in pubblico né usato dalla Tv, il materiale è assolutamente inedito per il nostro Paese) il 16 gennaio a Roma, alle 21 al palazzo delle Esposizioni, durante la rassegna dedicata alla produzione cinematografica cecoslovacca censurata e «scomparsa» nel 1969. Il ciclo fa parte della densa mostra «Praga. Da una primavera all'altra 1968-1969», curata da Annalisa Cosentino, dedicata quindi al periodo compreso tra il tentativo di democratizzare il sistema comunista cecoslovacco (primavera 1968) e poi la morte dell'esperimento (primavera 1969) in seguito all'invasione delle truppe del Patto di Varsavia, che entrarono il 20 agosto 1968 per «normalizzare » Praga su ordine di Mosca. In mostra, tra gli altri, anche un reportage fotografico di Dagmar Hochova inedito in Italia.
Lo studente Jan Palach si dette fuoco in piazza San Venceslao il 16 gennaio 1969 proprio per protestare contro l'invasione. Accanto a lui trovarono una lettera: «Poiché i nostri popoli sono sull'orlo della disperazione e della rassegnazione, abbiamo deciso di esprimere la nostra protesta e di scuotere la coscienza del popolo».
Un gruppo clandestino di studenti aveva deciso per il gesto estremo, durante un'estrazione a sorte il numero 1 era capitato a Jan, iscritto a Filosofia, nemmeno 21 anni di età. La sua agonia durò 73 ore: rimase a lungo lucido, seppe del risalto internazionale del suo gesto, registrò alcune dichiarazioni. Morì il 19 gennaio. I funerali furono celebrati il 25 gennaio.
Il filmato diretto da Stanislav Milota con i produttori Yaromìr Kallista e Vlastimil Harnach, tutti dipendenti degli studi nazionali del cinema cecoslovacco, è la secca cronaca di quelle ore: centinaia di migliaia di persone che vegliano in piazza San Venceslao sotto la pioggia, poi l'omaggio alla bara, la disperazione della madre dietro la veletta nera, il pianto a dirotto di migliaia di cecoslovacchi: vecchie coppie di contadini, austeri borghesi chiaramente mal adattati al sistema comunista, giovani studenti, la guardia d'onore dell'università con gli ermellini delle cerimonie ufficiali, splendide ragazze che singhiozzano, le migliaia di corone di fiori candidi, la messa funebre cattolica. La maschera mortuaria di Jan guarda tutti dall'alto. Tante lacrime — non c'è ombra di retorica nel comprenderlo — non sono solo per Jan, ma per il fallimento di un sogno di libertà distrutto dai carri armati spediti da Mosca. Il taglio scelto dalla regìa è inquietante, svela le circostanze fortunose in cui venne realizzato il lavoro, la repressione della censura era in agguato anche per le strade in quelle ore: riprese panoramiche di piazza San Venceslao si alternano a primissimi piani, a scorci di volti, a particolari rivelatori. La musica di Leos Janácek accentua l'emozione, riconducendo tutto alle radici culturali nazionali.
Come racconta il curatore della rassegna, Francesco Pitassio, docente di Storia del cinema all'università di Udine, il materiale rimase disperso fino al 2002. I tre realizzatori furono licenziati dagli studi cinematografici nel 1969 proprio per la colpa di aver girato il documentario. Il film fu nascosto dal vecchio direttore degli studi, Myrtil Frìda, che lo salvò dalla distruzione. Fu ritrovato per un puro caso negli archivi degli studi solo nel 2002: nemmeno Stanislav Milota era riuscito a rintracciarlo nonostante mesi di accurate ricerche.
Ora la sequenza torna a noi quarant'anni dopo e ci restituisce intatta l'angoscia di un Paese oppresso, di un popolo schiacciato da una vergognosa invasione.
Fotogrammi dal filmato «Jan 69». Da sinistra: la disperazione della piazza, la maschera funebre di Jan Palach e la madre il giorno dei funerali

Corriere della Sera 27.12.08
Paolo Mereghetti racconta i lati meno noti di un maestro
Quando Welles bocciò Hitchcock
di Matteo Persivale


Spiegare in breve chi sia stato Orson Welles — regista teatrale, attore teatrale, attore radiofonico, autore radiofonico, impresario, scrittore, giornalista, regista cinematografico, attore cinematografico, pupillo di Franklin Delano Roosevelt, aspirante politico, attivista per i diritti civili, seduttore di professione, massmediologo raffinato molto prima di McLuhan, autore di balletto, documentarista, filosofo, voce fuori campo di tanti spot e anche dell'invisibile datore di lavoro di Magnum PI nel telefilm omonimo — è un'impresa quasi impossibile. Come ha scoperto di recente uno dei suoi più illustri biografi, l'attore inglese di teatro e cinema Simon Callow (era il barbuto cardiopatico di Quattro matrimoni e un funerale), che era partito per realizzare una trilogia di libri sui 70 anni di vita di Welles (1915-1985). Ma alla fine del secondo volume, 507 pagine, Hello Americans, è arrivato a malapena al 1947.
Perché quando si parla di Orson Welles, anche soltanto del Welles regista di cinema — ed è impossibile considerare il suo cinema senza ragionare almeno, come minimo, anche sul suo teatro — ci si accosta davvero a una mente tanto rivoluzionaria e vulcanica che è difficile non provare un senso di vertigine. Un wellesiano «a vita» come Paolo Mereghetti, che a Welles ha dedicato libri, articoli e — prima ancora — la tesi di laurea, riesce però in Orson Welles. Introduzione a un maestro (Rizzoli, pp. 190, e 17) a accompagnare il lettore in un viaggio attraverso quella carriera straordinaria che soddisfa tante curiosità e ne accende altre ancora. Illuminando — al di là di quel Quarto Potere che tutti conosciamo — molto di ciò che è conosciuto a memoria dai wellesologi come Mereghetti ma che non può non sorprendere e affascinare il lettore «non professionista».
Un po' come Robert Arden in Mr. Arkadin. Rapporto Confidenziale, Mereghetti scava con pazienza da detective nell'impressionante curriculum del suo soggetto (quando c'è di mezzo Welles vale il motto dell'hotel inquietante di Barton Fink, uno dei mille capolavori che senza Welles non sarebbero mai esistiti: «Un giorno o tutta la vita»).
E così Mereghetti il wellesologo costruisce la sua introduzione al maestro accostando alle opere più note tante piccole gemme del Welles che non tutti conoscono, come lo straordinario pastiche shakespeariano Five Kings, maratona teatrale del 1938. Mereghetti cita il meglio dei suoi colleghi wellesologi — Rosenbaum, McBride, Bogdanovich, Cobos Sainz, (con riferimenti doverosi alla Kael e Bazin) — e si concede, da critico, anche il piacere di lasciare la parola per un paio di pagine a un critico «ospite », Welles stesso. Che massacra — in un'intervista del 1967 — Antonioni («La noia come tema artistico»), Fellini («Fondamentalmente molto provinciale», «Ha poco da dire»), Bergman («Mi è più estraneo di un giapponese»), Hitchcock («I suoi artifici restano artifici»). Insomma un massacro che l'ex giovane rivoluzionario del cinema perpetra nel segno della nostalgia di John Ford, salvando solo l'allora giovane Stanley Kubrick e, sorpresa, Richard Lester.

l’Unità 27.12.08
Il flop genoma. Siamo tutti diversi
di Cristiana Pulcinelli


Dopo otto anni il primo screening della mappa genomica umana è una sorpresa. Il nostro Dna non è più grande di quello di un verme di un millimetro. Inutile anche la prevenzione per alcune malattie: più facile e meno costoso predire una «tendenza» analizzando la storia familiare. Come un tempo

Si è visto che il genoma si modifica da persona a persona e questo risponde alla domanda perché siamo diversi

In molti erano convinti che sarebbe bastato imparare a decifrare tutti i geni per sapere come siamo fatti. Poi si è scoperto che i geni non coprono che l’1,2% del genoma. Cosa c’è nel restante 98%?

Non c'è dubbio: dal 2001, anno in cui gli scienziati diedero notizia di aver decifrato una buona parte del genoma umano, di passi avanti ne sono stati fatti molti. Alcuni hanno confermato le aspettative degli scienziati, ma altri hanno stravolto le conoscenze in loro possesso. Quello che più ha lasciato sconcertati i biologi è il numero dei geni che il nostro Dna contiene: circa 20mila. Più o meno come il Caenorhabditis elegans, un simpatico vermetto lungo circa 1 millimetro che vive nella terra e si nutre di batteri. Imbarazzante. Niente di personale contro Caenorhabditis che sarà pure elegante, ma è pur sempre un organismo decisamente più semplice dell'homo sapiens sapiens. In effetti, quando il progetto genoma umano partì ci si aspettava di trovare un numero molto più alto di geni, nell'ordine di diverse centinaia di migliaia o addirittura di alcuni milioni. Ma le cose non stanno così.
Fino a poco tempo fa gli studenti di biologia apprendevano dai libri che il gene è quel pezzetto di Dna che codifica per una singola proteina, ovvero che contiene le istruzioni per costruire quella proteina e solo quella, ed è anche l'unità ereditaria fondamentale: quella per intenderci che ci trasmette gli occhi azzurri del nonno e i capelli ricci della mamma. Data la complessità del nostro organismo, si pensava che ci volessero molti geni per costruire tutte le proteine di cui ha bisogno. In molti erano convinti che sarebbe bastato imparare a decifrare tutti i geni e avremmo saputo come siamo fatti. Quando però, grazie al progetto genoma umano, si è andati a identificare i geni si è visto che non coprono che l'1,2% del genoma. Come possono da soli garantire il meccanismo dell'ereditarietà? E, soprattutto, cosa c'è nel restante 98,8% del nostro patrimonio genetico?
Il colpo è stato forte, tanto che si comincia a parlare di crisi d'identità per il gene. Proprio alla vigilia del suo centesimo compleanno. Il termine «gene» infatti fu usato per la prima volta dal danese Wilhelm Johanssen nel 1909 per descrivere ciò che i genitori trasmettevano ai figli (e all'epoca nessuno ne aveva la minima idea). Con l'intuizione di Watson e Crick sulla struttura del Dna, negli anni Cinquanta, il gene non era più solo una parola astratta, ma qualcosa di concreto. Il più era fatto, tanto che nel 1968 il biologo molecolare Gunther Stent dichiarò che i genetisti del futuro avrebbero dovuto accontentarsi di «mettere a punto i dettagli». Oggi, si è arrivati a decodificare circa il 92% del genoma. Possiamo dire di saperne abbastanza, ma siamo ancora lontani dal capire tutto. Si è visto ad esempio che il gene dell'essere umano svolge più di un singolo compito: può produrre più di una proteina oppure può produrre altre molecole che non sono proteine. Si è visto che solo il 6% dei geni sono fatti da un singolo lineare pezzo di Dna: la maggior parte è costituita da pezzi di Dna che si trovano molto distanti tra loro. Si è visto che altre strutture hanno un'importanza fondamentale perché le cellule prendano la loro giusta forma nel nostro corpo: ad esempio l'epigenoma, ovvero quelle parti del genoma che non sono geni ma alterano la funzione dei geni, o le molecole di Rna che vengono prodotte probabilmente dal 92% del genoma. Si è visto anche che il genoma si modifica da persona a persona. E questo è il lato forse più interessante della faccenda non solo perché risponde ad una domanda antica (come è possibile che noi esseri umani siamo tutti uguali e tutti diversi?), ma anche perché ha dei risvolti pratici. Alcuni hanno ipotizzato che analizzando il genoma di una persona e mettendolo a confronto con un genoma "standard" si possa capire qual è la predisposizione di quella persona ad ammalarsi. Si è visto infatti che molte variazioni nel genoma sono collegate all'emergere di patologie. Si è così pensato di poter utilizzare questa informazione a fini medici. Ad esempio, sapere se siamo a rischio di sviluppare il diabete o una malattia cardiaca o un certo tipo di cancro potrebbe farci modificare il nostro stile di vita. O ancora, si può pensare di creare farmaci che interferiscano proprio con quella variante genetica: i cosiddetti farmaci personalizzati. In alcuni casi sembra che la cosa funzioni, ma le cose si sono rivelate più difficili del previsto. Innanzitutto, spesso la variante genetica influisce solo per una piccola percentuale sull'ereditarietà di un certo carattere. In sostanza, è più facile predire se un bambino diventerà alto o svilupperà una certa malattia raccogliendo la sua storia familiare che analizzando il suo genoma. E senz'altro costa meno. Anche le industrie farmaceutiche sono perplesse. Dopo aver speso moltissimo denaro per mettere in piedi strutture di ricerca sulla genomica, si accorgono che ci sono degli imprevisti. Un esempio per tutti: la multinazionale Merck ha trovato un gene legato al diabete. Quando il gene viene reso silente, il diabete migliora. Purtroppo però questo gene è legato anche all'obesità e alla pressione. Metterlo fuori gioco vuol dire anche far aumentare il peso della persona e la sua pressione. Il gioco non vale la candela. Insomma, sembra che per ora quello sappiamo soprattutto è di non sapere.

Repubblica 27.12.08
L’eredità di Fidel
L’uscita di scena di Castro non è la fine del castrismo. Ecco come il regime prova a sopravvivere. Grazie a un alleato: l´embargo Usa
di Bernardo Valli


Cuba. Così l’embargo puntella il regime
C´è chi spera e chi teme Obama che si è detto pronto al dialogo con Raul
La rinuncia al recupero dei beni è inaccettabile per gli esuli che vivono a Miami
Il "bloqueo" fu decretato da Washington nel febbraio del ‘62 ed è ancora operante. L’effetto è però paradossale: rafforza l´orgoglio nazionale degli abitanti dell´isola. E rende più difficile l’uscita dal castrismo
Offre l´occasione di attribuire ai gringos tutti i patimenti di cui soffre l’isola
Non può essere annullato con la fretta con cui è stato demolito il Muro di Berlino

L´AVANA. Sono andato all´hotel Capri. Volevo salire all´ultimo piano da dove anni fa scrutavo la città intatta, senza una traccia di fumo, mentre i giornali europei dicevano fosse in preda alle fiamme. E agitata da tumulti popolari. «Hai saputo qualcosa di Fidel? Pare sia morto», mi gridavano al telefono dall´Italia. Ed io che avevo appena partecipato a una grande cena, sulla piazza della Cattedrale, dove c´era Fidel in persona, mi spolmonavo a dire che non era vero niente. L´Avana non bruciava, né c´erano rivolte popolari. Castro godeva di ottima salute. Il "Che", che era ministro dell´Industria, mi aveva promesso un´intervista (poi ridotta a cinque minuti). Cuba accende spesso le fantasie nel resto del mondo. Fantasie alimentate dal troppo odio o dal troppo amore. Il fidel-comunismo ispira di rado l´obiettività. Suscita passioni. Provoca delusioni.
Per quanto riguarda l´Hotel Capri l´ho trovato chiuso. Una compagnia franco-cubano lo starebbe restaurando. Un po´ di capitali stranieri sono approdati a Cuba. E´ da tempo che arrivano con voluta parsimonia, in particolare nell´industria alberghiera. Soprattutto a Varadero.
Il mio primo viaggio a Cuba risale alla primavera del �61. All´epoca in cui dall´ultimo piano dell´Hotel Capri smentivo appunto le voci di un´Avana in fiamme. Il 15 aprile un´incursione sugli aeroporti dell´Avana e di Santiago aveva fatto sette morti e una cinquantina di feriti. E il 17, quarantotto ore dopo, 1.500 controrivoluzionari cubani, addestrati dalla Cia (soprattutto in una base del Guatemala) avevano tentato di sbarcare nella Baia dei Porci. I combattimenti erano ancora in corso quando arrivai all´Avana dal Messico, ma ormai l´impresa era fallita e Castro processava i prigionieri davanti alla folla che gridava al paredon, cioè al muro, e che io, tenero di cuore, pensavo gridasse perdon. Più tardi Castro disse di essere pronto a scambiare quei prigionieri con trattori agricoli e medicinali. Ad attirare l´attenzione fu tuttavia la dichiarazione che fece al funerale delle vittime dell´incursione del 15 aprile, quando annunciò «il carattere socialista della rivoluzione cubana».
Il 1 maggio la proclamazione diventò ufficiale durante una sfilata che celebrava tante cose: l´avvento del socialismo, la festa dei lavoratori e la vittoria sui contro rivoluzionari uccisi o fatti prigionieri nella Baia dei Porci. Durante la grande sfilata ero accanto a Vittorio Vidali, il romanzesco comunista triestino, comandante Carlos nella guerra civile spagnola, poi legato a tante vicende dell´America Latina: da quella tragica dell´esule Leone Trotzki assassinato in Messico a quella politico-sentimentate con la fotografa Tina Modotti. Ma in quell´occasione Vidali mi parlò soltanto delle miliziane che marciavano al passo, impettite, con la camicetta leggermente aperta, non abbottonata fino al collo.
Abitavo all´Hotel Capri dove, due anni e mezzo dopo l´ingresso dei barbudos all´Avana, era ancora aperto il casinò. Come erano aperte le sale da gioco nel vicino Hotel National e all´Hotel Riviera. Ma i tenutari delle bische non erano più i mafiosi venuti dagli Stati Uniti (il casino del Capri era stato diretto dall´attore Georges Raft). I croupier avevano al collo il fazzoletto rosso e i giocatori erano i pochi gringos rimasti sull´isola. Erano le ultime tracce del regime di Batista destinate a sparire molto presto. Le prostitute del Vedado non avevano più clienti e aspettavano davanti ai televisori dei bar che apparisse "Che" Guevara, il quale aveva l´abitudine di pronunciare i suoi discorsi a tarda sera o addirittura di notte. Il "Che" aveva allora trentatré anni e Fidel appena due di più. Non si era mai vista una rivoluzione tanto giovane. Alcuni night club erano ancora aperti ma vuoti, e sempre gelati come frigoriferi. Un tempo il gelo giustificava le pellicce di visone che le turiste nordamericane indossavano anche ai tropici.
Gli avvenimenti di quei giorni erano in apparenza gioiosi. Non lo erano per tutti. Le emozioni erano tante. I neri erano ammessi nei club e sulle spiagge riservate fino allora ai soli bianchi. I villaggi ai margini delle piantagioni di zucchero erano invasi dai giovani incaricati di alfabetizzare i campesinos. Al tempo stesso le prigioni rigurgitavano di prigionieri e nei tribunali risuonavano ancora le condanne a morte pronunciate con disinvoltura contro i seviziatori o presunti tali del regime di Batista ed eseguite senza indugio. La prima riforma agraria, più che mai giustificata, era stata attuata con rapida brutalità. I tremila proprietari del settanta per cento delle terre, soltanto un terzo delle quali coltivate, erano già stati in larga parte cacciati dalle fattorie, e, se fuggiti, spossessati a favore di cooperative e di piccoli agricoltori.
Centinaia di leggi, riguardanti la vita quotidiana, erano state promulgate: i salari aumentati e gli affitti abbassati dal 30 al 50 per cento. E in egual misura erano state ridotte le tariffe dell´elettricità, del gas, del telefono, e i prezzi dei testi scolastici e dei medicinali. Molti borghesi erano scappati a Miami, spesso senza avere il tempo di salpare con gli yacht riempiti di oggetti preziosi e rimasti nei porti dell´isola.
Tra i ricchi in fuga non mancavano i nordamericani, molti dei quali colpiti dalla riforma agraria o spaventati dalla forte mobilitazione popolare, subito inquadrata o addirittura militarizzata. Era stata creata una milizia di centomila uomini. E i nuovi Comitati di Difesa della Rivoluzione (Cdr), incaricati di sorvegliare in ogni quartiere gli elementi contro rivoluzionari ma anche di vegliare all´applicazione delle misure rivoluzionarie, impegnavano ottocentomila persone. Sul piano internazionale era stato firmato il primo accordo con l´Urss che si impegnava a comperare cinque milioni di tonnellate di zucchero in cinque anni, in cambio di petrolio, acciaio, carta, cereali, concimi.
E al tempo stesso, in seguito alla nazionalizzazione delle società petrolifere straniere, in gran parte nordamericane, il presidente Eisenhower aveva rifiutato, per ritorsione, 700 mila tonnellate di zucchero destinate agli Stati Uniti. E Castro aveva sentenziato: «E´ una pugnalata alla schiena».
Si è creduto (e affermato) a lungo che Fidel Castro fosse diventato comunista durante il confronto con gli Stati Uniti, per reazione all´ostilità del vicino impero capitalista, storicamente poco rispettoso dell´indipendenza dell´isola. Lui stesso, nei primi mesi di potere, aveva definito più volte, in pubblico, "umanista" e non comunista il carattere della rivoluzione. In un´intervista del 2006 a Ignacio Ramonet (presentata in un volume come «una biografia a due voci») Castro è più preciso.
Già nel 1953, ossia sei anni prima della presa del potere, e quando aveva ventisei anni, alle sue prime idee politiche ispirate da José Marti, l´eroe nazionale dell´Ottocento, si erano aggiunte le idee socialiste radicali, assimilate con le letture. E aggiunge perentorio: «Io sono socialista, marxista e leninista, e non ho mai cessato né cesserò mai di esserlo».
Da tutto questo si può dedurre che era già idealmente comunista ma che esitava sulla natura del regime? Ritornare su questi particolari cinquant´anni dopo non è superfluo, come può apparire, poiché essi riconducono a un momento decisivo della rivoluzione: quando i compagni di Fidel il cui obiettivo era di sostituire la dittatura di Batista con una democrazia avvertono i sintomi di un autoritarismo che si sta installando con un´azione sempre più evidente dei comunisti. E quindi si staccano dalla rivoluzione già nel �59. Tanti sono coloro che pagheranno il "tradimento" col carcere e il lavoro forzato.
Penso in particolare a Huber Matos, il maestro idealista, comandante della "colonna 9", una delle più valide durante la guerriglia contro Batista, condannato a vent´anni, scontati fin quasi all´ultimo giorno per non avere seguito la linea di Fidel. Tra i tanti va ricordato anche il giornalista Carlos Franqui, denigrato dai controrivoluzionari per essere stato con Fidel sulla Sierra e poi dal regime dell´Avana per avere condannato la svolta autoritaria e filosovietica.
Ho avuto l´impressione di ricevere uno schiaffo quando una intellettuale aggiornata su tante cose mi ha risposto, poche ore fa, con disinvoltura: « Lei mi chiede se so chi era Huber Matos. Certo che lo so: era un traditore che ha trafficato anche con la cocaina». In mezzo secolo la propaganda può cancellare ogni verità e inventare le più insultanti menzogne.
L´intellettuale aggiornata non era ancora nata quando Matos, coraggioso comandante a Camaguey, e amico di Camilo Cienfuegos, fu processato. Camilo spari in un incidente aereo prima che le accuse a Matos si appesantissero.
Ma quanti sono oggi i prigionieri politici a Cuba? Stando al sito (desdecuba.com/generaciony) dell´impavida giornalista digitale Yoany Sànchez, sarebbero circa duecentoquaranta. Ma non è facile affidarsi alla definizione di prigioniero politico in un regime come quello cubano, dove i reati politici, d´opinione, vengono confusi con quelli comuni. E´ singolare il caso di Yoany Sànchez che diffonde da Cuba i suoi blog contestatori rivelando verità taciute dagli organi di informazione ufficiali. Le autorità sono imbarazzate: pochi cubani, essendo difficile accedere a internet, raccolgono gli intelligenti messaggi di Yoani Sànchez, mentre essi hanno una larga eco nel resto del mondo. Ridurre al silenzio Yoany diventerebbe dunque uno scandalo internazionale. Per questo il regime ha finora evitato di farlo. Non è sempre facile interpretare quel che accade a Cuba.
Secondo l´Organizzazione mondiale della sanità la speranza di vita a Cuba è di 76 anni per gli uomini e di 80 per le donne. E´ cioè uguale a quella degli Stati Uniti e si stacca nettamente da quella dei paesi vicini. Nella Repubblica domenicana è rispettivamente di 66 e 74; e a Haiti di 59 e 63. In quanto agli analfabeti, che mezzo secolo fa erano la maggioranza, adesso non esistono più. Quasi il 93 % dei giovani, stando alle statistiche dell´Onu, finiscono la scuola media superiore. E´ una percentuale che sorpassa quella degli Stati Uniti e naturalmente degli altri paesi dei Caraibi. Non c´è osservatore obiettivo che, di fronte a questi dati esemplari, non sottolinei l´assurdità della situazione. Il valore di questa educazione tanto estesa viene drasticamente ridotto, se non proprio vanificato, dalla censura che fissa i confini della cultura, dalla difficoltà di comunicare con l´esterno e di recarsi all´estero. Quali sbocchi, quali prospettive hanno i giovani cubani che hanno conquistato conoscenze ignorate dai loro padri e nonni? A giudicare da Granma, organo del Pc cubano, la stampa quotidiana più diffusa a loro disposizione è meno che decente.
Cuba è una grande potenza medica: forma ed esporta dottori non soltanto nel subcontinente. I medici cubani sono apprezzati e costituiscono un comprensibile vanto per il regime. Ce ne sono circa ottantamila: una delle percentuali più alte del mondo in rapporto alla popolazione. Si ritiene che l´azione preventiva abbia evitato un disastro sanitario negli anni Novanta, durante il "periodo speciale", quando in seguito al crollo dell´Urss e degli altri regimi comunisti, principali partner di Cuba, il prodotto interno lordo calò del 40 %, la produzione industriale dell´80% e quella dello zucchero passò da sette milioni di tonnellate a poco più di tre. La situazione alimentare diventò disastrosa, ma sarebbe stata peggiore se non ci fosse stata una assidua prevenzione sanitaria. Oggi Cuba manda migliaia di medici nei paesi emergenti. Trentamila si trovano nel Venezuela e in cambio della loro opera il presidente Chavez fornisce all´amico Fidel 90 mila barili di petrolio al giorno. Senza i quali l´isola resterebbe quasi senza energia.
Come ha fatto a durare cinquant´anni la rivoluzione? A questa domanda molti cubani sorridono, alzano gli occhi al cielo, e citano alla rinfusa tanti, disparati motivi: il carisma di Fidel; il sostegno dei campesinos o degli ex campesinos emancipati dalla rivoluzione; le rimesse degli esuli cubani di Miami che aiutano le famiglie rimaste nell´isola; i Comitati di difesa della Rivoluzione (Cdr), che continuano a costituire uno strumento importante del regime.
Tutto passa attraverso di loro: l´igiene, la sicurezza, la disciplina rivoluzionaria, la lista degli individui segnalati come "asociali", le dispute di famiglia, la prevenzione degli uragani, la sorveglianza della frequenza scolastica dei minori. Ogni Cdr possiede in ogni edificio un suo chivato, un suo informatore, che segnala qualsiasi tipo di irregolarità.
Al controllo ideologico dovrebbero contribuire gli iscritti al partito o al sindacato unico. Queste organizzazioni sarebbero tuttavia l´ombra di quelle che erano un tempo. Esse riflettono l´immagine della rivoluzione invecchiata, che di giovane avrebbe conservato soltanto gli slogan.
Il bloqueo, l´embargo americano, è considerato paradossalmente uno dei più solidi puntelli del regime, anche da una giovane e furba cubana di origine africana, che incontro nel sobborgo di San Miguel del Pardon. Per lei i due fratelli, Fidel e Raul, tremano all´idea che finisca. Senz´altro esagera, ma c´è qualcosa di vero in quel che dice. Il primo embargo, totale, fu decretato nel febbraio 1962, neppure due anni dopo la costruzione del Muro di Berlino.
E ha avuto un effetto simile, con la differenza che a promuoverlo sono stati quelli dall´altra parte. Il bloqueo contro Cuba è una delle iniziative americane più (giustamente) deplorate e condannate nel resto del mondo. E´ stato ed è fonte di sofferenze e di privazioni che, contro ogni principio umanitario, colpiscono indiscriminatamente un´intera collettività.
Da alcuni anni il Congresso, spinto dalla farm lobby americana, autorizza la vendita di prodotti agricoli e simili (quest´anno per seicento milioni di dollari) a Cuba.
Prodotti che devono essere pagati in contanti alla consegna, per cui, al fine di poter saldare il conto, ad ogni arrivo i funzionari fanno una precipitosa colletta di moneta convertibile nelle banche e negli uffici di cambio frequentati dai turisti. Altri prodotti made in Usa arrivano attraverso l´Europa. Ma nel suo insieme l´embargo resta operante.
Penso che esso rafforzi l´orgoglio cubano di fronte al gigante americano, e offra al regime comunista l´occasione di attribuire ai gringos tutti i patimenti di cui soffre all´isola. Per questo l´afrocubana di San Miguel del Pardon sostiene che Fidel e Raul ne sono avvantaggiati. L´embargo non può comunque essere annullato con la fretta con cui è stato demolito il Muro di Berlino. E´ un mosaico di decreti da smontare uno ad uno. Quello che esige la restituzione dei beni confiscati ai cubani in esilio a Miami è, ad esempio, inaccettabile dal regime dell´Avana che non può neppure immaginare il ritorno in massa degli esuli, così come non potrebbe sopportare un´invasione di turisti americani. Essi seppellirebbero la rivoluzione. Ma la rinuncia al recupero dei beni è altrettanto inaccettabile degli esuli cubani, che aspettano la rivincita, e costituiscono un gruppo di pressione potente negli Stati Uniti. Molti sperano e altrettanti temono l´annunciata saggezza di Barack Obama che si è dichiarato disposto a parlare con Raul.
(2 - fine)


Repubblica 27.12.08
Storia di un'infezione nazionale. La corruzione e le sue radici
Le origini di un fenomeno che affligge l´italia dagli anni settanta
di Guido Crainz


La "normale" violazione della legalità rimanda a vicende antiche del nostro Paese
La "diversità" comunista oggi appare come un reperto archeologico

Il riemergere della corruzione come nodo politico e la diffusione della "normale" violazione della legalità (la "corruzione inconsapevole" di cui ha parlato Roberto Saviano) inevitabilmente rimandano ad un rapporto di lungo periodo fra sistema politico e Paese. E il largo coinvolgimento del centrosinistra rinvia non alle confuse vicende di anni recenti ma ad una storia più antica.
La "diversità" comunista appare oggi reperto archeologico ma non è inutile interrogarsi sulle modalità del suo incrinarsi ed esaurirsi. Conviene partire da anni insospettabili, ad esempio dallo scenario degli anni Settanta: più esattamente, dal momento in cui le tangenti petrolifere ai partiti di governo rendono evidente il delinearsi di una corruzione sistematica e non episodica. È illuminante il dibattito che si svolge nella Direzione del Pci proprio nel 1974, in relazione alla legge sul finanziamento pubblico ai partiti varata sull´onda di quello scandalo.
L´iniziale e periferico coinvolgimento del Pci in pratiche illegittime è registrato con estrema preoccupazione, e in autorevoli interventi il finanziamento pubblico è visto come possibile strumento di una duplice autonomia: da un lato dall´Urss, dall´altro dalle pressioni illecite - e non sempre respinte - sulle amministrazioni locali. Alla luce di questi e altri non piccoli segnali, l´insistenza dell´ultimo Berlinguer sulla diversità comunista ci appare oggi non tanto l´orgogliosa sottolineatura di una solidissima realtà quanto l´appassionato e quasi angosciato appello ad un dover essere, l´aggrapparsi ad un elemento che vedeva scolorirsi sotto i suoi occhi. E che gli era apparso sin lì il più sicuro antidoto a quel degrado del sistema politico che stava conoscendo forti accelerazioni. Già nel 1980 su questo giornale Massimo Riva annotava che «il radicarsi della corruzione dentro le strutture dello stato» appariva senza «precedenti storici che possano consolare». Nello stesso anno Italo Calvino regalava ai lettori un lucidissimo Apologo sull´onestà nel paese dei corrotti che iniziava così: «C´era un paese che si reggeva sull´illecito». Sempre allora Ernesto Galli della Loggia su Mondo Operaio vedeva delinearsi una «uscita dalla legalità dell´intera classe dirigente». Ed è dell´anno successivo la appassionata denuncia di Berlinguer nell´intervista ad Eugenio Scalfari riproposta nelle sue parti essenziali da la Repubblica di domenica scorsa. Voci differenti, come quelle che nel corso del decennio segnaleranno con allarme crescente, nel diffondersi di arresti e processi, una degenerazione inarrestabile, un salto di qualità impensabile pochi anni prima.
A rileggere cronache giudiziarie e acute analisi giornalistiche c´è da chiedersi semmai perché il ciclone di Tangentopoli sia venuto solo così tardi. Nel 1986, ad esempio, sempre su queste pagine Giovanni Ferrara osservava: «Il legame di fiducia fra i partiti e l´opinione pubblica è ormai teso al punto di spezzarsi: come in una corda marcita molti fili sono già rotti ed ogni giorno ne salta ancora uno». E nello stesso anno Giorgio Bocca analizzava bene la "cultura della corruzione": nelle parole degli imputati ai processi, annotava, le tangenti appaiono «necessarie come il lievito alla panificazione». Bocca si riferiva allora a Milano, e quattro anni dopo Giampaolo Pansa poteva parafrasare in un titolo - Milano corrotta, nazione infetta - la storica denuncia dell´Espresso degli anni Cinquanta relativa alla Roma della speculazione edilizia. È un titolo del 1990, non del 1992. Poco dopo ancora Bocca annotava: «L´assenza di regole domina ovunque, anche nella "capitale morale". E siamo qui nell´angoscia, nell´umiliazione di un nodo che sembra irrisolvibile».
Non mancavano riflessioni ancor più generali. Nel declinare degli anni Ottanta Silvio Lanaro iniziava una densa ricognizione storica (L´Italia nuova, Einaudi 1988) imponendo al lettore dati impietosi: da un lato il volume significativo ormai raggiunto dal "reddito da tangenti" (di poco inferiore, si valutava, a quello di estorsioni e ricatti, o al bottino complessivo di furti e rapine); dall´altro l´immagine di un Paese privo di regole e consapevole di esserlo. Poi, negli anni di Tangentopoli, le riflessioni sull´identità italiana si intensificano e si addensano, alimentate anche dalla irruzione sulla scena della Lega. Già nel 1991 Pietro Scoppola ne La Repubblica dei partiti (Il Mulino) tracciava una ricostruzione disincantata e quasi sofferente del declino di un sistema politico nel quale aveva creduto a lungo (e ancora voleva credere). Nel 1993 esce Se cessiamo di essere una nazione di Gian Enrico Rusconi (Il Mulino), che si annuncia sin dal titolo, mentre Lorenzo Ornaghi e Vittorio Emanuele Parsi annotano: «Nessun discorso sull´Italia repubblicana può scansare la domanda se la nostra società possa dirsi davvero una società. O se mai lo sia stata» (La virtù dei migliori, Il Mulino). Ancora nel 1993 La grande slavina di Luciano Cafagna (Marsilio) offre ulteriori e stimolanti affondi, dando non effimero fondamento al giudizio che Giuliano Amato pronunciava allora dimettendosi da Presidente del Consiglio (e suscitando polemiche). Nella crisi degli anni Novanta Amato vedeva infatti la fine di «quel modello di partito-Stato che fu introdotto in Italia dal fascismo e che la Repubblica aveva finito per ereditare», sostituendo il partito unico con un sistema pluralistico sì ma partitocratico (e alla partitocrazia come lascito del fascismo era appunto dedicato un capitolo del pamphlet di Cafagna). Al di là di polemiche e toni d´epoca è difficile negare che abbiano avuto prepotente impulso se non origine nel ventennio il diffondersi della politica come mestiere e al tempo stesso la confusione fra interessi dello Stato e interessi del partito (un partito onnivoro come il Pnf, contornato di istituti ed enti). Di lì a poco Eugenio Scalfari toccava un nodo centrale chiedendosi: «Qual è stato il momento nel quale una società operosa e dinamica si è trasformata in un immenso verminaio collettivamente dedito alla dilapidazione delle risorse e al malaffare fatto sistema?». Con molte ragioni collocava questa «grande mutazione genetica» negli anni Sessanta, cioè nella tumultuosa trasformazione che aveva posto fine all´Italia arcaica e contadina. Ci sarebbe voluta una classe dirigente moralmente e professionalmente adeguata, aggiungeva, per governare quel processo: «In assenza di essa, tutti i valori sono andati dispersi, tutte le regole calpestate, tutti i rapporti imbarbariti».
In questi e altri interventi, dunque, la critica al sistema dei partiti si legava strettamente ad un più generale esame di coscienza e su La Stampa Norberto Bobbio osservava: «Una fine così miseranda [della "prima Repubblica"] è l´espressione del fallimento di tutta una nazione». Sul Corriere della Sera Giovanni Raboni si chiedeva Ma noi dove eravamo?, mentre Claudio Magris annotava: «Da qualche tempo si avverte quasi fisicamente, per la prima volta, la possibilità che il Paese si dissolva e che tra breve l´Italia, nella sua attuale forma politico-statuale e quindi anche culturale, possa non esistere più». Dal canto suo Galli della Loggia si interrogava sulla "solitudine interna" di una società che non riesce a «scorgere in se stessa alcuna fonte vera di orientamento a cui rivolgersi» e aggiungeva poi: la «corruzione dall´alto» si incontra con quella che «proviene dal basso, dagli strati profondi della società italiana (...) i politici, gli industriali, gli alti burocrati hanno potuto fare mercato della cosa pubblica perché tutti gli italiani, senza distinzioni, da sempre tendono a usare il pubblico in modo del tutto privato».
Alla lunga distanza c´è da chiedersi perché domande così radicali non abbiano trovato allora molti interlocutori, e in larghi settori dell´opinione pubblica siano state poi sepolte dall´illusione in una salvifica "seconda Repubblica". Quella illusione ha lasciato un retrogusto amaro e viene alla mente quel che Guido De Ruggiero scriveva nel 1944, nella Roma più precocemente liberata: attorno a sé scorgeva infatti i segni di "un regime in sfacelo più che di una democrazia in divenire". Così ci appare oggi anche l´Italia dei primi anni Novanta e c´è da riflettere a fondo non solo sui processi che hanno attraversato in questi ultimi quindici anni il sistema politico ma, più ancora, su quelli che hanno attraversato l´intero paese.


il Riformista 27.12.08
Del Turco: «Nel Pd confondono il garantismo con la complicità»
di Tommaso Labate


INCHIESTE. «Bisogna solidarizzare con i nemici. Troppo facile farlo con gli amici». «Mi fido di più della Procura che del commissario Brutti inviato in Abruzzo da Veltroni».
di Tommaso Labate
«Quelli del Partito democratico sono garantisti a corrente alternata

«Quelli del Partito democratico sono garantisti a corrente alternata. D'altronde, un garantista vero è tale quando difende i nemici... Difendere gli amici è un altra cosa: si chiama complicità». Così Ottaviano Del Turco commenta con il Riformista l'ultimo capitolo della telenovela giudiziaria abruzzese: la scarcerazione di Luciano D'Alfonso, sindaco dimissionario di Pescara, che ha avuto la solidarietà del Pd.
Del Turco, ha visto? D'Alfonso è tornato in libertà.
Rimango sconcertato per tutta la vicenda ma sono contento per Luciano, che al contrario di me potrà passare il Capodanno da uomo libero. Sin dal suo arresto, gli avevo manifestato la mia solidarietà. Vengo da una tradizione garantista, io...
Crollato il castello di prove contro D'Alfonso, anche il Pd ha polemizzato coi giudici. Dal commissario in Abruzzo Massimo Brutti al ministro ombra Tenaglia, passando per Veltroni.
Sa che le dico? Che Brutti è venuto in Abruzzo non per seguire le vicende politiche del Pd, ma per stare appresso alle inchieste. Aggiungo, poi, che mi sento più garantito dal magistrato Trifuoggi (il capo della procura di Pescara che ha fatto arrestare il governatore, ndr) che non da un personaggio come Brutti. A mio avviso, quest'ultimo difende le sue posizioni ideologiche, da sempre in linea con gli atti più feroci della magistratura.
Che vuol dire, Del Turco? Che il Pd non è un partito garantista?
Quelli del Pd sono garantisti a corrente alternata. Un garantista vero solidarizza innanzitutto con i nemici. Difendere gli amici è un'altra cosa: si chiama «complicità».
Sta accusando il Pd di «complicità»? E con chi?
Senta, io mi lamento perché non uno degli schemi utilizzati dal partito in difesa di D'Alfonso è stato adoperato quando il sottoscritto è finito in carcere, tra l'altro senza uno straccio di prova a carico. Dentro il Pd si dicono e si fanno cose abiette. Lei non ha idea degli esponenti di quel partito che, quando mi incrociano, si girano immediatamente dall'altra parte per non salutarmi.
Addirittura...
Questa scenetta triste si è ripetuta spesso, negli ultimi tempi. Soprattutto nei corridoi di Montecitorio. Io invece posso andare in giro a testa alta. Vengo da una tradizione che è stata garantista nei confronti di tutti ma che di solidarietà, in cambio, ne ha avuta ben poca.
Da garantista, che ne pensa della vicenda (mediatica, visto che non ci sono indagati) che vede coinvolto il figlio di Di Pietro?
Dico che, come le colpe dei padri non devono ricadere sui figli, allo stesso modo le colpe dei figli non devono ricadere sui padri. Tutto qua. Quanto all'Abruzzo, penso che l'uno-due giudiziario sulla regione e sul comune di Pescara sia stato un bel cappotto...
Pensa a un complotto, alla teoria della «manina»?
Come Dahrendorf, io non credo ai complotti. Penso però a una serie indefinita di errori giudiziari.
Intanto lei continua ad attaccare il Pd. Dica la verità: è in marcia di avvicinamento verso il Pdl?
L'ho detto e lo ripeto: non sono in cerca di candidature ma so che il mio impegno in politica, che voglio portare avanti, non ha più senso dentro il Pd. Faccio un solo rilievo: all'indomani del mio arresto, l'unica personalità politica che non ha fatto finta di non conoscermi è stata Silvio Berlusconi. E sono felice che l'Italia abbia un premier che, con i suoi esempi, ricorda ai cittadini le garanzie contenute nella nostra Costituzione. Quanto a Veltroni, il segretario del Pd sembra sempre di più un ballerino che sbaglia tutte le mosse. Anche il partito è messo male. Leggendo il libro di Ugo Finetti su Togliatti e Amendola, e pensando alle dispute tra veltroniani e anti-veltroniani, mi viene da pensare che aveva ragione Marx. È vero che le tragedie della storia si ripresentano come una farsa.


il Riformista 27.12.08
Il centenario del terremoto calabro-siculo/3 La città aveva 30mila abitanti: ne morì la metà
Il sisma dimenticato
A Reggio Calabria i soccorsi 24 ore dopo
di Fabrizio d'Esposito


L'altra sponda dello Stretto. La scossa del 28 dicembre 1908 devastò anche il capoluogo calabrese. A differenza di Messina, però, l'allarme scattò solo il giorno dopo. Con le peggiori strade del regno, la città fu esclusa dal mondo dei viventi. L'atroce testimonianza dell'avvocato Valentino, poi divenuto sindaco.

Reggio Calabria, 28 dicembre 1908. È durata poche ore la luce nuova del corso Garibaldi. Il terremoto terrificante di stamattina ha divelto i lampioni alimentati non più dal gas ma dalla corrente elettrica. La strada è attraversata da fenditure profonde. Domenica sera il popolo reggino era in festa per l'avvento della luce nuova sul corso Garibaldi. Uno struscio speciale tra Natale e Capodanno in onore del progresso. Molti notabili della città, però, si trovavano a Messina per l'Aida al teatro Vittorio Emanuele. Il boato del sisma ha squarciato l'alba. Ore cinque e ventuno. Dopo una decina di minuti, una montagna nera d'acqua si è rovesciata sull'intero lembo costiero che guarda la Sicilia. L'imponente Palazzina del lungomare, cinque blocchi squadrati, è stata spezzata dalla prima scossa. Del duomo è rimasta solo una facciata. Al porto il maremoto ha trascinato via alcuni vagoni ferroviari, che adesso escono per metà dall'acqua. La caserma Mezzacapo è completamente distrutta. Le prime voci raccontano che ci siano quasi mille soldati sepolti sotto le macerie. Un'ecatombe. Su trentamila abitanti in città, ne sarebbero morti almeno la metà, quindicimila. Il doppio, invece, nei paesini del circondario.
L'Aspromonte è la montagna dei terremoti. Prima dell'alba di questo funesto lunedì 28 dicembre 1908, la natura aveva colpito già nel 1894, nel 1905 e pure un anno fa, nel 1907. Una sequenza che avrebbe finito per spostare l'epicentro dall'appennino calabrese al fondo dello Stretto. Un altro grandioso sisma avvenne nel 1783. Allora, Reggio era un piccolo centro medievale di cinquemila abitanti. I Borboni la ricostruirono daccapo. Nonostante il porto, Reggio è rimasta una città che vive d'agricoltura. Il bergamotto è l'orgoglio di questa terra, oggi devastata ancora una volta. Tra i superstiti c'è l'avvocato Giuseppe Valentino, una delle personalità più in vista di Reggio. Ha perso la moglie e il fratello e insieme col figlioletto è rimasto intrappolato per lunghissime ore tra i detriti, respirando la polvere dei calcinacci. La sua testimonianza è atroce: «Appena quella scossa diabolica mi ruppe il sonno, balzai dal letto fulmineamente, trascinando meco mia moglie presso l'unico figlio undicenne, Felice, stringendoci tutt'e tre in gruppo: tutto ciò durò forse un secondo: ma subito dopo perdetti i sensi, piegandomi, svenuto sulla sponda del letto di mio figlio; e così rimasi per tutta la durata, trenta secondi, della tremenda scossa; seguì un attimo di quiete, nel quale, riaprendo gli occhi, intravidi avanti a me per l'ultima volta mia moglie; dopo un altro attimo, la scossa vorticosa, violentissima, rabbiosa: il colpo di grazia della catastrofe. Quindi un silenzio di morte, peggiore della morte». Il racconto dell'avvocato Valentino prosegue disperato: «Finalmente potei dare un urlo: mi rispose mio figlio, mi rispose invocando violentemente la madre: la madre, che era a un passo da noi, ma che non poteva più rispondere, e neanche mio fratello poteva rispondere. Mio figlio si accaniva nel grido filiale. Io volli ingannarlo ma si impazientì: "Papà, non c'è più speranza di niente... prendi un revolver e sparami". E io, affettando di celiare: "Bravo! E ora, dove te lo prendo un revolver?"».
Reggio Calabria 29 dicembre. Per ventiquattr'ore, Reggio è stata esclusa dal mondo dei viventi. Le strade della Calabria sono le peggiori del regno. Reggio è isolata. I superstiti si sono arrangiati da soli, senza alcun aiuto esterno. Hanno allestito due punti di soccorso. Alcuni seminaristi hanno estratto 14 cadaveri dall'edificio crollato dell'educandato di san Vincenzo de' Paoli. Sono suore ed educande. Uno strazio. Solo oggi pomeriggio il comandante Umberto Cagni è riuscito a far sbarcare dalla Napoli 400 marinai. La priorità per i soldati, secondo gli ordini ricevuti da Roma, è di sorvegliare i tesori sepolti sotto le rovine delle banche. Nemmeno i militari hanno viveri. Sono costretti a scavare tra le macerie della caserma Mezzacapo per recuperare gallette e scatolette di carne. Alla Mezzacapo c'è un corpo senza vita che penzola da una trave al secondo piano. Si sta putrefacendo senza che nessuno intervenga. Il povero soldato è rimasto impigliato coi piedi nella trave e la camicia rovesciata gli copre la testa.
Il prefetto Raffaele Orso è scampato al disastro. I telegrafi sono saltati e così ha affidato a un brigadiere della guardia di finanza il telegramma da spedire al premier e ministro dell'Interno Giovanni Giolitti. Il brigadiere si chiama Landuzzi e ha percorso cento chilometri a piedi e a cavallo per raggiungere Gerace Marina, da dove ha spedito il testo del prefetto: «In seguito ad una violentissima scossa di terremoto la città di Reggio è stata quasi completamente distrutta. Vi sono parecchie migliaia di morti. La prefettura ed altri edifici pubblici sono crollati. Anche altri comuni della provincia sono distrutti. Occorrono ingenti soccorsi, viveri, sodati e medicinali poiché la città nulla offre. Il telegrafo e la ferrovia non funzionano. Anche più centinaia di soldati sono morti e degli agenti della forza pubblica molti sono feriti e alcuni morti. I soccorsi dovrebbero arrivare via mare».
Reggio Calabria, San Silvestro del 1908. L'altro giorno, martedì 29 dicembre, l'onorevole Demetrio Tripepi, già sindaco della città, è stato trasportato ferito all'episcopio. Le sue condizioni erano gravissime. Il palazzo familiare di via Fata Morgana è venuto giù col terremoto e precipitando dal secondo piano il letto gli ha fatto da scudo. Tripepi è morto da solo stamattina alle quattro e venti. A quell'ora una scossa ha fatto fuggire tutti coloro che erano al suo capezzale. Le sue ultime parole sono state: «Che vale più la mia esistenza, mi vedo abbandonato da tutti, preferisco morire. Dio delle misericordie abbiate pietà di me». A Reggio piove da due giorni e molti soldati si lamentano dei superstiti. Li descrivono fiacchi e indolenti. Fatalismo calabrese? Indifferenza verso la morte? Si vocifera di favoritismi sugli aiuti, di gente che avrebbe ricevuto legname per costruire non una ma tre baracche. Un vecchio si aggira tra le rovine gridando come in un comizio solitario, senza pubblico: «Io morirò, ma io resto qui per vedere se anche questa volta come in passato, il denaro della solidarietà nazionale sarà spartito tra quattro avidi ricchi».
Si scavano fosse comuni sulla riva sinistra del Calopinace. Il cimitero non basta più. L'unico becchino comunale non fa avvicinare i soldati che portano i cadaveri a centinaia. A tutti dice: «Mettete giù, ragazzi, questo è affar mio». Quando scende nelle buche, lo si sente parlare coi morti: «Siete troppi. Non ci reggo». Dopo due giorni di lavoro, il becchino si è presentato al comando militare e ha dichiarato di aver sepolto millecinquecento persone. Poi ha aggiunto: «Pagatemi!».
(3- continua)


il Riformista 27.12.08
De Olivera. Un secolo sul set
di Rossana Miranda


Il regista più vecchio del mondo, Manoel de Oliveira, festeggia i suoi 100 anni lavorando. Il cineasta portoghese è sul set del suo nuovo film "Eccentricità di una bionda" nella città di Lisbona. I suoi primi film risalgono al cinema muto e, anche se è sconosciuto ai più, Oliveira è considerato al livello dei grandi Godard, Buñuel e Fellini. Il suo film "Viaggio alla fine del mondo" è stato l'ultimo lavoro dell'attore Marcello Mastroiani. Oliveira ha più di 8 decadi d'attività nel mondo del cinema e non pensa, neanche remotamente, al ritiro: «La coscienza mi sussurra costantemente: Hai poco tempo. Cammina!».


il Riformista 27.12.08
L'architettura secondo Derrida
di Francesco Longo


Azzardi. Raccolti in volume gli interventi del filosofo decostruzionista sull'arte del costruire. Che va liberata da ogni fine pratico e abitativo.

«Costruire case, uffici, mercati o teatri è importante, ma la specificità dell'architettura non consiste in questo». E in cosa consiste? Scheiwiller ha appena pubblicato Adesso l'architettura (374 pp., 24 euro), che raccoglie gli scritti di Jacques Derrida sull'argomento: uno spassoso e labirintico tour che segue il pensiero del filosofo decostruzionista. I contatti di Derrida con questa disciplina si devono a Bernard Tschumi (che introdusse il filosofo al lavoro dell'architetto Peter Eisenman) e che un giorno lo chiamò al telefono per chiedergli di partecipare al progetto per La Villette di Parigi.
In questi scritti, conferenze e interviste Derrida interviene in modo fulminante pur presentandosi come persona «completamente incompetente». Eppure dalla lettura di questo libro si traggono molti insegnamenti. Uno dei desideri che percorre tutto il libro è la volontà di Derrida di liberare l'architettura dai fini che le sono solitamente imposti. L'architettura, osserva il professore, è sempre subordinata a valori «urbanistici, politici estetici, funzionali». Ma cosa avremmo se si riuscisse a sottrarre l'architettura a queste colonizzazione? Cosa avremmo se sgombrassimo l'architettura da «qualsiasi fine estetico, funzionalistico, teologico, antropologico, politico, eccetera»? Avremmo semplicemente l'architettura.
Gli architetti con cui viene in contatto Derrida stavano seguendo un percorso simile a quello che egli proponeva per la filosofia: «Questi architetti stavano criticando tutto ciò che subordinava l'architettura a qualcos'altro - il valore, diciamo, dell'utilità o della bellezza o dell'abitare - non allo scopo di costruire qualcos'altro che sarebbe inutile o brutto o inabitabile, ma per liberare l'architettura da tutte quelle finalità esterne, da tutti quegli scopi che le sono estranei».
Leggere Derrida vuol dire confrontarsi con un pensiero radicale, che mette in discussione tutto ciò che si dà per scontato. Scrive il filosofo: «Può esserci più architettura in un libro che in un edificio firmato da un architetto, o più letteratura nelle mani di un architetto che nelle mani di uno scrittore». Immaginate la confusione nelle facoltà accademiche o nei reparti di una qualsiasi libreria divisa in settori.


Corriere della Sera Roma 27.12.08
Ada Montellanico presenta il cd «Sole di un attimo»


All'Alexanderplatz (tel. 06.39742171) stasera alle ore 22 la celebre vocalist romana Ada Montellanico propone la nuova realizzazione discografica «Il sole di un attimo» accompagnata da Francesco Diodati chitarra, Francesco Ponticelli contrabbasso, Walter Paoli batteria, Stefano Cocco Cantini sax.
Un lavoro che rappresenta una svolta nella carriera della cantante, in questo cd infatti raggiunge uno stile e un sound originali dove l'esposizione della melodia, dizione, timing, fraseggio e improvvisazione si fondono in un colore di voce unico, caldo ed ambrato. Nel nuovo album le storie raccontate sono quasi tutte di sua composizione: liriche struggenti, sinuose e penetranti, avvolte in ambiti musicali puramente afroamericani. A questo repertorio si aggiungeranno piccoli nuovi e interessanti tasselli musicali che confermano la cifra stilistica di Ada Montellanico, coraggiosa artista in continuo movimento, alla ricerca sempre di nuove importanti avventure.
Ada Montellanico
presenta stasera il nuovo album «Il sole di un attimo» accompagnata da un Quartetto jazz

Repubblica Roma 27.12.08
Ada Montellanico la melodia è swing
di Felice Liperi


Protagonista del canto jazz grazie ad uno stile che fonde melodia, swing e improvvisazione, Ada Montellanico torna questa sera all´Alexanderplatz per presentare Il sole di un attimo il suo ultimo album. Un lavoro dove la Montellanico si cimenta con sensibilità anche nel lavoro di composizione, dei nove brani del cd ben sette sono suoi (in qualche caso in compagnia di Enrico Pieranunzi e Gianpaolo Conti da tempo collaboratori della vocalist) e confermano la sua capacità di fondere il linguaggio jazzistico con la ricchezza melodica del nostro repertorio, in particolare Ti sognerò comunque, L´alba di un incontro e Suono di mare intensi passaggi di un percorso che fa immaginare nuove fortunate prospettive per la cantante romana. A questo repertorio si aggiungeranno probabilmente anche gli altri tasselli musicali che negli anni hanno costruito la cifra stilistica di Ada Montellanico: quelli più tipicamente jazzistici come The encounter e Suoni modulanti e gli altri dedicati alle canzoni di Billie Holiday e Luigi Tenco.
Al suo fianco dal vivo i musicisti del New Group: Francesco Diodati (chitarra), Francesco Ponticelli (contrabbasso), Walter Paoli (batteria) e Stefano Cocco Cantini (sax). Alle 24 per la rassegna «Lo Spirito di Mister Godot» Unplugged di Eleonora Giudizi, un progetto nato dall´incontro tra la cantautrice e il produttore Max Minoia. Si tratta di un viaggio immaginario tra musica e poesia che utilizza brani inediti e cover e vedrà la partecipazione di Frank Head (premio della critica Sanremo 2008) e Francesco Arpino.
Alexanderplatz Jazz Club, via Ostia 9, ore 22. Ingresso 10 euro con tessera mensile. Info tel. 06 39742171