lunedì 29 dicembre 2008

Repubblica 29.12.08
La polemica
Bonaccorsi: "Sansonetti è come Villari"


ROMA - «Il comportamento di Sansonetti mi sembra inqualificabile e le sue affermazioni su Repubblica, che spero smentirà, gravissime. Io antifemminista e omofobo? Ormai siamo alle bugie palesi e alla diffamazione». Lo afferma Luca Bonaccorsi, direttore editoriale del settimanale Left ed interessato a rilevare il quotidiano del Prc, diretto da Sansonetti. «Se Sansonetti pensasse ad altro oltre che alla sua poltrona saprebbe che nella carta d´intenti dell´associazione per la sinistra il matrimonio gay è stato inserito su mia proposta. È evidente che anche dentro il Prc c´è un caso Villari: quello di un signore, che mentre sta aggrappato alla poltrona mettendo a rischio i lavoratori del giornale da un lato diffonde bugie e disinformazione».

Repubblica 29.12.08
La commedia del popolo
di Albero Asor Rosa


In genere si pensa che la storia della letteratura sia un seguito di grandi uomini e di grandi opere, che ci si deve accontentare di ammirare dal di sotto e da lontano, quasi pargoli indigenti di ogni sapienza. Di certo è anche questo (e anche l´ammirazione da lontano va praticata): ma è anche una moltitudine di minuscoli dati intellettuali e materiali, la cui paziente osservazione porta sovente a scoperte magari semplicissime nella sostanza ma estremamente rivelatrici negli effetti.
Questa considerazione mi viene in mente dalla rilettura di una famosa «epistola» di Francesco Petrarca niente di meno che a Giovanni Boccaccio in merito alla produzione letteraria volgare di Dante Alighieri (bella e straordinaria questa adunanza di «spiriti magni», riuniti intorno ad un tavolo ideale, come soggetti e oggetti della conversazione, per discutere della natura e dei compiti della poesia, anzi, della Poesia).
In questo testo è in gioco l´apprezzamento, - positivo o negativo, o meno positivo, o un tantino negativo, - di un´opera come la Commedia, pietra fondativa, architrave, dell´intero «sistema letterario» italiano. E per quanto l´occasione possa apparire limitativa, - in fondo una lettera originariamente privata, sia pure tra due grandi personalità, una «famigliare» fra le tante (XXI, 15), - lì è contenuta l´essenza di una scelta di fondo, che percorre da un capo all´altro l´intera nostra storia letteraria (forse addirittura fino ai giorni nostri, di sicuro fino all´altro ieri), la contrapposizione, cioè, per dirla in termini molto attuali, quasi da tifo calcistico, tra i filo-danteschi e i filo-petrarchisti, tra i seguaci di una nozione della poesia ispirata all´opera e ai precetti teorici di Dante e i seguaci di una nozione della poesia ispirata all´opera e ai precetti teorici di Petrarca.
Naturalmente, date le premesse, si potrebbe ragionare all´infinito sulle motivazioni, molteplici e ricche, di ognuna delle due linee. Per l´occasione fermerò l´attenzione su di un solo punto, che però, a guardar bene, potrebbe costituire il presupposto di tutti gli altri.
Boccaccio, com´è noto, è un filiale sostenitore (ovviamente a modo suo) della linea dantesca. Però, ammiratore al tempo stesso di quel suo fratello maggiore che era Petrarca, si sforzava in tutti i modi di persuaderlo delle buone ragioni della sua ammirazione per Dante (della cui Commedia aveva inviato anni prima una preziosa copia a Petrarca stesso). Petrarca, contegnoso e, secondo me, anche un poco ipocrita, gli risponde (siamo in anni tardi, intorno al 1360) che lui apprezza e ama Dante ma non può fare a meno di constatare come il suo innegabile ingegno si sia come sporcato e rovinato a causa... A causa di cosa? A causa del fatto che Dante, nelle modalità della sua poesia, nella scelta delle sue tematiche e (soprattutto) nell´uso di una determinata lingua, ha pensato fosse giusto stabilire un rapporto, - un rapporto stretto e per lui molto fecondo, - fra il proprio ruolo di poeta e un pubblico vasto, nel quale avrebbe inevitabilmente assunto un ruolo, superiore a qualsiasi classica misura, l´elemento popolare.
Le parole di Petrarca sono di un´inequivocabile durezza. Egli respinge con sdegno l´insinuazione che potesse «invidiare» Dante per la fama da questi rapidamente acquisita. Come avrebbe potuto invidiarlo, - scrive il poeta classicheggiante e precocemente umanista, - se ad ammirare Dante, con «applauso e strepito sgraziato», si erano distinti in prima fila personaggi come «i tintori», «gli osti», «i lanaioli», ossia i rappresentanti tipici del popolino fiorentino, che fin dalla prima circolazione della Commedia ne avevano imparato i versi a memoria e li salmodiavano o cantavano (testimonianze coeve ce lo confermano) persino in bottega, nell´esercizio delle loro attività artigianali? Non aver scansato in tutti i modi, - come Petrarca dichiara di aver voluto fare accuratamente per sé e per la propria opera, - questa vera e propria contaminazione fra la propria poesia e quel pubblico indegno aveva provocato come altra intollerabile conseguenza negativa che il suo stile, - lo stile di Dante, volentieri piegato dal suo autore a tale contaminazione, - risultasse «insozzato e coperto di sputo dalle balbettanti lingue di costoro».
Comincia da qui, con la sorprendente chiarezza di cui solo un intelletto come quello di Francesco Petrarca poteva esser capace, il lungo percorso del padre Dante nella storia della letteratura italiana successiva. Mi rendo conto, naturalmente, di schematizzare oltre misura. E però non sarebbe difficile dimostrare che la fortuna di Dante, e in modo particolare della sua poesia (che per scelta sua fu, non dimentichiamolo, quasi tutta volgare), s´alza o s´abbassa, in taluni momenti fin quasi a scomparire, a seconda che i letterati italiani di questo o quel periodo si siano posti oppure no il problema di venire incontro alle aspettative, non solo dei membri della loro medesima corporazione, ma a quelle dei «tintori», degli «osti» e dei «lanaioli» dei loro tempi (con il che, com´è ovvio, intendo riferirmi a quelle situazioni sociali, professionali e intellettuali, che di volta in volta sfuggissero ai modelli precedenti del «sistema»).
A questo possibile diagramma storico della nostra letteratura, che vede la presenza maggiore o minore di Dante come il visibile segnale d´una condizione più aperta e rinnovatrice della ricerca, andrebbe accompagnata la parallela ricostruzione della fortuna di Dante direttamente presso le classi popolari italiane, fino ad un periodo a noi assai vicino. «Dire» Dante ha sempre significato a quel livello un´affermazione d´identità, che in quelle parole, in quei versi e in quella lingua «si riconosceva» (né può risultare una diminuzione per la Commedia dantesca il fatto che le si affiancassero nella memoria popolare opere come il Guerrin Meschino o la Gerusalemme liberata). È quello che, con la geniale inventività che lo contraddistingue, ha fatto e continua a fare Roberto Benigni, parente stretto di quei popolani toscani che al Petrarca davano tanto fastidio. Mi preme rilevare che tutto ciò è tutt´altro che casuale.
L´origine ne va cercata infatti nelle scelte stesse di Dante, anche quelle di maggior rilievo e sofisticazione intellettuale. E si può esser sicuri che Dante, se avesse potuto, non si sarebbe lamentato, come Petrarca, d´esser detto o cantato dalle «lingue balbettanti» degli incolti.

Repubblica 29.12.08
I critici di Fini ignorano la Storia
di Mario Pirani


Ho trovato abbastanza spudorate le polemiche contro Gianfranco Fini per la chiamata di correo, limpida e coraggiosa, da lui avanzata in occasione del 70° anniversario delle leggi razziali che, come ha ricordato il presidente della Camera, se bollarono di ignominia il regime fascista, non assolsero certamente il silenzio della stragrande maggioranza dell´opinione pubblica, né tanto meno della Chiesa cattolica. Torno sull´argomento perché una rassegna stampa conclusiva mi ha indotto a riflettere sugli automatismi di certe prese di posizione, spiegabili in base ai calcoli politici attuali ma non certo preoccupate dalla verifica della realtà storica.
Quanto al primo aspetto, è pur vero che molti italiani non nutrivano particolari antipatie per gli ebrei e individualmente lo manifestarono. Resta, però, l´assenza di ogni dissonanza collettiva, mentre fu evidente la caccia ai posti lasciati liberi dagli ebrei nelle università, nelle scuole, negli ospedali, nell´amministrazione pubblica, nell´esercito, nelle accademie, nei giornali, negli istituti di cultura, nelle assicurazioni, nelle banche, negli studi professionali, nelle case editrici a cui nessuno dei prescelti si sottrasse.
Quanto all´atteggiamento della Chiesa torno a premettere che il comportamento di tanti presuli e di semplici sacerdoti, dal 1938 fino al ´43-´45, fornì la prova che cominciava a prevalere lo spirito di solidarietà sull´intolleranza dei secolari anatemi contro i «perfidi giudei». Di questa svolta conservo qualche personale memoria. Ciò non cancella il valore della dichiarazione, ricordata da Luigi Accattoli sul Corriere, che il segretario della Cei per l´ecumenismo, l´arcivescovo Giuseppe Chiaretti, rivolse dieci anni orsono alla Comunità ebraica, rievocando «la pagina oscura della storia religiosa durante la quale la comunità ecclesiale, anche per lunga acritica coltivazione di «interpretazioni erronee e ingiuste della Scrittura» (Giovanni Paolo II), non seppe esprimere energie capaci di denunciare e contrastare con la necessaria forza e tempestività l´iniquità che vi colpiva». Per parte mia voglio citare in proposito un testo di accertata obiettività dello storico cattolico, Renato Moro, su "La Chiesa e lo sterminio degli ebrei" (Il Mulino 2002) in cui ricostruisce, tra l´altro, i contrasti che divisero la Curia al momento delle leggi razziali, tanto che un´allocuzione di Pio XI a un gruppo di pellegrini belgi in cui papa Ratti affermava verbalmente: «L´antisemitismo è inammissibile. Noi siamo spiritualmente dei semiti», non venne pubblicata dall´Osservatore Romano, mentre, al contempo, la diplomazia vaticana, diretta dal cardinal Pacelli, siglava un accordo col regime in base al quale, preso atto che nei confronti degli ebrei il governo italiano intendeva applicare «onesti criteri discriminatori», si manifestava la opportunità che la stampa cattolica, i predicatori, i conferenzieri e via dicendo si astenessero «dal trattare in pubblico questo argomento». Il papa, tuttavia, non parve fermarsi e il professor Moro analizza la complessa vicenda della preparazione dell´enciclica Humani Generis Unitas rivolta alla condanna del nazismo e dell´antisemitismo razziale. Il testo venne completato, tradotto in latino e consegnato, perché lo sottoponesse al pontefice, al generale dei Gesuiti, padre Lédochowski, ma questi assunse una linea dilatoria, convinto che il pericolo vero per il cattolicesimo fosse il comunismo e non Hitler e che occorresse evitare l´acuirsi di eventuali dissidi tra la Chiesa e le potenze dell´Asse.
Il Papa fece allora inviare dal sostituto della Segreteria di Stato, monsignor Tardini, una dura nota al generale dei Gesuiti e questi dovette cedere. L´Enciclica giunse in Vaticano il 21 gennaio e il papa prese ad esaminarla nei giorni successivi. Troppo tardi. Il documento fu trovato sul suo tavolo al momento della morte, nella notte tra il 9 e il 10 febbraio del 1939. A Pio XI successe il cardinale Pacelli, accolto da molte speranze che andarono presto deluse. Pio XII, infatti, reputò dannoso, alla vigilia di un conflitto ormai certo, il "rigore" dell´enciclica del suo predecessore e la fece archiviare. Inviò, invece, una lettera a Hitler in cui gli esprimeva la speranza in rapporti migliori fra le due parti. Uno dei primi atti del pontificato fu poi la riconciliazione con l´Action Francaise, movimento cattolico dell´estrema destra antiebraica francese, condannato da papa Ratti. Una erronea e catastrofica visione diplomatica prevalse in quell´epoca sull´afflato ecumenico che il mondo attendeva. Come dar torto a Fini?

Repubblica 29.12.08
Analisi sui manoscritti dell´evoluzionismo Un software rivelerà la paternità della teoria
Darwin "copione" ultimo round contro Wallace
In Gran Bretagna tutto pronto per il bicentenario della nascita del celebre naturalista
di Cinzia Sasso


LONDRA. Sarà mai che quella parola che tutti comunemente usiamo per intendere l´evoluzione della specie - il darwinismo - sia frutto di un imbroglio e che il vero scopritore della teoria che ha rivoluzionato la scienza non sia il grande Charles Robert Darwin ma un suo meno conosciuto collega di nome Alfred Russel Wallace? Dopo l´americano Wall Street Journal è il Sunday Times a dare conto di una diatriba che mette gli uni contro gli altri i sostenitori dei due più grandi naturalisti dell´Ottocento e a raccontare di come, partendo da un´associazione che ha sede in Indonesia, la polemica stia salendo di tono proprio mentre la Gran Bretagna si prepara a celebrare nel 2009 il bicentenario della nascita del suo eroe, Darwin, lo scienziato che è appena stato definito "una delle figure di maggiore spicco della storia nazionale" e al quale il Museo di storia naturale di Londra dedicherà la più grande esposizione sul tema di tutti i tempi.
La polemica, stavolta, non è sui contenuti. Non si mette in dubbio la teoria dell´evoluzione che traumatizzò la tranquilla Inghilterra vittoriana. Ciò che è in discussione, piuttosto, è la paternità di quella sconvolgente scoperta. E per chiarire chi sia colui che per primo ha individuato nella selezione naturale e nelle mutazioni genetiche la ragione del progresso delle specie è stato commissionato un esame dei libri e delle lettere scritte da Darwin mentre si apprestava a pubblicare, nel 1859, «L´origine della specie». Perché il sospetto dei sostenitori dell´oscuro Wallace è che Darwin sia stato un copione. A dare il responso definitivo saranno degli specialisti informatici, con l´impiego di un software che viene usato anche nelle università per scoprire se i lavori degli studenti siano farina del loro sacco. Sono originali di Darwin, o sono tratti dagli studi dell´autodidatta Wallace, i concetti di quello che è passato alla storia come darwinismo? I promotori dell´iniziativa promettono di sottoporre, a luglio, ad Amsterdam, i risultati della ricerca ai massimi esperti del ramo, riuniti nell´Association of Forensic Linguists.
Darwin e Wallace, di 14 anni più giovane, hanno svolto nello stesso periodo studi paralleli. Si sa che tra loro erano in contatto e che Darwin venne a conoscenza della scoperta della rana volante proprio attraverso una lettera di Wallace. Tutti e due presentarono alla Linnean Society di Londra le conclusioni dei rispettivi studi: riassunte in due paginette da Darwin e in un corposo saggio da Wallace. Poi, dice l´accusa, Darwin si diede da fare come un matto per riuscire a pubblicare per primo "L´origine della specie". La controversia non è nuova: un libro racconta già delle origini del "crimine scientifico" che avrebbe sottratto a Wallace la paternità della scoperta ma oggi, in vista del bicentenario e dei grandi onori che saranno tributati a Darwin, si registra questo nuovo bollente capitolo. Con David Hallmark, un avvocato che rappresenta la Wallace Foundation of Indonesia, che tuona: «Il silenzio caduto su Wallace è frutto dell´imbroglio di Darwin». E con James Moore, professore all´Open University, che ribatte: «Quest´accusa di plagio è inconsistente ed è costruita solo per fare rumore».

Repubblica 29.12.08
Sorprendenti le vendite fra natale e capodanno
Il libro ci salverà? Ecco le feste piene di libri
E arrivano nuove librerie
di Simonetta Fiori


Tutti gli editori sono concordi: quello del settore librario è un caso di controtendenza rispetto alla crisi che ha penalizzato altri consumi con vistose diminuzioni
"Siamo protetti dalla nostra arretratezza. In Italia pochi leggono, ma quei pochi leggono molto" dice Ferrari della Mondadori
Carlo Feltrinelli annuncia l´apertura di un grande spazio alla Stazione di Milano Ma per l´anno che viene le previsioni sono prudenti

Il libro ci salverà? Nel clima funerario che avvolge l´economia, con i consumi in caduta verticale rispetto al Natale precedente, segnali rassicuranti arrivano dalle librerie, piene zeppe sotto le feste a dispetto delle più cupe previsioni. Al tempo della crisi, quello strano oggetto con cui metà degli italiani non ha per niente confidenza, e l´altra metà scarsa dimistichezza, viene inaspettatamente promosso a ultimo bene rifugio: non solo come regalo identitario, da donare con modica spesa; ma anche come unico approdo possibile, al quale aggrapparsi spaesati per poi ricominciare. In assenza di cifre definite - ancora troppo presto per tracciare bilanci certi - intervengono le testimonianze degli editori, omogenee nel rilevare la tenuta dell´editoria libraria all´urto della crisi. E a riscuotere maggiori consensi non sono titoli frivoli o d´intrattenimento, ma saggi pensosi o di contenuto spirituale, dalle analisi del Nobel Krugman alle meditazioni in forma di ricordo di padre Enzo Bianchi, dai grandi affreschi sociologici di Zygmunt Bauman alle riflessioni su vita e morte del cardinal Martini. Che la crisi ci costringa a rivedere le nostre abitudini?
Da Mondadori a Laterza, dal gruppo Mauri-Spagnol a Feltrinelli, i nostri publisher concordano nel restituire un ottimo andamento del mercato librario italiano. A differenza di quel che accade altrove. «Il 2008 è andato bene, meglio delle previsioni», dice Gian Arturo Ferrari, direttore generale della Mondadori, il primo gruppo italiano. «La crisi da noi non si è manifestata con la virulenza che ha avuto in altri paesi. Negli Stati Uniti ad ottobre il mercato è crollato di circa il 15 per cento e poi non si è più ripreso. In Spagna è crollato sempre con percentuali a due cifre a partire da settembre. Da noi c´è stata una flessione ma molto più contenuta nella seconda metà di settembre e poi, ancora inferiore, nel mese di ottobre. Ma dopo il mercato si è ripreso». Anche a Segrate i conti registrano un incremento: «Nel 2008 le nostre case editrici trade - fatta esclusione dunque per la scolastica, le vendite congiunte, il canale edicola e le attività non editoriali di Electa - raggiungeranno un fatturato di copertina netto rese di circa 482 milioni di euro. Circa l´1,5 % in più rispetto al 2007». Un quadro dai contorni ancora più rosei proviene da Stefano Mauri, alla guida della costellazione ereditata dal padre Luciano e da lui ancora accresciuta (un fatturato dichiarato più 7% rispetto al 2007). «Stando ai dati censiti settimanalmente da Nielsen, le vendite in libreria non si sono fermate neppure nelle settimane più nere della Borsa. E dai primi risultati il Natale appare un trionfo».
Segnali d´un mercato dinamico arrivano da Carlo Feltrinelli, che registra un incremento di fatturati sia nelle librerie (più 7 %) che in casa editrice (tra il 5 e il 6 %). E a partire dal 2009 annuncia grandi progetti affidati, pur in un quadro poco sereno, a una permanente fiducia nella lettura. «Apriremo una libreria di 2.700 quadri nella stazione centrale di Milano: spazi analoghi sono programmati nelle stazioni di Napoli e Torino. E in giugno sarà inaugurato a Genova un nuovo modello di libreria integrata, il megastore finora più avanzato: libri, dischi, dvd, caffetteria e molte altre cose. Per noi sarà un anno carico di impegni, nonostante le brutte avvisaglie che arrivano dagli Stati Uniti. Ma io continuo a credere nel libro e nelle sue possibilità».
Le ragioni di questa tenuta possono essere differenti. Di natura merceologica, ma anche di carattere culturale. «Il libro ha il vantaggio di essere ad altissima identità», interviene Giuseppe Laterza, editore di saggistica di qualità "premiata" dalla crisi (il 2008 si chiuderà in linea con l´anno precedente, tra i più brillanti per la casa editrice nell´ultimo ventennio). Nello scaffale degli autori più richiesti figurano il sociologo Bauman, profeta della società liquida, e uno storico come Christopher Duggan, artefice di un monumentale saggio sulla nostra identità nazionale irrisolta. «A differenza di altri oggetti», spiega Laterza, «il libro identifica chi lo regala e chi lo riceve, per giunta a un prezzo molto contenuto». La libreria Laterza, a Bari, ha registrato sotto le feste un 10% in più di venduto. «Nel paniere di una società del benessere», interviene Stefano Mauri, «ci sono beni ben più voluttuari di un libro, che a conti fatti ha un costo orario assai basso in cambio di un intrattenimento molto gratificante. Un costo cresciuto meno dell´inflazione negli ultimi anni».
Ma alla spiegazione mercantile s´aggiunge un´analisi più profonda. «Quando accadono grandi eventi che colpiscono l´opinione pubblica», dice Laterza, «i libri sono strumenti essenziali per capire cosa succede. Dopo l´11 settembre aumentarono le vendite del Corano: i lettori vi cercavano le spiegazioni più complesse. Lo stesso accade ora con la crisi economica. Le persone vogliono capire in che cosa abbiamo sbagliato e come cambiare». L´enorme frastuono di un´informazione televisiva sciatta, superficiale e spesso strumentale ti spinge a cercar riparo in altri luoghi. «Si cercano analisi meno mistificatorie e superficiali di quelle propagandate dai talk show», dice Oliviero Ponte di Pino, direttore editoriale di Garzanti e autore del recente I mestieri del libro. È venuto il momento di prendersi una pausa di riflessione. «La gente ha bisogno di pensare, ritrovando una dimensione spirituale», dice Ernesto Franco, direttore editoriale di Einaudi. «Non è casuale il favore racccolto dai libri di padre Bianchi o del chirurgo Atul Gawande, che invitano a prendersi cura dei valori più profondi». Siamo dinanzi a un mutamento culturale?
Il timoniere di Segrate, Gian Arturo Ferrari, suggerisce cautela. «Non esistono generi favoriti o sfavoriti dalla crisi», anche se i lettori tendono a premiare «libri che colgono meglio di altri il senso della crisi», da qui «il successo del volume di Tremonti e la buonissima accoglienza riservata al saggio di Carlo De Benedetti e Federico Rampini». A livello più generale, secondo Ferrari, il fenomeno in assoluto più rilevante è quello dei megaseller, libri che superano il mezzo milione di copie e molto spesso il milione. «E´ un fenomeno ancora tutto da studiare, ma di fatto determina il risultato delle case editrici». Il riferimento è al milione di copie venduto da Paolo Giordano e ai due milioni raggiunti da Roberto Saviano: ma, a guardar bene, specie Gomorra rientra a pieno titolo nel genere di libri che fanno pensare. Megaseller e impegno non sono dunque incompatibili.
Il libro resiste alla crisi anche perché quello italiano rimane un mercato ancora esiguo. «Siamo protetti dalla nostra arretratezza», sintetizza Ferrari. «Non abbiamo mass market, a leggere libri regolarmente siamo cinque milioni, un decimo della popolazione adulta. Ma siamo cinque milioni di persone con un livello di istruzione elevato e di elevato livello socioeconomico. Non rinunciamo ai libri». Siamo un paese di non leggenti, ma con un´invidiabile nicchia di lettori forti, tra le più alte in Europa. «Pur contenuto», suggerisce Laterza, «il nostro s´è rivelato un settore solido, che in questi anni ha resistito alla concorrenza del web e dei quotidiani con i libri allegati». Un mercato stabile, osserva Giovanni Peresson dell´Aie, «che pur registrando modesti incrementi nei fatturati, negli ultimi anni ha dato vita a uno straordinario indotto di film, dvd, programmi satellitari». Piccolo, ma prolifico.
Il "piccolo" appare la misura favorita dalla crisi, che sembra penalizzare le vendite nei supermercati, «meno frequentati quando il piatto piange», dice Mauri, dall´osservatorio delle Messaggerie. Gli scaffali tradizionali tornano a essere luoghi di festa per il libro, come conferma una libreria storica di Bologna, la Giannino Stoppani, specializzata nell´editoria per ragazzi. «I lettori arrivano profondamente motivati, non solo spinti dalla necessità di risparmiare», dice Silvana Sola. «Sotto Natale abbiamo respirato un´atmosfera di attenzione e calore che ci conforta nella nostra scelta ormai venticinquennale».
Previsioni per l´anno che viene? Qui i toni si fanno più prudenti. Unico dato certo, le prenotazioni dei nuovi titoli sono sensibilmente calate. «I librai hanno tagliato del 10% sulle loro normali abitudini, che sono sempre caute al principio dell´anno», spiega Mauri. «Ma per sapere come andrà a finire, bisognerebbe avere la sfera di cristallo». Secondo Ferrari, è probabile un calo di qualche punto in percentuale, «più per la possibile mancanza di megaseller, che per la crisi». In generale si attende guardinghi. Nella speranza che a salvarsi nel maremoto dell´economia sia proprio il "consumo meno consumistico". Uno dei pochi, da cui ricominciare.

Repubblica 29.12.08
Madrid. Tra dei e uomini
Museo Nacional del Prado. Fino al 12 aprile.


In contemporanea con la bella mostra dedicata a "Rembrandt pittore di storie" (aperta fino al 6 gennaio), da vedere una strepitosa raccolta di scultura antica, quella degli Staatliche Kunstsammlungen di Dresda. In occasione della temporanea chiusura dell'Albertinum, l'edificio rinascimentale distrutto nel 1945 e ricostruito per ospitare le collezioni d'arte, quarantasei capolavori di scultura sono esposti in questi giorni a Madrid, insieme a venti opere importanti, provenienti dalla collezione del Prado. Entrambe le raccolte, frutto del collezionismo barocco e neoclassico, integrano versioni romane di opere greche del periodo classico ed ellenistico, originali greci con policromia antica e un nucleo eccezionale di ritratti. Tra le opere esposte, l'Efebo e Zeus di Dresda, repliche romane dell' Atena Lemnia di Fidia e del Satiro versante di Prassitele, o la Menade di Dresda. Tra i pezzi esposti, da segnalare la presenza di tre rilievi sepolcrali attici, tre terrecotte policrome di Tanagra, una serie di sculture ellenistiche di Alessandria e di altri centri, alcuni ritratti romani di grande qualit?.

Repubblica 29.12.08
Parigi. Mantegna
Musée du Louvre. Fino al 5 gennaio.


I musei francesi vantano un considerevole insieme di capolavori del maestro, di gran lunga il pi? importante conservato fuori d'Italia. Basti pensare alla Preghiera nell'orto degli ulivi , alla Vergine della Vittoria del Louvre, all' Ecce Homo del Mus?e Jacquemart Andr? di Parigi. Non stupisce quindi che il museo parigino dedichi un'importante retrospettiva a questo protagonista della pittura del Rinascimento italiano. La mostra, curata da Dominique Thi?baut e Giovanni Agosti, ripercorre le tappe principali della carriera dell'artista nel contesto in cui si ? sviluppata durante la seconda met? del XV secolo, tra Padova, Verona e Mantova, dando conto al contempo dell'influenza esercitata dalla sua pittura sull'opera dei contemporanei e della sua diffusione precoce in tutta Europa. Il percorso espositivo distribuisce centonovanta lavori in sezioni dedicate a Padova, come centro d'arte, a Mantegna e Giovanni Bellini, al Trittico di San Zeno di Verona, al periodo mantovano, al San Sebastiano di Aigueperse , allo Studiolo di Isabella d'Este , ai Trionfi di Cesare e alla ?maniera moderna?, offrendo una lettura aggiornata dell'opera del maestro, improntata all'austerit? e all'erudizione antiquaria.

Corriere della Sera 29.12.08
L’attentato a Togliatti, Stalin rimprovera il Pci
risponde Sergio Romano


Plutarco scrisse che «spesso un breve fatto, una frase, uno scherzo rivelano il carattere di un individuo più di quanto non facciano battaglie ove caddero diecimila morti». Partendo da tale considerazione, con riferimento all'attentato del 14 luglio del 1948 ai danni di Palmiro Togliatti, le domando: corrisponde al vero la versione, accreditata dallo stesso Pci, secondo cui proprio il Migliore, prima di entrare in sala operatoria, raccomandò ai suoi fedelissimi o forse alla sola Nilde Iotti di non cavalcare le insurrezioni che sarebbero certamente scoppiate, ma anzi di fare il possibile per frenarle? Era dunque veramente sfumata, almeno ai vertici del partito, la speranza della famosa «seconda ondata» rivoluzionaria che avrebbe dovuto abbattere lo Stato capitalista e borghese, sicuramente ancora molto diffusa nella base? Le faccio altresì notare che nel riportare le drammatiche conseguenze dell'evento, molti autori ricordano come la vittoria di Bartali (spronato telefonicamente da De Gasperi) al Giro di Francia abbia notevolmente contribuito a stemperare la tensione e a riportare l'ordine nel Paese. Davvero fu sufficiente — a me pare improbabile — una grande impresa sportiva per frenare la rabbia e le rivolte nelle città?
Andrea Turturro
andreaturturro@ gmail.com

Caro Turturro,
la frase che Togliatti avrebbe mormorato ai comunisti della sua scorta, subito dopo l'attentato, sarebbe «Siate calmi, non perdete la testa!». Molti, tuttavia, non gli dettero retta. Secondo Aldo Agosti, autore di una biografia di Togliatti pubblicata da Utet nel 2003, «la notizia del suo ferimento suscita nel Paese un'ondata di emozione enorme e una mobilitazione di massa spontanea impressionante per le sue dimensioni e la sua forza ». Credo che Agosti abbia ragione quando scrive che gli ordini non vennero dall'alto e che la reazione fu probabilmente dovuta a una sorta di automatica applicazione di «quei meccanismi di difesa che il partito aveva predisposto per l'ipotesi di una "provocazione" e di un colpo di Stato».
La direzione del partito non voleva l'insurrezione, ma discusse a lungo, sin dalla sua prima riunione, sulla strategia da adottare. Occorreva spegnere subito gli ardori della base o lasciare che desse una dimostrazione di forza? Secondo Agosti, Longo avrebbe detto a un suo collaboratore: «Se l'onda cresce, lasciala montare, se cala, soffocala del tutto». Non credo che la vittoria di Bartali nel Giro di Francia abbia avuto su quegli eventi l'influenza che le è stata attribuita. Ricordo bene le giornate dell'attentato perché tornai in Italia da Parigi dopo il trionfo del ciclista toscano e assistetti alla nascita della leggenda. Ma credo che le dimostrazioni e gli scioperi si siano spenti per due ragioni. In primo luogo, il partito sapeva che non vi erano, dopo la cocente sconfitta del 18 aprile, le condizioni per la conquista del potere. In secondo luogo, il governo e in particolare Mario Scelba, ministro degli Interni, dettero prova di grande fermezza. Mentre il Paese scioperava, il partito comunista era occupato a decifrare il significato di un telegramma in cui Stalin, tra l'altro, si diceva «contristato dal fatto che gli amici del compagno Togliatti non siano riusciti a difenderlo». Era certamente un rimprovero, ma non era facile intenderne il senso. Forse Stalin lamentava che il partito non avesse un'organizzazione sufficientemente «militare». Forse diceva indirettamente: cercate di evitare situazioni che potrebbero sfuggirvi di mano, divenire crisi internazionali e ricadere sulle spalle dell'Unione Sovietica.
La partita, alla fine, fu vinta da Scelba. Quando la polizia e i prefetti restaurarono l'ordine, il ministro dell'Interno del governo De Gasperi lanciò quella che Giorgio Bocca, nella sua biografia di Togliatti pubblicata da Laterza, ha definito, forse con troppa enfasi, «la grande repressione ». Furono aperte inchieste, denunciati gli agitatori, e rinviate a giudizio circa settemila persone. A giudicare dalla particolare solerzia con cui vennero prese di mira le Camere del lavoro, Scelba voleva «colpire (...) i quadri intermedi del partito e del sindacato». Erano per l'appunto le forze che si erano spontaneamente mobilitate ed erano sfuggite al controllo del vertice del Pci.

Corriere della Sera 29.12.08
Bruno De Finetti. Il padre del relativismo
di Giulio Giorello


Il suo pensiero, a partire dagli anni Trenta, demolisce la vecchia idea della ricerca «intesa come scopritrice di verità assolute» e la rende «carne della nostra carne, frutto del nostro tormento»
Matematico scomodo, rifiutò di fare della scienza un idolo Irredentista, fascista della prima ora, simpatizzò con il '68

Gli studenti contestano i professori? La maggioranza dei «baroni» trova che sia uno scandalo. «Io credo, invece, che si debba chiedere il privilegio di essere i principali imputati: solo accettando e sollecitando la critica... potremo liberare le molte e valide energie latenti che si trovano tra noi, accendere la volontà di rinnovamento, combattere con fiducia e con fermezza la battaglia contro i mali che altrimenti continueranno a sopraffarci e cui saremo costretti ad assuefarci, non foss'altro che per non morire di rabbia». Così il matematico Bruno de Finetti (1906-1985) parlava della «rivolta degli studenti» nel formidabile Sessantotto: «Se i giovani non rifiutano a 18 o 20 anni quello che è da rifiutare nella società, non ne saranno capaci mai più».
Fa bene leggere parole come queste in momenti in cui alcune tendenze «revisioniste» liquidano come infantile o dogmatica la «ribellione» di quarant'anni fa — dimenticando cos'era l'Italia di allora e come quella «rivolta» abbia contribuito a cambiarla: dalla condizione femminile a una concezione laica della famiglia, dal diritto allo studio allo svecchiamento delle strutture burocratiche (altro che ridurre il Sessantotto alle squallide esibizioni muscolari dei servizi d'ordine di qualche gruppetto neostalinista). Era l'epoca di slogan come «l'immaginazione al potere». Bruno de Finetti non avrebbe mai pensato al potere politico, bensì a quello dell'intelligenza scientifica e artistica: l'immaginazione è «l'energia mentale che permette l'emergere della novità». Un'energia che a torto una scuola fossilizzata reprime «facendo passare per sempre la voglia ai giovani di occuparsi di tutte le cose che vengono loro insegnate». Bastano riflessioni del genere a farci capire perché de Finetti fosse davvero «un matematico scomodo» — così recita il titolo del volume costruito dalla figlia Fulvia de Finetti e dal giornalista Luca Nicotra come una sorta di «intervista postuma »; che sfrutta non solo pubblicazioni scientifiche ma anche interventi estemporanei, articoli su quotidiani e riviste, lettere a colleghi e familiari ( Bruno de Finetti. Un matematico scomodo, Belforte, pp. 293, € 22).
Nato a Innsbruck da famiglia italiana, «piccolo simpatizzante dell'irredentismo» affascinato dal «patriota» Cesare Battisti, poi fascista della prima ora («movimentista», per usare la terminologia dello storico Renzo De Felice), inizialmente studioso di genetica delle popolazioni, passato quindi alle basi concettuali del calcolo delle probabilità, grande maestro della statistica italiana prima ancora che cattedratico universitario, decisamente avverso a sfruttare la sua affiliazione politica per fare carriera — e, nel secondo dopoguerra, sempre più incline ad appoggiare battaglie libertarie (come quelle condotte dal Partito radicale) — Bruno de Finetti riassume non poche contraddizioni del secolo scorso, ma anche le speranze per quello in cui noi stiamo vivendo. I suoi tentativi di liberare il calcolo delle probabilità da qualsiasi incrostazione metafisica, di rendere l'insegnamento della matematica più vicino alle esigenze dei fisici, degli economisti o degli ingegneri, la sua fiducia nella «economia di pensiero» consentita dai nuovi mezzi dell'informatica non sono soltanto elementi interni a una riflessione che lo aveva condotto dalla matematica alla filosofia, ma scelte di vita in cui continuamente lo studioso si metteva alla prova senza timore di quella «critica» che costituisce il lievito della crescita scientifica come della fioritura di una società libera.
Senza bisogno di entrare in particolari tecnici, basterà ricordare come l'impostazione soggettivistica di de Finetti nel campo della probabilità (semplicemente «il grado di fiducia che ognuno sente nel verificarsi di un dato evento») non solo non distrugge il carattere intersoggettivo dell'impresa tecnico-scientifica, ma anzi lo esalta. Come scriveva nel suo capolavoro del 1931 (dal titolo Probabilismo), con il soggettivismo viene meno solo una concezione della scienza «intesa come scopritrice di verità assolute» (che rimane «disoccupata» per mancanza di tali verità!), «ma mentre cade infranto il freddo idolo marmoreo di una scienza perfetta, eterna e universale», compare «al nostro fianco una creatura viva, la scienza che il nostro pensiero liberamente crea: carne della nostra carne, frutto del nostro tormento, compagna nella lotta e guida alla conquista».
Lo stesso spirito si ritrova nella splendida lezione filosofica che nel 1934 Bruno aveva dedicato all'Invenzione della verità — testo che ha visto la luce solo due anni fa grazie alla cura di Fulvia (Raffaello Cortina, pp. 204, € 19). La logica «viva e psicologica » invocata da Bruno non nega la verità scientifica; piuttosto, rifiuta di farne un idolo. Lo stesso dovrebbe dirsi delle strutture istituzionali, a cominciare dallo Stato: mezzi cui si ricorre per soddisfare ai nostri bisogni e desideri, non fini a cui sacrificare l'autonomia degli individui o l'indipendenza dei popoli. Solo così i nostri concetti fondamentali — dalla matematica alla morale — non si riducono alle marionette di una commedia dove ogni ruolo è definito una volta per tutte, ma restano «i sei personaggi in cerca d'autore» di Pirandello, capaci di stimolare il cambiamento in campo scientifico e tecnologico. Relativismo? Fin dai lavori degli anni Trenta, Bruno de Finetti non aveva paura di pronunciare quella parola che oggi sembra tanto godere di cattiva stampa! Mi sia lecita una nota personale: in un appassionato intervento sul Corriere del 12 dicembre, Claudio Magris — alludendo anche al mio dialogo con Dario Antiseri sulla Libertà (Bompiani, pp. 180, € 17) — ha ripreso la fiera immagine dei calvinisti scozzesi che pregano Dio restando in piedi e non strisciando in ginocchio. Quel loro Dio non era un sapere assoluto, ma l'impossibilità di un sapere di tal genere! In un bel libro ( Molte nature. Saggio sull'evoluzione culturale, Raffaello Cortina, pp. 172, € 18) scrive il fisico Enrico Bellone: «Solo gli dei promulgano verità non negoziabili. Gli umani, invece, fabbricano teorie per meglio adattarsi al loro ambiente »; e nelle comunità ove si tende ostinatamente a proteggere dalla critica principi o valori «non negoziabili» si finisce col portare in tribunale l'innovazione, come vari episodi mostrano: dalla condanna di Galileo all'attuale messa sotto accusa delle biotecnologie. Sono d'accordo con de Finetti: teniamocelo stretto, il relativismo — è uno dei modi di resistere a tutto quello che non ci piace del nostro Paese e «non morire di rabbia»!

domenica 28 dicembre 2008

il Riformista 28.12.08
Bonaccorsi su Liberazione fornisce la doppia versione
Putsch. Il nuovo editore sul Corriere "licenzia" Sansonetti. Ma su Repubblica denuncia: «Troppi nemici, l'operazione non andrà in porto».
di Alessandro Da Rold


Spira un freddo gelido su Liberazione. A due giorni dall'atteso «putsch» - come lo definiscono alcuni all'interno del quotidiano comunista - sul consiglio di amministrazione, destano più di qualche dubbio le due interviste rilasciate dal probabile prossimo editore Luca Bonaccorsi a Repubblica e Corriere della Sera. Due articoli in parte contradditori - sul giornale di De Benedetti l'editore mostra un certo scetticismo sull'operazione («Temo non andrà in porto»), su quello di via Solferino anticipa alcune mosse - che confermano però due dati inequivocabili: l'attuale direttore Piero Sansonetti con tutta probabilità sarà rimosso, l'affare con l'editore bertinottiano di Left sarebbe a buon punto. Sono ancora supposizioni certo, ma sembra essere questa la sensazione più accreditata tra gli addetti ai lavori. A sciogliere ulteriori dubbi saranno appunto i prossimi giorni, quando l'attuale cda sarà cambiato dalla direzione del partito e inizierà la rivoluzione firmata Paolo Ferrero. Bonaccorsi ha le idee chiare a riguardo. Sansonetti? «Il suo tempo mi sembra esaurito. Il partito è cambiato, il giornale va cambiato». Il direttore ribatte che fino a quando vedrà nero su bianco la lettera di licenziamento lui non se ne andrà. E poi al Riformista aggiunge: «Da quando è stato nominato segretario, Ferrero non mi ha convocato neppure una volta per parlarmi della situazione». La linea finora tenuta da Rifondazione, come anche dallo stesso Bonaccorsi, su Sansonetti è una: il quotidiano ha preso una piega troppo mediatica, tra Luxuria e micro falli, dimenticando la vera inclinazione editoriale che dovrebbe avere un quotidiano comunista. Quindi, come spiega appunto Bonaccorsi, la nuova Liberazione sarà «il primo giornale italiano di inchiesta sociale e sul lavoro. Notizie, fatti, denunce che non trovi sugli altri giornali, sul lavoro, sul welfare, la pace, la politica. Dovrà stare nelle fabbriche, nelle scuole, negli ospedali».
In realtà, alla base del dissidio tra Ferrero e Sansonetti ci sarebbero questioni politiche di organizzazione dei piccoli partiti della sinistra radicale, «questioni su ci divergevo pure con Giordano - spiega il direttore - ma almeno con lui riuscivo a parlare». Intanto la proposta rilanciata ieri sul quotidiano non ha sortito alcun effetto. «Non mi ha telefonato nessuno», commenta Sansonetti. Ferrero è in Palestina e «ha sicuramente questioni più importanti a cui badare». L'idea dell'ex giornalista dell'Unità è questa: creare un comitato di garanti che assuma il ruolo vero e proprio di editore. E i nomi di quelli che secondo lui potrebbero essere le «personalità indiscusse della sinistra» alle quali chiedere di assumersi questa responsabilità sono questi: Paolo Ferrero e Fausto Bertinotti innanzitutto, e accanto a loro Lea Melandri, Mario Tronti, Luisa Boccia, Moni Ovadia, Susanna Camusso, Stefano Rodota'. Un giornale «non è di nessuno», sostiene nell'editoriale Sansonetti. Nel senso - spiega precisando di seguire un ragionamento "ideale" - che «nessuno può pretendere il dominio, né la sua redazione, né tantomeno il direttore ma nemmeno il proprietario», e aggiunge: «Io guardo esattamente da questo punto di vista la vicenda di Liberazione. Penso che non appartenga a nessuno, sia una specie di bene comune della sinistra».

Repubblica 27.12.08
Il personaggio
Liberazione, il rilancio di Sansonetti "Diamo il quotidiano ai suoi giornalisti"


ROMA - Liberazione ai 35 giornalisti di Liberazione: perché no? È l´ultima idea del direttore Piero Sansonetti, da mesi in lotta con l´attuale maggioranza di Prc guidata da Paolo Ferrero. «Sto lavorando a un´associazione di chi lavora qui. Possiamo prenderlo noi, il giornale. Vediamo come, con quali aiuti. Questa associazione può gestire la testata insieme con un comitato di garanti composto da figure illustri della sinistra italiana». Così si può andare avanti secondo Sansonetti: liberi, autonomi e soprattutto davvero di sinistra. Fra i garanti Sansonetti propone Ferrero, Bertinotti, Lea Melandri, Tronti, Luisa Boccia, Ovadia, Camusso e Rodotà. «Ma se ne possono aggiungere altri. Burgio e D´Orsi per esempio, che sono vicini alla maggioranza». L´associazione è una proposta competitiva con quella dell´editore Luca Bonaccorsi, già creatore di Left, possibile acquirente scelto da Ferrero e molto critico con Sansonetti. «Bonaccorsi accusa il Manifesto di voler cancellare Liberazione, ma può essere lui il vero affondatore. Ho molti dubbi sul fatto che voglia mettere due-tre milioni di euro nell´operazione sul giornale, penso abbia in testa ben altro. Nel settimanale Left, che non ha alcun peso, non ha messo molto denaro, questo è sicuro. So invece che punta a una svolta a destra del quotidiano con una linea antifemminista e omofoba».

Liberazione 28.12.08
Un giornale tra autonomia e logiche padronali
di Lea Melandri


Ho dato con piacere e senza esitazione la mia disponibilità a far parte del "comitato editoriale" proposto da Piero Sansonetti, come "garanzia" della continuità del lavoro svolto finora da Liberazione, e come una possibile uscita dalle secche di un dibattito che è andato sempre più scadendo in uno scontro tutto interno ai rapporti tra il partito e il giornale. Per accettare mi bastava la convinzione, più volte espressa sul quotidiano stesso da me e da altri collaboratori e lettori, che un giornale, qualunque sia la fonte di finanziamento a cui si appoggia, deve avere l'autonomia come requisito imprescindibile della libertà di informazione e di pensiero. Ma l'editoriale di ieri, 27 dicembre 2008, in cui Sansonetti espone le ragioni della sua proposta, ha contribuito ulteriormente a dissipare dubbi, interrogativi, e soprattutto stanchezze, che potevano indurmi all'attesa rassegnata di un esito qualsiasi, a cui dire semplicemente: sì o no.
Mi riferisco alle difficoltà economiche e politiche, e soprattutto al nesso di consequenzialità tra le une e le altre, che dovrebbe impedire di pensarle separatamente, un nesso che non a caso non viene mai esplicitato o discusso.
Un giornale di partito, che ha avuto il merito di aprirsi a soggetti, tematiche, movimenti gravitanti nell'area dell'impegno sociale e culturale della sinistra, e che, proprio per questo, viene osteggiato da gran parte dei militanti di quella organizzazione politica, pone innanzi tutto seri interrogativi sui fondamenti ideologici che la guidano: sul rapporto tra appartenenza e libertà, tra ciò che si considera "proprio" e ciò che accomuna ad altri, tra obbedienza, consenso e partecipazione critica. Non sono domande nuove, purtroppo. E' dal '68 in avanti che i partiti di sinistra, le loro rigidità organizzative, burocratiche e chiesastiche, le loro chiusure ideologiche verso ogni "esterno", sentito come minaccioso, vengono scosse a più riprese da movimenti nati dal basso, da quei "territori" a cui oggi guardano come a patrie perdute o miraggi, soprattutto se è il populismo di destra ad abitarli sempre più estesamente. Il caso di Liberazione perciò viene al seguito di una lunga storia di conflitti, avvicinamenti e prese di distanza, riconoscimenti reciproci e divisioni, e diventa per questo emblematico del nodo di contraddizioni irrisolte su cui si gioca il futuro della sinistra istituzionale.
L'idea "proprietaria", che oggi viene invocata dalla maggioranza del Prc, per riportare il giornale nell'alveo di una più "autentica" e "omogenea" tradizione comunista, è evidente che riguarda più la politica che i costi, come dimostra il fatto che è disposta a un cambio di proprietà economica, a condizione di riservare a sé gli editoriali e le prime pagine del quotidiano. Se la politica può essere pensata in chiave di potere esclusivo, "dominio" riservato ad alcuni, luogo di una decisionalità di conseguenza autoritaria, è perché, separandosi sempre più dalle vite e dalle persone reali, parlando il linguaggio totalitario di tutti i gruppi chiusi, è diventata un ibrido poco convincente di mestiere e di astrattezza ideologica, gergalità e semplificazione mediatica.
Dire - come si legge nell'editoriale di Sansonetti - che "un giornale è la sua storia, le sue idee, il suo ruolo, i suoi lettori, le aree e i partiti politici ai quali si rivolge e con cui dialoga", significa riconoscere che alla logica padronale - sia essa finanziaria o ideologica - si è inteso sostituire l'idea di un potere esercitato collettivamente, alla difesa di un pensiero unico, "autentico" e "omogeneo", la composizione faticosa, continua e mai definitiva, di voci diverse, a volte dissonanti, ma accomunate dalla convinzione che siano le difese, erette dalla politica tradizionale contro esperienze essenziali dell'umano, a minacciarne la sopravvivenza. La trattativa avviata per vendere Liberazione a un editore che dichiara di voler raddrizzare la rotta di un giornale portato dal suo direttore contro gli scogli pericolosi della sessualità, del femminismo, dell'omosessualità e del trans gender, dice, fuor di metafora e sia pure per interposta persona, quanto i "rifondatori" del comunismo siano lontani dai movimenti di liberazione che, di fatto, da decenni questo ripensamento lo hanno avviato, costruito pazientemente, incontrando, da parte di chi pensavano interlocutore, solo ostacoli, strumentalità, messa sotto silenzio.
Non si tratta perciò solo di "garantire" l'autonomia che ha contraddistinto la direzione attuale, ma lo spiraglio che il giornale, pur con le sue vendite limitate, ha aperto nel tormentoso rapporto tra sinistra partitica e movimenti, tra esigenze organizzative e pratiche non autoritarie, tra conflitto sociale e non violenza, tra capitalismo e forme di dominio, sfruttamento, non riducibili ai rapporti di produzione e lavoro, tra falsa neutralità delle culture maschili tuttora imperanti e femminismo.

Liberazione 28.12.08
Come salvare Liberazione. Ovvero, come affossarla
di Elettra Deiana


Sul Corriere della Sera di ieri, in un articolo firmato da Andrea Garibaldi, Luca Bonaccorsi illustra il target e la mission del perfetto giornale di partito. Il giornale è Liberazione, ancora, più o meno, quello che conosciamo da quando è diretto da Piero Sansonetti; il partito è Rifondazione comunista del dopo Chianciano, alle prese con l'ardua impresa di uscire dall'impasse politica in cui è piombata, rilanciando a piene mani "iniziativa sociale" e "comunismo". Bonaccorsi è l'editore che inaspettatamente - ma forse non tanto inaspettatamente - si è messo in pista per comprare Liberazione, mettere alla porta Piero Sansonetti, conciliare giornale e partito. Impresa non da poco, come la cronaca degli ultimi mesi e soprattutto degli ultimi giorni sta a testimoniare. Perché tutto questo non si trasformi, come è invece nelle cose, in un'operazione di commissariamento del quotidiano, ci vorrebbero, al di là delle evidenti diversità e divergenze politico-culturali tra giornale e attuale maggioranza del partito, un punto di vista condiviso, una capacità di scambio, confronto, dialogo, una non troppo divaricante volontà delle mosse tattiche e delle intenzioni strategiche.
Salvare un giornale di sinistra, un "bene comune della sinistra", non dovrebbe stare a cuore a un partito che niente di meno promette, come il nuovo Prc, il "comunismo nel futuro"? Ma nulla di tutto questo è oggi a disposizione perché Rifondazione comunista non ha scelto soltanto un'altra linea politica e un altro segretario. Ha scelto la strada della restaurazione ortodossa, che rende impossibile la convivenza e la condivisione politica con un altro soggetto di prossimità - come è sempre più o meno un giornale di partito - così diverso da sé, così mediaticamente ingombrante, così emblematicamente e ostinatamente alloglotto. L'impossibilità della convivenza con la sfida dell'innovazione e della ricerca culturale, con la provocazione delle idee, con l'ostinato inseguimento dell'utopia tra le pieghe nascoste di esperienze umane così lontane e "oscene", nel senso etimologico della parola, cioè fuori dalla scena, dalla visibilità pubblica e, soprattutto, dalla tradizione della sinistra in generale e comunista in particolare: questo è quanto, per forza di cosa, volenti o nolenti dobbiamo registrare. Chi scrive, che non è mai stata, per cultura libertaria e anche faziosità femminista, né fan di Sansonetti, né supporter acritica di Liberazione, ne ha tuttavia condiviso e ne condivide la sfida, ne apprezza la ricerca spinosa e spesso scomoda, sa quanto valga la provocazione culturale nel deserto dell'indifferenziata smemoratezza di questo presente che viviamo. Ed è proprio su questo non riconciliabile punto di attrito che si è giocata la partita tra Liberazione e il partito. Ed è sullo stesso attrito che Bonaccorsi ha giocato le sue carte. Non voglio dire nulla sull'operazione che lui fa come editore, sull'"affare" o il "non affare" imprenditoriale, sulla gamma di altre sue imprese editoriali su cui i giornali hanno dato informazioni per lo più malevole. Suscita sconcerto - è questo che mi interessa sottolineare - la pesante leggerezza delle formule con cui Bonaccorsi affronta, nella chiacchierata con Andrea Garibaldi, una questione così complessa e complicata come il rapporto tra un giornale come Liberazione e un partito come Rifondazione comunista. Il direttore Sansonetti, dice il nuovo editore in pectore, sta portando la nave dritta sugli scogli: troppo spazio a questioni che non meritano tanto inchiostro e dilapidano copie del giornale. Ed elenca: Luxuria e l'isola dei famosi, il dibattito sul "microfallo" e una compagnia al seguito di argomenti contigui che mal si conciliano con l'esigenza di sanare i debiti, valorizzare le competenze professionali della redazione, rilanciare il giornale, soddisfare la nuova segretaria del Prc. Quali saranno gli altri argomenti? Li immaginiamo. Dunque Sansonetti a casa e sui nastri di partenza una Liberazione nuovo target: primo giornale italiano di inchiesta sociale e sul lavoro, pieno di notizie neglette sugli altri quotidiani su economia, pace, welfare, ecc, ecc. Due direttori, uno responsabile che fa il giornale e uno politico (nominato dal partito si suppone) che scrive fondi e cura la vita di partito. Promesse di ogni tipo poi su debiti, mantenimento dei posti di lavoro, bilancio in pareggio tra qualche anno. Finanziamento pubblico permettendo, of course. Insomma un'operazione che mette insieme un affare e un'opzione-operazione politica. Che si chiama, quest'ultima, affossamento di una voce critica e radicale dell'informazione di sinistra e messa in cantiere di un asettico e politicamente controllato giornale "comunista", denominato, per comodità imprenditoriale, ancora come la testata che ha fatto un po' di nobile storia di sinistra del nostro Paese. In altre parole, il tutto rappresenta anche una mano robusta alla nuova maggioranza del Prc. Che volete di più? Per il momento pare esclusa la presenza nell'impresa, se essa andrà in porto, dello psichiatra Massimo Fagioli, maitre a penser col quale Luca Bonaccorsi è in sodalizio. Uno dei meriti di Piero Sansonetti, tra gli altri, è quello di aver resistito al discutibile fascino di quel maestro e di non avergli concesso spazio su Liberazione. Vedremo che cosa succederà in seguito anche su questo versante, se l'impresa a cui stanno lavorando Ferrero e Bonaccorsi dovesse andare in porto.

l’Unità 28.11.08
Messina cent’anni dopo
di Marco Bucciantini


Le baracche dove trovarono alloggio gli sfollati oggi sono ancora lì. Cinquantamila metri quadri mai abbattuti. Il grosso risale agli anni 30. Ora ci vivono gli abusivi, in assenza di politiche abitative.

Che è successo qualcosa si capisce subito. Un colpo d’occhio disarmonico, come la cattedrale che s’affaccia sulla grande piazza di sbieco: un paesaggio cubista, nella tela le montagne, il mare. I palazzi moderni, l’edilizia popolare, le troppe ruspe, le sempiterne baracche. I colori di una striscia di terra dove Messina si allunga braccata dal fardello di una storia tragica e di un futuro spento da un debito spaventoso, 140 milioni di euro. La città sembra ruzzolare in acqua, come le sue strade.
Tutto va al mare, ma le baracche resistono. Sono il vero monumento di Messina. “Celebrano” il terremoto che cent’anni fa rase al suolo il 90% delle case. Passò poi il maremoto a finire il lavoro. Eccolo, il cuore di Messina: il villaggio Matteotti, i fondi, il Ritiro, il rione Taormina: cinquantamila metri quadrati, chi c’è nato non ci fa più caso. Adele Fisichella non c’è nata. Quando è andata ad abitare nella «casetta», così la chiama, aveva sei anni. «Questo era un lavatoio», e punta la sua abitazione. Delle baracche del dopo terremoto ne rimane solo un piccolo agglomerato confuso tra i nuovi palazzi dell’Annunziata. Struttura in legno, pavimento di cemento grezzo, ci viveva da settant’anni Concetta Albano: il centenario ha fatto il miracolo, scuotendo la burocrazia che le ha fatto ottenere, tre giorni fa, l’alloggio popolare.
Il retaggio del terremoto è soprattutto la cultura delle baracche. L’ediliza fascista fu qui insolitamente modesta: il grosso di questi umilianti tuguri risale agli anni trenta. Ricostruire dopo la seconda guerra mondiale fu facile e poco dispendioso: altre baracche. Svuotate da chi ottenne in seguito l’alloggio popolare. Ma anche rivendute, affittate, mai abbattute dall’amministrazione né dall’Iacp, l’Istituto di case popolari. «Ci sono persone che occupano da cinque anni o da un giorno: è un modo per ottenere l’alloggio popolare», spiega Angela Bottari, del Pd. Si crea così una graduatoria di fatto, da sanare. Così è per Adele, e mamma, papà, il marito, i due figli e la sorella. I sette Fisichella sono entrati in queste pareti di cemento armato 26 anni fa da abusivi. E aspettano la casa popolare: «Mio padre si è ammalato ai polmoni. Ogni tanto vengono, scrivono e se ne vanno». Accanto c’è il gruppo di casupole più infami, coperte in eternit (amianto). Sono basse, alte, grosse, strette. Addossate l’una all’altra in conforto, unite dal filo dei panni stesi e dal curioso fatto che se piove l’acqua entra dal tetto. Una legge regionale del 1990 destinò alla città 500 miliardi di lire per “risanare”. Chissà dove sono finiti quei soldi: le baracche censite nel 1959 erano cinquemila, cinquant’anni dopo sono ancora tremila.
La zingara «Non ci voli la zingara a ‘ndovinari a ventura», si dice da queste parti. E sono “cartacce” quelle in mano al sindaco Giuseppe Buzzanca, Pdl, già decaduto una volta perché usò l’auto blu per raggiungere la moglie in vacanza. È «peculato d’uso». Fu allontanato dalle cariche pubbliche, è tornato al comando, vincendo le ultime elezioni. Ma questa è terra di resurrezioni: Franco Tomasello è il rettore dell’università definita in commissione antimafia «l’ente appaltante più grande del meridione». Anche lui lascia e riprende la carica. Quando molla, c’è di mezzo la procura, che ha chiesto e ottenuto per due volte la sua sospensione: è indagato per i concorsi truccati a Veterinaria (il 5 marzo inizierà il processo, il rettore è accusato di concussione e abuso d’ufficio) e per favoreggiamento in un concorso per dirigente al Policlinico (coinvolto anche il presidente della Provincia, Nanni Ricevuto, sempre Pdl). L’epicentro dei terremoti politici dunque è l’università con i suoi appetiti di potere, gli interessi di mafia e ‘ndrangheta, il nepotismo. Guardare avanti non è semplice. Il Comune è tecnicamente fallito, evita di proclamare il dissesto per non mettersi il dottore in casa (leggi: il commissario. Anche lui va e viene). Il grosso del debito è a carico dell’Atm, la municipalizzata dei trasporti, che si mangia 34 milioni di euro. In una città così adagiata, una viabilità costruita a pettine (una linea centrale tramviara, da cima a fondo, servita da linee più brevi laterali) è di sicuro successo. Eppure non c’è. Altre aziende paracomunali - con gli amici sistemati nei millanta Cda - dissipano altri 20 milioni. Ci sono anche aspetti grotteschi: «Il comune perde tutte le cause in cui è chiamato a rispondere», rivela Emilio Fragale, direttore generale ai tempi della giunta di centrosinistra (che finì commissariata). Si chiama “gestione fallimentare del contenzioso”. Avere un avvocatura debole, o inesistente, può costare milioni di euro. «Per tre anni - ricorda Fragale - l’amministrazione non era assicurata per i danni provocati dalla mancata manutenzione». Se uno cadeva dal motorino per colpa di una buca per strada, il Comune si svenava nel risarcirlo. L’incuria governa Messina: altri milioni vengono gettati per «cause non difese», le multe non sono riscosse, e i condoni sanati non sono stati incassati: doppio danno, prima all’ambiente, poi alle casse. Certe abitudini sono come macerie. Schiacciano e fanno polvere in un posto dove è successo qualcosa, ma non succede mai niente.(ha collaborato Manuela Modica)

l’Unità 28.11.08
«Si ruppe la terra poi si alzò il mare»
Le voci dei testimoni di cent’anni fa
di Marco Bucciantini


Le voci dei testimoni di cent’anni fa. Il comandante del traghetto Calabria: «Vidi le luci delle città spegnersi come inghiottite. E il dopo: «Solo macerie e corpi nudi». La polemica: a Reggio Calabria i soccorsi arrivarono 24 ore dopo. La città aveva 30mila abitanti. Ne morì la metà

Se il cielo non fosse stato nascosto e riparato dalle nubi, il terremoto avrebbe portato via anche le stelle, e quello spicchio di luna così sottile da sembrare una falce affilata, che s’intravide - un attimo appena - all’ora del tramonto. Cent’anni fa accadde questo.

Trentasette secondi Alle 5 e 21 del mattino Messina, Reggio e altri 388 comuni furono flagellati dal più devastante sisma che abbia mai colpito l’Europa. Scosse di grado XI della scala Mercalli (7,1 magnitudo Richter) Si ruppe la terra, si scatenò il mare. Circa 150mila i morti. I sopravvissuti, i testimoni, raccontarono l’apocalisse.
Il comandante del traghetto Calabria, in navigazione sullo Stretto. «Un fragore cupo sembra venire dalle profondità del mare e mi inchioda. Sento il Calabria colare a picco, con rapidità spaventosa, e l’urlo di terrore si leva dai passeggeri. Allumate dai bagliori fuggevoli dei fari di bordo, due muraglie di acqua scavano un baratro in cui lo scafo s’inabissa. Con la stessa rapidità, si risale in superficie. Ed ecco spegnersi sulle due rive i lumi di Villa, di Reggio, di Messina».
William Owen, comandante del mercantile inglese Afonwen, ancorato nel porto siciliano. «Una gigantesca forza da sotto sollevò il bastimento. Il lento boato che pareva del tuono divenne uno schianto di distruzione. L’oscurità regnò fino a che l’alba non svelò la distruzione. Per trentacinque minuti noi si stette sempre in procinto di sommergere, con il ponte inclinato di 25 gradi. Guardammo nuovamente la terra e questa sembrò aver preso qualche colore fantastico, tra il giallo e il grigio cenerino. La città era nera dal fumo, qua e là interrotta da lingue di fuoco».
Monforte, telegrafista della stazione di Messina: «Eravamo in tre al telegrafico, io, il signor Sergi e il signor Uccello. Ero alla Morse quando cominciò la scossa. Sussulti violenti durarono trenta secondi e si sentì un grido altissimo, un’invocazione suprema, un gemito di pianto che tutta Messina levava al cielo prima di morire. I muri erano sbattuti come foglie. Tegole, davanzali, finestre piovevano nelle strade. Il movimento divenne ondulatorio, fu la fine di tutto. Dagli squarci nell’edificio una luce intensissima, sembrava un’aurora boreale. Ricordo i rumori: prima uno solo, enorme, come se mille cannoni fossero stati sparati assieme. Poi un temporale di pietre. I tonfi delle case, le urla. E le campane della cattedrale cadere e pensai: addio Messina, addio vita, siamo tutti morti».
Giuseppe Valentino (che poi fu sindaco di Reggio) dall’altra parte dello Stretto dorme nella casa al terzo piano di un palazzo: «Balzai dal letto e trascinai mia moglie presso mio figlio Felice, undicenne, stringendoci tutt’e tre in gruppo. Svenni. Riaprendo gli occhi vidi mia moglie: un’immagine bianca, l’ultima, poi un sussulto vorticoso, rabbioso, salito dalle profondità della terra e quindi il silenzio di morte. Ero avviluppato dai rottami, il corpo confuso con le macerie. Mio figlio squarciò il silenzio, invocando la madre. Non poteva più rispondere, nemmeno mio fratello, di qualche camera più discosto. Felice si accaniva nel grido filiale, “Papà, non c’è speranza, sparami”. Rispondevo e il terriccio mi assaliva le labbra, la polvere soffocava il respiro, il supplizio era così atroce che la fine stessa invocavo col desiderio».
Agostino Rocca, in seguito fondatore di un grande gruppo siderurgico, era allora un bambino che il 27 dicembre andò a letto appena finita la cena, come vuole la buona educazione che a quei tempi è legge. Il giorno dopo si tornava a scuola, le vacanze natalizie erano un breve sollievo. Baciò i genitori. Mamma stava suonando il piano, l’Appassionata di Beethoven. Nell’emergere dal sonno, si confuse: «Possibile che la sveglia sia così potente?». Si tirò la coperta sugli occhi, vide il fratello straziato da una trave e le cameriere correre dalla sorella più piccola, ma la camera di Elisa è sparita. Una parte della casa fuma dagli sprofondi e s’è inghiottita anche i genitori.
Gaetano Salvemini, storico, docente a Messina. Perse tutta la famiglia, il Corsera lo dette per morto. «Di slancio andai alla finestra. Feci in tempo a spalancarla che la casa precipitò e tutto disparve in un nebbione denso, tranne il muro dove stava la finestra. Mi avvinghiai alle tende per senso di disperazione. Caddi, ma le macerie sotto avevano ormai ridotto l’urto». Scavò con le sue mani i corpi dei cinque figli morti, della moglie e della cognata.
Antonio Barreca, ambulante postale, riuscì a raggiungere a piedi, dopo tre ore, la stazione di Scaletta e di lì trasmettere a Riposto - che inoltrò a Siracusa e quindi a Roma - la notizia: «Messina distrutta». Giolitti - che ebbe il telegramma solo nel pomeriggio - non volle crederci.
Il comandante della torpediniera Spica, ferma nello Stretto, ha un quadro ridimensionato ma lucido del disastro: «Ore 5,20 terremoto distrusse buona parte Messina - Giudico morti molte centinaia - ...urgono soccorsi, ogni aiuto insufficiente».
Piedi scalzi che pestano rovine, corpi nudi che vagano nello spazio nuovo e azzerato e si radunano sul lungomare e si contano: pochi, pochissimi, e gli altri? Messina brilla della luce fredda della tragedia. L’alba e la polvere ingannano occhi che devono ricomporre la realtà, per capire e cercare. Incipriano i volti e soffocano le voci che chiamano dalla terra, sepolte e ancora vive, sepolte vive. È un tempo impossibile, inutile: per i morti e per i superstiti. Lo è soprattutto per quelli non più vivi e non ancora morti. Respirano sotto le macerie, cheteranno poco a poco. Se prima tutto è stato violento e veloce, adesso la tragedia è lenta, inesorabile e beffarda come il mare che ritira e poi torna.
All’alba di martedì 29 ecco i soccorsi, prima i russi e gli inglesi con la Royal Navy di pattuglia nel Mediterraneo. La Marina italiana è ferma a Napoli. Lo Stato arriva poco per volta, «ora venite? Ora che il terremoto è finito?», fino a piazzare 14 mila militari male organizzati tanto che il colonnello inglese Charles Delmè-Radcliffe sentenziò: «Con soccorsi tempestivi e coordinati si sarebbero potute salvare almeno diecimila vite in più». Sotto, c’è chi aspetta: Benedetto Bensaia, macellaio, viene scavato vivo due settimane dopo il sisma. Si era riparato nel vuoto ricavato fra due travi incrociate. Teneva in braccio i due figli, li ha visti morire di inedia. Urlava e picchiettava con le nocche sulle tavole: lo udì un militare che si era fermato in via Verdi per pisciare. Uscì bestemmiando, convinto di essere rimasto laggiù per tre notti. A Reggio “i nostri” giunsero 24 ore dopo: metà della popolazione era morta.
Sono giorni senza regole in una terra desolata. Saccheggi, fame, il terremoto divorò l’umanità, la trasformò, l’arrestò ai suoi stadi primitivi. Giunsero gli sciacalli perfino dalle campagne. Si arrivò alle fucilazioni dei predoni, si distinsero i russi della corazzata Cesarevic, i marinai della flotta baltica godevano di una certa libertà per l’affetto dei siciliani, commossi dalla solidarietà. Esecuzioni spesso sommarie, mai inventariate. La “macchina” si organizzò: in poco tempo il Comitato centrale di soccorso voluto da Giolitti poté gestire 25 milioni di lire (il grosso venne dall’estero, fra i più generosi gli inglesi e gli italiani d’Argentina, una donazione robusta è del Re, molto è raccolto dal territorio italiano). Sullo Stretto, gli orfani vagano contesi dal Patronato laico dello Stato e dalla Chiesa, che si appoggia a navi spagnole per razziare i bambini e spedisce in zona l’esperto d’infanzia don Luigi Orione. Sarà il “padre” che crescerà duemila ragazzi negli istituti. La terra continuò a brontolare per settimane, senza riposo, dopo il tramonto.

l’Unità 28.11.08
Il primo maledetto Kubrick
«Fear & Desire» per la prima volta in Dvd: esordio di un genio che ancora non sapeva di essere tale


Fear and Desire
Regia di Stanley Kubrick
Con Frank Silvera, Paul Mazursky, Kenneth Harp, Stephen Coit
Usa, 1953 - Distribuzione: MHE-CultMedia

Entrare in un negozio e vedere sugli scaffali Fear and Desire è, per ogni kubrickiano che si rispetti, uno shock. Il film è una leggenda, un'opera maledetta se mai ne è esistita una - e per espressa volontà del suo creatore! È il primissimo film diretto da Stanley Kubrick nel '53. Il regista aveva 25 anni e trovò i 20.000 dollari necessari alla produzione grazie alla generosità del padre e dello zio. I membri della ridottissima troupe erano tutti amici, pronti a lavorare gratis (anche se uno degli attori sarebbe diventato famoso: è il futuro regista Paul Mazursky).
Kubrick usò il film come un biglietto da visita nel giro degli indipendenti newyorkesi (Hollywood, con questa storia, non c'entra nulla) e due anni dopo diresse Il bacio dell'assassino. Appena divenuto un regista patentato, bollò Fear and Desire come «l'opera di un dilettante, l'equivalente di un disegno di un bambino» e cercò di distruggerne tutte le copie esistenti. In altre parole, Kubrick non voleva che nessuno lo vedesse.Ma la legge, nel cinema, impedisce di distruggere le tracce: copie pirata circolavano a go-go e il negativo era stato comunque depositato, e nel 1980 venne ritrovato - non chiedeteci come - in Portorico e acquisito dalla Library of Congress di Washington. E qui arriviamo ad oggi, al come e perché la Mondo Home Entertainment ha potuto pubblicarlo: una società americana - che alla MHE giurano di non poter nominare - ha acquistato i diritti del negativo conservato a Washington; gli eredi di Kubrick (la vedova Christiane e suo fratello Jan Harlan, produttore di tutti i film del cognato) hanno tentato di bloccarlo, ma hanno già perso due gradi di giudizio presso una corte americana. I buoi sono scappati e sarà inutile richiudere la stalla: i dvd in commercio sono legali a tutti gli effetti.
GUERRA, OF COURSE
La domanda vera è: com'è il film? Sul «dilettantismo» aveva ragione Stanley: è un'opera narrativamente molto ingenua, ma lascia intuire il talento di un 25enne molto dotato almeno dal punto di vista fotografico. È un film di guerra, su una guerra senza nome: 4 soldati bloccati dietro le linee nemiche cercano di tornare alla base. In passato, qualcuno si era spinto a scrivere che Kubrick l'avesse bloccato perché rinchiudeva in sé tutti i suoi film a venire. Ovviamente non è così, ma alcuni temi sono già lì: soprattutto la guerra vista come fenomeno «naturale», senza alcuna lettura ideologica, quasi come un esperimento in vitro nel quale analizzare l'aggressività insita nell'uomo.
Il dvd esce a prezzo ridotto (quasi ovunque costa 9,90 euro) ed è giusto così: il film dura un'ora, è in un'unica versione (inglese con sottotitoli, non fu mai doppiato), la qualità visiva è bassa e non ci sono extra. Ma si tratta di un «oggetto» imperdibile per gli appassionati: l'opposto di Quarto potere, la nascita di un genio che non sa ancora di essere tale.

l’Unità Firenze 28.11.08
L’Onda non si ferma nemmeno per le feste
Continua la mobilitazione, ma stavolta per poter studiare
di Silvia Casagrande


Capodanno in facoltà si occupa per studiare
Gli studenti continuano la mobilitazione nelle sedi di Sesto e di viale Morgagni anche durante le vacanze natalizie. La scelta segue la decisione degli organi di ateneo di chiudere le aule per risparmiare.

Capodanno in facoltà? Sì, ma per studiare.
«Non ci sarà nessun veglione - assicurano gli studenti che hanno deciso di portare avanti le occupazioni nelle sedi di Sesto e di viale Morgagni anche durante le vacanze natalizie -, più che altro prepariamo gli esami per la sessione di gennaio». L’Onda che in autunno protestava contro i tagli alla ricerca facendo lezione in piazza, conferma di essere un movimento impegnato più a studiare che a fare festa. D’altra parte la scelta di occupare rinunciando alle vacanze, è stata una risposta alla decisione degli organi centrali dell’ateneo di chiudere le strutture universitarie durante le feste per risparmiare e tentare di sanare il bilancio d’ateneo. «Come al solito si fa cassa tagliando i servizi agli studenti: volevano chiudere biblioteche e facoltà, impedendo a molti docenti di fare ricevimento ed esami. Agli studenti di ingegneria – spiega uno degli occupanti - verranno tolte due settimane della sessione invernale». Così, chi vuole preparare gli esami potrà farlo nelle strutture tenute aperte dagli studenti, senza aspettare la riapertura ufficiale del 7 gennaio. «Ci sono modi più intelligenti di risparmiare, senza impedirci di usare i nostri spazi – spiegano gli studenti – Per dimostrarlo stiamo stilando uno studio di risparmio energetico, telefonico e informatico grazie all’applicazione di energie alternative e tecnologie quali Voip e software libero». Oltre che a studiare, quindi, l’Onda guarda al futuro e continua quel processo di rinnovamento dell’università che chiama “autoriforma” e che passa attraverso “assemblee, cineforum e sessioni musicali per socializzare e confrontarsi”. Momenti che a quanto pare sono abbastanza partecipati. «Al plesso di viale Morgagni vengono un centinaio di ragazzi ogni giorno e una quarantina si ferma sempre anche a dormire - assicurano gli studenti – anche a Sesto almeno una trentina di persone rimangono a dormire in facoltà». Certo, qualche controindicazione c’è: per l’occupazione natalizia gli studenti si sono dovuti attrezzare con stufette elettriche e coperte, visto che nelle facoltà chiuse appunto per motivi di risparmio energetico il riscaldamento è stato spento. Ma per fortuna non saranno necessarie le candele: la corrente non è stata staccata. Al polo di Novoli e a Lettere, invece, così come nelle altre facoltà cittadine, le occupazioni sono state interrotte durante le Feste, ma gli studenti si sono dati appuntamento al nuovo anno per portare avanti la mobilitazione contro la 133. A Lettere, per esempio, gli studenti si sono salutati la scorsa settimana con una festa nel chiostro di Brunelleschi, ma hanno già ottenuto dalla preside un’ala della facoltà da autogestire nei prossimi mesi e da tenere aperta anche la sera. Fra le iniziative previste per gennaio, c’è anche quella di dare il via a corsi di italiano gratuiti per stranieri, tenuti dagli stessi studenti.

Repubblica 28.12.08
La triste storia dell’Italia corrotta
di Eugenio Scalfari


L´ITALIA è una nazione corrotta? Da sempre o da quando? E corrotto il popolo, la società nel suo complesso? Oppure è corrotta soltanto la classe dirigente del Paese e il popolo assiste, passivo e stupefatto, a questo devastante fenomeno?
Questo gruppo di domande è di nuovo alla ribalta, il tema è di nuovo di incalzante attualità e si torna a parlare dei mezzi necessari a porvi rimedio; il governo ha messo all´ordine del giorno la riforma della giustizia con il dichiarato obiettivo di affrontare le malformità dell´ordine giudiziario e di stroncare l´immoralità dilagante: un soprassalto degno di nota poiché il capo del governo è uno degli esempi più vistosi dell´immoralità pubblica o almeno così è percepito da una parte rilevante della pubblica opinione.
Appena ieri la questione morale è stata presa di petto da Giuseppe De Rita sul «Corriere della Sera» e da Guido Crainz su «Repubblica».
Quest´ultimo ne ha addirittura fatto la storia citando coloro che se ne sono occupati a partire dal 1970, molto prima della nascita di Tangentopoli che ebbe inizio nel 1992 e che contribuì ad affondare la Prima Repubblica senza tuttavia riuscire ad estirpare la corruzione che continua come e più di prima a devastare la fibra del Paese. Siamo dunque condannati senza scampo a portarci appresso questa piaga purulenta che resiste ad ogni medicina e ad ogni chirurgia?
In realtà il fenomeno è molto più antico, le sue radici affondano non già nel passato prossimo ma in quello remoto. Molto prima dell´ultima guerra e molto prima del fascismo, l´Italia liberale e monarchica era infetta nelle midolla e non mancavano neppure allora intellettuali e artisti che denunciavano con parole di fuoco il trasformismo e la corruzione. Gabriele D´Annunzio apostrofava Nitti con il soprannome di «cagoia», Salvemini prima ancora lanciava contro Giolitti pesantissime accuse.
A monte la questione morale aveva travolto Crispi e lo scandalo della Banca Romana aveva coinvolto addirittura la monarchia.
«I Vicerè», il grande romanzo storico di De Roberto è un documento spietato del malaffare nelle classi dirigenti meridionali. Lo Stato unitario ancora non esisteva ma la corruzione infestava da tempo il regno borbonico e quello papalino. Per non parlare della «romanità»: l´impero dei Cesari, anche nella fase gloriosa degli inizi e ancora più indietro risalendo a Pompeo, Catilina, Mario e alla schiera dei proconsoli che depredavano le provincie a beneficio dei propri patrimoni, fu un «combinat» di forza militare e di corruttela pubblica. Nel «De Bello Jugurtino» Sallustio fa dire a Giugurta, re di Numidia, la storica frase: «Roma, venderesti te stessa se trovassi un compratore».
Dunque esiste una vocazione fatale alla corruttela che inchioda da più di due millenni la nazione latina e poi quella italica e italiana a questa peste devastante?
* * *
Mettiamo da parte la Roma dei proconsoli e dei Cesari: depredò i sudditi a vantaggio dell´erario e dei suoi titolari come è stato fatto da tutti gli imperi. Restiamo all´Italia moderna.
Qui da noi lo Stato unitario ha avuto una presenza evanescente, estranea, lontana, vissuto più come sopraffattore che come garante del patto sociale. Più come autore di violenza che tutore di legalità. Il popolo non ha partecipato ma ha soltanto assistito alla nascita dello Stato. Quando esso si costituì il 75 per cento della popolazione era formata da contadini. Fuori dalle istituzioni, fuori dal mercato. Consumavano le poche derrate che producevano, non avevano ospedali, non mandavano i figli a scuola, le sole presenze istituzionali erano i carabinieri e gli agenti delle imposte. E i preti.
Non facevano notizia i contadini. Nascevano, figliavano, morivano.
L´opinione pubblica rappresentava soltanto il 25 per cento. Proprietari fondiari, commercianti, industriali, magistrati, professionisti, maestri e docenti, impiegati.
Da questa fetta sottile della società emergeva la classe dirigente, i capi delle amministrazioni locali e nazionale, gli ufficiali dell´esercito, gli imprenditori. Insomma la borghesia e la piccola borghesia. I deputati.
Lo Stato galleggiava sulla società la quale a sua volta galleggiava sulla moltitudine dei contadini e sui primi nuclei della classe operaia.
Lo Stato non era un simbolo né lo era la Patria. Per la maggior parte quelle parole erano sconosciute, prive di significato. Per una parte minore erano depositi di potenza legale da occupare a proprio beneficio.
Domenica scorsa ho citato l´intervista del 1981 dove Enrico Berlinguer descrive l´occupazione dello Stato e delle istituzioni da parte dei partiti, ma avrei potuto citare quasi con le stesse parole Salvemini, De Viti De Marco, Maffeo Pantaleoni, Mosca, Pareto, Luigi Einaudi, Giustino Fortunato, di cinquanta e ottanta anni prima del leader del Pci.
La corruzione italiana è un fenomeno che deriva direttamente dall´estraneità dello Stato rispetto al popolo, dall´esistenza d´una classe dirigente barricata a difesa dei suoi privilegi, dall´appropriazione delle risorse pubbliche da parte dei potenti di turno, dal proliferare delle corporazioni con proprie deontologie, propri statuti, propri privilegi; dalla criminalità organizzata e governata da leggi e codici propri. Infine, in assenza di una legalità riconosciuta, dalla necessità di supplire a quell´assenza con la corruzione spicciola, necessaria per mitigare l´arbitrio con la compravendita di indulgenze civili come da sempre ha fatto la Chiesa con le indulgenze religiose.
* * *
Mi domando se la corruzione pubblica sia un fatto solo italiano. L´ovvia risposta è no, non è solo un fatto italiano, s´incontra in tutti i paesi, dove c´è la democrazia e dove c´è la dittatura, con economie mature o sottosviluppate. Dovunque i titolari del potere si appropriano d´una quota in più di quanto gli spetterebbe, dovunque i furbi accalappiano gli allocchi i quali cercano di rivalersi sui più allocchi di loro. Ma in Italia c´è un elemento aggravante in più: la fatiscenza dello Stato, la debolezza delle istituzioni di garanzia, l´evanescenza dello stato di diritto.
Qui la verità storica impone tuttavia un approfondimento dei fatti come si sono sviluppati nel corso del tempo. C´è stato nell´ultimo secolo un graduale aumento di partecipazione del popolo alla vita pubblica, un inizio di radicamento delle istituzioni nella società.
Quest´azione educativa ha avuto come promotori il movimento socialista, il partito comunista italiano, il movimento sindacale. Nell´ultimo cinquantennio vi è stato anche un forte contributo da parte dei cattolici democratici che hanno vinto i «non possumus» emanati per oltre mezzo secolo dal Papato contro lo Stato, con il nefasto effetto di confiscare la libertà politica dei cattolici separandoli dalle istituzioni del loro paese: un fatto tutt´altro che marginale (che registra purtroppo alcuni attuali ritorni all´indietro) senza riscontro nelle democrazie d´Europa e d´America.
* * *
Se c´è stato - e c´è sicuramente stato - un processo di sviluppo democratico, esso è dovuto in larga misura alla sinistra italiana. Tanto maggiore è quindi la preoccupazione più che mai attuale di assistere ad uno scadimento anche nella sinistra per quanto riguarda gli standard di moralità.
Probabilmente lo scadimento è stato ingrandito dall´avventatezza di magistrati che dal canto loro hanno smarrito in alcune circostanze i criteri di prudenza doverosi negli accertamenti di supposti reati. I partiti dal canto loro hanno abbassato la vigilanza consentendo che il malaffare entrasse anche in luoghi politici che finora gli erano stati preclusi.
Ma la vera causa è quella indicata a suo tempo da Berlinguer: le forze politiche non debbono occupare le istituzioni, gli organi di garanzia debbono vigilare e colpire senza riguardo ai colori di bandiera, la magistratura deve funzionare come organo di controllo della legalità, la stampa deve imparare meglio e di più il suo officio di contropotere.
Da questo punto di vista una riforma della giustizia s´impone e dovrà concentrarsi su tre obiettivi:
1. la riforma del processo penale e civile affinché sia resa giustizia in tempi ragionevolmente brevi; questo è un obiettivo essenziale che i cittadini reclamano e senza il quale non si avrà alcuna riforma degna del nome.
2. Il conferimento dell´azione penale nelle mani del capo della Procura, che distribuisca il lavoro ai suoi assistenti con criteri certi e oggettivi.
3. La separazione delle funzioni tra magistrati inquirenti e giudicanti senza tuttavia dividere in due l´ordine giudiziario al quale tutte e due quelle funzioni appartengono.
Ieri il presidente del Consiglio, con una più che mai vistosa capriola rispetto a quanto aveva appena detto, ha modificato l´ordine delle priorità del governo: alla ripresa dei lavori parlamentari ci sarà anzitutto il federalismo fiscale; la riforma della giustizia verrà dopo.
Quanto al presidenzialismo, per ora è uscito dalla tabella delle priorità.
Evidentemente la Lega e Fini hanno prevalso sulla fretta di Berlusconi di stringere i tempi della svolta autoritaria. Anche la libera stampa ha contribuito a questa svolta di saggezza e vi ha contribuito soprattutto la ferma resistenza dell´opposizione a minacce e lusinghe.
Né le une né le altre sono mancate. Il fatto che non abbiano avuto successo dà buone speranze per il futuro.

Corriere della Sera 28.12.08
La figlia del sindacalista
Proposta di legge. Sabina Rossa apre agli ex terroristi: siano liberi senza il sì di noi vittime
di Giovanni Bianconi


La proposta Il testo elimina la necessità del «sicuro ravvedimento»: sufficiente la rieducazione
Sabina Rossa e gli ex terroristi: siano liberi senza il sì di noi vittime
La deputata del Pd figlia del sindacalista ucciso dalle Br: ecco la mia legge
Il testo non prevede più le indagini psicologiche e la valutazione del rapporto tra assassini e parenti delle vittime

ROMA — Ha incontrato uno degli assassini di suo padre, e poi il giudice che deve decidere sulla scarcerazione di quell'uomo. Ha detto che il brigatista che nel gennaio 1979 sparò al sindacalista Guido Rossa oggi è un'altra persona, e merita di lasciare la prigione dopo trent'anni di reclusione. Quell'uomo, l'ex brigatista Vincenzo Guagliardo, è invece ancora dentro anche perché non ha voluto pubblicizzare l'incontro con la figlia di Rossa, né s'è rivolto ad altre vittime ritenendo che fosse la forma migliore per rispettarle. E oggi Sabina Rossa, dopo il faccia a faccia con Guagliardo e altri ex militanti delle Brigate rosse fa un passo in più.
Da deputato del Partito democratico, la figlia del sindacalista ucciso dalle Br ha presentato un disegno di legge per sostituire il «sicuro ravvedimento » richiesto dal codice penale per concedere la liberazione condizionale (e che per molti giudici, compresi quelli di Guagliardo, si misura proprio dal contatto tra carnefici e vittime) con una formula diversa: può uscire dal carcere prima del fine pena, e nel caso degli ergastolani dopo 26 anni, chi ha tenuto «un comportamento tale da far ritenere concluso positivamente il percorso rieducativo di cui all'articolo 27 comma 3 della Costituzione».
Niente più indagini psicologiche alla ricerca dei sintomi del «ravvedimento», quindi. E niente più valutazione del rapporto tra gli assassini e i parenti di chi è stato assassinato. «Le vittime non hanno bisogno di vedersi affidare il peso del destino di coloro che li ha colpiti — spiega la Rossa —. Se questi contatti avvengono, non devono essere sbattuti in tribunale per dimostrare qualcosa. Devono restare in un altro ambito, non diventare metro di giudizio per decidere se un detenuto merita di uscire oppure no».
La liberazione condizionale è diventata materia delicata da quando hanno cominciato a chiederla gli ex terroristi, di sinistra e di destra, che non hanno usufruito degli sconti di pena concessi a pentiti e dissociati. Si tratta di ergastolani, condannati per omicidi, che compiuti i 26 anni di cella presentano istanza per tornare a una vita regolare fuori dalle galere, di solito quando già godono della semilibertà (all'esterno di giorno e dentro di notte).
La legge attuale prevede, appunto, che sia certificato il «sicuro ravvedimento», ma Sabina Rossa lo considera un requisito «troppo aleatorio». Per alcuni giudici, un fattore discriminante è stato proprio il comportamento del condannato nei rapporti con i familiari delle persone uccise; cioè se avesse o meno «dimostrato solidarietà nei confronti della vittima, interessandosi delle sue condizioni e facendo quanto è possibile per lenire il danno provocatole».
E' successo così che chi aveva preso contatti con i parenti delle vittime, di solito attraverso delle lettere inviate tramite gli avvocati, è stato considerato «ravveduto» ed ha lasciato il carcere definitivamente, mentre chi non l'ha fatto s'è visto negare questa possibilità. Nel caso di Guagliardo, il giudice ha detto no proprio in assenza di quei contatti, nonostante l'incontro con Sabina Rossa fosse già avvenuto. Ma l'ex br non ne ha parlato, sostenendo di considerare il silenzio «la forma di mediazione più consona alla tragicità della quale si è macchiato».
Ora Sabina Rossa, protagonista di questa vicenda in qualità di figlia dell'uomo ucciso da Guagliardo, ritiene che «una simile interpretazione della norma, che chiama in causa direttamente le vittime del reato e o loro familiari, si presti a grandi difficoltà applicative e lasci grande spazio a disomogeneità legate all'intrinseca difficoltà di lettura profonda della relazione tra condannato e vittima». Anche perché ogni magistrato decide come crede, e in passato sono state liberati pure ex terroristi che non si sono mai rivolti ai parenti dei loro «bersagli». Di qui la proposta di modificare la legge, e di ancorare l'eventuale scarcerazione a criteri più oggettivi e meno discrezionali. «Senza andare a scandagliare l'animo delle persone», dice ancora la deputata del pd, che attribuisce a questa iniziativa un significato più ampio.
«Vorrei che fosse — spiega In aula Sabina Rossa, figlia del sindacalista ucciso dalle Br e deputata del Pd — un ulteriore passo verso il superamento dei cosiddetti "anni di piombo", che non può avvenire mettendo una pietra sul passato o attraverso il silenzio. Le leggi premiali hanno messo in libertà degli assassini senza che scontassero una vera pena, mentre c'è chi dopo trent'anni è ancora in carcere pur non avendo più nulla a che fare con la persona che fu. E' un paradosso, che sarebbe bene superare con misure meno discrezionali possibili».

Corriere della Sera 28.12.08
Parigi: il genio spagnolo e i suoi maestri al Grand Palais, al Louvre e al Musée d'Orsay
C'è anche la picassata alla parigina
Daniel Buren all'Hôtel Salé. Ma non si capisce che cosa sia
di Giorgio Cortenova


Picasso, nato a Malaga nel 1881, diviene uomo con ancora i calzoni corti e qualche volta con la gonna, come si usava in certe festività nella Spagna d'allora. Una foto, mai diffusa da lui, lo inchioda in gonnella al fianco della sorellina. Quando, di lì a qualche tempo, si reca a Madrid per studiare all'Accademia, marina la scuola e trascorre le giornate al Prado.
Comincia così la vicenda di Picasso e gli «altri», quei maestri che incutevano terrore con le loro tele appese in quelle sale deserte, quando i quadri nei musei erano ancora arte da studiare e copiare, e non «beni culturali» da sfruttare turisticamente, come succede in questi giorni a Parigi, dove al genio di Picasso vengono dedicate tre mostre per dimostrare quanto la Francia sia grande anche in tempi di crisi.
Al Louvre sono esposte le opere che l'artista ha dedicato alle Donne d'Algeri nei loro appartamenti del romantico Delacroix; al Musée d'Orsay si esaminano le variazioni sul tema della Colazione sull'erba di Manet; al Grand Palais si sarebbe dovuto realizzare un confronto speculare con tutti i maestri: da El Greco a Cézanne, da Velázquez a Goya, e poi Tiziano, Poussin, Puvis, Gauguin, insomma, in 120 opere, il top dell'arte di tutti i secoli.
È chiaro che la palla avrebbe dovuto rimbalzare più forte in queste sale di capolavori, e per certi versi è cosi; ma più in alto rimbalza, più cresce la consapevolezza di trovarsi davanti ad alcuni gruppi di opere accostate con rara superficialità a uso e consumo del business
turistico. Perché le opinioni sono opinioni, ma non è possibile riferire il
Ritratto di Casamegas o il Ritratto di uno sconosciuto, del 1899, in pieno clima modernista, al Ritratto di giovane gentiluomo del Greco, invece che al simbolismo munchiano, come il linguaggio, il livore dei colori e lo slittamento di luce urlano che sia.
È solo avventuroso accostare il cubismo dell'Uomo con chitarra, del '21, al visionario San Francesco d'Assisi nella sua tomba di Francisco de Zurbarán. Di parete in parete gli esempi di simili incoerenze, svarioni — come chiamarli? — si sprecano e si rinnovano con allarmante continuità. Si pensi alle nature morte picassiane del 1908: ebbene, là vicino si vorrebbe lo stesso tema trattato da papà Cézanne. Invece no: al suo posto ci sono le nature morte di Chardin! Insomma, una «picassata alla parigina», si potrebbe dire parafrasando la definizione che di Guttuso diede un critico italiano («picassata alla siciliana»).
Ma gli equivoci di questa mega manifestazione dedicata a Picasso non finiscono qui. Al Museo che porta il suo nome è in atto un intervento di Daniel Buren che si svilupperà in progress per tutto il 2009. Non si comprende bene se sia anch'esso un omaggio a Picasso o solo una coincidenza.
Buren è nato nel 1938 e da circa 35 anni si esprime tracciando righe ovunque e comunque: un vero e proprio «pallino», se il termine non cadesse in contraddizione geometrica. Qualche mese fa, egli ha accusato lo Stato francese di non avere restaurato le sue colonne a righe al Palais Royal. Adesso gli viene data carta bianca, anzi bianconera, per l'intervento sui muri e nella corte d'entrata dell'Hôtel Salé, che ha ospitato una scuola d'arte prima di diventare Museo Picasso.
Al momento ha reso policromi molti vetri delle finestre e ha innalzato un muro di specchio tangenziale sulla parete di fondo, alto circa 30 metri, profondo circa 20 e largo quanto due delle sue famose righe, che così salgono in alto in alto e si perdono nel nulla da cui, peraltro, nascono.
Pablo Picasso: «Donne d'Algeria», dipinta ispirandosi all'opera di Eugène Delacroix
PICASSO E I MAESTRI
Parigi, Grand Palais (tel. +331/144131717), Louvre (tel. +331/140205317), Musée d'Orsay (tel. +331/140494814), Musée Picasso (tel. +331/142712521), sino al 2 febbraio

Corriere della Sera 28.12.08
Bisanzio Londra: 340 fra icone, pitture murali, avori, smalti alla Royal Academy
Teodora, una prostituta sul trono
di Flaminio Gualdoni


L'imperatore Costantino, che con l'editto del 313 ufficializza la religione cristiana in Roma, nel 330 decide di lasciare un altro segno indelebile del suo straordinario genio politico. Sul Bosforo, dove da secoli sorgeva la città di Bisanzio e dove oggi è Istanbul, egli fonda la città di Costantinopoli, destinata a diventare la «nova Roma», capitale dell'impero d'Oriente, e a sopravvivere anche quando, nel 476, Roma capitola alle invasioni barbariche.
Per oltre un millennio, sino al 1453 e alla presa da parte degli Ottomani, Costantinopoli è, a tutti gli effetti, la capitale del Mediterraneo, quella in cui la civiltà ellenistica e la romana sopravvivono fecondando la cultura moderna.
La rassegna londinese, ricca di ben 340 opere fra icone, pitture murali, mosaici, avori, smalti, oreficerie, sintetizza la vicenda di Bisanzio dal punto di vista della storia artistica e insieme di quella religiosa. Mentre la prima Roma collassa, è là che si giocano le grandi partite dei primi secoli della cristianità, dalla lotta tra gli iconoclasti che negano la possibilità di un'arte sacra figurativa e coloro che la ritengono lecita, conclusa dal secondo Concilio di Nicea nel 787, alla nascita dell'icona, forma d'arte sconosciuta in Occidente e che diviene tradizione vitalissima del cristianesimo ortodosso.
E poi, c'è la leggenda, quella di personaggi come il grande Giustiniano e la controversa moglie Teodora, prostituta ascesa al trono; quella di oggetti come il calice di Antiochia, del VI secolo, a lungo ritenuto il Santo Graal per la sua rappresentazione dell'Ultima cena; quella di luoghi come il monastero di Santa Caterina del Sinai, il più antico convento cristiano passato integro attraverso traversie plurisecolari: lo stesso Maometto in un editto si preoccupò di salvaguardarne la sacralità.
Da Santa Caterina vengono alcune opere straordinarie, icone trionfanti d'oro e d'una potente figurazione convenzionale. Le affiancano capolavori d'oreficeria come il bruciaincenso a forma di tempio proveniente dalla basilica veneziana di San Marco, la più vicina per storia al mondo bizantino, e come il Trittico Harbaville, straordinario rilievo in avorio commissionato dalla corte bizantina. Il Salterio Khludov e le Omelie di Giacomo Kokkinobaphos dicono, infine, della formidabile qualità dell'arte del libro bizantina.
Omelie di Giacomo Kokkinobaphos
BYZANTIUM 330-1453
Londra, Royal Academy of arts, sino al 22 marzo. Tel. +44/20-73008000

Liberazione 19.12.08
Marx contro i marxisti
di Anna Simone


Nel 1842 furono pubblicate le opere giovanili di Karl Marx. Tra gli scritti ve n'è uno che vale bene l'incipit di queste pagine. Nel riferire delle discussioni parlamentari sulla "Rheinische Zeitung" il filosofo di Treviri manifestava tutta la sua disapprovazione per le decisioni politiche assunte dalla Dieta della Renania nei confronti delle popolazioni nullatenenti del luogo. Questi, infatti, avevano per secoli raccolto legna dai boschi agendo de facto un diritto collettivo secolare, il legnatico . Un diritto consuetudinario che, invece, una legge della Dieta definiva e sanzionava in quegli anni come "furto" messo in atto dai poveri contro i proprietari dei boschi. A loro modo, però, i miserabili della Renania esercitavano un diritto di libertà, una forma di auto-organizzazione della loro vita, una pratica di disobbedienza nei confronti del regime proprietario, erano in altre parole un comune che eccedeva l'ordine giuridico voluto dalla Dieta della Renania. Una prassi, un'azione politica e sociale che agiva nel sistema e contro il sistema contemporaneamente.
A quasi due secoli di distanza, facendo diversi salti nel tempo, ci spostiamo a San Lorenzo, Roma. Esc, in via dei Reti, pur rischiando lo sgombero ogni giorno esercita lo stesso medesimo diritto consuetudinario contro l'ordine proprietario dei palazzinari romani e contro una politica asfittica che impedisce tutte le forme di accesso gratuito alla cultura mercificandola sino all'inverosimile. Ma i giovani e i meno giovani dell'atelier occupato non raccolgono legna, non svolgono lavori materiali. Essi producono saperi attraverso l'istituzione della Lum (Libera università metropolitana), teorizzano e praticano un'idea di comune sganciata dalle istituzioni e dagli ordinamenti giuridico-statuali, fanno politica dentro e fuori la Sapienza, organizzano seminari e, ovviamente, leggono e studiano Karl Marx. Marx e non il marxismo in tutte le sue vulgate accademiche e/o partitiche, alcune delle quali nostalgiche e fuori dal tempo al punto tale da indurre qualche giovane comunista a desiderare il simbolo del muro di Berlino sulle nuove tessere di Rifondazione (si veda il dibattito in corso in questi giorni su queste stesse pagine).
Quella di Esc e della Lum è quindi "un'altra" esperienza di lavoro politico e di lavoro cognitivo attorno all'opera di Marx, nessuna nostalgia, nessuna deriva identitaria, nessuna reazione risentita rispetto a questa storia imbrogliona del presente, nessun falso movimento messo a punto per ridefinire un'idea di comunismo fuori dalle trasformazioni reali poste in essere dagli assetti contemporanei dei sistemi di produzione e dalla nuova composizione immateriale della forza lavoro. Un'antropologia dell'attualità che non parte dai disastri elettorali del presente per cercare una forma di "redenzione" nel passato perché ha deciso di procedere al contrario. Partire dai conflitti del presente, dalle istanze di libertà mosse qui e ora dai movimenti dei precari, femministi e studenteschi per rileggere Il Capitale , I Grundrisse etc.
Questi seminari, tenutisi a Esc due anni fa, ora sono un libro costruito sotto forma di lessico, quasi un classico direi, appena edito dalla manifestolibri (Lessico Marxiano , pp. 198, euro 19). Dodici voci per dieci autori più o meno riconoscibili all'interno della tradizione operaista e post-operaista italiana (da Toni Negri a Mario Tronti, da Sandro Mezzadra a Carlo Vercellone, da Alisa del Re a Christian Marazzi, da Paolo Virno a Michele Surdi, da Augusto Illuminati a Polo Vinci). Nell'introduzione, a cura della Lum, è possibile già individuare alcune tra le linee guida principali di questo lavoro: insistere sul crinale che si pone tra teoria e prassi nell'opera marxiana attualizzando la potenza produttiva di lotte e saperi; ripartire dalle lotte sul rifiuto del lavoro salariato a dispetto di chi pensa che possa essere possibile ripristinare un ordine sociale basato sul lavoro e quindi sullo sfruttamento; sottolineare le sfumature problematiche del passaggio di fase dalla produzione retta dalla grande industria al cosiddetto general intellect ; evitare di cercare nelle teorie della giustizia le ragioni delle lotte. Linee guida a loro volta riassumibili in tre "campi" e/o "aperture" epistemologiche sull'opera marxiana: critica al concetto di storicismo perché le lotte non afferiscono ad un tempo cronologico lineare ma proseguono attraverso rotture, ricomposizioni differenziate e innovazioni che, a loro volta, producono saperi situati; rileggere le categorie di cooperazione e di forza lavoro attraverso il rapporto tra produzione e riproduzione messo in luce abbondantemente dal femminismo degli anni '70 e da parte del femminismo contemporaneo; pensare ad un'egemonia del comune ovverosia a quella modalità di produzione del lavoro vivo in grado di creare forme di cooperazione sancite anche da relazioni affettive e amicali. Un comune in grado di reggersi su ciò che Simondon ha definito come il "trans individuale", come la messa in comune di singolarità ovviamente non monadiche e identitarie, ma portatrici in sé di relazioni.
Tuttavia tra le dodici voci, quelle che appaiono davvero portatrici di uno sguardo attuale, quelle che davvero tentano di compiere un salto nel presente, provando anche a creare nuove nozioni interpretative (come quella di "forza lavoro complessa" che Virno mutua anche dalla nozione di complessità e di riduzione della complessità elaborata dalla teoria dei sistemi e dalla teoria funzional-strutturalista di Luhmann) vanno principalmente segnalate, almeno da chi scrive, "Accumulazione originaria" (Mezzadra), "Cooperazione e forza lavoro" (Virno), "Produzione/Riproduzione" (Del Re) e "Socialismo del capitale" (Marazzi). Mezzadra attualizza spingendosi sul terreno dei subaltern studies e dei postcolonial studies , accentua l'attenzione sui processi specifici di soggettivazione su scala globale contribuendo, così, a consegnare per sempre la tradizione terzomondista al ruolo che più le spetta: quello di dirigere acriticamente le sciagurate politiche di cooperazione internazionale allo sviluppo, considerate ormai da tutti gli antropologi come l'ultima frontiera del colonialismo "buono".
Alisa del Re prova, invece, ad attualizzare le sue importantissime ricerche sulla divisione sessuale del lavoro e sul lavoro domestico svolto assieme ad altre femministe padovane negli anni '70. Ragiona sulla crisi dei sistemi di Welfare contemporanei proponendoci una chiave di lettura sul lavoro salariato di riproduzione oggi. Un lavoro di cura che le nuove forme di privato sociale hanno reso di pubblica utilità andando sostanzialmente a salarizzare ciò che prima veniva fatto gratuitamente dalle donne tra le mura domestiche. Nonostante questo evidente mutamento di scala rimane, secondo lei, il lavoro gratuito di cura come una delle dimensioni più importanti del lavoro di riproduzione: «anche i knowledge workers sono stati bambini, saranno vecchi, tornano a casa a mangiare la pasta e desiderano indossare calzini puliti». Ciò che tuttavia muta di segno (tema sul quale la Del Re tende a non soffermarsi più di tanto) è, invece, la cosiddetta forza lavoro migrante femminile. Sono sempre più spesso loro, infatti, ad occuparsi del lavoro domestico e di cura all'interno di una circolarità dei bisogni e delle necessità tutt'altro che felice. Infatti l'unico affrancamento possibile che le donne continuano ad avere oggi in relazione al doppio lavoro dentro e fuori casa consiste, paradossalmente, nel salarizzare e quindi nel costringere un'altra donna a svolgere il lavoro domestico e di cura. Un mutamento che altrove abbiamo definito come processo di "badantizzazione" della società speculare al cosiddetto processo di femminilizzazione del lavoro (si veda Liberazione del 20 ottobre, 2007). Una sorta di ritorsione tesa a ridefinire il dominio di classe delle donne bianche che si credeva scomparso nei meandri dell'emancipazionismo prima e della differenza poi.
E per concludere la già citata nozione di "forza lavoro complessa" utilizzata da Virno oltre che la bella voce "Socialismo del capitale" di Christian Marazzi che, molto più di altri, compie davvero un'operazione di "spostamento" dell'analisi marxiana lavorando "solo" sul famoso corso di Foucault tenuto al Collége de France tra il '78 e il '79, Nascita della biopolitica (in nota non v'è citazione alcuna ripresa dal barbuto di Treviri). Ma se è vero che Michel Foucault in Nascita della biopolitica, più che riprendere Marx, prova a ricostruire una genealogia dei rapporti economici che si sono dati all'interno delle società, spostando sulle nozioni di capitale umano e sulla critica al concetto di società civile, è altresì vero che i suoi più autentici punti di forza rimangono legati a ciò che lui stesso definiva come movimenti di contro-condotta e di contestazione della norma. L'altro della lotta di classe. Tutti quei movimenti, cioè, prossimi a mettere in discussione qualsivoglia forma di normativizzazione e di gerarchizzazione del sé all'interno degli ordini discorsivi dati e predefiniti dai saperi-poteri. Movimenti sui quali lui, tra l'altro, differenziava il suo agire politico da quello dei marxisti francesi perché voleva capire meglio come si producono le condotte normalizzate e funzionali al sistema capitalistico, piuttosto che comprendere il sistema capitalistico in sé. Voleva capire, cioè, dove si situa la messa in scacco delle libertà e dei piaceri, una messa in scacco che può prodursi sempre e ovunque. E allora a quando un seminario organizzato da Esc e dalla Lum su Michel Foucault? Dopo Marx e con questo Marx si può fare.

Il Lessico marxiano, a cura della Lum, sarà presentato domani all'interno del Critical book&wine presso Esc.
Critical book&wine a Esc fino al 23 dicembre
Libri da gustare vini da leggere
La terza edizione di critical book&wine, mercato degli editori e dei vignaioli indipendenti, si svolgerà presso Esc, l'atelier occupato di via dei Reti 15, nel quartiere San Lorenzo a Roma, da oggi al 23 dicembre, dalle ore 16 all'una di notte i primi quattro giorni, dalle 14 alle 20 il giorno di chiusura.
A questa maratona prenatalizia di libri e vini partecipano trentuno editori tra i quali Ancora del Mediterraneo, Bruno Mondadori, DeriveApprodi, Donzelli, e/o, Fandango, Iperborea, Laterza, manifestolibri, marcosymarcos, Meltemi, , minimumfax, Nottetempo, Orecchio Acerbo, Quodlibet; e otto aziende vinicole di varie regioni italiane.
Le giornate saranno arricchite da dibattiti, performances, reeding, presentazioni ed esibizioni musicali tra i quali si segnala: oggi alle 19, il dibattito su «il lavoro e la crisi», con la presenza di Sergio Bologna; sabato, a partire dalle 18 la lettura di brani dell'ultimo romanzo di Barbara Balzerani Perché io, perché non tu , seguita dalla presentazione del libro Lessico Marxiano , con la presenza di Paolo Virno, Marco Bascetta, Augusto Illuminati, Michele Surdi; la domenica pomeriggio sarà animata da letture di vari poeti tra i quali Nanni Balestrini e Laura Pugno. Interessante lunedì 22, alle 19, il dibattito - del tutto a tema con il critical book&wine - "Il Municipio del libro a Roma", con la partecipazione del presidente del III Municipio Dario Marcucci e l'assessora alla Cultura Valentina Grippo. L'ipotesi in discussione riguarda la costruzione, appunto nel III Municipio di Roma, di una sorta di «presidio permanente del libro» animato e gestito da alcuni editori indipendenti. Intanto, tutti i libri in vendita si avvalgono di uno sconto del 20% sul prezzo di copertina.
Con questa terza edizione critical book&wine conferma la scelta di proseguire il progetto in stretta cooperazione con realtà politiche e culturali autogestite e autorganizzate. Il suo obiettivo, dichiarato alla nascita tre anni fa al centro sociale Leocavallo di Milano, è di intrecciare questa cooperazione con realtà rappresentative per qualità, anzi eccellenza, della produzione indipendente, in campo editoriale ed enologico. Ma questo progetto intende allargarsi a breve anche ai produttori indipendenti del cinema, della musica, del teatro e dell'enogastronomia. «Un progetto insieme ambizioso e difficile», spiegano gli organizzatori. «Ambizioso, perché intende, nel suo percorso di crescita, proliferare in altre città, oltre Roma e Milano, ma soprattutto nell'infinita provincia italiana, dove alligna molto di quel che costituisce materialmente la ricchezza delle produzioni culturali ed enogastronomiche indipendenti.
Difficile, perché per realizzarsi si trova costretto a misurarsi con le maledette regole dell'impresa e del mercato, regole che oltre a suscitare negli "spiriti libertari" sentimenti di contraddittorietà «ideale» comportano anche, molto più concretamente, molte difficoltà materiali, dato il contingente scenario di grave crisi economico-finanziaria».
Quindi idee e progetti, questi del critical book&wine, che con tratti di particolare originalità sanno dare buone occasioni per discussioni di grande attualità sulla crisi di un agire politico capace di concreta trasformazione sociale.
Per informazioni più dettagliate sulla programmazione dell'evento: info: www.escatelier.net


Repubblica.it 28.12.08
Roma, 18:26 Editoria: Bonaccorsi, dentro Rifondazione c'è un caso Villari


Anche dentro Rifondazione c'e' un caso Villari, quello di un signore che mentre sta aggrappato alla poltrona mettendo a rischio i lavoratori del giornale, da un lato diffonde bugie e disinformazione, dall'altro fantastica comitati e cooperative senza alcuna prospettiva. E' la replica di Luca Bonaccorsi interessato a rilevare il quotidiano del Prc 'Liberazione' alle affermazioni dell'attuale direttore, Piero Sansonetti a 'la Repubblica'. "Mi addolora molto il livello del dibattito sul futuro di Liberazione - aggiunge Bonaccorsi - Il comportamento di Sansonetti mi sembra davvero inqualificabile e le sue affermazioni a 'Repubblica' di oggi, che spero smentira', gravissime. Io antifemminista e omofobo? Ormai siamo alle bugie palesi e alla diffamazione". Quindi, "se Sansonetti pensasse ad altro oltre che alla sua poltrona saprebbe che nella carta d'intenti dell'associazione 'per la sinistra' che io ho promosso fin dagli inizi, il matrimonio gay e' stato inserito su mia proposta". E poi "saprebbe che io, ma non ricordo la sua presenza, ero in piazza con le femministe alla manifestazione contro la violenza sulle donne cosi' come a tutte quelle che l'hanno preceduta e a tutte quelle sui diritti civili" chiosa Bonaccorsi e del resto "anche Villari pontifica ogni giorno sulla sua dedizione alle istituzioni - conclude - Per il bene del giornale e' importante che la discussione torni su temi editoriali e imprenditoriali e si abbandoni la pratica degli attacchi personali, specie se diffamatori e privi di fondamento".