La polemica
Bonaccorsi: "Sansonetti è come Villari"
ROMA - «Il comportamento di Sansonetti mi sembra inqualificabile e le sue affermazioni su Repubblica, che spero smentirà, gravissime. Io antifemminista e omofobo? Ormai siamo alle bugie palesi e alla diffamazione». Lo afferma Luca Bonaccorsi, direttore editoriale del settimanale Left ed interessato a rilevare il quotidiano del Prc, diretto da Sansonetti. «Se Sansonetti pensasse ad altro oltre che alla sua poltrona saprebbe che nella carta d´intenti dell´associazione per la sinistra il matrimonio gay è stato inserito su mia proposta. È evidente che anche dentro il Prc c´è un caso Villari: quello di un signore, che mentre sta aggrappato alla poltrona mettendo a rischio i lavoratori del giornale da un lato diffonde bugie e disinformazione».
Repubblica 29.12.08
La commedia del popolo
di Albero Asor Rosa
In genere si pensa che la storia della letteratura sia un seguito di grandi uomini e di grandi opere, che ci si deve accontentare di ammirare dal di sotto e da lontano, quasi pargoli indigenti di ogni sapienza. Di certo è anche questo (e anche l´ammirazione da lontano va praticata): ma è anche una moltitudine di minuscoli dati intellettuali e materiali, la cui paziente osservazione porta sovente a scoperte magari semplicissime nella sostanza ma estremamente rivelatrici negli effetti.
Questa considerazione mi viene in mente dalla rilettura di una famosa «epistola» di Francesco Petrarca niente di meno che a Giovanni Boccaccio in merito alla produzione letteraria volgare di Dante Alighieri (bella e straordinaria questa adunanza di «spiriti magni», riuniti intorno ad un tavolo ideale, come soggetti e oggetti della conversazione, per discutere della natura e dei compiti della poesia, anzi, della Poesia).
In questo testo è in gioco l´apprezzamento, - positivo o negativo, o meno positivo, o un tantino negativo, - di un´opera come la Commedia, pietra fondativa, architrave, dell´intero «sistema letterario» italiano. E per quanto l´occasione possa apparire limitativa, - in fondo una lettera originariamente privata, sia pure tra due grandi personalità, una «famigliare» fra le tante (XXI, 15), - lì è contenuta l´essenza di una scelta di fondo, che percorre da un capo all´altro l´intera nostra storia letteraria (forse addirittura fino ai giorni nostri, di sicuro fino all´altro ieri), la contrapposizione, cioè, per dirla in termini molto attuali, quasi da tifo calcistico, tra i filo-danteschi e i filo-petrarchisti, tra i seguaci di una nozione della poesia ispirata all´opera e ai precetti teorici di Dante e i seguaci di una nozione della poesia ispirata all´opera e ai precetti teorici di Petrarca.
Naturalmente, date le premesse, si potrebbe ragionare all´infinito sulle motivazioni, molteplici e ricche, di ognuna delle due linee. Per l´occasione fermerò l´attenzione su di un solo punto, che però, a guardar bene, potrebbe costituire il presupposto di tutti gli altri.
Boccaccio, com´è noto, è un filiale sostenitore (ovviamente a modo suo) della linea dantesca. Però, ammiratore al tempo stesso di quel suo fratello maggiore che era Petrarca, si sforzava in tutti i modi di persuaderlo delle buone ragioni della sua ammirazione per Dante (della cui Commedia aveva inviato anni prima una preziosa copia a Petrarca stesso). Petrarca, contegnoso e, secondo me, anche un poco ipocrita, gli risponde (siamo in anni tardi, intorno al 1360) che lui apprezza e ama Dante ma non può fare a meno di constatare come il suo innegabile ingegno si sia come sporcato e rovinato a causa... A causa di cosa? A causa del fatto che Dante, nelle modalità della sua poesia, nella scelta delle sue tematiche e (soprattutto) nell´uso di una determinata lingua, ha pensato fosse giusto stabilire un rapporto, - un rapporto stretto e per lui molto fecondo, - fra il proprio ruolo di poeta e un pubblico vasto, nel quale avrebbe inevitabilmente assunto un ruolo, superiore a qualsiasi classica misura, l´elemento popolare.
Le parole di Petrarca sono di un´inequivocabile durezza. Egli respinge con sdegno l´insinuazione che potesse «invidiare» Dante per la fama da questi rapidamente acquisita. Come avrebbe potuto invidiarlo, - scrive il poeta classicheggiante e precocemente umanista, - se ad ammirare Dante, con «applauso e strepito sgraziato», si erano distinti in prima fila personaggi come «i tintori», «gli osti», «i lanaioli», ossia i rappresentanti tipici del popolino fiorentino, che fin dalla prima circolazione della Commedia ne avevano imparato i versi a memoria e li salmodiavano o cantavano (testimonianze coeve ce lo confermano) persino in bottega, nell´esercizio delle loro attività artigianali? Non aver scansato in tutti i modi, - come Petrarca dichiara di aver voluto fare accuratamente per sé e per la propria opera, - questa vera e propria contaminazione fra la propria poesia e quel pubblico indegno aveva provocato come altra intollerabile conseguenza negativa che il suo stile, - lo stile di Dante, volentieri piegato dal suo autore a tale contaminazione, - risultasse «insozzato e coperto di sputo dalle balbettanti lingue di costoro».
Comincia da qui, con la sorprendente chiarezza di cui solo un intelletto come quello di Francesco Petrarca poteva esser capace, il lungo percorso del padre Dante nella storia della letteratura italiana successiva. Mi rendo conto, naturalmente, di schematizzare oltre misura. E però non sarebbe difficile dimostrare che la fortuna di Dante, e in modo particolare della sua poesia (che per scelta sua fu, non dimentichiamolo, quasi tutta volgare), s´alza o s´abbassa, in taluni momenti fin quasi a scomparire, a seconda che i letterati italiani di questo o quel periodo si siano posti oppure no il problema di venire incontro alle aspettative, non solo dei membri della loro medesima corporazione, ma a quelle dei «tintori», degli «osti» e dei «lanaioli» dei loro tempi (con il che, com´è ovvio, intendo riferirmi a quelle situazioni sociali, professionali e intellettuali, che di volta in volta sfuggissero ai modelli precedenti del «sistema»).
A questo possibile diagramma storico della nostra letteratura, che vede la presenza maggiore o minore di Dante come il visibile segnale d´una condizione più aperta e rinnovatrice della ricerca, andrebbe accompagnata la parallela ricostruzione della fortuna di Dante direttamente presso le classi popolari italiane, fino ad un periodo a noi assai vicino. «Dire» Dante ha sempre significato a quel livello un´affermazione d´identità, che in quelle parole, in quei versi e in quella lingua «si riconosceva» (né può risultare una diminuzione per la Commedia dantesca il fatto che le si affiancassero nella memoria popolare opere come il Guerrin Meschino o la Gerusalemme liberata). È quello che, con la geniale inventività che lo contraddistingue, ha fatto e continua a fare Roberto Benigni, parente stretto di quei popolani toscani che al Petrarca davano tanto fastidio. Mi preme rilevare che tutto ciò è tutt´altro che casuale.
L´origine ne va cercata infatti nelle scelte stesse di Dante, anche quelle di maggior rilievo e sofisticazione intellettuale. E si può esser sicuri che Dante, se avesse potuto, non si sarebbe lamentato, come Petrarca, d´esser detto o cantato dalle «lingue balbettanti» degli incolti.
Repubblica 29.12.08
I critici di Fini ignorano la Storia
di Mario Pirani
Ho trovato abbastanza spudorate le polemiche contro Gianfranco Fini per la chiamata di correo, limpida e coraggiosa, da lui avanzata in occasione del 70° anniversario delle leggi razziali che, come ha ricordato il presidente della Camera, se bollarono di ignominia il regime fascista, non assolsero certamente il silenzio della stragrande maggioranza dell´opinione pubblica, né tanto meno della Chiesa cattolica. Torno sull´argomento perché una rassegna stampa conclusiva mi ha indotto a riflettere sugli automatismi di certe prese di posizione, spiegabili in base ai calcoli politici attuali ma non certo preoccupate dalla verifica della realtà storica.
Quanto al primo aspetto, è pur vero che molti italiani non nutrivano particolari antipatie per gli ebrei e individualmente lo manifestarono. Resta, però, l´assenza di ogni dissonanza collettiva, mentre fu evidente la caccia ai posti lasciati liberi dagli ebrei nelle università, nelle scuole, negli ospedali, nell´amministrazione pubblica, nell´esercito, nelle accademie, nei giornali, negli istituti di cultura, nelle assicurazioni, nelle banche, negli studi professionali, nelle case editrici a cui nessuno dei prescelti si sottrasse.
Quanto all´atteggiamento della Chiesa torno a premettere che il comportamento di tanti presuli e di semplici sacerdoti, dal 1938 fino al ´43-´45, fornì la prova che cominciava a prevalere lo spirito di solidarietà sull´intolleranza dei secolari anatemi contro i «perfidi giudei». Di questa svolta conservo qualche personale memoria. Ciò non cancella il valore della dichiarazione, ricordata da Luigi Accattoli sul Corriere, che il segretario della Cei per l´ecumenismo, l´arcivescovo Giuseppe Chiaretti, rivolse dieci anni orsono alla Comunità ebraica, rievocando «la pagina oscura della storia religiosa durante la quale la comunità ecclesiale, anche per lunga acritica coltivazione di «interpretazioni erronee e ingiuste della Scrittura» (Giovanni Paolo II), non seppe esprimere energie capaci di denunciare e contrastare con la necessaria forza e tempestività l´iniquità che vi colpiva». Per parte mia voglio citare in proposito un testo di accertata obiettività dello storico cattolico, Renato Moro, su "La Chiesa e lo sterminio degli ebrei" (Il Mulino 2002) in cui ricostruisce, tra l´altro, i contrasti che divisero la Curia al momento delle leggi razziali, tanto che un´allocuzione di Pio XI a un gruppo di pellegrini belgi in cui papa Ratti affermava verbalmente: «L´antisemitismo è inammissibile. Noi siamo spiritualmente dei semiti», non venne pubblicata dall´Osservatore Romano, mentre, al contempo, la diplomazia vaticana, diretta dal cardinal Pacelli, siglava un accordo col regime in base al quale, preso atto che nei confronti degli ebrei il governo italiano intendeva applicare «onesti criteri discriminatori», si manifestava la opportunità che la stampa cattolica, i predicatori, i conferenzieri e via dicendo si astenessero «dal trattare in pubblico questo argomento». Il papa, tuttavia, non parve fermarsi e il professor Moro analizza la complessa vicenda della preparazione dell´enciclica Humani Generis Unitas rivolta alla condanna del nazismo e dell´antisemitismo razziale. Il testo venne completato, tradotto in latino e consegnato, perché lo sottoponesse al pontefice, al generale dei Gesuiti, padre Lédochowski, ma questi assunse una linea dilatoria, convinto che il pericolo vero per il cattolicesimo fosse il comunismo e non Hitler e che occorresse evitare l´acuirsi di eventuali dissidi tra la Chiesa e le potenze dell´Asse.
Il Papa fece allora inviare dal sostituto della Segreteria di Stato, monsignor Tardini, una dura nota al generale dei Gesuiti e questi dovette cedere. L´Enciclica giunse in Vaticano il 21 gennaio e il papa prese ad esaminarla nei giorni successivi. Troppo tardi. Il documento fu trovato sul suo tavolo al momento della morte, nella notte tra il 9 e il 10 febbraio del 1939. A Pio XI successe il cardinale Pacelli, accolto da molte speranze che andarono presto deluse. Pio XII, infatti, reputò dannoso, alla vigilia di un conflitto ormai certo, il "rigore" dell´enciclica del suo predecessore e la fece archiviare. Inviò, invece, una lettera a Hitler in cui gli esprimeva la speranza in rapporti migliori fra le due parti. Uno dei primi atti del pontificato fu poi la riconciliazione con l´Action Francaise, movimento cattolico dell´estrema destra antiebraica francese, condannato da papa Ratti. Una erronea e catastrofica visione diplomatica prevalse in quell´epoca sull´afflato ecumenico che il mondo attendeva. Come dar torto a Fini?
Repubblica 29.12.08
Analisi sui manoscritti dell´evoluzionismo Un software rivelerà la paternità della teoria
Darwin "copione" ultimo round contro Wallace
In Gran Bretagna tutto pronto per il bicentenario della nascita del celebre naturalista
di Cinzia Sasso
LONDRA. Sarà mai che quella parola che tutti comunemente usiamo per intendere l´evoluzione della specie - il darwinismo - sia frutto di un imbroglio e che il vero scopritore della teoria che ha rivoluzionato la scienza non sia il grande Charles Robert Darwin ma un suo meno conosciuto collega di nome Alfred Russel Wallace? Dopo l´americano Wall Street Journal è il Sunday Times a dare conto di una diatriba che mette gli uni contro gli altri i sostenitori dei due più grandi naturalisti dell´Ottocento e a raccontare di come, partendo da un´associazione che ha sede in Indonesia, la polemica stia salendo di tono proprio mentre la Gran Bretagna si prepara a celebrare nel 2009 il bicentenario della nascita del suo eroe, Darwin, lo scienziato che è appena stato definito "una delle figure di maggiore spicco della storia nazionale" e al quale il Museo di storia naturale di Londra dedicherà la più grande esposizione sul tema di tutti i tempi.
La polemica, stavolta, non è sui contenuti. Non si mette in dubbio la teoria dell´evoluzione che traumatizzò la tranquilla Inghilterra vittoriana. Ciò che è in discussione, piuttosto, è la paternità di quella sconvolgente scoperta. E per chiarire chi sia colui che per primo ha individuato nella selezione naturale e nelle mutazioni genetiche la ragione del progresso delle specie è stato commissionato un esame dei libri e delle lettere scritte da Darwin mentre si apprestava a pubblicare, nel 1859, «L´origine della specie». Perché il sospetto dei sostenitori dell´oscuro Wallace è che Darwin sia stato un copione. A dare il responso definitivo saranno degli specialisti informatici, con l´impiego di un software che viene usato anche nelle università per scoprire se i lavori degli studenti siano farina del loro sacco. Sono originali di Darwin, o sono tratti dagli studi dell´autodidatta Wallace, i concetti di quello che è passato alla storia come darwinismo? I promotori dell´iniziativa promettono di sottoporre, a luglio, ad Amsterdam, i risultati della ricerca ai massimi esperti del ramo, riuniti nell´Association of Forensic Linguists.
Darwin e Wallace, di 14 anni più giovane, hanno svolto nello stesso periodo studi paralleli. Si sa che tra loro erano in contatto e che Darwin venne a conoscenza della scoperta della rana volante proprio attraverso una lettera di Wallace. Tutti e due presentarono alla Linnean Society di Londra le conclusioni dei rispettivi studi: riassunte in due paginette da Darwin e in un corposo saggio da Wallace. Poi, dice l´accusa, Darwin si diede da fare come un matto per riuscire a pubblicare per primo "L´origine della specie". La controversia non è nuova: un libro racconta già delle origini del "crimine scientifico" che avrebbe sottratto a Wallace la paternità della scoperta ma oggi, in vista del bicentenario e dei grandi onori che saranno tributati a Darwin, si registra questo nuovo bollente capitolo. Con David Hallmark, un avvocato che rappresenta la Wallace Foundation of Indonesia, che tuona: «Il silenzio caduto su Wallace è frutto dell´imbroglio di Darwin». E con James Moore, professore all´Open University, che ribatte: «Quest´accusa di plagio è inconsistente ed è costruita solo per fare rumore».
Repubblica 29.12.08
Sorprendenti le vendite fra natale e capodanno
Il libro ci salverà? Ecco le feste piene di libri
E arrivano nuove librerie
di Simonetta Fiori
Tutti gli editori sono concordi: quello del settore librario è un caso di controtendenza rispetto alla crisi che ha penalizzato altri consumi con vistose diminuzioni
"Siamo protetti dalla nostra arretratezza. In Italia pochi leggono, ma quei pochi leggono molto" dice Ferrari della Mondadori
Carlo Feltrinelli annuncia l´apertura di un grande spazio alla Stazione di Milano Ma per l´anno che viene le previsioni sono prudenti
Il libro ci salverà? Nel clima funerario che avvolge l´economia, con i consumi in caduta verticale rispetto al Natale precedente, segnali rassicuranti arrivano dalle librerie, piene zeppe sotto le feste a dispetto delle più cupe previsioni. Al tempo della crisi, quello strano oggetto con cui metà degli italiani non ha per niente confidenza, e l´altra metà scarsa dimistichezza, viene inaspettatamente promosso a ultimo bene rifugio: non solo come regalo identitario, da donare con modica spesa; ma anche come unico approdo possibile, al quale aggrapparsi spaesati per poi ricominciare. In assenza di cifre definite - ancora troppo presto per tracciare bilanci certi - intervengono le testimonianze degli editori, omogenee nel rilevare la tenuta dell´editoria libraria all´urto della crisi. E a riscuotere maggiori consensi non sono titoli frivoli o d´intrattenimento, ma saggi pensosi o di contenuto spirituale, dalle analisi del Nobel Krugman alle meditazioni in forma di ricordo di padre Enzo Bianchi, dai grandi affreschi sociologici di Zygmunt Bauman alle riflessioni su vita e morte del cardinal Martini. Che la crisi ci costringa a rivedere le nostre abitudini?
Da Mondadori a Laterza, dal gruppo Mauri-Spagnol a Feltrinelli, i nostri publisher concordano nel restituire un ottimo andamento del mercato librario italiano. A differenza di quel che accade altrove. «Il 2008 è andato bene, meglio delle previsioni», dice Gian Arturo Ferrari, direttore generale della Mondadori, il primo gruppo italiano. «La crisi da noi non si è manifestata con la virulenza che ha avuto in altri paesi. Negli Stati Uniti ad ottobre il mercato è crollato di circa il 15 per cento e poi non si è più ripreso. In Spagna è crollato sempre con percentuali a due cifre a partire da settembre. Da noi c´è stata una flessione ma molto più contenuta nella seconda metà di settembre e poi, ancora inferiore, nel mese di ottobre. Ma dopo il mercato si è ripreso». Anche a Segrate i conti registrano un incremento: «Nel 2008 le nostre case editrici trade - fatta esclusione dunque per la scolastica, le vendite congiunte, il canale edicola e le attività non editoriali di Electa - raggiungeranno un fatturato di copertina netto rese di circa 482 milioni di euro. Circa l´1,5 % in più rispetto al 2007». Un quadro dai contorni ancora più rosei proviene da Stefano Mauri, alla guida della costellazione ereditata dal padre Luciano e da lui ancora accresciuta (un fatturato dichiarato più 7% rispetto al 2007). «Stando ai dati censiti settimanalmente da Nielsen, le vendite in libreria non si sono fermate neppure nelle settimane più nere della Borsa. E dai primi risultati il Natale appare un trionfo».
Segnali d´un mercato dinamico arrivano da Carlo Feltrinelli, che registra un incremento di fatturati sia nelle librerie (più 7 %) che in casa editrice (tra il 5 e il 6 %). E a partire dal 2009 annuncia grandi progetti affidati, pur in un quadro poco sereno, a una permanente fiducia nella lettura. «Apriremo una libreria di 2.700 quadri nella stazione centrale di Milano: spazi analoghi sono programmati nelle stazioni di Napoli e Torino. E in giugno sarà inaugurato a Genova un nuovo modello di libreria integrata, il megastore finora più avanzato: libri, dischi, dvd, caffetteria e molte altre cose. Per noi sarà un anno carico di impegni, nonostante le brutte avvisaglie che arrivano dagli Stati Uniti. Ma io continuo a credere nel libro e nelle sue possibilità».
Le ragioni di questa tenuta possono essere differenti. Di natura merceologica, ma anche di carattere culturale. «Il libro ha il vantaggio di essere ad altissima identità», interviene Giuseppe Laterza, editore di saggistica di qualità "premiata" dalla crisi (il 2008 si chiuderà in linea con l´anno precedente, tra i più brillanti per la casa editrice nell´ultimo ventennio). Nello scaffale degli autori più richiesti figurano il sociologo Bauman, profeta della società liquida, e uno storico come Christopher Duggan, artefice di un monumentale saggio sulla nostra identità nazionale irrisolta. «A differenza di altri oggetti», spiega Laterza, «il libro identifica chi lo regala e chi lo riceve, per giunta a un prezzo molto contenuto». La libreria Laterza, a Bari, ha registrato sotto le feste un 10% in più di venduto. «Nel paniere di una società del benessere», interviene Stefano Mauri, «ci sono beni ben più voluttuari di un libro, che a conti fatti ha un costo orario assai basso in cambio di un intrattenimento molto gratificante. Un costo cresciuto meno dell´inflazione negli ultimi anni».
Ma alla spiegazione mercantile s´aggiunge un´analisi più profonda. «Quando accadono grandi eventi che colpiscono l´opinione pubblica», dice Laterza, «i libri sono strumenti essenziali per capire cosa succede. Dopo l´11 settembre aumentarono le vendite del Corano: i lettori vi cercavano le spiegazioni più complesse. Lo stesso accade ora con la crisi economica. Le persone vogliono capire in che cosa abbiamo sbagliato e come cambiare». L´enorme frastuono di un´informazione televisiva sciatta, superficiale e spesso strumentale ti spinge a cercar riparo in altri luoghi. «Si cercano analisi meno mistificatorie e superficiali di quelle propagandate dai talk show», dice Oliviero Ponte di Pino, direttore editoriale di Garzanti e autore del recente I mestieri del libro. È venuto il momento di prendersi una pausa di riflessione. «La gente ha bisogno di pensare, ritrovando una dimensione spirituale», dice Ernesto Franco, direttore editoriale di Einaudi. «Non è casuale il favore racccolto dai libri di padre Bianchi o del chirurgo Atul Gawande, che invitano a prendersi cura dei valori più profondi». Siamo dinanzi a un mutamento culturale?
Il timoniere di Segrate, Gian Arturo Ferrari, suggerisce cautela. «Non esistono generi favoriti o sfavoriti dalla crisi», anche se i lettori tendono a premiare «libri che colgono meglio di altri il senso della crisi», da qui «il successo del volume di Tremonti e la buonissima accoglienza riservata al saggio di Carlo De Benedetti e Federico Rampini». A livello più generale, secondo Ferrari, il fenomeno in assoluto più rilevante è quello dei megaseller, libri che superano il mezzo milione di copie e molto spesso il milione. «E´ un fenomeno ancora tutto da studiare, ma di fatto determina il risultato delle case editrici». Il riferimento è al milione di copie venduto da Paolo Giordano e ai due milioni raggiunti da Roberto Saviano: ma, a guardar bene, specie Gomorra rientra a pieno titolo nel genere di libri che fanno pensare. Megaseller e impegno non sono dunque incompatibili.
Il libro resiste alla crisi anche perché quello italiano rimane un mercato ancora esiguo. «Siamo protetti dalla nostra arretratezza», sintetizza Ferrari. «Non abbiamo mass market, a leggere libri regolarmente siamo cinque milioni, un decimo della popolazione adulta. Ma siamo cinque milioni di persone con un livello di istruzione elevato e di elevato livello socioeconomico. Non rinunciamo ai libri». Siamo un paese di non leggenti, ma con un´invidiabile nicchia di lettori forti, tra le più alte in Europa. «Pur contenuto», suggerisce Laterza, «il nostro s´è rivelato un settore solido, che in questi anni ha resistito alla concorrenza del web e dei quotidiani con i libri allegati». Un mercato stabile, osserva Giovanni Peresson dell´Aie, «che pur registrando modesti incrementi nei fatturati, negli ultimi anni ha dato vita a uno straordinario indotto di film, dvd, programmi satellitari». Piccolo, ma prolifico.
Il "piccolo" appare la misura favorita dalla crisi, che sembra penalizzare le vendite nei supermercati, «meno frequentati quando il piatto piange», dice Mauri, dall´osservatorio delle Messaggerie. Gli scaffali tradizionali tornano a essere luoghi di festa per il libro, come conferma una libreria storica di Bologna, la Giannino Stoppani, specializzata nell´editoria per ragazzi. «I lettori arrivano profondamente motivati, non solo spinti dalla necessità di risparmiare», dice Silvana Sola. «Sotto Natale abbiamo respirato un´atmosfera di attenzione e calore che ci conforta nella nostra scelta ormai venticinquennale».
Previsioni per l´anno che viene? Qui i toni si fanno più prudenti. Unico dato certo, le prenotazioni dei nuovi titoli sono sensibilmente calate. «I librai hanno tagliato del 10% sulle loro normali abitudini, che sono sempre caute al principio dell´anno», spiega Mauri. «Ma per sapere come andrà a finire, bisognerebbe avere la sfera di cristallo». Secondo Ferrari, è probabile un calo di qualche punto in percentuale, «più per la possibile mancanza di megaseller, che per la crisi». In generale si attende guardinghi. Nella speranza che a salvarsi nel maremoto dell´economia sia proprio il "consumo meno consumistico". Uno dei pochi, da cui ricominciare.
Repubblica 29.12.08
Madrid. Tra dei e uomini
Museo Nacional del Prado. Fino al 12 aprile.
In contemporanea con la bella mostra dedicata a "Rembrandt pittore di storie" (aperta fino al 6 gennaio), da vedere una strepitosa raccolta di scultura antica, quella degli Staatliche Kunstsammlungen di Dresda. In occasione della temporanea chiusura dell'Albertinum, l'edificio rinascimentale distrutto nel 1945 e ricostruito per ospitare le collezioni d'arte, quarantasei capolavori di scultura sono esposti in questi giorni a Madrid, insieme a venti opere importanti, provenienti dalla collezione del Prado. Entrambe le raccolte, frutto del collezionismo barocco e neoclassico, integrano versioni romane di opere greche del periodo classico ed ellenistico, originali greci con policromia antica e un nucleo eccezionale di ritratti. Tra le opere esposte, l'Efebo e Zeus di Dresda, repliche romane dell' Atena Lemnia di Fidia e del Satiro versante di Prassitele, o la Menade di Dresda. Tra i pezzi esposti, da segnalare la presenza di tre rilievi sepolcrali attici, tre terrecotte policrome di Tanagra, una serie di sculture ellenistiche di Alessandria e di altri centri, alcuni ritratti romani di grande qualit?.
Repubblica 29.12.08
Parigi. Mantegna
Musée du Louvre. Fino al 5 gennaio.
I musei francesi vantano un considerevole insieme di capolavori del maestro, di gran lunga il pi? importante conservato fuori d'Italia. Basti pensare alla Preghiera nell'orto degli ulivi , alla Vergine della Vittoria del Louvre, all' Ecce Homo del Mus?e Jacquemart Andr? di Parigi. Non stupisce quindi che il museo parigino dedichi un'importante retrospettiva a questo protagonista della pittura del Rinascimento italiano. La mostra, curata da Dominique Thi?baut e Giovanni Agosti, ripercorre le tappe principali della carriera dell'artista nel contesto in cui si ? sviluppata durante la seconda met? del XV secolo, tra Padova, Verona e Mantova, dando conto al contempo dell'influenza esercitata dalla sua pittura sull'opera dei contemporanei e della sua diffusione precoce in tutta Europa. Il percorso espositivo distribuisce centonovanta lavori in sezioni dedicate a Padova, come centro d'arte, a Mantegna e Giovanni Bellini, al Trittico di San Zeno di Verona, al periodo mantovano, al San Sebastiano di Aigueperse , allo Studiolo di Isabella d'Este , ai Trionfi di Cesare e alla ?maniera moderna?, offrendo una lettura aggiornata dell'opera del maestro, improntata all'austerit? e all'erudizione antiquaria.
Corriere della Sera 29.12.08
L’attentato a Togliatti, Stalin rimprovera il Pci
risponde Sergio Romano
Plutarco scrisse che «spesso un breve fatto, una frase, uno scherzo rivelano il carattere di un individuo più di quanto non facciano battaglie ove caddero diecimila morti». Partendo da tale considerazione, con riferimento all'attentato del 14 luglio del 1948 ai danni di Palmiro Togliatti, le domando: corrisponde al vero la versione, accreditata dallo stesso Pci, secondo cui proprio il Migliore, prima di entrare in sala operatoria, raccomandò ai suoi fedelissimi o forse alla sola Nilde Iotti di non cavalcare le insurrezioni che sarebbero certamente scoppiate, ma anzi di fare il possibile per frenarle? Era dunque veramente sfumata, almeno ai vertici del partito, la speranza della famosa «seconda ondata» rivoluzionaria che avrebbe dovuto abbattere lo Stato capitalista e borghese, sicuramente ancora molto diffusa nella base? Le faccio altresì notare che nel riportare le drammatiche conseguenze dell'evento, molti autori ricordano come la vittoria di Bartali (spronato telefonicamente da De Gasperi) al Giro di Francia abbia notevolmente contribuito a stemperare la tensione e a riportare l'ordine nel Paese. Davvero fu sufficiente — a me pare improbabile — una grande impresa sportiva per frenare la rabbia e le rivolte nelle città?
Andrea Turturro
andreaturturro@ gmail.com
andreaturturro@ gmail.com
Caro Turturro,
la frase che Togliatti avrebbe mormorato ai comunisti della sua scorta, subito dopo l'attentato, sarebbe «Siate calmi, non perdete la testa!». Molti, tuttavia, non gli dettero retta. Secondo Aldo Agosti, autore di una biografia di Togliatti pubblicata da Utet nel 2003, «la notizia del suo ferimento suscita nel Paese un'ondata di emozione enorme e una mobilitazione di massa spontanea impressionante per le sue dimensioni e la sua forza ». Credo che Agosti abbia ragione quando scrive che gli ordini non vennero dall'alto e che la reazione fu probabilmente dovuta a una sorta di automatica applicazione di «quei meccanismi di difesa che il partito aveva predisposto per l'ipotesi di una "provocazione" e di un colpo di Stato».
La direzione del partito non voleva l'insurrezione, ma discusse a lungo, sin dalla sua prima riunione, sulla strategia da adottare. Occorreva spegnere subito gli ardori della base o lasciare che desse una dimostrazione di forza? Secondo Agosti, Longo avrebbe detto a un suo collaboratore: «Se l'onda cresce, lasciala montare, se cala, soffocala del tutto». Non credo che la vittoria di Bartali nel Giro di Francia abbia avuto su quegli eventi l'influenza che le è stata attribuita. Ricordo bene le giornate dell'attentato perché tornai in Italia da Parigi dopo il trionfo del ciclista toscano e assistetti alla nascita della leggenda. Ma credo che le dimostrazioni e gli scioperi si siano spenti per due ragioni. In primo luogo, il partito sapeva che non vi erano, dopo la cocente sconfitta del 18 aprile, le condizioni per la conquista del potere. In secondo luogo, il governo e in particolare Mario Scelba, ministro degli Interni, dettero prova di grande fermezza. Mentre il Paese scioperava, il partito comunista era occupato a decifrare il significato di un telegramma in cui Stalin, tra l'altro, si diceva «contristato dal fatto che gli amici del compagno Togliatti non siano riusciti a difenderlo». Era certamente un rimprovero, ma non era facile intenderne il senso. Forse Stalin lamentava che il partito non avesse un'organizzazione sufficientemente «militare». Forse diceva indirettamente: cercate di evitare situazioni che potrebbero sfuggirvi di mano, divenire crisi internazionali e ricadere sulle spalle dell'Unione Sovietica.
La partita, alla fine, fu vinta da Scelba. Quando la polizia e i prefetti restaurarono l'ordine, il ministro dell'Interno del governo De Gasperi lanciò quella che Giorgio Bocca, nella sua biografia di Togliatti pubblicata da Laterza, ha definito, forse con troppa enfasi, «la grande repressione ». Furono aperte inchieste, denunciati gli agitatori, e rinviate a giudizio circa settemila persone. A giudicare dalla particolare solerzia con cui vennero prese di mira le Camere del lavoro, Scelba voleva «colpire (...) i quadri intermedi del partito e del sindacato». Erano per l'appunto le forze che si erano spontaneamente mobilitate ed erano sfuggite al controllo del vertice del Pci.
Corriere della Sera 29.12.08
Bruno De Finetti. Il padre del relativismo
di Giulio Giorello
Il suo pensiero, a partire dagli anni Trenta, demolisce la vecchia idea della ricerca «intesa come scopritrice di verità assolute» e la rende «carne della nostra carne, frutto del nostro tormento»
Matematico scomodo, rifiutò di fare della scienza un idolo Irredentista, fascista della prima ora, simpatizzò con il '68
Gli studenti contestano i professori? La maggioranza dei «baroni» trova che sia uno scandalo. «Io credo, invece, che si debba chiedere il privilegio di essere i principali imputati: solo accettando e sollecitando la critica... potremo liberare le molte e valide energie latenti che si trovano tra noi, accendere la volontà di rinnovamento, combattere con fiducia e con fermezza la battaglia contro i mali che altrimenti continueranno a sopraffarci e cui saremo costretti ad assuefarci, non foss'altro che per non morire di rabbia». Così il matematico Bruno de Finetti (1906-1985) parlava della «rivolta degli studenti» nel formidabile Sessantotto: «Se i giovani non rifiutano a 18 o 20 anni quello che è da rifiutare nella società, non ne saranno capaci mai più».
Fa bene leggere parole come queste in momenti in cui alcune tendenze «revisioniste» liquidano come infantile o dogmatica la «ribellione» di quarant'anni fa — dimenticando cos'era l'Italia di allora e come quella «rivolta» abbia contribuito a cambiarla: dalla condizione femminile a una concezione laica della famiglia, dal diritto allo studio allo svecchiamento delle strutture burocratiche (altro che ridurre il Sessantotto alle squallide esibizioni muscolari dei servizi d'ordine di qualche gruppetto neostalinista). Era l'epoca di slogan come «l'immaginazione al potere». Bruno de Finetti non avrebbe mai pensato al potere politico, bensì a quello dell'intelligenza scientifica e artistica: l'immaginazione è «l'energia mentale che permette l'emergere della novità». Un'energia che a torto una scuola fossilizzata reprime «facendo passare per sempre la voglia ai giovani di occuparsi di tutte le cose che vengono loro insegnate». Bastano riflessioni del genere a farci capire perché de Finetti fosse davvero «un matematico scomodo» — così recita il titolo del volume costruito dalla figlia Fulvia de Finetti e dal giornalista Luca Nicotra come una sorta di «intervista postuma »; che sfrutta non solo pubblicazioni scientifiche ma anche interventi estemporanei, articoli su quotidiani e riviste, lettere a colleghi e familiari ( Bruno de Finetti. Un matematico scomodo, Belforte, pp. 293, € 22).
Nato a Innsbruck da famiglia italiana, «piccolo simpatizzante dell'irredentismo» affascinato dal «patriota» Cesare Battisti, poi fascista della prima ora («movimentista», per usare la terminologia dello storico Renzo De Felice), inizialmente studioso di genetica delle popolazioni, passato quindi alle basi concettuali del calcolo delle probabilità, grande maestro della statistica italiana prima ancora che cattedratico universitario, decisamente avverso a sfruttare la sua affiliazione politica per fare carriera — e, nel secondo dopoguerra, sempre più incline ad appoggiare battaglie libertarie (come quelle condotte dal Partito radicale) — Bruno de Finetti riassume non poche contraddizioni del secolo scorso, ma anche le speranze per quello in cui noi stiamo vivendo. I suoi tentativi di liberare il calcolo delle probabilità da qualsiasi incrostazione metafisica, di rendere l'insegnamento della matematica più vicino alle esigenze dei fisici, degli economisti o degli ingegneri, la sua fiducia nella «economia di pensiero» consentita dai nuovi mezzi dell'informatica non sono soltanto elementi interni a una riflessione che lo aveva condotto dalla matematica alla filosofia, ma scelte di vita in cui continuamente lo studioso si metteva alla prova senza timore di quella «critica» che costituisce il lievito della crescita scientifica come della fioritura di una società libera.
Senza bisogno di entrare in particolari tecnici, basterà ricordare come l'impostazione soggettivistica di de Finetti nel campo della probabilità (semplicemente «il grado di fiducia che ognuno sente nel verificarsi di un dato evento») non solo non distrugge il carattere intersoggettivo dell'impresa tecnico-scientifica, ma anzi lo esalta. Come scriveva nel suo capolavoro del 1931 (dal titolo Probabilismo), con il soggettivismo viene meno solo una concezione della scienza «intesa come scopritrice di verità assolute» (che rimane «disoccupata» per mancanza di tali verità!), «ma mentre cade infranto il freddo idolo marmoreo di una scienza perfetta, eterna e universale», compare «al nostro fianco una creatura viva, la scienza che il nostro pensiero liberamente crea: carne della nostra carne, frutto del nostro tormento, compagna nella lotta e guida alla conquista».
Lo stesso spirito si ritrova nella splendida lezione filosofica che nel 1934 Bruno aveva dedicato all'Invenzione della verità — testo che ha visto la luce solo due anni fa grazie alla cura di Fulvia (Raffaello Cortina, pp. 204, € 19). La logica «viva e psicologica » invocata da Bruno non nega la verità scientifica; piuttosto, rifiuta di farne un idolo. Lo stesso dovrebbe dirsi delle strutture istituzionali, a cominciare dallo Stato: mezzi cui si ricorre per soddisfare ai nostri bisogni e desideri, non fini a cui sacrificare l'autonomia degli individui o l'indipendenza dei popoli. Solo così i nostri concetti fondamentali — dalla matematica alla morale — non si riducono alle marionette di una commedia dove ogni ruolo è definito una volta per tutte, ma restano «i sei personaggi in cerca d'autore» di Pirandello, capaci di stimolare il cambiamento in campo scientifico e tecnologico. Relativismo? Fin dai lavori degli anni Trenta, Bruno de Finetti non aveva paura di pronunciare quella parola che oggi sembra tanto godere di cattiva stampa! Mi sia lecita una nota personale: in un appassionato intervento sul Corriere del 12 dicembre, Claudio Magris — alludendo anche al mio dialogo con Dario Antiseri sulla Libertà (Bompiani, pp. 180, € 17) — ha ripreso la fiera immagine dei calvinisti scozzesi che pregano Dio restando in piedi e non strisciando in ginocchio. Quel loro Dio non era un sapere assoluto, ma l'impossibilità di un sapere di tal genere! In un bel libro ( Molte nature. Saggio sull'evoluzione culturale, Raffaello Cortina, pp. 172, € 18) scrive il fisico Enrico Bellone: «Solo gli dei promulgano verità non negoziabili. Gli umani, invece, fabbricano teorie per meglio adattarsi al loro ambiente »; e nelle comunità ove si tende ostinatamente a proteggere dalla critica principi o valori «non negoziabili» si finisce col portare in tribunale l'innovazione, come vari episodi mostrano: dalla condanna di Galileo all'attuale messa sotto accusa delle biotecnologie. Sono d'accordo con de Finetti: teniamocelo stretto, il relativismo — è uno dei modi di resistere a tutto quello che non ci piace del nostro Paese e «non morire di rabbia»!