venerdì 2 gennaio 2009

Repubblica 2.1.09
Le libertà dell’uomo
Il caso Englaro e la necessità di una legge sul testamento biologico
Referendum sul diritto di morire
di Luca e Francesco Cavalli Sforza


Un bilancio sul caso Eluana che ha segnato il confronto del 2008
Quando si nega il diritto di morire
Nessuno chiede la nostra opinione prima di metterci al mondo: perché non dovremmo essere liberi di andarcene? È necessario un referendum sul testamento biologico
Anche se si tratta di un giovane sano con quale autorità si può impedirgli di togliersi la vita?
La Chiesa è anche contro l'aborto terapeutico di un ovocita appena fecondato

Se uno di noi volesse negare a un altro il diritto di vivere (a una donna di partorire, per esempio, o a chiunque di esistere), tutti insorgeremmo, si spera, e cercheremmo, potendo, di impedirglielo. Tant´è vero che in Italia e in Europa non ammettiamo la pena di morte. Ma se qualcuno rivendica il diritto di morire, glielo si nega, anzi si va a qualunque estremo per rifiutarglielo. Il caso di Eluana Englaro ci getta in faccia con evidenza macroscopica, anzi spaventosa, questo dato di fatto. Perché una persona non dovrebbe avere il diritto di morire?
Che la persona sia vecchia e malata, tormentata da sofferenze insopportabili, o che sia giovane e sana, nel pieno delle sue forze: anche se avesse ogni ragione di vivere la vita, ma decidesse invece di togliersela, e qualunque fosse il motivo del suo gesto, che diritto avremmo di negarglielo? Privare se stessi della vita è una follia, d´accordissimo. Ci ripugnerà, non c´è dubbio. Sarà come minimo doveroso fare tutto il possibile per evitare che una persona commetta questa pazzia, darle un supporto che la possa aiutare a scoprire un senso nella vita. Ma se ha deciso di farla finita, con quale autorità glielo si può impedire?
In Italia, ci informa l´ISTAT, 2867 persone si sono uccise nel 2007: quasi 5 persone per ogni centomila abitanti. La vita è l´unico bene che abbiamo, la fonte di ogni altro bene: chi se la toglie lo fa di solito per disperazione o dolore o infelicità intollerabili, perché non sopporta più di vivere. Che sia la rovina economica a portare al suicidio, o il peso delle proprie azioni sbagliate, o un ricatto esterno, o la vergogna, o la semplice alienazione, perché con nulla e nessuno nella vita riusciamo a interagire, o qualunque altro sia il motivo, chi si suicida ha le sue ragioni per farlo, e ciascuna di queste è una sconfitta. In passato però, e per secoli, ci si è suicidati anche solo per onore (una tradizione che in Giappone è ancora viva). I suicidi imposti da tiranni, come quello di Seneca, non sono stati visti come sconfitte, ma come affermazioni di libertà interiore anche davanti alla morte. Libertà va cercando, ch´è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta, dice Virgilio presentando Dante.
Che il suicidio sia una cosa terribile è un´affermazione che ci trova tutti d´accordo: siano più o meno felici o infelici, circa 99.995 italiani su 100.000 non si privano del proprio bene fondamentale. Ma cosa ci dà il diritto di vietare ad un altro di togliersi la vita, al punto di considerare il suicidio un reato?
Se la persona in piena lucidità è determinata a porre termine ai suoi giorni, chi siamo noi per negarle la possibilità di farlo?
Cosa sappiamo della vita e della morte? Cosa ci autorizza a rifiutare il diritto di disporre della propria morte, mentre riconosciamo il diritto di indirizzare la propria vita? Chi è religioso invocherà la volontà di Dio, che avrebbe creato l´individuo, ma perché mai questa convinzione dovrebbe valere per chi non vede da nessuna parte la presenza di un Dio?
Che ogni individuo sia libero e responsabile delle proprie azioni: così vogliamo le nostre società. Se lo Stato o la Chiesa o la famiglia o chicchessia pensa di avere qualcosa da dare o da rivendicare, che lo faccia: parli con la persona, dia una mano se può. Ma se non può, o non ne è capace, o quanto fa non serve, che rispetti la scelta dell´aspirante suicida. Negare la libertà di morire è ridicolo per due ragioni: intanto perché chi vuole suicidarsi prima o poi ci riuscirà, se non è stretto in una camicia di forza o reso incosciente dai farmaci (e, beninteso, ci sono situazioni che lo esigono). Ma nessuno in definitiva può impedirgli di uccidersi, una volta tornato a casa. Seconda ragione: la nostra morte è certa, già che siamo vivi, anzi è forse l´unica certezza universalmente riconosciuta. Perché mai una persona nel pieno delle proprie facoltà mentali non dovrebbe essere libera di decidere il tempo e il modo della propria morte, anziché affidarli alla natura e al caso? Chi nasce è comunque destinato a morire.
Una società che voglia dirsi civile non può negare ai suoi membri il diritto di decidere della propria morte. Il testamento biologico, norma di elementare rispetto della libera volontà dell´individuo, è tabù da noi in sede legislativa. I tentativi di portarlo all´attenzione sono ricacciati come polvere sotto il tappeto. L´idea che una persona possa disporre le condizioni della propria morte, in determinate circostanze - per esempio, se si ritroverà in coma vegetativo permanente - è così controversa da terrorizzare i politici. Eppure, né i politici, né gli ecclesiastici, né i medici, né nessuno probabilmente, sa che cosa accade o non accade in quello spazio intermedio fra la vita e la morte che è il coma. Nessuno sa se rimanga qualcosa di ciò che consideriamo il nostro io o che chiamiamo "coscienza". Già che nessuno lo sa, perché la scelta non dovrebbe spettare al diretto interessato?
Nella vicenda di Eluana Englaro, in coma da quasi diciassette anni dopo averne vissuti ventidue, si è giunti allo scontro istituzionale, un po´ come se la magistratura ordinasse la scarcerazione di un detenuto ma il potere esecutivo lo ricacciasse in cella. Eppure la ragazza, sconvolta dall´analoga sorte di un amico, aveva espresso con forza e con chiarezza ai genitori la sua volontà di non essere intubata, se qualcosa del genere fosse accaduto a lei. In un Paese dove ogni giorno muoiono in media quattro lavoratori per incidenti sul lavoro, per lo più dovuti al mancato rispetto di norme di sicurezza che i governi non si preoccupano di fare osservare, quale sadismo senza nome può spingere il ministro a tenere in vita chi è prigioniero del proprio corpo e ha espresso, quando poteva, il desiderio di liberarsene? in nome di quale vita? certo non di quelle che si perdono ogni giorno nelle fabbriche e nei cantieri. Perché il ministro del Lavoro e della Salute non esercita là la sua solerzia?
Bisognerebbe chiedere ai cittadini se il testamento biologico è ammissibile. Può l´individuo decidere, in piena consapevolezza, quale deve essere la sua sorte se dovesse perdere coscienza per un tempo illimitato, o se non fosse più in grado di esprimere la propria volontà? Può lasciare scritto: «Staccate i tubi»; oppure: «Tenetemi in vita comunque, finché possibile»; o ancora, poniamo: «Tenetemi in vita per sei mesi, poi lasciatemi morire»? Non si può pretendere che i cittadini si esprimano per referendum su temi che richiedono competenze speciali, come l´ingegneria genetica o le strategie energetiche, ma a chi spetta, se non a loro, decidere se chi è nato è libero di scegliere la propria morte? E sperabile credere che vincerebbe il parere: «Io sono padrone della mia vita». Se la Chiesa davvero crede nella libertà dell´uomo, perché non lascia le persone libere di morire? Nessuno ha chiesto la nostra opinione, prima di metterci al mondo: perché non dovremmo essere liberi di andarcene? Cercare la morte non è nella natura dell´uomo, né di alcun essere vivente: ma quanti hanno cercato la morte nelle guerre, e peggio ancora l´hanno data, magari con la benedizione della stessa Chiesa? Se lo Stato invece ritiene che chi si uccide leda un diritto fondamentale e danneggi la comunità, privandola di se stesso, che si adoperi per creare le condizioni perché le persone non si gettino nella morte. Nessuno può credere che chi si suicida lo faccia volentieri.
Il discorso è lo stesso per un altro punto fermo della Chiesa Cattolica, il divieto di aborto profilattico. E questa una situazione molto più frequente dei coma e assai dolorosa per il malato che è costretto a nascere e per la sua famiglia. Qui non sappiamo certo che cosa pensi il soggetto in gestazione, al terzo mese di gravidanza. La Chiesa, comunque, estende il diritto alla vita alla cellula-ovo appena fecondata dallo spermatozoo, in cui subito verrebbe ad abitare un´anima. Il grande teologo San Tommaso d´Aquino non avrebbe avuto problemi con l´aborto profilattico, perché diceva che l´anima entra nel corpo solo quando il feto ha assunto forma pienamente umana. Nel caso di Eluana, come in quello di tutti i futuri malati di gravi malattie genetiche la cui nascita può venire oggi evitata, la sofferenza dei parenti e i costi alla società sono molto gravi, ma vengono ignorati. I genitori che fanno nascere coscientemente un bimbo gravemente e irrimediabilmente danneggiato si assumono doveri e pene tremende, e lo stesso ci sembra valere per i parenti di una persona in coma profondo, se, avendo tentato con ogni mezzo di riportarla in vita ed essendovi in qualche modo riusciti, se la ritrovassero con danni gravi e permanenti.
In un certo senso sorprende, questo attaccamento della Chiesa alla vita, anche quando non sia che un barlume cui solo le macchine impediscono di spegnersi, perché in fondo la Chiesa promette al fedele un futuro ben più luminoso di questa vita. Ma Chiesa o Stato che sia, chi può pronunciarsi o legiferare su ciò che non conosce? E chi fra i vivi può sindacare sulla morte?

Repubblica 2.1.09
Morucci in cattedra, tensione alla Sapienza
L’ex Br invitato a Scienze umanistiche, critiche di docenti e studenti
L’ideatore dell'iniziativa: "Un poliziotto mi ha detto che può servire ai giovani"
di Carlo Picozza


ROMA - È polemica alla Sapienza sulla "lezione" dell´ex brigatista rosso Valerio Morucci. Tra dieci giorni nell´università storica di Roma l´ex terrorista, che fu nel gruppo di fuoco del sequestro di Aldo Moro, dovrebbe tenere una conferenza.
Via email, l´invito è arrivato a «docenti e studenti»: «Lunedì 12 gennaio dalle 18.30 alle 20.30, si terrà un incontro con Valerio Morucci su "Cultura, violenza, memoria"». In allegato, 13 pagine dell´ex brigatista con il racconto delle sue esperienze, dagli scontri di Valle Giulia all´incontro con Giangiacomo Feltrinelli (titolo: "Schegge di memoria"). A firmare la convocazione è la segretaria del dottorato di ricerca in Letterature di lingua inglese. È il 16 dicembre e subito si levano le critiche di docenti e studenti. Innescando divisioni tra i promotori che ritengono utile la testimonianza di Morucci per «scongiurare altri tragici errori» e quanti additano come «cattivo esempio la legittimazione accademica verso chi si è macchiato di sangue».
Ecco allora, sempre online, una «lettera di chiarimento sul caso Morucci». È il 28 dicembre e a scriverla è l´ideatore dell´iniziativa, Giorgio Mariani, ordinario di Letteratura angloamericana nella facoltà di Scienze umanistiche: «Mi scuso della leggerezza di aver chiesto alla nostra collaboratrice di spedire l´invito, senza spiegare la natura e il contesto dell´incontro con Morucci». Quindi, le precisazioni: «Si tratta di una iniziativa all´interno di una delle mie lezioni di Letteratura americana. L´ho promossa perché sollecitato da un ufficiale della polizia di Stato che segue il percorso post-carcerario di alcuni ex terroristi». Mariani argomenta: «Le autorità di polizia e di giustizia vedono con favore questi incontri che possono avere un contenuto educativo perché aiutano le nuove generazioni a scansare la tentazione di ripetere scelte sbagliate, in particolare in un momento in cui la protesta legittima di studenti e giovani si fa sentire nuovamente». «Ma così», ribatte Rosy Colombo, ordinario di Letteratura inglese, «si dà per scontato un rapporto diretto tra protesta studentesca e pratica terroristica». Ancora Mariani: «Vorremmo solo far spiegare a uno che ha commesso tragici errori, che la scorciatoia della violenza è sempre e comunque sbagliata». Mariani si dice convinto che «tra i compiti di noi educatori c´è quello di riflettere su aspetti della nostra storia che sarebbe sbagliato rimuovere come se mai fossero accaduti». E «il dialogo con i funzionari di polizia e con Morucci (che ha già partecipato a numerosi incontri del genere, compreso quello al liceo Giulio Cesare) mi ha convinto della bontà dell´iniziativa». «Come cittadino prima che come docente», replica Piero Marietti, ordinario di Ingegneria elettronica, «ritengo inopportuno far tenere lezione all´università a una persona con quel passato». E Mariani: «Rispetto l´opinione di chi mi dice che mai aderirebbe a tale iniziativa, neanche se la proponesse il ministro di Grazia e Giustizia. Io l´accetterei anche se al posto di un ex brigatista dissociato e che ha scontato la sua pena, ci fosse un ex terrorista nero in condizioni analoghe».
«L´università», sostiene invece Marietti, «darebbe un cattivo esempio legittimando chi, anche se dissociato, si è macchiato di sangue». «Quando ho letto la lettera», aggiunge Rosy Colombo, «sono trasecolata e con me, altri colleghi e molti studenti. Mi sarei aspettata però una reazione pubblica e più corale. Invece, le critiche sono rimaste tra le mura dell´ateneo, limitate al botta e risposta tra i singoli».

Repubblica 2.1.09
Quei "padri" che giurano sulla bibbia dei Massoni
Reagan giurò a meno 10 gradi, il diluvio accolse George W. Bush nel 2001
Washington la chiese al Gran Maestro della loggia numero 1 di New York
di Vittorio Zucconi


È un giorno di festa, è un giorno di presentimenti. Più che un´incoronazione, un battesimo, con la famiglia americana raccolta attorno al fonte civile, il Campidoglio, che osserva la nuova creatura chiedendosi che cosa diventerà da grande, nel tempo che la Costituzione, o il destino, gli concederà. Gli aruspici guardano il cielo e il termometro: se fa molto freddo in quel giorno di gennaio, saranno anni fausti. Se la temperatura sarà mite, il primo bambino d´America crescerà male. Superstizione, ma funziona. Presidente raffreddato, presidente fortunato.
Faceva ancora molto freddo, nel mese di aprile 1789 quando il primo figlio e insieme il padre della democrazia americana, George Washington intraprese il viaggio di 500 chilometri in carrozza dalla sua piantagione di Mount Vernon, in Virginia, verso New York, dove avrebbe prestato giuramento, non avendo ancora l´America una capitale.Ci arrivò esausto, costretto a fermarsi dozzine di volte nei paesi della costa, dove cittadinanze festose erigevano archi di rami e ghirlande e implacabili sindaci volevano pronunciare il proprio pistolotto retorico. Ma ci arrivò, portando in tasca una lettera del padre del federalismo, James Madison, che chiedeva scusa al governatore di New York per il ritardo del ragazzo, come la giustificazione di un genitore al preside. La formula che finalmente pronunciò: «Solennemente giuro di eseguire fedelmente l´incarico di Presidente degli Stati Uniti e di preservare, proteggere e difendere la Costituzione degli Stati Uniti» sarebbe rimasta invariata per 219 anni e 43 presidenti, fino al 44esimo, Obama.
Ma non proprio. Da quella prima assunzione al tempio di George Washington, il filo di qualche mistero e di qualche controversia percorre la storia di questi battesimi o unzioni laici. George Washington volle una Bibbia, ma la sua Bibbia non fu fornita da un devoto pastore luterano, ma dalla loggia massonica numero 1 di New York, ennesima prova delle radici profondamente massoniche dei cosiddetti «padri fondatori» della democrazia americana. E se la storia edificante poi scritta per i fanciulli vuole che alla fine Washington abbia esclamato un´altra frase divenuta da allora quasi inevitabile, «and so help me God», e che Dio mi assista, nella puntigliosa cronaca della cerimonia inviata a Parigi dall´ambasciatore francese Monsieur de Moustier, quell´invocazione a Dio, curiosamente, manca.
Forse a questa assenza, o distrazione del diplomatico, si aggrappò Teddy Roosevelt, assumendo la presidenza sul cadavere ancora caldo dell´assassinato McKinley nel 1901, a Buffalo, respingendo - unico nella storia - la Bibbia ed evitando l´invocazione all´aiuto di Dio, dimostrandosi quel «maledetto, fottuto cowboy» che i repubblicani conservatori aborrivano. Ma la Bibbia dei Massoni utilizzata da Washington ebbe comunque notevole fortuna e sulle sue pagine aperte posarono la mano Harding, Eisenhower, Carter il pio e George il Vecchio. E dopo lo scatto laico del "colonnello" Roosevelt all´alba del XX secolo, nessuno dei suoi successori avrebbe più osato saltare la preghierina al Signore, sotto pena di apparire empio e negatore. Meno di tutti Barack Obama, che la destra più catarrosa accusò, in campagna elettorale, di essere un infedele islamico deciso a giurare sul Corano.
L´avrebbe voluta utilizzare anche Giorgino Bush, «W», nel 2001, ma l´acqua che scendeva a secchiate su Washington quel mattino sconsigliò l´uso di un tomo così antico e fragile. Ma almeno - brutto auspicio - non faceva molto freddo quando «W» giurò, certamente non come i meno dieci gradi centigradi che accolsero Ronald Reagan sul palco di legno eretto davanti al palazzo del Congresso, al Campidoglio, e che dissuasero il settuagenario presidente dalla passeggiata a piedi lungo la "via triumphalis", la Pennsylvania Avenue che unisce, per un chilometro e mezzo, il Parlamento, cioè il legislativo, dalla Casa Bianca, il potere esecutivo. Reagan saggiamente in soprabito e la sua Nancy si tennero i piedi al caldo con la stufetta elettrica nascosta dietro la balaustra del giuramento e restarono dentro la "Lincoln Continental" blindata del presidente. Quello che quattro anni prima Jimmy Carter, mano nella mano della sua amata parrucchiera per signora, Rosalynn Carter, non volle fare, percorrendo a piedi tutto il chilometro, approfittando di una inusuale mitezza del clima per gennaio. E infatti quattro anni dopo venne sonoramente trombato.
È soltanto dal 1937 con Roosevelt, Franklyn Delano, lontano cugino del «fottuto cowboy» Theodore, che un emendamento costituzionale fissa al 20 gennaio il giorno della "inauguration", lasciando invece alla scelta e alla semplice tradizione il luogo dove svolgere la cerimonia. Di fatto, tutti si sono dovuto rassegnare alla gradinata del Parlamento, in omaggio simbolico alla Costituzione che indica nelle Camere, e non nel governo, il fonte battesimale, non sempre limpidissimo, della legittimità democratica. La sola eccezione volontaria fu dello stesso FDR che alla sua quarta e ultima incoronazione nel 1945 dovette arrendersi alle gambe ormai incapaci di sorreggerlo e giurò dal proprio studio alla Casa Bianca. Almeno non fu costretto dalla crudeltà dell´ora, come Lyndon Johnson, nella sera del 22 novembre 1963, quando mormorò la sacra formula liturgica, con il braccio destro alzato ma un po´ rattrappito dallo shock, davanti alla bara di John F. Kennedy, accanto a una vedova con l´abito ancora intriso di sangue e di materia cerebrale, nella carlinga del Boeing 707 Air Force.
Eppure aveva fatto molto freddo anche la mattina del 20 gennaio 1961, quando l´uomo che sarebbe tornato a casa dentro una bara bianca aveva lanciato quelle parole ancora oggi magiche, «la torcia passa a una nuova generazione....» che sicuramente Barack Obama evocherà fra 18 giorni. Il vento, che su Washington soffia sempre da nord ovest, quindi gelido dal Canada e dai Grandi Laghi, gli muoveva il ciuffo, ma non indossava cappotto, perché la liturgia vagamente medievalista vuole che il «re santo» sfidi natura e intemperie e si presenti in giacchetta. Sicuramente, anche il giovane, robusto, muscoloso Obama cercherà di evitare cappottini e sciarpette, giurando sulla Bibbia di Lincon, non su quella della Grande Loggia di New York, confidando nella cabala del freddo che fece di Kennedy un grande rimpianto, in un storia umana troppo breve. «Sì, ma fra quattro anni, se fa ancora così freddo, il cappotto io me lo metto» batté i denti JFK con il fratello poche ore dopo alla Casa Bianca. Non sapremo mai se l´avrebbe fatto davvero.

Repubblica 2.1.09
Franz Kafka. Impiegato fannullone? No, modello
Genio e regolatezza. Una biografia ne documenta lo zelo in ufficio
di Siegmund Ginzberg


Kundera lo definì "il segretario dell´invisibile" per la sua capacità di andare in profondità
"Di tutti gli scrittori", notò Elias Canetti, "è il massimo esperto sul potere"
Gregor Samsa ha paura che i suoi superiori lo giudichino un assenteista
"Il Castello" è una grande allegoria della burocrazia che lo scrittore ben conosceva
Era lecito sospettare che il romanziere trascurasse il suo lavoro in un Istituto per le assicurazioni Invece un nuovo libro mostra la stretta relazione tra gli scritti impiegatizi e lo straordinario mondo kafkiano

Era lecito sospettare che l´impiegato Franz Kafka fosse un burocrate fannullone. Dove mai poteva trovare il tempo di immaginare tutto quello che ha immaginato, scrivere tutti quei racconti, tutti quei romanzi, tutti gli abbozzi e i rifacimenti, le cose che pubblicò, i manoscritti che affidò all´amico Max Brod chiedendogli di bruciarli, e le carte che stracciò lui stesso, e i diari, e le lettere alle fidanzate, se non nell´orario di ufficio? Se non imboscandosi dietro la scrivania, facendo finta di lavorare mentre pensava ad altro, la testa tra le nuvole? E invece no. Viene fuori che al contrario si portava l´ufficio in casa, travasava nei romanzi e nel resto il suo lavoro da impiegato, che faceva praticamente gli straordinari anche nel tempo libero. È la sorprendente scoperta di un libro fresco di stampa, Kafka: The office Writings (Princeton University Press, copyright 2009). I cui curatori, Stanley Corngold, Jack Greenberg e Benno Wagner, non si limitano a tradurre per la prima volta in inglese quello che Kafka scriveva in ufficio (le relazioni e la corrispondenza da impiegato dell´Istituto per le assicurazioni contro gli infortuni sul lavoro di Praga, i pareri legali, l´attività da speech writer per il suo capufficio), ma lo collegano direttamente, in modo meticoloso, perfino un po´ pedante, ai suoi scritti letterari.
Nato nel 1883, laureatosi in legge all´Università tedesca di Praga, Kafka aveva brevemente lavorato per la triestina Assicurazioni Generali, prima di essere assunto dall´Istituto alle cui dipendenze rimase ininterrottamente dal 1908 al 1922 (non fece la Grande Guerra perché nel 1915 era stato esonerato dal servizio militare in quanto impegnato in attività di "interesse pubblico"), finché non lasciò l´incarico "per motivi di salute" (la tubercolosi che l´avrebbe ucciso un paio di anni dopo, nel 1924). L´Istituto, che aveva in organico circa duecento tra avvocati, matematici, ingegneri, medici, impiegati, dattilografi e personale di supporto si occupava di tutti gli aspetti dell´anti-infortunistica. Aveva iniziato come esperto nella minuziosa classificazione delle industrie e dei rischi connessi, e dei contributi dovuti dai datori di lavoro, era passato a dirigere la commissione di revisione dei ricorsi e si era affermato come alter ego dei massimi dirigenti, scrivendone le relazioni. Gran parte di questi "scritti d´ufficio" sono dedicati a respingere le istanze di datori di lavoro che chiedono di essere esentati dalle loro responsabilità o riduzioni dei contributi a loro carico. Ad esempio ha a che fare col ricorso di un proprietario di alberghi che rifiuta di pagare le quota di assicurazione per l´ascensore con l´argomento che il motore è all´esterno, quello di un proprietario di cave che vorrebbe assicurare i suoi operai come braccianti agricoli e quello dei fabbricanti di giocattoli che si lamentano degli oneri che rischiano di mettere la loro produzione "fuori mercato" rispetto alla concorrenza internazionale.
Negli articoli destinati alla stampa, scritti su ordine e con la forma dei superiori che gli avevano commissionato una difesa delle assicurazioni in crisi, Kafka riesce a destreggiarsi tra le critiche provenienti da tutte le parti, tra le pressioni dei datori di lavoro che tirano solo a risparmiare e quelle dei sindacati ai quali ricorda che distribuire piccoli risarcimenti e pensioni di invalidità a pioggia finisce per sottrarre risorse al risarcimento degli incidenti più gravi. È in questo campo che si forma come maestro dell´ambiguità, del dire e non dire. «Scritto un articolo sofistico? a favore e contro l´Istituto», la confessione di suo pugno in una delle lettere a Felice. A un certo punto si trova ad affrontare, in una nota al Ministero dell´Interno, il problema degli ispettori che danno quasi sempre ragione ai datori di lavoro, mentre il loro compito dovrebbe limitarsi all´analisi dei fatti. Lamenta che «dopo 25 anni di esistenza delle assicurazioni contro gli infortuni le agenzie non hanno il diritto di ispezionare i luoghi di lavoro che assicurano», e che le informazioni fornite dalle imprese «sono così difettose e inadeguate che non rappresentano affatto la realtà attuale e finiscono col determinare una distribuzione totalmente ingiustificata degli oneri». La conclusione, molto "kafkiana", è che non c´è rimedio, perché ogni volta che l´Istituto fa obiezioni, gli viene risposto che si tratta di "un caso eccezionale", quindi si ottiene "piena soluzione in principio", ma completamente "futile" in pratica, perché "tutti si dimenticano della normativa nel momento stesso in cui viene emanata". Si occupa anche di psichiatria quando gli viene dato l´incarico di istituire un ospedale per la riabilitazione dei soldati affetti da "shock da esplosioni". "Patriottismo" non è sacrificarsi per lo Stato, è occuparsi degli individui, la sua argomentazione. C´è anche un documento del 1909 in cui propone di estendere l´assicurazione obbligatoria alle automobili, definendo l´automobile privata come "impresa" e il guidatore come "proprietario". L´argomento, osservano i curatori nel commento, sarebbe sfociato nella pagina del romanzo Amerika dove le automobili diventano quasi persone ansiose di "raggiungere il più velocemente possibile i loro proprietari".
Una corposa sezione contiene le lettere che Kafka indirizzava ai suoi datori di lavoro. Tutte quelle dal 1910 al 1917 sono richieste di aumento dello stipendio: non generiche ma veri e propri saggi, dense fitte di statistiche sul diminuito potere d´acquisto e quelle che riteneva sperequazioni rispetto agli stipendi in altre branche della pubblica amministrazione. In particolare, nota la "palese disparità di trattamento" tra le sue competenze e quella di altri impiegati con meno esperienza, non giustificata "né dall´anzianità né dalle mansioni svolte". Anche in questo siamo tutti un po´ Kafka. Ma lui era anche ebreo, e già il fatto di essere stato assunto in un ruolo di dirigente nel pubblico impiego era all´epoca un´eccezione, se non un privilegio. Anche mio nonno Siegmund era avvocato, ma per esercitare aveva dovuto emigrare dalla Romania a Costantinopoli.
Il lavoro d´ufficio al Kafka scrittore andava evidentemente stretto. Ma al tempo stesso non ne avrebbe potuto fare a meno. Non passava giorno senza che avesse da scrivere qualcosa per l´ufficio. Ma al tempo stesso non c´è suo scritto in cui non ricompaiano, trasformati, gli stessi temi. Una simbiosi, si potrebbe dire. Nel 1913 scrive alla fidanzata Felice Bauer lamentandosi che «la scrittura e l´ufficio non si possono conciliare, dal momento che la scrittura ha il suo centro di gravità nella profondità, mentre l´ufficio si colloca nella superficie della vita. Così va su e giù e uno finisce con l´essere dilaniato nel processo». «L´inferno vero è qui in ufficio, nient´altro può crearmi terrore», aveva calcato. All´altra fidanzata, Milena, aveva descritto il suo ufficio come «non stupido, ma fantastico (phantastisch, che evoca insieme spettrale e fantastico)».
Il Castello, il suo romanzo incompiuto, è stato da alcuni interpretato come allegoria religiosa. Ma altri vi hanno visto un´allegoria della burocrazia. Parla di un aspirante impiegato, l´agrimensore K. che non sa bene se è stato davvero assunto, ed è incerto su quali mansioni debba effettivamente svolgere. Gli vengono affiancati due "assistenti" di cui non vengono mai spiegate le funzioni. Mentre cerca continuamente chiarimenti da un management completamente al di fuori della sua portata, gli viene assegnato un supervisore inaccessibile quanto il castello in cui è asserragliato. Nella Colonia penale è il burocrate capo a finire spellato vivo, nella soddisfazione generale, dalla sua macchina.
L´ufficio è ben presente anche nel più noto dei racconti di Kafka, uno dei pochi da lui pubblicato, la Metamorfosi. Gregor Samsa è un impiegato, ossessionato dal non essere giudicato dai suoi superiori alla stregua di fannullone, assenteista, quanto dalla sua improvvisa trasformazione in insetto. «Suonarono alla porta di casa. "È qualcuno dell´ufficio" si disse Gregor, e si sentì quasi agghiacciare mentre le sue zampine ballavano ancora più velocemente. A Gregor bastò intendere la prima parola di saluto del visitatore per capire subito chi fosse? Perché mai Gregor era condannato a lavorare in una ditta presso la quale la più piccola trascuratezza provocava il maggiore sospetto? Gli impiegati erano dunque tutti quanti dei mascalzoni? Non esisteva dunque tra di loro un uomo affezionato e fidato che, quando non aveva utilizzato un paio d´ore del mattino per il lavoro, diventava come pazzo dal rimorso e non era quindi in condizione di lasciare il letto?... "Non si sente bene", diceva la mamma, "non si sente bene, mi creda"? "Signor Samsa, che succede dunque? Lei si barrica nella sua stanza, risponde soltanto con sì e no, procura ai suoi genitori dei gravi e inutili pensieri e trascura - questo sia accennato soltanto di passaggio - i suoi doveri d´impiegato in maniera veramente inaudita?"».
«Ora - disse Gregor, ed era sicuro di essere l´unico che avesse mantenuto la calma - mi vestirò subito? lei vede bene che non sono testardo e fannullone? può capitare di essere temporaneamente incapaci di lavorare, ma proprio allora è il momento di ricordarsi del lavoro compiuto prima e di pensare che più tardi, superato l´ostacolo, certamente si lavorerà con maggiore entusiasmo e raccoglimento. Io sono già molto obbligato al principale, questo lei lo vede benissimo. D´altra parte ho da pensare ai miei genitori e a mia sorella?». La visita fiscale si è già conclusa, quello ha preso la fuga. Ma c´è tra i commentatori anche chi si è esercitato a scrivere la domanda con cui Gregor Samsa avrebbe anche potuto chiedere l´invalidità per infortunio professionale, anche se non sul lavoro.
Avrebbero magari avuto argomenti per negare la richiesta, come avviene in uno dei frammenti del racconto incompiuto raccolti da Max Brod sotto il titolo Durante la costruzione della muraglia cinese, quello intitolato La supplica respinta: tutti sanno che verrà respinta, perché questo è il compito istituzionale del funzionario che «quando gli arriva dinanzi una delegazione con qualche richiesta, egli si presenta come il muro del mondo». Ma per nulla al mondo rinuncerebbero al rito. C´è chi ha osservato che in quei tempi parlare della Grande muraglia era un modo diffuso per parlare della burocrazia asburgica. Io mi sono fatto l´idea che era un modo per parlare del mondo. Anche se fatto di frammenti scomposti è una miniera inesauribile. C´è persino la leggenda dell´imperatore che, in punto di morte, decide di rivolgersi al cittadino comune, «proprio a te, individuo, a te, misero suddito, ombra minuscola, rifugiatasi dal sole imperiale nella più remota lontananza», e manda un messaggero, "uomo robusto e instancabile", che ce la mette tutta ma "si affanna per nulla": «ancora si sforza di attraversare le stanze più interne del palazzo; non le potrà superare mai; e se vi riuscisse non sarebbe niente di guadagnato; dovrebbe lavorare di gomiti per scendere le scale; e se anche potesse farlo non ne avrebbe vantaggio; dovrebbe attraversare i cortili; e dopo i cortili il secondo palazzo che li contiene; e ancora scale e ancora cortili; e un altro palazzo; e così via nei millenni; e se infine uscisse di corsa dal portone estremo - ma non potrà avvenire mai, mai - si troverebbe dinanzi la città imperiale, l´ombelico del mondo, piena colma della sua feccia. Qui nessuno può passare? Tu invece, seduto davanti alla finestra, te lo sogni quando scende la sera». Ma come aveva fatto, Kafka, ad anticipare persino la televisione? O la concorrenza sleale, l´aleatorietà delle "decisioni d´affari" e le intercettazioni telefoniche (frammento intitolato Il vicino)?
«Di tutti gli scrittori, Kafka è il massimo esperto sul potere», notò Elias Canetti. "Segretario dell´invisibile", lo definì Milan Kundera. Dalla scrivania del suo ufficio riusciva a tirare fuori materiale sufficiente per parlare di tutto il mondo, di quello che è fuori e anche di quello, ancora più vasto e minaccioso che è nascosto in profondità dentro ognuno di noi. Rileggendolo con un occhio rivolto ai suoi scritti d´ufficio questi mondi si moltiplicano ulteriormente, si scoprono ancora altre galassie. Provare per crederci.

Repubblica 2.1.09
Il nuovo saggio di Enrico Bellone: da Aristotele ai quanti
Il mondo esterno che la scienza ama
di Franco Prattico


Perché differentemente dal pensiero religioso, il pensiero scientifico continua a subire evoluzioni, considerando illusoria ogni verità definitiva

Un cittadino ateniese del quarto secolo A. C. in una limpida sera d´estate siede fuori dalla sua casa per prendere il fresco e contemplare il cielo stellato e il lento movimento degli astri, e cerca di applicare a ciò che vede le nozioni testè apprese al Liceo, alla scuola di Aristotele, e che sono il prodotto di millenni di osservazioni (principalmente per ciò che concerne il cielo) e approssimative misure compiute dalla nostra specie. Parte da questa scenetta il nuovo lavoro dello storico della scienza Enrico Bellone (Molte nature - Saggio sull´evoluzione culturale - Cortina editore, pagg.172, euro18) per proporre una serie di acute riflessioni (non prive di risvolti poetici) sui saperi consolidati e sul metodo scientifico su cui si fondano.
Ma qual è il punto di vista "aristotelico" di quel remoto nostro antenato ateniese e in qual misura si differenzia dal nostro modo "ingenuo" di guardare il mondo attorno a noi? Il criterio più elementare, che è poi lo stesso ancora adesso per ognuno di noi, è che "c´è qualcosa lì fuori", ossia che esiste un mondo esterno i cui segnali, captati dai sensi e registrati dai nostri neuroni e dall´intricata rete delle connessioni sinaptiche, si traducono nelle sensazioni che percepiamo e ci consentono di interpretare ciò che ci circonda: suoni, oggetti visibili, odori, etc. In altre parole, il nostro modo di percepire ciò che è lì fuori (oggi enormemente esteso e raffinato da strumenti d´indagine impensabili ai tempi di Aristotele), ossia natura, ciò che giace e opera lì fuori e agisce su di noi. Ma non "la" Natura, un "reale" valido erga omnes, un sigillo di verità definitiva sulle nostre ricostruzioni. L´interpretazione delle informazioni che ci giungono dal mondo esterno è il prodotto delle operazioni che i sistemi sensoriali di ogni specie vivente compiono in risposta agli stimoli esterni, e per le regole che ogni organismo applica in risposta a quegli stimoli. E perciò ognuno "ricostruisce" la Natura lì fuori (e se stesso) sulla base dei codici incorporati: quindi esiste una molteplicità di Nature, quante sono le specie viventi e i relativi ambienti, e quindi di ricostruzioni del mondo ovviamente funzionali alla sopravvivenza e alla riproduzione di ogni singola specie. Ma ciò, ammonisce Bellone, significa che è illusoria ogni pretesa di verità definitiva, valida per tutto il mondo vivente, di obiettività assoluta, anche se senza dubbio la nostra specie, è favorita dal possesso del linguaggio, che consente una trasmissione dei dati della natura non solo orizzontalmente, ma anche verticalmente tra le generazioni. E ciò ha consentito la nascita e il poderoso sviluppo di saperi sul mondo esterno (corroborati dalle esperienze e verifiche), in altre parole ciò che chiamiamo scienza, e all´interno di questo corpo di saperi lo sviluppo di teorie e modelli che tendono a consentire la nascita di previsioni su terreni non ancora esplorati fisicamente. Ma ogni teoria, finchè non è corroborata da massicci dati sperimentali, è un percorso creativo nel corso del quale il ricercatore può imbattersi in incontri inaspettati, in qualcosa di nuovo che ribalta le assunzioni di partenza (e qui Bellone cita significativamente Galilei, al quale ha dedicato altre sue opere) e quindi può dar luogo a una nuova visione del mondo "lì fuori". Tutti i viventi, quindi, dispongono di un corredo di regole innate e di organizzazione di sensori, grazie ai quali leggono, interpretano e usano il mondo esterno: quindi tante nature quanti sistemi sensoriali, con la differenza che la plasticità del corredo cerebrale della nostra specie ci consente - almeno a livello scientifico - una rapida modifica delle risposte agli input sensoriali. Il che (ammonisce Bellone e anche Giorello nella introduzione a quest´opera) non significa certo che costruiamo nella nostra mente il mondo esterno, una Natura, ma solo che ciò consente una maggiore efficacia nel nostro rapporto con il reale.
Non quindi verità ultime e definitive, ma una incessante opera di decifrazione che - da Aristotele alla meccanica quantistica - ci aiuta ad operare con sempre maggiore efficacia. Nulla insomma di definitivo o magico, che ci apra una volta per tutte le porte del reale, liberandoci dalla prigionia di sistemi di credenze ereditate che ottundono la capacità di decifrare i segnali che il mondo ("la Natura") ci trasmette.

Corriere della Sera 2.1.09
Nel bicentenario della nascita del grande naturalista tre studiosi individuano le ragioni per cui le sue teorie sono tanto contestate
Così Darwin spiega Dio
di Edoardo Boncinelli


Una spinta evolutiva ci fa ritenere che tutto abbia uno scopo: perciò tendiamo a credere nell'esistenza di un essere superiore

Tutto deve avere per noi una spiegazione. Ogni spiegazione che ci danno o che ci diamo, la accogliamo con una grande soddisfazione e un vero sollievo psicologico. Perché ne abbiamo bisogno. Non possiamo vivere senza spiegazioni. Che sono poi di due grandi tipi: che cosa ha causato o causerà un dato evento e con quale scopo ciò è accaduto o accadrà. L'esistenza di una causa, ma soprattutto di un fine, presuppone quindi quasi sempre per noi l'intervento di un agente animato, anche per spiegare l'origine del mondo e le vicende del processo evolutivo. È per noi uomini quasi una necessità fisica. Questa, stretta stretta, potrebbe essere la sintesi del bel libro Nati per credere di Vittorio Girotto, Telmo Pievani e Giorgio Vallortigara recentemente uscito da Codice Edizioni (pp. 203, e 19). A tutto questo andrebbe in verità aggiunto il fatto che noi viviamo come «cuccioli » o giovani adulti per tanto tempo e ci aspettiamo sempre, più o meno inconsapevolmente, che qualcuno ci accudisca, o almeno pensi a noi e non ci ignori.
Queste considerazioni chiariscono la nostra naturale inclinazione a credere all'esistenza di esseri e agenti sovrannaturali o preternaturali, e potrebbero rappresentare un potente antidoto alle tonnellate di sciocchezze, più o meno intellettualmente raffinate e finemente argomentate, che ci toccherà di ascoltare in questo 2009, anno darwiniano per eccellenza, contro Darwin e le affermazioni del darwinismo nel suo complesso. Perché siate sicuri che qualcosa del genere accadrà; troppa è la nostra naturale diffidenza, se non avversione, nei riguardi delle semplici e lineari formulazioni del darwinismo e del neodarwinismo.
Possiamo comprendere perché le cose stiano in questi termini? Tale è appunto la domanda che i nostri autori si pongono e alla quale cercano di rispondere nel quadro delle loro competenze individuali — rispettivamente la psicologia cognitiva del pensiero e del ragionamento (Girotto), la dottrina evoluzionistica (Pievani) e l'etologia (Vallortigara). Tutti e tre concordano comunque sul fatto che la spiegazione possa e debba essere cercata nelle pieghe dello stesso processo evolutivo che ha forgiato il nostro corpo e la nostra mente.
Per poter controllare il proprio comportamento e renderlo adeguato alle mutevoli circostanze della vita, molti animali e certamente gli esseri umani hanno bisogno di rendersi conto di cosa produce cosa e di che cosa si deve fare per ottenere un certo risultato. È parte integrante della loro percezione del mondo e della pianificazione del loro agire. Poiché noi siamo particolarmente bravi in questo e abbiamo dimostrato di riuscire a cogliere le minime sfumature dei rapporti causali e della finalizzazione delle azioni, è naturale pensare che tutto questo ci sia particolarmente presente, fin dalla nascita. Gli esperimenti lo dimostrano e mostrano come queste nostre convinzioni largamente innate vengano progressivamente alla ribalta negli anni della nostra infanzia e possano però anche essere «educate» e modificate sulla base delle esperienze di vita cui ciascuno di noi va incontro. Il libro di cui stiamo parlando è particolarmente ricco di osservazioni e di resoconti di esperimenti del genere. Direi che quasi niente è stato trascurato e il libro si dipana magistralmente tra argomentazioni, controargomentazioni, riflessioni e risultanze sperimentali. Apprendiamo quindi, tra le altre cose, che il bambino possiede già a pochi mesi di vita una sua idea della causalità e della necessità di un agente causale per generare un movimento, mentre occorre aspettare tre-quattro anni perché concepisca l'idea di finalità e la attribuisca ad un agente dotato di mente e di possibilità di progettare (e di simulare). Ciò fa parte, a quanto pare, dell'ordine naturale delle cose. È interessante notare altresì che alcuni ammalati di Alzheimer perdono la nozione di causalità senza perdere quella di finalità.
Tanto si può dire per la nostra avversione ad ammettere l'esistenza di meccanismi semplici e chiari, ma ciechi e senza scopo, alla base del processo che ha portato a tutte le attuali forme di vita a partire da un primitivo gruppo di organismi ancestrali vissuti sulla terra quasi quattro miliardi di anni fa. Il passaggio da questo atteggiamento alla fede vera e propria in uno o più esseri superiori è assai breve. Basta assumere, come fanno i nostri autori, che in noi operino un paio di effetti collaterali della spinta evolutiva che ci porta a credere che tutto abbia una causa e uno scopo.
Uno di questi potrebbe essere che la fede in un essere superiore che ci segue dall'alto e può giudicarci favorisca il comportamento altruistico, o almeno non troppo egoistico, necessario per lo sviluppo di una vita sociale, della quale noi abbiamo particolarmente bisogno. Il secondo punto potrebbe essere che la fede in una qualche forma di sopravvivenza, del corpo o di una parte di esso, aiuti a superare il terrore della fine, fondamentale per noi che siamo gli unici animali a sapere che moriremo. Ciascuna di queste due convinzioni, se ben radicata, costituisce un fattore che favorisce la sopravvivenza, nostra e dei nostri antenati. Personalmente non sono sicuro che questi siano effetti collaterali di una sola spinta evolutiva primaria o piuttosto non costituiscano essi stessi potenti spinte evolutive indipendenti e concorrenti, portanti ciascuna un suo vantaggio. A tutto questo aggiungerei, come ho già detto sopra, la nostra inclinazione a volerci sentire «pensati» da qualcuno, qualcuno che sia vivo, sollecito e dotato di progettualità. Tutto questo e molto di più si può trovare nel bel libro Nati per credere. Ed è anche inutile aggiungere che tutto quello che abbiamo detto non si applica soltanto alla spiegazione della nascita di una religiosità naturale, ma può riguardare anche lo sviluppo delle religioni rivelate. Anche in questo caso infatti occorre spiegare perché a tali rivelazioni abbiamo creduto, in massa e con entusiasmo, perché ne abbiamo accolto il Verbo e lo abbiamo fatto nostro.

Corriere della Sera 2.1.09
1809-1859. Doppio anniversario di celebrazioni (e di polemiche)
di Antonio Carioti


Dal 2003 anche in Italia si festeggia il Darwin Day ogni 12 febbraio, data di nascita del grande naturalista: una ricorrenza creata da tempo nel mondo anglosassone per celebrare la scienza e il libero pensiero. Ma il 2009 è un vero e proprio anno darwiniano, perché ricorrono insieme il bicentenario della nascita dello scienziato (1809) e il centocinquantesimo del suo testo più noto, L'origine delle specie (1859). Molte le iniziative in programma (il calendario completo sul sito www.pikaia.eu), tra cui una mostra multimediale che sarà a Roma (Palazzo delle Esposizioni) dal 12 febbraio al 3 maggio e a Milano (Rotonda della Besana) dal 6 giugno al 24 novembre.
Tutto ciò riproporrà di certo le polemiche sull'evoluzione, molto vivaci negli Stati Uniti e ormai approdate anche in Italia, specie da parte degli ambienti, perlopiù di matrice religiosa, che in alternativa al darwinismo propongono l'idea che la natura si sviluppi sulla base di un progetto trascendente ( Intelligent Design).
Tra i sostenitori più convinti di Darwin ci sono i biologi evoluzionisti, che terranno il loro congresso europeo a Torino dal 24 al 29 agosto (vedi www.sibe-iseb.it), ma la disputa ha anche un aspetto filosofico.
È stata infatti l'Unione degli atei (www.uaar.it) che ha importato il Darwin Day in Italia, mentre la Chiesa cattolica si appresta a dire la sua in un convegno promosso a Roma (3-7 marzo) dal Pontificio Consiglio della Cultura guidato da Gianfranco Ravasi. Un altro contributo verrà dal saggio L'anima e Darwin (in uscita da Donzelli), nel quale Orlando Franceschelli respinge le tesi di chi individua nell'evoluzionismo le radici dell'eugenetica hitleriana.

Corriere della Sera 2.1.09
Liti. La scuola dove studiò vuole strapparlo a un museo di Parigi
Cartesio, l'ultima disputa è sul suo cranio


Non c'è pace per le spoglie di Cartesio: a più di 350 anni dalla morte del filosofo francese è scoppiata una disputa per il possesso del suo teschio. Nel senso che la scuola militare Prytanée, vicino alla città di La Flèche, nel nord-ovest della Francia, reclama il cranio del suo allievo più prestigioso che si trova oggi al Museo dell'Uomo, a Parigi. Perché toglierlo da là, a parte le comprensibili ambizioni dell'istituto frequentato da Cartesio quando era adolescente? Il fatto è — secondo i proponenti — che la collocazione attuale è troppo «modesta»: nel museo oggi il teschio è collocato fra il busto di un uomo preistorico e quello che rappresenta l'ex calciatore Lilian Thuram. D'altra parte, sostengono i contrari, prima di prendere decisioni bisognerebbe controllare meglio: non è affatto certo che il cranio sia autentico. E ci sarebbe un'altra soluzione, avanzata da altri studiosi: riunirlo al resto del corpo, ospitato dal 1819 nella chiesa parigina di Saint-Germain-des-Prés.

Repubblica 31.12.08
I cavalieri le armi e gli orrori
Una ricerca fra storia e leggenda
di Stefano Malatesta


Un saggio racconta l´epopea cavalleresca nel Medioevo. Guerriglie, brigantaggio, tradimenti e anche "operazioni speciali"
Un filone di studi iniziato dallo storico olandese Johan Huizinga
Si racconta di uomini che strisciano a terra e tagliano gole
Le cronache arabe li descrivono temerari e irriducibili
I francesi erano considerati i migliori d´Europa

Nei romanzi cavallereschi i nobili cavalieri medievali, catafratti e impiumati, si battono sempre splendidamente nei tornei, ammirati dalle dame di cui portano i colori con nastri particolari legati al braccio. E dopo aver smontato da cavallo, a corte, dimostreranno cortesia, gentilezza e una vena delicata e poetica di galanteria, copiata dai testi dei troubadores, stanziali in ogni casa principesca che finanziava i tornei.
Ma nelle battaglie reali, su un autentico terreno di scontro, la cavalleria francese, considerata la migliore d´Europa, durante tutto il Medioevo riuscì a collezionare una serie impressionante di sconfitte, da Crecy, a Poitiers, a Agincourt. Questa tendenza manifesta, in qualche modo simile a quella dei soldati tedeschi moderni, sempre accreditati come i primi della classe, che in questo secolo hanno regolarmente perso le guerre che credevano di vincere con i blitz krieg, non era dovuta a mancanza di coraggio. La loro audacia era sempre spinta all´estremo e se mai poteva suscitare perplessità quella furia improvvisa che li scuoteva, facendo vibrare le armature.
Le cronache arabe del tempo dei crociati hanno descritto i Franchi come guerrieri temerari e irriducibili, adoperando espressioni molto lusinghiere. E il grande curdo Salah ad-Din (il Saladino) una volta chiese ad un suo prigioniero, Ugo conte di Tiberiade, famoso tra i mussulmani per la sua combattività, quale fosse il rituale attraverso il quale si diventava cavalieri cristiani: secondo lui il cavaliere doveva avere qualcosa di magico perché infondeva un entusiasmo portato a un tale grado che a volte sembrava pazzia.
La cavalleria aveva subito incredibili debacles quando ci si aspettava una sua folgorante vittoria, perché la forza e il coraggio dei singoli non si sommavano, come avveniva nelle imbattibili armate mongole. I cavalieri europei avevano una tale tendenza allo scontro individuale, a singolar tenzone, appreso nei tornei, che non si preoccupavano minimamente di far riferimento ad un piano tattico comune. Una debolezza aggravata dalla supponenza e dall´alterigia assai poco cristiane, che facevano di loro dei militari riottosi a cooperare in uno scontro manovrato. E quando questo avveniva, era sempre tra una indescrivibile confusione, una cronica non collaborazione e una diffusa noncuranza per gli ordini ricevuti.
Il caso limite arrivò ad Agincourt nel 1422 quando i francesi, dopo aver tagliato la strada agli inglesi in fuga verso Calais, avevano mandato in avanti una prima linea tutta parata e che faceva caracollare i cavalli senza rispettare nessun ordine, altisonante di titoli e di celebrità guerresche. Ma il luogo dello scontro era stato scelto malissimo, i cavalli affondarono subito nel fango e quando arrivarono di rincalzo la seconda e la terza linea, gli elegantissimi squadroni, finiti gli uni su gli altri, si erano trasformati in un immane groviglio da cui era impossibile districarsi. Intanto la prima linea inglese costituita da cavalieri, dopo aver sostenuto un primo urto, si era fatta indietro lasciando avanzare gli arcieri di sua maestà, che diedero mano, con la precisione che li distingueva, ai loro lunghi archi di legno.
Non fu una battaglia, fu un´esecuzione. Quelli tra i francesi che morirono sotto le frecce furono i più fortunati, perché i superstiti, bloccati nella prigione delle loro armature, vennero raggiunti dai fanti arrivati strisciando sul fango e che dopo aver alzato la gorgiera, gli tagliarono la gola.
Con tutti i suoi difetti, la cavalleria continuerà ad essere la forza dominante almeno fino all´arrivo dei lanzichenecchi o dei tercios spagnoli. Ma le battaglie campali combattute con la lancia in resta non erano mai decisive e rappresentavano solo una parte delle guerre endemiche e senza fine del Medio Evo, costituite da guerriglia, brigantaggio, devastazioni di campagne, spedizioni punitive, saccheggi e quelle che sono state poi chiamate "operazioni speciali", una pezza a colori per nascondere assassini, rapimenti e tradimenti. La perfidia implicita in queste operazioni speciali faceva dei paesi asiatici il loro regno abituale (secondo una storiografia malevola che risale ai greci antichi e di cui non ci siamo mai liberati). Anche i mongoli avevano contribuito più di ogni altra forza armata a trasformare la guerra in una serie di trappole, comunicanti tra loro, dove in fon do, ad attendere il nemico, c´era solo la camera della morte, come per la pesca del tonno.
Le cronache della lotta politica in Europa, terra dei cavalieri "sans tache ni reproche", sono sinistramente allietate da ammazzamenti e efferatezze da competere con quelli dei paesi orientali. Con gli ebrei, i mussulmani e gli eretici o supposti tali, i paesi cosiddetti cristiani sono stati di una spietatezza che non ha mai trovato riscontro altrove. Basta ricordare due nomi, la notte di San Bartolomeo e il massacro degli ugonotti e l´infame crociata contro gli albigesi. Eppure in un libro uscito di recente: Operazioni speciali al tempo della cavalleria (Libreria editrice goriziana, pagg. 284, euro 24) si sostiene la tesi che i codici della cavalleria e il fair play insito nel comportamento cavalleresco avrebbero impedito che gli assassini arrivassero ai vertici supremi degli Stati, salvando principi e monarchi, protetti da una sorta di tabù. La relativa stabilità della politica feudale in paesi come la Francia deriverebbe da questa riserva a non andare troppo in alto con le infamie. E dall´assenza di sette clandestine, non si capisce ancora bene se eversive o semplicemente diaboliche come quelle celebri degli Assassini, mandati dal grande vecchio della montagna, Hassan i?Sabath dalla fortezza di Alamut, nella Persia settentrionale, ad uccidere califfi, governatori e gran visir, spargendo il terrore in tutto il Medio Oriente. Mentre l´Italia, paese meno legato all´etica e alla mistica della cavalleria e fin dall´inizio proiettata, con i suoi comuni, alla formazione di una classe mercantile, interessata più a inventare la cambiale che a partecipare ai tornei, con corti estetizzanti e signori protettori degli artisti, che abitavano meravigliosi palazzi dove il veleno era un metodo assai diffuso di soluzione dei problemi e dove ti attendeva un sicario dietro ogni colonna, avrebbe pagato cara, con una turbolenza endemica la sua propensione ad ammirare i Borgia.
Operazioni Speciali è stato scritto da un giovane studioso israeliano, Yuval Noah Harari, che sembra seguire uno dei due filoni in cui si è divisa la storiografia sulla Cavalleria fin dai tempi dell´uscita del famoso e bellissimo Autunno del Medio Evo, di Johan Huizinga. Il grande storico olandese aveva visto nell´eccesso di apparato, verbale e scenografico, delle corti medievali, una grandiosa e alla fine ripetitiva messa in scena teatrale per nascondere una realtà in cui quei paladini infiocchettati e complimentosi con le dame, erano gli stessi che taglieggiavano e stupravano durante le loro feroci campagne. La posizione di Huizinga, accettata dalla maggioranza degli storici, è stata messa in dubbio di recente da uno dei più noti e dei più brillanti studiosi inglesi del medioevo, Maurice Keen. Senza negare l´importanza della letteratura nelle creazione del mito della cavalleria, Keen ha cercato di portare le prove che quella società raccontata dai romanzi, che sosteneva i valori di cortesia, di gentilezza, molto consapevole dei valori che rappresentava - non era poi così lontana dalla realtà storica.
Harari sembrerebbe pendere più da questa parte. Dico sembrerebbe perché molti degli episodi riportati nel libro, immagino per illustrare meglio la sua posizione, una serie straordinaria di vere avventure sceneggiate con abilità, danno l´impressione, alla fine, di convalidare la tesi contraria. Il più significativo ha avuto come protagonista Goffredo de Charny, il prototipo dei cavalieri francesi e autore di un famoso codice della cavalleria. Rendendosi conto di non avere truppe regolari sufficienti per dar l´assalto a Calais, conquistata dagli inglesi qualche anno prima, per restituirla al suo signore, il re di Francia, de Charny individua il punto debole del nemico nell´avidità di uno dei più importanti comandanti di Calais, responsabile della torre che dava sul porto: un italiano naturalmente, il lombardo Aimerico e gli fa offrire ventimila scudi per aprire le grate ad un gruppo scelto di francesi, che avrebbero fatto irruzione, impadronendosi della fortezza e poi della città. L´accordo viene concluso, ma le trame di Aimerico sono subito scoperte e sarebbe messo a morte se non accettasse di fare il doppio gioco, fingendo di essere ancora dalla parte dei francesi. Quando il gruppo scelto, entrato nella torre, tenta di passare per le stanze del corpo di guardia, viene circondato dagli armigeri inglesi e lo stesso de Charny rimane ferito.
Qualche anno più tardi, liberato e tornato in Francia, de Charny viene a sapere che Aimerico è diventato governatore di una cittadina non lontana da dove in quel momento si trovava. Immediatamente organizza una spedizione per catturarlo e Aimerico, un mese dopo, sarà portato in una piazza di un paese francese, torturato e giustiziato davanti a tutta la popolazione, con una procedura così crudele, che solo i turchi avranno la sinistra fantasia di superarla in patimenti. Una vicenda esemplare di una società che sarà stata anche cristiana di nome, ma che raramente conosceva il perdono.

Corriere della Sera 31.2.08
L'Osservatore: troppe e a volte contrarie ai nostri principi
Leggi italiane ed etica. Le condizioni del Vaticano
Da domani non saranno più recepite automaticamente
di Bruno Bartoloni


L'annuncio di José Maria Serrano Ruiz, presidente della Corte d'appello dello Stato della Città del Vaticano

CITTA' DEL VATICANO — Da domani sarà il diritto canonico a ispirare la legislazione civile e penale del Vaticano che si sgancia dal sistema giudiziario italiano, il cui numero di norme è divenuto «esorbitante », con una legislazione civile troppo «instabile» e con leggi sempre più «in contrasto» con i principi irrinunciabili da parte della Chiesa. Lo annuncia sull'Osservatore Romano il presidente della Corte d'appello dello Stato della Città del Vaticano, José Maria Serrano Ruiz, commentando l'entrata in vigore di una legge sulle fonti del diritto, approvata da Benedetto XVI lo scorso 1˚ ottobre e che sostituisce la legge del 7 giugno 1929, promulgata a seguito degli accordi del Laterano dell'11 febbraio dello stesso anno. Con il 2009 le leggi italiane non verranno più recepite automaticamente, salvo gli eccezionali rifiuti motivati da «radicale incompatibilità», come avveniva nel passato.
Le ragioni di una recezione della legislazione italiana soltanto «come fonte suppletiva» sono varie e si traducono in una robusta tirata d'orecchie al nostro Paese. Spiega José Maria Serrano Ruiz, che è anche il presidente della Commissione per la revisione della Legge sulle fonti del diritto Vaticano: «Più di un motivo sembra giustificare la cautela nella recezione della legislazione italiana, ma ne indichiamo solo tre. In primo luogo il numero davvero esorbitante di norme nell'ordinamento italiano, non tutte certamente da applicare in ambito vaticano; anche l'instabilità della legislazione civile per lo più molto mutevole. E infine un contrasto, con troppa frequenza evidente, di tali leggi con principi non rinunciabili da parte della Chiesa».
Una notazione che suona come un j'accuse all'Italia per norme esistenti, da poco approvate o allo studio, su vita e bioetica. Le ultime polemiche sulla morte assistita, sulle pillole considerate abortive, sugli embrioni, sulle unioni omosessuali e così via sono presenti fra le righe del commento. E anche se in Vaticano di scuole non ce ne sono, è emersa pure la polemica sulla scuola confessionale e sugli aiuti dello Stato. La norma approvata, per ora inapplicabile in assenza di un sistema scolastico, assume un ulteriore significato polemico nei confronti dell'Italia e non solo. «Il testo — afferma il professor Serrano Ruiz — non esclude la possibilità che la Chiesa possa intervenire ulteriormente disciplinando la materia nello Stato Vaticano. Il valore testimoniale della norma va al di là della sua immediata messa in pratica».
Insomma, in avvenire i rapporti fra i due enti sovrani, l'Italia ed il Vaticano, «dovranno essere regolati da disposizioni chiare e che riconoscano nello stesso tempo la completa autonomia e la necessaria collaborazione di entrambi», sembra ammonire il magistrato. Quanto all'ordinamento canonico, diviene «la prima fonte normativa » e «primo criterio di riferimento interpretativo», mentre prima aveva solo un «posto di privilegio».

Corriere della Sera 31.2.08
La Santa Sede e il significato di un avvertimento
di Massimo Franco


Tensione L'iniziativa del giornale vaticano sottolinea una tensione fra Chiesa e Stato italiano
Il «fondo di solidarietà» di Tettamanzi è percepito da parte del Pdl come iniziativa antigoverno

L' idillio fra Silvio Berlusconi e il Vaticano è sempre stato dato per scontato ed a prova di polemiche. Ma un articolo dell'Osservatore Romano adesso illumina i rapporti Italia-Santa Sede con una luce fredda. L'annuncio che le leggi della Repubblica non verranno più accettate automaticamente oltre Tevere è superfluo, e insieme significativo.
Superfluo perché un automatismo assoluto non c'è mai stato; significativo perché suona, di fatto, come un larvato avvertimento.
Nella conferenza stampa di fine anno, il premier aveva dichiarato che «i rapporti tra Santa Sede e governo sono i migliori da sempre». E nessuno ne aveva dubitato, nonostante gli attacchi recenti del presidente della Camera, Gianfranco Fini, al ruolo dei pontefici negli anni del fascismo: attacchi commentati dai vertici vaticani con una durezza inusuale, e schivati da Berlusconi. Ma l'articolo di ieri dell'Osservatore sulla «nuova legge sulle fonti del diritto», pianta paletti ingombranti. Il quotidiano fa sapere che le norme promulgate da Benedetto XVI ad ottobre ed in vigore dal 1˚ gennaio 2009, prevedono «un'ulteriore cautela nella recezione della legislazione italiana».
Traduzione: le leggi non saranno accolte in modo automatico. La motivazione è che sarebbero in numero «esorbitante»; cambierebbero in continuazione; ma soprattutto mostrerebbero «un contrasto, con troppa frequenza evidente, con principi non rinunciabili da parte della Chiesa». Rimane da capire se sia una dichiarazione di sfiducia verso lo Stato italiano; oppure solo una sottolineatura puntigliosa e preventiva, mentre il Parlamento sta per discutere temi di frontiera fra la vita e la morte.
L'articolo compare nelle pagine interne dell'Osservatore.
E l'autore, lo spagnolo Josè Maria Serrano Ruiz, è presidente della Corte d'appello della Santa Sede.
Ma la sua prosa sembra destinata ad avere comunque un impatto. Lascia intuire insieme una punta di delusione e di diffidenza. Finisce per alimentare in modo inaspettato le tensioni affiorate nei giorni scorsi fra l'episcopato italiano ed esponenti di primo piano del centrodestra. E tende ad incrinare l'immagine di sintonìa tra maggioranza berlusconiana e Vaticano. È la coincidenza con lo scambio di accuse fra alcuni settori del Pdl e le gerarchie cattoliche, in particolare, a sollevare qualche interrogativo.
Il «fondo di solidarietà» per i poveri istituito dall'arcivescovo di Milano, Dionigi Tettamanzi, viene percepito da parte del centrodestra come «un'iniziativa antigovernativa ». Non solo. Fra Lega ed episcopato serpeggia una diffidenza cronica per l'approccio agli antipodi sull'immigrazione islamica. E l'Udc soffia sul fuoco, accusando il Pdl di aver fatto prevalere «l'anima laicista e statalista »: una frecciata al ministro Renato Brunetta, che aveva criticato una Chiesa a suo avviso incline ad iniziative «di immagine». Su questo sfondo, l'articolo dell'Osservatore sul contrasto fra leggi italiane e vaticane ingigantisce la questione: forse al di là delle intenzioni di tutti.
Prefigurare una sorta di «vaglio morale» sulle norme dello Stato repubblicano come una novità, introduce un elemento di frizione. Dà l'impressione che sia in atto una deriva mirante a negare i «principi non negoziabili» cari alla Santa Sede, assecondata se non promossa dal centrodestra. E lascia capire che se il Parlamento approverà leggi considerate ostili alla morale cattolica, oltre a criticarle il Vaticano le respingerà. Forse si tratta di una precisazione inutile, perché un automatismo assoluto non esiste: basta pensare ad aborto e divorzio. Ma allora, rivendicare con certi toni il diritto di accettare o rifiutare una norma significa mandare un avvertimento all'Italia; e non dare per acquisiti i buoni rapporti con un governo o una maggioranza.

Corriere della Sera 31.2.08
Le reazioni. Baldassarre: una cautela legittima. Pasquino: no, ingerenza intollerabile


ROMA — Su una delle motivazioni sono d'accordo tutti: in Italia ci sono troppe leggi. Sul resto ci si divide. La decisione del Vaticano di non recepire più automaticamente, o quasi, le norme italiane, trova sostanzialmente concorde un costituzionalista come Antonio Baldassarre, già presidente della Corte costituzionale, nonché docente alla Pontificia Università Lateranense: «Mi pare una decisione legittima. Il Vaticano è uno Stato sovrano». Che sia avvenuto un cambio di passo è indubitabile: «Evidentemente — spiega Baldassarre — si è trattato di una cautela di fronte all'arrivo di tempi giudicati tempestosi.
Temono il varo di leggi non corrispondenti ai loro principi, come quella sull'eutanasia».
Nessuna pressione indebita, spiega: «È un provvedimento che ha effetti su un ordinamento straniero».
Parere opposto per il politologo Gianfranco Pasquino, già senatore della sinistra: «Mi sembrano preoccupazioni infondate: le leggi italiane le fa il Vaticano, no?».
Uscendo dal paradosso, Pasquino spiega: «Questo provvedimento arriva durante il pontificato di uno dei papi più reazionari degli ultimi 50 anni. Trovo che si tratti di una pressione ostile e di un'ingerenza intollerabile per lo Stato italiano».

Repubblica 31.12.08
Un´inchiesta nel Triveneto sui giovani e la religione
Quando dio è in minoranza
di Marco Politi


A Trieste Venezia e Pordenone la maggioranza dichiara di credere, ma appena si domanda "a cosa" le risposte sono piuttosto sorprendenti

Svanisce tra i giovani l´immagine del Dio cristiano, vacilla il dogma che Cristo sia figlio di Dio, aumenta la distanza dalla Chiesa istituzione. È il risultato di una limpida inchiesta sul mondo giovanile, condotta da Alessandro Castegnaro presidente dell´Osservatorio socio-religioso Triveneto e benedetta dal vescovo di Trieste mons. Eugenio Ravignani. Il quale ammette che i risultati possono avere «sconcertato chi si attendeva risposte più confortanti», scoprendo quanto la religione venga considerata poco importante nella vita delle persone intervistate.
L´inchiesta (A.Castegnaro, Religione in standby, Marcianum Press, pagg. 296, euro 29) è partita da un´analisi della situazione di Trieste, ma poi si è allargata ad una comparazione con la situazione di Venezia e Pordenone. Trieste, notoriamente, è una città particolare in cui forte è l´impronta austro-ungarica, di tradizione cosmopolita, laica, secolarizzata, che la apparenta ai costumi e agli stili di pensiero del Nordeuropa. Ma l´incrocio dei dati con una realtà culturalmente metropolitana come Venezia e invece provinciale - da classico Veneto bianco - di Pordenone offre uno specchio interessante delle giovani generazioni, che può valere almeno per l´Italia centro-settentrionale.
Le sorprese sono tante. Quanto conta la religione per i giovani triestini? Poco per il 45 per cento, niente per il 10, moltissimo solo per un 15 per cento. Interrogati se credono, a Trieste rispondono sì il 77 per cento, a Venezia l´86, a Pordenone l´89.
Ma appena si domanda a cosa, le risposte sono per un paese ufficialmente cattolico sconcertanti. Al «Dio cristiano» credono a Trieste soltanto il 38 per cento dei giovani, a Venezia il 43, a Pordenone il 46. L´altra metà, più o meno, preferisce credere in una «Realtà superiore» non meglio definita. Fortemente incrinata è la convinzione che Gesù Cristo sia figlio di Dio. Ci credono poco o per nulla il 41 per cento a Trieste, il 33 a Venezia, il 24 a Pordenone. Gli incerti, nel medesimo ordine, sono al 26 per cento, al 34, al 29. I molto convinti sono un terzo a Trieste e Venezia e il 46 per cento a Pordenone.
L´inchiesta, svolta tra i giovani tra i diciotto e i ventinove anni, non è avvenuta per via telefonica (che rischia di provocare reazioni troppo estemporanee) né di persona attraverso un intervistatore: sistema che rischia di suscitare risposte troppo compiacenti, in cui l´intervistato tende a reagire secondo moduli più conformisti oppure, spiega Castegnaro, si astiene da opinioni che avrebbe il «timore di formulare». Si è lasciato alle persone scelte un pacchetto di domande perché rispondessero in solitudine e concentrazione.
Emerge in prima battuta una differenza tra religione e religiosità, che spiega benissimo perché il «revival religioso» in corso da anni e mediaticamente esaltato non corrisponda ad un aumento reale della pratica religiosa nell´ambito della Chiesa. Perché la religione è un sistema istituzionalizzato di credenze, pratiche, riti e tradizioni e i giovani tendono a rifuggire da tutto ciò che appare come «istituzione» o disciplina. Mentre la religiosità è un dimensione più flessibile di simboli, che danno senso alla vita e attivano energie spirituali, morali e sociali.
È questa l´opzione che fanno le nuove generazioni. Non a caso la domanda «Credi a un Dio personale?», fondamentale per la tradizione giudaica e cristiana in cui Dio interviene personalmente nella storia - dalla Creazione fino all´Apocalisse - rimbalza sui giovani. Solo un terzo circa risponde di sì a Trieste e Venezia, e non più del 46 per cento a Pordenone.
Dio, dunque, è in minoranza. Il Dio delle cosiddette «radici cristiane». Il Dio annunciato ogni domenica a messa, proclamato a battesimi, comunioni, nozze e funerali, insegnato per tredici anni nell´ora di religione. Emerge anche la differenza tra aree di cultura urbana avanzata e aperta a influenze internazionali, come Trieste e Venezia, e aree più chiuse come Pordenone, in cui la secolarizzazione avanza meno velocemente.
Negli intervistati colpisce la distanza dalla Chiesa-istituzione. Alla richiesta di esprimere una valutazione sulla Chiesa cattolica, Castegnaro riporta che il «saldo tra giudizi complessivamente negativi e positivi» è il seguente: - 31 nella diocesi di Trieste, - 30 nel patriarcato di Venezia, appena + 2 nella diocesi di Pordenone. In questo contesto appare lontanissima dalla realtà la pretesa della gerarchia ecclesiastica di rappresentare politicamente i cittadini «cattolici», quando si tratta di legiferare su temi come il testamento biologico o le famiglie di fatto.
Ma anche all´interno della Chiesa i vescovi devono porsi molti interrogativi. A Venezia, ad esempio, è patriarca una delle personalità intellettualmente più brillanti della Chiesa italiana, eppure il messaggio ecclesiale non sembra riuscire a penetrare in profondità nel mondo giovanile. Evidentemente i giovani rappresentano davvero un mondo sé. Chiusi in un circuito proprio. In stand by.

Corriere della Sera 31.2.08
Il Pontefice In due anni un milione di fedeli in meno
Calo dell'audience, cattolici divisi


La piazza più importante del Cattolicesimo ha perso un milione di fedeli. Tanti sono cattolici calati alle udienze e agli incontri pubblici di Benedetto XVI in Vaticano e a Castelgandolfo nel corso degli ultimi due anni.
Le cifre arrivano direttamente dal Palazzo apostolico. E testimoniano di un'emorragia che continua per il secondo anno consecutivo: nel 2006 a seguire Papa Ratzinger furono in 3 milioni e duecento mila, nel 2007 furono 2 milioni e 830 mila, mentre nel 2008 le presenze di fronte al Pontefice sono state 2 milioni e 215 mila persone.
Dati che fanno ancora più impressione se confrontati con il «pienone» registrato da Benedetto XVI nel corso dei primi dodici mesi del suo pontificato (è salito al soglio pontificio il 19 aprile 2005): oltre 4 milioni di presenze, un'affluenza persino più nutrita da quella totalizzata tra piazza San Pietro e l'aula Nervi da Giovanni Paolo II nel suo ultimo periodo.
Va comunque ricordato che lo stesso Benedetto XVI non pare dare molta importanza a considerazioni legati all'«audience», e recentemente ha ribadito che il Pontefice non deve essere trattato come una star e gli incontri con il vicario di Cristo trasformati in una sorta di concerto rock. Inoltre, non bisogna dimenticare i successi del pellegrinaggio negli Stati Uniti, la Giornata Mondiale della Gioventù a Sidney e le folle che hanno acclamato Papa Ratzinger in Francia.

Corriere della Sera 31.2.08
Il nuovo Pascal curato da Carlo Carena
Un provinciale contro i gesuiti
di Armando Torno


Il no alle scappatoie morali per fanciulle bancarottieri e ladri

Nel 1641, quando esce postumo l'Augustinus di Cornelio Giansenio, vescovo di Ypres, il mondo cristiano è percorso da numerosi dibattiti teologici. I discepoli di Melantone, morto nel 1560, entrano in conflitto con l'ortodossia luterana; il calvinismo nei Paesi Bassi si trova contaminato dalla dissidenza di Giacomo Arminio (1560-1609) sulla predestinazione condizionata, nella quale affiorano le idee di Erasmo sulla salvezza. Il mondo cattolico, invece, schiera in prima linea i gesuiti della Seconda Scolastica, mentre l'alta teologia subisce il fascino di un altro membro della Compagnia di Gesù, Luis de Molina. Morto nel 1600, credeva nel ruolo fondamentale della libertà (sfera soprannaturale inclusa) perché non
tutto dipende esclusivamente da Dio. Per taluni aspetti recuperava le idee di Pelagio, inviso ad Agostino, presente a Roma intorno al 400, «eretico» che negava il peccato originale. Anche il mondo laico non perde l'appuntamento: nel 1652 appare a Parigi il Socrate chrestien di Jean-Louis Guez de Balzac (è ora uscita l'edizione critica, curata da Jean Jehasse, da Honoré Champion). In questo scritto discontinuo, vergato con toni e stili diversissimi, si cerca la mediazione morale del filosofo greco per ricostruire « une Vérité chrétienne à mieux vivre».
L'Augustinus, che anela ai valori cristiani originari, diventa in breve tempo un baluardo antigesuitico. Roma condanna nel 1653 cinque proposizioni considerate il nucleo del giansenismo, ma il cenacolo di intellettuali e religiosi sorto intorno all'abbazia di Port-Royal alza la voce. Pierre Nicole, Antoine Arnauld (in contatto con Leibniz) e Blaise Pascal scendono in campo. Ed è proprio quest'ultimo a scrivere l'apologia più fascinosa del movimento e l'attacco più diretto alla Compagnia: Le provinciali. Opera non facile, anche se piacevole per la verve polemica, tratta questioni che appartengono a una teologia perduta. Leggerla, però, è un dovere. L'occasione la offre la nuova edizione a cura di Carlo Carena (con prefazione di Salvatore S. Nigro) uscita nella «Biblioteca della Pléiade» di Einaudi ( Le provinciali, testo francese a fronte, pp. 814, e 100). Ha un ricco apparato di note con informazioni preziose per orientarsi tra i casuisti, una Storia del testo indispensabile per comprendere la natura dell'opera.
Basta soffermarsi su qualche argomento trattato in queste diciotto epistole per smarrirsi, per capire quanto siamo disarmati dinanzi a tale cultura. Che ne sappiamo oggi del gesuita Etienne Bauny, ritenuto da Pascal ingegnoso e sottile (VI lettera), che aveva utilizzato Aristotele per definire le azioni volontarie dalle quali dipendono le colpe, che ammetteva la celebrazione della messa anche in stato di peccato mortale, che si era intrufolato nella toilette delle donne consentendo alle giovani la possibilità di disporre della propria verginità? Pascal rintuzza l'esecrabile liberalità nella IX lettera, ma nella medesima deve attaccare padre Antonio Escobar de Mendoza, gesuita autore di una Teologia morale in sei volumi, che riteneva lecito mangiare e bere senza misura per il solo piacere. Del resto, è ancora l'acuto religioso che trova scappatoie morali — attualissime! — per i bancarottieri e i ladri, nonché per taluni omicidi.
Se i gesuiti combattuti nelle Provinciali — ci limitiamo a un misero cenno — rappresentano l'abbraccio tra la dottrina cristiana e lo spirito dei tempi, che cosa resta di Pascal e di tutto il suo rigore? Un cristianesimo puro, rinnovato? Un'utopia? O più semplicemente, come notò Racine, una commedia? È innegabile che nell'opera si respira lo scherzo di Luciano, la sottile ironia di Platone, la veemenza di Cicerone, la moralità di Seneca, ma anche — notava Voltaire — il sale di Molière. Ogni pagina è barocca e antibarocca. L'autore, suggerisce con garbo Carena, sceglie i suoi personaggi nei conventi e alla Sorbona, mettendo in scena gesuiti e ridicolo.
Pascal farà la sua genuflessione culturale alla Compagnia in tempi e opere diverse, a cominciare dal celebre pari, la «scommessa» dei Pensieri, che nasce quasi sicuramente dopo la lettura del saggio del gesuita Antoine Sirmond Dimostrazione dell'immortalità dell'anima del 1635 (la storia è ricostruita da Per Lønning in Cet effrayant pari, Vrin 1980). Ma è vicenda complessa. Già Pierre Bayle nel suo Dictionnaire aveva segnalato che la fonte della «scommessa» è nell'Adversus nationes di Arnobio, opera scritta tra il III e il IV secolo. I gesuiti, però, l'avevano rimessa a nuovo e fatta circolare.

martedì 30 dicembre 2008

il Riformista 30.12.08
Bonaccorsi, il comunista che licenza
di Peppino Caldarola


Vi segnalo fra i prepotenti dell'anno che sta morendo un signore che si è affacciato alla ribalta in queste ultime settimane. Si chiama Luca Bonaccorsi. Tranne che per la parentela con il figlio di Raul Gardini, poco si sa di lui. Ha una passione. Comprare giornali senza versare una lira. L'ha già fatto con "Avvenimenti", poi trasformata in "Left", ora si accinge a conquistare "Liberazione". Le biografie su Bonaccorsi che trovate in Rete vi aiuteranno a capire chi sia questo signore. Si sa che nel giro di pochi mesi la rivista da lui acquistata è finita sotto sequestro giudiziale, come denuncia la Federazione della stampa, e ha accumulato un vasto contenzioso giuslavoristico, cioè deve dare un sacco di soldi ai suoi dipendenti. Il Bonaccorsi ha un segreto per conquistare quella ribalta mediatica che con il suo curriculum neppure sfiora. Licenzia i direttori che si trova davanti. A "Left" ne ha licenziati quattro che, a differenza di lui, non sono sconosciuti nel mondo dell'editoria. Ha fatto fuori Adalberto Minucci, già direttore di "Rinascita", Giulietto Chiesa, corrispondente di "Unità" e "Stampa" da Mosca, Andrea Purgatori, giornalista e scrittore, Alberto Ferrigolo, penna di punta del "Manifesto". Ora il Bonaccorsi si ripete e vuole licenziare Sansonetti. Intendiamoci, non vuole versare quattrini suoi e poi cambiare il direttore. No, lui prima vuole i soldi del finanziamento pubblico e il licenziamento del direttore e poi farà l'editore. È il capitalismo versione Ferrero.

il Riformista 30.12.08
De profundis. Rifondazione comunista è morta
di Ritanna Armeni


Ci sono articoli che si scrivono con imbarazzo e con qualche sofferenza. Questo è uno di quelli. Per chi ha creduto per anni in un progetto politico radicale e avvincente come quello che ha portato alcuni anni fa alla nascita del partito di Rifondazione comunista non è facile comunicare un'analisi e una percezione netta che la porta dire che quel progetto è morto. Quel che mi spinge a fare oggi un'affermazione tanto drastica è la recente vicenda di Liberazione. Il tentativo di chiudere l'esperienza di quel quotidiano attraverso un editore discusso e normalizzatore o attraverso il diktat del partito mi pare davvero l'atto di chiusura di un'esperienza politica importante sia per chi ci ha creduto e partecipato sia per la storia politica del Paese.
Rifondazione comunista è nata dopo la svolta della Bolognina riunendo nella stessa formazione gruppi, tendenze e culture diverse della sinistra italiana.
Ingraiani, cossuttiani, togliattiani, trotskisti e appartenenti ai gruppi della sinistra estrema degli anni Settanta. Nonché una parte consistente di quel popolo comunista socialmente e politicamente messo ai margini dalla nascita modernizzatrice del Pds.
Questa formazione aveva certamente un'identità di classe, ma anche una connotazione conservatrice e arretrata. Poteva diventare un piccolo mostro politico identitario e settario con gli occhi rivolti nostalgicamente al passato e scarsa capacità di analizzare e cambiare il presente.
Così non è stato come anche i meno dogmatici e i più intelligenti dei suoi avversari si sono accorti.
Il tentativo fatto negli anni che sono seguiti alla scissione dal Pci ha capovolto alcune facili previsioni e ha delineato un altro percorso. Il leader politico che l'ha perseguito con davvero straordinario coraggio e audacia, Fausto Bertinotti, si è posto l'obiettivo ambizioso di cambiare la sinistra, tutta la sinistra, a cominciare dal partito di cui era leader smantellando a uno a uno quei muri ideologici e culturali che la condannavano a un ruolo di retroguardia nel mondo dominato dall'ideologia neoliberista nella sua fase trionfante.
Questo è stato il tentativo di introdurre nella politique politicienne di cui erano imbevuti i partiti italiani, le grandi questioni sociali. Questo lo sforzo di penetrare e di farsi penetrare dei grandi movimenti di massa (anche quelli che andavano oltre la tradizione del movimento operaio come il movimento no global) a costo di scalfire il moloch del partito. Questo è stato soprattutto l'innovazione culturale ed eversiva nella cultura della sinistra (anche di quella moderna e moderata) del riconoscimento degli "orrori" e non solo degli "errori" del comunismo e la lotta contro lo stalinismo. Inteso come concezione del potere, dello Stato e anche di quei rapporti fra le persone che permeano fortemente le relazioni nella politica. Questa infine l'affermazione della non violenza come idea forte, costitutiva di una sinistra che rifiutava davvero fino in fondo l'ideologia dell'avversario. E quindi si pronunciava contro la guerra, per la pace, sempre. La scommessa era grande e rischiosa. Si poteva cambiare radicalmente se stessi rimanendo altrettanto radicalmente critici nei confronti di un mondo dominato dall'ingiustizia sociale nelle sue forme più profonde e pervasive?
Non è stato ovviamente un percorso semplice e privo di errori. Chiunque abbia partecipato a quell'esperienza potrebbe elencarli. Chi scrive, ad esempio, rimprovera a quel percorso un eccesso di illuminismo e cioè una eccessiva fede nelle idee e una scarsa attenzione alla relazione delle persone; una solo formale attenzione alla cultura femminile e una sostanziale indifferenza all'innovazione della forma partito. Ma quel percorso era comunque permeato da una profonda ricerca innovativa. E dalla convinzione che una sinistra radicalmente cambiata nei suoi contenuti e nelle sue forme avrebbe potuto portare (questa la seconda audace scommessa) un contributo necessario al governo del Paese.
Bene, tutto questo è stato spazzato via. Questo progetto è stato sconfitto. Il modo in cui siamo stati al governo è stato il catalizzatore. Il che non significa - sia ben chiaro - che esso fosse sbagliato. La storia è piena di sconfitte di idee e progetti giusti. La recente crisi del capitalismo ha riabilitato, e con una forza incredibile persino per chi le ha sostenute, molte idee considerate fino a qualche mese fa "estremiste" e oggi adottate dai più potenti leader mondiali. Ma dobbiamo dirci, a costo di essere crudeli innanzitutto con chi ci ha creduto e con chi ci crede ancora che è stato battuto. Oggi al suo posto ci sono due entità. Rimane un partito che si chiama Rifondazione comunista, che vuole vivere e per farlo si affida a quella che negli scacchi è chiamata "la mossa dell'arrocco" ma che non ha alcun collegamento con quei progetti che ho sinteticamente riassunto. In esso permane una spinta anticapitalistica ma che pare indirizzarsi verso forme di neopopulismo più che verso la ricerca di efficaci forme di lotta sociale. C'è ancora un residuo di critica al potere e alle gerarchie, ma ridotta a qualche facile demagogia e a un inevitabile qualunquismo.
Poi c'è l'entità (non so definirla diversamente) di coloro che non questo progetto non sono d'accordo, vedono il ritorno indietro verso una nostalgica inefficacia, che vorrebbero proseguire nel cammino cominciato, che tentano, ma, a loro volta, non sono in grado (per difficoltà oggettive o per difetti soggettivi) di riprendere in altre forme e in una situazione ben più difficile quel percorso di innovazione politica.
Rimaneva Liberazione, un quotidiano eretico e audace. Capace di dire cose nuove, di aprire percorsi inesplorati e, naturalmente, di fare errori. Il tentativo di chiuderlo (e con quali metodi) mi pare la dimostrazione più chiara e dolorosa della fine di un'esperienza. Mi spinge a parlare di "morte". Per me scriverlo con tanta chiarezza non è facile, ma significa almeno poter cominciare a elaborare il lutto. E darsi la possibilità di ricordare ed esaminare criticamente, duramente e onestamente il passato. Mi pare - almeno personalmente - la condizione per poter nominare il futuro e impegnarsi di nuovo.

il Riformista 30.12.08
Il perbenismo pedagogico di Repubblica
di Andrea Romano


Da anni è prigioniera del ruolo che si è trovata a incarnare nell'universo della sinistra italiana, via via che le sue agenzie più tradizionali entravano in crisi o mutavano di funzione. Ed è rimasta immobile

Almeno una volta la settimana mi dico che dovrei ridurre il numero di quotidiani che compro ogni mattina. Non sono molti, non riuscirei a leggerne più di tre o quattro, ma a fine mese fanno comunque il loro effetto. E comincio la lista delle rinunce possibili da Repubblica. Potrei farne a meno, immagino. Non perché sia un brutto giornale, né perché costi più degli altri. Potrei farne a meno perché non mi sorprende mai. Giorno dopo giorno so sempre cosa aspettarmi, quale sarà la prima pagina e quale la linea prevalente nei commenti. Ma è solo una fantasia di breve durata. In realtà continuo e continuerò a comprare Repubblica, proprio perché non riesco a privarmi di quel suo essere tanto prevedibile e scontata. Nelle paludi della sinistra italiana, dove tutto affonda e riemerge con tanta frequenza, Repubblica è l'unico motore immobile di una rappresentazione del mondo di cui continuo ad aver bisogno per alimentare passioni e idiosincrasie.
È vero che ogni quotidiano (e anche il Riformista) ha una sua componente di fissità. Così come è vero che la grande stampa italiana ha conosciuto nell'ultimo quindicennio una fase di conclamata stagnazione. Nessun grande giornale, tranne la Stampa di Anselmi, ha davvero cambiato i modi del proprio linguaggio e le forme della propria lettura del Paese. Non è colpa di nessuno in particolare se non del generale immobilismo che ha colpito la società politica italiana, e dunque anche la sua leadership giornalistica, in questa lunga stagione storica. In fondo se ogni giorno sentiamo parlare gli stessi protagonisti politici di quindici anni fa perché mai avrebbero dovuto cambiare le pagine che ne raccontano e ne commentano le gesta?
Detto questo, Repubblica è rimasta più immobile di altri. Perché da anni è prigioniera del ruolo che si è trovata a incarnare nell'universo della sinistra italiana, via via che le sue agenzie più tradizionali entravano in crisi o mutavano di funzione. E in questa transizione tutt'altro che conclusa, dei partiti ma non solo, Repubblica ha finito per essere l'unico punto di riferimento nell'orizzonte di una vasta tribù sprovvista di altri ganci. In questo senso è l'unico vero giornale di partito che ancora sopravviva in Italia. Di un partito che non c'è ma che si sente tale nella grammatica quotidiana di aspettative e percezioni. La stessa cosa non è accaduta a destra, sia perché da quel lato la trasformazione dell'antropologia politica è stata più traumatica sia perché il Giornale non è mai riuscito a sostituire la funzione di indirizzo culturale esercitata su quel mondo dalla televisione.
Repubblica ha dunque colmato il vuoto della politica a sinistra, trasformandosi essa stessa in fonte di legittimità più di quanto non fosse mai accaduto sin dalla sua primissima e già molto pedagogica versione proto-scalfariana. Ma l'ha fatto restando un giornale commerciale, che deve vendere e farsi leggere ogni giorno che il Signore manda in terra. E dunque un giornale che legittima e indirizza una parte del Paese senza smettere di diversificare la propria offerta, ad esempio riducendo le pagine di cronaca politica e aumentando quelle di società come è accaduto nell'ultimo anno. Ma sempre restando fedele al patto stipulato nei fatti con il proprio pubblico, che da quelle pagine si aspetta ogni giorno la stessa dose di rimbrotti e pedagogia.
È qui la ragione della sua prevedibilità. Diventata una sorta di partito senza poter mai governare né essere votata, Repubblica ha curvato la sua nuova funzione in direzione di una forma peculiare di perbenismo, adattabile alle sue diverse pagine e composto di una galleria di formule immutabili che devono rassicurare e mai sorprendere, nei consumi culturali e nei comportamenti sociali molto più che nelle manifestazioni direttamente politiche. Qualche anno fa la fenomenologia del perbenismo di Repubblica fu sezionata da una bella e rimpianta rubrica del Foglio, "Recensire Rep" di Christian Rocca. Oggi ce la troviamo tutti i giorni sotto gli occhi, in una melassa che appanna anche le firme più brillanti schierate da quel quotidiano.
Io, ad esempio, sono da sempre un fan appassionato di Francesco Merlo, che considero uno dei più fulminanti scrittori italiani molto più che un grande giornalista. Da quando lo cerco su Repubblica ho come l'impressione di faticare a ritrovarne la forza, tra i tanti Michele Serra e i Pietro Citati che gli si affollano intorno con il loro piccolo catalogo di luoghi comuni. Sono gli effetti collaterali di una stagnazione che ha avuto in Repubblica la sua boa più ferma. Ma che domani, magari per l'innesco di una qualche trasformazione delle leadership politiche, potrebbe tornare a liberare l'enorme potenziale comunicativo di cui ancora dispone.

Corriere della Sera 30.12.08
Retroscena. E la De Gregorio accentua la linea dura e si scaglia contro «l'Italia dei favori»
«Scissione» all'Unità, Padellaro pensa a un nuovo progetto L'ipotesi: un giornale antiberlusconiano di 12 pagine
di Fabrizio Roncone


ROMA — La voce girava da giorni, ma poi — lavorandoci su — si è rivelata un po' più di una voce. Allora, sentite: Antonio Padellaro starebbe pensando di lasciare
l'Unità, di cui è stato a lungo direttore, per fondare e dirigere un nuovo quotidiano. Il progetto sarebbe questo (e ora, naturalmente, vi verrà facile pensare subito a un Foglio di sinistra): ci hanno spiegato che Padellaro immagina un giornale agile, colto, spregiudicato; con una foliazione intorno alle 12 pagine, una decina di giornalisti (ben selezionati) in redazione, il bilancio in pareggio già a quota 8 mila copie, e poi, soprattutto, una linea politica netta, militante, vicina pure a una certa sinistra radicale delusa, una linea dichiaratamente antiberlusconiana ma anche molto sferzante sul fronte della questione morale, intransigente, incapace di qualsiasi compromesso. Verrebbe da scrivere una linea «dipietrista », non fosse che Padellaro sembrerebbe avere poche intenzioni di chiedere aiuto all'Italia dei valori (che pure non ha ancora un quotidiano di riferimento e un finanziamento pubblico potrebbe, quindi, garantirlo).
Padellaro, a questo progetto, crede fortemente. Raccontano che nonostante all'Unità non abbia più neppure una stanza, ha rifiutato collaborazioni prestigiose e il suo tempo lo spende incontrando persone, si confronta con il suo amico e predecessore Furio Colombo, avrebbe già pure individuato un potenziale editore, tiene alto l'umore dei giornalisti — «verranno tempi migliori» — che, nel quotidiano fondato da Antonio Gramsci e ora diretto da Concita De Gregorio, gli sono rimasti fedeli.
La De Gregorio, come rilevano molti osservatori, continua a fare il suo eccellente lavoro (il nuovo accattivante formato sembra funzionare e ci sarebbero addirittura copie conquistate sul difficile mercato): ma parrebbe aver annusato il pericolo. Così si spiegherebbe la virata su certi temi caldi rilevabile ieri in un suo editoriale, in cui bellicosa annunciava «una serie di conversazioni sull'Italia dei favori », cominciando con un'intervista a Gerardo D'Ambrosio.
Padellaro legge e ricorda però i bei tempi andati quando l'Unità cavalcò magnificamente l'ondata girotondina, e immagina ciò che potrebbe accadere con un giornale firmato da lui e capace di intercettare gli umori di piazza Navona: sul palco, quel giorno, con Di Pietro, c'erano Marco Travaglio e Moni Ovadia (due suoi fidati editorialisti). Padellaro starebbe pensando, così, già alla nuova squadra: nella quale conta di portare, dicono, anche Maria Novella Oppo, strepitosa critica televisiva, ed Enrico Fierro, inviato di punta.

Repubblica 30.12.08
Un sondaggio online conta i fan del dittatore è lui il terzo personaggio più amato del Paese
Il "Piccolo padre" scalda ancora il cuore del popolo russo
L’uomo che creò i gulag superato solo da Nevski e dal ministro zarista Stolypin
di Pietro Del Re


MOSCA. È il terribile Josif Stalin l´eroe della Russia, il personaggio più rappresentativo della sua storia. Questo emerge da un popolare sondaggio online che si è concluso due giorni fa. In realtà, in questa sorta di referendum nazionale destinato a proclamare l´icona del Paese e insieme il suo nume tutelare, al primo posto è arrivato il leggendario principe Aleksander Nevski, colui che nel 1242 respinse gli invasori teutonici. E secondo è giunto il ministro zarista Piotr Stolypin, che fu feroce contro gli oppositori dell´epoca ma che poté promuovere importanti riforme agrarie. «È vero, Stalin è soltanto terzo, ma la sua presenza in testa alla classifica ha di fatto eclissato gli altri vincitori», scriveva ieri il quotidiano Nezavissimaia Gazeta.
«Il nome della Russia» è il titolo del sondaggio lanciato lo scorso maggio dal canale televisivo Rossia. Nei dibattiti organizzati attorno al concorso, ogni candidato aveva un suo illustre "avvocato". Il leggendario Nevski è stato brillantemente difeso dal metropolita Kirill, reggente della Chiesa ortodossa e probabile successore del defunto patriarca Alessio II. A perorare la causa dell´oscuro Stolypin è stato il regista Nikita Mikhalkov, che con la sua scoppiettante oratoria ha consentito al ministro di superare personaggi ben più importanti, quali il poeta Pushkin (quarto classificato), Lenin (sesto), Dostoievskij (settimo) o il chimico Mendeleev (nono).
L´avvocato di Stalin è stato invece un personaggio senza carisma e non particolarmente abile. Proprio per questo è difficile avere dubbi sulla popolarità del "Piccolo padre". A difendere il dittatore è stato infatti il generale Valentin Varennikov, uno dei protagonisti del tentato golpe dell´agosto 1991. Oggi ottantacinquenne, il generale era tra quelli che cercarono di rovesciare il presidente Gorbaciov e che, dopo pochi mesi di galera, furono graziati da Boris Eltsin. Varennikov, in altre parole, non è mai stato una figura popolare né stimata. Il che non ha impedito al tiranno di cui s´era fatto sponsor di piazzarsi al terzo posto.
Come spiegare allora questa popolarità? È vero, durante «la grande guerra patriottica», come viene chiamata qui la II Guerra Mondiale, i soldati russi andavano incontro al piombo nazista inneggiando a Stalin. Ma la storia ha dimostrato che l´organizzatore di deportazioni e carestie ha provocato milioni di morti, molti dei quali russi. E allora? «Allora, dopo il crollo dell´Unione sovietica e la successiva crisi di fiducia, il nostro Paese vuole ritrovare la sua forza. E Stalin, fondatore della super-potenza sovietica, è il simbolo di una Russia vittoriosa», dice Elena Jampolskaja delle Izvestia, quotidiano vicino al Cremlino. Sulle colonne dello stesso giornale, Maxim Yussin riconosce che è tuttavia «difficile andar fieri dell´inventore dei gulag e delle purghe del 1937».
C´è anche chi si stupisce dei due primi arrivati. Anzitutto il principe Nevski, di cui le cronache riportano poche cose, se non che strinse amicizia con gli stessi tartari che invasero la Russia, e la cui celebrità è probabilmente soltanto dovuta allo splendido e immaginifico film realizzato nel 1938 da Serghei Eisenstein. E poi il ministro Stolypin, passato alla posterità per la sua "cravatta": così veniva chiamata la corda con cui faceva impiccare i "terroristi" quando era ministro dell´Interno di Nicola II.
La prima fase del concorso si era conclusa con la presentazione di cinquecento candidati. In luglio il voto riservò una sgradita sorpresa: Stalin era in testa, distanziando di varie lunghezze tutti gli inseguitori. Il voto fu sospeso e i risultati annullati: il balzo del dittatore, dissero gli organizzatori, era stato manipolato da hacker neo-nostalgici. A settembre, quando la corsa riprese con nuovi sistemi di sicurezza, e con soltanto dodici candidati, Stalin aveva resistito alla scrematura.
Domenica sera, durante l´annuncio dei risultati, il regista Mikhalkov ha dichiarato che in Russia è giunto davvero il momento di ragionare sul significato della popolarità di Stalin. «Grazie a Dio, Aleksander Nevski s´è aggiudicato il primo posto, ma il fatto che Stalin sia arrivato terzo deve farci seriamente riflettere», è sbottato il regista.

il Riformista 30.12.08
Il partigiano, il boia nazista e la mediocrità della barbarie
di Andrea Romano


Polonia. Per otto mesi, nel 1949, l'antifascista Kazimierz Moczarski si trova nella stessa cella con il generale delle SS Jürgen Stroop, braccio destro di Himmler e responsabile della distruzione del ghetto di Varsavia. Tornato in libertà raccoglie i frutti di quell'incontro in un libro, che esce in questi giorni in Italia.

«Il sigillo ufficiale di chiusura della Grande Azione fu l'esplosione della Grande Sinagoga… Prolungai l'attimo di attesa. Alla fine gridai "Heil Hitler!" e schiacciai il bottone. Le fiamme dell'esplosione si levarono fino alle stelle. Un boato spaventoso. Una fantasmagoria di colori. Un'indimenticabile allegoria del trionfo sull'ebraismo. Il ghetto di Varsavia aveva cessato di esistere. Perché tale era la volontà di Adolf Hitler e di Heinrich Himmler».
Sono le parole con cui il generale delle SS Jürgen Stroop, braccio destro di Himmler e responsabile della distruzione del ghetto di Varsavia nel 1943, ricorda la conclusione del suo capolavoro di ferocia. Sono le parole di un carnefice del tutto normale. Cresciuto in una normale cittadina di provincia e padre di una normale famiglia tedesca, protagonista di una normale carriera nella burocrazia nazista che lo portò altrettanto normalmente a rendersi responsabile dell'assassinio e della deportazione dei 70mila ebrei superstiti di Varsavia dopo aver partecipato allo sterminio di oltre mezzo milione di ebrei galiziani.
Una normalità di cui rischiavamo di perdere i contorni. Perché abbiamo conosciuto nazisti raffigurati in ogni travestimento e depravazione morale, afflitti da perversioni sessuali semplici o composte, ma sempre più lontani dalla banalità del male novecentesco di cui furono interpreti perfetti. Jürgen Stroop ci riporta al grado zero del nazifascismo, in una testimonianza di enorme valore che arriva ai lettori italiani finalmente pubblicata da Bollati Boringhieri (Kazimierz Moczarski Conversazioni con il boia, 440 pp., 20 euro).
È la straordinaria normalità di un libro tutt'altro che normale, scritto da un eroe partigiano costretto nella stessa cella del boia nazista che fino a qualche anno prima aveva combattuto con le armi. Kazimierz Moczarski era stato un dirigente dell'Armia Krajowa, la principale formazione militare della resistenza polacca, e prima ancora un fondatore del Club Democratico, organizzazione antifascista nata a sinistra dalla frantumazione del movimento nazionalista dopo la morte del maresciallo Pilsudski nel 1935. Dunque un democratico polacco, con studi a Parigi e mestiere di giornalista, che negli anni dell'occupazione tedesca si occupa di informazione e controspionaggio per il movimento clandestino di liberazione. E che nel 1945 viene travolto dall'ondata repressiva che il nuovo potere comunista insediato dai sovietici scatena contro l'Armia Krajowa e le altre organizzazioni antifasciste democratiche.
Rinchiuso nella galera di Mokotòw, è condannato prima a cinque poi a dieci anni e infine (nel 1952) alla pena di morte per «tradimento del popolo polacco» al termine di un processo farsa nel corso del quale ha la forza di dichiararsi innocente e di denunciare i metodi dell'inchiesta.
Quella pena non fu mai eseguita, ma nel frattempo Moczarski era stato sottoposto fin dal 1945 a ben quarantanove tipi di tortura per agevolare una delazione che non arrivò mai. Come scrisse nel 1955 in una lettera al Tribunale supremo, pochi mesi prima della fase di disgelo che lo liberò da undici anni di prigionia, tra quelle torture erano comprese «le percosse con un manganello di gomma sulle parti del corpo più sensibili (base del naso, mento, ghiandole salivali, parti sporgenti delle scapole), percosse con un bastone sulla parte superiore dei piedi nudi all'altezza delle dita e sulle piante dei piedi; strappo dei capelli da tempie, nuca, mento, petto, perineo e organi genitali; stritolamento delle dita in mezzo a tre matite; bruciature con una sigaretta accesa intorno alla bocca e agli occhi; bruciatura con la fiamma delle dita di entrambe le mani; privazione del sonno per sette o nove giorni».
Per oltre otto mesi, dal marzo al novembre 1949, quel democratico antifascista viene rinchiuso dai nuovi padroni della Polonia nella stessa cella occupata dal nazista che aveva messo a ferro e fuoco Varsavia. E invece di subire la circostanza come una tortura minore, utilizza quel tempo per un'indagine nella mente di Jürgen Stroop. Parlandogli tutti i giorni e ricostruendo le esperienze, le convinzioni e le circostanze che lo avevano condotto a essere il boia perfetto. È davvero la mediocrità del male il tratto di quella vita, così come la ricostruirà Moczarski una volta tornato in libertà. La modestia del figlio di un sergente di polizia che cresce senza altre aspirazioni che quella di un impiego all'ufficio provinciale del catasto e che combatte da volontario nel primo conflitto mondiale, tornando a casa convinto come molti altri che solo «il lavorio sotterraneo di ebrei, marxisti e minoranze nazionali del Reich» avesse sottratto la vittoria a Berlino.
Un miserevole reduce sedotto dal mito germanico non meno che da quello del prestigio e dei beni materiali, che aderisce nel 1932 alle SS e al Partito nazionalsocialista convinto di aver trovato la giusta strada di autopromozione sociale prima ancora che la declinazione più esatta per la propria identità politica. Fino al sogno più sfrenato, che per Stroop ha la forma di un latifondo di cui godere in Ucraina dopo la vittoria finale sull'Urss: «Un palazzo dove la mia sposa avrebbe diretto una servitù educata all'europea. Il cameriere avrebbe apparecchiato per la cena. Porcellane, argenterie, cristalli, candele… Sehr elegant! Io, nel cortile, che insegno a mio figlio Olaf a montare a cavallo. Tutt'intorno il silenzio, interrotto dal ronzio delle zanzare». Ed è facile immaginare che per Moczarski le mediocri aspirazioni del nazista Stroop fossero le stesse della nuova casta di funzionari del regime comunista polacco che lo costringevano in galera. Anche questi sorretti dalla stessa miscela di opportunismo e sottomissione, privilegio e gigantismo che aveva sorretto la burocrazia nazista fino alla guerra.
Il gigantismo di Stroop si chiamò infine Varsavia, dove nell'aprile 1943 fu incaricato direttamente da Himmler di completare la distruzione del ghetto ebraico con la deportazione dei circa 70.000 sopravvissuti dagli oltre 400.000 che vi erano stato segregati nel 1940. La resistenza opposta dagli abitanti del ghetto alla "Grande Azione" tedesca, nel corso di quattro settimane di combattimenti casa per casa e bunker per bunker, divenne già in quei giorni il segno della possibilità della rivolta civile contro il dominio nazista. E fino a oggi sarebbe rimasta emblema della tenacia ebraica contro qualsiasi minaccia di annientamento rivestita da qualsiasi forma di fondamentalismo.

Nel maggio del 1943 Jürgen Stroop avrebbe provvisoriamente vinto con il fuoco e con la demolizione di ogni edificio del ghetto, fino alla Grande Sinagoga, per poi concludere i suoi giorni impiccato nel 1952 per crimini di guerra. Ma la sua seconda punizione sarebbe arrivata alcuni anni dopo, con il ritratto che solo un ex nemico e compagno di cella come Moczarski fu in grado di rendergli dopo averne compreso e descritto i veri meccanismi dell'anima.

Corriere della Sera 30.12.08
Novecento Un saggio sulla «Difesa della razza» e sulle discussioni che la rivista suscitò nella cultura del regime
E il fascismo arruolò Dante e Leopardi per colpire gli ebrei
di Antonio Carioti


Uno dei falsi più eclatanti fu l'arruolamento di Giacomo Leopardi come «poeta protofascista», addirittura precursore del mito ariano. Si leggeva anche questo sulla rivista La Difesa della razza: fuMassimo Lelj, bizzarra figura di ex anarchico convertito alla fede littoria, grande cultore della filosofia di Vico, a pubblicare un'antologia di pensieri tratti dallo Zibaldone, scelti e commentati con perizia manipolativa in modo da presentare l'autore come un accanito nazionalista. E lo stesso Lelj non esitò ad arruolare anche Dante: di lui scriveva che, adottando la lingua volgare, ci aveva mostrato «il volto della razza».
D'altronde tutta la carriera di Telesio Interlandi, direttore del famigerato quindicinale, è segnata da un sistematico asservimento della cultura, di cui il giornalista siciliano non era affatto sprovvisto, alle esigenze politiche. Non a caso le sue creature, a partire dal quotidiano Il Tevere (fondato nel 1924), furono sempre generosamente foraggiate dal potere. Lo storico Francesco Cassata, nell'ampio e approfondito saggio «La Difesa della razza» (Einaudi), presenta Interlandi come un «estremista di regime», un ringhioso mastino antisemita che per diverso tempo Benito Mussolini tenne al guinzaglio, per poi scatenarlo al momento di varare le leggi razziali, affidandogli uno strumento apposito per colpire con violenza inaudita le vittime designate.
Non bisogna credere però, nota Cassata, che La Difesa della razza, con i testi e le immagini aberranti di cui il volume fornisce copiosi esempi, fosse l'unica (e magari isolata) espressione del razzismo fascista. Al contrario, proprio l'attenta ricostruzione delle polemiche suscitate dalla rivista dimostra che l'antisemitismo circolava abbondantemente negli ambienti intellettuali legati al regime. Per esempio il padre del futurismo Filippo Tommaso Marinetti respingeva con sdegno gli attacchi di Interlandi all'arte moderna quale «adulterazione ebraica del gusto italiano», ma solo per sostenere che gli ebrei non erano dotati di alcuna creatività artistica e quindi appariva assurdo attribuire a loro le realizzazioni delle correnti d'avanguardia.
Inoltre Cassata documenta quanto possa essere fuorviante una distinzione rigida tra il razzismo biologico e quello spirituale. È vero che il filosofo tradizionalista Julius Evola fustigava ogni visione «zoologica » e «scientista», a suo avviso subalterna agli «idoli del positivismo ottocentesco», richiamandosi al valore preminente dello spirito. E dalle colonne della Difesa della razza gli replicava, per una curiosa combinazione, un futuro strenuo avversario degli evoliani nel Msi, Giorgio Almirante, che esaltava invece il razzismo «del sangue, della carne e dei muscoli». Ma a ben vedere Evola non rigettava affatto la discriminazione su base biologica, semmai intendeva integrarla e affinarla su un più sofisticato piano etico, per definire una concezione «totalitaria » della razza atta a smascherare gli individui che «pur non essendo proprio ebrei nel sangue, lo sono decisamente nel modo d'essere e nel carattere».
Al tempo stesso, Interlandi e i suoi collaboratori non si accontentavano certo di bersagliare ebrei, neri e meticci, magari raffigurandoli in forma di animali repellenti (rettili, ragni, topi, avvoltoi). La Difesa della razza era anzi ossessionata dalle influenze giudaiche occulte, temute come un gravissimo fattore d'inquinamento della nazione. Pullulavano quindi sulle sue pagine, come su quelle del Tevere e dell'altra rivista interlandiana, Quadrivio, le invettive rivolte alla «gente falso-ariana, indelebilmente circoncisa, anziché sul prepuzio, nella malata profondità dello spirito». L'intera borghesia italiana, per il fascismo razzista intransigente, era sospetta di coltivare abitudini contaminate dalla mentalità ebraica.
Insomma, sottolinea Cassata, La Difesa della razza e i suoi critici spiritualisti, compresi quelli di fede cattolica come Nicola Pende e Giacomo Acerbo, concorsero a produrre un sincretismo razzista nel quale i confini tra biologia e cultura tendevano a sfumare. L'importante non era la coerenza teorica, ma lo sforzo di plasmare un «italiano nuovo », depurato da qualsiasi influsso allogeno e prono alle direttive del regime. Perciò il motivo razziale va considerato parte integrante della «rivoluzione antropologica» perseguita dal fascismo. Il «culmine logico, seppure estremo», come scrive Cassata, del programma di Mussolini. Non certo una fatale deviazione dovuta alla scelta politica di allearsi con il Terzo Reich.

Corriere della Sera 30.12.08
Ideologie Teorie pseudoscientifiche, populismo, fondamentalismo religioso, xenofobia
Tutti i pregiudizi che alimentano l'antisemitismo
di A. Car.


Morbo niente affatto debellato, l'antisemitismo continua ad attirare l'interesse degli studiosi. Lungi dal costituire «una teoria ideologica precisamente strutturata», osserva lo storico Simon Levis Sullam nel saggio L'archivio antiebraico (Laterza, pp. 101, € 14), esso si presenta come un groviglio retorico in cui confluiscono elementi della più varia natura (stereotipi xenofobi, pregiudizi religiosi, suggestioni anticapitaliste e populiste), che si combinano di volta in volta in forme diverse. Una rassegna ampia e articolata di come il problema si è posto in Italia (con interessanti incursioni altrove, dalla Gran Bretagna alla Romania) si trova nel volume L'intellettuale antisemita (Marsilio, pp. 229, € 20), curato da Roberto Chiarini e aperto da una prefazione di Stefano Folli. Il libro raccoglie gli atti di un convegno organizzato a Salò dal Centro studi sulla Rsi, con un confronto serrato fra studiosi di vario orientamento (da Giovanni Belardelli a Francesco Germinario, da Alberto Cavaglion a Renato Moro) sulle origini, la natura e le conseguenze dell'antisemitismo fascista. Sposta invece l'obiettivo dai persecutori alle vittime, soffermandosi sul nodo della memoria, lo studio di Raffaella Di Castro Testimoni del non-provato (Carocci, pp. 327, € 26): un'inchiesta sulla difficile condizione psicologica e morale di coloro che, come l'autrice, hanno avuto la ventura di ascoltare testimonianze dirette dei propri cari sulla Shoah. Da segnalare infine il numero speciale dedicato al settantesimo delle leggi razziali dalla rivista Ventunesimo Secolo, edita da Rubbettino.

Corriere della Sera Roma 30.12.08
L'eroe e il Tevere
In un libro di Daniel Pick, storico e psicoanalista, l'ossessione di Garibaldi: «salvare» Roma dal fiume
di Pietro Lanzara


«Un'ora della nostra vita a Roma vale un secolo di vita in qualsiasi altro luogo», aveva scritto Giuseppe Garibaldi mentre la Repubblica Romana, nel 1849, stava crollando intorno a lui. A fine gennaio 1875, a 68 anni, Garibaldi lascia Caprera per Roma avviando una «crociata» che sarebbe diventata la sua ossessione: deviare il corso del Tevere fuori dalla Città Eterna, sconfiggere le esondazioni e le febbri malariche, prosciugare le paludi dell'Agro e irrigare le campagne, creare dighe e bacini, rendere il fiume navigabile e perfino colmarne il letto per creare dentro Roma un boulevard che sarebbe stato la meraviglia del mondo moderno, simile a quelli parigini del barone Haussmann.
L'Eroe dei due Mondi sbarca a Civitavecchia in camicia rossa e poncho, piegato dall'artrite e dai reumatismi, al braccio del figlio Menotti, sale sul treno in terza classe al suono della banda, trova nella Capitale una folla di adoratori, una processione trionfale che lo scorta e, subito, riceve oltre trecento carte da visita dai parlamentari.
La scienza contro la superstizione: il sogno è di riportare il fiume alla purezza dell'antichità, non più squallido veicolo di inondazioni che lasciano acque stagnanti, che provocano infezioni e miasmi, la Febbre Romana (la «mal'aria» colpiva ancora nel 1886 il 66 per cento degli abitanti del Lazio).
Per realizzare il progetto che era stato sfiorato da Papi e Imperatori dei secoli passati, il generale crea un gabinetto di esperti, progetta grandi opere di ingegneria, dà vita a un autentico «lobbysmo» politico, cerca fondi e assistenza tecnica in tutta Europa, contatta anche i Rotschilds, discute con medici, archeologi, artisti. Fra il febbraio 1875 e la fine dell'anno si susseguiranno tre progetti: uno di Quirico Filopanti (pseudonimo di Giuseppe Barilli) professore d'ingegneria idraulica a Bologna, compagno d'armi del 1849, che prevedeva 17 chilometri di canale a est della città e una diga sopra Roma, oltre a un porto a Fiumicino collegato per ferrovia; un altro del colonnello e patrizio romano Luigi Amadei, altro reduce delle camicie rosse»; il terzo di Alfredo Baccarini, consulente governativo, che proponeva una soluzione di compromesso.
Dopo una frustrante odissea, fra ostacoli e rinvii, Garibaldi vedrà svanire la sua chimera nelle spire di un inestricabile labirinto burocratico di politici, ministri, commissari, e una stampa popolare lo mostrerà come un novello Gulliver, legato e immobilizzato dalle corde dei lillipuziani.
All'impresa che non fu compiuta, Daniel Pick ha dedicato il libro «Rome or Death, the Obsessions of General Garibaldi» (Jonatahn Cape, The Random House Group). Storico e psicoanalista, professore alla Queen Mary, University of London, Pick affronta una serie di questioni: che cosa trasformò il condottiero e rivoluzionario in un apostolo della salute pubblica, della redenzione di quella Roma dove era arrivato la prima volta a diciott'anni, per portare con il padre, su una barca tirata da bufali lungo il Tevere, un carico di vini? Come avvenne che la Città Eterna si trasformò per lui nella «matrona del mondo», una malata da guarire, una donna da amare, una prigioniera da liberare? Daniel Pick indaga, attraverso una serie di folgoranti concatenazioni, su enigmi biografici e «puzzles» psicologici che si innestano sui temi sociali, culturali e politici; rivisita documenti e biografie, scava nelle corrispondenze, nelle cronache del tempo, nelle carte spesso inedite degli archivi pubblici e privati, dall'Istituto del Risorgimento al Vittoriano alle Biblioteche del Parlamento e all'Archivio centrale dello Stato. Senza trascurare, ma anzi dando un senso profondo e illuminante alle pagine degli scrittori che hanno raccontato Roma come luogo di «morte e desiderio», con la sua «allure» anche morbosa, sensuale: la patologia della città come l'hanno vissuta John Ruskin e Charles Dickens, Henry James e Nathaniel Hawthorne, George Eliot, Matilde Serao e Gabriele D'Annunzio, Hippolyte Taine ed Émile Zola.
Nella notte fra il 26 e il 27 dicembre 1870, il Tevere aveva invaso «come un ladro nella notte » Trastevere e il Ghetto, i piani bassi dei palazzi in via del Corso, dove si transitava su barche, via Condotti, via Giulia; piazza Navona e quella del Pantheon apparivano piuttosto come laghi. Per fortuna le vittime furono pochissime, ma si trattò di un disastro epico, che i clericali invisi a Garibaldi considerarono una punizione biblica per la presa di Porta Pia. Fango e melma dappertutto, la città senza più gas e illuminata solo a candele. Vittorio Emanuele II arrivò alle tre del mattino, distribuì elemosine in centro e alle cinque del pomeriggio ripartì per Firenze. Ma Garibaldi rinnovò il suo mantra «Roma o Morte », quello del 1862, quando l'aveva proclamata nel suo cuore Capitale d'Italia: ora occorreva salvarla da una putredine fisica ma anche morale.
Pure tenendosi lucidamente a distanza dalle «spiagge selvagge della psicostoria», Daniel Pick affascina i lettori con un approccio psicoanalitico (del resto Freud aveva paragonato Roma a «un'entità psichica» e aveva fatto notare agli astanti, al capezzale, che «mio padre sul suo letto di morte assomigliava a Garibaldi»). Lo studioso individua, nel triangolo colpa, lutto ed espiazione, il peso del trauma patito con la morte di Anita proprio per le febbri malariche, nella marcia terribile del 1849 in fuga da Roma; emergono gli aspetti depressivi della personalità: «naturale tendenza alla melancolia », dirà di sè Garibaldi, «divento ogni giorno più scettico e misantropo».
Il «coup de grâce» al suo sogno sul Tevere, «il tramonto della mia carriera», arriverà il 27 novembre in una riunione al ministero dei Lavori Pubblici: cade la soluzione «esterna», contro le inondazioni si costruiranno banchine e muraglioni. La vecchia Roma ha vinto sulla nuova. Lo stesso anno, quasi segno del destino, muore a 16 anni di malaria, come la madre, la figlia che ne porta il nome, Anita. I fantasmi ritornano.

il Riformista 30.12.08
Voci da Gerusalemme. Le proteste nelle Università, il timore di ritrovarsi sul campo di battaglia
«Siamo stufi, al fronte non ci andiamo»
di Anna Momigliano


Il peggio deve ancora venire. L'avvertimento è di Dan Harel, numero due dello Stato maggiore israeliano, diretto ai dirigenti di Hamas. Ma il messaggio è sufficiente a fare gelare il sangue nelle vene a molti giovani israeliani: l'operazione militare a Gaza andrà avanti, questo è solo l'inizio.
Mentre le bombe continuano a cadere sulla Striscia e i razzi sulle cittadine del Sud di Israele, la vita nel resto del Paese continua a scorrere normalmente, o quasi. Ma la domanda è : ci sarà un'invasione da terra? Le autorità hanno richiamato 6500 riservisti e l'esercito è pronto a intervenire. L'incertezza tiene l'intero Paese con il fiato sospeso. E non solo perchè un'operazione via terra significa una guerra più lunga, sanguinosa, e più difficile da vincere. Ma soprattutto perchè un conflitto via terra significa coinvolgere, direttamente o indirettamente, l'intera popolazione israeliana. In un Paese dove tutti gli uomini sotto i 45 anni sono regolarmente richiamati alle armi (le donne trascorrono due anni consecutivi nell'esercito), tutti avrebbero qualcuno al fronte: un fratello o una sorella, un figlio o un genitore.
Insomma, anche se per il momento i grandi centri abitati (Tel Aviv, Haifa e Gerusalemme) restano lontani dal fronte, in Israele si respira tensione e incertezza. Proprio come due anni e mezzo fa, quando nell'estate del 2006 cominciavano ad arrivare le lettere di richiamo ai riservisti che avrebbero combattuto la guerra contro Hezbollah. Fu anche la loro rabbia a costringere Ehud Olmert alle dimissioni: l'accusa era quella di avere mandato al massacro centinaia di giovani israeliani, per combattere una guerra inutile e mal pianificata.
Non deve stupire, dunque, se anche oggi sono i giovani ad opporsi all'operazione militare. Ieri studenti hanno organizzato manifestazioni di protesta nelle principali tre università israeliane. Circa 300 giovani nel campus dell'Università di Haifa, 200 a Tel Aviv e alla Hebrew University di Gerusalemme. Sempre a Tel Aviv qualche altro centinaio di manifestanti pacifisti si è raccolto davanti alla sede del ministero della Difesa. Inoltre, alcuni attivisti di destra hanno organizzato contro-manifestazioni, a sostegno delle operazioni militari.
Si tratta di manifestazioni relativamente piccole, beninteso. Ma il fatto che la reazione sia stata così pronta rappresenta comunque una novità, per Israele. Un segno che la preoccupazione per una ulteriore escalation è più forte che mai: ai tempi della guerra del Libano, si era dovuto aspettare settimane perchè il fronte pacifista si mobilitasse.
Uno studente spiega al Riformista il fatto che sempre più giovani israeliani non si riconoscono più nel mantra che «non c'è alternativa», «molti di quelli che hanno combattuto hanno visto che non è servito a molto», ci dice un manifestante a Tel Aviv. Tanti ragazzi hanno rischiato molto, sia in termini di pericolo sul campo che di stress psicologico, tanto che i suicidi tra i coscritti e i riservisti sono un fenomeno in crescita, racconta un altro ragazzo. E aggiunge: «Siamo stufi, semplicemente stufi».
Anche al di fuori dei campus, le critiche all'operazione «Piombo fuso» su Gaza sono molto più forti rispetto all'inizio della guerra del 2006: L'intera idea di «dare una lezione a Hamas» non ha alcun senso, perchè se c'è una cosa che la Storia ci insegna è che nessuna azione militare ha aiutato il dialogo con i palestinesi, scriveva ieri lo storico Tom Segev su Haaretz. Per il momento, l'opposizione alle operazioni militari è ancora minoritaria tra la popolazione. Ma se Israele dovesse lanciare un'operazione massiccia via terra, le cose potrebbero cambiare. La rabbia per la guerra del Libano, e le vite di giovani israeliani mandati a morire inutilmente, è ancora molto radicata.

Repubblica 30.12.08
La guerra dei poeti
Se Penna assalta Montale
Recuperate alcune annotazioni inedite. Un saggio di Roberto Deidier
di Francesco Erbani


L’autore di "Una strana gioia di vivere" appuntò su una copia delle "Occasioni" una serie di giudizi molto critici
La pretesa di fare chissà che: Verso Vienna (il ridicolo) o cose brevi e ridicole e in più povere
La sigla finale: d´effetto ma troppo forte, barocco, disgustoso o letterario e comune

Il Montale delle Occasioni - le Occasioni sono la seconda raccolta del poeta ligure, pubblicata nel 1939 - è un Montale «che ha la pretesa di fare chissà che: Verso Vienna (il ridicolo) o cose brevi e ridicole e in più povere». Scritte con calligrafia nervosa su una pagina bianca di quella stessa raccolta (Verso Vienna è il titolo di una poesia che lì compare), le parole di Sandro Penna sono il suggello smozzicato e un po´ spietato di un´amicizia che si è chiusa e, con l´amicizia, del rapporto intellettuale troncato fra un poeta già affermato e a suo agio con riviste ed editori e un altro più acerbo e che il primo aiuta a inerpicarsi sulla scena letteraria.
Il sodalizio fra Montale e Penna, come quello fra Saba e Penna, è intricato. Si colloca negli anni in cui sboccia una stagione poetica, di cui segna in buona parte il destino, definendo due poli differenti, persino opposti, di scrivere versi, due poli che pure si muovono da una matrice in larga misura analoga (Penna e Montale, scrive Cesare Garboli, sono «simili a due costellazioni che si fronteggiano», affetti da «gemellarità litigiosa»). Quell´appunto acido di Penna nei confronti del suo mentore emerge ora dalle carte del poeta perugino. Nella sua disordinata biblioteca in via della Mola dei Fiorentini, a due passi da Via Giulia a Roma, era infatti conservata un´edizione delle Occasioni nella quale compaiono due paginette di annotazioni manoscritte. Sono osservazioni che Penna verga d´istinto, con inchiostro blu, nient´affatto sistematiche e di carattere prevalentemente stilistico. Ma che, epilogo di una vicenda iniziata anni prima, sono un capitolo di storia della poesia italiana del Novecento.
Quelle osservazioni le pubblica Roberto Deidier, poeta e professore di Letteratura moderna e contemporanea a Palermo, nel volume Le parole nascoste. Le carte ritrovate di Sandro Penna (Sellerio, pagg. 212, euro 16). Secondo Deidier, che in passato ha curato anche il carteggio fra Saba e Penna, quando scrive le note su Montale, il poeta di Una strana gioia di vivere «si sente escluso da quel circuito affettivo» che negli anni precedenti «lo aveva coinvolto appieno, come testimone vicino e lettore, nella genesi dell´opera» montaliana. L´edizione delle Occasioni che lui possiede è del 1942, di tre anni successiva all´uscita della raccolta. Non reca alcuna dedica: nessuno, tantomeno Montale, gliene ha fatto avere una copia.
Prima di quella su Verso Vienna, un´altra annotazione colpisce in genere le invenzioni poetiche di Montale definite "il giochetto". Penna diventa sprezzante di fronte ad altre figure tipiche del poeta ligure, chiosando con un "ma bravo qui" il "topo" che compare in Barche sulla Marna oppure "la cappelliera" di A Liuba che parte. Poche parole fulminanti, brevi frasi il più delle volte lasciate in sospeso investono il modo di far poesia del Montale di quegli anni: «Forse è davvero poco ciò che, fuor dai Mottetti, si salva nelle Occasioni», scrive Deidier. Eppure la nota più incalzante di Penna tocca proprio i versi dei Mottetti, una delle sezioni delle Occasioni: «La sigla finale: d´effetto ma troppo forte, barocco, disgustoso, o letterario e comune (E il tempo passa)». («E il tempo passa» è la chiusa di una poesia dei Mottetti).
L´ultima chiosa di Penna, nonostante resti sospesa, sembra la più argomentata e tuttavia non arriva alla compiutezza di un giudizio critico motivato: «Quello che salverei è la forza descrittiva quando per miracolo si salva dal cattivo gusto ? è fine a se stessa e serve il gioco puro, elegante: la farfalla di Vecchi Versi, il gasista, la stanza dell´Amiata, Pico Farnese,». La frase si chiude con una virgola, che forse annuncia un approfondimento, rimasto però inespresso.
Montale e Penna si erano conosciuti nel 1932, avevano dieci anni di differenza - del 1896 il primo, del 1906 il secondo. Fra loro si era avviata una corrispondenza e Montale si era incaricato di aiutare Penna a pubblicare i suoi versi (il carteggio fra i due è stato pubblicato da Elio Pecora). Lo scambio è fitto, intenso. Ma in una lettera del 1935 Montale fa balenare il sospetto che alcuni testi di Penna non sarebbero stati accettati dalla censura fascista. Troppo esplicito, a suo avviso, l´erotismo. Il progetto di pubblicazione si arena e fra i due poeti il rapporto si incrina. Di queste vicende ha scritto Cesare Garboli in un piccolo volume del 1996, Penna, Montale e il desiderio (Mondadori). Secondo Garboli, «Montale aveva visto in Penna quello che gli sembrava, o gli era, negato: i sensi, il desiderio, le poesie afrodisiache capaci di fare limpido e semplice tutto ciò che è più impuro e oscuro. Poi erano trascorsi degli anni, il tempo necessario perché si formassero dei dubbi e maturasse un´altra convinzione; che i sensi sempre accesi di Penna erano una bella favola, fantasmi di gioia improbabile, sintomi di patologia risaputa e puerile, ricordi di un passato inventato. Il tempo della seduzione è finito. Penna era diventato un pensiero noioso».
Montale ha letto i versi di Penna destinati alla pubblicazione e restati invece fermi sulla sua scrivania. Li ha letti, aggiunge Garboli, e li ha mescolati nella sua memoria letteraria, servendosene nei Mottetti. In particolare per due di essi, Lontano, ero con te quando tuo padre e Al primo chiaro, quando, due poesie alla cui data Montale affianca un punto interrogativo. Forse, aggiunge Garboli, per farli apparire di epoca più antica e dunque non influenzati dalla lettura di Penna.
La storia dell´amicizia continua anche oltre la sua interruzione, oltre l´uscita delle Occasioni e di Poesie, la raccolta d´esordio di Penna, che vede la luce contemporanemanete a quella montaliana. Garboli ne ha ricostruito il groviglio. Penna riconosce nei Mottetti qualcosa di suo, talmente mescolato «da non farglielo appartenere più». In privato accusa Montale di non aver pubblicato i versi che gli aveva dato per motivi bassi: voleva farli uscire dopo i Mottetti. E non sarebbe dunque un caso che le annotazioni di Penna sulle pagine delle Occasioni non coinvolgano i Mottetti, se non parzialmente.
Pochi mesi dopo l´uscita del volume di Garboli, Domenico Scarpa, recensendo il libro, aggiunge un altro capitolo alla detective story. E Penna non avrà preso qualcosa anche lui da Montale? In almeno una occasione, secondo Scarpa, il prestito è evidente (da uno dei Mottetti in direzione di una poesia della raccolta Peccato di gola di Penna). E sarà il solo? Scarpa ricostruisce un altro tassello di questo tortuoso mosaico. Siamo negli anni Settanta. Preparando un volume per festeggiare gli ottant´anni di Montale, qualcuno coinvolge anche Penna. Il quale rimette insieme dieci versi divisi in due strofe risalenti a vent´anni prima e già pubblicati. È un poeta ingrigito e triste quello che scrive: «La festa verso l´imbrunire vado / in direzione opposta della folla / che allegra e svelta sorte dallo stadio». I volti radiosi di chi ha partecipato a un trionfo e ai quali guarda dolente un anziano signore che cammina in senso contrario, non nascondono, si domanda Scarpa, «quei critici e poeti che hanno appena finito di rendere omaggio (la festa) al decano Montale?». Ciascuno offre il proprio omaggio, Penna, scrive Scarpa, rievoca «la libbra di carne viva che Montale gli ha strappato per nutrirsene dopo averla cucinata secondo la sua ricetta».
Le cose possono essere andate così, ma potrebbero anche essere lette diversamente. La poesia è il territorio delle ambivalenze. E i poeti, scriveva Garboli, sono più in quello che danno che in quello che prendono. Ma nella poesia scritta vent´anni prima e senza alcun riferimento montaliano, Penna potrebbe aver letto la propria sorte di poeta «depredato nella e della poesia», ramingo e solitario, che lascia all´ex amico un messaggio che solo lui, in quel momento di gloria, può leggere nel modo giusto, sentendosi ferito.

Agi.it 29.12.08
Editoria: Vladimir Luxuria, domani sit-in a Liberazione


Roma, 29 dic. - Vladimir Luxuria difende Liberazione, il 'suo' giornale e domani mattina ci sara' un sit-in davanti alla sede del quotidiano. "Non basta la crisi economica. La vigilia di Natale e' spuntato per Liberazione, il giornale di Rifondazione comunista, diretto da Piero Sansonetti, anche lo spauracchio di un compratore-choc: Luca Bonaccorsi, discepolo dello psicanalista Massimo Fagioli. Cosi' la testata che piu' si e' battuta per dare spazio alle culture femministe, gaylesbotransgender, e in generale dei movimenti, sarebbe consegnata a un gruppo di idee opposte", si legge in una nota.
E per dire 'No' domani, martedi' 30 dicembre alle 12 in viale del Policlinico 131, davanti alla sede di Liberazione, si terra' un sit in di protesta. In prima fila Vladimir Luxuria, nell'occhio del ciclone per essere stato messa in prima pagina con la sua vittoria all'Isola dei famosi.

Cari amici,
ho letto la e-mail con vostra relativa risposta ad una signora molto inviperita perchè la trattate male, ma, alla fine della lettura, mi sono reso conto di aver sprecato inutilmente alcuni minuti della mia (per me assai preziosa) vita. La signora comesichiama si è molto arrabbiata in primis perchè pare che non sia vendoliana come è stata definita, bensì autonoma (questa sì che è una notizia... che esistano ancora 'autonomi' intendo, ma anche che la signora sia tale) e poi perchè, ritenendo importante Focault e non Fagioli, ci illumina del suo profondo disinteresse circa il pensiero del secondo che, bontà sua, non è stato criticato ottocentomila volte (sic !) dalla signora stessa, come sarebbe potuto accadere (wow ! Fagioli, così poco abituato ad essere criticato, si sarà preso un gran spavento !).
Credo che un non disumano, bensì umanissimo pensiero si possa sintetizzare nel classico, molto popular, 'echissenefrega?' piuttosto che in forbite discussioni in punta di fioretto. O dobbiamo proprio perdere tempo con ogni stizzita intellettualautonoma in vena di ripicche?
Un saluto e affettuosi complimenti per il vostro lavoro.
Fabio Della Pergola