domenica 4 gennaio 2009

Repubblica 4.1.09
La guerra e l’etica della morte e della vita
di Eugenio Scalfari

LA guerra di Gaza sta drammaticamente aumentando la sua intensità di ora in ora: è iniziato l´attacco di terra, sono state bombardate le moschee, Israele ha richiamato migliaia di riservisti e messo in stato d´allerta il nord del paese in previsione di possibili ostilità anche con Siria e Libano.
L´incendio divampa su tutta la "Striscia" con ripercussioni anche in Cisgiordania dove ci sono i primi segnali di una terza "Intifada", nei Paesi Arabi e nella diaspora palestinese in Europa e negli Stati Uniti.
Intanto gli arabi israeliani si sentono sempre meno cittadini di Israele e solidarizzano con manifestazioni di piazza in favore dei «fratelli» palestinesi. Il risultato di queste varie dinamiche è un isolamento di Israele di fronte alla comunità internazionale. In Italia, a Roma e a Milano, i palestinesi immigrati nel nostro paese hanno anche bruciato le bandiere di Israele provocando contestazioni all´interno dello schieramento politico italiano.
Contestazioni certamente valide in punto di diritto internazionale ma poco rilevanti di fronte alla sproporzione evidente della reazione israeliana a Gaza. Il dato di fatto oggettivamente osservabile è l´isolamento del governo di Gerusalemme di fronte all´opinione pubblica europea e araba.
Per rompere questa sorta di accerchiamento politico il solo sbocco possibile è quello del negoziato. L´alternativa è quella d´una lotta senza quartiere, l´invasione di Gaza e lo sterminio di Hamas, non più centinaia ma migliaia di morti civili, la fine di ogni opzione pacifica. Molto dipende dall´Europa, da Obama, da Putin. Con una valutazione dei costi e dei benefici che andrebbe ben oltre lo scacchiere medio-orientale riportando in prima fila l´Onu come unico tavolo di confronto mondiale.
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Le tensioni religiose della guerra di Gaza non sono da sottovalutare.
L´influenza del messaggio cristiano è stata finora pressoché nulla.
L´interpretazione bellicista del Corano ha fatto altri passi avanti. Quanto a Israele, il Dio biblico non è tanto quello di Abramo e di Salomone quanto il Dio degli eserciti di Saul e di David, il Dio vendicatore e vendicativo.
Sotto la spinta di questi fatti la Chiesa di Roma ha compiuto un passo avanti. Poco influente, come abbiamo già detto, sull´atteggiamento dei belligeranti, ma molto importante per quanto riguarda il tema della non violenza e della pace.
Quella della non violenza e del pacifismo è relativamente recente nella Chiesa di Roma, non si risale molto più indietro di Pio XI e di Benedetto XV, ma si trattava ancora di tracce labili. I passi più risoluti si ebbero con papa Roncalli e con il Vaticano II. Wojtyla stabilizzò quella scelta. Papa Ratzinger l´ha recentemente accentuata. L´indisponibilità della vita è ormai ? così sembra ? una scelta irreversibile della gerarchia ecclesiastica. E tuttavia, come sempre accade, dalla soluzione d´un problema altri ne scaturiscono. Così sta accadendo che l´indisponibilità della vita abbia rafforzato il principio dell´indisponibilità della morte. Ne deriva un´intransigenza sempre più ferma nel campo della bioetica dove si discutono i temi eticamente sensibili della modernità: la vita e la morte, il dogma e la libertà di coscienza, l´etica e la scienza, la politica e la teologia.
La discussione su questi temi si svolge in tutto l´Occidente ma in particolare in Italia, nel giardino del papa cattolico. Perciò noi italiani ne siamo particolarmente coinvolti.
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Proprio in questi giorni il tema è stato riproposto dal caso Englaro e da altri consimili dando luogo all´ennesimo conflitto tra la gerarchia ecclesiastica e il pensiero laico. Il Vaticano, partendo dalla sua scelta sull´indisponibilità della vita, ne ha dedotto una serie di conseguenze estremamente rigide sull´intera gamma della bioetica, con l´intento di restringere i confini della libertà individuale.
I «media» non hanno dato molto spazio alla discussione registrando quasi senza commento le posizioni vaticane. Ha fatto eccezione «Repubblica»: in meno di una settimana il nostro giornale ha pubblicato un articolo di Aldo Schiavone, uno dei Cavalli Sforza (padre e figlio), un altro di Marco Politi su un´indagine effettuata sui giovani del Triveneto, uno (di ieri) di Miriam Mafai. Il nostro è un giornale molto attento alle questioni religiose e ai confini tra la gerarchia ecclesiastica, la laicità dello Stato, l´autonomia della coscienza individuale, l´etica privata e l´etica pubblica. Perciò non può meravigliare se il dibattito si svolge intensamente sulle nostre pagine.
Stupisce tuttavia il silenzio pressoché completo della stampa nazionale, quasi che il tema meriti d´esser registrato ma non dibattuto. Questa assenza non può che stimolarci ad offrire spazio e respiro ad un confronto essenziale su temi essenziali.
Per quanto mi riguarda prenderò come riferimento l´articolo di Aldo Schiavone del 31 dicembre scorso perché è quello che a mio avviso affronta la questione in tutta la sua complessità.
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Scrive Schiavone che c´è nel nostro tempo una grande richiesta di etica: nella società pubblica e nei comportamenti privati, nella scienza e nella tecnologia, insomma in tutto il vissuto della modernità.
Forse è vero che ve ne sia bisogno, ma che ve ne sia vera richiesta a me non pare. Tutt´al più c´è una richiesta retorica, cioè una simulazione di richiesta che vale soprattutto per gli altri ma quasi mai per se stessi.
Dalla richiesta di etica Schiavone fa discendere la necessità di rivolgersi alla Chiesa che sarebbe «il principale deposito di etica nell´Occidente cristiano».
Qui è necessario distinguere. La predicazione di Gesù di Nazareth, come ci è stata tramandata dai Vangeli (non soltanto i quattro canonici), dalle lettere di Paolo, dagli Atti degli apostoli, contiene certamente un messaggio etico di formidabile e duratura intensità. Questo messaggio la Chiesa l´ha tramandato, sia pure con notevoli aggiustamenti, ma quasi mai praticato. C´è stata, nei suoi duemila anni di storia, un´ala che ha non soltanto predicato ma praticato il messaggio evangelico: un´ala minoritaria, da Benedetto a Francesco, da Antonio a Bernardo, a Saverio, a Ignazio (non parlo dei mistici che sono altra cosa).
Quest´ala è stata tollerata e utilizzata dalla gerarchia che ha però seguito e praticato la strada opposta. Il deposito etico della gerarchia è stato contraddittorio e pressoché nullo, come avviene in tutte le strutture di potere. Le chiese cristiane, e quella cattolica in particolare, sono state e sono tuttora strutture di potere. L´etica può riverberare su di esse una parte dei suoi contenuti e precetti ma esse non ne sono in nessun caso la fonte sorgiva «per la contraddizion che nol consente».
Infine: Schiavone lamenta che la cultura laica, di fronte al fiorire di quella cattolica, sia muta, assente, dispersa e comunque impari al bisogno che ce ne sarebbe.
Impari forse. Dispersa può darsi perché i laici non sono una struttura e non hanno un Papa che parli per tutti.
Ma muta e assente non direi.
I laici hanno molti punti di riferimento, convinzioni radicate e comuni e una comune storia di pensiero evolutivo. All´origine ci sono gli stoici e Socrate e poi via via Epitteto, Epicuro, Montaigne, Descartes, Pascal, Spinoza, Diderot, Voltaire, Kant. Anche il pensiero laico ha una storia plurimillenaria che arriva fino a noi contemporanei. Non dobbiamo inorgoglircene ma tanto meno dimenticarcene.
Qui finiscono alcuni miei dissensi con l´amico Schiavone, con il quale invece consento pienamente sulla diagnosi che riguarda il rapporto tra scienza e tecnica da un lato, libertà e autonomia individuale dall´altro.
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La vita e la morte sono sempre più fenomeni artificiali oltre che naturali a causa del progredire della ricerca scientifica e delle sue applicazioni tecniche. Fenomeni artificiali perché la tecnica è sempre più in grado di supplire alle carenze naturali. Consente la procreazione anche a chi non può ottenerla secondo natura; prolunga la vita e sconfigge la morte prevenendo e vincendo la malattia.
Fenomeni artificiali e perciò culturali che hanno bisogno di normative giuridiche capaci di conciliare i desideri dei singoli con gli interessi della collettività.
Scienza e tecnica continuano e continueranno ad evolversi, a sperimentare, a consentire opzioni sempre migliori, ma non vogliono né possono sostituire la natura. Se non altro per il fatto che l´umanità, la specie e gli individui che ne sono parte, è una delle innumerevoli forme della natura.
Scienza e tecnica sono prodotti mentali dell´uomo e quindi protesi della natura.
In questo stadio dell´evoluzione esistono zone grigie dove le protesi consentono risultati al prezzo di sofferenze e/o limitazioni a volte sopportabili, a volte radicali. Di fronte ad esse l´individuo rivendica legittimamente libertà di scelta: se accettare le soluzioni o rifiutarle.
Piena libertà ai depositari di fedi religiose di indicare e raccomandare soluzioni conformi all´etica da essi predicata senza però che quelle soluzioni possano essere imposte a chi (fosse uno soltanto) non condivide quelle raccomandazioni. Questo è il limite di uno Stato laico, pluralista e non teocratico.
Non sembra che la Chiesa la pensi così. Sembra invece che pretenda che le sue indicazioni nel campo della bioetica divengano norme giuridiche imperative. Ebbene, va ripetuto alto e forte che questo passo non potrà mai esser compiuto poiché segnerebbe la scomparsa della laicità a favore d´un fondamentalismo che l´Occidente ha storicamente archiviato da 250 anni. Un salto all´indietro di questa portata, esso sì, segnerebbe il ritorno ad un oscuro Medioevo e la scomparsa dei valori della nostra civiltà, inclusi quelli della predicazione cristiana.

il Riformista 4.1.09
Hanan Ashrawi. Per Israele l'incursione si rivelerà un disastro
di Alessandra Cardinale

Attacchi indiscriminati «Colpiti solo tre leader dell'ala militare»
Hanan Ashrawi. L'ex membro del Parlamento palestinese sostiene che a Gaza un esercito regolare va incontro a ingenti perdite e non ha possibilità di vittoria. L'azione terrestre non farà che crescere il sostegno dei palestinesi per Hamas. Bush? «Un irresponsabile».

«Come va? Come vuole che vada. Molto male». Da Ramallah, in Cisgiordania, Hanan Ashrawi, ex membro del Parlamento palestinese, fondatrice nel 1998 della organizzazione non governativa Miftah e grande amica di Edward Said con cui per decenni ha lottato in difesa dei diritti del popolo palestinese, risponde al telefono pochi minuti dopo la notizia diffusa da Radio Israel secondo cui alcuni soldati israeliani si sarebbero infiltrati a Gaza City per attaccare postazioni di Hamas che li avrebbe respinti. E anche da Al Jazeera non giungono notizie confortanti: l'aviazione israeliana lancia volantini sulla Striscia di Gaza in cui viene annunciato l'attacco di terra.
Dottoressa Ashrawi, l'attacco di terra da parte degli israeliani è imminente, cosa ne pensa?
La prima cosa da fare è tenere i nervi ben saldi. Israele ricorre spesso alla guerra psicologica ma al contempo la minaccia di un attacco di terra non va sottovalutata. Sia ben chiaro, e questo gli israeliani lo sanno molto bene, una guerra del genere porterebbe a una situazione tragica. Prima di tutto per il popolo palestinese di Gaza che, indebolito dai due anni di assedio, ora è la vittima di questa guerra. Ma l'incursione terrestre sarebbe un disastro anche per Israele che subirebbe perdite enormi. Hamas resisterà fino alla fine e combatterà in modo irregolare e non c'è modo che un esercito convenzionale come quello israeliano possa vincere.
Khaled Meshal, leader di Hamas in esilio, alcuni giorni aveva dichiarato di essere disposto a firmare il cessate il fuoco. Ieri ha annunciato che Hamas è pronto a resistere all'invasione da parte israeliana.
Certo. Qui in Palestina questa guerra è percepita come una guerra contro il popolo e la causa palestinese non contro Hamas. Questo perché l'esercito israeliano a oggi ha ucciso 420 civili e ha ferito 2.900 palestinesi, tra queste migliaia di persone solo tre erano membri di Hamas. Israele continua imperterrita a bombardare le case dei civili, le istituzioni palestinesi presenti a Gaza ma chiaramente non riesce a colpire il cuore dell'organizzazione di Hamas.
Israele da sempre si difende argomentando che i membri di Hamas usano i civili per farsi scudo.
Questa è una scusa. I guerriglieri di Hamas si nascondo in tunnel sotterranei e l'intellighenzia israeliana lo sa benissimo e sa anche quanto sia difficile intercettarli. Certo i tre membri di Hamas che l'esercito israeliano ha ucciso si trovavano nelle rispettive case ma i leader, e con questo intendo dire le menti di Hamas, l'ala militare, non è stata catturata dagli israeliani che avrebbero difficoltà a scovarli anche nel caso invadessero Gaza.
Secondo lei Israele non corre il rischio di regalare popolarità ad Hamas, che in questi due anni stava perdendo consistentemente l'appoggio della popolazione di Gaza?
Quando vengono uccisi civili palestinesi da parte degli israeliani, il resto della Palestina scende in piazza. È comprensibile, quindi, che in questi casi Hamas goda di popolarità perché viene percepita alla stregua degli abitanti di Gaza, vale a dire come la vittima. In genere, quando la situazione torna a una relativa calma, i palestinesi ricominciano a pensare politicamente. Le esigenze ora sono tre: la tregua, l'unità nazionale e la difesa dei palestinesi di Gaza.
Il sito israeliano Debkafile riferisce di una telefonata tra Bush e Olmert nel corso della quale il presidente degli Stati Uniti avrebbe dato il suo ok all'operazione israeliana e avrebbe inoltre assicurato che gli americani porranno il veto alla risoluzione dell'Onu che dovrebbe andare al voto lunedì nel caso in cui fosse espressa una condanna nei confronti di Israele. Ha fiducia nella nuova Amministrazione?
Sì, perché non può fare peggio di Bush che, con questa dichiarazione, si conferma un irresponsabile. Per otto anni ha appoggiato, senza se e senza ma, il Governo israeliano. Ci auguriamo tutti che l'Amministrazione Obama sia in grado e, soprattutto, abbia la volontà di rianimare il processo di pace e, magari, di portarlo a compimento.

Repubblica 4.1.09
Denuncia sull'Osservatore Romano. Gli esperti: pura fantascienza
"La pillola è aborto rilascia ormoni inquina e devasta l'ambiente"
di Paola Coppola

ROMA - Non solo è come l´aborto, ma inquina. La pillola contraccettiva di uso comune fa male all´ambiente, agli uomini, alle nascite. L´ultima crociata dell´Osservatore romano ? che non ha quale obiettivo la ormai arcinota pillola abortiva RU486, bensì il più comune anticoncezionale utilizzato da milioni di donne ? si consuma in un articolo a firma del presidente della Federazione internazionale delle associazioni dei medici cattolici, Pedro José María Simón Castellví. Secondo il quale la pillola contraccettiva non solo causa la morte del feto, ma devasta l´ambiente.
Scrive infatti Castellví: «La pillola denominata anovolutaria più utilizzata nel mondo industrializzato, quella con basse dosi di ormoni estrogeni e progestinici, funziona in molti casi con un vero effetto anti-impiantatorio, cioè abortivo, poiché espelle un piccolo embrione umano».
La presa di posizione del quotidiano cattolico non poteva non provocare dure reazioni da parte di medici ed esperti. Un vero e proprio coro di malcontento. «Fantascienza» la definisce infatti Gianbenedetto Melis, vice presidente della Società italiana della contraccezione che spiega come la pillola «non è in grado di provocare l´aborto in quanto impedisce l´ovulazione e se non c´è l´ovulo da fecondare non ci può essere gravidanza».
L´effetto "abortivo" della pillola è però solo uno degli aspetti stigmatizzati dal quotidiano della Santa Sede. Che se la prende anche con la natura anti-ecologica del contraccettivo. Scrive infatti Castellvì di «effetti ecologici devastanti delle tonnellate di ormoni per anni rilasciati nell´ambiente». E ancora: «Uno dei motivi per nulla disprezzabile dell´infertilità maschile in occidente (con sempre meno spermatozoi nell´uomo) è l´inquinamento ambientale provocato da prodotti della "pillola"».
D´altra parte per gli esperti questi «effetti ecologici» sono assurdi. Chiarisce Melis: «Gli ormoni contenuti nei contraccettivi orali, una volta metabolizzati dal fegato, non sono più in grado di indurre effetti ormonali femminili».
Insomma, pensare che la pillola possa provocare danni all´eco-sistema è una forzatura che non ha, secondo i medici, basi scientifiche.
Quanto all´infertilità maschile prima di prendersela con la pillola, meglio ricordare - precisa Flavia Franconi, presidente del gruppo farmacologia di genere della Società italiana di farmacologia - «che il mondo è pieno di sostanze ad attività estrogeniche».

Repubblica 4.1.09
"Ora il Papa alla Sapienza" il rettore sfida i laici
Il rettore: consegnato l’invito. E dopo il caso Morucci nuove regole per gli ospiti
Frati apre a testimoni anche "scomodi" come gli ex br. Però con il contraddittorio
di Carlo Picozza

ROMA. L´invito formale per una visita alla Sapienza, il rettore Luigi Frati l´ha consegnato direttamente nelle mani del Papa. Lo ha fatto «accogliendo la richiesta di Benedetto XVI di avere il foglio del discorso da me fatto in rappresentanza dei rettori e nel quale rinnovavo la richiesta di una sua visita».
All´incontro degli universitari romani con il Papa, per gli auguri di Natale nella tradizionale messa a San Pietro, è seguito «un segnale di attenzione da parte del portavoce del pontefice, due giorni dopo, con una sorta di assicurazione a raccogliere l´invito, cosa più unica che rara per padre Federico Lombardi».
Insomma, il Papa andrà alla Sapienza? «Penso proprio di sì. Sarebbe irragionevole rifiutarne ancora una volta la visita in una occasione opportuna». Ë quindi anche secondo l´attuale rettore sarebbe stata inopportuna la presenza di Benedetto XVI all´inaugurazione dell´anno accademico nel 705° anniversario della fondazione dell´università? «Inopportuna mi è sembrata la posizione dei 67 colleghi che hanno firmato la lettera contro, non tanto per l´espressione di una legittima laicità, quanto per i giudizi espressi sul pensiero del pontefice. L´università deve essere un luogo aperto: il suo compito è la diffusione delle conoscenze scientifiche e della cultura. Con un´unica regola: che a trattare gli argomenti siano quanti sulla materia hanno studiato, fatto ricerche e pubblicazioni». Perciò ribadisce il suo "no" secco all´ex br Morucci? «Terrorismo, Foibe, Olocausto: sui grandi temi siano gli esperti a parlare. Vengano qui a insegnare o a incontrare gli studenti e, se ce ne fosse bisogno, siano loro a chiamare i protagonisti, aggressori, testimoni e vittime, degli eventi tragici oggetto di studio o del solo confronto». «Quanti si sono macchiati di sangue non si erigano a maestri», dice. «Neanche quando, sinceramente pentiti, possono mettere a disposizione la loro esperienza. Occorrono, filtri, strumenti e regole per il confronto su questi temi se non si vuole offendere la memoria di quanti non possono più dire la loro». E le «regole» - il giorno dopo l´alt alla "lezione" dell´ex brigatista rosso componente del gruppo di fuoco della strage in via Fani, del sequestro e dell´assassinio di Aldo Moro - Frati le sta preparando, insieme con una lettera a docenti e studenti del Senato accademico e del cda dell´ateneo. Quali sarebbero? «Quelle che consentano all´università di svolgere le attività di formazione e ricerca rifuggendo da tentazioni che ne snaturerebbero il ruolo. Questo è luogo di studi non un Parlamento né una tribuna politica».
Ma il rettore vuole tornare sulla visita del pontefice. Fruga tra i file del suo computer: «Ecco il testo letto davanti al Papa e che lui, alla fine del mio intervento, mi ha chiesto di lasciargli: "Confesso di non aver capito, da ricercatore prima che da credente, il pregiudizio che nel gennaio 2008 ha mosso chi ha fatto riferimento al caso Galileo per giustificare una contrarietà alla Sua visita alla Sapienza. E come rettore, nella prolusione all´anno accademico, ho detto che attendiamo una Sua visita. Invito che in questa occasione rivolgiamo a Lei, studioso raffinato di filosofia, ma anche a Lei come vescovo di questa città"». «Un anno fa», continua Frati, «un gruppo di colleghi scrisse al rettore di allora ritenendo inopportuno l´invito al Papa a tenere la prolusione all´anno accademico. Non si trattava di una prolusione, ma di un intervento dopo l´inaugurazione. L´invito a tenere la prolusione non c´è mai stato e non ci sarà. L´invito a venire alla Sapienza c´è stato e ci sarà ancora. Con modalità senza equivoci».

Repubblica 4.1.09
Luca Cavalli Sforza replica all'editoriale del quotidiano della Cei. "Ognuno ha diritto alle sue idee"
"Il caso Englaro è intollarebile È ora che decidano i cittadini"
di Mario Reggio

Chi si avvia alla morte senza speranza ha diritto di chiedere di staccare la spina nel modo meno pesante e terribile. Per me e per molti altri è un diritto etico, civile

ROMA - «La vicenda di Eluana Englaro è veramente insopportabile. Il diritto a morire è un principio umano inalienabile. Perché i politici temono un referendum popolare? Forse hanno capito che non sono in grado di valutare, e non lo vogliono, il pensiero dominante tra i cittadini. E io non mi fido di loro, perché potrebbero tentare tutti i trucchi possibili per evitare un confronto reale. D´altro canto il trasformismo, in Italia, è di casa dall´800».
Il professor Luca Cavalli Sforza, mito della scienza genetica internazionale, fino all´agosto del 2008 professore emerito all´università di Stanford, membro delle più prestigiose Commissioni internazionali, compresa quella vaticana, stenta ad entrare in polemica con il professor Francesco D´Agostino, editorialista del quotidiano Avvenire. Poi si lascia andare.
Cosa le ha dato fastidio delle sue affermazioni?
«In primo luogo quando dice che io e mio figlio Francesco abbiamo "il desiderio narcisistico di far conoscere le nostre fragili idee bioetiche". Io Francesco D´Agostino non lo conosco di persona, l´ho sentito nominare, mi dicono che sia cattolico osservante, ma ognuno ha diritto alle sue idee. Mio figlio Francesco insegna Filosofia al San Raffaele di Milano ed è un profondo conoscitore delle questioni politiche, comprese quelle italiane. Io sono stato fuori dall´Italia per 40 anni e lui mi aiuta a capire questo strano mondo dove i diritti delle persone, compreso quello di decidere di interrompere un´esistenza di sofferenza e senza prospettive è considerato uno scandalo, a differenza di tutti i Paesi occidentali».
D´Agostino afferma che lei rischia di vanificare i suoi eccezionali risultati scientifici.
«Sul piano etico spero che anche in Italia ci sia il diritto di esprimere il proprio pensiero, senza che qualcuno minacci sanzioni scientifiche. Tra l´altro vorrei conoscere il curriculum scientifico genetico di chi lancia queste minacce. Sul versante bioetico non temo confronti».
E sull´accanimento terapeutico?
«Francesco D´Agostino si dice contrario, ma io nutro seri dubbi. Riconosco ai medici di rifiutare di staccare il sondino. Ma ricordo che in presenza di una malato terminale la sofferenza è doppia: a quella di chi sta in fondo al viale si somma quella della famiglia e delle persone che gli vogliono davvero bene. Se il cervello è colpito di mancanza di funzionalità totale perché prolungare il calvario? In nome di cosa? Se la persona è credente, se la famiglia la pensa alla stessa maniera, quindi tutti vogliono seguire i principi della Chiesa cattolica nessuno nega loro il diritto di seguire la loro strada. Ma perché imporla anche a chi non crede alla vita eterna?».
Quindi la scelta di morire è un diritto della persona?
«La morte, assieme alla nascita, è l´unica certezza dell´esistenza umana. Chi si avvia alla morte senza speranza ha diritto di chiedere di staccare la spina nel modo meno pesante e terribile. Per me e per molti altri è un diritto etico, civile, inalienabile».

Repubblica 4.1.09
La seconda vita dell'Anarchia
di Guido Rampoldi

L´acuirsi della crisi economica potrebbe dare ulteriore slancio alle proteste studentesche in Europa. Ecco perché tornano sotto i riflettori gli anarchici e in particolare gli anarco-insurrezionalisti. Ma i ragazzi che scendono in piazza non hanno molto a che fare con la storia e le idee della A cerchiata

A Salonicco hanno attaccato una chiesa, ad Atene hanno bruciato il grande albero di Natale della municipalità, e ovunque hanno scritto sui muri, in inglese, «No control», nessun controllo: abbastanza perché perfino nella lontana San Francisco un circolo di simpatizzanti della rivolta greca, Collective reinventions, cogliesse con una certa apprensione «un legame con gli anarchici spagnoli più radicali, quelli che si definivano los incontrolados». Non è un complimento. Durante la Guerra civile spagnola gli incontrolados bruciarono dozzine di chiese; ammazzarono settemila religiosi; e, dove non trovarono preti, fucilarono crocefissi. La loro ferocia ossessiva e compiaciuta non era diversa dalla ferocia sterminatrice della destra carlista, cattolica. Ma offrì agli stalinisti il pretesto per liquidare il più forte movimento anarchico della storia; e convinse le tremebonde sinistre britannica e francese a negare alla Repubblica spagnola le armi con cui avrebbe potuto difendersi dall´esercito di Franco. Insomma gli incontrolados furono la quinta colonna del nemico.
Di tutto questo i "No control" greci sanno quanto i poliziotti che ad Atene li affrontavano, cioè nulla. Avevano a disposizione un´università, una grande biblioteca e tre settimane per imparare dal passato da cui pretendono di discendere. O magari per trovare ispirazione nel nuovo pensiero anarchico, ormai quasi tutto nordamericano. per esempio in quel David Graeber (Frammenti d´una antropologia anarchica, 2004) che prende a modello le società prive di governo, forse minimizzando il fatto che le tribù amazzoniche considerano lo stupro delle forestiere un´attività venatoria e i Tiv della Nigeria barattano le ragazze in età da marito come fossero capre. Ma poiché i "No control" sembrano mancare proprio della qualità più anarchica, l´immaginazione, invece di produrre idee si sono applicati ad attività più prevedibili, saccheggiare bancomat, svaligiare negozi e scontrarsi con la polizia. Con queste credenziali, hanno attratto un gran numero di ultras del calcio, e in misura molto minore, giovani immigrati, insomma segmenti di popolazione che hanno motivi per detestare la polizia greca. Ma in Europa non hanno riscaldato i cuori di quella generazione senza bandiere che attende un orizzonte suggestivo e un´utopia possibile, quanto la sinistra tradizionale oggi ha difficoltà ad offrire.
Poiché l´ottimismo è nei geni della rivoluzione, dall´antica capitale dell´anarchismo, Barcellona, un documento di nuovi incontrolados apparso sul sito Indymedia annuncia che la storia potrebbe invertire il suo corso: dopo la rivolta greca, dopo le proteste studentesche francesi, italiane e spagnole, «in tutta l´Europa i governi tremano», terrorizzati dalla possibilità che la «gioventù occidentale insorga per dare il colpo finale a questa società». In realtà non si vede traccia di tutto questo panico. Presto arriveranno rapporti preoccupati dagli apparati di sicurezza, per i quali allarmarsi è un obbligo professionale, sul lavorio occulto degli "anarco-insurrezionalisti". Ma quando diventano materia di processo, le cospirazioni "insurrezionaliste" tendono semmai a rivelare il carattere catacombale e velleitario di quei gruppi, oltre alla loro sempiterna vocazione ad attrarre provocatori. Però l´acuirsi della crisi economica potrebbe dare slancio in Europa alle proteste studentesche: in quel caso le varie "onde" diventeranno rabbiosi cavalloni, come ad Atene in queste settimane? Oppure il capitalismo globalizzato riuscirà a sventare l´attacco anche grazie al carattere inafferrabile della sua natura, come accade nel film Louise-Michel, che è anche il nome di una gloriosa anarchica francese, quando le operaie decidono di accoppare il padrone che chiudendo la fabbrica le ha messe in mezzo ad una strada? Se dovessimo azzardare una risposta diremmo che in buona parte dipenderà dal modo in cui ciascuna polizia affronterà le emergenze.
In dicembre un ragazzo ateniese che avesse ricavato l´immagine dello Stato dal comportamento delle forze dell´ordine, avrebbe avuto qualche motivo per simpatizzare per l´anarchismo. La polizia greca non ha fama di correttezza e di probità. I suoi standard sembrano più balcanici che occidentali. Ha servito con zelo la dittatura militare, si è riciclata nella democrazia senza subire epurazioni significative, e in seguito, governasse la destra o la sinistra, ha goduto di una certa impunità. Non sono pochi i giovani e gli immigrati che ne hanno un´esperienza negativa, certo non smentita dagli scontri di Atene. L´uccisione del quindicenne Alexis Grigoropulos può essere attribuita alla devianza di un singolo agente, ma se stiamo alle testimonianze di alcuni universitari, un gran numero di poliziotti irrideva i dimostranti alludendo a quell´omicidio («Dov´è il vostro Alexis, fighette? Uccideremo anche voi»). Se a tutto questo si aggiunge la tradizione violenta di una parte della sinistra radicale greca, non sorprende il carattere aspro e sregolato dello scontro ateniese.
Le polizie europee sono diverse: ma quanto diverse? Dopo il disastro di Genova la polizia italiana ha dimostrato una lodevole capacità di correggersi. Ma la permanenza nei ranghi dei colpevoli, e il sabotaggio di processi che chiamano in causa agenti, non possono non avere effetti sui codici interni dell´istituzione. Inoltre gli anarchici appartengono da sempre al novero delle categorie umane che ogni polizia europea può trattare rudemente, in quanto la mentalità comune li ritiene implicitamente colpevoli e non meritevoli di piena tutela giuridica. Lo conferma anche il fatto che in tanti anni nessuna istituzione dello Stato abbia sentito l´obbligo di chiedere scusa alla famiglia di Pinelli, a Pietro Valpreda, a Roberto Mander, arrestato a diciassette anni con Valpreda e pochi mesi dopo, raggiunta la maggior età, scaraventato nel supercarcere di Trani. Erano tutti innocenti. Però anarchici, dunque sinonimo di violenza e di caos.
Ma all´affermarsi di questo stereotipo in parte ha contribuito lo stesso anarchismo rifiutando di fare i conti in pubblico con la propria storia. Nel 1999, quando gli anarchici riapparvero sul palcoscenico della cronaca nei panni dei No global che contestavano il G7 a Seattle, la stampa americana scrisse: torna l´idea che non vuole morire. In realtà l´anarchismo non è un´idea ma un arcipelago di idee, molte delle quali sopravvivono senza ragione o senza merito, o comunque sono incompatibili con altre. La principale linea di frattura risale al tempo della Guerra civile spagnola, e negli anni Cinquanta fu formalizzata nei congressi francesi che di fatto certificarono la morte dell´anarchismo spagnolo. Opponeva "pellerossa" e "politici", i mistici dell´azione diretta e i teorici della via politica. Al tempo della Repubblica i primi produssero solo guasti; i secondi ruppero il tabù, entrarono nel governo e produssero, insieme ai liberali di Azana, quanto di meglio abbia lasciato in eredità quel tempo forte e crudo: dal femminismo all´ecologismo.
Consapevoli o no, alla mistica dell´azione diretta si rifanno i Black Blocs e i No control, gente di mano che l´anarchismo più politico osserva con uno sguardo scettico, quando non con disgusto. Però i "politici" faticano a trovare uno spazio incontaminato sul quale piantare le loro bandiere rosso-nere. Si oppongono al dominio del libero mercato ma non si fidano interamente del movimento No global, un territorio in cui confluisce di tutto, e forse avvertono che la globalizzazione non è poi il diavolo, se relativizza la sovranità dello Stato e diffonde diritti universali. Restano fieramente anticlericali ma mai brucerebbero una chiesa, tanto più in un Paese come la Grecia dove la curia ha un ruolo marginale. Contestano d´istinto le guerre e il ricorso allo strumento militare ma non possono dimenticare che l´anarchismo non fu pacifista, e anzi, alla vigilia della Seconda guerra mondiale, disprezzava il pacifismo europeo con intensità e motivo («Credere che una politica di non intervento elimini la possibilità di un conflitto armato - scriveva Camillo Berneri nel 1936, un anno prima di essere assassinato a Barcellona da un sicario stalinista - permetterebbe a Italia, Germania e Portogallo di preparare meglio la loro guerra»).
A complicare l´identità dell´anarchismo concorre la sua estraneità alla sistematizzazione concettuale, speculare alla diffidenza verso forme rigide di organizzazione politica. Questo ha prodotto un moltiplicarsi di anarchismi di nicchia fondati sull´elaborazione di temi specifici. C´è un anarca-femminismo, un eco-anarchismo, un etno-anarchismo, un internet-anarchismo legato al Free software movement, senza contare le varianti generalmente considerate spurie o "di destra", come l´anarco-individualismo di Stirner e l´anarco-liberismo di Rotbard, per il quale la tassazione è una forma di odiosa oppressione statuale. Trovare il bandolo di tutto questo è già impegnativo, ma non sufficiente: bisogna poi aggiungere l´obbligo di una vita esemplare, giacché l´anarchismo, al contrario del leninismo, prescrive una coerenza etica tra fini e mezzi. Insomma fare davvero l´anarchico è una gran fatica. Svaligiare bancomat e saccheggiare negozi è più semplice, e anche più proficuo. Ma è un´altra cosa.

Repubblica 4.1.09
Vecchi compagni e No control
di Jenner Meletti

IMOLA. La lapide è in municipio. «È l´alba del secolo novo, gettate fiori a piene mani». La data è quella del primo gennaio 1901, quando le Società popolari di Imola fecero scolpire nel marmo le parole di Andrea Costa. «Lanciamo al secolo che non ci vide nascere ma ci vedrà morire / il nostro core vivo. Pensando lavorando combattendo amando / dalla scienza illuminati / diamo oh! diamo a tutti i figli delli uomini / lavoro libertà giustizia pace». Il «secolo novo» è finito, un altro è già bambino. Andrea Costa, anarchico e socialista, per tanti è solo il nome di una curva dello stadio di Bologna. Il «trionfo delle classi lavoratrici» resta un sogno, e non troppo diffuso.
«Ma noi siamo ancora qui, a tenere accesa la luce». Claudio Mazzolani, cinquantacinque anni, informatico, cura assieme ad altri l´archivio della Fai, la Federazione anarchica italiana, in un ex convento messo a disposizione dal Comune. «Questa fascia nera, con la scritta "Gruppo giovanile comunista anarchico Imola", tessuta e ricamata prima del fascismo, durante il Ventennio è stata nascosta nella grondaia di un palazzo. Ecco, questo è il manifesto che annuncia la morte di Louise Michel che prese parte alla Comune di Parigi?». Centinaia di faldoni con documenti arrivati da tutta Italia. «Noi anarchici ci troviamo tutti qui, aderenti o no alla Fai. Organizziamo conferenze (l´ultima su Economia e geopolitica dopo Wall Street) e anche cene di autofinanziamento. Sono importanti, le cene. In ogni nostra sede ci sono la cucina e la cantina. Da noi vale ancora l´antico principio: "Da ciascuno secondo le proprie capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni". Se non hai soldi in tasca, puoi mangiare e bere senza pagare. Alla fine della cena scopriamo che l´incasso è sempre alto, tutto funziona perfettamente senza fissare un prezzo».
Sono orgogliosi e cauti, gli ultimi anarchici. «Abbiamo paura delle parole perché abbiamo solo quelle e dobbiamo usarle bene, soprattutto quando cerchiamo di spiegare cosa vuol dire essere anarchici». Nessuno parla a nome degli altri. «Io - dice Claudio Mazzolani - rappresento solo me stesso. Anarchia per me è la ricerca della felicità. È lottare per gli altri, anzi no, perché non siamo cattolici. Anarchia è lottare con gli altri compagni. Sì, continuiamo a chiamarci compagni, come facevano i nostri padri e i nostri nonni, perché i principi dell´anarchia sono rimasti immutati in un mondo che è cambiato. Ma noi siamo sempre quelli: l´anarchico è convinto che possa esserci un altro mondo, dove la solidarietà e la libertà possono determinare i comportamenti reali della società. E per fortuna con noi ci sono gli studenti anarchici e anche gli operai impegnati nel sindacato. Quanti siamo? Noi non abbiamo tessere e non vogliamo dare numeri. In nessun senso».
Strana galassia, quella anarchica. Circoli, sedi, librerie, associazioni con le bandiere rosso nere sono presenti da Palermo a Milano, ognuno con la propria storia e la propria "individualità", ma per avere notizie di questo mondo frastagliato, come ai tempi del vecchio Pcus, bisogna rivolgersi a un´unica "Commissione di corrispondenza della Fai" che ha sede a Palermo. Gentilissimi, anonimi interlocutori rispondono via mail solo a domande scritte. «Essere anarchici? Significa, oggi come sempre, credere fermamente nella possibilità di organizzare la vita, la società, gli interessi individuali e collettivi fuori e contro ogni imposizione autoritaria? Essere anarchici significa coltivare incessantemente il proprio spirito critico. La politica? Quella che è mero esercizio di potere non ci interessa. Noi siamo per un´azione politica diretta, nell´impegno che ciascuno può esercitare in prima persona, senza alcuna delega alle istituzioni».
Molto forte, fra gli anarchici, il ricordo - e il rimpianto - del passato. «E noi cadrem in un fulgor di gloria / schiudendo all´avvenire novella via / dal sangue spunterà la nuova istoria / de l´Anarchia». L´Inno della Rivolta, del 1904, esalta «lo schianto redentore» della dinamite. Qualcuno non si accontenta di cantare i vecchi inni. La A di anarchia ha siglato attentati e violenze. Bombe carta e molotov di «anarco-insurrezionalisti» sono state lanciate nei giorni scorsi contro banche Unicredit a Bologna, Messina, Trento, Torino? «La violenza, di per sé - precisa la Commissione di corrispondenza - non è una caratteristica della pratica anarchica. Non utilizzeremo mai una violenza di tipo avanguardistico perché l´anarchia non si può imporre. La rivolta contro l´oppressione diventa una sterile fiammata se non costruisce, se non sa contaminare l´ambiente in cui vive. Gli anarchici, comunque, quando nel corso della storia hanno intrapreso azioni violente, se ne sono sempre assunti chiaramente la responsabilità. Si pensi agli attentati contro teste coronate e presidenti: sempre molto mirati e sempre, comunque, moralmente sostenuti da grandi masse di lavoratori e oppressi».
Come nei film western i cattivi stanno da una parte sola. «L´esercizio della violenza e il suo monopolio "legittimo" appartengono allo Stato e alla sua prassi: bombe, stragi, terrorismo, guerre, strategia della tensione, montature giudiziarie e suicidi di Stato sono tutti attrezzi del mestiere usati ancora oggi da chi detiene il potere per reprimere le lotte e criminalizzare il dissenso. Noi invece vogliamo costruire una società che sappia fare a meno della violenza e della sopraffazione».
L´ultima festa, al centro sociale Torchiera, «cascina autogestita» di Milano, è stato il Quattordicesimo Natale anticlericale: «Contro ogni crociata, un Natale pirata, con letture et interpretazioni eretiche, canti anticlericali et bolle di scomunica». Massimo Varengo, ex professore di fisica, dirige la casa editrice Zero in condotta nella città di Giuseppe Pinelli. «L´anarchia - racconta - ancora oggi è viva e vegeta. A Milano ci sono sedi, circoli culturali, centri studi. La componente libertaria è presente nell´Arci e anche in tanti centri sociali come la cascina Torchiera. Del resto essere anarchici oggi è molto facile: tutto ciò che sta succedendo conferma la validità dei fondamenti dell´anarchismo. Le guerre, i conflitti sociali, le disuguaglianze dimostrano l´incapacità del sistema autoritario di dare risposte all´umanità e alla natura stessa, con devastazioni che rubano il futuro al mondo». Già nel 1892, un secolo prima di verdi e ecologisti, nell´Inno dei malfattori scritto da Antonio Panizza si cantava una «natura, comun madre» che «a niun nega i suoi frutti / e caste ingorde e ladre / ruban quel ch´è di tutti». «Osservando ciò che sta accadendo - dice l´editore milanese - si comprende che l´anarchia è l´unica possibilità di uscita. A un mondo di libertà si giunge solo con la libertà e non con meccanismi autoritari che ricreano nuovi poteri».
La sinistra messa in crisi anche dalle inchieste giudiziarie non sorprende il professore. «Il potere può corrompere tutte le teorie che si vogliono misurare sul terreno della trasformazione sociale e politica. Si corrompono nel momento in cui esercitano potere in collusione con il sistema gerarchico». Dura da oltre un secolo l´incontro-scontro con la sinistra, prima socialista poi comunista. A volte ci sono momenti di pace. A Fidenza, il 15 dicembre, è stata inaugurata una stele dedicata ad Alberto Meschi, anarchico, nato in questa città e poi sindacalista fra i cavatori di marmo di Carrara. Agli inizi del secolo scorso riuscì a ridurre a sei ore l´orario di lavoro nelle cave. Assieme ai sindaci di Carrara e Fidenza, ambedue di centro sinistra, ha parlato l´anarchico Gianandrea Ferrari, libraio di Reggio Emilia: «Preoccupato per l´alcolismo dilagante Alberto Meschi ottenne che la paga non venisse più consegnata il sabato nelle cantine, bensì sul luogo di lavoro o in piazza».
Ma sono rari, i momenti di tregua. Poco lontano, a Modena, i ragazzi anarchici del circolo Unidea ricordano ancora l´8 agosto. «Avevamo un centro sociale - ricorda Francesca - chiamato Libera. Un vecchio casolare, ristrutturato da noi, con attorno la terra coltivata come natura comanda. Un luogo dove trovarci, discutere, cercare di partecipare alle scelte della città. Il sindaco, proprio durante le ferie d´agosto, ha mandato le ruspe, protette da polizia, carabinieri e vigili urbani. Hanno distrutto tutto. Il Pd ricalca le orme dei Ds, del Pds e del Pci: spazza via tutto ciò che lo disturba. I sindaci di sinistra si comportano esattamente come quelli di destra».
«L´importante - ripete Claudio Mazzolani, della Fai imolese - è continuare a tenere la luce accesa. Qui a Imola vogliamo raccogliere anche le bandiere dell´anarchia che già sono state a Reggio Emilia, nella mostra Orgoglio e amore. La più bella è quella di San Pietro in Trento, frazione di Ravenna. Fu distrutta dai fascisti nel 1925. Dopo la liberazione, gli anarchici trovarono il fascista colpevole dell´oltraggio e lo costrinsero? a preparare una nuova bandiera, ricamandola a mano. Ecco, questa mi sembra una storia di vera anarchia».

Corriere della Sera 4.1.09
Paolo Rossi. L’apocalisse può attendere.1
L'utopia La polemica con gli intellettuali «nuovi sciamani»
Contro il neo-catastrofismo di Asor Rosa, Ceronetti, Bodei
di Alberto Melloni

La speranza taglia il nostro tempo in parti diseguali. Da un lato la regione in cui la speranza s'è eclissata, quasi che nulla si potesse attendere dal futuro che non sia il rallentarsi del passo del peggio: ed è la nostra, dove la caduta dei mercati, quasi come in un Ottantanove dell'Occidente, non ha causato né frastuoni né rivoluzioni, ma un mero intasarsi di angosce e meschinità. Dall'altro lato le speranze che scuotono la superficie immobile della storia: quelle che hanno smosso i mondi segregati per obiettivi tanto reali quanto ardui, come quello della fine dell'apartheid o perfino del riscatto impersonato dalla vita, prima ancora che dall'elezione presidenziale, di Barack Obama. Ma un terzo ambito, forse il più grande, è quello che il bel libro
Speranze di Paolo Rossi chiama le «speranze smisurate»: quelle che hanno mobilitato generazioni nell'attesa di una palingenesi sociale e socialista dietro la quale resta una scia di disincanto, spesso degenerato nel cinismo di cui quell'eccitazione non è incolpevole.
Con queste futurologie ideologiche il filosofo fiorentino polemizza con feroce ironia, stigmatizzando coloro che in vista di quelle attese hanno prodotto le profezie a basso prezzo e le escatologie secolarizzate un tempo d'impronta marxiana, oggi più spesso ecologista. Se un tempo l'autoillusione produceva materiali politici, oggi è spesso nell'orizzonte della più artificiale delle idee — la «natura» — che si innesca il perverso congegno della paura: la visione d'un futuro d'inferno — e non è un caso che anche davanti alla prospettiva di un pianeta inondato da ghiacci sciolti si parli di «riscaldamento globale » con una evidente allusione alla cifra termica dell'inferno — è stata infatti puntualmente smentita dagli sviluppi delle conoscenze che hanno relativizzato la fine del mondo. Ma come nella vecchia catechesi (osserva Rossi ricamando sul Pomponazzi) anche questa visione cupa del futuro serve ad educare quello che si ritiene volgo e per questo merita il sarcasmo del dotto studioso.
Al contrario, le speranze ragionevoli che Rossi loda e raccomanda sono quelle che mirano a incidere sul tempo senza bisogno di ricorrere alle paure o all'illusionismo intellettualistico, che resistono alla tentazione di andare ultra vires
con mite eroismo. Per questo producono una pragmatica disincantata, che riesce a leggere nel lento e deludente spostarsi degli indici del male (quelli della fame, del sottosviluppo, eccetera) una chiamata alla intensità della propria azione e del proprio rigore, piuttosto che il frammento del grande mosaico dove, ideologumeno dopo
ideologumeno, apparirà il sol dell'avvenire.
Per quanto si senta in molte pagine il desiderio di stigmatizzare l'intellighentsia italiana — graffiante con Asor Rosa, Rossi morde la visione sciamanica dell'heideggerismo di Volpi, non risparmia allusioni feroci a Citati e a Ceronetti, a Schiavone e a Zolo, fino a quelle tacite a Severino e a Bodei — Speranze è libro che interroga a fondo ogni esperienza. Anche quella religiosa che sulla qualità delle speranze viene giudicata. Leggendo queste eleganti pagine, viene infatti da chiedersi cosa sia accaduto alla speranza teologale: non a caso Rossi chiude facendo sua una frase di Benedetto XVI che alla speranza ha dedicato la sua prima enciclica. Ma si tratta di una finta chiusa: perché la questione di come le speranze secolarizzate (con correlativa secolarizzazione di inferni, paradisi, uomini nuovi e terre promesse) abbiano ammutolito la speranza della redenzione rimane aperta. E su come la si interroga il modo in cui Rossi scuote la filosofia, è una lezione.

Corriere della Sera 4.1.09
Paolo Rossi. L’apocalisse può attendere.2
La scienza Le sfide della modernità oltre tutte le certezze
Ottimisti e pessimisti assoluti così uguali sotto la maschera
di Giulio Giorello

«Una nuvola in cielo: prima sembra un coccodrillo, poi la faccia di una bella ragazza », scherza Paolo Rossi ogni volta che qualcuno pretende di aver compreso il fine (o la fine) della storia. E si disegna sul volto dello studioso — uno dei maggiori rappresentanti della «storia delle idee» — un sorriso tra il malizioso e lo scettico. Cita una poesia di Montale: «La storia... si sposta di binario e la sua direzione non è nell'orario» — come quel bizzarro treno che Topolino ha preso nel corso di una delle sue avventure irlandesi; ma un cartellone lo aveva avvisato, sul tabellone quel treno era segnato con «Partenza: ora» e «Arrivo: forse» (per la cronaca, si tratta di La scarpa magica, del 1953). Come dire che l'inizio è sempre adesso e il destino non è mai compiuto.
Nel 2006 Rossi ha pubblicato (presso Raffaello Cortina) un elegante affresco del Rinascimento visto come Il tempo dei maghi, ove ancora si è convinti che... recitare la giusta formula permetta di cambiare il corso degli eventi. Oggi ci ammonisce che quel tempo non è finito — almeno non per tutti. Abbondano personalità di spicco che, per esempio, lamentano il dominio della tecnica, annunciano la guerra tra le civiltà o rilanciano il tramonto dell'Occidente. Sono dei maghi, se si tratta di politici; si accontentano del ruolo di profeti, se sono degli intellettuali. Rossi invita a sospettare di entrambe le categorie (e, se possibile, di farne addirittura a meno): si trova in ottima compagnia, quella di Primo Levi, che invitava ad accontentarsi di verità ben più modeste, «quelle che si conquistano faticosamente con lo studio, la discussione e il ragionamento, e che possono essere verificate o dimostrate ». Ai tempi eroici dell'Urss c'era chi celebrava l'onnipotenza del marxismo con queste parole: «Perché credi che Lenin giaccia a Mosca perfettamente intatto? Attende la scienza, vuole risorgere dai morti». Intanto Stalin «liquidava» (anche) quel tipo di intellettuali. Nel suo recentissimo
Speranze (il Mulino) Rossi non risparmia ottimisti e pessimisti assoluti, così diversi in superficie, così uguali sotto la maschera. Non attende alcuna redenzione, nemmeno dalla scienza. Questa resta un'attività pubblica e controllabile in cui nessuno ha il monopolio della verità né tantomeno quello dell'autorità. È un'impresa che apre nuove libertà, ma obbliga a inedite responsabilità — come i dibattiti sulla portata delle biotecnologie e la questione dell'accanimento terapeutico stanno a dimostrare. Ed è quasi impossibile prevedere le conseguenze di lungo periodo di questa o quella umana «invenzione ». È dunque inutile aspettarsi «un nuovo cielo e una nuova terra», come recita l'Apocalisse di Giovanni: accontentiamoci di sondare con i nostri telescopi il cielo che già abbiamo e di non devastare la terra che abitiamo. Ma senza fanatismi: Rossi non ama né scientisti a oltranza né ecologisti selvaggi.
Per concludere: Rossi formula la «modesta proposta» di sostituire alle speranze «smisurate » quelle «ragionevoli»; ne dà più di un esempio e quello che io apprezzo di più riguarda la vicenda che ha portato alla cessazione della lotta armata nella cosiddetta Irlanda del Nord occupata dall'esercito britannico. Persone che per decenni erano state sui lati opposti della barricata (repubblicani indipendentisti contro unionisti filoinglesi) si sono trovate fianco a fianco nello stesso governo. La stampa internazionale ha parlato persino di un «miracolo»; ma ho l'impressione che né Paolo né io crediamo ai miracoli.
Siamo invece disposti a scommettere su quel «faticoso lavoro» di cui parlava Primo Levi.

il Riformista 4.1.09
Testamento biologico. «Il mio partito deve dire se sta con me o con la Binetti e la Roccella»
Fine-vita, Marino sfida il Pd
di Alessandro Calvi

«È arrivato il momento che il Pd decida da che parte stare». Quella di Ignazio Marino è quasi una chiamata alla conta, in vista della riunione dei gruppi parlamentari convocata per il 16 gennaio. «Un partito che vuole governare il Paese - spiega il parlamentare democrat che è autore di un disegno di legge sul testamento biologico firmato da 101 senatori - non può continuare a mantenere una posizione poco chiara su temi così importanti come il fine-vita». Per farlo, però, nel Pd si deve superare un «imbarazzo» ad affrontare questi temi, pensando che «il mondo cattolico abbia una posizione uniforme». Tanto più che se il Parlamento votasse la legge voluta da Eugenia Roccella e Paola Binetti il risultato sarebbe di mettere i medici di fronte alla scelta se violare la legge o violare il codice deontologico.
Eugenia Roccella dice che legge sul fine vita questa volta si farà. Il Parlamento, però, appare incerto, come anche i due grandi partiti. E il Pd appare anche molto preoccupato per il rischio che la legge, alla fine, si rivelasse un boomerang.
Io appartengo a un partito che ha l'ambizione di governare questo Paese. Mi sembrerebbe assolutamente in contrasto con questa ambizione il fatto di non saper assumere una posizione chiara su un tema così importante. Ecco, mi sfuggirebbe il senso di un partito che non riuscisse a dire da che parte sta.
Già, però sino ad oggi è andata proprio così.
E infatti credo che nel Pd ci sia resi conto che questo passaggio non è più procrastinabile. Tanto che tutti i parlamentari sono convocati per una riunione il 16 gennaio al termine della quale dovrà emergere la linea del partito sulle terapie di fine vita e se i cittadini abbiano il dirito di esprimere indicazioni. Molti di noi sono convinti che a questo si debba arrivare anche con un voto a maggioranza.
Dunque, siamo alla conta?
Quale altro metodo c'è per arrivare democraticamente a una scelta? L'unico che conosco se manca l'unanimità è questo.
Sarebbe una novità. Ieri su Repubblica la Mafai parlava di un'ondata neoguelfa, facilitata dalla afasia della politica.
È come se ci fosse un imbarazzo ad affrontare i temi che vengono etichettati come eticamente sensibili, pensando che nel mondo cattolico vi sia una posizione uniforme che si identifica con le dichiarazioni di alcuni esponenti delle gerarchie. Ma non è così. Anzi, alla fine le posizioni di Binetti e Roccella sono piuttosto isolate mentre il dibattito è piuttosto vivace. Basta pensare alla lettera pubblicata da Repubblica di alcuni sacerdoti sempre sulla vicenda di Eluana Englaro. O all'appello sul sito www.appellotestamentobiologico.it, sottoscritto da oltre 30mila italiani, ciascuno dei quali ha anche scritto un pensiero. Se il ministro Sacconi o Eugenia Roccella li leggessero, scoprirebbero che la maggior parte sono credenti che pensano che le decisioni sul fine-vita le debbano prendere i cittadini e non lo Stato.
Anche sulla nutrizione?
Non voglio rispondere in termini vaghi come spesso fa chi ha responsabilità di governo. Pensiamo a un paziente che si ammala di tumore all'esofago e che, insieme al proprio medico, decide di spegnersi nella propria casa, con l'aiuto delle cure palliative, facendo a meno della cannula che, inserita nello stomaco, gli avrebbe consentito di nutrirsi ancora per un po' di tempo. La legge che vorrebbero Roccella e Binetti prevede che nutrizione e idratazione siano obbligatorie in qualunque fase della vita. Dunque, quando quel malato entrerà in coma, il medico si troverebbe di fronte a un bivio: violare il codice deontologico, che impone il rispetto delle scelte fatte nell'ambito dell'alleanza terapeutica, o violare la legge, che invece imporrebbe la nutrizione. E così ci sarebbero non uno ma migliaia di casi Englaro. E il tribunale diventerà definitivamente il luogo nel quale risolvere le questioni che riguardano il fine vita.

sabato 3 gennaio 2009

Repubblica 3.1.09
A Gaza. È in gioco l’etica del genere umano
di Václav Havel, Hasan bin Talal, Hans Küng, Yohei Sasakawa, Desmand Tutu, Karel Schwarzenberg


Perdere tempo è sempre deplorevole. Ma il tempo perso in Medio Oriente è anche fonte di pericolo. È trascorso un altro anno senza alcun consistente progresso per superare le divisioni tra palestinesi e israeliani.
Le incursioni aeree in atto su Gaza, così come i continui lanci di razzi contro Askelon, Sderot e altre città del Sud di Israele stanno a dimostrare l´estrema gravità della situazione. L´impasse esistente tra Israele e la leadership palestinese di Gaza sulla questione della sicurezza ha condotto tra l´altro al blocco degli aiuti alimentari israeliani alla popolazione di Gaza, riducendo letteralmente alla fame un milione e mezzo di persone. Sembra che nelle sue trattative con i palestinesi di Gaza Israele sia tornato a impuntarsi sul primato della "hard security": un´impostazione che porta solo a precludere ogni altra opportunità di segno non violento, ogni soluzione creativa al contenzioso israelo-palestinese.
Con l´inasprimento della loro posizione i politici israeliani restano legati alla prospettiva di ulteriori insediamenti israeliani in Cisgiordania. E molti palestinesi, messi in questo modo con le spalle al muro, incominciano a non vedere altra scelta, per tradurre in realtà le loro aspirazioni nazionali, al di fuori delle tattiche più radicali. Da qui il rischio di sempre nuove violenze. È quindi fondamentale, per i partner regionali di Israele come per gli attori internazionali, comprendere che i palestinesi non potranno comunque essere distolti dall´obiettivo strategico della conquista di uno Stato indipendente. Il popolo palestinese non abbandonerà mai la sua lotta nazionale.
Ma israeliani e palestinesi devono rendersi conto che non conseguiranno mai i loro obiettivi a lungo termine con il solo uso della forza. È necessaria invece l´adozione di scelte accettabili per entrambe le parti in causa, volte ad evitare le esplosioni di violenza. E sebbene talora non si possa escludere l´uso della forza, solo la via del compromesso verso una soluzione integrata può produrre una pace stabile e duratura.
Perché un processo di risoluzione di un conflitto possa avere esito positivo, è necessario che le energie generate dallo scontro siano canalizzate verso alternative costruttive e non violente. Questo dirottamento delle energie conflittive è possibile in ogni fase del ciclo dell´escalation; ma quando non vi è stata, fin dai primi segnali di tensioni, un´azione preventiva per affrontare i problemi e costruire la pace, soprattutto allorquando il conflitto si intensifica e degenera nella violenza, è necessario ricorrere a un qualche tipo di intervento.
Solo allora diventa possibile instaurare un processo di mediazione e conciliazione, avviare il negoziato, l´arbitrato e la collaborazione in vista della soluzione dei problemi. In definitiva, la ricostruzione e la riconciliazione sono le sole vie percorribili per giungere a una stabilità che comunque non può essere imposta.
In tutto questo non c´è nulla di sorprendente. E tuttavia è il caso di chiedersi per quale motivo non vi sia stato un impegno più concertato e concentrato per trasformare la situazione a Gaza e in Palestina. Si è parlato di un protettorato internazionale, per proteggere i palestinesi sia dagli elementi più pericolosi al loro interno che dagli israeliani, e fors´anche gli israeliani da se stessi; ma questa proposta ha ricevuto scarsa considerazione.
Ciò che preoccupa in particolare chi si impegna nella risoluzione delle crisi internazionali è l´assenza di un tentativo coordinato di costruire un accordo tra israeliani e palestinesi, in vista di una struttura basata su un approccio inclusivo, interdisciplinare e sistemico, in grado di spostare le variabili e di condurre a una pace che entrambi i popoli possano considerare giusta ed equa.
Uno degli elementi chiave per una struttura di riconciliazione è la crescita economica. Come ha ripetutamente sottolineato la Banca Mondiale, esiste una stretta correlazione tra povertà e conflitti. Ecco perché una soluzione politica sostenibile tra palestinesi e israeliani non può prescindere dal superamento del deficit di dignità umana, del divario esistente tra una società prospera e una popolazione priva di tutto. Ma gli sforzi in questo senso sono stati finora frammentari, e quindi insufficienti a consentire la speranza reale di una vita migliore.
È necessario che tra israeliani e palestinesi si stabilisca un dialogo costruttivo, al di là dell´enorme divario sociale che li divide; e allo stesso modo è imprescindibile il dialogo tra le autorità e la gente comune, gli abitanti di queste zone che vivono nella confusione su quanto si sta facendo in loro nome. È necessario ricostruire la fiducia per consentire alle parti in causa di individuare le vie per il superamento delle ostilità del passato. Solo l´avvio di un nuovo clima di fiducia pubblica permetterà di procedere a una diagnosi corretta dei problemi, per poterli affrontare efficacemente.
Naturalmente, tutte le parti in causa devono comprendere l´esigenza di sicurezza degli israeliani; e allo stesso modo, le misure di costruzione della fiducia hanno bisogno del contributo di tutti. Ma più di ogni altra cosa c´è bisogno oggi di un chiaro messaggio ad indicare che non la violenza, ma il dialogo è la via maestra da seguire in questo periodo di grandi tensioni.
Quello che è in gioco a Gaza è l´etica fondamentale del genere umano. Le sofferenze, l´arbitrio con cui si distruggono vite umane, la disperazione, la privazione della dignità umana in questa regione durano ormai da troppo tempo. I palestinesi di Gaza, e tutti coloro che in questa regione vivono nel degrado e privi di ogni speranza non possono aspettare l´entrata in azione di nuove amministrazioni o istituzioni internazionali. Se vogliamo evitare che la Fertile Crescent, la "Mezzaluna fertile" del Mediterraneo del Sud divenga sterile, dobbiamo svegliarci e trovare il coraggio morale e la visione politica per un salto qualitativo in Palestina.

Václav Havel è stato presidente della Repubblica Ceca; Sua Altezza Reale Principe Hasan bin Talal è presidente del´Arab Thought Forum (Forum per il Pensiero Arabo) e presidente emerito della Conferenza mondiale delle Religioni per la pace; Hans Küng è Presidente della Stiftung Weltethos (Fondazione per un´etica globale) e Professore Emerito di Teologia Ecumenica all´università di Tübingen; Yohei Sasakawa è presidente della Sasakawa Peace Fandation; Desmand Tutu è stato insignito del Premio Nobel per la pace; Karel Schwarzenberg è ministro degli esteri della Repubblica Ceca.
Copyright: Project Syndicate, 2008
Traduzione di Elisabetta Horvat

Corriere della Sera 3.1.08
Strategie L'attacco contro Rayan autorizzato dalla procura
Bersagli e vittime civili Scontro in Israele sulle nuove regole
«Colpiremo chi nasconde armi in casa»
di Davide Frattini


Morti tre fratellini, tra gli otto e i dodici anni, nel campo profughi palestinese di Khan Yunis

GERUSALEMME — Quando l'esercito «bussa sul tetto », restano dieci minuti prima che i jet sgancino i missili. Una telefonata e un avvertimento: «Sgomberate, stiamo per bombardare». Li avrebbe ricevuti anche Nizar Rayan, il leader di Hamas ucciso con le quattro mogli e undici dei dodici figli, 20 morti in totale sotto le macerie. Era stato lui — raccontano a Gaza — a ideare la tattica di mandare i civili sul tetto, per fermare i raid all'ultimo momento. Era convinto che lo scudo umano della famiglia l'avrebbe protetto. «Una volta l'aviazione avrebbe aspettato di avere il bersaglio nel mirino, quando si trovava da solo — commenta Ben Caspit, prima firma del quotidiano Maariv —. La guerra in Libano ha cambiato le regole: chi nasconde armi in casa, deve aspettarsi un razzo dalla finestra». I portavoce delle forze armate hanno spiegato che il palazzo di Rayan era utilizzato come deposito e quartiere generale per le operazioni militari, hanno fatto notare che dopo l'attacco si sono sentite altre esplosioni.
Il bombardamento è stato autorizzato da Menachem Mazuz, il procuratore generale dello Stato, e dal consigliere legale dell'esercito. «Prima la procedura si concentrava su un militante — continua Caspit — adesso sono le case a essere incriminate». Nella Striscia, i raid hanno colpito per la prima volta anche le moschee. «I capi di Hamas erano convinti di poter accumulare munizioni nei luoghi sacri, sicuri che non sarebbero mai stati distrutti per paura della condanna internazionale — scrive Bradley Burston su Haaretz —. Rayan è stato ucciso con la famiglia, le moschee ridotte in polvere. Il mondo si è preoccupato di più dei botti di Capodanno. Qualcosa è cambiato nell'equazione mediorientale, perché questa è una guerra che riguarda il futuro dell'islam radicale».
In sette giorni di operazioni sono morti almeno 432 palestinesi, un quarto sarebbero civili, secondo l'agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite. Un gruppo locale per la difesa dei diritti umani parla del 40 per cento. Ieri un missile ha ammazzato tre fratellini, tra gli otto e i dodici anni, mentre giocavano in strada, nel campo rifugiati di Khan Yunis. Dall'inizio dell'operazione Piombo Fuso, i razzi lanciati dai miliziani contro le città israeliane hanno ucciso quattro persone.
L'esercito ha diffuso video per dimostrare che i raid colpiscono depositi di armi e basi di lancio per i Qassam. Il 29 dicembre, poco prima di mezzanotte, sul sito delle forze armate è stata pubblicata la notizia urgente «Camion pieno di armi distrutto vicino a Jabalya ». Il filmato, poco più di due minuti, mostra la situazione dal cielo, attraverso l'occhio elettronico del drone telecomandato. Quindici figure si muovono tra due veicoli, spostano dei lunghi oggetti neri, poi l'esplosione.
Le organizzazioni israeliane B'Tselem e Mezan hanno ricostruito una versione diversa. Il camion apparterrebbe ad Ahmed Samur e la carcassa bruciata è ancora lì, vicino alla sua officina. «Abbiamo portato via solo i morti— dice il palestinese ad Haaretz —. Nessuno osa avvicinarsi». Racconta di essere stato avvertito dalla figlia che un palazzo era stato bombardato ed era crollato sul suo deposito. Di essere andato a controllare i danni e a cercare di tirar fuori le apparecchiature da sotto le macerie. «Quello che stavamo spostando non erano razzi, ma bombole di ossigeno usate per la saldatura. Gli otto giovani uccisi non erano miliziani di Hamas, ma i nostri figli».
I portavoce militari hanno replicato che «il materiale caricato sul camion proveniva da un edificio usato come nascondiglio per le armi».

Repubblica 3.1.09
Il testamento biologico e l’ondata neoguelfa
di Miriam Mafai


Era il dicembre 1967 quando il chirurgo Christian Barnard si trovò di fronte una giovane donna vittima di un grave incidente, nel quale aveva riportato un grave trauma encefalico. Non era morta, ma Christian Barnard, decise di certificarne la «morte imminente». Solo così poté procedere all´espianto del cuore ancora battente per trapiantarlo in un paziente cardiopatico ricoverato nello stesso ospedale. Aveva inizio una nuova epoca per la medicina, l´epoca dei trapianti. Solo l´anno successivo, nell´agosto del 1968, un rapporto della Harvard Medical School definirà il coma irreversibile come nuovo criterio di certificazione della morte. È la definizione di morte ormai dovunque accettata.
Era il 1978 quando vide la luce, in Inghilterra, Louise Brown il primo essere umano concepito, anziché in utero, in provetta. Oggi ha più di trent´anni e un figlio, Cameron, di diciotto mesi. Non sappiamo quanti sono oggi nel mondo i "bambini della provetta", certamente molte decine e decine di migliaia. E, dopo i "bambini della provetta" sono stati messi a punto, con la fecondazione assistita, altri sistemi e metodi, fino allora inconcepibili, di gravidanza e maternità.
Fino al 1968 insomma si veniva dichiarati morti solo quando il cuore cessava di battere. Fino al 1978 i bambini venivano concepiti, nel matrimonio (o fuori del matrimonio) solo in virtù di un rapporto sessuale tra un uomo e una donna.
Sono passati, da allora solo quarant´anni, pochi nella vita di una persona, quasi nulla nella storia dell´umanità. Ma le due date possono essere ricordate come l´inizio di una storia nuova per l´umanità, una storia di cui ci è difficile immaginare oggi tutti i possibili sviluppi. La nascita e la morte, per dirla con un recente intervento di Aldo Schiavone, «stanno svanendo come eventi "naturali" e si stanno trasformando in eventi "artificiali", dominati dalla cultura e dalla tecnica». E, come tali, ci propongono nuovi problemi e interrogativi, scientifici e morali.
C´è chi saluta questo intervento della scienze e della tecnica come uno straordinario progresso, un annuncio di benessere e persino di felicità, c´è chi di fronte a questa pervasività della scienza e della tecnica si ritrae spaventato o inorridito. C´è chi ancora oggi è contrario alla pratica degli espianti, che infatti deve essere esplicitamente prevista dal paziente o autorizzata dai parenti. C´è la donna che, per avere un figlio è disposta a sottoporsi ad una serie di procedimenti e pratiche mediche spesso dolorose e sempre invasive, e quella che preferisce rinunciare ad una maternità biologica e scegliere, invece, la strada dell´adozione.
Di tutto questo, delle possibilità che ci vengono offerte dalla medicina e dalla ricerca scientifica ancora in corso, non solo si può, ma si deve poter discutere. E si discute infatti, in tutti i paesi prima di giungere a soluzioni legislativa. È bene discuterne anche nel nostro paese senza preconcetti e chiusure. Senza arroganze né faziosità. Ma, soprattutto, senza timidezze o subalternità nei confronti delle gerarchie, quasi si ritenesse la Chiesa Cattolica l´unica o la più autorevole depositaria di quei principi etici di cui tutti riconosciamo l´importanza e la necessità ma che non tutti decliniamo nello stesso modo.
Basti ricordare a questo proposito il caso di Eluana Englaro, che ci propone in maniera drammatica, un quesito, quello della disponibilità della vita, anche della propria, sul quale la Chiesa appare assolutamente intransigente, ma che è già stato risolto in modo diverso non solo nella coscienza del padre della fanciulla (e nella opinione della maggioranza degli italiani, stando ai più recenti sondaggi), ma anche da una serie di sentenze dei tribunali italiani. Com´è possibile che la esecuzione di queste sentenze venga impedita dalla opinione di un pur autorevole vescovo?
La questione della disponibilità della propria vita è delicata e controversa. La Chiesa cattolica vi si oppone fermamente. Ma il tema viene affrontato in modo diverso da autorevoli pensatori cattolici, come Vittorio Possenti, che recentemente sosteneva che «sul piano razionale il criterio di una indisponibilità della propria vita non è fondato». Ieri su queste pagine Luca e Francesco Cavalli Sforza hanno proposto di sottoporre a referendum popolare l´ipotesi del cosiddetto "testamento biologico", il diritto di ognuno di noi di decidere se e fino a quando essere tenuto in vita artificialmente.
Il caso di Eluana Englaro ha aperto drammaticamente il dibattito su questo tema: se ognuno di noi può decidere quali cure accettare e quali rifiutare. La questione in realtà dovrebbe considerarsi già risolta in virtù dell´art. 32 della nostra Costituzione che afferma che nessuno può essere obbligato a un qualsivoglia trattamento sanitario. La nostra vita ci appartiene, dunque, siamo noi che ne disponiamo. Il rifiuto delle cure, secondo la nostra Costituzione, è legittimo anche quando dovesse comportare la morte del soggetto. L´ultimo caso si è verificato, come tutti ricordiamo, solo qualche giorno fa, quando una paziente gravemente ustionata e ricoverata in ospedale ha rifiutato l´amputazione di una gamba, pur sapendo che questo rifiuto ne avrebbe provocato la morte. I medici, dopo averla interpellata e informata delle conseguenze della sua decisione, si sono limitati a rispettarne la volontà, liberamente e ripetutamente espressa.
Si tratta certamente di una materia delicata, che sarà presto presa in esame dal Senato, dove già sono state presentate in tema di testamento biologico o disposizioni di fine vita, numerose proposte di legge. A differenza di Schiavone però, io non ho percepito finora nessun vero, serio, segnale di disponibilità in questa materia da parte delle gerarchie. E mi chiedo anche perché nel nostro paese, e solo nel nostro paese, l´attività del legislatore debba essere condizionata in ultima istanza dal giudizio del Vaticano.
Si parla meno, ma anche questa materia andrebbe meglio approfondita, della zona grigia che attiene al diritto della donna al controllo della sessualità e della maternità. Anche qui c´è un costante, tenace intervento delle gerarchie. C´è stato nel corso del dibattito sulla legge 40 sulla fecondazione assistita. Ma molte norme di quella legge, in particolare quella che obbliga all´impianto in utero di tutti gli embrioni prodotti e quella che vieta l´esame preimpianto sono state giudicate illegittime da molti nostri Tribunali su ricorso di coppie affette da malattie trasmissibili. Queste sentenze tuttavia non sono state sufficienti per consigliare una revisione di quelle norme di legge. E che non poche coppie affette da gravi malattie trasmissibili, preferiscono "emigrare" in altri paesi europei e lì procedere alla fecondazione assistita. (Paradossi della nostra storia: una volta, prima del 1978 si emigrava per poter abortire, oggi si emigra per avere un figlio esente da gravi malattie?). E ancora: è di questi giorni la feroce opposizione del sottosegretario Eugenia Roccella alla introduzione in Italia della pillola RU486, che consente il cosiddetto "aborto farmacologico". Anche qui, in materia di aborto e maternità, la scienza propone e la Chiesa si oppone. Ed anche in questa materia non registro finora, a differenza di Aldo Schiavone, nessuna nuova disponibilità della Chiesa. Ma vedo invece avanzare, anche per le incertezze e le debolezze della cultura laica, una pericolosa "ondata neoguelfa".

Repubblica 3.1.09
Se anche il papa perde audience
di Giovanni Valentini


La Chiesa della "vecchia Europa" ha proprio bisogno di novità e anche di una ventata di aria fresca.
(da "Conversazioni notturne a Gerusalemme" di Carlo Maria Martini - Mondadori, 2008 - pag. 44)

Applicato a un Papa, al Santo Padre, al Sommo Pontefice, al capo della Chiesa cattolica, il termine audience può anche risultare improprio o addirittura blasfemo. Per i credenti, Sua Santità rappresenta Dio in terra e, quando esercita ex cathedra il magistero sulla fede, è coperto dal privilegio dell´infallibilità. Ma anche per i non credenti il "vicario di Cristo" è comunque la guida spirituale di una grande comunità umana, composta da oltre un miliardo di persone in tutto il mondo. E dunque, merita senz´altro il rispetto che si deve ? anche al di là dei motivi religiosi ? a un leader planetario, a una figura di riferimento, a un´autorità morale.
Ecco perché in questo caso il vocabolo audience, tratto dal linguaggio mediatico e in particolare televisivo, può essere o apparire inappropriato. Eppure, nella società della comunicazione, è il termine che viene più naturale per registrare ? come hanno fatto i giornali alla vigilia di Capodanno ? il calo delle presenze dei fedeli alle udienze e agli incontri di Benedetto XVI. Nel corso del 2008, secondo i dati ufficiali diffusi dal Palazzo apostolico, l´immensa platea a cui si rivolge il Santo Padre ha perso mezzo milione di partecipanti. Ma rispetto agli oltre quattro milioni di persone che erano venute a Roma ad ascoltare Ratzinger nei primi dodici mesi del suo pontificato, la caduta dell´audience arriva complessivamente a un milione e ottocentomila fedeli.
Sarà pure un calo per così dire fisiologico in seguito all´esaurimento dell´effetto novità. Ed è pur vero che il Papa non è una star televisiva né tantomeno, come ha detto lui stesso recentemente, una rockstar: per cui la sua influenza non può essere valutata con i criteri prosaici dell´Auditel. Sta di fatto, però, che tra le udienze in Vaticano e gli incontri a Castelgandolfo il trend è questo, sebbene i viaggi di Benedetto XVI all´estero, negli Stati Uniti, in Australia e in Francia, abbiano registrato invece un successo mediatico.
Per cercare di essere il più possibile rispettosi, diciamo allora che ? in confronto al fascino e alla popolarità del suo predecessore Karol Wojtyla ? Papa Ratzinger ha verosimilmente meno carisma, rivela una minore capacità comunicativa, esercita una minore attrazione. Non si fa peccato, e comunque non c´è nulla di male, a osservare che la sua stessa figura fisica, il suo modo di parlare e ? soprattutto per noi italiani ed europei ? la sua cadenza marcatamente tedesca, non giovano né all´immagine né all´ascendente del Pontefice. E tutto ciò, per un leader mediatico globale, ha comunque il suo peso.
Ma per non ridurre tutto a una "questione di feeling" bisogna riconoscere che il magistero di Ratzinger, nel suo rigore teologico e morale, non concede nulla allo spirito del tempo; cioè a quella tendenza verso la modernizzazione dei costumi o magari alla secolarizzazione che spesso degenera nel materialismo. La società si allontana così dalla Chiesa e la Chiesa dalla società, in un processo di divaricazione progressiva e reciproca. Per i laici o per gli atei, può essere anche un fenomeno storico; inarrestabile; in qualche misura benefico, se incrementa sul piano etico la coscienza individuale e la responsabilità collettiva. Per i credenti, invece, si pone una questione di testimonianza e di apostolato che evidentemente non può essere rimessa soltanto all´evangelizzazione del Terzo mondo.
Ora, contro gli spettri della crisi mondiale, giustamente il Papa invoca un nuovo modello di sviluppo economico, più equo e solidale. Ma molto spesso è la "doppia morale" della Chiesa a deludere e allontanare i fedeli: dall´impraticabilità della dottrina sessuale fino ai temi fondamentali della bioetica; dai rapporti prematrimoniali alla contraccezione e al controllo delle nascite; dalle cellule staminali al testamento biologico. Quella "doppia morale" per cui si perdonano i preti pedofili e si condannano gli omosessuali, in base alla semplicistica argomentazione che Dio ha creato l´uomo e la donna; si nega la comunione ai divorziati o ai risposati e si somministra invece all´esponente politico che si professa cattolico e magari ha già avuto un figlio fuori dal matrimonio, in attesa dell´annullamento della Sacra rota. Oppure, si rifiutano i funerali in chiesa al povero Welby che chiedeva l´eutanasia e si concedono al noto avvocato penalista che in un momento di disperazione s´è tolto la vita con un colpo di pistola; o ancora, si difende l´accanimento terapeutico su Eluana Englaro, da sedici anni in stato vegetativo irreversibile, mentre in tanti ospedali e in tante cliniche private ogni giorno si stacca pietosamente il tubo in silenzio ai pazienti in coma.
È proprio in un tale contesto che rischia di assumere il valore di una rottura diplomatica l´annuncio che il Vaticano non recepirà più automaticamente le leggi italiane, considerate troppe, mutevoli e spesso contraddittorie fra loro. A cominciare, naturalmente, da quelle che contrastano con la morale cristiana. Si tratta, come ha scritto lo stesso Osservatore romano, di «un evento importante per l´ordinamento giuridico dello Stato della Città del Vaticano». E sorprende che, a cavallo del Capodanno, dal fronte laico non siano arrivate finora reazioni adeguate.
Era dal 1929, dall´epoca dei Patti lateranensi attraverso cui lo Stato italiano e il Vaticano stabilirono il mutuo riconoscimento, che vigeva questo regime di recezione pressoché automatica. Ed è senz´altro legittimo che la Santa Sede, nella sua piena autonomia, decida oggi di modificare la procedura. Ma, a parte il paradosso che ciò avviene nel momento in cui l´Italia è retta da un governo di centrodestra fin troppo compiacente, è una scelta che ? com´è stato detto nei giorni scorsi ? minaccia di allargare ulteriormente le sponde del Tevere, cioè le distanze fra la Repubblica e la Chiesa. Ottant´anni dopo il Concordato, non se ne sentiva davvero la necessità.

Corriere della Sera 3.1.08
La protesta Il leader radicale: grave la decisione di non recepire le leggi italiane
Pannella: il Vaticano viola il Concordato
di R.P.


ROMA — Il leader radicale Marco Pannella attacca il Vaticano, dopo la decisione di darsi una nuova legge sulle fonti del diritto, quella che non prevede più una «recezione quasi automatica » delle leggi italiane. «Abbiamo letto tutti che uno dei principali soggetti dell'informazione dei Tg italiani, il Capo dello Stato del Vaticano, ha di fatto assunto una decisione gravissima, che nega alla radice la struttura concordataria, e semmai ancor di più quella sventurata siglata nei Patti di Villa Madama».
Secondo Pannella, «delle due, l'una: o il Vaticano ha doverosamente e riservatamente avvisato il nostro Presidente della Repubblica di questo fatto importantissimo, di incriminazione della legislazione delle istituzioni italiane; oppure non l'ha fatto». Conclusione: «Io devo pensare che il Presidente non ne fosse informato, perché altrimenti non si spiegherebbe il motivo per cui, come gli avrebbe imposto la Costituzione, non abbia risposto alla decisione dello Stato del Vaticano ».
La Santa Sede, per parte sua, aveva già sopito sul nascere le polemiche riprese da Pannella. Giuseppe Dalla Torre, presidente del Tribunale del Vaticano, ha spiegato l'altro giorno a Radio Vaticana che le nuove norme rappresentano «una semplificazione rispetto alla legge del 1929». La «novità di maggior rilievo» è che «fino ad ora, in Vaticano, abbiamo applicato le norme del Codice civile italiano del 1865 con crescente difficoltà in relazione al fatto che la società oggi presenta profili nuovi, aspetti nuovi ». Adesso viene richiamato «il Codice del 1942» che «ovviamente, pur essendo ormai anzianotto, è però più moderno».
Nessuno sconvolgimento, insomma: «Non è che cambi molto, perché in realtà il richiamo alla legislazione italiana è sempre stato in via suppletiva — ha aggiunto Della Torre — . L'ordinamento vaticano ha sue leggi, ha sue norme. Non solo il Diritto canonico, anche se il Diritto canonico è sempre stato la fonte principale: non è che venga introdotto oggi come fonte principale nell'ordinamento!», ha esclamato. Sull'Osservatore Romano si parlava di contrasto «con troppa frequenza evidente » tra le leggi italiane e i «principi non rinunziabili». Ma «il filtro alle leggi italiane c'è sempre stato», dice il presidente del Tribunale del Vaticano: «Anche nella precedente legge del 1929, il richiamo alle norme italiane era in via suppletiva e sempre con un filtro: il non contrasto con l'ordinamento interno dello Stato vaticano con i principi e le norme del Diritto canonico e con le disposizioni di diritto divino, naturale e positivo».
Nessun gesto di rottura, quindi: «Essendo la Città del Vaticano uno Stato indipendente e sovrano, può modificare tutte le sue leggi come vuole», ha concluso Della Torre. Del resto «anche l'ordinamento italiano, come quello di qualsiasi altro Stato, prevede dei filtri alla recezione di norme di ordinamenti stranieri, perché evidentemente ogni Stato vuole cautelare il proprio ordinamento giuridico dalla intromissione di valori che siano incompatibili con i principi dell'ordinamento giuridico stesso».

Repubblica 3.1.09
La politica e l’ebraismo
Divergenti interpretazioni dell'identità di un popolo
l confronto tra Scholem e Strauss
di Franco Volpi


L´uno, di genitori assimilati, è studioso della Kabbala e ispirato dal sionismo
L´altro, di famiglia ortodossa, è allarmato dal conflitto tra fede e ragione

Si formarono entrambi nella Germania che visse la brusca fine della Belle Époque, la catastrofe della Grande Guerra e l´estenuante crisi di Weimar, e che a rapidi passi si stava incamminando verso il totalitarismo nazionalsocialista. In quell´atmosfera turbolenta, Gershom Scholem e Leo Strauss condivisero il destino dell´intellighenzia ebraica di lingua tedesca, la cui travagliata identità è simboleggiata dai nomi di tre città: Berlino, Atene, Gerusalemme. Ovvero: germanità, filosofia, ebraismo.
Si conobbero frequentando la Scuola Ebraica di Francoforte e poi l´Accademia per la Scienza dell´ebraismo di Berlino. Pensatori originali ed eterodossi, imboccarono strade divergenti e svilupparono due diverse interpretazioni della loro identità. Il fitto scambio epistolare che intrattennero nel corso degli anni, curato da Carlo Altini con un illuminante studio introduttivo, ci cala in una vicenda, quella dell´ebraismo, che ha segnato in modo inconfondibile la storia del Novecento (Lettere dall´esilio. Carteggio 1933-1973, Giuntina, pp. 252, euro 14).
Scholem, che era di famiglia ebrea berlinese assimilata, aveva iniziato a studiare matematica e filosofia a Jena con Frege, per passare poi a Berna e a Monaco, dove si appassionò per le lingue orientali e per la tradizione della Kabbala, su cui scrisse la tesi di dottorato. Amico intimo di Walter Benjamin, di cui ammirava «l´ingegno metafisico», deluso dalle mancate promesse dell´assimilazione ebraica e convinto che essa fosse destinata al fallimento, già nel 1923 preferì tagliar corto con l´identità germanica ed emigrò in Palestina. Qui si distinse come storico delle religioni e studioso della mistica ebraica, ottenendo nel 1933 una cattedra per insegnarla all´università di Gerusalemme. Senza mai aderire all´ortodossia, si riconobbe a suo modo nella tradizione ebraica e nei suoi insegnamenti dottrinali, diventandone il massimo esperto.
Leo Stauss proveniva invece da una famiglia ebrea ordodossa, originaria dell´Assia rurale, e si era laureato con Cassirer ad Amburgo con una tesi sul problema della conoscenza Jacobi, vale a dire: sull´antinomia tra fede e ragione, tra filosofia e rivelazione. Un motivo, questo, che attraverserà tutta la sua opera. A inquietarlo erano l´ateismo e il nichilismo a cui era approdata la modernità, e l´incapacità della pur straordinaria cultura weimariana di reagire alla crisi con un contro-movimento. Con le sue descrizioni essa contribuiva invece a diffonderla e intensificarla. Era ancora possibile impegnare l´uomo e l´universo in un´avventura speculativa quando i nomi che risuonavano erano quelli di Weber, Spengler e Heidegger? La stessa identità ebraica, che a lungo si era illusa di fare tutt´uno con l´illuminismo liberale, non veniva trascinata nel vortice della stessa decadenza? Dallo studio della tradizione filosofica ebraica, accanendosi su Maimonide, su Spinoza, sulla critica della rivelazione in nome della ragione, Strauss ricavava più dubbi che certezze, più ateismo che convinzioni religiose. Conseguita una borsa di studio con l´aiuto niente meno che di Carl Schmitt, spostò allora il fulcro dei propri interessi sulla politica e sulle sue elaborazioni teoriche. La sua geniale intuizione fu di distinguere «scienza politica» e «filosofia politica». La scienza politica moderna, quella di Hobbes e dell´ancor più radicale Machiavelli, disseca neutralmente e positivisticamente il corpo sociale in modo analogo a come la fisica seziona i corpi fisici. La filosofica politica, invece, quella di Platone e Aristotele, si pone il problema di dare alla comunità politica una forma riuscita.
Che cosa potevano spartire due intelligenze votate a interessi così divergenti? A unire Scholem e Strauss fu la comune passione per la ricerca dell´identità ebraica, diventata difficile dopo la crisi dell´assimilazionismo e il suo sfaldarsi contro il crescente antisemitismo in Germania. Fu l´erranza ebraica che li spinse a condividere esperienze e inquietudini tipiche della loro condizione, senza ignorare però le rispettive differenze, prima fra tutte la diversa interpretazione che proponevano della loro tradizione. Entrambi convenivano nella diagnosi: il delicato equilibrio tra germanità, filosofia ed ebraismo, che ancora resisteva nell´opera di maestri della tradizione giudaico-tedesca come Hermann Cohen, Franz Rosenzweig e Martin Buber, era in procinto di spezzarsi. Entrambi erano troppo radicali per accontentarsi del programma moderato dell´Accademia ebraica berlinese, diretta allora da Julius Guttmann: la Filosofia dell´ebraismo di quest´ultimo fu letteralmente sviscerata e, nonostante gli innegabili meriti storiografici della sua ricostruzione della tradizione filosofica ebraica, fu criticata per il suo tentativo di conciliare, con sbiadite categorie dialettiche, ebraismo e ragione filosofica.
Scholem era convinto che l´anima ebraica stesse nella rivelazione, nella dimensione simbolica, nelle forze mistiche e messianiche che mantengono la storia in una tensione costante e impediscono di ridurla a un progetto secolare o politico, incluso lo stesso programma sionistico della fondazione dello Stato di Israele. È questo il punto di forza e al tempo stesso la debolezza dell´idea messianica: essa è consolazione e speranza, ma ogni tentativo di realizzarla, ogni sua concreta manifestazione storica sembra ridurla ad absurdum. Vivere nella speranza e nell´immaginazione ha qualcosa di grandioso, ma anche qualcosa di profondamente irreale, come Scholem scrive nei suoi fondamentali studi su L´idea messianica nell´ebraismo, ora tradotti in un´impeccabile edizione da Roberto Donatoni e Elisabetta Zevi (Adelphi, pagg. 388, euro 34).
Strauss valorizza invece l´elemento filosofico a rischio di disgregare quello religioso. Sostiene la ragione a scapito della fede, la vita contemplativa contro quella pratico-politica. L´alternativa tra Atene e Gerusalemme si profila per lui come un contrasto inconciliabile: quello tra una vita che trova il principio per determinarsi unicamente in se stessa, nella propria razionalità e nell´assoluta indipendenza da ogni autorità, e una vita sottomessa invece all´obbedienza, alla fede, ai dettami della rivelazione. Delle due l´una: o vale la legge rabbinica con la rigorosa osservanza che pretende dal credente, oppure la scepsi filosofica elevata a regola di vita. Ogni mediazione tra i due estremi non è sufficientemente radicale e, presto o tardi, la storia si incaricherà di spezzarla.
Ma per l´ultimo Strauss, ragionatore tagliente e disincantato che incalza su questo punto l´amico, c´è una tensione che precede quella tra filosofia e rivelazione: è il conflitto tra filosofia e politica, saggezza e tirannide. Egli ipotizza allora l´esistenza di una «seconda, più profonda caverna platonica», in cui l´uomo sarebbe prigioniero e da cui solo una élite filosofica potrebbe liberarlo. Una élite che, nei tempi bui della storia, non può fare altro che dissimulare i propri pensieri mediante una «scrittura della reticenza», bussando con la sua saggezza sempre alla stessa porta chiusa: quella degli arcana imperii. Invano essa ha cercato di scardinarli, come la storia dei totalitarismi del Novecento ha drammaticamente insegnato. E ogni soluzione che ha proposto, non è stata che la maschera sotto cui si è presentato un nuovo problema.

Corriere della Sera 3.1.08
Il 2009 apre una nuova era per biologia e neuroscienze: in sviluppo protesi per collegare cervello e computer
L'anno delle staminali su misura
Disponibili per la medicina cellule ottenute con la manipolazione genetica
di Edoardo Boncinelli


Tempo di consuntivi. E di progetti. Tempo di riflessioni e di tentativi di anticipazione. Anche nel campo delle scienze della vita. Se dovessi assegnare la palma ai progressi più rilevanti in questo ambito, la darei alla prospettiva recentemente emersa di farsi le cellule staminali direttamente «in casa», come del resto ha sentenziato la rivista Science. Sono anni che sostengo che le cellule staminali si possono trovare già pronte, nell'embrione o nell'adulto, ma si possono anche preparare a bella posta. Pare che ora ci siamo! Nel 2006 un primo gruppo di ricerca giapponese è riuscito a rendere «staminali» alcune cellule prese da un corpo adulto e geneticamente modificate. Queste cellule furono prudentemente chiamate cellule iPS, induced pluripotent stem cells, ma mostrarono subito di possedere tutte le caratteristiche tipiche delle staminali di qualità. Il «miracolo» fu compiuto introducendo nelle cellule adulte quattro geni «interruttori », di quelli cioè che sono capaci di accendere intere batterie di altri geni (e di spegnerne altre) in modo da cambiare in profondità la programmazione genetica delle cellule stesse. Combinando quattro di questi si è raggiunto l'eccezionale risultato al quale abbiamo accennato.
Preparazione ad hoc
La prospettiva è esaltante: c'è possibilità di «prepararsi» in laboratorio cellule staminali che non presentano alcun problema etico e che possono dare luogo a tessuti e organi che non verranno rigettati dal corpo del ricevente perché sono stati scelti in modo che il loro assetto genetico non sia in contrasto con quello di chi deve ricevere il trapianto. Tre anni fa era però legittimo esprimersi, come feci, con cautela per le possibili difficoltà tecniche e pratiche dell'esperimento. Oggi questo intervento è stato oramai ripetuto diverse volte da vari gruppi di ricerca, con qualche modifica, e possiamo probabilmente dire che sarà presto una realtà della medicina, per curare sia ma-lattie, congenite o acquisite, che le conseguenze di incidenti o del normale processo di invecchiamento. L'era delle cellule staminali potrebbe essere veramente alle porte.
Caccia ai geni tumorali
Altri nuovi e portentosi progressi sono stati compiuti anche nella caccia ai geni responsabili di questa o quella forma di tumore. Questo è avvenuto grazie a due avanzamenti conoscitivi di grande portata: la sempre migliore conoscenza delle sottigliezze dei vari genomi e la comprensione del meccanismo d'azione dei cosiddetti micro-RNA non codificanti. Qui si tratta di prospettive più che di consuntivi. Il confronto di genomi diversi — di specie diverse ma anche di individui diversi della stessa specie — ci sta illuminando sempre più su che cosa è essenziale e che cosa è «di contorno» nei diversi patrimoni genetici.
Ciò serve primariamente a segnalarci dove e come scavare nella gigantesca montagna di dati delle sequenze dei diversi genomi. In questo campo uno dei quesiti più interessanti è rappresentato dall'individuazione di niente di meno che le basi biologiche della differenza fra noi e i nostri cugini — scimpanzé, gorilla e bonobo. E' abbastanza chiaro che tutto si gioca al livello della regolazione dell'attività dei geni, e per questa funzione i candidati ideali sono proprio i micro- RNA, piccolissimi RNA che non codificano direttamente proteine ma ne regolano la produzione da parte dei geni codificanti convenzionali.
Interfacce artificiali
Esiste poi lo sconfinato campo delle neuroscienze, il più grande sforzo mai intrapreso per comprendere il nostro cervello, la nostra mente e la nostra psiche. Anche qua due serie di risultati e due prospettive esaltanti: lo sviluppo di interfacce artificiali tra cervello e computer e la comprensione dei meccanismi della valutazione e della decisione. Per quanto concerne il primo argomento, siamo ormai alla vigilia di protesi ibride che assistano chi, pur avendo un cervello perfettamente funzionante, ha problemi di movimento o di percezione sensoriale.
Con le onde cerebrali si può direttamente aprire una finestra, accendere un televisore e, entro certi limiti, anche scrivere — basta che queste onde siano amplificate e inviate a un congegno assistito da un computer — mentre il cervello può «vedere» e sentire ciò che lo circonda anche se i sensi del corpo che lo ospita non sono al meglio della forma — basta trasformare gli stimoli del mondo esterno nelle onde cerebrali più appropriate.
Il percorso delle decisioni
Conosciamo sempre meglio, infine, attraverso quali meccanismi valutiamo le situazioni che stiamo affrontando e prendiamo le nostre decisioni, dalle più insignificanti, come vestirsi o scegliere un vino, alle più impegnative, come accettare o non accettare un lavoro o se e quanto investire in una determinata impresa finanziaria. Anche se gli eventi degli ultimi mesi sembrano mettere seriamente in dubbio la nostra capacità di affrontare in maniera adeguata i problemi dell'economia e del mercato, enormi passi avanti si stanno compiendo nella comprensione dei meccanismi mentali e psicologici che stanno alla base delle nostre decisioni. E' forse proprio perché prima non ne avevamo la minima idea, o perché l'avevamo parecchio sbagliata, che è successo quello che è successo. In tutto il mondo. Il fatto è che noi adopriamo la razionalità, cioè la nostra corteccia cerebrale prefrontale, solo in un secondo momento e quando non ne possiamo proprio fare a meno. In prima battuta e nella maggior parte delle nostre decisioni quotidiane adopriamo tutti altre strutture cerebrali e obbediamo ad altri meccanismi psico- fisiologici che seguono altre logiche, più naturali ma meno accorte. I percorsi che portano dalle nostre ghiandole al cosiddetto sistema limbico e da questo alla corteccia cingolata anteriore e talvolta alla razionalità della corteccia prefrontale sono stati, e promettono di essere ancora per qualche tempo, i grandi protagonisti di questa esaltante avventura intellettuale. Altro che animali razionali! Siamo i Signori dell'irrazionale. Ma siamo anche gli unici che lo sanno.

Corriere della Sera 3.1.08
Fede e ragione Fra culto e superstizione, resti veri e falsi sono oggetto di devozione e polemiche
Le reliquie dei grandi, rito laico
Le ossa di Dante, il cuore di Voltaire e ora il cranio di Cartesio
di Armando Torno


Il culto delle reliquie non è prerogativa delle religioni, anche la ragione filosofica e le passioni letterarie hanno le loro. Se a Bijapur, nel Deccan, si venera un pelo della barba di Maometto, Gabriele d'Annunzio si inginocchiò dinanzi alla teca contenente i capelli di Lucrezia Borgia alla Biblioteca Ambrosiana di Milano (Lord Byron, invece, ne rubò uno). Se gli antichi Egizi avevano i quattordici brani del corpo di Osiride disseminati lungo le sponde del Nilo dall'uccisore Seth, la Chiesa Cattolica ha gestito magistralmente le reliquie diffondendo il culto dei santi e i santuari. Chi scrive deve a Josif Brodskij — Venezia, dicembre 1989 — un racconto sulla tomba di Kant. Confidò con un sorriso che una leggenda metropolitana parlava di una visita di Breznev a Kaliningrad (l'antica Königsberg), dove notò i resti della cattedrale. Il premier sovietico chiese perché si conservasse quel rudere. Gli risposero che custodiva, appunto, la tomba di Kant. E lui: «Chi era Kant?». L'accompagnatore fu svelto: «Un maestro di Marx». Subito il segretario del Pcus ordinò grandi restauri.
Per questo non ci meraviglia che la scuola militare Prytanée chieda adesso il cranio di Descartes (il nostro Cartesio), suo antico allievo, conservato al Museo dell'Uomo di Parigi tra un busto di cavernicolo e quello di un ex calciatore. Adrien Baillet nella sua Vita di Monsieur Descartes (tradotta da Adelphi) ricorda che era piccolo, pallido, perennemente afflitto da una tosse secca e che nelle ultime ore — si trovava a Stoccolma — ordinò al domestico Schluter «di andargli a preparare dei piccoli pani, convinto che li avrebbe mangiati di buon grado, nel timore che gli si restringessero le budella se avesse continuato a prendere solo brodi e non avesse fatto lavorare stomaco e visceri ». Fatica inutile, giacché nelle prime ore dell'11 febbraio 1650 «le orazioni non erano ancora ultimate che Descartes rese l'anima al suo Creatore». Gli svedesi, dopo le esequie, ne trafugarono la testa, che arriverà a Parigi soltanto nel 1882; il corpo, invece, la precederà di due secoli abbondanti: la salma mozzata giunge nel 1666 e posta nella chiesa di Sainte-Geneviève du Mont (sarà trasportata a Saint-Germain des Près il 26 febbraio 1819).
Ma Descartes è uno dei tanti. Il culto della reliquie della ragione colpisce anche il laicissimo Voltaire. Quando morì, il 30 maggio 1778, si trovava a Parigi, nella casa di rue de Beaume; l'autorità religiosa aveva fatto sapere da tempo di proibire la sua sepoltura in terra consacrata. La nipote, mademoiselle Denis, che aveva una tresca con un prelato, la notte del 31 maggio fece partire un tiro a sei con il cadavere dello zio vestito come se fosse vivo, con accanto un servitore. Mentre il corpo andava in cerca di una tomba, cuore e cervello restavano a Parigi: si conserveranno rispettivamente alla Biblioteca Nazionale di Francia e alla Comédie Française. Ci vorrà la rivoluzione per far tornare nella capitale la salma, tumulata al Panthéon il 12 luglio 1791.
Ma quel che più induce a riflettere è l'accanimento su certi resti considerati simbolo di genialità. Si desidera conoscere il Dna di Galileo; periodicamente si scopre il cranio di Mozart (fu sepolto in una fossa comune...) e siamo sommersi da deduzioni; ora si punta su quel che si presume di Leonardo, le cui ossa furono disperse al tempo della Rivoluzione Francese. Quando, dopo incredibili avventure, si traslò la salma di Ugo Foscolo dal cimitero di Chiswick alla chiesa di santa Croce di Firenze, si aprì la bara per scattare fotografie più che per verificare lo stato dei resti. D'altra parte — chi scrive deve il racconto a Riccardo Muti — allorché si posero le ossa di Dante in una nuova cassa, in pieno Novecento, l'incaricato del Comune di Ravenna chiamò i suoi figli e, dopo aver toccato le reliquie, frizionò loro la testa, sperando di «trasmettere qualcosa».
Il culto è stato anche istituzionalizzato. A Mosca, dopo la morte di Lenin, si fondò un vero e proprio centro per lo studio del cervello dei morti, l'Istituto Obuch. Dopo aver esaminato quello dello stesso Lenin, toccò allo scrittore comunista Henri Barbusse (si spense nella capitale sovietica nel 1935): si prelevò il cervello e il resto fu cremato e sepolto sotto le mura del Cremlino. L'onore raggiunse anche Maksim Gor'kij: nel 1936 gli tolsero la materia grigia, gliela affettarono in parti sottilissime e la esaminarono al microscopio. Come d'abitudine. Per questo non si può che condividere quanto si legge sulla tomba di William Shakespeare (chissà se essa conserva veramente i suoi resti...) nella chiesa di Stratford: «Buon amico/ per amor di Cristo/ non cavar fuori/ la polvere qui racchiusa!/ Benedetto chi rispetta queste pietre/ e maledetto chi rimuove le mie ossa».
Cartesio (1596-1650) Voltaire (1694-1778) Immanuel Kant (1724-1804) Leonardo da Vinci (1452-1519) Dante Alighieri (1265-1321) William Shakespeare (1564-1616)

il Riformista 3.1.08
Giorgio Ruffolo spiega perché Napolitano e Ratzinger dicono le stesse cose
Siamo al «neoliberismo con l'ambulanza». E il Pd sbaglia a tacere
PARADOSSI. «Dopo aver picconato lo Stato per anni, adesso lo invocano per salvarsi. Mentre un partito senza idee si fa scavalcare dal Papa».
di Tonia Mastrobuoni


«Noto con dispiacere che la sinistra italiana non riesce a dire ancora una parola critica sul modello neoliberista con l'ambulanza». Giorgio Ruffolo è un grande affabulatore, quando posa lo sguardo su un'epoca, che sia l'Età del ferro o il Rinascimento, ne fotografa l'anima. Anche in quest'intervista con il Riformista, all'indomani delle convergenze parallele nei discorsi di fine anno di Giorgio Napolitano e del Papa con i loro accenti critici sul modello di sviluppo attuale, l'economista sfodera la lucidità di sempre.
Padre nobile e poco ascoltato della sinistra italiana, Ruffolo è un narratore talmente abile che Luca Ronconi si innamorò due anni fa di un suo libro, Lo specchio del diavolo (Einaudi) e lo trasformò in uno spettacolo teatrale. Il fondatore del Cer ha condensato in quel libro qualche divertente considerazione, molto attuale. Almeno quanto il «neoliberismo con l'ambulanza». Il mercato, scrive, non è mai stato «la piazza d'armi delle geometriche manovre che la teoria dell'equilibrio economico ha rappresentato; ma fin dall'inizio, un campo di battaglie violento, talvolta truculente». Dunque, è «molto più simile a un romanzo d'avventura che a un modello matematico».
Oggi siamo al capitolo più movimentato di questo romanzo, nel bel mezzo della più grave crisi economica globale da un secolo a questa parte. Schiere di economisti si affannano a dimostrare che avevano previsto il disastro dei subprime oppure glissano imbarazzate. Ruffolo predica inascoltato da anni che il modello di sviluppo attuale è devastante, che la "teologia dei mercati" è pericolosa perché le sue divinità abitano un Olimpo «indecifrabile, capriccioso e inesorabile». Ma non ha la sindrome della Cassandra.
In Quando l'Italia era una superpotenza (Einaudi), notava, alla fine di viaggio attraverso oltre due millenni di storia, che «quello della finanza è l'autunno opulento di tutte le egemonie: italiana, olandese, britannica. Americana?». È evidente, per l'ex ministro dell'Ambiente, che nelle convergenze nei discorsi di fine anno di Benedetto XVI e del presidente della Repubblica c'è la consapevolezza di «un grande momento storico». Ma sugli esiti, sulla possibilità che sia l'epilogo del "turbocapitalismo", Ruffolo non è molto ottimista.
«Noto intanto che dopo aver predicato per anni che lo Stato non è la soluzione ma il problema, i paladini del libero mercato lo hanno invocato tutti a gran voce per rimediare ai disastri fatti», osserva. Ora è «piuttosto prevedibile» che «scapperanno con i soldi e che tenteranno di tornare il prima possibile ai loro vecchi affari, alle vecchie logiche». Ruffolo è convinto che «gli Stati sono attualmente chiamati a pagare il conto, ma questi ideologi del mercato non vedono l'ora di dimenticarsene, di tornare al lavoro per preparare la prossima catastrofe».
In Italia, l'ideologia neoliberista ha trovato nella sinistra una sponda un po' troppo ampia, osserva l'ex parlamentare. Anzi, è «davvero imbarazzante», secondo Ruffolo, che il primo a spendere una parola esplicita e netta di condanna contro il sistema imperante sia stato il Papa. «Diciamo che il pontefice non è esattamente un mio punto di riferimento, ma è evidente che così riempie un vuoto lasciato dalla sinistra». Ed è altrettanto imbarazzante che ancora nessuno, nel Pd, avanzi dubbi sulla validità "nel neoliberismo con l'ambulanza", che ha nutrito una violenta ideologia antistatale e ora ricorre ai soldi pubblici per risolvere catastrofi private.
All'ultima direzione nazionale del Pd, venti giorni fa, queste riflessioni erano state esplicitate da Ruffolo ancora più nettamente: «Non dovremmo abbandonare a Giulio Tremonti il compito di ragionare e arrischiare risposte alle paure e alle speranze di quel secolo». Sono problemi che riguardano le generazioni future, aveva aggiunto, chiosando che «non credo che dovremmo rispondere come Woody Allen: i posteri? Ma che hanno fatto per noi?»
Dunque, delle analisi del Papa e di Napolitano non va ascoltata solo la diagnosi su «una malattia organica e non un'influenza», ma va anche raccolta l'esortazione forte a cambiare. Per l'economista «è triste che serva un disastro di queste proporzioni per capire cose che erano sotto gli occhi di tutti. Ora bisogna riflettere su una prospettiva di sviluppo più equo ed equilibrato. Dobbiamo ascoltare Napolitano, che ci ha regalato un discorso asciutto e appassionato, dal tono grave ma senza drammatizzazioni inutili».
Ha ragione il presidente della Repubblica, sottolinea Ruffolo, soprattutto quando esorta il Paese a ritrovare un clima di unità e ad essere più solidale. «Il nodo del problema sta nell'attuale modello di sviluppo, basato sulla distruzione dell'ambiente e su enormi diseguaglianze sociali». Chiosa l'economista: «il modello di sviluppo attuale ha generato continue crisi e continuerà a farlo, se non interveniamo in profondità».

Corriere della Sera 3.1.08
L'attrice lanciata nel 2004 dal regista di «Gomorra»
«Da Garrone a Bellocchio E divento donna Rachele»
Michela Cescon: la moglie di Mussolini, figura da capire
di Valerio Cappelli


«Il più bel complimento? Quando qualcuno mi dice che nei film non sono riconoscibile»
ROMA — Da Garrone a Bellocchio, il destino di Michela Cescon sembra quello di prestare voce e corpo ai registi visionari. La prima cosa che le chiese il primo è: quanto pesi? L'altro si offre con la sua dolce ambiguità e sul set le parla di colori. «Hanno una profonda onestà che vuol dire il desiderio di capire, lo sguardo vergine di fronte a un progetto».
Michela è donna Rachele in Vincere, il film in cui Marco Bellocchio racconta la tragica storia della donna ritenuta da molti (mancano documenti ufficiali) la prima moglie di Benito Mussolini (Filippo Timi): si chiama Ida Dalser e la parte l'ha avuta Giovanna Mezzogiorno. Michela fu nel 2004 fu l'anoressica in Primo amore di Matteo Garrone, «ogni immagine un quadro» nel delirio di una ragazza che accetta un gioco perverso abitando un altro corpo per amore: il talento di Matteo c'era, la fama (agguantata con Gomorra) ancora no. «Voleva raccontare un rapporto in cui non si è contenti di ciò che si ha».
Michela, due figlie piccole, trevigiana di 37 anni, volto intenso fuori dei canoni. «E devo fare un percorso anomalo, è eccitante, non hai modelli. Alla mia età la bonona è lì che conta i giorni, io mi sento giovanissima, diventa un mestiere a lunga gittata anche se da me non so se si accetterebbe un errore. Non devo sbagliare». Si rimette in pista dopo lo stop delle due gravidanze. C'è anche «Il compleanno » di Marco Filiberti con Alessandro Gassman, due coppie di amici insieme dopo anni, il tappo salta quando arriva il figlio bellissimo di Michela (che nella realtà è un modello brasiliano di Armani). È arrivata al cinema dopo aver macinato teatro, Ronconi il suo primo maestro. E ora sta provando con Silvio Orlando, Alessio Boni e Anna Bonaiuto «Il dio della carneficina» di Yasmine Reza.
Bellocchio la scelse che aveva «un pancione gigantesco, incinta, la mia partecipazione era impensabile. Mi chiese: com'è cominciata la tua vita artistica? Oggi dire attrice è quasi riduttivo, basta una fiction per diventarlo.
Ha molto rispetto, mi disse speriamo di rivederci. Non chiede somiglianza fisica. Sul set le indicazioni erano su luci e suoni, c'è buio, ora arriva il giallo. Se un'attrice è abituata ad avere appigli pratici può essere faticoso. L'incontro con l'«altra», Ida Dalser? «Litigavano, non so chi era più tosta. Ilda fu mandata in manicomio, il figlio (Benito come lui) fatto sparire, una storia durissima. Alla fine Rachele se l'è tenuta. Ha vinto lei. Ero un po' prevenuta, non conoscendola l'abbinavo a quello che ha fatto il Duce nel bene e nel male, la vedevo corresponsabile. Quando ci sono entrata dentro l'ho amata, l'ho capita. Io mi immedesimo molto, il complimento più bello è quando mi dicono: non t'avevo riconosciuto. Intanto lei è una contadina di umili origini, andò a servizio a casa Mussolini, all'inizio ne aveva paura. A Villa Torlonia faceva quasi tutto lei, prendeva i mezzi, in treno andava in terza classe per capire gli umori della gente, poi riferiva al marito: guarda che la realtà non è quella che ti dicono i funzionari».
Matteo Garrone non era ancora il regista di Gomorra. Michela lo conosceva, aveva visto i suoi esordi teatrali. «Mi telefona: quanto pesi? 60. Mi spiace, cercavo una persona magra». Dopo dieci giorni la richiama: sto pensando a una donna normale che poi dimagrisce. Ci stai? Ci sto. Ora chiunque si getterebbe dal treno per lavorare con lui. Sono dimagrita 15 chili in sei settimane, da 60 a 45. Un dietologo di Milano ha fatto un lavoro più psicologico che fisico. Alle 6.30 mangiavo pane, carne, uova, yogurt, centrifuga. Durante il giorno mangiavo in continuazione». Alla faccia della dieta: miracolo fu? «L'idea era di masticare sempre, giocando coi colori, fragole, ciliege, carote, finocchi. Dopo ho fatto fatica, il metabolismo s'era bloccato, non mi riconoscevo più, non so se lo rifarei».
Per spiegare come cominciò, usa un termine religioso: «Fu una vocazione. Un brutto incidente stradale, a 20 anni, uscivo dal cinema, un pirata della strada, ubriaco, mi prese in pieno. Ero in motorino. Femore spappolato, il resto del corpo illeso. Ne uscii con una voglia di liberarmi recitando. Fu una chiamata. Bussai alle scuole di teatro. Mi rispose Ronconi». Lui, Garrone...«maestri che ho abbandonato. Mi piace scardinare. Con Matteo la conoscenza reciproca è talmente alta che non abbiamo nemmeno voglia di vederci tanto».