La guerra e l’etica della morte e della vita
di Eugenio Scalfari
LA guerra di Gaza sta drammaticamente aumentando la sua intensità di ora in ora: è iniziato l´attacco di terra, sono state bombardate le moschee, Israele ha richiamato migliaia di riservisti e messo in stato d´allerta il nord del paese in previsione di possibili ostilità anche con Siria e Libano.
L´incendio divampa su tutta la "Striscia" con ripercussioni anche in Cisgiordania dove ci sono i primi segnali di una terza "Intifada", nei Paesi Arabi e nella diaspora palestinese in Europa e negli Stati Uniti.
Intanto gli arabi israeliani si sentono sempre meno cittadini di Israele e solidarizzano con manifestazioni di piazza in favore dei «fratelli» palestinesi. Il risultato di queste varie dinamiche è un isolamento di Israele di fronte alla comunità internazionale. In Italia, a Roma e a Milano, i palestinesi immigrati nel nostro paese hanno anche bruciato le bandiere di Israele provocando contestazioni all´interno dello schieramento politico italiano.
Contestazioni certamente valide in punto di diritto internazionale ma poco rilevanti di fronte alla sproporzione evidente della reazione israeliana a Gaza. Il dato di fatto oggettivamente osservabile è l´isolamento del governo di Gerusalemme di fronte all´opinione pubblica europea e araba.
Per rompere questa sorta di accerchiamento politico il solo sbocco possibile è quello del negoziato. L´alternativa è quella d´una lotta senza quartiere, l´invasione di Gaza e lo sterminio di Hamas, non più centinaia ma migliaia di morti civili, la fine di ogni opzione pacifica. Molto dipende dall´Europa, da Obama, da Putin. Con una valutazione dei costi e dei benefici che andrebbe ben oltre lo scacchiere medio-orientale riportando in prima fila l´Onu come unico tavolo di confronto mondiale.
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Le tensioni religiose della guerra di Gaza non sono da sottovalutare.L´influenza del messaggio cristiano è stata finora pressoché nulla.
L´interpretazione bellicista del Corano ha fatto altri passi avanti. Quanto a Israele, il Dio biblico non è tanto quello di Abramo e di Salomone quanto il Dio degli eserciti di Saul e di David, il Dio vendicatore e vendicativo.
Sotto la spinta di questi fatti la Chiesa di Roma ha compiuto un passo avanti. Poco influente, come abbiamo già detto, sull´atteggiamento dei belligeranti, ma molto importante per quanto riguarda il tema della non violenza e della pace.
Quella della non violenza e del pacifismo è relativamente recente nella Chiesa di Roma, non si risale molto più indietro di Pio XI e di Benedetto XV, ma si trattava ancora di tracce labili. I passi più risoluti si ebbero con papa Roncalli e con il Vaticano II. Wojtyla stabilizzò quella scelta. Papa Ratzinger l´ha recentemente accentuata. L´indisponibilità della vita è ormai ? così sembra ? una scelta irreversibile della gerarchia ecclesiastica. E tuttavia, come sempre accade, dalla soluzione d´un problema altri ne scaturiscono. Così sta accadendo che l´indisponibilità della vita abbia rafforzato il principio dell´indisponibilità della morte. Ne deriva un´intransigenza sempre più ferma nel campo della bioetica dove si discutono i temi eticamente sensibili della modernità: la vita e la morte, il dogma e la libertà di coscienza, l´etica e la scienza, la politica e la teologia.
La discussione su questi temi si svolge in tutto l´Occidente ma in particolare in Italia, nel giardino del papa cattolico. Perciò noi italiani ne siamo particolarmente coinvolti.
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Proprio in questi giorni il tema è stato riproposto dal caso Englaro e da altri consimili dando luogo all´ennesimo conflitto tra la gerarchia ecclesiastica e il pensiero laico. Il Vaticano, partendo dalla sua scelta sull´indisponibilità della vita, ne ha dedotto una serie di conseguenze estremamente rigide sull´intera gamma della bioetica, con l´intento di restringere i confini della libertà individuale.I «media» non hanno dato molto spazio alla discussione registrando quasi senza commento le posizioni vaticane. Ha fatto eccezione «Repubblica»: in meno di una settimana il nostro giornale ha pubblicato un articolo di Aldo Schiavone, uno dei Cavalli Sforza (padre e figlio), un altro di Marco Politi su un´indagine effettuata sui giovani del Triveneto, uno (di ieri) di Miriam Mafai. Il nostro è un giornale molto attento alle questioni religiose e ai confini tra la gerarchia ecclesiastica, la laicità dello Stato, l´autonomia della coscienza individuale, l´etica privata e l´etica pubblica. Perciò non può meravigliare se il dibattito si svolge intensamente sulle nostre pagine.
Stupisce tuttavia il silenzio pressoché completo della stampa nazionale, quasi che il tema meriti d´esser registrato ma non dibattuto. Questa assenza non può che stimolarci ad offrire spazio e respiro ad un confronto essenziale su temi essenziali.
Per quanto mi riguarda prenderò come riferimento l´articolo di Aldo Schiavone del 31 dicembre scorso perché è quello che a mio avviso affronta la questione in tutta la sua complessità.
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Scrive Schiavone che c´è nel nostro tempo una grande richiesta di etica: nella società pubblica e nei comportamenti privati, nella scienza e nella tecnologia, insomma in tutto il vissuto della modernità.Forse è vero che ve ne sia bisogno, ma che ve ne sia vera richiesta a me non pare. Tutt´al più c´è una richiesta retorica, cioè una simulazione di richiesta che vale soprattutto per gli altri ma quasi mai per se stessi.
Dalla richiesta di etica Schiavone fa discendere la necessità di rivolgersi alla Chiesa che sarebbe «il principale deposito di etica nell´Occidente cristiano».
Qui è necessario distinguere. La predicazione di Gesù di Nazareth, come ci è stata tramandata dai Vangeli (non soltanto i quattro canonici), dalle lettere di Paolo, dagli Atti degli apostoli, contiene certamente un messaggio etico di formidabile e duratura intensità. Questo messaggio la Chiesa l´ha tramandato, sia pure con notevoli aggiustamenti, ma quasi mai praticato. C´è stata, nei suoi duemila anni di storia, un´ala che ha non soltanto predicato ma praticato il messaggio evangelico: un´ala minoritaria, da Benedetto a Francesco, da Antonio a Bernardo, a Saverio, a Ignazio (non parlo dei mistici che sono altra cosa).
Quest´ala è stata tollerata e utilizzata dalla gerarchia che ha però seguito e praticato la strada opposta. Il deposito etico della gerarchia è stato contraddittorio e pressoché nullo, come avviene in tutte le strutture di potere. Le chiese cristiane, e quella cattolica in particolare, sono state e sono tuttora strutture di potere. L´etica può riverberare su di esse una parte dei suoi contenuti e precetti ma esse non ne sono in nessun caso la fonte sorgiva «per la contraddizion che nol consente».
Infine: Schiavone lamenta che la cultura laica, di fronte al fiorire di quella cattolica, sia muta, assente, dispersa e comunque impari al bisogno che ce ne sarebbe.
Impari forse. Dispersa può darsi perché i laici non sono una struttura e non hanno un Papa che parli per tutti.
Ma muta e assente non direi.
I laici hanno molti punti di riferimento, convinzioni radicate e comuni e una comune storia di pensiero evolutivo. All´origine ci sono gli stoici e Socrate e poi via via Epitteto, Epicuro, Montaigne, Descartes, Pascal, Spinoza, Diderot, Voltaire, Kant. Anche il pensiero laico ha una storia plurimillenaria che arriva fino a noi contemporanei. Non dobbiamo inorgoglircene ma tanto meno dimenticarcene.
Qui finiscono alcuni miei dissensi con l´amico Schiavone, con il quale invece consento pienamente sulla diagnosi che riguarda il rapporto tra scienza e tecnica da un lato, libertà e autonomia individuale dall´altro.
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La vita e la morte sono sempre più fenomeni artificiali oltre che naturali a causa del progredire della ricerca scientifica e delle sue applicazioni tecniche. Fenomeni artificiali perché la tecnica è sempre più in grado di supplire alle carenze naturali. Consente la procreazione anche a chi non può ottenerla secondo natura; prolunga la vita e sconfigge la morte prevenendo e vincendo la malattia.Fenomeni artificiali e perciò culturali che hanno bisogno di normative giuridiche capaci di conciliare i desideri dei singoli con gli interessi della collettività.
Scienza e tecnica continuano e continueranno ad evolversi, a sperimentare, a consentire opzioni sempre migliori, ma non vogliono né possono sostituire la natura. Se non altro per il fatto che l´umanità, la specie e gli individui che ne sono parte, è una delle innumerevoli forme della natura.
Scienza e tecnica sono prodotti mentali dell´uomo e quindi protesi della natura.
In questo stadio dell´evoluzione esistono zone grigie dove le protesi consentono risultati al prezzo di sofferenze e/o limitazioni a volte sopportabili, a volte radicali. Di fronte ad esse l´individuo rivendica legittimamente libertà di scelta: se accettare le soluzioni o rifiutarle.
Piena libertà ai depositari di fedi religiose di indicare e raccomandare soluzioni conformi all´etica da essi predicata senza però che quelle soluzioni possano essere imposte a chi (fosse uno soltanto) non condivide quelle raccomandazioni. Questo è il limite di uno Stato laico, pluralista e non teocratico.
Non sembra che la Chiesa la pensi così. Sembra invece che pretenda che le sue indicazioni nel campo della bioetica divengano norme giuridiche imperative. Ebbene, va ripetuto alto e forte che questo passo non potrà mai esser compiuto poiché segnerebbe la scomparsa della laicità a favore d´un fondamentalismo che l´Occidente ha storicamente archiviato da 250 anni. Un salto all´indietro di questa portata, esso sì, segnerebbe il ritorno ad un oscuro Medioevo e la scomparsa dei valori della nostra civiltà, inclusi quelli della predicazione cristiana.
il Riformista 4.1.09
Hanan Ashrawi. Per Israele l'incursione si rivelerà un disastro
di Alessandra Cardinale
Attacchi indiscriminati «Colpiti solo tre leader dell'ala militare»
Hanan Ashrawi. L'ex membro del Parlamento palestinese sostiene che a Gaza un esercito regolare va incontro a ingenti perdite e non ha possibilità di vittoria. L'azione terrestre non farà che crescere il sostegno dei palestinesi per Hamas. Bush? «Un irresponsabile».
«Come va? Come vuole che vada. Molto male». Da Ramallah, in Cisgiordania, Hanan Ashrawi, ex membro del Parlamento palestinese, fondatrice nel 1998 della organizzazione non governativa Miftah e grande amica di Edward Said con cui per decenni ha lottato in difesa dei diritti del popolo palestinese, risponde al telefono pochi minuti dopo la notizia diffusa da Radio Israel secondo cui alcuni soldati israeliani si sarebbero infiltrati a Gaza City per attaccare postazioni di Hamas che li avrebbe respinti. E anche da Al Jazeera non giungono notizie confortanti: l'aviazione israeliana lancia volantini sulla Striscia di Gaza in cui viene annunciato l'attacco di terra.
Dottoressa Ashrawi, l'attacco di terra da parte degli israeliani è imminente, cosa ne pensa?
La prima cosa da fare è tenere i nervi ben saldi. Israele ricorre spesso alla guerra psicologica ma al contempo la minaccia di un attacco di terra non va sottovalutata. Sia ben chiaro, e questo gli israeliani lo sanno molto bene, una guerra del genere porterebbe a una situazione tragica. Prima di tutto per il popolo palestinese di Gaza che, indebolito dai due anni di assedio, ora è la vittima di questa guerra. Ma l'incursione terrestre sarebbe un disastro anche per Israele che subirebbe perdite enormi. Hamas resisterà fino alla fine e combatterà in modo irregolare e non c'è modo che un esercito convenzionale come quello israeliano possa vincere.
Khaled Meshal, leader di Hamas in esilio, alcuni giorni aveva dichiarato di essere disposto a firmare il cessate il fuoco. Ieri ha annunciato che Hamas è pronto a resistere all'invasione da parte israeliana.
Certo. Qui in Palestina questa guerra è percepita come una guerra contro il popolo e la causa palestinese non contro Hamas. Questo perché l'esercito israeliano a oggi ha ucciso 420 civili e ha ferito 2.900 palestinesi, tra queste migliaia di persone solo tre erano membri di Hamas. Israele continua imperterrita a bombardare le case dei civili, le istituzioni palestinesi presenti a Gaza ma chiaramente non riesce a colpire il cuore dell'organizzazione di Hamas.
Israele da sempre si difende argomentando che i membri di Hamas usano i civili per farsi scudo.
Questa è una scusa. I guerriglieri di Hamas si nascondo in tunnel sotterranei e l'intellighenzia israeliana lo sa benissimo e sa anche quanto sia difficile intercettarli. Certo i tre membri di Hamas che l'esercito israeliano ha ucciso si trovavano nelle rispettive case ma i leader, e con questo intendo dire le menti di Hamas, l'ala militare, non è stata catturata dagli israeliani che avrebbero difficoltà a scovarli anche nel caso invadessero Gaza.
Secondo lei Israele non corre il rischio di regalare popolarità ad Hamas, che in questi due anni stava perdendo consistentemente l'appoggio della popolazione di Gaza?
Quando vengono uccisi civili palestinesi da parte degli israeliani, il resto della Palestina scende in piazza. È comprensibile, quindi, che in questi casi Hamas goda di popolarità perché viene percepita alla stregua degli abitanti di Gaza, vale a dire come la vittima. In genere, quando la situazione torna a una relativa calma, i palestinesi ricominciano a pensare politicamente. Le esigenze ora sono tre: la tregua, l'unità nazionale e la difesa dei palestinesi di Gaza.
Il sito israeliano Debkafile riferisce di una telefonata tra Bush e Olmert nel corso della quale il presidente degli Stati Uniti avrebbe dato il suo ok all'operazione israeliana e avrebbe inoltre assicurato che gli americani porranno il veto alla risoluzione dell'Onu che dovrebbe andare al voto lunedì nel caso in cui fosse espressa una condanna nei confronti di Israele. Ha fiducia nella nuova Amministrazione?
Sì, perché non può fare peggio di Bush che, con questa dichiarazione, si conferma un irresponsabile. Per otto anni ha appoggiato, senza se e senza ma, il Governo israeliano. Ci auguriamo tutti che l'Amministrazione Obama sia in grado e, soprattutto, abbia la volontà di rianimare il processo di pace e, magari, di portarlo a compimento.
Repubblica 4.1.09
Denuncia sull'Osservatore Romano. Gli esperti: pura fantascienza
"La pillola è aborto rilascia ormoni inquina e devasta l'ambiente"
di Paola Coppola
ROMA - Non solo è come l´aborto, ma inquina. La pillola contraccettiva di uso comune fa male all´ambiente, agli uomini, alle nascite. L´ultima crociata dell´Osservatore romano ? che non ha quale obiettivo la ormai arcinota pillola abortiva RU486, bensì il più comune anticoncezionale utilizzato da milioni di donne ? si consuma in un articolo a firma del presidente della Federazione internazionale delle associazioni dei medici cattolici, Pedro José María Simón Castellví. Secondo il quale la pillola contraccettiva non solo causa la morte del feto, ma devasta l´ambiente.
Scrive infatti Castellví: «La pillola denominata anovolutaria più utilizzata nel mondo industrializzato, quella con basse dosi di ormoni estrogeni e progestinici, funziona in molti casi con un vero effetto anti-impiantatorio, cioè abortivo, poiché espelle un piccolo embrione umano».
La presa di posizione del quotidiano cattolico non poteva non provocare dure reazioni da parte di medici ed esperti. Un vero e proprio coro di malcontento. «Fantascienza» la definisce infatti Gianbenedetto Melis, vice presidente della Società italiana della contraccezione che spiega come la pillola «non è in grado di provocare l´aborto in quanto impedisce l´ovulazione e se non c´è l´ovulo da fecondare non ci può essere gravidanza».
L´effetto "abortivo" della pillola è però solo uno degli aspetti stigmatizzati dal quotidiano della Santa Sede. Che se la prende anche con la natura anti-ecologica del contraccettivo. Scrive infatti Castellvì di «effetti ecologici devastanti delle tonnellate di ormoni per anni rilasciati nell´ambiente». E ancora: «Uno dei motivi per nulla disprezzabile dell´infertilità maschile in occidente (con sempre meno spermatozoi nell´uomo) è l´inquinamento ambientale provocato da prodotti della "pillola"».
D´altra parte per gli esperti questi «effetti ecologici» sono assurdi. Chiarisce Melis: «Gli ormoni contenuti nei contraccettivi orali, una volta metabolizzati dal fegato, non sono più in grado di indurre effetti ormonali femminili».
Insomma, pensare che la pillola possa provocare danni all´eco-sistema è una forzatura che non ha, secondo i medici, basi scientifiche.
Quanto all´infertilità maschile prima di prendersela con la pillola, meglio ricordare - precisa Flavia Franconi, presidente del gruppo farmacologia di genere della Società italiana di farmacologia - «che il mondo è pieno di sostanze ad attività estrogeniche».
Repubblica 4.1.09
"Ora il Papa alla Sapienza" il rettore sfida i laici
Il rettore: consegnato l’invito. E dopo il caso Morucci nuove regole per gli ospiti
Frati apre a testimoni anche "scomodi" come gli ex br. Però con il contraddittorio
di Carlo Picozza
ROMA. L´invito formale per una visita alla Sapienza, il rettore Luigi Frati l´ha consegnato direttamente nelle mani del Papa. Lo ha fatto «accogliendo la richiesta di Benedetto XVI di avere il foglio del discorso da me fatto in rappresentanza dei rettori e nel quale rinnovavo la richiesta di una sua visita».
All´incontro degli universitari romani con il Papa, per gli auguri di Natale nella tradizionale messa a San Pietro, è seguito «un segnale di attenzione da parte del portavoce del pontefice, due giorni dopo, con una sorta di assicurazione a raccogliere l´invito, cosa più unica che rara per padre Federico Lombardi».
Insomma, il Papa andrà alla Sapienza? «Penso proprio di sì. Sarebbe irragionevole rifiutarne ancora una volta la visita in una occasione opportuna». Ë quindi anche secondo l´attuale rettore sarebbe stata inopportuna la presenza di Benedetto XVI all´inaugurazione dell´anno accademico nel 705° anniversario della fondazione dell´università? «Inopportuna mi è sembrata la posizione dei 67 colleghi che hanno firmato la lettera contro, non tanto per l´espressione di una legittima laicità, quanto per i giudizi espressi sul pensiero del pontefice. L´università deve essere un luogo aperto: il suo compito è la diffusione delle conoscenze scientifiche e della cultura. Con un´unica regola: che a trattare gli argomenti siano quanti sulla materia hanno studiato, fatto ricerche e pubblicazioni». Perciò ribadisce il suo "no" secco all´ex br Morucci? «Terrorismo, Foibe, Olocausto: sui grandi temi siano gli esperti a parlare. Vengano qui a insegnare o a incontrare gli studenti e, se ce ne fosse bisogno, siano loro a chiamare i protagonisti, aggressori, testimoni e vittime, degli eventi tragici oggetto di studio o del solo confronto». «Quanti si sono macchiati di sangue non si erigano a maestri», dice. «Neanche quando, sinceramente pentiti, possono mettere a disposizione la loro esperienza. Occorrono, filtri, strumenti e regole per il confronto su questi temi se non si vuole offendere la memoria di quanti non possono più dire la loro». E le «regole» - il giorno dopo l´alt alla "lezione" dell´ex brigatista rosso componente del gruppo di fuoco della strage in via Fani, del sequestro e dell´assassinio di Aldo Moro - Frati le sta preparando, insieme con una lettera a docenti e studenti del Senato accademico e del cda dell´ateneo. Quali sarebbero? «Quelle che consentano all´università di svolgere le attività di formazione e ricerca rifuggendo da tentazioni che ne snaturerebbero il ruolo. Questo è luogo di studi non un Parlamento né una tribuna politica».
Ma il rettore vuole tornare sulla visita del pontefice. Fruga tra i file del suo computer: «Ecco il testo letto davanti al Papa e che lui, alla fine del mio intervento, mi ha chiesto di lasciargli: "Confesso di non aver capito, da ricercatore prima che da credente, il pregiudizio che nel gennaio 2008 ha mosso chi ha fatto riferimento al caso Galileo per giustificare una contrarietà alla Sua visita alla Sapienza. E come rettore, nella prolusione all´anno accademico, ho detto che attendiamo una Sua visita. Invito che in questa occasione rivolgiamo a Lei, studioso raffinato di filosofia, ma anche a Lei come vescovo di questa città"». «Un anno fa», continua Frati, «un gruppo di colleghi scrisse al rettore di allora ritenendo inopportuno l´invito al Papa a tenere la prolusione all´anno accademico. Non si trattava di una prolusione, ma di un intervento dopo l´inaugurazione. L´invito a tenere la prolusione non c´è mai stato e non ci sarà. L´invito a venire alla Sapienza c´è stato e ci sarà ancora. Con modalità senza equivoci».
Repubblica 4.1.09
Luca Cavalli Sforza replica all'editoriale del quotidiano della Cei. "Ognuno ha diritto alle sue idee"
"Il caso Englaro è intollarebile È ora che decidano i cittadini"
di Mario Reggio
Chi si avvia alla morte senza speranza ha diritto di chiedere di staccare la spina nel modo meno pesante e terribile. Per me e per molti altri è un diritto etico, civile
ROMA - «La vicenda di Eluana Englaro è veramente insopportabile. Il diritto a morire è un principio umano inalienabile. Perché i politici temono un referendum popolare? Forse hanno capito che non sono in grado di valutare, e non lo vogliono, il pensiero dominante tra i cittadini. E io non mi fido di loro, perché potrebbero tentare tutti i trucchi possibili per evitare un confronto reale. D´altro canto il trasformismo, in Italia, è di casa dall´800».
Il professor Luca Cavalli Sforza, mito della scienza genetica internazionale, fino all´agosto del 2008 professore emerito all´università di Stanford, membro delle più prestigiose Commissioni internazionali, compresa quella vaticana, stenta ad entrare in polemica con il professor Francesco D´Agostino, editorialista del quotidiano Avvenire. Poi si lascia andare.
Cosa le ha dato fastidio delle sue affermazioni?
«In primo luogo quando dice che io e mio figlio Francesco abbiamo "il desiderio narcisistico di far conoscere le nostre fragili idee bioetiche". Io Francesco D´Agostino non lo conosco di persona, l´ho sentito nominare, mi dicono che sia cattolico osservante, ma ognuno ha diritto alle sue idee. Mio figlio Francesco insegna Filosofia al San Raffaele di Milano ed è un profondo conoscitore delle questioni politiche, comprese quelle italiane. Io sono stato fuori dall´Italia per 40 anni e lui mi aiuta a capire questo strano mondo dove i diritti delle persone, compreso quello di decidere di interrompere un´esistenza di sofferenza e senza prospettive è considerato uno scandalo, a differenza di tutti i Paesi occidentali».
D´Agostino afferma che lei rischia di vanificare i suoi eccezionali risultati scientifici.
«Sul piano etico spero che anche in Italia ci sia il diritto di esprimere il proprio pensiero, senza che qualcuno minacci sanzioni scientifiche. Tra l´altro vorrei conoscere il curriculum scientifico genetico di chi lancia queste minacce. Sul versante bioetico non temo confronti».
E sull´accanimento terapeutico?
«Francesco D´Agostino si dice contrario, ma io nutro seri dubbi. Riconosco ai medici di rifiutare di staccare il sondino. Ma ricordo che in presenza di una malato terminale la sofferenza è doppia: a quella di chi sta in fondo al viale si somma quella della famiglia e delle persone che gli vogliono davvero bene. Se il cervello è colpito di mancanza di funzionalità totale perché prolungare il calvario? In nome di cosa? Se la persona è credente, se la famiglia la pensa alla stessa maniera, quindi tutti vogliono seguire i principi della Chiesa cattolica nessuno nega loro il diritto di seguire la loro strada. Ma perché imporla anche a chi non crede alla vita eterna?».
Quindi la scelta di morire è un diritto della persona?
«La morte, assieme alla nascita, è l´unica certezza dell´esistenza umana. Chi si avvia alla morte senza speranza ha diritto di chiedere di staccare la spina nel modo meno pesante e terribile. Per me e per molti altri è un diritto etico, civile, inalienabile».
Repubblica 4.1.09
La seconda vita dell'Anarchia
di Guido Rampoldi
L´acuirsi della crisi economica potrebbe dare ulteriore slancio alle proteste studentesche in Europa. Ecco perché tornano sotto i riflettori gli anarchici e in particolare gli anarco-insurrezionalisti. Ma i ragazzi che scendono in piazza non hanno molto a che fare con la storia e le idee della A cerchiata
A Salonicco hanno attaccato una chiesa, ad Atene hanno bruciato il grande albero di Natale della municipalità, e ovunque hanno scritto sui muri, in inglese, «No control», nessun controllo: abbastanza perché perfino nella lontana San Francisco un circolo di simpatizzanti della rivolta greca, Collective reinventions, cogliesse con una certa apprensione «un legame con gli anarchici spagnoli più radicali, quelli che si definivano los incontrolados». Non è un complimento. Durante la Guerra civile spagnola gli incontrolados bruciarono dozzine di chiese; ammazzarono settemila religiosi; e, dove non trovarono preti, fucilarono crocefissi. La loro ferocia ossessiva e compiaciuta non era diversa dalla ferocia sterminatrice della destra carlista, cattolica. Ma offrì agli stalinisti il pretesto per liquidare il più forte movimento anarchico della storia; e convinse le tremebonde sinistre britannica e francese a negare alla Repubblica spagnola le armi con cui avrebbe potuto difendersi dall´esercito di Franco. Insomma gli incontrolados furono la quinta colonna del nemico.
Di tutto questo i "No control" greci sanno quanto i poliziotti che ad Atene li affrontavano, cioè nulla. Avevano a disposizione un´università, una grande biblioteca e tre settimane per imparare dal passato da cui pretendono di discendere. O magari per trovare ispirazione nel nuovo pensiero anarchico, ormai quasi tutto nordamericano. per esempio in quel David Graeber (Frammenti d´una antropologia anarchica, 2004) che prende a modello le società prive di governo, forse minimizzando il fatto che le tribù amazzoniche considerano lo stupro delle forestiere un´attività venatoria e i Tiv della Nigeria barattano le ragazze in età da marito come fossero capre. Ma poiché i "No control" sembrano mancare proprio della qualità più anarchica, l´immaginazione, invece di produrre idee si sono applicati ad attività più prevedibili, saccheggiare bancomat, svaligiare negozi e scontrarsi con la polizia. Con queste credenziali, hanno attratto un gran numero di ultras del calcio, e in misura molto minore, giovani immigrati, insomma segmenti di popolazione che hanno motivi per detestare la polizia greca. Ma in Europa non hanno riscaldato i cuori di quella generazione senza bandiere che attende un orizzonte suggestivo e un´utopia possibile, quanto la sinistra tradizionale oggi ha difficoltà ad offrire.
Poiché l´ottimismo è nei geni della rivoluzione, dall´antica capitale dell´anarchismo, Barcellona, un documento di nuovi incontrolados apparso sul sito Indymedia annuncia che la storia potrebbe invertire il suo corso: dopo la rivolta greca, dopo le proteste studentesche francesi, italiane e spagnole, «in tutta l´Europa i governi tremano», terrorizzati dalla possibilità che la «gioventù occidentale insorga per dare il colpo finale a questa società». In realtà non si vede traccia di tutto questo panico. Presto arriveranno rapporti preoccupati dagli apparati di sicurezza, per i quali allarmarsi è un obbligo professionale, sul lavorio occulto degli "anarco-insurrezionalisti". Ma quando diventano materia di processo, le cospirazioni "insurrezionaliste" tendono semmai a rivelare il carattere catacombale e velleitario di quei gruppi, oltre alla loro sempiterna vocazione ad attrarre provocatori. Però l´acuirsi della crisi economica potrebbe dare slancio in Europa alle proteste studentesche: in quel caso le varie "onde" diventeranno rabbiosi cavalloni, come ad Atene in queste settimane? Oppure il capitalismo globalizzato riuscirà a sventare l´attacco anche grazie al carattere inafferrabile della sua natura, come accade nel film Louise-Michel, che è anche il nome di una gloriosa anarchica francese, quando le operaie decidono di accoppare il padrone che chiudendo la fabbrica le ha messe in mezzo ad una strada? Se dovessimo azzardare una risposta diremmo che in buona parte dipenderà dal modo in cui ciascuna polizia affronterà le emergenze.
In dicembre un ragazzo ateniese che avesse ricavato l´immagine dello Stato dal comportamento delle forze dell´ordine, avrebbe avuto qualche motivo per simpatizzare per l´anarchismo. La polizia greca non ha fama di correttezza e di probità. I suoi standard sembrano più balcanici che occidentali. Ha servito con zelo la dittatura militare, si è riciclata nella democrazia senza subire epurazioni significative, e in seguito, governasse la destra o la sinistra, ha goduto di una certa impunità. Non sono pochi i giovani e gli immigrati che ne hanno un´esperienza negativa, certo non smentita dagli scontri di Atene. L´uccisione del quindicenne Alexis Grigoropulos può essere attribuita alla devianza di un singolo agente, ma se stiamo alle testimonianze di alcuni universitari, un gran numero di poliziotti irrideva i dimostranti alludendo a quell´omicidio («Dov´è il vostro Alexis, fighette? Uccideremo anche voi»). Se a tutto questo si aggiunge la tradizione violenta di una parte della sinistra radicale greca, non sorprende il carattere aspro e sregolato dello scontro ateniese.
Le polizie europee sono diverse: ma quanto diverse? Dopo il disastro di Genova la polizia italiana ha dimostrato una lodevole capacità di correggersi. Ma la permanenza nei ranghi dei colpevoli, e il sabotaggio di processi che chiamano in causa agenti, non possono non avere effetti sui codici interni dell´istituzione. Inoltre gli anarchici appartengono da sempre al novero delle categorie umane che ogni polizia europea può trattare rudemente, in quanto la mentalità comune li ritiene implicitamente colpevoli e non meritevoli di piena tutela giuridica. Lo conferma anche il fatto che in tanti anni nessuna istituzione dello Stato abbia sentito l´obbligo di chiedere scusa alla famiglia di Pinelli, a Pietro Valpreda, a Roberto Mander, arrestato a diciassette anni con Valpreda e pochi mesi dopo, raggiunta la maggior età, scaraventato nel supercarcere di Trani. Erano tutti innocenti. Però anarchici, dunque sinonimo di violenza e di caos.
Ma all´affermarsi di questo stereotipo in parte ha contribuito lo stesso anarchismo rifiutando di fare i conti in pubblico con la propria storia. Nel 1999, quando gli anarchici riapparvero sul palcoscenico della cronaca nei panni dei No global che contestavano il G7 a Seattle, la stampa americana scrisse: torna l´idea che non vuole morire. In realtà l´anarchismo non è un´idea ma un arcipelago di idee, molte delle quali sopravvivono senza ragione o senza merito, o comunque sono incompatibili con altre. La principale linea di frattura risale al tempo della Guerra civile spagnola, e negli anni Cinquanta fu formalizzata nei congressi francesi che di fatto certificarono la morte dell´anarchismo spagnolo. Opponeva "pellerossa" e "politici", i mistici dell´azione diretta e i teorici della via politica. Al tempo della Repubblica i primi produssero solo guasti; i secondi ruppero il tabù, entrarono nel governo e produssero, insieme ai liberali di Azana, quanto di meglio abbia lasciato in eredità quel tempo forte e crudo: dal femminismo all´ecologismo.
Consapevoli o no, alla mistica dell´azione diretta si rifanno i Black Blocs e i No control, gente di mano che l´anarchismo più politico osserva con uno sguardo scettico, quando non con disgusto. Però i "politici" faticano a trovare uno spazio incontaminato sul quale piantare le loro bandiere rosso-nere. Si oppongono al dominio del libero mercato ma non si fidano interamente del movimento No global, un territorio in cui confluisce di tutto, e forse avvertono che la globalizzazione non è poi il diavolo, se relativizza la sovranità dello Stato e diffonde diritti universali. Restano fieramente anticlericali ma mai brucerebbero una chiesa, tanto più in un Paese come la Grecia dove la curia ha un ruolo marginale. Contestano d´istinto le guerre e il ricorso allo strumento militare ma non possono dimenticare che l´anarchismo non fu pacifista, e anzi, alla vigilia della Seconda guerra mondiale, disprezzava il pacifismo europeo con intensità e motivo («Credere che una politica di non intervento elimini la possibilità di un conflitto armato - scriveva Camillo Berneri nel 1936, un anno prima di essere assassinato a Barcellona da un sicario stalinista - permetterebbe a Italia, Germania e Portogallo di preparare meglio la loro guerra»).
A complicare l´identità dell´anarchismo concorre la sua estraneità alla sistematizzazione concettuale, speculare alla diffidenza verso forme rigide di organizzazione politica. Questo ha prodotto un moltiplicarsi di anarchismi di nicchia fondati sull´elaborazione di temi specifici. C´è un anarca-femminismo, un eco-anarchismo, un etno-anarchismo, un internet-anarchismo legato al Free software movement, senza contare le varianti generalmente considerate spurie o "di destra", come l´anarco-individualismo di Stirner e l´anarco-liberismo di Rotbard, per il quale la tassazione è una forma di odiosa oppressione statuale. Trovare il bandolo di tutto questo è già impegnativo, ma non sufficiente: bisogna poi aggiungere l´obbligo di una vita esemplare, giacché l´anarchismo, al contrario del leninismo, prescrive una coerenza etica tra fini e mezzi. Insomma fare davvero l´anarchico è una gran fatica. Svaligiare bancomat e saccheggiare negozi è più semplice, e anche più proficuo. Ma è un´altra cosa.
Repubblica 4.1.09
Vecchi compagni e No control
di Jenner Meletti
IMOLA. La lapide è in municipio. «È l´alba del secolo novo, gettate fiori a piene mani». La data è quella del primo gennaio 1901, quando le Società popolari di Imola fecero scolpire nel marmo le parole di Andrea Costa. «Lanciamo al secolo che non ci vide nascere ma ci vedrà morire / il nostro core vivo. Pensando lavorando combattendo amando / dalla scienza illuminati / diamo oh! diamo a tutti i figli delli uomini / lavoro libertà giustizia pace». Il «secolo novo» è finito, un altro è già bambino. Andrea Costa, anarchico e socialista, per tanti è solo il nome di una curva dello stadio di Bologna. Il «trionfo delle classi lavoratrici» resta un sogno, e non troppo diffuso.
«Ma noi siamo ancora qui, a tenere accesa la luce». Claudio Mazzolani, cinquantacinque anni, informatico, cura assieme ad altri l´archivio della Fai, la Federazione anarchica italiana, in un ex convento messo a disposizione dal Comune. «Questa fascia nera, con la scritta "Gruppo giovanile comunista anarchico Imola", tessuta e ricamata prima del fascismo, durante il Ventennio è stata nascosta nella grondaia di un palazzo. Ecco, questo è il manifesto che annuncia la morte di Louise Michel che prese parte alla Comune di Parigi?». Centinaia di faldoni con documenti arrivati da tutta Italia. «Noi anarchici ci troviamo tutti qui, aderenti o no alla Fai. Organizziamo conferenze (l´ultima su Economia e geopolitica dopo Wall Street) e anche cene di autofinanziamento. Sono importanti, le cene. In ogni nostra sede ci sono la cucina e la cantina. Da noi vale ancora l´antico principio: "Da ciascuno secondo le proprie capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni". Se non hai soldi in tasca, puoi mangiare e bere senza pagare. Alla fine della cena scopriamo che l´incasso è sempre alto, tutto funziona perfettamente senza fissare un prezzo».
Sono orgogliosi e cauti, gli ultimi anarchici. «Abbiamo paura delle parole perché abbiamo solo quelle e dobbiamo usarle bene, soprattutto quando cerchiamo di spiegare cosa vuol dire essere anarchici». Nessuno parla a nome degli altri. «Io - dice Claudio Mazzolani - rappresento solo me stesso. Anarchia per me è la ricerca della felicità. È lottare per gli altri, anzi no, perché non siamo cattolici. Anarchia è lottare con gli altri compagni. Sì, continuiamo a chiamarci compagni, come facevano i nostri padri e i nostri nonni, perché i principi dell´anarchia sono rimasti immutati in un mondo che è cambiato. Ma noi siamo sempre quelli: l´anarchico è convinto che possa esserci un altro mondo, dove la solidarietà e la libertà possono determinare i comportamenti reali della società. E per fortuna con noi ci sono gli studenti anarchici e anche gli operai impegnati nel sindacato. Quanti siamo? Noi non abbiamo tessere e non vogliamo dare numeri. In nessun senso».
Strana galassia, quella anarchica. Circoli, sedi, librerie, associazioni con le bandiere rosso nere sono presenti da Palermo a Milano, ognuno con la propria storia e la propria "individualità", ma per avere notizie di questo mondo frastagliato, come ai tempi del vecchio Pcus, bisogna rivolgersi a un´unica "Commissione di corrispondenza della Fai" che ha sede a Palermo. Gentilissimi, anonimi interlocutori rispondono via mail solo a domande scritte. «Essere anarchici? Significa, oggi come sempre, credere fermamente nella possibilità di organizzare la vita, la società, gli interessi individuali e collettivi fuori e contro ogni imposizione autoritaria? Essere anarchici significa coltivare incessantemente il proprio spirito critico. La politica? Quella che è mero esercizio di potere non ci interessa. Noi siamo per un´azione politica diretta, nell´impegno che ciascuno può esercitare in prima persona, senza alcuna delega alle istituzioni».
Molto forte, fra gli anarchici, il ricordo - e il rimpianto - del passato. «E noi cadrem in un fulgor di gloria / schiudendo all´avvenire novella via / dal sangue spunterà la nuova istoria / de l´Anarchia». L´Inno della Rivolta, del 1904, esalta «lo schianto redentore» della dinamite. Qualcuno non si accontenta di cantare i vecchi inni. La A di anarchia ha siglato attentati e violenze. Bombe carta e molotov di «anarco-insurrezionalisti» sono state lanciate nei giorni scorsi contro banche Unicredit a Bologna, Messina, Trento, Torino? «La violenza, di per sé - precisa la Commissione di corrispondenza - non è una caratteristica della pratica anarchica. Non utilizzeremo mai una violenza di tipo avanguardistico perché l´anarchia non si può imporre. La rivolta contro l´oppressione diventa una sterile fiammata se non costruisce, se non sa contaminare l´ambiente in cui vive. Gli anarchici, comunque, quando nel corso della storia hanno intrapreso azioni violente, se ne sono sempre assunti chiaramente la responsabilità. Si pensi agli attentati contro teste coronate e presidenti: sempre molto mirati e sempre, comunque, moralmente sostenuti da grandi masse di lavoratori e oppressi».
Come nei film western i cattivi stanno da una parte sola. «L´esercizio della violenza e il suo monopolio "legittimo" appartengono allo Stato e alla sua prassi: bombe, stragi, terrorismo, guerre, strategia della tensione, montature giudiziarie e suicidi di Stato sono tutti attrezzi del mestiere usati ancora oggi da chi detiene il potere per reprimere le lotte e criminalizzare il dissenso. Noi invece vogliamo costruire una società che sappia fare a meno della violenza e della sopraffazione».
L´ultima festa, al centro sociale Torchiera, «cascina autogestita» di Milano, è stato il Quattordicesimo Natale anticlericale: «Contro ogni crociata, un Natale pirata, con letture et interpretazioni eretiche, canti anticlericali et bolle di scomunica». Massimo Varengo, ex professore di fisica, dirige la casa editrice Zero in condotta nella città di Giuseppe Pinelli. «L´anarchia - racconta - ancora oggi è viva e vegeta. A Milano ci sono sedi, circoli culturali, centri studi. La componente libertaria è presente nell´Arci e anche in tanti centri sociali come la cascina Torchiera. Del resto essere anarchici oggi è molto facile: tutto ciò che sta succedendo conferma la validità dei fondamenti dell´anarchismo. Le guerre, i conflitti sociali, le disuguaglianze dimostrano l´incapacità del sistema autoritario di dare risposte all´umanità e alla natura stessa, con devastazioni che rubano il futuro al mondo». Già nel 1892, un secolo prima di verdi e ecologisti, nell´Inno dei malfattori scritto da Antonio Panizza si cantava una «natura, comun madre» che «a niun nega i suoi frutti / e caste ingorde e ladre / ruban quel ch´è di tutti». «Osservando ciò che sta accadendo - dice l´editore milanese - si comprende che l´anarchia è l´unica possibilità di uscita. A un mondo di libertà si giunge solo con la libertà e non con meccanismi autoritari che ricreano nuovi poteri».
La sinistra messa in crisi anche dalle inchieste giudiziarie non sorprende il professore. «Il potere può corrompere tutte le teorie che si vogliono misurare sul terreno della trasformazione sociale e politica. Si corrompono nel momento in cui esercitano potere in collusione con il sistema gerarchico». Dura da oltre un secolo l´incontro-scontro con la sinistra, prima socialista poi comunista. A volte ci sono momenti di pace. A Fidenza, il 15 dicembre, è stata inaugurata una stele dedicata ad Alberto Meschi, anarchico, nato in questa città e poi sindacalista fra i cavatori di marmo di Carrara. Agli inizi del secolo scorso riuscì a ridurre a sei ore l´orario di lavoro nelle cave. Assieme ai sindaci di Carrara e Fidenza, ambedue di centro sinistra, ha parlato l´anarchico Gianandrea Ferrari, libraio di Reggio Emilia: «Preoccupato per l´alcolismo dilagante Alberto Meschi ottenne che la paga non venisse più consegnata il sabato nelle cantine, bensì sul luogo di lavoro o in piazza».
Ma sono rari, i momenti di tregua. Poco lontano, a Modena, i ragazzi anarchici del circolo Unidea ricordano ancora l´8 agosto. «Avevamo un centro sociale - ricorda Francesca - chiamato Libera. Un vecchio casolare, ristrutturato da noi, con attorno la terra coltivata come natura comanda. Un luogo dove trovarci, discutere, cercare di partecipare alle scelte della città. Il sindaco, proprio durante le ferie d´agosto, ha mandato le ruspe, protette da polizia, carabinieri e vigili urbani. Hanno distrutto tutto. Il Pd ricalca le orme dei Ds, del Pds e del Pci: spazza via tutto ciò che lo disturba. I sindaci di sinistra si comportano esattamente come quelli di destra».
«L´importante - ripete Claudio Mazzolani, della Fai imolese - è continuare a tenere la luce accesa. Qui a Imola vogliamo raccogliere anche le bandiere dell´anarchia che già sono state a Reggio Emilia, nella mostra Orgoglio e amore. La più bella è quella di San Pietro in Trento, frazione di Ravenna. Fu distrutta dai fascisti nel 1925. Dopo la liberazione, gli anarchici trovarono il fascista colpevole dell´oltraggio e lo costrinsero? a preparare una nuova bandiera, ricamandola a mano. Ecco, questa mi sembra una storia di vera anarchia».
Corriere della Sera 4.1.09
Paolo Rossi. L’apocalisse può attendere.1
L'utopia La polemica con gli intellettuali «nuovi sciamani»
Contro il neo-catastrofismo di Asor Rosa, Ceronetti, Bodei
di Alberto Melloni
La speranza taglia il nostro tempo in parti diseguali. Da un lato la regione in cui la speranza s'è eclissata, quasi che nulla si potesse attendere dal futuro che non sia il rallentarsi del passo del peggio: ed è la nostra, dove la caduta dei mercati, quasi come in un Ottantanove dell'Occidente, non ha causato né frastuoni né rivoluzioni, ma un mero intasarsi di angosce e meschinità. Dall'altro lato le speranze che scuotono la superficie immobile della storia: quelle che hanno smosso i mondi segregati per obiettivi tanto reali quanto ardui, come quello della fine dell'apartheid o perfino del riscatto impersonato dalla vita, prima ancora che dall'elezione presidenziale, di Barack Obama. Ma un terzo ambito, forse il più grande, è quello che il bel libro
Speranze di Paolo Rossi chiama le «speranze smisurate»: quelle che hanno mobilitato generazioni nell'attesa di una palingenesi sociale e socialista dietro la quale resta una scia di disincanto, spesso degenerato nel cinismo di cui quell'eccitazione non è incolpevole.
Con queste futurologie ideologiche il filosofo fiorentino polemizza con feroce ironia, stigmatizzando coloro che in vista di quelle attese hanno prodotto le profezie a basso prezzo e le escatologie secolarizzate un tempo d'impronta marxiana, oggi più spesso ecologista. Se un tempo l'autoillusione produceva materiali politici, oggi è spesso nell'orizzonte della più artificiale delle idee — la «natura» — che si innesca il perverso congegno della paura: la visione d'un futuro d'inferno — e non è un caso che anche davanti alla prospettiva di un pianeta inondato da ghiacci sciolti si parli di «riscaldamento globale » con una evidente allusione alla cifra termica dell'inferno — è stata infatti puntualmente smentita dagli sviluppi delle conoscenze che hanno relativizzato la fine del mondo. Ma come nella vecchia catechesi (osserva Rossi ricamando sul Pomponazzi) anche questa visione cupa del futuro serve ad educare quello che si ritiene volgo e per questo merita il sarcasmo del dotto studioso.
Al contrario, le speranze ragionevoli che Rossi loda e raccomanda sono quelle che mirano a incidere sul tempo senza bisogno di ricorrere alle paure o all'illusionismo intellettualistico, che resistono alla tentazione di andare ultra vires
con mite eroismo. Per questo producono una pragmatica disincantata, che riesce a leggere nel lento e deludente spostarsi degli indici del male (quelli della fame, del sottosviluppo, eccetera) una chiamata alla intensità della propria azione e del proprio rigore, piuttosto che il frammento del grande mosaico dove, ideologumeno dopo
ideologumeno, apparirà il sol dell'avvenire.
Per quanto si senta in molte pagine il desiderio di stigmatizzare l'intellighentsia italiana — graffiante con Asor Rosa, Rossi morde la visione sciamanica dell'heideggerismo di Volpi, non risparmia allusioni feroci a Citati e a Ceronetti, a Schiavone e a Zolo, fino a quelle tacite a Severino e a Bodei — Speranze è libro che interroga a fondo ogni esperienza. Anche quella religiosa che sulla qualità delle speranze viene giudicata. Leggendo queste eleganti pagine, viene infatti da chiedersi cosa sia accaduto alla speranza teologale: non a caso Rossi chiude facendo sua una frase di Benedetto XVI che alla speranza ha dedicato la sua prima enciclica. Ma si tratta di una finta chiusa: perché la questione di come le speranze secolarizzate (con correlativa secolarizzazione di inferni, paradisi, uomini nuovi e terre promesse) abbiano ammutolito la speranza della redenzione rimane aperta. E su come la si interroga il modo in cui Rossi scuote la filosofia, è una lezione.
Corriere della Sera 4.1.09
Paolo Rossi. L’apocalisse può attendere.2
La scienza Le sfide della modernità oltre tutte le certezze
Ottimisti e pessimisti assoluti così uguali sotto la maschera
di Giulio Giorello
«Una nuvola in cielo: prima sembra un coccodrillo, poi la faccia di una bella ragazza », scherza Paolo Rossi ogni volta che qualcuno pretende di aver compreso il fine (o la fine) della storia. E si disegna sul volto dello studioso — uno dei maggiori rappresentanti della «storia delle idee» — un sorriso tra il malizioso e lo scettico. Cita una poesia di Montale: «La storia... si sposta di binario e la sua direzione non è nell'orario» — come quel bizzarro treno che Topolino ha preso nel corso di una delle sue avventure irlandesi; ma un cartellone lo aveva avvisato, sul tabellone quel treno era segnato con «Partenza: ora» e «Arrivo: forse» (per la cronaca, si tratta di La scarpa magica, del 1953). Come dire che l'inizio è sempre adesso e il destino non è mai compiuto.
Nel 2006 Rossi ha pubblicato (presso Raffaello Cortina) un elegante affresco del Rinascimento visto come Il tempo dei maghi, ove ancora si è convinti che... recitare la giusta formula permetta di cambiare il corso degli eventi. Oggi ci ammonisce che quel tempo non è finito — almeno non per tutti. Abbondano personalità di spicco che, per esempio, lamentano il dominio della tecnica, annunciano la guerra tra le civiltà o rilanciano il tramonto dell'Occidente. Sono dei maghi, se si tratta di politici; si accontentano del ruolo di profeti, se sono degli intellettuali. Rossi invita a sospettare di entrambe le categorie (e, se possibile, di farne addirittura a meno): si trova in ottima compagnia, quella di Primo Levi, che invitava ad accontentarsi di verità ben più modeste, «quelle che si conquistano faticosamente con lo studio, la discussione e il ragionamento, e che possono essere verificate o dimostrate ». Ai tempi eroici dell'Urss c'era chi celebrava l'onnipotenza del marxismo con queste parole: «Perché credi che Lenin giaccia a Mosca perfettamente intatto? Attende la scienza, vuole risorgere dai morti». Intanto Stalin «liquidava» (anche) quel tipo di intellettuali. Nel suo recentissimo
Speranze (il Mulino) Rossi non risparmia ottimisti e pessimisti assoluti, così diversi in superficie, così uguali sotto la maschera. Non attende alcuna redenzione, nemmeno dalla scienza. Questa resta un'attività pubblica e controllabile in cui nessuno ha il monopolio della verità né tantomeno quello dell'autorità. È un'impresa che apre nuove libertà, ma obbliga a inedite responsabilità — come i dibattiti sulla portata delle biotecnologie e la questione dell'accanimento terapeutico stanno a dimostrare. Ed è quasi impossibile prevedere le conseguenze di lungo periodo di questa o quella umana «invenzione ». È dunque inutile aspettarsi «un nuovo cielo e una nuova terra», come recita l'Apocalisse di Giovanni: accontentiamoci di sondare con i nostri telescopi il cielo che già abbiamo e di non devastare la terra che abitiamo. Ma senza fanatismi: Rossi non ama né scientisti a oltranza né ecologisti selvaggi.
Per concludere: Rossi formula la «modesta proposta» di sostituire alle speranze «smisurate » quelle «ragionevoli»; ne dà più di un esempio e quello che io apprezzo di più riguarda la vicenda che ha portato alla cessazione della lotta armata nella cosiddetta Irlanda del Nord occupata dall'esercito britannico. Persone che per decenni erano state sui lati opposti della barricata (repubblicani indipendentisti contro unionisti filoinglesi) si sono trovate fianco a fianco nello stesso governo. La stampa internazionale ha parlato persino di un «miracolo»; ma ho l'impressione che né Paolo né io crediamo ai miracoli.
Siamo invece disposti a scommettere su quel «faticoso lavoro» di cui parlava Primo Levi.
il Riformista 4.1.09
Testamento biologico. «Il mio partito deve dire se sta con me o con la Binetti e la Roccella»
Fine-vita, Marino sfida il Pd
di Alessandro Calvi
«È arrivato il momento che il Pd decida da che parte stare». Quella di Ignazio Marino è quasi una chiamata alla conta, in vista della riunione dei gruppi parlamentari convocata per il 16 gennaio. «Un partito che vuole governare il Paese - spiega il parlamentare democrat che è autore di un disegno di legge sul testamento biologico firmato da 101 senatori - non può continuare a mantenere una posizione poco chiara su temi così importanti come il fine-vita». Per farlo, però, nel Pd si deve superare un «imbarazzo» ad affrontare questi temi, pensando che «il mondo cattolico abbia una posizione uniforme». Tanto più che se il Parlamento votasse la legge voluta da Eugenia Roccella e Paola Binetti il risultato sarebbe di mettere i medici di fronte alla scelta se violare la legge o violare il codice deontologico.
Eugenia Roccella dice che legge sul fine vita questa volta si farà. Il Parlamento, però, appare incerto, come anche i due grandi partiti. E il Pd appare anche molto preoccupato per il rischio che la legge, alla fine, si rivelasse un boomerang.
Io appartengo a un partito che ha l'ambizione di governare questo Paese. Mi sembrerebbe assolutamente in contrasto con questa ambizione il fatto di non saper assumere una posizione chiara su un tema così importante. Ecco, mi sfuggirebbe il senso di un partito che non riuscisse a dire da che parte sta.
Già, però sino ad oggi è andata proprio così.
E infatti credo che nel Pd ci sia resi conto che questo passaggio non è più procrastinabile. Tanto che tutti i parlamentari sono convocati per una riunione il 16 gennaio al termine della quale dovrà emergere la linea del partito sulle terapie di fine vita e se i cittadini abbiano il dirito di esprimere indicazioni. Molti di noi sono convinti che a questo si debba arrivare anche con un voto a maggioranza.
Dunque, siamo alla conta?
Quale altro metodo c'è per arrivare democraticamente a una scelta? L'unico che conosco se manca l'unanimità è questo.
Sarebbe una novità. Ieri su Repubblica la Mafai parlava di un'ondata neoguelfa, facilitata dalla afasia della politica.
È come se ci fosse un imbarazzo ad affrontare i temi che vengono etichettati come eticamente sensibili, pensando che nel mondo cattolico vi sia una posizione uniforme che si identifica con le dichiarazioni di alcuni esponenti delle gerarchie. Ma non è così. Anzi, alla fine le posizioni di Binetti e Roccella sono piuttosto isolate mentre il dibattito è piuttosto vivace. Basta pensare alla lettera pubblicata da Repubblica di alcuni sacerdoti sempre sulla vicenda di Eluana Englaro. O all'appello sul sito www.appellotestamentobiologico.it, sottoscritto da oltre 30mila italiani, ciascuno dei quali ha anche scritto un pensiero. Se il ministro Sacconi o Eugenia Roccella li leggessero, scoprirebbero che la maggior parte sono credenti che pensano che le decisioni sul fine-vita le debbano prendere i cittadini e non lo Stato.
Anche sulla nutrizione?
Non voglio rispondere in termini vaghi come spesso fa chi ha responsabilità di governo. Pensiamo a un paziente che si ammala di tumore all'esofago e che, insieme al proprio medico, decide di spegnersi nella propria casa, con l'aiuto delle cure palliative, facendo a meno della cannula che, inserita nello stomaco, gli avrebbe consentito di nutrirsi ancora per un po' di tempo. La legge che vorrebbero Roccella e Binetti prevede che nutrizione e idratazione siano obbligatorie in qualunque fase della vita. Dunque, quando quel malato entrerà in coma, il medico si troverebbe di fronte a un bivio: violare il codice deontologico, che impone il rispetto delle scelte fatte nell'ambito dell'alleanza terapeutica, o violare la legge, che invece imporrebbe la nutrizione. E così ci sarebbero non uno ma migliaia di casi Englaro. E il tribunale diventerà definitivamente il luogo nel quale risolvere le questioni che riguardano il fine vita.