lunedì 5 gennaio 2009

Repubblica 5.1.09
"La Sapienza ostaggio di 300 piccoli criminali"
Attacco di Alemanno dopo il caso Morucci. Il fisico Bernardini: che pasticcio tra lui e il rettore
"Invitano terroristi e dicono no al Papa". I docenti: "Volgare confusione"
di Carlo Picozza


ROMA - «L´ateneo della Sapienza», per il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, «è tenuto in ostaggio da 300 piccoli criminali dei quali dobbiamo liberarci. Lì si invitano i terroristi rossi e al Papa è impedito di parlare». Il giorno dopo l´annuncio del rettore Luigi Frati su Repubblica della consegna nelle mani di Benedetto XVI di un nuovo invito (dopo quello contestato un anno fa da 67 docenti di Fisica contrari alla lectio magistralis che il pontefice era stato chiamato a pronunciare dal rettore di allora per l´apertura dell´anno accademico), Alemanno alza il tiro. Lo fa forte delle critiche di Frati al docente che aveva invitato l´ex brigatista Valerio Morucci e al gruppo dei 67 contrario alla prolusione del Papa. «Bene ha fatto il rettore a prendere di petto la questione», tuona Alemanno, «ci sono dei cambiamenti culturali da fare». Ma per Carlo Bernardini, uno dei protagonisti della ricostruzione, nel dopoguerra, della Fisica nucleare, «rettore e sindaco fanno un gran pasticcio mettendo sullo stesso piano l´invito, senza alcun carattere istituzionale, fatto da un docente a un ex br pentito, con il nostro "no" alla prolusione che avrebbe dovuto tenere il Papa».
«Questo compito, l´indicazione cioè delle linee guida di didattica e ricerca», per il fisico Carlo Cosmelli, «non può essere delegato al rappresentante di una religione, neanche al più autorevole. Se il Papa viene sarà ben accolto». «Di fronte all´insidia della privatizzazione dell´università», aggiunge Bernardini, «ai tagli ai finanziamenti per il personale e la ricerca, all´incerto futuro dei neolaureati, si sta alzando un polverone per distrarre l´opinione pubblica». «Le uscite di sindaco e rettore», per Alioscia Castronuovo, leader dell´Onda, «tendono a normalizzare l´università dove critica e dissenso dovrebbero essere beni preziosi. Il rettore, alleato del governo che sta distruggendo l´università, ha trovato sponda nel sindaco».
«Ho già spiegato», ripete il docente Giorgio Mariani, promotore dell´invito all´ex br nella facoltà di Scienze umanistiche, «che l´iniziativa mi era stata suggerita da funzionari di polizia e che aveva il solo scopo di mettere in guardia i giovani con la testimonianza di chi, dopo scelte tragicamente sbagliate, si è pentito. Quando Morucci, con il cantante Antonello Venditti, parlò ai liceali del Giulio Cesare, nessuno si strappò le vesti». «Rettore e sindaco», per il direttore del dipartimento di Fisica, Giancarlo Ruocco, «rischiano di creare confusione quando ci attribuiscono la contrarietà alla visita del Papa». E Bernardini giudica «molto arbitraria l´interpretazione della vicenda fatta da Frati». «Le sue dichiarazioni», spiega, «suonano come una piccola ripicca contro i 67 che non hanno certo votato per lui». «Il rettore», continua, «vorrebbe far intendere che la nostra lettera fosse contro la visita del Papa. Nient´affatto, questa sarebbe graditissima, come quella di altre personalità. Ma trovo volgare utilizzare il pontefice per distrarre dai problemi veri». «La nostra soddisfazione per la possibile visita del Papa», aggiunge il direttore del dipartimento di Fisica, Giancarlo Ruocco, «dimostra che un anno fa non avevamo alcun pregiudizio». E il suo collega, Brunello Tirozzi, chiede «sia riconosciuta la possibilità di un contraddittorio con tutti gli ospiti dell´ateneo». «Al Papa», dice, «vorrei poter chiedere: perché il Vaticano incassa 120 milioni per le scuole religiose mentre quelle pubbliche sono disastrate?».

Repubblica 5.1.09
Il Vaticano, le leggi italiane e l’autonomia dello Stato
di Stefano Rodotà


Lo Stato della Città del Vaticano ha voluto ridefinire le proprie regole sulle fonti del diritto, dunque sulle norme che costituiscono il suo ordinamento giuridico, e la relativa legge è entrata in vigore all´inizio di quest´anno. L´operazione è di grande importanza, come sempre accade quando uno Stato sovrano stabilisce il perimetro della legalità, e anche perché si tratta di una materia particolarmente rilevante dal punto di vista politico e culturale (al tema delle fonti ha recentemente dedicato una riunione l´Associazione italiana dei costituzionalisti). Ma la mossa vaticana ha suscitato attenzione e polemiche perché contiene una rilevantissima novità nei rapporti tra Stato e Chiesa, tra la legislazione della Repubblica Italiana e quella della Città del Vaticano. Fino a ieri questi rapporti erano fondati sul principio della recezione automatica, che portava con sé l´applicabilità delle norme italiane nell´ordinamento vaticano, recezione «solo eccezionalmente rifiutata per motivi di radicale incompatibilità con leggi fondamentali dell´ordinamento canonico», com´è accaduto per leggi come quelle sul divorzio e l´aborto. Ora, invece, «si introduce la necessità di un previo recepimento da parte della competente autorità vaticana», come sottolinea esplicitamente sull´Osservatore Romano il presidente della Commissione che ha preparato la nuova legge, José Maria Serrano Ruiz. Non più automatismi, dunque, ma un filtro, una valutazione preliminare della compatibilità con l´ordinamento canonico di ogni singola legge italiana.
Questa è una innovazione che non può essere adeguatamente valutata ricorrendo al tradizionale criterio dell´"indebita ingerenza vaticana" o guardando solo alla spicciola attualità politica, e quindi interpretandola solo come una reazione a qualche specifica vicenda italiana, come un avviso a questo o a quel partito. Siamo di fronte ad una strategia impegnativa, che si proietta al di là di questa o quella occasione, e che va compresa e valutata proprio in questo suo orizzonte più largo.
Non risultano convincenti, quindi, i tentativi di ridurre la portata della nuova legge che qualcuno, anche da parte vaticana, ha voluto fare, dicendo che la novità è di poco conto, visto che già prima il filtro vaticano aveva operato nei casi di evidente incompatibilità tra principi della Chiesa e norme italiane. Si passa, infatti, da un regime eccezionale ad uno ordinario, da una valutazione selettiva ad una generalizzata. Prima poteva valere il silenzio, ora bisogna attendere la parola. Peraltro, questi tentativi riduzionisti sono contraddetti da quanto scrive lo stesso Serrano Ruiz, indicando con chiarezza l´obiettivo della legge: la Chiesa non può «rinunciare al suo ruolo di testimonianza unica nel concerto del diritto comparato e nella riflessione sul fenomeno giuridico universale».
Non solo l´Italia, dunque. L´ambizione è planetaria: fare dei principi della Chiesa l´unico criterio di legittimazione di qualsiasi norma, di qualsiasi forma di regolazione giuridica, in ogni luogo del mondo. Un orientamento, questo, che già era ben visibile nelle ripetute prese di posizione dello stesso Pontefice aspramente critiche nei confronti delle Nazioni Unite e di molti documenti giuridici da queste approvati o promossi.
All´Italia, però, sono riservate una attenzione ed una motivazione particolari, anche perché solo per le sue leggi valeva fino a ieri il criterio della recezione automatica. Tre sono le ragioni esplicitamente indicate per giustificare il rovesciamento di quella impostazione: «il numero davvero esorbitante delle leggi italiane»; «l´instabilità della legislazione civile»; «un contrasto, con troppa frequenza evidente, di tali leggi con principi non rinunziabili da parte della Chiesa». Quest´ultimo è l´argomento che, giustamente, ha più colpito e ha suscitato le maggiori polemiche, ma pure gli altri due meritano qualche riflessione.
Si è detto che il riferimento all´inflazione legislativa è pretestuoso, visto che questa esiste ed è ben nota da molti anni. Perché accorgersene oggi, ha protestato il ministro Calderoli, proprio nel momento in cui è stata imboccata la via della semplificazione cancellando 36.100 leggi? Si potrebbe osservare che all´eccesso di legislazione non si risponde soltanto con qualche potatura, ricordando ad esempio la ben diversa esperienza francese in materia. E, d´altra parte, la riforma vaticana prende il posto di una legge del 1929, sì che doveva tener conto di quanto è accaduto tra allora e oggi.
Più significativo, e insidioso, è il secondo argomento. L´instabilità della legislazione civile è giudicata «poco compatibile con l´auspicabile ideale tomista di una lex rationis ordinatio, che, come tutte le operazioni dell´intelletto, cerca di per sé l´immutabilità dei concetti e dei valori». Questa radicale affermazione arriva in un tempo in cui il sistema delle fonti, sotto tutti i cieli, conosce un mutamento profondo, proprio per poter dare risposte adeguate ad una realtà incessantemente mutevole, non solo sotto la spinta delle innovazioni scientifiche e tecnologiche, ma di profonde trasformazioni sociali e culturali. Si scambia per instabilità la necessaria flessibilità delle regole, la capacità di assumere il nuovo e di incorporare il futuro, che implica anche la necessità di sottoporre a critica concetti e categorie del passato, anche per far sì che valori ritenuti fondamentali, affidati soltanto ad una logica conservatrice, non vengano travolti.
L´argomento dell´instabilità si congiunge così con quello del contrasto con «principi non rinunziabili da parte della Chiesa». Nel modo in cui è formulata quest´ultima critica si coglie una esplicita polemica con la più recente legislazione italiana, visto che si afferma che questo contrasto si sarebbe già verificato «con troppa frequenza». Ma a quale legislazione si allude, poiché proprio le norme più recenti sono piuttosto fitte di compiacenze, per non dire di cedimenti, verso le richieste o le pretese vaticane? Qui siamo in presenza di un ammonimento, e non di una constatazione; di un perentorio invito a non fare più che ad una critica del già fatto.
Un alt così netto alla libertà di determinazione del Parlamento italiano non era stato mai pronunciato, neppure in quegli Anni 70 quando v´erano più fondati motivi di risentimento, non solo per le leggi su divorzio e aborto, ma pure per la riforma del diritto di famiglia, invisa a molti ambienti cattolici perché finalmente realizzava la parità voluta dalla Costituzione tra i coniugi e tra i figli nati dentro o fuori del matrimonio. Si ripeterà, com´è ormai d´uso, che le parole della Chiesa sono legittime. Ma è legittimo, anzi è doveroso, valutarne gli effetti. Si fa così tutte le volte che non si vuole sottostare ad un diktat.
L´annuncio è chiaro. Il mondo è grande, ma l´Italia è vicina. La sua legislazione, da oggi in poi, sarà sottoposta ad un continuo "monitoraggio etico", accompagnato da una sanzione: non entrerà a far parte dell´ordinamento canonico tutte le volte che il legislatore italiano sarà colto in flagrante peccato di violazione dei «principi non rinunciabili da parte della Chiesa». Formalmente tutto può essere ritenuto in regola: uno Stato sovrano deve poter sottrarsi alle logiche altrui. Ma quali possono essere le conseguenze politiche e culturali di questo atteggiamento?
La politica italiana è debole, stremata. Qui la nuova linea vaticana può entrare in maniera devastante, aprendo conflitti di lealtà per i cattolici, stretti tra il loro dovere di legislatori civili e l´annuncio preventivo che leggi ragionevoli e miti, poniamo quelle sul testamento biologico o sulle unioni di fatto, non supereranno il test di compatibilità introdotto dalla nuova normativa vaticana. Per poter reagire dignitosamente, come si conviene ai parlamentari di un paese non confessionale, servirebbe un senso dello Stato che sembra perduto, qui dovrebbe fare le sue prove una laicità che non può ritenersi consegnata al passato. Servirebbe soprattutto la consapevolezza, smarrita, che l´unico filtro ammissibile è quello della conformità alla Costituzione, vero "principio non rinunciabile" in democrazia.
Ma il conflitto di lealtà può andare oltre le mura del Parlamento, devastare una società già divisa, dove già si manifestano impietose obiezioni di coscienza, dove davvero "pietà l´è morta" pure di fronte a casi, come quello di Eluana Englaro, che esigerebbero rispetto e silenzio. E che esigono rispetto perché espressivi di un quadro di diritti che si vuole radicalmente revocare in dubbio. Di questo dobbiamo discutere. Dell´autonomia e della laicità dello Stato, del destino delle libertà.

Repubblica 5.1.09
Al Grand Palais una ricchissima selezione di capolavori
Picasso a tu per tu con i padri e i maestri
I quadri giustapposti a opere celebri, come Goya, Manet, Vélazquez, Tiziano


PARIGI. Al nome di Pablo Picasso si associa un´aggettivazione altisonante, superlativa, eccezionale: il malagheño fece ogni cosa per meritarla. E ogni volta che una mostra motivata da un´idea critica lo porta alla ribalta si ha conferma del suo talento insuperato. L´ennesima la si ha con "Picasso e i maestri" (Grand Palais, fino al 2 febbraio), dove si passa in rassegna una ricca selezione dell´opera dagli esordi alla vecchiaia, posta a confronto con i suoi più diretti referenti. In tal caso sarebbe stato più coerente con le intenzioni della mostra invertire i termini del titolo, perché "les maîtres" sono capaci di far ombra persino a lui. Tale è la loro statura. Quando si ha dinanzi l´Olimpya di Manet ogni riduzione o rivisitazione è impari! In mostra si vede una selezione memorabile di capolavori dell´arte occidentale e si rimane stupiti che tali dipinti possano essere stati riuniti a fare corona alle opere del nostro. Ma le ragioni del marketing sono tali che Picasso passa in prima linea e i maestri gli fanno da spalla, come capita solo a un grande attore.
Picasso fu un enfant prodíge, come Giotto e Mozart, imparò i rudimenti del mestiere da suo padre e quando mi capitò di visitare la casa natale a Malaga scoprii che José Ruiz-Blasco era un pittore realista di assoluto rispetto e di sicura professionalità. L´Autoritratto del 1895 lo conferma ed è posto accanto a quello del giovane Pablo con la parrucca, tela di due anni successivi. La mostra è un continuo gioco degli specchi ed è un gioco complesso e difficile, perché Picasso guarda e assorbe di tutto, colleziona foto dei maestri fin dagli esordi, conosce come pochi alcuni maggiori musei d´Europa: costruisce così un suo personale Parnaso che fagocita con le sue doti di autentico "cannibale".
I ritratti, le nature morte, le pitture di genere e di ambiente, la pittura mitologica, religiosa e storica sono un canovaccio che stropiccia con furia creativa, ma - ed è il risultato critico più significativo della mostra a cura di Anne Baldassari e Marie-Laure Bernadac - si capisce bene che sono assorbiti per stadi successivi che si sommano e interagiscono tra loro. La rilettura della grande tradizione è una clessidra attraverso il cui flesso Picasso fa passare Manet che ha guardato Goya che a sua volta ha guardato Velázquez; El Greco è rivisitato attraverso la lettura di Tiziano e Ingres che ha idolatrato Raffaello e Poussin. Così come i "padri moderni" Cézanne o Van Gogh sono digeriti attraverso la lettura di Poussin o di Rembrandt.
La lettura di Picasso è una lettura diretta, ma anche di seconda e terza battuta, arricchita e metabolizzata: è un´ape regina, Picasso, che sugge da un fiore e da un altro e poi secerne e deposita il suo miele. Nel 1917 dipinge la Famiglia felice, una tela che è figlia dell´omonimo dipinto di Le Nain (1642) ed è esemplare il confronto: per vedere come il pittore trasformi una scena composta con colori bruni a sviluppo orizzontale in un pointillisme coloratissimo a sviluppo verticale. Al Louvre, alle Donne di Algeri di Delacroix è dedicata una monografica, così come al d´Orsay, alla Colazione sull´erba di Manet si accompagnano le tele picassiane.
Sono due focus molto istruttivi, secondi solo al rapporto privilegiato che ebbe con Velázquez di cui scrissi su queste pagine in occasione della mostra a Barcellona. El Greco dell´Apocalisse è incunabolo delle prime tele cubiste a partire dalle Damoiselle d´Avignon, così come La visitazione è la sorella in spirito delle Due sorelle (1907): le figure emaciate e contorte del Greco sono le antesignane della scomposizione cubista. I blu dell´uno diventano i blu dell´altro. Ma anche i ritratti sono un referente continuo: il San Gerolamo in veste di cardinale rimbalza prepotentemente nel Vecchio ebreo (1907) e il Gentiluomo sconosciuto in un fratello in spirito dipinto da Picasso (1899).
Taluni confronti per il vero sono un po´ tirati per i capelli: lo splendido Ritratto di Vollard, amico e mercante dello spagnolo, ha scarso referente nel Democrito di Ribera. Idem può dirsi del Francesco d´Assisi con un teschio tra le mani, un "memento mori", di Zurbaràn e il celebre Uomo con la chitarra capolavoro dell´epopea cubista.
Un capitolo relativamente nuovo e comunque per la prima volta indagato così attentamente, sono le tele tessute rifacendo Nicolas Poussin e Jacques-Louis David: il celebre Ratto delle Sabine del primo viene rivisitato con una straordinaria energia nel 1962. Un pittore, Poussin, mille miglia lontano al nostro, rivive, viene come rigenerato ed è un segno ancora dell´inesauribile versatilità dello spagnolo. Con David degli Orazi e i Curiazi si replica, ma con minore trasporto formale.
Le Veneri e le majas sono un´ossessione dell´erotismo senile: Tiziano, Goya, Manet erompono con le loro forme carnose nelle tele tarde. È un miracolo vedere qui in mostra l´una accanto all´altra L´Olimpya di Manet e la Maja desnuda di Goya: il Vecellio e Velázquez stanno lì a far da memorabile contrappunto. Per questo motivo torno a quanto dicevo in esordio: i maestri sono il nocciolo succoso di una mostra che sono tornato a vedere due volte, e ogni volta la folla che assediava i dipinti era lì a sfidare la nostra pazienza. Olga accanto a Mademoiselle Rivière di Ingres, e Arlesiana di Van Gogh con la replica di Picasso e tutti i capolavori già ricordati quando potremo rivederli su una stessa parete? Una mostra irripetibile.

Repubblica 5.1.09
Rovereto. Il secolo del jazz. Arte, cinema, musica e fotografia da Picasso a Basquiat
Mart. Fino al 15 febbraio.


L'esposizione, curata da Daniel Soutif in collaborazione con il Musée du Quai Branly di Parigi e il Centre de Cultura Contempor?nia di Barcellona, procede lungo un filo rosso che si sviluppa nel corso degli anni, presentando dischi, partiture e documenti storici. Il percorso ? arricchito dalle opere dei protagonisti delle arti visive che hanno tratto ispirazione da questo genere di musica. Dai lavori dei grandi del '900, come Matisse e Mondrian, alle creazioni degli autori della Harlem Renaissance, come Winold Reiss, Palmer Hayden e Archibald Motley jr., passando per i lavori del periodo della Free Revolution, fino a testimonianze eccezionali come i Soundies, gli antenati dei videoclip girati tra gli anni Trenta e Quaranta. Tra le opere esposte, da segnalare lavori di Picabia, Man Ray, van Doesburg, Kupka, Dove, Davis, Pollock, Rivers, Oldenburg, Rosenquist e degli italiani, Guttuso, Novelli, Rotella e Pascali.

Repubblica 5.1.09
Love& Art
L’amore rinascimentale


Al Metropolitan di New York gli oggetti e i dipinti che nell´Italia del ´400-´500 hanno raccontato la vita privata dei nobili. Tessuti, gioielli e tele dei grandi pittori, da Botticelli a Tiziano, Lotto...
Tutti gli aspetti della passione, sensualità, piacere, gioco
Vale lo schema di Gombrich: si passa dai cassoni delle spose alla poesia
La cesura tra l´apporto delle arti decorative e i maestri del colore

NEW YORK. Una donna chiamata Ginevra, anzi più d´una. Sono i ritratti dipinti da Botticelli (Ginevra Tornabuoni), Ercole de´ Roberti (Ginevra Sforza Bentivoglio), Leonardo da Vinci (Ginevra de´ Benci). Ritratti che aprono, come finestre, su quella storia sociale e economica, che il Metropolitan Museum di New York mette in scena seguendo un tracciato per niente scontato del Rinascimento italiano (Art and Love in Renaissance Italy, fino al 16 febbraio 2009).
Ritratti di donne, di bimbi, di sposi, e oggetti domestici di stupefacente bellezza: coppe nuziali, «deschi da parto» che sono vassoi in legno dipinto da regalare alla puerpera, cassoni istoriati, culle, vetri, maioliche, cinture preziose dalle scritte struggenti ricamate su seta «al foco de´ tuoi baci qual fenice incenerisco e moro, e al soffio dei tuoi sospiri riprendo vita».
E´ certo una mostra spettacolare e di pubblico, a cominciare dal titolo e dall´invito ad entrare nella vita privata delle classi più alte attraverso un passaggio rituale ed eterno, fidanzamento- matrimonio-nascita dei figli. Un passaggio - si legge nel saggio di Everett Fahy - che ancora oggi in America, in età democratica e digitale, si perpetua nelle foto di spose novelle che puntualmente sorridono dai giornali popolari della domenica.
Amore, erotismo, eleganza, bellezza. Ingredienti di grande richiamo che tuttavia - si tratta del Metropolitan - centrano il bersaglio non facile di produrre conoscenza e sapere. E´ infatti possibile conquistare la gente e fare cultura e proporre prospettive di metodo.
Ad apertura di mostra prevalgono gli oggetti raffinati e preziosi: tessuti, gioielli e maioliche che celebrano l´amore casto e coniugale: «Livia bella», «non te posso lassare», «el mio core ferito per voi», «questa te dono per amore bella» recitano le scritte che come nastri corrono sui vasi italiani del Quattrocento, prodotti nelle manifatture di Urbino e Deruta.
Poi quelle arti decorative, che sono all´inizio la forza trainante nel processo di secolarizzazione della cultura (gli oggetti e il loro contesto contano più dell´artista), cedono il passo, in chiusura di mostra, alla schiera trionfante dei grandi pittori, Antonio del Pollajolo, Francesco Laurana, Domenico Beccafumi, Lorenzo Lotto, Ercole de´ Roberti, Botticelli, Giorgione, Tiziano che sul tema amoroso, ormai decisamente laico e privato, sparano solo capolavori.
Lo stacco è nettissimo. Dalla cultura materiale riscattata sulla scia della tradizione gloriosa delle Annales all´età dell´oro della creatività individuale. Lo schema, delineato in un saggio famoso di Gombrich, è ripreso nella stringa che, all´ingresso dell´ultima sala, sintetizza il crescendo dell´esposizione: «Dai cassoni dipinti alla poesia». Come dire che la grande stagione narrativa dei cassoni da sposa fabbricati a Firenze è premessa necessaria alle spalliere nuziali di Botticelli (Venere e Marte, Londra, National Gallery), all´epitalamio tradotto in immagine di Lorenzo Lotto (Venere e Cupido del Metropolitan Museum, con il putto che sprizza pipì sul ventre di Venere in segno di fertilità), alle «femmine nude» di Tiziano, dipinti sensuali e splendenti che d´un balzo scavalcano le premesse artigianali, all´origine di questa storia intrecciata dell´amore e dell´arte. Pardon, dell´amore, dell´arte e dell´interesse economico, il quale segna rigorosamente i confini che l´amore non può valicare. Interesse a garantire continuità politica e sociale e interesse a perpetuare la dinastia familiare sotto lo scudo rassicurante della ricchezza.
Mentre l´amore, lungo un percorso che esalta il versante profano del nostro fulgido Rinascimento, è raccontato in tutte le declinazioni possibili. Sensualità e desiderio nella Venere di Tiziano, dove un giovane musicista si perde nel nudo voluttuoso della dea, dimenticando spartito e tastiera (Venere e l´organista, Madrid, Prado).
Erotismo e piacere lascivo nella sequenza dei nudi licenziosi e acrobatici de I modi di Giulio Romano, che celebrano l´amplesso lussurioso e carnale.
O invece amore burlesco e giocoso offerto da cortigiane di carta che, nelle acqueforti «interattive» prodotte da una stamperia padovana, invitano a sollevare un pezzetto di foglio (la gonna) per accedere alle parti scabrose. Gusci di donne, eccitanti e sfrontate, che sono l´ultima eco di un´attitudine colta del Rinascimento italiano il quale, a livelli sublimi, ha cantato il piacere amoroso.
Perché la scena reale in cui l´amore si specchia e attinge la sua consacrazione più alta è la volta affrescata da Raffaello nella Loggia di Psiche, alla Farnesina di Roma. E´ infatti nella villa suburbana del potente banchiere Agostino Chigi, frequentata da umanisti, poeti, artisti, cortigiane, prelati, che l´illecito amore di Cupido e Psiche è celebrato in un tripudio di allusioni e di simboli (uccelli, fichi spaccati, tumide zucchine, ghirlande di vegetali superespliciti) che anche allo sguardo smaliziato di un umanista come Paolo Giovio parvero allora di un erotismo piuttosto sfrontato.
Luogo di delizie e di umani piaceri, il verziere affrescato da Raffaello racconta la favola antica di Apuleio quale metafora degli intrecci d´amore (avventurosi, tenerissimi, libertini, fiabeschi) che, sul finire del Rinascimento, erano anche tracciati di fuga da una realtà sempre meno solare.
Come accade nella foresta di Arden cantata da Shakespeare, luogo dell´anima e dell´immaginazione, dove l´eterno gioco d´amore («inventerò dei divertimenti, che ne diresti di innamorarci?»), fuggendo le trame oscure della corte, ritrova nella natura la poesia dei sogni e dei desideri, As you like it appunto.

Corriere della Sera 5.1.08
Fecondazione. Impasse da 5 anni dopo gli investimenti per la sede di Milano
Il pasticcio degli embrioni La biobanca c'è ma non apre
di Margherita De Bac


«Dateli alle coppie»
La proposta del ginecologo Palagiano, capogruppo dell'Idv: affidiamoli alle coppie sterili
Più di 2.500 organismi orfani bloccati in tutta Italia
La radicale Donatella Poretti: operazione faraonica stoppata Perché non usarli per la ricerca o lasciarli morire?

ROMA — La casa è pronta e funzionante dal 2005. Ma è vuota perché gli «inquilini» che avrebbe dovuto ospitare non sono ancora stati trasferiti. Una casa molto speciale. E' la biobanca degli embrioni orfani, cioè congelati e abbandonati con tanto di dichiarazione scritta dalle rispettive coppie infertili da cui sono stati generati. Circa 2.500 secondo i dati che vengono riportati nell'ultima relazione al Parlamento sulla legge della procreazione medicalmente assistita.
Proprio in virtù di queste norme meglio specificate in un successivo decreto del 4 agosto del 2004 (il ministro della Salute era Girolamo Sirchia) gli embrioni cosiddetti «sovrannumerari» (creati prima del 2004 quando ancora non c'erano limiti sul numero di ovociti da fecondare), conservati nei centri italiani avrebbero dovuto essere depositati tutti insieme in un'unica sede. Una cella creata apposta all'ospedale Maggiore di Milano, in attesa che il governo decidesse la loro sorte.
A distanza di quasi cinque anni però nessuno di loro si trova nel nuovo domicilio. Eppure la casa è costata fior di quattrini. Poco più di 230 mila euro per l'allestimento dell'ambiente criobiologico, dotato di 6 contenitori di azoto liquido, oltre a 96 mila euro per acquisto di materiale e software e 74 mila per il personale. A questi si aggiungono i 50 mila euro assegnati all'Istituto superiore di sanità per il censimento. Gli embrioni orfani sono 2.527 per l'esattezza. Ma altrettanti sarebbero quelli abbandonati. I loro genitori non si trovano più, non hanno risposto alle lettere di sollecito inviate dai centri. Forse sono riusciti ad avere un figlio grazie alla provetta e non hanno più bisogno dei frutti del concepimento in eccesso lasciati nel congelatore. Oppure si sono separati e non vogliono più saperne del passato.
Uno dei tanti pasticci all'italiana con relativo sperpero di denaro pubblico. «La verità è che nessuno vuole metterci mano — accusa la senatrice Donatella Poretti, radicale eletta nel Pd —. Riaprire la questione e rispettare le indicazioni della legge significherebbe ammettere l'assurdità di tutta l'operazione. Diciamo la verità. Questi embrioni scottano perché una volta trasferiti si dovrebbe decidere cosa farne. Donarli alla ricerca, strada seguita da tutti gli altri Paesi? Cederli in adozione a coppie sterili? Oppure lasciarli lì congelati in attesa che muoiano, dunque senza prendersene carico?».
Se ne discuterà lunedì prossimo al convegno «Legge 40 e turismo riproduttivo: vale ancora la pena?» organizzato dall'Idv, interventi in apertura di Gianfranco Fini e Antonio Di Pietro. «Noi siamo dell'idea che bisognerebbe scegliere la strada dell'adozione anche se la legge 40 la renderebbe impraticabile perché vieta le tecniche eterologhe — dice Antonio Palagiano, ginecologo, capogruppo del-l'Idv in commissione Affari sociali della Camera —. Il nostro partito sta lavorando su una proposta di legge. Parliamoci chiaro. Questi embrioni sono destinati a spegnersi in un tot numero di anni. Forse non più del 20% risulterebbero ancora impiantabili e capaci di svilupparsi. Tanto vale utilizzarli affidandoli a coppie che non hanno altre possibilità ».
La Poretti, intanto, ha presentato un'interrogazione parlamentare «sull'operazione faraonica per la quale sono stati stanziati e spesi soldi pubblici». Il sottosegretario al Welfare Ferruccio Fazio ha risposto che «il censimento non è terminato» e che dunque nell'attesa «il trasferimento non può avere luogo perché devono essere previsti ulteriori stanziamenti calcolabili solo al termine dell'operazione ». «Balle, la conta è terminata» insiste la parlamentare. Paolo Rebulla, direttore del Centro di risorse biologiche dell'ospedale Maggiore, allarga le braccia: «Aspettiamo istruzioni dal ministero. Noi siamo pronti. La banca è stata inaugurata. Non abbiamo avuto più notizie ».

Corriere della Sera 5.1.08
Archivi Lo studio di Giorgio Fabre su una sorprendente nota in funzione di politica estera emanata poco prima delle leggi razziali
Febbraio 1938: il fascismo negò di essere antisemita
di Dino Messina


«Recenti polemiche giornalistiche hanno potuto suscitare in taluni ambienti stranieri l'impressione che il Governo fascista sia in procinto di inaugurare una politica antisemita. Nei circoli responsabili romani si è in grado di affermare che tale impressione è completamente errata e si considerano le polemiche come suscitate soprattutto dal fatto che le correnti dell'antifascismo mondiale fanno regolarmente capo ad elementi ebraici». Che cosa spingeva Benito Mussolini con questa «Informazione diplomatica», la numero 14, riveduta e corretta personalmente almeno tre volte e diramata dall'agenzia Stefani il 16 febbraio 1938, a smentire l'antisemitismo del regime pochi mesi prima dell'emanazione delle leggi razziali? Attorno a questa domanda ruota il lungo e complesso saggio che Giorgio Fabre pubblica sul nuovo numero della rivista La rassegna mensile di Israel (edita da Giuntina), completamente dedicato al settantesimo anniversario della famigerata legislazione. Tra gli altri, segnaliamo interventi di Michele Sarfatti, Enzo Collotti e Giorgio Israel.
Per capire la sorprendente uscita del Duce bisogna anche considerare altri due passi dell'«Informazione », pubblicata come indicava una velina da tutti i giornali del regno in prima pagina a una colonna, senza alcun commento, ma destinata soprattutto alla vasta comunità dei corrispondenti esteri a Roma, tra cui c'erano molti ebrei. Il documento indicava la soluzione del «problema ebraico universale» nella creazione «in qualche parte del mondo, non in Palestina», di uno Stato ebraico.
I corrispondenti stranieri analizzarono attentamente quel documento e reagirono in maniera diversa, come risulta dagli articoli pubblicati dai loro giornali ma anche dalle intercettazioni dei servizi segreti, che Fabre analizza meticolosamente. I più scontenti erano i tedeschi, già insoddisfatti per la piega che andava prendendo l'antisemitismo italiano, «politico e non razzista». Arnaldo Cortesi sul
New York Times notò invece come l'«Informazione diplomatica n. 14» rivelasse «il malumore italiano a proposito dei risultati delle conversazioni tra i cancellieri Hitler e Schuschnigg lo scorso sabato». Il 12 febbraio, ricorda infatti Fabre, Hitler aveva convocato «in gran segreto il cancelliere Schuschnigg» imponendogli «la nazificazione dell'Austria, che portò dopo poche settimane all'Anschluss». Una grande Germania al confine italiano venne immediatamente vista come una minaccia da Mussolini, che chiese all'ambasciatore a Londra Dino Grandi di intensificare i contatti con il governo britannico. Le trattative anglo-italiane si aprirono effettivamente l'8 marzo e portarono al cosiddetto «patto di Pasqua». Ecco spiegato il riferimento alla creazione di uno Stato ebraico (anche se il Duce e il ministro degli Esteri, Galeazzo Ciano vollero escludere la Palestina per non irritare gli arabi), già proposto nel 1937 dalla commissione Peel al parlamento inglese. E soprattutto ecco spiegata la negazione di una politica antisemita di cui già si vedevano i primi segnali: dall'attenzione verso il sempre più ampio gruppo di studenti ebraici stranieri che frequentavano le nostre università alla proibizione di trasmettere per radio musiche di compositori ebraici e al sequestro di tre romanzi di Arnold Zweig stampati da Mondadori.

Corriere della Sera 5.1.08
L'arpista e compositrice, sorella del direttore d'orchestra: anche i colleghi ci ignorano
Io accuso la classica
Cecilia Chailly: «Noi donne emarginate La musica colta dominata dal maschilismo»
Su Giovanni Allevi Sono d'accordo con Uto Ughi: Allevi è un fenomeno di marketing
di Giuseppina Manin


MILANO — Musiciste in Italia. Chi le ha viste? Perché nel nostro Paese la classica è appannaggio solo degli uomini? Possibile che non esistano compositrici? O forse il potere, anche in questo campo, è tutto saldamente in mani maschili? Cecilia Chailly, arpista e compositrice di formazione classica ma votata anche al pop, jazz, new age, non si rassegna. L'altra metà del cielo della musica, nel nostro empireo le risuona drammaticamente vuota. «Ma le donne, dove sono? » invoca Cecilia. «Perché nessun teatro, nessun conservatorio, nessun ente culturale, offre mai qualche occasione a un'artista? Anche i colleghi ti ignorano o, tutt'al più, ci provano. C'è molto maschilismo nella classica. Il massimo che ti può capitare in questo Paese è di venir considerata la musa ispiratrice di qualche sedicente talento. Insomma, dove sono le pari opportunità nella musica?» Eppure, sostiene con foga, il femminile deve trovare una sua collocazione anche in quei territori. «Si parla tanto di crisi, addirittura di morte della musica colta. Perché non attingere alla creatività femminile? Non andare a cercare tra i suoi tanti talenti nascosti, soffocati? Il mio spazio io me lo sono conquistato in un territorio diverso, in quel cosiddetto "crossover" che consente più libertà e autonomia. Però le mie radici sono classiche. Mi sono diplomata al Conservatorio di Milano, a 17 anni ero prima arpa alla Scala. Poi ho scelto altre vie, ho lavorato con Cage, Einaudi, De Andrè... Non appartengo a nessuno, ma vorrei poter sperimentare su tutti i fronti. Classica compresa. Io non demordo».
A casa Chailly non si usa. Così insegnava papà Luciano, compositore di valore, direttore artistico della Scala dal '68 al '71, così ribadisce il fratello Riccardo, celebre direttore d'orchestra, oggi alla guida della Gewandhaus di Lipsia. Chiamarsi Chailly è un onore e un onere. «Certo è un cognome che ha contato, ma mai per "far carriera" - assicura Cecilia - . Da noi le regole sono sempre state chiare: ciascuno doveva trovare la sua strada e percorrerla per conto suo, senza appoggi di sorta. Mio padre ci ha insegnato ad amare la musica ma è sempre stato critico nei nostri confronti, pronto a smontarci più che a sostenerci».
In quella famiglia importante, forse per certi versi ingombrante, Cecilia è arrivata per ultima. «I miei avevano già due figli grandi, Riccardo e Floriana. Io non ero prevista dal copione, mi ha portata il caso. Un bel caso. Non potevo capitare meglio. Genitori uniti, figli amati, tutti con interessi spiccatissimi. Un'infanzia senza bambole, con strumenti per giocare alla musica, vita spartana ma piena di stimoli... A sei anni già cantavo nel coro della Filarmonica di Roma. La mia strada era quella».
Una strada affascinante, fuori dagli schemi. Entrare nell'Orchestra della Scala a 17 anni e andarsene per saggiare altri mondi, non è da tutti. Ma Cecilia è tentata da ciò che è nuovo, inconsueto. Studia composizione con Azio Corghi, frequenta il movimento dei neoromantici, Tutino, Ferrero, va a vivere in una «comune» di musicisti... «Con Luca Francesconi, Pietro Pirelli, Walter Prati. Un anno bellissimo», ricorda. Poi altri sconfinamenti. Pioniera dell'arpa elettrica, incrocia altri sperimentatori. «Ho suonato con John Cage. Un personaggio straordinario, dotato di energie strane, misteriose. Uno che leggeva i Ching e faceva sedute spiritiche. Quando mi telefonò dagli Usa, a casa mia cadde uno specchio senza rompersi».
Altri incontri. Mina. «Mi chiamò da Lugano spacciandosi per la segretaria della signora Mazzini e poi si svelò ridendo proponendomi di prender parte al cd Ridi pagliaccio. Ludovico Einaudi: «Ci lega un'affinità quasi parentale, potrebbe essere mio cugino ». Fabrizio De Andrè: «Un uomo meraviglioso, che sapeva ascoltare gli altri. Il più femminile degli artisti». Nel '97 pubblica il suo primo album da compositrice, Anima. «Un successo. Alcuni brani li volle Dario Argento per la colonna sonora del suo film
Non ho sonno. «Sei una musicista esatonale », mi disse mio padre. Non so bene se fosse un complimento o no». Si appassiona di filosofia e musica indiana, suona a Milano per il Dalai Lama, a Roma per il Papa. Il secondo album,
Ama, segna il suo debutto nel pop e nella trance music. Nel 2006 è la volta di Alone, a cui partecipa anche l'amico Einaudi e dove Cecilia mescola alla sua musica brani di antiche registrazioni fatte da papà Luciano dove la voce di lui si mescola a quella di lei bimbetta.
«Quando Sting ha sentito questo album mi ha scritto una lettera bellissima. Ci siamo conosciuti anni fa, dopo un suo concerto. Perché ti sogno da 15 anni? gli ho chiesto. Non lo so, mi ha risposto lui. Poi ci siamo scolati una bottiglia di champagne e siamo diventati amici. Più sono grandi più sono semplici. Sting, Morricone, De Andrè... E Uto Ughi, mi piace molto».
Un maestro del violino che di recente ha usato parole dure verso un compositore "di moda", Giovanni Allevi. «Allevi è un fenomeno di marketing, gradevole ma superficiale. In questo senso perfetto per incarnare ciò che chiede un'epoca come la nostra, che non vuole nè pensare nè farsi domande».

Avvenire 3.1.09
E Rosmini «bruciò» Marx


Karl Marx non aveva ancora dato fiato alle trombe del comunismo. Il suo Manife­sto del partito comunista era solo in bozze, eppure Antonio Rosmi­ni, con singolare lungimiranza, ne smontò in anticipo l’impianto teo­rico pur non avendolo ancora let­to. Lo dimostra la recente pubblica­zione di un’opera del filosofo di Rovereto a torto considerata mi­nore: Saggio sul comunismo e sul socialismo, edizioni Talete.
Un breve trattato redatto in forma di discorso e letto all’Accademia dei Risorgenti di Osimo nel 1847. Ro­smini prende spunto dalla diffu­sione in Europa del comunismo utopistico per appellarsi alle genti italiche e scongiurare l’adesione alla «fallace via» di quei «falsi sa­pienti ». Vengono così confutate punto per punto le teorie di Ro­bert Owen, Saint-Simon, Charles Fourier, François-Noel Babeuf. Tutte tesi che promettono una pubblica felicità ma con il loro materialismo annientano il valore della persona, «asciugando la fon­te di tutti i suoi beni individuali e sociali: la libertà». In simili dottri­ne i cittadini sono ridotti al rango di «macchine o animali, ad una sì vile condizione a cui non discese­ro mai gli schiavi greci né romani». La carica utopica pervaderà anche il trattato di Marx e fungerà da «e- sca» per molti, persuasi di veder fi­nalmente migliorate le condizioni della «classe più numerosa e pove­ra ». Per Rosmini però non era cer­to una novità dei comunisti que­sta sensibilità sociale che il cristia­nesimo proclamò per diciannove secoli, «inserì nelle menti, inscris­se nei cuori, trafuse nelle abitudi­ni ».
E replica: «Noi abbracciamo lieti cotanta umanità in verso la classe più necessitosa; ma ci la­mentiamo nello stesso tempo, perché non l’estendano a tutte le altre classi, e così restringano e smozzino quella che da san Paolo è grecamente chiamata filantropia di Cristo, la quale non dimentica né i diritti, né i bisogni di uomo al­cuno ». Quando poi dai principi si passa alla pratica, i mezzi proposti da quei «riformatori dell’umana famiglia» lasciano intravedere già i germi del totalitarismo: «Il gov­er-storia no datoci per sicura panacea delle presenti sciagure, deve possedere un’autorità, una potenza troppo maggiore di tutti i governi presen­ti, anche dei più assoluti, e di tutti quelli altresì che furono in sulla terra... Il suo potere è assoluto su tutte quante le cose e su tutte quante le persone: la proprietà in­dividuale è abolita, il nuovo gover­no depositario di tutta la ricchez­za ». Così come viene prean­nun­apocalittica ciata dal filosofo roveretano la bat­taglia contro l’«oppio dei popoli»: «Tutti i progetti degli utopisti so­ciali richiedono a primissima con­dizione che quanti sono i popoli della terra cessino oggimai dal credere e dal professare la loro religione».
La morale tradizionale fi­nisce sotto accusa perché inibisce le passioni, con tutte le incon­gruenze sollevate da Rosmini: le passioni possono essere anche ne­gative, e se ogni cosa è lecita, si fi­nisce nella guerra di tutti contro tutti. Viene a cadere la distinzione tra bene e male: un anticipo se vo­gliamo del relativismo odierno. Come evidenzia il saggio, già per quei socialisti «il matrimonio mo­nogamico è la più lacrimevole ca­lamità della terra; ché egli pone un freno alle basse passioni ed aboli­sce la felicità delle unioni selvagge e ferine». In questi sistemi dove l’individuo non conta più nulla, lo Stato rimane l’unico riferimen­to: il «governo è tutto, arbitro di tutte le persone, regolatore di tut­ta l’attività dell’uman genere, da quella del pensare fino a quella del sentire». Per questo è amaro il nostro auto­re quando scrive che non basta la «corruzione del cuore» per pro­durre simili teorie che fondono anche «l’ignoranza dell’umana natura e un’ispirazione satanica». Ma Rosmini prevede comunque l’inevitabile fallimento di una so­cietà in cui i governati si aspettano di essere nutriti con amore dai go­vernanti «come i rondinini dalla sollecita loro madre».
E ironizza anzitempo sulle due fasi della ri­voluzione comunista in cui «i maestri della dottrina procurano di tirare e rapire tutti i beni a sé, ri­serbandosi poi a distribuire l’uso con ammirabile uguaglianza e ge­nerosità a tutti… Ora voi vedete che tentare la prima delle due o­perazioni è cosa più facile e pron­ta che non sia adempire la secon­da, riserbata a un tempo indefini­to dell’avvenire… A chi sarà diffi­cile, o signori, giudicare la proba­bilità della buona riuscita di un ta­le sistema?». Quando alcuni mesi dopo, fra il dicembre 1847 e il gennaio del 1948, Marx ed Engels nel Manife­sto inviteranno i proletari di tutto il mondo a unirsi perché nella ri­voluzione comunista essi «non hanno nulla da perdere fuorché le loro catene», Rosmini aveva già implorato i suoi connazionali: «A­spetteremo una società libera da chi prima di tutto annulla ogni li­bertà individuale?».

Il Sole 24 Ore 4.1.09
Molti governi, soprattutto conservatori, hanno rispolverato Il Capitale: ma la storia insegna che lo Stato banchiere si è sempre rivelato un fallimento
Oddio, Marx sta di nuovo bene
di Harold James, Princeton University


Kari Marx è ritornato, se non proprio dalla tomba, però dal bidone della spazzatura della storia. Il ministro tedesco delle Finanze Peer Steinb1iick ha di recente dichiarato che le risposte di Marx ai problemi di oggi «possono non essere irrilevanti». Il Presidente francese Nicolas Sarkozy ha lasciato che lo fotografassero mentre sfogliava le pagine del Capitale di Karl Marx. Il regista tedesco Alexander Kluge ha promesso che girerà un film tratto dallo stesso Capitale.
Alcuni dei nuovi "marxisti" di oggi vogliono spiegare nei dettagli i motivi di fascino di un uomo che si prefiggeva di coniugare la filosofia tedesca (che si basava su Hegel) con l' economia politica inglese (propugnata da David Ricardo) e di conseguenza fondere due tradizioni molto conservatrici in una teoria di rivoluzione radicale.
Marx era certamente un analista percettivo del concetto di globalizzazione del XIX secolo. Nel 1848, nel Manifesto del partito comunista, scriveva: «Al posto del vecchio isolamento e dell'autosufficienza locali e nazionali, abbiamo rapporti in ogni direzione, l'interdipendenza universale delle nazioni».
A dire il vero, fra gli altri commentatori del XIX secolo molti avevano analizzato la creazione dei global network. Ma non stiamo assistendo a una nuova corsa per le opere di figure quali John Stuart Mill o Paul Leroy-Beaulieu.
La spiegazione della rinnovata popolarità di Marx consiste nel fatto che ora è universalmente accettato che il capitalismo fondamentalmente è andato in pezzi, con il sistema finanziario al cuore del problema. La descrizione di Marx del «feticismo delle derrate» - la conversione di beni in asset negoziabili, scorporati persino dal processo di creazione della loro utilità - appare assolutamente fondamentale per il complesso processo di cartolarizzazione, nel quale i valori sembrano essere nascosti da oscure transazioni.
Dall'analisi della natura ingannevole della complessità scaturisce la considerazione del Manifesto che appare estremamente affascinante ai "marxisti" contemporanei. Figura al punto 5 di un programma articolato in 10 punti. Il punto 5, che era preceduto dalla "Confisca della proprietà di tutti gli emigranti e dei ribelli", era "Centralizzazione del credito nelle mani dello Stato attraverso una bancanazionale con la proprietà di Stato e un monopolio esclusivo".
Il problema principale nel periodo immediatamente successivo all'odierna crisi finanziaria è rappresentato dal fatto che le banche non stanno più finanziando il credito per molte transazioni necessarie nelle operazioni base dell'economia. Persino la ricapitalizzazione delle banche attraverso interventi statali non è stata sufficiente a ridare vita all'attività economica.
Di fronte alle difficoltà sia delle grandi case automobilistiche che dei fornitori più piccoli, molti chiedono che, come parte del pacchetto di salvataggio, lo Stato obblighi le banche a prestare denaro. Tutti pensano al cavallo che può essere condotto fino all'acqua ma che non può essere costretto a bere. Persino i commentatori liberisti hanno raccolto il grido che il mercato non finanzierà il credito necessario.
In passato si era già fatto ricorso a prestiti forzosi di Stato e, a dire il vero, non nei sistemi pianificati centrali delle economie comuniste. Faceva parte dell'araldica standard dci primi Stati moderni europei quando questi trattavano con i propri creditori. Immediatamente dopo la Seconda guerra mondiale, questa misura fu al centro della politica economica francese.
Più di recente, nei primi anni Ottanta, il Fondo monetario internazionale e le Banche centrali dei grandi Paesi industrializzati fecero fronte comune per esercitare pressioni sulle banche affinché aumentassero l'ammontare dci credito ai grandi Paesi debitori dell'America Latina. Molti banchieri si lamentarono del fatto che dovevano gettare altro denaro in un'impresa già compromessa, ma lo fecero sotto la minaccia di un intervento regolatore più drastico.
Il risultato dell'obbligo del credito fu piuttosto paradossale. La soluzione degli anni Ottanta salvò le banche (e i banchieri) dalla crisi del debito ma, nel lungo periodo, aumentò la pressione del rimborso, e in questo modo abbassò il tenore di vita dell'America Latina. Una soluzione migliore sarebbe stata una riduzione del debito allo stadio iniziale della crisi.
Nelle attuali circostanze, il sistema finanziarlO si sarebbe ripreso meglio se fosse stata realizzata una qualche versione del piano originario del segretario al Tesoro Henry Paulson per l'acquisto di asset tossici defalcandoli dallo stato patrimoniale. Ma il piano si era rivelato troppo complesso, perché la valutazione di ogni singolo asset avrebbe fatto sorgere problemi diversi e senza precedenti.
Uscendo dalla complessità, diamo uno sguardo a soluzioni semplici. Inaugurando un nuovo edificio della London school of economics, la Regina d'Inghilterra ha chiesto perché nessuno avesse previsto la crisi. Infatti, l'anticipazione più chiara era stata fornita da due comici inglesi, John Bird e John Fortune, in uno show televisivo di oltre un anno fa, in un momento in cui i più potenti finanzieri non erano ancora stati smentiti.
In altre parole, il mondo finanziario ha raggiunto una specie di stagione del Carnevale nella quale i pazzi sono saggi e le persone intelligenti passano per idioti. Il che non significa necessariamente che la soluzione di un idota abbia senso.
Quando l'attività economica riprende nuovamente dopo una profonda recessione, ciò non avviene perché delle persone sono state costrette a incanalare risorse finanziarie in progetti individuati come politicamente desiderabili, ma perchè è il risultato di nuove idee. Ci sono molte più possibilità che una gran parte di decision maker siano in grado di identificare questi nuovi progetti mentre sono molto più esili quelle che una versione centralizzata di pianificazione finanziaria abbia altrettanto successo.
Il revival "marxista" era probabilmente un inevitabile sottoprodotto della crisi attuale. Ma i suoi accoliti dovrebbero riflettere sui risultati uniformemente disastrosi dell'approvvigionamento centralizzato del credito verificatisi in passato

domenica 4 gennaio 2009

Repubblica 4.1.09
La guerra e l’etica della morte e della vita
di Eugenio Scalfari

LA guerra di Gaza sta drammaticamente aumentando la sua intensità di ora in ora: è iniziato l´attacco di terra, sono state bombardate le moschee, Israele ha richiamato migliaia di riservisti e messo in stato d´allerta il nord del paese in previsione di possibili ostilità anche con Siria e Libano.
L´incendio divampa su tutta la "Striscia" con ripercussioni anche in Cisgiordania dove ci sono i primi segnali di una terza "Intifada", nei Paesi Arabi e nella diaspora palestinese in Europa e negli Stati Uniti.
Intanto gli arabi israeliani si sentono sempre meno cittadini di Israele e solidarizzano con manifestazioni di piazza in favore dei «fratelli» palestinesi. Il risultato di queste varie dinamiche è un isolamento di Israele di fronte alla comunità internazionale. In Italia, a Roma e a Milano, i palestinesi immigrati nel nostro paese hanno anche bruciato le bandiere di Israele provocando contestazioni all´interno dello schieramento politico italiano.
Contestazioni certamente valide in punto di diritto internazionale ma poco rilevanti di fronte alla sproporzione evidente della reazione israeliana a Gaza. Il dato di fatto oggettivamente osservabile è l´isolamento del governo di Gerusalemme di fronte all´opinione pubblica europea e araba.
Per rompere questa sorta di accerchiamento politico il solo sbocco possibile è quello del negoziato. L´alternativa è quella d´una lotta senza quartiere, l´invasione di Gaza e lo sterminio di Hamas, non più centinaia ma migliaia di morti civili, la fine di ogni opzione pacifica. Molto dipende dall´Europa, da Obama, da Putin. Con una valutazione dei costi e dei benefici che andrebbe ben oltre lo scacchiere medio-orientale riportando in prima fila l´Onu come unico tavolo di confronto mondiale.
* * *
Le tensioni religiose della guerra di Gaza non sono da sottovalutare.
L´influenza del messaggio cristiano è stata finora pressoché nulla.
L´interpretazione bellicista del Corano ha fatto altri passi avanti. Quanto a Israele, il Dio biblico non è tanto quello di Abramo e di Salomone quanto il Dio degli eserciti di Saul e di David, il Dio vendicatore e vendicativo.
Sotto la spinta di questi fatti la Chiesa di Roma ha compiuto un passo avanti. Poco influente, come abbiamo già detto, sull´atteggiamento dei belligeranti, ma molto importante per quanto riguarda il tema della non violenza e della pace.
Quella della non violenza e del pacifismo è relativamente recente nella Chiesa di Roma, non si risale molto più indietro di Pio XI e di Benedetto XV, ma si trattava ancora di tracce labili. I passi più risoluti si ebbero con papa Roncalli e con il Vaticano II. Wojtyla stabilizzò quella scelta. Papa Ratzinger l´ha recentemente accentuata. L´indisponibilità della vita è ormai ? così sembra ? una scelta irreversibile della gerarchia ecclesiastica. E tuttavia, come sempre accade, dalla soluzione d´un problema altri ne scaturiscono. Così sta accadendo che l´indisponibilità della vita abbia rafforzato il principio dell´indisponibilità della morte. Ne deriva un´intransigenza sempre più ferma nel campo della bioetica dove si discutono i temi eticamente sensibili della modernità: la vita e la morte, il dogma e la libertà di coscienza, l´etica e la scienza, la politica e la teologia.
La discussione su questi temi si svolge in tutto l´Occidente ma in particolare in Italia, nel giardino del papa cattolico. Perciò noi italiani ne siamo particolarmente coinvolti.
* * *
Proprio in questi giorni il tema è stato riproposto dal caso Englaro e da altri consimili dando luogo all´ennesimo conflitto tra la gerarchia ecclesiastica e il pensiero laico. Il Vaticano, partendo dalla sua scelta sull´indisponibilità della vita, ne ha dedotto una serie di conseguenze estremamente rigide sull´intera gamma della bioetica, con l´intento di restringere i confini della libertà individuale.
I «media» non hanno dato molto spazio alla discussione registrando quasi senza commento le posizioni vaticane. Ha fatto eccezione «Repubblica»: in meno di una settimana il nostro giornale ha pubblicato un articolo di Aldo Schiavone, uno dei Cavalli Sforza (padre e figlio), un altro di Marco Politi su un´indagine effettuata sui giovani del Triveneto, uno (di ieri) di Miriam Mafai. Il nostro è un giornale molto attento alle questioni religiose e ai confini tra la gerarchia ecclesiastica, la laicità dello Stato, l´autonomia della coscienza individuale, l´etica privata e l´etica pubblica. Perciò non può meravigliare se il dibattito si svolge intensamente sulle nostre pagine.
Stupisce tuttavia il silenzio pressoché completo della stampa nazionale, quasi che il tema meriti d´esser registrato ma non dibattuto. Questa assenza non può che stimolarci ad offrire spazio e respiro ad un confronto essenziale su temi essenziali.
Per quanto mi riguarda prenderò come riferimento l´articolo di Aldo Schiavone del 31 dicembre scorso perché è quello che a mio avviso affronta la questione in tutta la sua complessità.
* * *
Scrive Schiavone che c´è nel nostro tempo una grande richiesta di etica: nella società pubblica e nei comportamenti privati, nella scienza e nella tecnologia, insomma in tutto il vissuto della modernità.
Forse è vero che ve ne sia bisogno, ma che ve ne sia vera richiesta a me non pare. Tutt´al più c´è una richiesta retorica, cioè una simulazione di richiesta che vale soprattutto per gli altri ma quasi mai per se stessi.
Dalla richiesta di etica Schiavone fa discendere la necessità di rivolgersi alla Chiesa che sarebbe «il principale deposito di etica nell´Occidente cristiano».
Qui è necessario distinguere. La predicazione di Gesù di Nazareth, come ci è stata tramandata dai Vangeli (non soltanto i quattro canonici), dalle lettere di Paolo, dagli Atti degli apostoli, contiene certamente un messaggio etico di formidabile e duratura intensità. Questo messaggio la Chiesa l´ha tramandato, sia pure con notevoli aggiustamenti, ma quasi mai praticato. C´è stata, nei suoi duemila anni di storia, un´ala che ha non soltanto predicato ma praticato il messaggio evangelico: un´ala minoritaria, da Benedetto a Francesco, da Antonio a Bernardo, a Saverio, a Ignazio (non parlo dei mistici che sono altra cosa).
Quest´ala è stata tollerata e utilizzata dalla gerarchia che ha però seguito e praticato la strada opposta. Il deposito etico della gerarchia è stato contraddittorio e pressoché nullo, come avviene in tutte le strutture di potere. Le chiese cristiane, e quella cattolica in particolare, sono state e sono tuttora strutture di potere. L´etica può riverberare su di esse una parte dei suoi contenuti e precetti ma esse non ne sono in nessun caso la fonte sorgiva «per la contraddizion che nol consente».
Infine: Schiavone lamenta che la cultura laica, di fronte al fiorire di quella cattolica, sia muta, assente, dispersa e comunque impari al bisogno che ce ne sarebbe.
Impari forse. Dispersa può darsi perché i laici non sono una struttura e non hanno un Papa che parli per tutti.
Ma muta e assente non direi.
I laici hanno molti punti di riferimento, convinzioni radicate e comuni e una comune storia di pensiero evolutivo. All´origine ci sono gli stoici e Socrate e poi via via Epitteto, Epicuro, Montaigne, Descartes, Pascal, Spinoza, Diderot, Voltaire, Kant. Anche il pensiero laico ha una storia plurimillenaria che arriva fino a noi contemporanei. Non dobbiamo inorgoglircene ma tanto meno dimenticarcene.
Qui finiscono alcuni miei dissensi con l´amico Schiavone, con il quale invece consento pienamente sulla diagnosi che riguarda il rapporto tra scienza e tecnica da un lato, libertà e autonomia individuale dall´altro.
* * *
La vita e la morte sono sempre più fenomeni artificiali oltre che naturali a causa del progredire della ricerca scientifica e delle sue applicazioni tecniche. Fenomeni artificiali perché la tecnica è sempre più in grado di supplire alle carenze naturali. Consente la procreazione anche a chi non può ottenerla secondo natura; prolunga la vita e sconfigge la morte prevenendo e vincendo la malattia.
Fenomeni artificiali e perciò culturali che hanno bisogno di normative giuridiche capaci di conciliare i desideri dei singoli con gli interessi della collettività.
Scienza e tecnica continuano e continueranno ad evolversi, a sperimentare, a consentire opzioni sempre migliori, ma non vogliono né possono sostituire la natura. Se non altro per il fatto che l´umanità, la specie e gli individui che ne sono parte, è una delle innumerevoli forme della natura.
Scienza e tecnica sono prodotti mentali dell´uomo e quindi protesi della natura.
In questo stadio dell´evoluzione esistono zone grigie dove le protesi consentono risultati al prezzo di sofferenze e/o limitazioni a volte sopportabili, a volte radicali. Di fronte ad esse l´individuo rivendica legittimamente libertà di scelta: se accettare le soluzioni o rifiutarle.
Piena libertà ai depositari di fedi religiose di indicare e raccomandare soluzioni conformi all´etica da essi predicata senza però che quelle soluzioni possano essere imposte a chi (fosse uno soltanto) non condivide quelle raccomandazioni. Questo è il limite di uno Stato laico, pluralista e non teocratico.
Non sembra che la Chiesa la pensi così. Sembra invece che pretenda che le sue indicazioni nel campo della bioetica divengano norme giuridiche imperative. Ebbene, va ripetuto alto e forte che questo passo non potrà mai esser compiuto poiché segnerebbe la scomparsa della laicità a favore d´un fondamentalismo che l´Occidente ha storicamente archiviato da 250 anni. Un salto all´indietro di questa portata, esso sì, segnerebbe il ritorno ad un oscuro Medioevo e la scomparsa dei valori della nostra civiltà, inclusi quelli della predicazione cristiana.

il Riformista 4.1.09
Hanan Ashrawi. Per Israele l'incursione si rivelerà un disastro
di Alessandra Cardinale

Attacchi indiscriminati «Colpiti solo tre leader dell'ala militare»
Hanan Ashrawi. L'ex membro del Parlamento palestinese sostiene che a Gaza un esercito regolare va incontro a ingenti perdite e non ha possibilità di vittoria. L'azione terrestre non farà che crescere il sostegno dei palestinesi per Hamas. Bush? «Un irresponsabile».

«Come va? Come vuole che vada. Molto male». Da Ramallah, in Cisgiordania, Hanan Ashrawi, ex membro del Parlamento palestinese, fondatrice nel 1998 della organizzazione non governativa Miftah e grande amica di Edward Said con cui per decenni ha lottato in difesa dei diritti del popolo palestinese, risponde al telefono pochi minuti dopo la notizia diffusa da Radio Israel secondo cui alcuni soldati israeliani si sarebbero infiltrati a Gaza City per attaccare postazioni di Hamas che li avrebbe respinti. E anche da Al Jazeera non giungono notizie confortanti: l'aviazione israeliana lancia volantini sulla Striscia di Gaza in cui viene annunciato l'attacco di terra.
Dottoressa Ashrawi, l'attacco di terra da parte degli israeliani è imminente, cosa ne pensa?
La prima cosa da fare è tenere i nervi ben saldi. Israele ricorre spesso alla guerra psicologica ma al contempo la minaccia di un attacco di terra non va sottovalutata. Sia ben chiaro, e questo gli israeliani lo sanno molto bene, una guerra del genere porterebbe a una situazione tragica. Prima di tutto per il popolo palestinese di Gaza che, indebolito dai due anni di assedio, ora è la vittima di questa guerra. Ma l'incursione terrestre sarebbe un disastro anche per Israele che subirebbe perdite enormi. Hamas resisterà fino alla fine e combatterà in modo irregolare e non c'è modo che un esercito convenzionale come quello israeliano possa vincere.
Khaled Meshal, leader di Hamas in esilio, alcuni giorni aveva dichiarato di essere disposto a firmare il cessate il fuoco. Ieri ha annunciato che Hamas è pronto a resistere all'invasione da parte israeliana.
Certo. Qui in Palestina questa guerra è percepita come una guerra contro il popolo e la causa palestinese non contro Hamas. Questo perché l'esercito israeliano a oggi ha ucciso 420 civili e ha ferito 2.900 palestinesi, tra queste migliaia di persone solo tre erano membri di Hamas. Israele continua imperterrita a bombardare le case dei civili, le istituzioni palestinesi presenti a Gaza ma chiaramente non riesce a colpire il cuore dell'organizzazione di Hamas.
Israele da sempre si difende argomentando che i membri di Hamas usano i civili per farsi scudo.
Questa è una scusa. I guerriglieri di Hamas si nascondo in tunnel sotterranei e l'intellighenzia israeliana lo sa benissimo e sa anche quanto sia difficile intercettarli. Certo i tre membri di Hamas che l'esercito israeliano ha ucciso si trovavano nelle rispettive case ma i leader, e con questo intendo dire le menti di Hamas, l'ala militare, non è stata catturata dagli israeliani che avrebbero difficoltà a scovarli anche nel caso invadessero Gaza.
Secondo lei Israele non corre il rischio di regalare popolarità ad Hamas, che in questi due anni stava perdendo consistentemente l'appoggio della popolazione di Gaza?
Quando vengono uccisi civili palestinesi da parte degli israeliani, il resto della Palestina scende in piazza. È comprensibile, quindi, che in questi casi Hamas goda di popolarità perché viene percepita alla stregua degli abitanti di Gaza, vale a dire come la vittima. In genere, quando la situazione torna a una relativa calma, i palestinesi ricominciano a pensare politicamente. Le esigenze ora sono tre: la tregua, l'unità nazionale e la difesa dei palestinesi di Gaza.
Il sito israeliano Debkafile riferisce di una telefonata tra Bush e Olmert nel corso della quale il presidente degli Stati Uniti avrebbe dato il suo ok all'operazione israeliana e avrebbe inoltre assicurato che gli americani porranno il veto alla risoluzione dell'Onu che dovrebbe andare al voto lunedì nel caso in cui fosse espressa una condanna nei confronti di Israele. Ha fiducia nella nuova Amministrazione?
Sì, perché non può fare peggio di Bush che, con questa dichiarazione, si conferma un irresponsabile. Per otto anni ha appoggiato, senza se e senza ma, il Governo israeliano. Ci auguriamo tutti che l'Amministrazione Obama sia in grado e, soprattutto, abbia la volontà di rianimare il processo di pace e, magari, di portarlo a compimento.

Repubblica 4.1.09
Denuncia sull'Osservatore Romano. Gli esperti: pura fantascienza
"La pillola è aborto rilascia ormoni inquina e devasta l'ambiente"
di Paola Coppola

ROMA - Non solo è come l´aborto, ma inquina. La pillola contraccettiva di uso comune fa male all´ambiente, agli uomini, alle nascite. L´ultima crociata dell´Osservatore romano ? che non ha quale obiettivo la ormai arcinota pillola abortiva RU486, bensì il più comune anticoncezionale utilizzato da milioni di donne ? si consuma in un articolo a firma del presidente della Federazione internazionale delle associazioni dei medici cattolici, Pedro José María Simón Castellví. Secondo il quale la pillola contraccettiva non solo causa la morte del feto, ma devasta l´ambiente.
Scrive infatti Castellví: «La pillola denominata anovolutaria più utilizzata nel mondo industrializzato, quella con basse dosi di ormoni estrogeni e progestinici, funziona in molti casi con un vero effetto anti-impiantatorio, cioè abortivo, poiché espelle un piccolo embrione umano».
La presa di posizione del quotidiano cattolico non poteva non provocare dure reazioni da parte di medici ed esperti. Un vero e proprio coro di malcontento. «Fantascienza» la definisce infatti Gianbenedetto Melis, vice presidente della Società italiana della contraccezione che spiega come la pillola «non è in grado di provocare l´aborto in quanto impedisce l´ovulazione e se non c´è l´ovulo da fecondare non ci può essere gravidanza».
L´effetto "abortivo" della pillola è però solo uno degli aspetti stigmatizzati dal quotidiano della Santa Sede. Che se la prende anche con la natura anti-ecologica del contraccettivo. Scrive infatti Castellvì di «effetti ecologici devastanti delle tonnellate di ormoni per anni rilasciati nell´ambiente». E ancora: «Uno dei motivi per nulla disprezzabile dell´infertilità maschile in occidente (con sempre meno spermatozoi nell´uomo) è l´inquinamento ambientale provocato da prodotti della "pillola"».
D´altra parte per gli esperti questi «effetti ecologici» sono assurdi. Chiarisce Melis: «Gli ormoni contenuti nei contraccettivi orali, una volta metabolizzati dal fegato, non sono più in grado di indurre effetti ormonali femminili».
Insomma, pensare che la pillola possa provocare danni all´eco-sistema è una forzatura che non ha, secondo i medici, basi scientifiche.
Quanto all´infertilità maschile prima di prendersela con la pillola, meglio ricordare - precisa Flavia Franconi, presidente del gruppo farmacologia di genere della Società italiana di farmacologia - «che il mondo è pieno di sostanze ad attività estrogeniche».

Repubblica 4.1.09
"Ora il Papa alla Sapienza" il rettore sfida i laici
Il rettore: consegnato l’invito. E dopo il caso Morucci nuove regole per gli ospiti
Frati apre a testimoni anche "scomodi" come gli ex br. Però con il contraddittorio
di Carlo Picozza

ROMA. L´invito formale per una visita alla Sapienza, il rettore Luigi Frati l´ha consegnato direttamente nelle mani del Papa. Lo ha fatto «accogliendo la richiesta di Benedetto XVI di avere il foglio del discorso da me fatto in rappresentanza dei rettori e nel quale rinnovavo la richiesta di una sua visita».
All´incontro degli universitari romani con il Papa, per gli auguri di Natale nella tradizionale messa a San Pietro, è seguito «un segnale di attenzione da parte del portavoce del pontefice, due giorni dopo, con una sorta di assicurazione a raccogliere l´invito, cosa più unica che rara per padre Federico Lombardi».
Insomma, il Papa andrà alla Sapienza? «Penso proprio di sì. Sarebbe irragionevole rifiutarne ancora una volta la visita in una occasione opportuna». Ë quindi anche secondo l´attuale rettore sarebbe stata inopportuna la presenza di Benedetto XVI all´inaugurazione dell´anno accademico nel 705° anniversario della fondazione dell´università? «Inopportuna mi è sembrata la posizione dei 67 colleghi che hanno firmato la lettera contro, non tanto per l´espressione di una legittima laicità, quanto per i giudizi espressi sul pensiero del pontefice. L´università deve essere un luogo aperto: il suo compito è la diffusione delle conoscenze scientifiche e della cultura. Con un´unica regola: che a trattare gli argomenti siano quanti sulla materia hanno studiato, fatto ricerche e pubblicazioni». Perciò ribadisce il suo "no" secco all´ex br Morucci? «Terrorismo, Foibe, Olocausto: sui grandi temi siano gli esperti a parlare. Vengano qui a insegnare o a incontrare gli studenti e, se ce ne fosse bisogno, siano loro a chiamare i protagonisti, aggressori, testimoni e vittime, degli eventi tragici oggetto di studio o del solo confronto». «Quanti si sono macchiati di sangue non si erigano a maestri», dice. «Neanche quando, sinceramente pentiti, possono mettere a disposizione la loro esperienza. Occorrono, filtri, strumenti e regole per il confronto su questi temi se non si vuole offendere la memoria di quanti non possono più dire la loro». E le «regole» - il giorno dopo l´alt alla "lezione" dell´ex brigatista rosso componente del gruppo di fuoco della strage in via Fani, del sequestro e dell´assassinio di Aldo Moro - Frati le sta preparando, insieme con una lettera a docenti e studenti del Senato accademico e del cda dell´ateneo. Quali sarebbero? «Quelle che consentano all´università di svolgere le attività di formazione e ricerca rifuggendo da tentazioni che ne snaturerebbero il ruolo. Questo è luogo di studi non un Parlamento né una tribuna politica».
Ma il rettore vuole tornare sulla visita del pontefice. Fruga tra i file del suo computer: «Ecco il testo letto davanti al Papa e che lui, alla fine del mio intervento, mi ha chiesto di lasciargli: "Confesso di non aver capito, da ricercatore prima che da credente, il pregiudizio che nel gennaio 2008 ha mosso chi ha fatto riferimento al caso Galileo per giustificare una contrarietà alla Sua visita alla Sapienza. E come rettore, nella prolusione all´anno accademico, ho detto che attendiamo una Sua visita. Invito che in questa occasione rivolgiamo a Lei, studioso raffinato di filosofia, ma anche a Lei come vescovo di questa città"». «Un anno fa», continua Frati, «un gruppo di colleghi scrisse al rettore di allora ritenendo inopportuno l´invito al Papa a tenere la prolusione all´anno accademico. Non si trattava di una prolusione, ma di un intervento dopo l´inaugurazione. L´invito a tenere la prolusione non c´è mai stato e non ci sarà. L´invito a venire alla Sapienza c´è stato e ci sarà ancora. Con modalità senza equivoci».

Repubblica 4.1.09
Luca Cavalli Sforza replica all'editoriale del quotidiano della Cei. "Ognuno ha diritto alle sue idee"
"Il caso Englaro è intollarebile È ora che decidano i cittadini"
di Mario Reggio

Chi si avvia alla morte senza speranza ha diritto di chiedere di staccare la spina nel modo meno pesante e terribile. Per me e per molti altri è un diritto etico, civile

ROMA - «La vicenda di Eluana Englaro è veramente insopportabile. Il diritto a morire è un principio umano inalienabile. Perché i politici temono un referendum popolare? Forse hanno capito che non sono in grado di valutare, e non lo vogliono, il pensiero dominante tra i cittadini. E io non mi fido di loro, perché potrebbero tentare tutti i trucchi possibili per evitare un confronto reale. D´altro canto il trasformismo, in Italia, è di casa dall´800».
Il professor Luca Cavalli Sforza, mito della scienza genetica internazionale, fino all´agosto del 2008 professore emerito all´università di Stanford, membro delle più prestigiose Commissioni internazionali, compresa quella vaticana, stenta ad entrare in polemica con il professor Francesco D´Agostino, editorialista del quotidiano Avvenire. Poi si lascia andare.
Cosa le ha dato fastidio delle sue affermazioni?
«In primo luogo quando dice che io e mio figlio Francesco abbiamo "il desiderio narcisistico di far conoscere le nostre fragili idee bioetiche". Io Francesco D´Agostino non lo conosco di persona, l´ho sentito nominare, mi dicono che sia cattolico osservante, ma ognuno ha diritto alle sue idee. Mio figlio Francesco insegna Filosofia al San Raffaele di Milano ed è un profondo conoscitore delle questioni politiche, comprese quelle italiane. Io sono stato fuori dall´Italia per 40 anni e lui mi aiuta a capire questo strano mondo dove i diritti delle persone, compreso quello di decidere di interrompere un´esistenza di sofferenza e senza prospettive è considerato uno scandalo, a differenza di tutti i Paesi occidentali».
D´Agostino afferma che lei rischia di vanificare i suoi eccezionali risultati scientifici.
«Sul piano etico spero che anche in Italia ci sia il diritto di esprimere il proprio pensiero, senza che qualcuno minacci sanzioni scientifiche. Tra l´altro vorrei conoscere il curriculum scientifico genetico di chi lancia queste minacce. Sul versante bioetico non temo confronti».
E sull´accanimento terapeutico?
«Francesco D´Agostino si dice contrario, ma io nutro seri dubbi. Riconosco ai medici di rifiutare di staccare il sondino. Ma ricordo che in presenza di una malato terminale la sofferenza è doppia: a quella di chi sta in fondo al viale si somma quella della famiglia e delle persone che gli vogliono davvero bene. Se il cervello è colpito di mancanza di funzionalità totale perché prolungare il calvario? In nome di cosa? Se la persona è credente, se la famiglia la pensa alla stessa maniera, quindi tutti vogliono seguire i principi della Chiesa cattolica nessuno nega loro il diritto di seguire la loro strada. Ma perché imporla anche a chi non crede alla vita eterna?».
Quindi la scelta di morire è un diritto della persona?
«La morte, assieme alla nascita, è l´unica certezza dell´esistenza umana. Chi si avvia alla morte senza speranza ha diritto di chiedere di staccare la spina nel modo meno pesante e terribile. Per me e per molti altri è un diritto etico, civile, inalienabile».

Repubblica 4.1.09
La seconda vita dell'Anarchia
di Guido Rampoldi

L´acuirsi della crisi economica potrebbe dare ulteriore slancio alle proteste studentesche in Europa. Ecco perché tornano sotto i riflettori gli anarchici e in particolare gli anarco-insurrezionalisti. Ma i ragazzi che scendono in piazza non hanno molto a che fare con la storia e le idee della A cerchiata

A Salonicco hanno attaccato una chiesa, ad Atene hanno bruciato il grande albero di Natale della municipalità, e ovunque hanno scritto sui muri, in inglese, «No control», nessun controllo: abbastanza perché perfino nella lontana San Francisco un circolo di simpatizzanti della rivolta greca, Collective reinventions, cogliesse con una certa apprensione «un legame con gli anarchici spagnoli più radicali, quelli che si definivano los incontrolados». Non è un complimento. Durante la Guerra civile spagnola gli incontrolados bruciarono dozzine di chiese; ammazzarono settemila religiosi; e, dove non trovarono preti, fucilarono crocefissi. La loro ferocia ossessiva e compiaciuta non era diversa dalla ferocia sterminatrice della destra carlista, cattolica. Ma offrì agli stalinisti il pretesto per liquidare il più forte movimento anarchico della storia; e convinse le tremebonde sinistre britannica e francese a negare alla Repubblica spagnola le armi con cui avrebbe potuto difendersi dall´esercito di Franco. Insomma gli incontrolados furono la quinta colonna del nemico.
Di tutto questo i "No control" greci sanno quanto i poliziotti che ad Atene li affrontavano, cioè nulla. Avevano a disposizione un´università, una grande biblioteca e tre settimane per imparare dal passato da cui pretendono di discendere. O magari per trovare ispirazione nel nuovo pensiero anarchico, ormai quasi tutto nordamericano. per esempio in quel David Graeber (Frammenti d´una antropologia anarchica, 2004) che prende a modello le società prive di governo, forse minimizzando il fatto che le tribù amazzoniche considerano lo stupro delle forestiere un´attività venatoria e i Tiv della Nigeria barattano le ragazze in età da marito come fossero capre. Ma poiché i "No control" sembrano mancare proprio della qualità più anarchica, l´immaginazione, invece di produrre idee si sono applicati ad attività più prevedibili, saccheggiare bancomat, svaligiare negozi e scontrarsi con la polizia. Con queste credenziali, hanno attratto un gran numero di ultras del calcio, e in misura molto minore, giovani immigrati, insomma segmenti di popolazione che hanno motivi per detestare la polizia greca. Ma in Europa non hanno riscaldato i cuori di quella generazione senza bandiere che attende un orizzonte suggestivo e un´utopia possibile, quanto la sinistra tradizionale oggi ha difficoltà ad offrire.
Poiché l´ottimismo è nei geni della rivoluzione, dall´antica capitale dell´anarchismo, Barcellona, un documento di nuovi incontrolados apparso sul sito Indymedia annuncia che la storia potrebbe invertire il suo corso: dopo la rivolta greca, dopo le proteste studentesche francesi, italiane e spagnole, «in tutta l´Europa i governi tremano», terrorizzati dalla possibilità che la «gioventù occidentale insorga per dare il colpo finale a questa società». In realtà non si vede traccia di tutto questo panico. Presto arriveranno rapporti preoccupati dagli apparati di sicurezza, per i quali allarmarsi è un obbligo professionale, sul lavorio occulto degli "anarco-insurrezionalisti". Ma quando diventano materia di processo, le cospirazioni "insurrezionaliste" tendono semmai a rivelare il carattere catacombale e velleitario di quei gruppi, oltre alla loro sempiterna vocazione ad attrarre provocatori. Però l´acuirsi della crisi economica potrebbe dare slancio in Europa alle proteste studentesche: in quel caso le varie "onde" diventeranno rabbiosi cavalloni, come ad Atene in queste settimane? Oppure il capitalismo globalizzato riuscirà a sventare l´attacco anche grazie al carattere inafferrabile della sua natura, come accade nel film Louise-Michel, che è anche il nome di una gloriosa anarchica francese, quando le operaie decidono di accoppare il padrone che chiudendo la fabbrica le ha messe in mezzo ad una strada? Se dovessimo azzardare una risposta diremmo che in buona parte dipenderà dal modo in cui ciascuna polizia affronterà le emergenze.
In dicembre un ragazzo ateniese che avesse ricavato l´immagine dello Stato dal comportamento delle forze dell´ordine, avrebbe avuto qualche motivo per simpatizzare per l´anarchismo. La polizia greca non ha fama di correttezza e di probità. I suoi standard sembrano più balcanici che occidentali. Ha servito con zelo la dittatura militare, si è riciclata nella democrazia senza subire epurazioni significative, e in seguito, governasse la destra o la sinistra, ha goduto di una certa impunità. Non sono pochi i giovani e gli immigrati che ne hanno un´esperienza negativa, certo non smentita dagli scontri di Atene. L´uccisione del quindicenne Alexis Grigoropulos può essere attribuita alla devianza di un singolo agente, ma se stiamo alle testimonianze di alcuni universitari, un gran numero di poliziotti irrideva i dimostranti alludendo a quell´omicidio («Dov´è il vostro Alexis, fighette? Uccideremo anche voi»). Se a tutto questo si aggiunge la tradizione violenta di una parte della sinistra radicale greca, non sorprende il carattere aspro e sregolato dello scontro ateniese.
Le polizie europee sono diverse: ma quanto diverse? Dopo il disastro di Genova la polizia italiana ha dimostrato una lodevole capacità di correggersi. Ma la permanenza nei ranghi dei colpevoli, e il sabotaggio di processi che chiamano in causa agenti, non possono non avere effetti sui codici interni dell´istituzione. Inoltre gli anarchici appartengono da sempre al novero delle categorie umane che ogni polizia europea può trattare rudemente, in quanto la mentalità comune li ritiene implicitamente colpevoli e non meritevoli di piena tutela giuridica. Lo conferma anche il fatto che in tanti anni nessuna istituzione dello Stato abbia sentito l´obbligo di chiedere scusa alla famiglia di Pinelli, a Pietro Valpreda, a Roberto Mander, arrestato a diciassette anni con Valpreda e pochi mesi dopo, raggiunta la maggior età, scaraventato nel supercarcere di Trani. Erano tutti innocenti. Però anarchici, dunque sinonimo di violenza e di caos.
Ma all´affermarsi di questo stereotipo in parte ha contribuito lo stesso anarchismo rifiutando di fare i conti in pubblico con la propria storia. Nel 1999, quando gli anarchici riapparvero sul palcoscenico della cronaca nei panni dei No global che contestavano il G7 a Seattle, la stampa americana scrisse: torna l´idea che non vuole morire. In realtà l´anarchismo non è un´idea ma un arcipelago di idee, molte delle quali sopravvivono senza ragione o senza merito, o comunque sono incompatibili con altre. La principale linea di frattura risale al tempo della Guerra civile spagnola, e negli anni Cinquanta fu formalizzata nei congressi francesi che di fatto certificarono la morte dell´anarchismo spagnolo. Opponeva "pellerossa" e "politici", i mistici dell´azione diretta e i teorici della via politica. Al tempo della Repubblica i primi produssero solo guasti; i secondi ruppero il tabù, entrarono nel governo e produssero, insieme ai liberali di Azana, quanto di meglio abbia lasciato in eredità quel tempo forte e crudo: dal femminismo all´ecologismo.
Consapevoli o no, alla mistica dell´azione diretta si rifanno i Black Blocs e i No control, gente di mano che l´anarchismo più politico osserva con uno sguardo scettico, quando non con disgusto. Però i "politici" faticano a trovare uno spazio incontaminato sul quale piantare le loro bandiere rosso-nere. Si oppongono al dominio del libero mercato ma non si fidano interamente del movimento No global, un territorio in cui confluisce di tutto, e forse avvertono che la globalizzazione non è poi il diavolo, se relativizza la sovranità dello Stato e diffonde diritti universali. Restano fieramente anticlericali ma mai brucerebbero una chiesa, tanto più in un Paese come la Grecia dove la curia ha un ruolo marginale. Contestano d´istinto le guerre e il ricorso allo strumento militare ma non possono dimenticare che l´anarchismo non fu pacifista, e anzi, alla vigilia della Seconda guerra mondiale, disprezzava il pacifismo europeo con intensità e motivo («Credere che una politica di non intervento elimini la possibilità di un conflitto armato - scriveva Camillo Berneri nel 1936, un anno prima di essere assassinato a Barcellona da un sicario stalinista - permetterebbe a Italia, Germania e Portogallo di preparare meglio la loro guerra»).
A complicare l´identità dell´anarchismo concorre la sua estraneità alla sistematizzazione concettuale, speculare alla diffidenza verso forme rigide di organizzazione politica. Questo ha prodotto un moltiplicarsi di anarchismi di nicchia fondati sull´elaborazione di temi specifici. C´è un anarca-femminismo, un eco-anarchismo, un etno-anarchismo, un internet-anarchismo legato al Free software movement, senza contare le varianti generalmente considerate spurie o "di destra", come l´anarco-individualismo di Stirner e l´anarco-liberismo di Rotbard, per il quale la tassazione è una forma di odiosa oppressione statuale. Trovare il bandolo di tutto questo è già impegnativo, ma non sufficiente: bisogna poi aggiungere l´obbligo di una vita esemplare, giacché l´anarchismo, al contrario del leninismo, prescrive una coerenza etica tra fini e mezzi. Insomma fare davvero l´anarchico è una gran fatica. Svaligiare bancomat e saccheggiare negozi è più semplice, e anche più proficuo. Ma è un´altra cosa.

Repubblica 4.1.09
Vecchi compagni e No control
di Jenner Meletti

IMOLA. La lapide è in municipio. «È l´alba del secolo novo, gettate fiori a piene mani». La data è quella del primo gennaio 1901, quando le Società popolari di Imola fecero scolpire nel marmo le parole di Andrea Costa. «Lanciamo al secolo che non ci vide nascere ma ci vedrà morire / il nostro core vivo. Pensando lavorando combattendo amando / dalla scienza illuminati / diamo oh! diamo a tutti i figli delli uomini / lavoro libertà giustizia pace». Il «secolo novo» è finito, un altro è già bambino. Andrea Costa, anarchico e socialista, per tanti è solo il nome di una curva dello stadio di Bologna. Il «trionfo delle classi lavoratrici» resta un sogno, e non troppo diffuso.
«Ma noi siamo ancora qui, a tenere accesa la luce». Claudio Mazzolani, cinquantacinque anni, informatico, cura assieme ad altri l´archivio della Fai, la Federazione anarchica italiana, in un ex convento messo a disposizione dal Comune. «Questa fascia nera, con la scritta "Gruppo giovanile comunista anarchico Imola", tessuta e ricamata prima del fascismo, durante il Ventennio è stata nascosta nella grondaia di un palazzo. Ecco, questo è il manifesto che annuncia la morte di Louise Michel che prese parte alla Comune di Parigi?». Centinaia di faldoni con documenti arrivati da tutta Italia. «Noi anarchici ci troviamo tutti qui, aderenti o no alla Fai. Organizziamo conferenze (l´ultima su Economia e geopolitica dopo Wall Street) e anche cene di autofinanziamento. Sono importanti, le cene. In ogni nostra sede ci sono la cucina e la cantina. Da noi vale ancora l´antico principio: "Da ciascuno secondo le proprie capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni". Se non hai soldi in tasca, puoi mangiare e bere senza pagare. Alla fine della cena scopriamo che l´incasso è sempre alto, tutto funziona perfettamente senza fissare un prezzo».
Sono orgogliosi e cauti, gli ultimi anarchici. «Abbiamo paura delle parole perché abbiamo solo quelle e dobbiamo usarle bene, soprattutto quando cerchiamo di spiegare cosa vuol dire essere anarchici». Nessuno parla a nome degli altri. «Io - dice Claudio Mazzolani - rappresento solo me stesso. Anarchia per me è la ricerca della felicità. È lottare per gli altri, anzi no, perché non siamo cattolici. Anarchia è lottare con gli altri compagni. Sì, continuiamo a chiamarci compagni, come facevano i nostri padri e i nostri nonni, perché i principi dell´anarchia sono rimasti immutati in un mondo che è cambiato. Ma noi siamo sempre quelli: l´anarchico è convinto che possa esserci un altro mondo, dove la solidarietà e la libertà possono determinare i comportamenti reali della società. E per fortuna con noi ci sono gli studenti anarchici e anche gli operai impegnati nel sindacato. Quanti siamo? Noi non abbiamo tessere e non vogliamo dare numeri. In nessun senso».
Strana galassia, quella anarchica. Circoli, sedi, librerie, associazioni con le bandiere rosso nere sono presenti da Palermo a Milano, ognuno con la propria storia e la propria "individualità", ma per avere notizie di questo mondo frastagliato, come ai tempi del vecchio Pcus, bisogna rivolgersi a un´unica "Commissione di corrispondenza della Fai" che ha sede a Palermo. Gentilissimi, anonimi interlocutori rispondono via mail solo a domande scritte. «Essere anarchici? Significa, oggi come sempre, credere fermamente nella possibilità di organizzare la vita, la società, gli interessi individuali e collettivi fuori e contro ogni imposizione autoritaria? Essere anarchici significa coltivare incessantemente il proprio spirito critico. La politica? Quella che è mero esercizio di potere non ci interessa. Noi siamo per un´azione politica diretta, nell´impegno che ciascuno può esercitare in prima persona, senza alcuna delega alle istituzioni».
Molto forte, fra gli anarchici, il ricordo - e il rimpianto - del passato. «E noi cadrem in un fulgor di gloria / schiudendo all´avvenire novella via / dal sangue spunterà la nuova istoria / de l´Anarchia». L´Inno della Rivolta, del 1904, esalta «lo schianto redentore» della dinamite. Qualcuno non si accontenta di cantare i vecchi inni. La A di anarchia ha siglato attentati e violenze. Bombe carta e molotov di «anarco-insurrezionalisti» sono state lanciate nei giorni scorsi contro banche Unicredit a Bologna, Messina, Trento, Torino? «La violenza, di per sé - precisa la Commissione di corrispondenza - non è una caratteristica della pratica anarchica. Non utilizzeremo mai una violenza di tipo avanguardistico perché l´anarchia non si può imporre. La rivolta contro l´oppressione diventa una sterile fiammata se non costruisce, se non sa contaminare l´ambiente in cui vive. Gli anarchici, comunque, quando nel corso della storia hanno intrapreso azioni violente, se ne sono sempre assunti chiaramente la responsabilità. Si pensi agli attentati contro teste coronate e presidenti: sempre molto mirati e sempre, comunque, moralmente sostenuti da grandi masse di lavoratori e oppressi».
Come nei film western i cattivi stanno da una parte sola. «L´esercizio della violenza e il suo monopolio "legittimo" appartengono allo Stato e alla sua prassi: bombe, stragi, terrorismo, guerre, strategia della tensione, montature giudiziarie e suicidi di Stato sono tutti attrezzi del mestiere usati ancora oggi da chi detiene il potere per reprimere le lotte e criminalizzare il dissenso. Noi invece vogliamo costruire una società che sappia fare a meno della violenza e della sopraffazione».
L´ultima festa, al centro sociale Torchiera, «cascina autogestita» di Milano, è stato il Quattordicesimo Natale anticlericale: «Contro ogni crociata, un Natale pirata, con letture et interpretazioni eretiche, canti anticlericali et bolle di scomunica». Massimo Varengo, ex professore di fisica, dirige la casa editrice Zero in condotta nella città di Giuseppe Pinelli. «L´anarchia - racconta - ancora oggi è viva e vegeta. A Milano ci sono sedi, circoli culturali, centri studi. La componente libertaria è presente nell´Arci e anche in tanti centri sociali come la cascina Torchiera. Del resto essere anarchici oggi è molto facile: tutto ciò che sta succedendo conferma la validità dei fondamenti dell´anarchismo. Le guerre, i conflitti sociali, le disuguaglianze dimostrano l´incapacità del sistema autoritario di dare risposte all´umanità e alla natura stessa, con devastazioni che rubano il futuro al mondo». Già nel 1892, un secolo prima di verdi e ecologisti, nell´Inno dei malfattori scritto da Antonio Panizza si cantava una «natura, comun madre» che «a niun nega i suoi frutti / e caste ingorde e ladre / ruban quel ch´è di tutti». «Osservando ciò che sta accadendo - dice l´editore milanese - si comprende che l´anarchia è l´unica possibilità di uscita. A un mondo di libertà si giunge solo con la libertà e non con meccanismi autoritari che ricreano nuovi poteri».
La sinistra messa in crisi anche dalle inchieste giudiziarie non sorprende il professore. «Il potere può corrompere tutte le teorie che si vogliono misurare sul terreno della trasformazione sociale e politica. Si corrompono nel momento in cui esercitano potere in collusione con il sistema gerarchico». Dura da oltre un secolo l´incontro-scontro con la sinistra, prima socialista poi comunista. A volte ci sono momenti di pace. A Fidenza, il 15 dicembre, è stata inaugurata una stele dedicata ad Alberto Meschi, anarchico, nato in questa città e poi sindacalista fra i cavatori di marmo di Carrara. Agli inizi del secolo scorso riuscì a ridurre a sei ore l´orario di lavoro nelle cave. Assieme ai sindaci di Carrara e Fidenza, ambedue di centro sinistra, ha parlato l´anarchico Gianandrea Ferrari, libraio di Reggio Emilia: «Preoccupato per l´alcolismo dilagante Alberto Meschi ottenne che la paga non venisse più consegnata il sabato nelle cantine, bensì sul luogo di lavoro o in piazza».
Ma sono rari, i momenti di tregua. Poco lontano, a Modena, i ragazzi anarchici del circolo Unidea ricordano ancora l´8 agosto. «Avevamo un centro sociale - ricorda Francesca - chiamato Libera. Un vecchio casolare, ristrutturato da noi, con attorno la terra coltivata come natura comanda. Un luogo dove trovarci, discutere, cercare di partecipare alle scelte della città. Il sindaco, proprio durante le ferie d´agosto, ha mandato le ruspe, protette da polizia, carabinieri e vigili urbani. Hanno distrutto tutto. Il Pd ricalca le orme dei Ds, del Pds e del Pci: spazza via tutto ciò che lo disturba. I sindaci di sinistra si comportano esattamente come quelli di destra».
«L´importante - ripete Claudio Mazzolani, della Fai imolese - è continuare a tenere la luce accesa. Qui a Imola vogliamo raccogliere anche le bandiere dell´anarchia che già sono state a Reggio Emilia, nella mostra Orgoglio e amore. La più bella è quella di San Pietro in Trento, frazione di Ravenna. Fu distrutta dai fascisti nel 1925. Dopo la liberazione, gli anarchici trovarono il fascista colpevole dell´oltraggio e lo costrinsero? a preparare una nuova bandiera, ricamandola a mano. Ecco, questa mi sembra una storia di vera anarchia».

Corriere della Sera 4.1.09
Paolo Rossi. L’apocalisse può attendere.1
L'utopia La polemica con gli intellettuali «nuovi sciamani»
Contro il neo-catastrofismo di Asor Rosa, Ceronetti, Bodei
di Alberto Melloni

La speranza taglia il nostro tempo in parti diseguali. Da un lato la regione in cui la speranza s'è eclissata, quasi che nulla si potesse attendere dal futuro che non sia il rallentarsi del passo del peggio: ed è la nostra, dove la caduta dei mercati, quasi come in un Ottantanove dell'Occidente, non ha causato né frastuoni né rivoluzioni, ma un mero intasarsi di angosce e meschinità. Dall'altro lato le speranze che scuotono la superficie immobile della storia: quelle che hanno smosso i mondi segregati per obiettivi tanto reali quanto ardui, come quello della fine dell'apartheid o perfino del riscatto impersonato dalla vita, prima ancora che dall'elezione presidenziale, di Barack Obama. Ma un terzo ambito, forse il più grande, è quello che il bel libro
Speranze di Paolo Rossi chiama le «speranze smisurate»: quelle che hanno mobilitato generazioni nell'attesa di una palingenesi sociale e socialista dietro la quale resta una scia di disincanto, spesso degenerato nel cinismo di cui quell'eccitazione non è incolpevole.
Con queste futurologie ideologiche il filosofo fiorentino polemizza con feroce ironia, stigmatizzando coloro che in vista di quelle attese hanno prodotto le profezie a basso prezzo e le escatologie secolarizzate un tempo d'impronta marxiana, oggi più spesso ecologista. Se un tempo l'autoillusione produceva materiali politici, oggi è spesso nell'orizzonte della più artificiale delle idee — la «natura» — che si innesca il perverso congegno della paura: la visione d'un futuro d'inferno — e non è un caso che anche davanti alla prospettiva di un pianeta inondato da ghiacci sciolti si parli di «riscaldamento globale » con una evidente allusione alla cifra termica dell'inferno — è stata infatti puntualmente smentita dagli sviluppi delle conoscenze che hanno relativizzato la fine del mondo. Ma come nella vecchia catechesi (osserva Rossi ricamando sul Pomponazzi) anche questa visione cupa del futuro serve ad educare quello che si ritiene volgo e per questo merita il sarcasmo del dotto studioso.
Al contrario, le speranze ragionevoli che Rossi loda e raccomanda sono quelle che mirano a incidere sul tempo senza bisogno di ricorrere alle paure o all'illusionismo intellettualistico, che resistono alla tentazione di andare ultra vires
con mite eroismo. Per questo producono una pragmatica disincantata, che riesce a leggere nel lento e deludente spostarsi degli indici del male (quelli della fame, del sottosviluppo, eccetera) una chiamata alla intensità della propria azione e del proprio rigore, piuttosto che il frammento del grande mosaico dove, ideologumeno dopo
ideologumeno, apparirà il sol dell'avvenire.
Per quanto si senta in molte pagine il desiderio di stigmatizzare l'intellighentsia italiana — graffiante con Asor Rosa, Rossi morde la visione sciamanica dell'heideggerismo di Volpi, non risparmia allusioni feroci a Citati e a Ceronetti, a Schiavone e a Zolo, fino a quelle tacite a Severino e a Bodei — Speranze è libro che interroga a fondo ogni esperienza. Anche quella religiosa che sulla qualità delle speranze viene giudicata. Leggendo queste eleganti pagine, viene infatti da chiedersi cosa sia accaduto alla speranza teologale: non a caso Rossi chiude facendo sua una frase di Benedetto XVI che alla speranza ha dedicato la sua prima enciclica. Ma si tratta di una finta chiusa: perché la questione di come le speranze secolarizzate (con correlativa secolarizzazione di inferni, paradisi, uomini nuovi e terre promesse) abbiano ammutolito la speranza della redenzione rimane aperta. E su come la si interroga il modo in cui Rossi scuote la filosofia, è una lezione.

Corriere della Sera 4.1.09
Paolo Rossi. L’apocalisse può attendere.2
La scienza Le sfide della modernità oltre tutte le certezze
Ottimisti e pessimisti assoluti così uguali sotto la maschera
di Giulio Giorello

«Una nuvola in cielo: prima sembra un coccodrillo, poi la faccia di una bella ragazza », scherza Paolo Rossi ogni volta che qualcuno pretende di aver compreso il fine (o la fine) della storia. E si disegna sul volto dello studioso — uno dei maggiori rappresentanti della «storia delle idee» — un sorriso tra il malizioso e lo scettico. Cita una poesia di Montale: «La storia... si sposta di binario e la sua direzione non è nell'orario» — come quel bizzarro treno che Topolino ha preso nel corso di una delle sue avventure irlandesi; ma un cartellone lo aveva avvisato, sul tabellone quel treno era segnato con «Partenza: ora» e «Arrivo: forse» (per la cronaca, si tratta di La scarpa magica, del 1953). Come dire che l'inizio è sempre adesso e il destino non è mai compiuto.
Nel 2006 Rossi ha pubblicato (presso Raffaello Cortina) un elegante affresco del Rinascimento visto come Il tempo dei maghi, ove ancora si è convinti che... recitare la giusta formula permetta di cambiare il corso degli eventi. Oggi ci ammonisce che quel tempo non è finito — almeno non per tutti. Abbondano personalità di spicco che, per esempio, lamentano il dominio della tecnica, annunciano la guerra tra le civiltà o rilanciano il tramonto dell'Occidente. Sono dei maghi, se si tratta di politici; si accontentano del ruolo di profeti, se sono degli intellettuali. Rossi invita a sospettare di entrambe le categorie (e, se possibile, di farne addirittura a meno): si trova in ottima compagnia, quella di Primo Levi, che invitava ad accontentarsi di verità ben più modeste, «quelle che si conquistano faticosamente con lo studio, la discussione e il ragionamento, e che possono essere verificate o dimostrate ». Ai tempi eroici dell'Urss c'era chi celebrava l'onnipotenza del marxismo con queste parole: «Perché credi che Lenin giaccia a Mosca perfettamente intatto? Attende la scienza, vuole risorgere dai morti». Intanto Stalin «liquidava» (anche) quel tipo di intellettuali. Nel suo recentissimo
Speranze (il Mulino) Rossi non risparmia ottimisti e pessimisti assoluti, così diversi in superficie, così uguali sotto la maschera. Non attende alcuna redenzione, nemmeno dalla scienza. Questa resta un'attività pubblica e controllabile in cui nessuno ha il monopolio della verità né tantomeno quello dell'autorità. È un'impresa che apre nuove libertà, ma obbliga a inedite responsabilità — come i dibattiti sulla portata delle biotecnologie e la questione dell'accanimento terapeutico stanno a dimostrare. Ed è quasi impossibile prevedere le conseguenze di lungo periodo di questa o quella umana «invenzione ». È dunque inutile aspettarsi «un nuovo cielo e una nuova terra», come recita l'Apocalisse di Giovanni: accontentiamoci di sondare con i nostri telescopi il cielo che già abbiamo e di non devastare la terra che abitiamo. Ma senza fanatismi: Rossi non ama né scientisti a oltranza né ecologisti selvaggi.
Per concludere: Rossi formula la «modesta proposta» di sostituire alle speranze «smisurate » quelle «ragionevoli»; ne dà più di un esempio e quello che io apprezzo di più riguarda la vicenda che ha portato alla cessazione della lotta armata nella cosiddetta Irlanda del Nord occupata dall'esercito britannico. Persone che per decenni erano state sui lati opposti della barricata (repubblicani indipendentisti contro unionisti filoinglesi) si sono trovate fianco a fianco nello stesso governo. La stampa internazionale ha parlato persino di un «miracolo»; ma ho l'impressione che né Paolo né io crediamo ai miracoli.
Siamo invece disposti a scommettere su quel «faticoso lavoro» di cui parlava Primo Levi.

il Riformista 4.1.09
Testamento biologico. «Il mio partito deve dire se sta con me o con la Binetti e la Roccella»
Fine-vita, Marino sfida il Pd
di Alessandro Calvi

«È arrivato il momento che il Pd decida da che parte stare». Quella di Ignazio Marino è quasi una chiamata alla conta, in vista della riunione dei gruppi parlamentari convocata per il 16 gennaio. «Un partito che vuole governare il Paese - spiega il parlamentare democrat che è autore di un disegno di legge sul testamento biologico firmato da 101 senatori - non può continuare a mantenere una posizione poco chiara su temi così importanti come il fine-vita». Per farlo, però, nel Pd si deve superare un «imbarazzo» ad affrontare questi temi, pensando che «il mondo cattolico abbia una posizione uniforme». Tanto più che se il Parlamento votasse la legge voluta da Eugenia Roccella e Paola Binetti il risultato sarebbe di mettere i medici di fronte alla scelta se violare la legge o violare il codice deontologico.
Eugenia Roccella dice che legge sul fine vita questa volta si farà. Il Parlamento, però, appare incerto, come anche i due grandi partiti. E il Pd appare anche molto preoccupato per il rischio che la legge, alla fine, si rivelasse un boomerang.
Io appartengo a un partito che ha l'ambizione di governare questo Paese. Mi sembrerebbe assolutamente in contrasto con questa ambizione il fatto di non saper assumere una posizione chiara su un tema così importante. Ecco, mi sfuggirebbe il senso di un partito che non riuscisse a dire da che parte sta.
Già, però sino ad oggi è andata proprio così.
E infatti credo che nel Pd ci sia resi conto che questo passaggio non è più procrastinabile. Tanto che tutti i parlamentari sono convocati per una riunione il 16 gennaio al termine della quale dovrà emergere la linea del partito sulle terapie di fine vita e se i cittadini abbiano il dirito di esprimere indicazioni. Molti di noi sono convinti che a questo si debba arrivare anche con un voto a maggioranza.
Dunque, siamo alla conta?
Quale altro metodo c'è per arrivare democraticamente a una scelta? L'unico che conosco se manca l'unanimità è questo.
Sarebbe una novità. Ieri su Repubblica la Mafai parlava di un'ondata neoguelfa, facilitata dalla afasia della politica.
È come se ci fosse un imbarazzo ad affrontare i temi che vengono etichettati come eticamente sensibili, pensando che nel mondo cattolico vi sia una posizione uniforme che si identifica con le dichiarazioni di alcuni esponenti delle gerarchie. Ma non è così. Anzi, alla fine le posizioni di Binetti e Roccella sono piuttosto isolate mentre il dibattito è piuttosto vivace. Basta pensare alla lettera pubblicata da Repubblica di alcuni sacerdoti sempre sulla vicenda di Eluana Englaro. O all'appello sul sito www.appellotestamentobiologico.it, sottoscritto da oltre 30mila italiani, ciascuno dei quali ha anche scritto un pensiero. Se il ministro Sacconi o Eugenia Roccella li leggessero, scoprirebbero che la maggior parte sono credenti che pensano che le decisioni sul fine-vita le debbano prendere i cittadini e non lo Stato.
Anche sulla nutrizione?
Non voglio rispondere in termini vaghi come spesso fa chi ha responsabilità di governo. Pensiamo a un paziente che si ammala di tumore all'esofago e che, insieme al proprio medico, decide di spegnersi nella propria casa, con l'aiuto delle cure palliative, facendo a meno della cannula che, inserita nello stomaco, gli avrebbe consentito di nutrirsi ancora per un po' di tempo. La legge che vorrebbero Roccella e Binetti prevede che nutrizione e idratazione siano obbligatorie in qualunque fase della vita. Dunque, quando quel malato entrerà in coma, il medico si troverebbe di fronte a un bivio: violare il codice deontologico, che impone il rispetto delle scelte fatte nell'ambito dell'alleanza terapeutica, o violare la legge, che invece imporrebbe la nutrizione. E così ci sarebbero non uno ma migliaia di casi Englaro. E il tribunale diventerà definitivamente il luogo nel quale risolvere le questioni che riguardano il fine vita.