Siamo pronti ad acquistare Liberazione. Perché non ci rispondete?
di Luciano Ummarino*
Noi siamo Loop, i "corsari" che nel momento di grave criticità dell'editoria italiana hanno appena lanciato un nuovo bimestrale.
La crisi del quotidiano Liberazione , le proposte di acquisto da parte di un unico imprenditore, ci hanno spinti a formulare una proposta diversa per la tutela e il rilancio di un giornale indipendente, libero e di sinistra. Per questi motivi abbiamo costruito le premesse alla realizzazione di un consorzio aperto di società cooperative e piccole-medie imprese che potesse acquistare, in parte, o nella totalità il quotidiano Liberazione .
La forma consorzio non è stata scelta a caso. Avendo preso atto dell'impraticabilità dell'ipotesi di una " Liberazione senza padroni", abbiamo formulato l'ipotesi di affidarla a molti. Molti padroni sono meglio di uno, soprattutto nella tutela dell'indipendenza del giornale. Lasciando contestualmente aperte le porte del consorzio ad altre realtà che volessero in futuro entrare a farne parte. Forti di questa proposta, organizzata su una company partecipata, il 5 gennaio abbiamo incontrato il direttore di Liberazione Piero Sansonetti per vagliare le ipotesi ancora in campo.
E' emersa, ovviamente, la necessità di praticare una preventiva due diligence , un atto affidato a un soggetto terzo che chiarisce in maniera definitiva e trasparente lo stato dei conti della società in vendita. Il giorno stesso Piero Sansonetti, come da noi richiesto, ha comunicato la nostra manifestazione di interesse , all' amministratore del Prc.
Il giorno dopo (l'Epifania!) abbiamo appreso dell'anticipazione al 12 gennaio della direzione nazionale di Rifondazione prevista a fine mese, con odg di sfiducia al direttore di Liberazione e contestuale incarico ai due nuovi direttori: una cosa che sembra assomigliare molto alla proposta Luca Bonaccorsi.
Non vogliamo indagare quali siano stati i motivi che hanno spinto in un giorno di festa il segretario del Prc ad una accelerazione simile. Risulterebbe inoltre arrogante da parte nostra, intravedere un nesso tra la nostra azione e quella operata dal segretario Ferrero.
E' utile invece cercare di capire con quale modalità avvenga la dismissione di un giornale come Liberazione .
Ci si appresta ad alienare un patrimonio politico e culturale senza nemmeno vagliare adeguatamente altre proposte di acquisto, senza considerarne la diversità, la solidità.
E' preoccupante che questo avvenga perché è una modalità che va contro i più banali principi che regolano il più barbarico dei liberismi. Non si dovrebbe scegliere la proposta migliore, più trasparente e soprattutto quando è necessario garantire il futuro, l'indipendenza e la libertà di uno strumento di informazione?
In questi giorni non è successo nulla di tutto questo e anzi sembra che si mettano in campo tutti i mezzi per impedire una competizione trasparente e pubblica. A pagarne sarà Liberazione , i suoi giornalisti e lavoratori, e tutti noi.
per conto del costituendo consorzio B.G.I.
Luciano Ummarino
direttore editoriale di "Loop"
Luciano Ummarino
direttore editoriale di "Loop"
Liberazione 8.1.09
Sgrena e Greco tirati in ballo da un'agenzia smentiscono. Nelle mani del Cdr pronti dieci giorni di sciopero
Il toto-direttori non c'azzecca
Oggi i lavoratori incontrano Ferrero
di Beatrice Macchia
Parole in libertà? Sulla nostra pelle. In sintesi, questo è. Il toto-direttori (perché il plurale è d'obbligo) impazza sull'annunciato dopo Sansonetti a Liberazione . Almeno sulle agenzie stampa (o meglio su una), perché nei corridoi e nell'assemblea dei redattori di viale del Policlinico si respira un'altra aria. Oggi è prevista l'assemblea di tutti i lavoratori della testata col segretario di Rifondazione Comunista (e Fnsi e Associazione Stampa Romana) e l'assemblea dei giornalisti ieri ha confermato un pacchetto di 10 giorni di sciopero. Il messaggio è chiaro. Si attendono risposte e non balletti. C'è una trattativa di vendita? E' stato firmato o meno il protocollo d'interesse? E il doppio direttore che verrà, c'entra qualcosa con il piano di doppia direzione proposto da Bonaccorsi?. I giornalisti non possono leggere sulle agenzie notizie sul loro destino. A maggior ragione se l'editore è il partito della difesa degli interessi dei lavoratori. Sarebbe troppo chiedere di poter discutere del proprio destino prima che venga deciso e sigillato?
Tant'è, lunedì ci sarà la direzione defenestrante del Direttore Sansonetti e la nomina dei "direttori". Uno "politico" e uno di gradimento dell'editore Bonaccorsi o uno "politico" e un direttorese responsabile (giornalista)? Interni o esterni? Chi lo sa. L' Agi si spinge in là con le previsione che finora correvano sugli sms e la butta là: sarebbe Giuliana Sgrena, l'amica e collega de il manifesto , il "nome nuovo". L'interessata smentisce: «A me nessuno ha mai chiesto di fare il direttore di Liberazione». Sottotitolo: nessuna disponibilità. Così come fa, direttamente e senza appelli, il sindacalista bresciano, Dino Greco, collaboratore del quotidiano e attuale membro della Direzione nazionale Cgil. «Nessuno mi ha mai contattato». E' il classico toto-nomi. Quasi sempre a caso. Con le riproposte di personaggi storici di Rifondazione, i rumors su redattori interni, su altri sindacalisti, giornalisti e chi più ne ha ne metta. Lunedì si saprà. I meglio informati puntano su un binomio donna-uomo. Chi "politico" e chi "responsabile" si vedrà. Sempre ammesso che non vi siano altri "colpi di scena". Come l'apertura di un altro tavolo di trattative, l'annuncio della vendita a Bonaccorsi già firmata (o il suo ritiro) o la riconsiderazione del piano aziendale presentato alla Fnsi e alla Fieg e bocciato il 22 dicembre dalla Direzione Nazionale del Prc.
Per il direttore "quasi uscente" ieri un manifesto attestato di stima da Ritanna Armeni, editorialista del giornale e già membro del consiglio d'amministrazione «destituito» - lo dice lei - della Mrc S.p.A.: «E' in corso una pessima operazione che uccide un giornale fortemente innovatore ed una sinistra che uccide un giornale fortemente innovatore con un ottimo direttore dice di quali intenzioni ed intenti innovatori possa esser animata questa sinistra». «L'eventuale vendita rende ancora più negativa una operazione che aveva ed ha come obiettivo liberarsi di un ottimo direttore e di una linea politica fortemente innovatrice con una soluzione, la doppia direzione, ridicola, ridicola, ridicola, come se politica cultura e cronaca non fossero tra loro intrecciate».
Di avviso diverso invece, Pietro Folena, che in qualità di privatizzatore de l'Unità che fu e di portavoce di Uniti a Sinistra, loda Paolo Ferrero: «Trovo giusto e ragionevole il progetto di disimpegnare il Partito dal quotidiano in perdita, quel che ho trovato sgradevolissima è la polemica sopra le righe che ne è seguita: un segno inequivocabile dell'immaturità che c'è nella sinistra ed è quanto mai opportuno mettere il classico punto e a capo». «Vorrei tanto - continua Folena - che ci si concentrasse di più nella costruzione di una sinistra nuova, plurale, federale, in grado di competere». Il tutto è poco informato e anche un po' offensivo per i giornalisti di Liberazione che continuano a essere i fantasmi di questa pantomima. Ma così è.
Liberazione 8.1.09
«Gravissimo bypassare il sindacato»
di Antonella Marrone
Paolo Serventi Longhi, segretario per lunghissimo tempo della Federazione nazionale della stampa italiana, dal 1996 al 2007, dal giugno 2008 assume l'incarico di direttore di Rassegna sindacale , settimanale della Cgil. Di trattative sindacali ne ha fatte a centinaia. Oggi non ha molti dubbi: le relazioni sindacali si sono allentate, le aziende non hanno intenzione di rispettare quelle regole di trasparenza che dovrebbero guidare i passaggi cruciali della vita di una testata giornalistica.
A "Liberazione" sta succedendo la stessa cosa che in altri gruppi editoriali. Trattative riservate, passaggi di comunicazioni informali. Tutto questo va avanti da aprile. Una redazione che già all'epoca era stata preparata all'idea un piano di ristrutturazione, in perenne attesa, però, di sapere perché. Ed eventualmente come. Sono passati dieci mesi, tra calde promesse di condivisione e isterici richiami all'urgenza dello stato di crisi. In balia di conti effimeri. Inutile dire che sentirsi scavalcati per quanto riguarda le relazioni sindacali è un eufemismo. Soprattutto visto il tipo di proprietà...
Il problema è semplice: o c'è il rispetto delle regole o si lavora in una situazione torbida. Il contratto prevede il diritto delle rappresentanze sindacali ad avere comunicazione dalla proprietà, con un largo anticipo, su questioni fondamentali come nomine dei direttore, stato di crisi, ristrutturazione, riorganizzazione del lavoro. Ovviamente anche per il cambio di proprietà.
Nel caso di un piano di ristrutturazione o di un possibile stato di crisi ci sono dei passaggi obbligati?
Beh un confronto aziendale preliminare, soprattutto nel caso in cui bisogna ricorrere alla 416, è un atto dovuto. Certo se non si vuole trasparenza si fa presto, basta non presentarsi, presentare carte incomprensibili, rimandare gli incontri.
E il tempo passa. Ne hai visti molti di casi di "ristrutturazione" mascherati?
A bizzeffe. Un caso per tutti, clamororso, il gruppo Riffser ( Il Giorno , La Nazione , Il resto del Carlino ). Sono già alla settima ristrutturazione con piani senza riscontro sulla effettività della crisi, senza fase preliminare. Senza nessuna trasparenza. È veramente difficile trovare una proprietà che avvii un percorso lineare e corretto
A dire il vero noi pensavamo di essere in un "ventre di vacca", ma fino ad oggi ogni tentativo è stato ricacciato indietro...
Abbiamo vissuto insieme i momenti più drammatici dell' Unità , della crisi... Ricorderai quanta passione c'era nei colleghi. Anche in questo caso, è chiaro il legame politico e affettivo chiederebbe più rispetto. Lavorare in alcune aziende, presuppone che il lavoro non sia solo un affare di retribuzione, ma c'è anche un'adesione politica. Che vuoi, c'è poco da dire. Dal punto di vista sindacale è vero, purtroppo, che a fronte di una progressiva debolezza del sindacato - che si è accentuata nel corso degli anni - le proprietà hanno alzato la testa. Questo come sappiamo accade in tutti i settori del lavoro, non solo nel nostro. Ma certo è che la situazione si sta progressivamente aggravando e i Comitati di redazione, cioè i rappresentanti sindacali dei giornalisti, diventano sempre meno un interlocutore anche per questioni importanti nel campo dell'organizzazione del lavoro.
l’Unità 8.1.09
Intervista a Hanan Ashrawi
La parlamentare palestinese: di fronte al massacro in atto a Gaza dobbiamo rifiutare sia il terrorismo che la rassegnazione
«Al mio popolo dico: la via è la resistenza non violenta»
«Guardate quei filmati su YouTube. Imprimetevi nella mente lo sguardo terrorizzato dei bambini di Gaza. Guardateli negli occhi: troverete una paura senza fine. Molti di quei bambini sono morti di paura, quando non sono stati uccisi dai bombardamenti israeliani. Guardate quei corpi estratti dalle macerie delle scuole dell’Onu rase al suolo dall’artiglieria israeliana. Guardateli e chiedetevi: cosa c’è di “difensivo”, di moderato, in questo massacro d’innocenti?. Guardateli. E pensate cosa possono provare i loro fratelli o i loro padri, Su questi massacri sta crescendo in tutto il mondo arabo un odio profondo verso Israele». La sua voce è incrinata dalla commozione e dalla rabbia. Le sue parole sono impastate di sdegno. Se c’è una dirigente palestinese lontana anni luce dai fondamentalisti di Hamas, questa dirigente è Hanan Ashrawi, più volte ministra dell’Anp, prima donna portavoce della Lega Araba, paladina dei diritti umani nei Territori. «Ho sempre combattuto Hamas, ma non ho mai pensato che la sua sconfitta potesse venire da una prova di forza militare, per di più condotta da Israele. Già in passato Israele ha provato a decapitare la leadership di Hamas, assassinando il suo stesso fondatore (sheikh Ahmed Yassin, ndr.). Il risultato è stato il rafforzamento di Hamas. Israele aveva una carta da giocare per sconfiggere veramente Hamas: realizzare una pace giusta, fondata sulle risoluzioni Onu. La carta della nascita di uno Stato palestinese realmente indipendente, sovrano su tutto il suo territorio nazionale. Invece ha spacciato per uno “Stato in fieri” i bantustan della Cisgiordania».
A Gaza si continua a combattere. Le armi si sono fermate per sole tre ore. È ancora guerra totale.
«No, a Gaza non è in atto una guerra totale. A Gaza è in atto un massacro totale. A morire, a centinaia, sono donne e bambini, come quelli sepolti sotto le macerie delle scuole dell’Onu bombardate nella Striscia».
Israele afferma che la sua è un’azione difensiva.
«Difensive sono le tonnellate di bombe sganciate sull’area più densamente popolata al mondo? Inorridisco al solo pensarlo. Ho sempre denunciato la militarizzazione dell’Intifada. Hamas è parte di questa degenerazione che ha fatto solo il gioco dei falchi israeliani. Da tempo ritengo che tra terrorismo e rassegnazione, vi sia una terza via più efficace e coraggiosa: quella della resistenza non violenta...».
Linea contestata da Hamas.
«Lo so bene. Ma niente può giustificare la mattanza che Israele sta praticando a Gaza. Niente. In tempi meno tragici avevo chiesto il dispiegamento di una forza d’interposizione ai confini fra Gaza e Israele. Prima di Hamas, a dire un no secco è stato Israele, perché intendeva quella forza di pace come il cedimento ad una “internazionalizzazione” del conflitto israelo-palestinese. E invece solo una “internazionalizzazione” del conflitto può ridare una chance al negoziato».
Può essere Al Fatah del presidente Abu Mazen la vera alternativa a Hamas?
«Hamas ha costruito le sue fortune elettorali sul discredito di una classe dirigente accusata, e a ragione, di corruzione e incapacità. Senza un profondo rinnovamento non solo di persone ma della concezione stessa di governo, l’alternativa a Hamas sarà la disgregazione...».
Pace è una parola impronunciabile?
«No, è una parola che va riempita di contenuti, alla quale i legare un’altra parola-chiave, altrettanto importante: . Giustizia. Quella che da decenni il mio popolo reclama invano».
Liberazione 8.1.09
Che diremmo se Hamas avesse ucciso 600 israeliani?
di Robert Fisk
E così ancora una volta Israele ha aperto le porte dell'inferno ai palestinesi. 40 civili che cercavano rifugio sono morti in una scuola dell'Onu, altri tre in un altra. Non male per una notte di lavoro a Gaza da parte di un esercito che crede nella "purezza delle armi". Ma perchè questo dovrebbe sorprenderci?
Abbiamo dimenticato i 17.500 morti, quasi tutti civili, molti dei quali donne e bambini, dell'invasione israeliana del Libano nel 1982; i 1700 civili palestinesi morti nel massacro di Sabra e Chatila; la strage di Qana presso la base Onu dove trovarono la morte 106 civili libanesi, metà dei quali bambini; l'assassinio dei profughi di Marwahin a cui venne ordinato di lasciare le loro case per poi essere falciati da un elicottero israeliano; i 1000 morti, quasi tutti civili, provocati sempre nel 2006 nel corso dell'invasione, sempre in Libano?
Quello che veramente sorprende è che molti leader occidentali, tanti presidenti e primi ministri, e, io temo, molti editori e giornalisti, hanno accettato la solita vecchia bugia: gli israeliani hanno fatto molta attenzione per evitare vittime innocenti. «Israele ha fatto il possibile per evitare vittime civili», è quanto ha dichiarato poche ore prima del massacro di Gaza un ambasciatore israeliano. E ogni presidente e primo ministro che ha ripetuto questa falsità come scusa per non chiedere un cessate il fuoco, ha sulle sue mani il sangue del macello che si è compiuto la scorsa notte. Se George Bush avesse avuto il coraggio di chiedere un immmediato cessate il fuoco 48 ore prima di quel fatto, quei vecchi, quelle donne e bambini sarebbero vivi.
Quanto accaduto non è solo vergognoso. Usare il termine crimini di guerra per descrivere quanto accaduto è troppo? Perchè questo è il termine che avremmo usato per questa atrocità se fosse stata commessa da Hamas. Quindi temo che era un crimine di guerra. Dopo aver scritto di così tanti massacri avvenuti in Medio Oriente, da parte delle truppe siriane, irachene, iraniane e israeliane, suppongo che avrei dovuto avere una reazione più cinica.
Ma Israele sostiene di combattere una guerra per noi contro il "terrorismo internazionale". Gli israeliani sostengono di combattere a Gaza per noi, per i nostri ideali occidentali, per la nostra sicurezza, per i nostri standard di vita. Quindi anche noi siamo complici della barbaria che oggi invade Gaza.
Ho riportato varie volte le scuse dell'esercito israeliano per questi oltraggi nel passato. Siccome potrebbero essere ripetute nelle prossime ore ve le ripropongo. Israele dice che i palestinesi hanno ucciso i loro profughi, che hanno disotterrato i cadaveri dai cimiteri e sparso i corpi tra le rovine, che alla fine i veri responsabili sono i palestinesi in quanto sostenitori di un fazione armata, oppure che gli stessi palestinesi armati hanno usato i rifugiati come scudi umani.
Il massacro di Sabra e Chatyila fu commesso dai falangisti libanesi di destra mentre le truppe di Israele, come ha rivelato la stessa commissione israeliana, rimasero a guardare per 48 ore senza fare nulla. Quando Israele fu accusata, il governo di Menacham Begin accusò il mondo di diffamazione. Dopo che l'artiglieria israeliana sparò contro il comprensorio Onu di Qana, nel 1996, Israele sostenne che gli stessi Hezbollah stavano bombardando la base. Era una bugia. I più di mille morti del 2006, una guerra iniziata dopo che Hezbollah aveva catturato due soldati isreaeliani al confine, furono derubricati come responsabiltà di Hezbollah. Israele sostenne che i cadaveri dei bambini nel secondo massacro di Qana erano stati presi da un cimitero. Era un'altra bugia. Il massacro di Marwahin non venne mai giustificato. Alla gente del villaggio venne ordinato di lasciare le loro case, obbedirono agli ordini degli israeliani e furono attaccati da un elicottero. I profughi presero i loro bambini e si misero vicino ai camion sui quali viaggiavano per permettere ai piloti di vedere che erano civili. Poi l'elicottero israeliano li falciò, da vicino. Sopravissero solo in due fingendosi morti. Israele non chiese neppure scusa.
Dodici anni prima un'altro elicottero attaccò una ambulanza che trasportava civili, anche a loro era stato ordinato di abbandonare il loro villaggio, morirono tre bambini e due donne. Israele sostenne che un combattente di Hezbollah era sull'ambulanza. Non era vero. Ho seguito e scritto tutte queste atrocità, le ho indagate, parlato con i sopravissuti. Così hanno fatto molti miei colleghi. Come risposta ottenemmo degli scritti diffamatori: fummo accusati di essere antisemiti.
E scrivo quanto segue senza alcun dubbio: sentiremo di nuovo queste scandalose ricostruzioni. Sentiremo la scusa-bugia di Hamas - e dio solo lo sa che ce n'è abbastanza contro di loro senza bisogno di inventarsi crimini - sentiremo di nuovo dei cadaveri dai cimiteri, e che Hamas era nella scuola dell'Onu. Tutte bugie. E che noi siamo antisemiti. E avremo i nostri leader che sbuffando e balbettando ricorderanno al mondo che è stata Hamas a rompere il cessate il fuoco. Non lo ha fatto. Israele lo ha fatto per prima, il 4 novembre, quando con i suoi bombardamenti uccise 6 palestinesi a Gaza e ancora il 17 novembre quando in un altro bombardamento morirono altri quattro palestinesi.
Sì, Israele merita sicurezza. Venti israeliani uccisi in 10 anni attorno a Gaza è un dato tragico. Ma 600 palestinesi morti in una sola settimana, e migliaia nel corso degli anni dal 1948, è sicuramente un differente scala. Questo ci ricorda che non siamo di fronte a un "normale" massacro del Medio Oriente, ma ad una atrocità che ricorda la guerra dei Balcani degli anni '90. E naturalmente quando un arabo scatenerà tutta la sua furia incontenibile e scaricherà la sua rabbia cieca contro l'occidente, diremo che questo non ha nulla a che fare con noi. Ci chiederemo, perchè ci odiano? Ma non facciamo finta che non conosciamo la risposta.
Liberazione 8.1.09
I pacifisti tornano in piazza L'11 a Roma, il 17 ad Assisi:
«Ora cessate-il-fuoco»
Una lunga catena umana per la pace unirà l'ambasciata d'Israele a Roma in via Michele Mercati alla delegazione generale Palestinese in piazza San Giovanni in Laterano 72, «per dire sì alla pace, al dialogo, al riconoscimento dei diritti del popolo palestinese e del popolo israeliano. E fermare subito una violenza che non ha giustificazioni». Questa è l'iniziativa promossa da alcuni consiglieri e assessori della Regione Lazio che si svolgerà domenica 11 gennaio a partire dalle ore 10,30 sotto lo slogan "Diamo una mano alla pace". Tra i primi firmatari gli assessori regionali Luigi Nieri, Giulia Rodano, Alessandra Tibaldi, Filiberto Zaratti e i consiglieri Enrico Fontana, Enrico Luciani, Ivano Peduzzi, Anna Pizzo. «Sono circa 5 chilometri da fare insieme mano nella mano, per dire sì alla pace, al dialogo, al riconoscimento dei diritti del popolo palestinese e del popolo israeliano - si legge nell'appello - E fermare subito una violenza che non ha giustificazioni. La pace è un diritto fondamentale, irrinunciabile, inalienabile. La pace è una condizione di vita. Noi vogliamo che nella terra di Palestina e nella terra di Israele ci sia la pace. Una pace che duri. Per ottenere questo risultato è necessaria una tregua immediata. E' necessario che tornino il dialogo e la diplomazia, quella ufficiale e quella popolare. Il terroristico lancio di missili da parte di Hamas e la sproporzionata disumana risposta del governo di Israele sono inaccettabili per la comunità internazionale. Chiediamo che si fermi subito la violenza, che ai bambini sia dato il diritto a non avere paura, che le donne e gli uomini abbiano il diritto a vivere in pace».
Un altro appello alla mobilitazione per la pace in Medio Oriente, firmato dalla Tavola della pace da Acli, Arci e Legambiente, è per sabato 17 gennaio ad Assisi alle ore 10,00.
Iniziamo a costruire una grande partecipazione - si legge nell'appello - per essere in tanti e tante ad Assisi e gridare: C'è un modo per evitare il massacro di civili. C'è un modo per salvare il popolo palestinese. C'è un modo per garantire la sicurezza di Israele e del suo popolo. C'è un modo per dare una possibilità alla pace in Medio Oriente. Cessate il fuoco. Ritiro immediato delle truppe israeliane. Fine dell'assedio. Protezione umanitaria internazionale
l’Unità 8.1.09
«Il Pd è ridotto a una somma di comitati elettorali»
intervista a Leonardo Domenici
di Osvaldo Sabato
Devo dire che sono rimasto colpito da alcuni interventi che ho ascoltato nella direzione nazionale del 18 dicembre scorso e da alcune dichiarazioni sulla stampa». Esordisce così il sindaco di Firenze Leonardo Domenici puntando la sua attenzione sul rapporto tra il Pd nazionale e le città. Le inchieste delle procure di Napoli, Pescara e Firenze, che hanno colpito da dentro le amministrazioni di queste città, hanno riportato a galla la questione morale. Qualcuno però fa notare la poca incisività del Pd nazionale sulle realtà locali con i “cacicchi” che hanno preso il sopravvento. Ma per il sindaco di Firenze, il problema è più politico. «Beh - dice - quando leggo che in questo momento bisognerebbe, facendo di ogni erba un fascio e senza fare nessuna distinzione di merito, introdurre una più netta distinzione tra il partito e gli amministratori locali penso che si stia dicendo una cosa sbagliata, gravemente sbagliata. Mi riferisco, per esempio, ad alcune dichiarazioni di Giorgio Tonini e mi chiedo se su questo punto non sia opportuno andare ad un chiarimento serio, vero, dentro il Pd».
Domenici insiste: «Veltroni più volte ha detto che certo ci sono dei problemi a livello locale, ma bisogna pensare a quella migliaia di amministratori del Pd che lavorano in maniera seria e portano avanti l’esperienza concreta di quel partito riformista e di massa, come lo ha definito il segretario, da cui dubito che possiamo prescindere se vogliamo costruire seriamente il Pd. Il problema è anche uno scollamento tra la politica nazionale con quella locale. Ma il punto non è che la ragione sta da una parte, o dall’altra».
Le indagini della magistratura però nelle città giudate dal centrosinistra sono sotto gli occhi di tutti.
«Il problema fondamentale è che ci sono delle situazioni che presentano elementi degenerativi nelle realtà locali, ma questo è proprio il risultato dello scollamento, della frattura e della mancanza di rappresentanza nel rapporto tra il gruppo nazionale e realtà politica e amministrativa dei territori. La questione ci rimanda di nuovo al tipo di partito che vogliamo costruire».
L’inchiesta su Castello ripropone il tema delle intercettazioni telefoniche. In questo periodo l’argomento è al centro del dibattito politico.
«Credo che questo strumento di indagine debba servire a completare e non a dare inizio all’inchiesta. Qualcuno mette in discussione la legittimità degli atti amministrativi? Che lo dica. Ci sono comportamenti di persone che da dentro l’amministrazione hanno condizionato le scelte del Comune? Sono convinto di no. Ci sono prove contrarie? Credo che se si rimane a livello di uso vergognoso di intercettazioni telefoniche è difficile fare un discorso».
Sullo sfondo ci sono le primarie per la scelta del suo successore e le polemiche per la sua decisione di disertare il consiglio comunale.
«È evidente che prima di tornare ci vuole un chiarimento politico (per domani è previsto un vertice a Palazzo Vecchio, ndr), che non può riguardare solo il presente, ma anche i problemi di coalizione e le scelte programmatiche future».
Sindaco, è sempre dell’idea di non prendere parte al consiglio comunale?
«Si solleva un problema che a mio motivo non ha motivo di essere. Perché prima di tornare in consiglio comunale è evidente che ci vuole un chiarimento politico».
Lei si riferisce ai suoi alleati?
«Esatto. Il chiarimento politico non può riguardare solo il presente, ma deve toccare anche i problemi di coalizione, di scelte politiche programmatiche del futuro. Io ho sempre pensato che si doveva costruire la prospettiva futura, partendo da quanto abbiamo fatto in questi nove anni e mezzo di governo della città, che considero positivo, come dimostrano i dati statistici su Firenze in rapporto alle altra città italiane».
Invece?
«Vedo che si è deciso di rovesciare la questione: siccome tutti pensano alla prospettiva futura promuovendo la demolizione della esperienza presente, senza una ragione reale, in rottura con quello che si è fatto in questi anni. Non è una questione personale, ma politica. Penso che sia un approccio sbagliato che rischia di avere conseguenze pesanti».
Lei chiama in causa il suo partito?
«Il Partito democratico dovrebbe riflettere su questo e agire di conseguenza. Il problema non è tanto il sostegno alla mia amministrazione, bensì di capacità di iniziativa politica, di risposta, di elaborazione propria, di reazione, anche di battaglia verso le opposizioni e dei gruppi di poteri, più o meno occulti, che si sono riattivati in vista della prossima campagna elettorale. Ecco io noto che da questo punto di vista il Pd fiorentino mi sembra piuttosto passivo, per non dire amorfo. Purtroppo devo constatare che anche a Firenze, come in altre parti d’Italia, si pone il problema su che tipo di partito abbiamo costruito, o stiamo costruendo».
La sua risposta qual è?
«Vogliamo fare un partito capace di esprimere una proposta programmatica forte, oppure, vogliamo fare un partito che sia soltanto una sommatoria di comitati elettorali. Credo che questa sia la prospettiva più rischiosa, ma credo anche che sia la situazione in cui ci troviamo in questo momento».
A Firenze il Pd è alle prese con le primarie. I problemi non mancano.
«Penso che sia assurdo andare con quattro candidati. A mio parere il Pd dovrebbe indicare un candidato, al massimo due, con una sorta di doppio turno. Il partito deve avere un sussulto di ragionevolezza: se si riunisce e discute il tempo per cambiare le cose non manca. Poi si parla di primarie di coalizione, ma non ho ancora capito esattamente quale è la coalizione, da chi è composta ma soprattutto in che rapporto sta questa prospettiva con quella attuale. Forse si vorrebbe che qualcuno tirasse la carretta fino in fondo».
il Riformista 8.1.09
Cretinismi di sinistra su Israele
di Peppino Calderola
L'occupazione della Palestina da parte di Israele è una brutale pratica coloniale. L'ideologia sionista, alla base della nascita dello Stato di Israele, è nata all'interno di una cultura europea che legittimava e praticava il colonialismo... Israele è l'ancella dell'imperialismo in Medio Oriente… (Israele è)… una società militarizzata e compattamente schierata a favore dei crimini di guerra». Sono le frasi principali di un articolo pubblicato ieri da "Liberazione" e firmato da Fabio Amati, responsabile esteri di Rifondazione comunista. È difficile commentarle. Il dramma è che le opinioni di questo Amati sono assai diffuse anche oltre Rifondazione comunista. Non mi scandalizza, anche se mi fa schifo, il giudizio su Israele. Vogliono distruggerla, almeno Amati ha il coraggio di dirlo. Ma è la protervia di definire Israele «una società militarizzata e compattamente schierata a favore dei crimini di guerra» che fa uscire la posizione di Amati dalla mostruosità politica per entrare nel cretinismo puro. In quella «società militarizzata» ognuno è libero di fare quel che crede, in quei paesi islamici che Amati ammira le donne sono segregate, gli omosessuali tormentati (tutti seguaci di Massimo Fagioli?), non si possono avere pensieri diversi da quelli previsti dalle autorità religiose. Diciamo la verità: c'è gente e c'è più di un partito a sinistra con cui non si può prendere neppure un caffè. Rottamare questa sinistra per rinascere. Serve una discarica per il post-comunismo.
Repubblica 8.1.09
"La Chiesa non escluda i preti gay" l'apertura del giornale dei vescovi
Il direttore di "Avvenire": dibattito costruttivo
Lo psichiatra Vittorino Andreoli: "L'omosessualità non è una malattia"
di Marco Politi
Smettere di considerare l´omosessualità come una malattia. Lo scrive su "Avvenire" lo psichiatra e scrittore Vittorino Andreoli, invitando i lettori cattolici a fare i conti con l´evoluzione culturale e scientifica e a capire che l´omosessualità non risponde più a vecchi stereotipi. Ma Andreoli va anche più in là. Pur sottolineando di non entrare minimamente nella questione del diritto della Chiesa di selezionare il clero secondo propri criteri, lo psichiatra mette nero su bianco: «Questo lascia aperta la questione sul perché debbano essere per forza oggi escluse dalla vita sacerdotale le persone di orientamento omosessuale».
Andreoli sta svolgendo sul giornale dei vescovi un´inchiesta sui preti che ha già raggiunto le quarantotto puntate. E l´articolo su «Il sacerdote nei casi estremi: l´omosessualità» è introdotto con tutti i crismi dal direttore Dino Boffo, che rende omaggio alla sua professionalità, spiegando che il suo argomentare «è affidato alla nostra riflessione libera e ad un dibattito costruttivo».
In effetti l´intervento cade come un sasso nello stagno, mentre da anni la gerarchia ecclesiastica batte sul tasto dell´omosessualità come peccato orribile da non assolvere se si vive stabilmente con un partner gay, come «grave disordine morale» e causa di non ammissione all´ordinazione secondo quanto ribadito recentemente da un´Istruzione vaticana.
Leggere sull´ "Avvenire" che sul piano scientifico «le manifestazioni e i comportamenti che scaturiscono dall´omosessualità non sono patologie, ma variabili all´interno di quella che si chiama normalità, pur se questa è difficile da definire», è un piccolo terremoto. Un «fatto importante» dicono a "Repubblica" tre persone di orientamento del tutto differente: il professor Tonino Cantelmi, presidente dell´Associazione psicologi e psichiatri cattolici, Franco Grillini già presidente dell´Arcigay, Gianni Geraci del gruppo omosessuale cattolico milanese «Il Guado».
Per il professor Cantelmi affrontare il tema «è positivo». Fermo restando che tocca alla Chiesa l´aspetto morale e spirituale, Cantelmi sottolinea da psichiatra cattolico che «noi ci adeguiamo ai convincimenti della comunità scientifica e comunque la scelta dell´ "Avvenire" dimostra che la Chiesa non ha un atteggiamento discriminatorio verso i gay». Più colorito Grillini: «È bene che nella tana del lupo (l´ "Avvenire") si leggano cose di buon senso. In America un dirigente dell´associazione Exodus, che organizzava corsi di pseudoguarigione dall´omosessualità, ha dovuto chiedere scusa all´opinione pubblica gay».
Gianni Geraci, che per anni ha animato il coordinamento dei gay cattolici italiani, trova «interessantissimo» che sul giornale dei vescovi si manifesti attenzione a «discorsi scientificamente fondati», respingendo la tendenza di certi movimenti carismatici a voler guarire gli omosessuali.
Andreoli preannuncia un approfondimento. Il suo approccio iniziale è stato estremamente soft. Parla di «orientamento omosessuale» e non di pratica. Ribadisce: «Non mi scandalizzo se un´organizzazione come la Chiesa decide di escludere dal sacerdozio ministeriale l´omosessuale». Ma le sue conclusioni lasciano il segno. Ai sacerdoti scopertisi omosessuali e che soffrono per restare fedeli alla loro vocazione (in castità) «vorrei dire � io non credente � di rivolgersi a Dio e chiedergli l´aiuto che anche questa caratteristica diventi una ricchezza al servizio della missione».
Repubblica 8.1.09
Intervista a Gustavo Zagrebelsky
Le libertà oggi a rischio
di Simonetta Fiori
Professor Gustavo Zagrebelsky, qual è l´insegnamento essenziale che viene dalla lezione pubblicata in questa pagina?
«Si può notare quanto questo testo sia lontano dal cliché che fa del professor Bobbio un teorico della democrazia esclusivamente formale, cioè della democrazia come insieme di regole procedurali. Senza queste regole, non c´è democrazia. Ma non è vero che la democrazia si esaurisca qui. Non bastano le istituzioni; occorre che le istituzioni siano "alimentate da saldi principi" e questi saldi principi sono l´humus della democrazia. Occorre dunque che le forme della democrazia operino in una sostanza democratica. Bobbio, in questo campo, era tutt´altro che un formalista. Avendo appreso la lezione dalla teoria e dalla storia, sapeva bene che, senza sostanza, la democrazia si trasforma in un guscio vuoto che può contenere, cercando magari di nasconderla o di imbellettarla, qualsiasi sozzura e che ciò, alla fine, si rivolgerà contro le sue regole formali, rendendole odiose ai più. Se le procedure democratiche si riducono a una scorciatoia per gli interessi dei potenti di turno, è facile che la frustrazione dei molti possa essere indirizzata contro la democrazia, invece che contro chi ne abusa. L´origine del populismo è questa».
Sta parlando di noi?
«Sto parlando, mi pare, di un rischio che la democrazia corre in quanto tale. Se poi oggi viviamo in condizioni particolari di pericolo, ciascuno giudichi da sé. Per dare un giudizio, questo testo suggerisce di non limitarci alle forme e di portare l´attenzione sulla sostanza. Bene o male, le forme ci sono o, se non ci sono, è perché, prima, si è persa di vista la sostanza».
Tre sono i punti essenziali indicati da Bobbio: libertà civili, libertà politiche, libertà sociali. Quali libertà sono oggi più "a rischio"?
«Questo testo parla una sola volta di uguaglianza, a proposito della libertà in politica: in democrazia non vi sono "governanti e governati per destinazione, potenti incontrollati e servi rassegnati". Ma l´uguaglianza è una condizione onnipervasiva della democrazia. Senza uguaglianza di mezzi materiali e intellettuali, la libertà cambia natura e la democrazia si trasforma in maschera dell´oligarchia, cioè del regime del privilegio di pochi, non necessariamente i migliori, a danno dei molti, non necessariamente i peggiori, ma certamente i più deboli. Cioè: la democrazia, che dovrebbe essere il regime che bandisce tra gli esseri umani l´uso della forza, si rovescia nel suo contrario, cioè nel regime basato sullo squilibrio della forza. Da qui può venire una risposta alla sua domanda. Mai come in questo momento della vita della nostra società constatiamo tanta iniquità nella distribuzione dei beni materiali, delle conoscenze e delle risorse intellettuali. La critica antidemocratica ha sempre sottolineato il rischio della massificazione, dell´appiattimento verso il basso. Ma qui, ora, si prefigura un incubo diverso: il gregge esposto e ignaro, guidato da pochi pastori, cioè da gente che - come diceva Trasimaco - solo l´ingenuo Socrate poteva credere avesse a cuore il bene delle sue pecore, piuttosto che il proprio interesse. Una politica per l´uguaglianza: ecco ciò di cui ci sarebbe bisogno e non si vede in giro, nemmeno a sinistra».
Di fronte all´involuzione in atto, suonano profetiche le parole di Bobbio che, all´ottimismo dei padri, oppone la necessità di essere "democratici in allarme". Non siamo stati abbastanza "in allarme"?
«Bisogna prendere sul serio quanto Bobbio stesso dice della democrazia. Dice che non è un dato di fatto, un "cammino fatale" che si possa percorrere con facile fiducia. No. La democrazia è una meta, anzi "la meta più alta", che richiede molto impegno e molte rinunce e non può vivere senza un ethos adeguato».
È ciò che manca oggi in Italia?
«Sì, abbiamo pensato che la democrazia sia un regime naturale, al quale tutti, purché non coartati da qualche dittatore, si sarebbero orientati spontaneamente. Ricorda il discorso di Montesquieu sulla "molla della politica"? La molla che fa funzionare il dispotismo, per esempio, è la paura; il potere dei privilegiati, l´invidia (finché dura e non si trasforma in rabbia). Per la democrazia, che è il regime di tutti, occorre una "virtù" particolare, fatta di serietà e sobrietà negli stili di vita, di stima reciproca, di spirito d´uguaglianza, di rifiuto del privilegio e rispetto del diritto, di cura per le cose pubbliche che, essendo di tutti, non possono essere preda di nessuno in particolare. Potrei continuare e sarebbe un elenco che ci farebbe venire i brividi, per quanto lontani siamo dall´avere consolidato quella molla ideale. L´atteggiamento etico che è stato diffuso dappertutto e con tutti i mezzi, in questi decenni, è l´esatto contrario di tutto ciò. E ci stupiamo se avvertiamo la democrazia scricchiolare?».
È questo l´effetto che le ha fatto leggere le parole di Bobbio?
«Sì. I nemici della democrazia sanno che la prima battaglia per combatterla si svolge nei convincimenti e negli stili di vita che essi promuovono. Gli amici della democrazia dovrebbero fare altrettanto, sul versante opposto».
Repubblica 8.1.09
Bobbio. L'edizione di tutte le opere convegni e mostre
di Massimo Novelli
Quando Norberto Bobbio venne sepolto nella tomba di famiglia di Rivalta Bormida, il 12 gennaio del 2004, uno dei figli volle leggere uno suo scritto. Il filosofo rinsaldava lì il suo legame con il borgo contadino, adagiato tra basse colline, vigneti e foschie, in cui era nata la madre Rosa Caviglia, e ricordava: «È bene mantenere le proprie radici» che «si hanno solo nel paese d´origine, nella terra, non nel cemento delle città». Così da quelle radici di Rivalta, un piccolo comune in provincia di Alessandria, domani pomeriggio, in coincidenza con il quinto anniversario della morte, cominciano con una cerimonia a Palazzo Bruni le celebrazioni per il centenario della nascita (avvenuta a Torino il 18 ottobre 1909) di uno dei testimoni e dei protagonisti più significativi della cultura del Novecento.
Sabato, nell´aula magna del rettorato dell´Università di Torino, dove Bobbio insegnò a lungo, insieme alla presentazione delle manifestazioni verrà rievocata la sua figura. Sono previsti interventi di Gastone Cottino, Enzo Pelizzetti, Paolo Garbarino, Marcello Gallo e Pietro Rossi. Il calendario delle iniziative promosse dal Comitato nazionale per il centenario, presieduto da Gastone Cottino e sorto per l´impegno del Centro studi Piero Gobetti, entrerà nel vivo tra aprile e ottobre, con punte nel 2010, attraverso seminari, lezioni, un convegno internazionale (al quale dovrebbe prendere parte il capo dello Stato Giorgio Napolitano), uno spettacolo teatrale, una mostra all´Archivio di Stato di Torino e il completamento dell´edizione critica integrale delle sue opere.
Altri appuntamenti sono in programma in Brasile, in Messico e in Spagna. Spiega Marco Revelli, vicepresidente del Centro Gobetti: «Saranno celebrazioni sobrie, nello spirito di Bobbio. L´intento è di lasciare qualcosa di concreto, non di creare degli "eventi" effimeri». Quelle cose concrete di cui si occupava Bobbio, ultimo grande rappresentante dell´"Italia civile". Ne incarnò i principi tanto da diventare per tanti l´estremo maestro, malgrado la sua ritrosia.
Bobbio era nato nel 1909, lo stesso anno di Alessandro Galante Garrone e di Leone Ginzburg, che con lui - chi fino in fondo come il "mite giacobino", chi fino alla precoce morte come Ginzburg - percorsero gli impervi e drammatici cammini del secolo scorso. Il centenario sarà l´occasione per riflettere sulla generazione di intellettuali che animò l´antifascismo e la breve eppure fondamentale e sempre viva stagione dell´azionismo. Non a caso il convegno di ottobre porta un titolo eloquente: "Dal Novecento al Duemila. Il futuro di Bobbio".
Repubblica 8.1.09
Se vengono meno i principi della democrazia
di Norberto Bobbio
In un articolo scritto nel 1958, l´apprensione per la sorte dei principi conquistati dopo il fascismo e la sottolineatura di ciò a cui non si dovrà mai rinunciare, le libertà civili, politiche e sociali
Oggi non crediamo, come credevano i liberali e i socialisti del primo Novecento, che il cammino democratico sia inesorabile
Bisogna essere sempre vigilanti, non rassegnarsi, ma neppure abbandonarsi alle sorti fatalmente progressive dell´umanità
Questo testo comparve nel 1958 su "Risorgimento" che, in occasione del primo decennale della Costituzione, aveva promosso un´inchiesta. Venne poi pubblicato, nello stesso anno, sul bollettino dell´Ateneo di Torino.
Quando parliamo di democrazia, non ci riferiamo soltanto a un insieme di istituzioni, ma indichiamo anche una generale concezione della vita. Nella democrazia siamo impegnati non soltanto come cittadini aventi certi diritti e certi doveri, ma anche come uomini che debbono ispirarsi a un certo modo di vivere e di comportarsi con se stessi e con gli altri.
Come regime politico la democrazia moderna è fondata sul riconoscimento e la garanzia della libertà sotto tre aspetti fondamentali: la libertà civile, la libertà politica e la libertà sociale. Per libertà civile s´intende la facoltà, attribuita ad ogni cittadino, di fare scelte personali senza ingerenza da parte dei pubblici poteri, in quei campi della vita spirituale ed economica, entro i quali si spiega, si esprime, si rafforza la personalità di ciascuno. Attraverso la libertà politica, che è il diritto di partecipare direttamente o indirettamente alla formazione delle leggi, viene riconosciuto al cittadino il potere di contribuire alle scelte politiche che determinano l´orientamento del governo, e di discutere e magari di modificare le scelte politiche fatte da altri, in modo che il potere politico perda il carattere odioso di oppressione dall´alto. Inoltre, oggi siamo convinti che libertà civile e libertà politica siano nomi vani qualora non vengano integrate dalla libertà sociale, che sola può dare al cittadino un potere effettivo e non solo astratto o formale, e gli consente di soddisfare i propri bisogni fondamentali e di sviluppare le proprie capacità naturali.
Queste tre libertà sono l´espressione di una compiuta concezione della vita e della storia, della più alta e umanamente più ricca concezione della vita e della storia che gli uomini abbiano creato nel corso dei secoli. Dietro la libertà civile c´è il riconoscimento dell´uomo come persona, e quindi il principio che società giusta è soltanto quella in cui il potere dello stato ha dei limiti ben stabiliti e invalicabili, e ogni abuso di potere può essere legittimamente, cioè con mezzi giuridici, respinto, e vi domina lo spirito del dialogo, il metodo della persuasione contro ogni forma di dogmatismo delle idee, di fanatismo, di oppressione spirituale, di violenza fisica e morale. Dietro la libertà politica c´è l´idea della fondamentale eguaglianza degli uomini di fronte al potere politico, il principio che dinanzi al compito di governare, essenziale per la sopravvivenza stessa e per lo sviluppo della società umana, non vi sono eletti e reprobi, governanti e governati per destinazione, potenti incontrollati e servi rassegnati, classi inferiori e classi superiori, ma tutti possono essere, a volta a volta, governanti o governati, e gli uni e gli altri si avvicendano secondo gli eventi, gli interessi, le ideologie. Infine, dietro la libertà sociale c´è il principio, tardi e faticosamente apparso, ma non più rifiutabile, che gli uomini contano, devono contare, non per quello che hanno, ma per quello che fanno, e il lavoro, non la proprietà, il contributo effettivo che ciascuno può dare secondo le proprie capacità allo sviluppo sociale, e non il possesso che ciascuno detiene senza merito o in misura non proporzionata al merito, costituisce la dignità civile dell´uomo in società.
Una democrazia ha bisogno, certo, di istituzioni adatte, ma non vive se queste istituzioni non sono alimentate da saldi principi. Là dove i principi che hanno ispirato le istituzioni perdono vigore negli animi, anche le istituzioni decadono, diventano, prima, vuoti scheletri, e rischiano poi al primo urto di finire in polvere. Se oggi c´è un problema della democrazia in Italia, è più un problema di principi che di istituzioni. A dieci anni dalla promulgazione della costituzione possiamo dire che le principali istituzioni per il funzionamento di uno stato democratico esistono. Ma possiamo dire con altrettanta sicurezza che i principi delle democrazia siano diventati parte viva del nostro costume? Non posso non esprime su questo punto qualche apprensione.
Il cammino della democrazia non è un cammino facile. Per questo bisogna essere continuamente vigilanti, non rassegnarsi al peggio, ma neppure abbandonarsi ad una tranquilla fiducia nelle sorti fatalmente progressive dell´umanità. Oggi non crediamo, come credevano i liberali, i democratici, i socialisti al principio del secolo, che la democrazia sia un cammino fatale. Io appartengo alla generazione che ha appreso dalla Resistenza europea qual somma di sofferenze sia stata necessaria per restituire l´Europa alla vita civile. La differenza tra la mia generazione e quella dei nostri padri è che loro erano democratici ottimisti. Noi siamo, dobbiamo essere, democratici sempre in allarme.
Repubblica 8.1.09
Un libro provocatorio dello svedese Wijkmark
Quando la morte diventa utile
di Franco Marcoaldi
Una questione terrificante: le società di massa dovranno quantificare anche le morti di cui hanno bisogno per far tornare i propri conti
Se nelle società contemporanee, democratiche e di massa, tutto finisce per soggiacere a un´ideologia angustamente utilitarista, è inevitabile che a un certo punto quel "tutto" includa anche il problema della morte. Per essere ancora più chiari; il consorzio sociale dovrà giungere alla quantificazione precisa delle morti di cui ha bisogno per far tornare i propri conti, sì che "giusta" risulti la proporzione tra la percentuale della popolazione produttiva e quella che non lo è (vecchi, malati cronici, minorati mentali). Pena l´affondamento economico del paese.
In estrema sintesi, è questa la terrificante questione messa a tema dallo scrittore svedese Carl-Henning Wijkmark ne La morte moderna (traduzione di Carmen Giorgetti Cima, postfazione di Claudio Magris, Iperborea, pagg. 119, euro 11). L´autore, per rendere più efficace il tratto indubitabilmente provocatorio della sua opera, sceglie la strada del "teatro", del "dramma". E a tal fine ci invita a partecipare a un ipotetico simposio a porte chiuse su «La fase terminale della vita umana», organizzato dal FATER, un comitato interno del Ministero degli Affari Sociali svedese, a cui partecipano esperti in campo sociologico e teologico, filosofico e biologico.
Il direttore Bert Persson espone con flautata brutalità i termini della questione: «La piramide demografica ha attualmente la forma di un sigaro, ma se tutto continuerà a procedere come ha fatto finora, rischia di passare rapidamente a quella di un fungo. I bambini di cui ci privano gli aborti, ce li ritroviamo moltiplicati per tre sotto forma di anziani improduttivi al vertice della piramide. Uno svedese su quattro è in pensione di anzianità, e uno su otto in età produttiva è in pensionamento anticipato. Il settantacinque per cento dei costi della Sanità va alla cura di malati cronici o senza speranza, in un settore in cui il tetto è stato raggiunto e sfondato da più di quindici anni».
I politici, naturalmente, tacciono: perché i voti dei pensionati fanno gola a tutti. Ma se ben indirizzati, saranno proprio i vecchi e i pensionati a capire - presto o tardi - che c´è un momento in cui bisogna farla finita. E proponendo la stessa data per tutti si arriverà, democraticamente, alla formula dell´«obbligo volontario». Il che consentirà finalmente di ridurre i problemi dell´assistenza medica e di evitare scelte arbitrarie su chi e perché e come salvare nella massa sempre più esorbitante di infartuati o di malati in dialisi. Se poi si riuscisse, argomentano ancora gli uomini del FATER, a superare la riluttanza dei familiari nel cedere alla comunità i corpi senza vita delle persone care, si potrebbero mettere in atto anche delle grandi «stazioni terminali» per il riciclaggio dei cadaveri, con impensati benefici per lo sviluppo (anche in termini occupazionali) dell´industria farmaceutica e dei concimi.
A ben vedere, conclude il moderatore, questa idea «non implica in qualche modo la realizzazione di uno dei sogni più antichi dell´umanità: la definitiva integrazione sociale della morte? Dall´altra parte del confine non ci attendono più potenze ignote, ma un ulteriore contributo alla comunità in cui siamo vissuti (...) Questa morte asettica e inodore nella cella frigofera della stazione terminale - non è forse la morte moderna nel vero senso della parola? E tutti seguiamo lo stesso cammino, non alcuni nelle fiamme e altri nella terra. Macinati, ridotti in polvere fine, saremo sparsi su vasti campi della società e le daremo nutrimento».
L´unica voce dissonante in questo agghiacciante consesso di pianificazione mortale democratica è rappresentata da Rönning, lo scrittore che incarna i valori non negoziabili della vita umana.
Le sue parole, improntate a un senso compassionevole di umanità e giustizia, portano ovviamente il lettore tutto dalla sua parte. Ma ha ragione Magris nel sottolineare l´oggettiva debolezza di quelle nobili parole. Una volta infatti che l´idea di «utilità collettiva» impone precisi tempi sociali anche alla morte (negando in tal modo la stessa, eventuale scelta individuale dell´eutanasia), il richiamo al valore irriducibile di ogni singola vita e di ogni singola morte, fatica a sostenere il confronto con chi si appella a una presunta razionalità egualitaria di ordine meramente quantitativo.
L´abilità di Wijkmark sta esattamente in questo: nella capacità di inscenare un irresolubile dramma incardinato in uno scenario futuribile (ma nient´affatto improbabile), dove un delirante imperativo economico, applicato a una perversa idea di controllo democratico che si impone anche nel passaggio ultimo dell´esistenza, finisce per azzittire quel che resta della tradizione umanista. «Come mi disse una volta un vecchio in un reparto di lunga degenza», commenta compiaciuto uno dei partecipanti al simposio. «Nasciamo tutti alla stessa età, perché non dovremmo morire alla stessa età?».
Corriere della sera 8.1.09
La riforma dell'università alla Camera
Passa la fiducia, oggi il voto finale
ROMA — Via libera al decreto Gelmini sull'università. la Camera ha votato la fiducia, la nona del governo Berlusconi, con 302 sì e 228 no e due astenuti. Oggi il voto finale sul decreto, che doveva essere convertito, pena decadenza, entro il 9 gennaio. Con questa legge il ministro Mariastella Gelmini intende rendere più trasparente la gestione delle università, combattere le «baronie» e favorire il rientro dei cervelli. Per il reclutamento di professori e ricercatori universitari saranno formate commissioni tramite il sorteggio degli esaminatori, riducendo a uno il numero dei docenti nominati dalle facoltà. Inoltre i docenti dovranno dimostrare di avere fatto ricerca scientifica, attraverso l'anagrafe nazionale delle pubblicazioni. Ci sarà il blocco delle assunzioni per le sole università con una spesa per il personale troppo elevata, ma per favorire l'assunzione dei giovani ricercatori il turn over sarà innalzato al 50% In più, per attirare i migliori, le università potranno procedere alla copertura di posti attraverso la chiamata diretta di studiosi «stabilmente impegnati all'estero» o «di chiara fama». . Aumenteranno anche i finanziamenti alle Università migliori sulla base dei criteri dell'offerta formativa, della qualità della ricerca scientifica, e di qualità, efficacia ed efficienza delle sedi didattiche. Infine, più borse di studio e 65 milioni di euro per la realizzazione di nuove residenze universitari. Per gli studenti universitari si tratta di un «altro giorno triste, con il destino dell'università deciso in modo autoritario e senza discussione».
Il voto è stato caratterizzato dal maltempo. La neve al Centro-Nord, con le conseguenti difficoltà incontrate dai deputati delle regioni settentrionali per raggiungere Roma, ha destato nella maggioranza la preoccupazione di non avere i numeri in Aula. Da qui la decisione, assunta dal presidente della Camera Gianfranco Fini una volta sentiti tutti i gruppi parlamentari, di far slittare di due ore la votazione. Una scelta, questa che però non sarebbe stata digerita inizialmente tanto di buon grado sia dall'Idv sia dal Pd.
Repubblica 8.1.09
Allevi e il concerto delle polemiche
risponde Corrado Augias
Caro Augias, mi lasci tornare sull'imbarazzante episodio verificatosi in Senato per il concerto delle festività di fine anno. Un Senato e un presidente della Repubblica posti ad ascoltare un'orchestra diretta da chi palesemente non sapeva dirigere, oltre ad essere un mediocre pianista che esegue proprie musiche che non saprei se qualificare da piano-bar o da che cosa, il tutto reclamizzato come rivoluzione nella musica contemporanea. Mi pare faccia pari con due secoli di lotte sociali serie e talvolta tragiche sfociate ultimamente nel trionfo di Luxuria all'Isola dei Famosi. Di sciocchezze se ne sono dette da Adamo in poi, soltanto non esisteva il megafono dei "media": dunque sarebbe auspicabile un po' di cautela prima di spararle pubblicamente. Aggiungerei che con queste marmellate in cui tutto si equivale non ci dovremmo stupire se tanta gente non sappia più stare al mondo, e si comporta di conseguenza. Ci apprestiamo a festeggiare l'Unità d'Italia: spero che il collante che ci unisce non stia diventando l'idiozia. "L'Italia s'è desta" oppure "l'Italia sede e sta?".
Cesare Mazzonis Direttore Artistico dell'Orchestra Nazionale Rai
I l concerto tenuto in Senato dal giovane pianista compositore Giovanni Allevi (Ascoli Piceno, 1969) ha suscitato un vivace dibattito come testimonia la lettera del prof Mazzonis che è stato tra l'altro direttore artistico del Teatro alla Scala e del Maggio Musicale Fiorentino. Chi sia Allevi chiunque può vedere e sentire andando su You Tube. E' un quarantenne di talento, dotato di un forte senso dello spettacolo (a cominciare dalla capigliatura alla Lucio Battisti-Angela Davis), affermatosi grazie a doti naturali e all'aiuto di un'abile operazione di marketing. E' diplomato a pieni voti in conservatorio, laureato in Filosofia. In Senato ha eseguito e/o diretto sette brani (con l'orchestra "I virtuosi italiani"), cinque a sua firma, due di Puccini. Alcune sue musiche sono state scelte per spot pubblicitari, insomma Allevi si presenta come un tipico prodotto ben riuscito. Compone infatti mescolando spunti classici a modi jazz, con un risultato gradevole che il sito svizzero "Schwingende Klangwelt", che ne vende i Cd ha definito: «melodie ben fatte, perfette come rilassante passatempo serale, senza essere noiose». Criticato con notevole durezza dal violinista Uto Ughi su 'La Stampa', Allevi ha risposto reclamando a se stesso il compito di animare una nuova musica colta contemporanea. Ho simpatia per Allevi e proprio per questo lo esorterei alla calma. Il nostro mondo musicale è asfittico, i concerti sono frequentati da persone in età diciamo così 'matura'. La funzione di un Allevi può essere preziosa a condizione che non perda la testa e tralasci confronti troppo impegnativi. Quanto al Senato, farebbe piacere vedere di tanto in tanto qualche padre coscritto in una sala da concerto, a cominciare dal presidente di quell'assemblea. Servirebbe a dargli una più corretta visione dei valori musicali.
l’Unità 8.1.09
Futurismo, un’avanguardia esplosiva giovane di cent’anni
di Giovanna Trento
Tra i tanti anniversari che questo 2009 ospiterà ci sarà anche il centenario del «Manifesto del Futurismo», pubblicato sul «Figaro» nel 1909. Parigi lo celebra con una mostra che approderà in febbraio a Roma
Nel 2009 ricorrerà il centenario della pubblicazione del manifesto futurista, redatto da Marinetti e apparso il 20 febbraio 1909 sulla prima pagina del quotidiano francese Le Figaro. Aprendo la strada alle iniziative previste in Europa per ricordare e ripensare la prima avanguardia europea del XX secolo, il centro Pompidou propone fino al 26 gennaio a Parigi - città che vide ai tempi l’uscita del manifesto - una mostra dedicata al Futurismo italiano, ponendo l’accento sui rapporti che questo intrattenne all’epoca con la scena artistica francese ed europea e sulle mutue influenze che ne derivarono.
UN SOLITARIO LUNA PARK
Le Futurisme à Paris. Une avant-garde explosive è un’esposizione a cura di Didier Ottinger, in collaborazione con le Scuderie del Quirinale e la Tate Modern di Londra. In catalogo saggi, fra gli altri, di Giovanni Lista ed Ester Coen. Sebbene il sottotitolo della mostra («un’avanguardia esplosiva») lasci presagire un recupero delle atmosfere chiassose e anarcoidi che caratterizzavano le prime avanguardie europee, la veste espositiva è alquanto composta e ordinata. Prima di intraprendere il nostro percorso attraverso spaziosi e quieti corridoi - ben diversi da quelli sovraccarichi della mostra Traces du Sacré, da non molto conclusasi nel medesimo museo parigino - la scelta museografica ci propone una sosta di fronte al solitario Luna Park a Parigi, dipinto da Giacomo Balla nel 1900 con un impianto ancora prettamente divisionista. Purtroppo poi la presenza di Balla in mostra è scarsissima, e mi domando come tale carenza sarà accolta a Roma, visto che l’esposizione si trasferirà alle Scuderie del Quirinale fra il febbraio e il maggio 2009, per poi spostarsi a Londra in estate.
Le Futurisme à Paris dà invece notevole rilievo a Carrà, Severini, Russolo e soprattutto alle immaginifiche ricostruzioni urbane di Umberto Boccioni, autore molto quotato all’estero, in particolare negli Stati Uniti (vari pezzi provengono dal MOMA di New York, come il travolgente La città che sale).
La mostra parigina include numerose opere - forse troppe, dato il tema - di Picasso, Braque, Léger. La prepotente presenza cubista in una mostra ispirata al Futurismo italiano è dovuta sia al fatto che il suo curatore intende leggere oggi il Futurismo in una prospettiva globale e internazionale, sia al fatto che - eccetto Félix Del Marle e il suo Manifesto futurista contro Montmartre - in Francia il Futurismo non ebbe mai grande presa (nonostante la mostra itinerante di pittura futurista, tenutasi a Parigi nel 1912, che l’attuale esposizione francese intende in parte ricostruire). Buona parte della mostra in corso al Pompidou sottolinea le dissonanze e i rapporti fra futurismo e cubismo, con opere di Duchamp, Kupka, Duchamp-Villon, Picabia e altri, sostenendo anche un legame forte fra il futurismo e l’orfismo di Delaunay. Ma il movimento di Marinetti, con la sua carica di estetizzazione della tecnica, ebbe vivace eco più a nord, come documentato ampiamente dall’esposizione del Pompidou che si sofferma su futurismo russo e vorticismo britannico, con opere, fra gli altri, di Gontcharova, Malevitch, Popova, Lewis, Bomberg e Nevinson. Si è inoltre voluto proiettare il movimento futurista nella contemporaneità, rendendogli omaggio con un’istallazione multimediale del 2008 del nordamericano Jeff Mills.
Incuriosiscono infine alcune pubblicazioni di allora. Innanzitutto, le prime pagine dei giornali (Le Figaro o La Gazzetta dell’Emilia) su cui rileggere il manifesto redatto da Marinetti, in una lingua ancora vivace e comunicativa, nonostante la provocatorietà dei toni aggressivi e maschilisti. Poi, alcuni esemplari di volumi d’epoca (non dimentichiamo che Marinetti fino al 1912 pubblicava le sue opere in francese prima che in italiano), fra cui Mafarka le Futuriste. Roman africain, la cui pubblicazione in Italia nel 1910 causò all’autore un processo per oltraggio al pudore che, come documentato in mostra da una divertente pagina del quotidiano francese Comœdia, si tramutò per Marinetti in un successo di critica e di pubblico, che lascia però aperti spinosi interrogativi sull’interventismo colonialista italiano, sulla sua retorica e sulle sue conseguenze nell’immaginario nazionale.
...sulla vicenda Liberazione
di Giovanni Perrino
Devo scrivere di quello che sta accadendo nella sinistra italiana, dopo la decisione, ancora da verificare, del gruppo dirigente di Rifondazione, che vuole sfiduciare il direttore del suo giornale, reo di aver determinato una linea editoriale sbagliata dal punto di vista politico e improduttiva da quello economico.
Devo parlarne perché dalla vicenda sembrerebbe emergere un nuovo quadro politico, e la coseguente accelerazione del processo di disgregamento di Rifondazione e di costituzione di un alternativo soggetto della sinistra alla sinistra del PD, le cui sorti strategiche ed elettorali dipenderebbero, ad oggi, per la verità, più dalla crisi di quest'ultimo che da un'autonoma progettazione in grado di provocare una qualche concreta innovazione.
Devo uscire allo scoperto e esprimere la mia opinione, di solito malcelata nelle pieghe di un politicismo tutt'altro che comodo, ma interno alle vicende schizofreniche della politica italiana degli ultimi quindici anni. Perché di mezzo c'è Fagioli, il mio enorme debito contratto con le sue teorie, uniche portatrici sane di una diversa filosofia occidentale, e Bertinotti, l'ultimo leader dell'unica sinistra novecentesca che mi piace, quella libertaria e socialista. Protagonisti entrambi non solo e non tanto del loro tempo, ma del futuro, cosa possibile solo agli eretici.
Devo dire di Fagioli, di Bertinotti, della Sinistra. Anche se preferirei tacere, e strare tranquillo al coperto, lontano dallo tsunami che sta spazzando via le fragili baracche delle vecchie ideologie e delle logore e corrotte pratiche della democrazia italiana, eccezion fatta ovviamente per i berluscones e i dipietros, che con la democrazia non c'entrano niente. Invece dovrei stare fermo e aspettare che il cadavere del mio nemico mi passi accanto senza che abbia fatto nulla per ucciderlo. Senza nemmeno sporcarmi le mani. Già! Ma di mezzo c'è Fagioli, e Bertinotti e la Sinistra, e allora la mia razionalità se ne va a puttane.
Allora intervengo, per spiegare il mio punto di vista: quello che la mia storia e la mia scelta politica mi impone, quello che il mio tempo ha perso sotto la scure di un pratico e affaristico relativismo, contrario alle idee, alla cultura, alla Storia; quello che nel Medioevo presente non ha diritto di cittadinanza tanto come in quello passato; quello che si chiama laicità, tolleranza, rispetto per l'altro, ma che si dovrebbe chiamare soltanto politica, e dovrebbe creare la possibilità della trasformazione sociale, e dovrebbe conoscere la verità del cambiamento.
Ecco cosa manca in questa vicenda, ancora una volta: la Politica.