giovedì 8 gennaio 2009

Liberazione 8.1.09
Siamo pronti ad acquistare Liberazione. Perché non ci rispondete?
di Luciano Ummarino*


Noi siamo Loop, i "corsari" che nel momento di grave criticità dell'editoria italiana hanno appena lanciato un nuovo bimestrale.
La crisi del quotidiano Liberazione , le proposte di acquisto da parte di un unico imprenditore, ci hanno spinti a formulare una proposta diversa per la tutela e il rilancio di un giornale indipendente, libero e di sinistra. Per questi motivi abbiamo costruito le premesse alla realizzazione di un consorzio aperto di società cooperative e piccole-medie imprese che potesse acquistare, in parte, o nella totalità il quotidiano Liberazione .
La forma consorzio non è stata scelta a caso. Avendo preso atto dell'impraticabilità dell'ipotesi di una " Liberazione senza padroni", abbiamo formulato l'ipotesi di affidarla a molti. Molti padroni sono meglio di uno, soprattutto nella tutela dell'indipendenza del giornale. Lasciando contestualmente aperte le porte del consorzio ad altre realtà che volessero in futuro entrare a farne parte. Forti di questa proposta, organizzata su una company partecipata, il 5 gennaio abbiamo incontrato il direttore di Liberazione Piero Sansonetti per vagliare le ipotesi ancora in campo.
E' emersa, ovviamente, la necessità di praticare una preventiva due diligence , un atto affidato a un soggetto terzo che chiarisce in maniera definitiva e trasparente lo stato dei conti della società in vendita. Il giorno stesso Piero Sansonetti, come da noi richiesto, ha comunicato la nostra manifestazione di interesse , all' amministratore del Prc.
Il giorno dopo (l'Epifania!) abbiamo appreso dell'anticipazione al 12 gennaio della direzione nazionale di Rifondazione prevista a fine mese, con odg di sfiducia al direttore di Liberazione e contestuale incarico ai due nuovi direttori: una cosa che sembra assomigliare molto alla proposta Luca Bonaccorsi.
Non vogliamo indagare quali siano stati i motivi che hanno spinto in un giorno di festa il segretario del Prc ad una accelerazione simile. Risulterebbe inoltre arrogante da parte nostra, intravedere un nesso tra la nostra azione e quella operata dal segretario Ferrero.
E' utile invece cercare di capire con quale modalità avvenga la dismissione di un giornale come Liberazione .
Ci si appresta ad alienare un patrimonio politico e culturale senza nemmeno vagliare adeguatamente altre proposte di acquisto, senza considerarne la diversità, la solidità.
E' preoccupante che questo avvenga perché è una modalità che va contro i più banali principi che regolano il più barbarico dei liberismi. Non si dovrebbe scegliere la proposta migliore, più trasparente e soprattutto quando è necessario garantire il futuro, l'indipendenza e la libertà di uno strumento di informazione?
In questi giorni non è successo nulla di tutto questo e anzi sembra che si mettano in campo tutti i mezzi per impedire una competizione trasparente e pubblica. A pagarne sarà Liberazione , i suoi giornalisti e lavoratori, e tutti noi.
per conto del costituendo consorzio B.G.I.
Luciano Ummarino
direttore editoriale di "Loop"

Liberazione 8.1.09
Sgrena e Greco tirati in ballo da un'agenzia smentiscono. Nelle mani del Cdr pronti dieci giorni di sciopero
Il toto-direttori non c'azzecca
Oggi i lavoratori incontrano Ferrero
di Beatrice Macchia


Parole in libertà? Sulla nostra pelle. In sintesi, questo è. Il toto-direttori (perché il plurale è d'obbligo) impazza sull'annunciato dopo Sansonetti a Liberazione . Almeno sulle agenzie stampa (o meglio su una), perché nei corridoi e nell'assemblea dei redattori di viale del Policlinico si respira un'altra aria. Oggi è prevista l'assemblea di tutti i lavoratori della testata col segretario di Rifondazione Comunista (e Fnsi e Associazione Stampa Romana) e l'assemblea dei giornalisti ieri ha confermato un pacchetto di 10 giorni di sciopero. Il messaggio è chiaro. Si attendono risposte e non balletti. C'è una trattativa di vendita? E' stato firmato o meno il protocollo d'interesse? E il doppio direttore che verrà, c'entra qualcosa con il piano di doppia direzione proposto da Bonaccorsi?. I giornalisti non possono leggere sulle agenzie notizie sul loro destino. A maggior ragione se l'editore è il partito della difesa degli interessi dei lavoratori. Sarebbe troppo chiedere di poter discutere del proprio destino prima che venga deciso e sigillato?
Tant'è, lunedì ci sarà la direzione defenestrante del Direttore Sansonetti e la nomina dei "direttori". Uno "politico" e uno di gradimento dell'editore Bonaccorsi o uno "politico" e un direttorese responsabile (giornalista)? Interni o esterni? Chi lo sa. L' Agi si spinge in là con le previsione che finora correvano sugli sms e la butta là: sarebbe Giuliana Sgrena, l'amica e collega de il manifesto , il "nome nuovo". L'interessata smentisce: «A me nessuno ha mai chiesto di fare il direttore di Liberazione». Sottotitolo: nessuna disponibilità. Così come fa, direttamente e senza appelli, il sindacalista bresciano, Dino Greco, collaboratore del quotidiano e attuale membro della Direzione nazionale Cgil. «Nessuno mi ha mai contattato». E' il classico toto-nomi. Quasi sempre a caso. Con le riproposte di personaggi storici di Rifondazione, i rumors su redattori interni, su altri sindacalisti, giornalisti e chi più ne ha ne metta. Lunedì si saprà. I meglio informati puntano su un binomio donna-uomo. Chi "politico" e chi "responsabile" si vedrà. Sempre ammesso che non vi siano altri "colpi di scena". Come l'apertura di un altro tavolo di trattative, l'annuncio della vendita a Bonaccorsi già firmata (o il suo ritiro) o la riconsiderazione del piano aziendale presentato alla Fnsi e alla Fieg e bocciato il 22 dicembre dalla Direzione Nazionale del Prc.
Per il direttore "quasi uscente" ieri un manifesto attestato di stima da Ritanna Armeni, editorialista del giornale e già membro del consiglio d'amministrazione «destituito» - lo dice lei - della Mrc S.p.A.: «E' in corso una pessima operazione che uccide un giornale fortemente innovatore ed una sinistra che uccide un giornale fortemente innovatore con un ottimo direttore dice di quali intenzioni ed intenti innovatori possa esser animata questa sinistra». «L'eventuale vendita rende ancora più negativa una operazione che aveva ed ha come obiettivo liberarsi di un ottimo direttore e di una linea politica fortemente innovatrice con una soluzione, la doppia direzione, ridicola, ridicola, ridicola, come se politica cultura e cronaca non fossero tra loro intrecciate».
Di avviso diverso invece, Pietro Folena, che in qualità di privatizzatore de l'Unità che fu e di portavoce di Uniti a Sinistra, loda Paolo Ferrero: «Trovo giusto e ragionevole il progetto di disimpegnare il Partito dal quotidiano in perdita, quel che ho trovato sgradevolissima è la polemica sopra le righe che ne è seguita: un segno inequivocabile dell'immaturità che c'è nella sinistra ed è quanto mai opportuno mettere il classico punto e a capo». «Vorrei tanto - continua Folena - che ci si concentrasse di più nella costruzione di una sinistra nuova, plurale, federale, in grado di competere». Il tutto è poco informato e anche un po' offensivo per i giornalisti di Liberazione che continuano a essere i fantasmi di questa pantomima. Ma così è.

Liberazione 8.1.09
«Gravissimo bypassare il sindacato»
di Antonella Marrone


Paolo Serventi Longhi, segretario per lunghissimo tempo della Federazione nazionale della stampa italiana, dal 1996 al 2007, dal giugno 2008 assume l'incarico di direttore di Rassegna sindacale , settimanale della Cgil. Di trattative sindacali ne ha fatte a centinaia. Oggi non ha molti dubbi: le relazioni sindacali si sono allentate, le aziende non hanno intenzione di rispettare quelle regole di trasparenza che dovrebbero guidare i passaggi cruciali della vita di una testata giornalistica.
A "Liberazione" sta succedendo la stessa cosa che in altri gruppi editoriali. Trattative riservate, passaggi di comunicazioni informali. Tutto questo va avanti da aprile. Una redazione che già all'epoca era stata preparata all'idea un piano di ristrutturazione, in perenne attesa, però, di sapere perché. Ed eventualmente come. Sono passati dieci mesi, tra calde promesse di condivisione e isterici richiami all'urgenza dello stato di crisi. In balia di conti effimeri. Inutile dire che sentirsi scavalcati per quanto riguarda le relazioni sindacali è un eufemismo. Soprattutto visto il tipo di proprietà...
Il problema è semplice: o c'è il rispetto delle regole o si lavora in una situazione torbida. Il contratto prevede il diritto delle rappresentanze sindacali ad avere comunicazione dalla proprietà, con un largo anticipo, su questioni fondamentali come nomine dei direttore, stato di crisi, ristrutturazione, riorganizzazione del lavoro. Ovviamente anche per il cambio di proprietà.
Nel caso di un piano di ristrutturazione o di un possibile stato di crisi ci sono dei passaggi obbligati?
Beh un confronto aziendale preliminare, soprattutto nel caso in cui bisogna ricorrere alla 416, è un atto dovuto. Certo se non si vuole trasparenza si fa presto, basta non presentarsi, presentare carte incomprensibili, rimandare gli incontri.
E il tempo passa. Ne hai visti molti di casi di "ristrutturazione" mascherati?
A bizzeffe. Un caso per tutti, clamororso, il gruppo Riffser ( Il Giorno , La Nazione , Il resto del Carlino ). Sono già alla settima ristrutturazione con piani senza riscontro sulla effettività della crisi, senza fase preliminare. Senza nessuna trasparenza. È veramente difficile trovare una proprietà che avvii un percorso lineare e corretto
A dire il vero noi pensavamo di essere in un "ventre di vacca", ma fino ad oggi ogni tentativo è stato ricacciato indietro...
Abbiamo vissuto insieme i momenti più drammatici dell' Unità , della crisi... Ricorderai quanta passione c'era nei colleghi. Anche in questo caso, è chiaro il legame politico e affettivo chiederebbe più rispetto. Lavorare in alcune aziende, presuppone che il lavoro non sia solo un affare di retribuzione, ma c'è anche un'adesione politica. Che vuoi, c'è poco da dire. Dal punto di vista sindacale è vero, purtroppo, che a fronte di una progressiva debolezza del sindacato - che si è accentuata nel corso degli anni - le proprietà hanno alzato la testa. Questo come sappiamo accade in tutti i settori del lavoro, non solo nel nostro. Ma certo è che la situazione si sta progressivamente aggravando e i Comitati di redazione, cioè i rappresentanti sindacali dei giornalisti, diventano sempre meno un interlocutore anche per questioni importanti nel campo dell'organizzazione del lavoro.

l’Unità 8.1.09
Intervista a Hanan Ashrawi
La parlamentare palestinese: di fronte al massacro in atto a Gaza dobbiamo rifiutare sia il terrorismo che la rassegnazione
«Al mio popolo dico: la via è la resistenza non violenta»


«Guardate quei filmati su YouTube. Imprimetevi nella mente lo sguardo terrorizzato dei bambini di Gaza. Guardateli negli occhi: troverete una paura senza fine. Molti di quei bambini sono morti di paura, quando non sono stati uccisi dai bombardamenti israeliani. Guardate quei corpi estratti dalle macerie delle scuole dell’Onu rase al suolo dall’artiglieria israeliana. Guardateli e chiedetevi: cosa c’è di “difensivo”, di moderato, in questo massacro d’innocenti?. Guardateli. E pensate cosa possono provare i loro fratelli o i loro padri, Su questi massacri sta crescendo in tutto il mondo arabo un odio profondo verso Israele». La sua voce è incrinata dalla commozione e dalla rabbia. Le sue parole sono impastate di sdegno. Se c’è una dirigente palestinese lontana anni luce dai fondamentalisti di Hamas, questa dirigente è Hanan Ashrawi, più volte ministra dell’Anp, prima donna portavoce della Lega Araba, paladina dei diritti umani nei Territori. «Ho sempre combattuto Hamas, ma non ho mai pensato che la sua sconfitta potesse venire da una prova di forza militare, per di più condotta da Israele. Già in passato Israele ha provato a decapitare la leadership di Hamas, assassinando il suo stesso fondatore (sheikh Ahmed Yassin, ndr.). Il risultato è stato il rafforzamento di Hamas. Israele aveva una carta da giocare per sconfiggere veramente Hamas: realizzare una pace giusta, fondata sulle risoluzioni Onu. La carta della nascita di uno Stato palestinese realmente indipendente, sovrano su tutto il suo territorio nazionale. Invece ha spacciato per uno “Stato in fieri” i bantustan della Cisgiordania».
A Gaza si continua a combattere. Le armi si sono fermate per sole tre ore. È ancora guerra totale.
«No, a Gaza non è in atto una guerra totale. A Gaza è in atto un massacro totale. A morire, a centinaia, sono donne e bambini, come quelli sepolti sotto le macerie delle scuole dell’Onu bombardate nella Striscia».
Israele afferma che la sua è un’azione difensiva.
«Difensive sono le tonnellate di bombe sganciate sull’area più densamente popolata al mondo? Inorridisco al solo pensarlo. Ho sempre denunciato la militarizzazione dell’Intifada. Hamas è parte di questa degenerazione che ha fatto solo il gioco dei falchi israeliani. Da tempo ritengo che tra terrorismo e rassegnazione, vi sia una terza via più efficace e coraggiosa: quella della resistenza non violenta...».
Linea contestata da Hamas.
«Lo so bene. Ma niente può giustificare la mattanza che Israele sta praticando a Gaza. Niente. In tempi meno tragici avevo chiesto il dispiegamento di una forza d’interposizione ai confini fra Gaza e Israele. Prima di Hamas, a dire un no secco è stato Israele, perché intendeva quella forza di pace come il cedimento ad una “internazionalizzazione” del conflitto israelo-palestinese. E invece solo una “internazionalizzazione” del conflitto può ridare una chance al negoziato».
Può essere Al Fatah del presidente Abu Mazen la vera alternativa a Hamas?
«Hamas ha costruito le sue fortune elettorali sul discredito di una classe dirigente accusata, e a ragione, di corruzione e incapacità. Senza un profondo rinnovamento non solo di persone ma della concezione stessa di governo, l’alternativa a Hamas sarà la disgregazione...».
Pace è una parola impronunciabile?
«No, è una parola che va riempita di contenuti, alla quale i legare un’altra parola-chiave, altrettanto importante: . Giustizia. Quella che da decenni il mio popolo reclama invano».

Liberazione 8.1.09
Che diremmo se Hamas avesse ucciso 600 israeliani?
di Robert Fisk


E così ancora una volta Israele ha aperto le porte dell'inferno ai palestinesi. 40 civili che cercavano rifugio sono morti in una scuola dell'Onu, altri tre in un altra. Non male per una notte di lavoro a Gaza da parte di un esercito che crede nella "purezza delle armi". Ma perchè questo dovrebbe sorprenderci?
Abbiamo dimenticato i 17.500 morti, quasi tutti civili, molti dei quali donne e bambini, dell'invasione israeliana del Libano nel 1982; i 1700 civili palestinesi morti nel massacro di Sabra e Chatila; la strage di Qana presso la base Onu dove trovarono la morte 106 civili libanesi, metà dei quali bambini; l'assassinio dei profughi di Marwahin a cui venne ordinato di lasciare le loro case per poi essere falciati da un elicottero israeliano; i 1000 morti, quasi tutti civili, provocati sempre nel 2006 nel corso dell'invasione, sempre in Libano?
Quello che veramente sorprende è che molti leader occidentali, tanti presidenti e primi ministri, e, io temo, molti editori e giornalisti, hanno accettato la solita vecchia bugia: gli israeliani hanno fatto molta attenzione per evitare vittime innocenti. «Israele ha fatto il possibile per evitare vittime civili», è quanto ha dichiarato poche ore prima del massacro di Gaza un ambasciatore israeliano. E ogni presidente e primo ministro che ha ripetuto questa falsità come scusa per non chiedere un cessate il fuoco, ha sulle sue mani il sangue del macello che si è compiuto la scorsa notte. Se George Bush avesse avuto il coraggio di chiedere un immmediato cessate il fuoco 48 ore prima di quel fatto, quei vecchi, quelle donne e bambini sarebbero vivi.
Quanto accaduto non è solo vergognoso. Usare il termine crimini di guerra per descrivere quanto accaduto è troppo? Perchè questo è il termine che avremmo usato per questa atrocità se fosse stata commessa da Hamas. Quindi temo che era un crimine di guerra. Dopo aver scritto di così tanti massacri avvenuti in Medio Oriente, da parte delle truppe siriane, irachene, iraniane e israeliane, suppongo che avrei dovuto avere una reazione più cinica.
Ma Israele sostiene di combattere una guerra per noi contro il "terrorismo internazionale". Gli israeliani sostengono di combattere a Gaza per noi, per i nostri ideali occidentali, per la nostra sicurezza, per i nostri standard di vita. Quindi anche noi siamo complici della barbaria che oggi invade Gaza.
Ho riportato varie volte le scuse dell'esercito israeliano per questi oltraggi nel passato. Siccome potrebbero essere ripetute nelle prossime ore ve le ripropongo. Israele dice che i palestinesi hanno ucciso i loro profughi, che hanno disotterrato i cadaveri dai cimiteri e sparso i corpi tra le rovine, che alla fine i veri responsabili sono i palestinesi in quanto sostenitori di un fazione armata, oppure che gli stessi palestinesi armati hanno usato i rifugiati come scudi umani.
Il massacro di Sabra e Chatyila fu commesso dai falangisti libanesi di destra mentre le truppe di Israele, come ha rivelato la stessa commissione israeliana, rimasero a guardare per 48 ore senza fare nulla. Quando Israele fu accusata, il governo di Menacham Begin accusò il mondo di diffamazione. Dopo che l'artiglieria israeliana sparò contro il comprensorio Onu di Qana, nel 1996, Israele sostenne che gli stessi Hezbollah stavano bombardando la base. Era una bugia. I più di mille morti del 2006, una guerra iniziata dopo che Hezbollah aveva catturato due soldati isreaeliani al confine, furono derubricati come responsabiltà di Hezbollah. Israele sostenne che i cadaveri dei bambini nel secondo massacro di Qana erano stati presi da un cimitero. Era un'altra bugia. Il massacro di Marwahin non venne mai giustificato. Alla gente del villaggio venne ordinato di lasciare le loro case, obbedirono agli ordini degli israeliani e furono attaccati da un elicottero. I profughi presero i loro bambini e si misero vicino ai camion sui quali viaggiavano per permettere ai piloti di vedere che erano civili. Poi l'elicottero israeliano li falciò, da vicino. Sopravissero solo in due fingendosi morti. Israele non chiese neppure scusa.
Dodici anni prima un'altro elicottero attaccò una ambulanza che trasportava civili, anche a loro era stato ordinato di abbandonare il loro villaggio, morirono tre bambini e due donne. Israele sostenne che un combattente di Hezbollah era sull'ambulanza. Non era vero. Ho seguito e scritto tutte queste atrocità, le ho indagate, parlato con i sopravissuti. Così hanno fatto molti miei colleghi. Come risposta ottenemmo degli scritti diffamatori: fummo accusati di essere antisemiti.
E scrivo quanto segue senza alcun dubbio: sentiremo di nuovo queste scandalose ricostruzioni. Sentiremo la scusa-bugia di Hamas - e dio solo lo sa che ce n'è abbastanza contro di loro senza bisogno di inventarsi crimini - sentiremo di nuovo dei cadaveri dai cimiteri, e che Hamas era nella scuola dell'Onu. Tutte bugie. E che noi siamo antisemiti. E avremo i nostri leader che sbuffando e balbettando ricorderanno al mondo che è stata Hamas a rompere il cessate il fuoco. Non lo ha fatto. Israele lo ha fatto per prima, il 4 novembre, quando con i suoi bombardamenti uccise 6 palestinesi a Gaza e ancora il 17 novembre quando in un altro bombardamento morirono altri quattro palestinesi.
Sì, Israele merita sicurezza. Venti israeliani uccisi in 10 anni attorno a Gaza è un dato tragico. Ma 600 palestinesi morti in una sola settimana, e migliaia nel corso degli anni dal 1948, è sicuramente un differente scala. Questo ci ricorda che non siamo di fronte a un "normale" massacro del Medio Oriente, ma ad una atrocità che ricorda la guerra dei Balcani degli anni '90. E naturalmente quando un arabo scatenerà tutta la sua furia incontenibile e scaricherà la sua rabbia cieca contro l'occidente, diremo che questo non ha nulla a che fare con noi. Ci chiederemo, perchè ci odiano? Ma non facciamo finta che non conosciamo la risposta.

Liberazione 8.1.09
I pacifisti tornano in piazza L'11 a Roma, il 17 ad Assisi:
«Ora cessate-il-fuoco»


Una lunga catena umana per la pace unirà l'ambasciata d'Israele a Roma in via Michele Mercati alla delegazione generale Palestinese in piazza San Giovanni in Laterano 72, «per dire sì alla pace, al dialogo, al riconoscimento dei diritti del popolo palestinese e del popolo israeliano. E fermare subito una violenza che non ha giustificazioni». Questa è l'iniziativa promossa da alcuni consiglieri e assessori della Regione Lazio che si svolgerà domenica 11 gennaio a partire dalle ore 10,30 sotto lo slogan "Diamo una mano alla pace". Tra i primi firmatari gli assessori regionali Luigi Nieri, Giulia Rodano, Alessandra Tibaldi, Filiberto Zaratti e i consiglieri Enrico Fontana, Enrico Luciani, Ivano Peduzzi, Anna Pizzo. «Sono circa 5 chilometri da fare insieme mano nella mano, per dire sì alla pace, al dialogo, al riconoscimento dei diritti del popolo palestinese e del popolo israeliano - si legge nell'appello - E fermare subito una violenza che non ha giustificazioni. La pace è un diritto fondamentale, irrinunciabile, inalienabile. La pace è una condizione di vita. Noi vogliamo che nella terra di Palestina e nella terra di Israele ci sia la pace. Una pace che duri. Per ottenere questo risultato è necessaria una tregua immediata. E' necessario che tornino il dialogo e la diplomazia, quella ufficiale e quella popolare. Il terroristico lancio di missili da parte di Hamas e la sproporzionata disumana risposta del governo di Israele sono inaccettabili per la comunità internazionale. Chiediamo che si fermi subito la violenza, che ai bambini sia dato il diritto a non avere paura, che le donne e gli uomini abbiano il diritto a vivere in pace».
Un altro appello alla mobilitazione per la pace in Medio Oriente, firmato dalla Tavola della pace da Acli, Arci e Legambiente, è per sabato 17 gennaio ad Assisi alle ore 10,00.
Iniziamo a costruire una grande partecipazione - si legge nell'appello - per essere in tanti e tante ad Assisi e gridare: C'è un modo per evitare il massacro di civili. C'è un modo per salvare il popolo palestinese. C'è un modo per garantire la sicurezza di Israele e del suo popolo. C'è un modo per dare una possibilità alla pace in Medio Oriente. Cessate il fuoco. Ritiro immediato delle truppe israeliane. Fine dell'assedio. Protezione umanitaria internazionale

l’Unità 8.1.09
«Il Pd è ridotto a una somma di comitati elettorali»
intervista a Leonardo Domenici
di Osvaldo Sabato


Devo dire che sono rimasto colpito da alcuni interventi che ho ascoltato nella direzione nazionale del 18 dicembre scorso e da alcune dichiarazioni sulla stampa». Esordisce così il sindaco di Firenze Leonardo Domenici puntando la sua attenzione sul rapporto tra il Pd nazionale e le città. Le inchieste delle procure di Napoli, Pescara e Firenze, che hanno colpito da dentro le amministrazioni di queste città, hanno riportato a galla la questione morale. Qualcuno però fa notare la poca incisività del Pd nazionale sulle realtà locali con i “cacicchi” che hanno preso il sopravvento. Ma per il sindaco di Firenze, il problema è più politico. «Beh - dice - quando leggo che in questo momento bisognerebbe, facendo di ogni erba un fascio e senza fare nessuna distinzione di merito, introdurre una più netta distinzione tra il partito e gli amministratori locali penso che si stia dicendo una cosa sbagliata, gravemente sbagliata. Mi riferisco, per esempio, ad alcune dichiarazioni di Giorgio Tonini e mi chiedo se su questo punto non sia opportuno andare ad un chiarimento serio, vero, dentro il Pd».
Domenici insiste: «Veltroni più volte ha detto che certo ci sono dei problemi a livello locale, ma bisogna pensare a quella migliaia di amministratori del Pd che lavorano in maniera seria e portano avanti l’esperienza concreta di quel partito riformista e di massa, come lo ha definito il segretario, da cui dubito che possiamo prescindere se vogliamo costruire seriamente il Pd. Il problema è anche uno scollamento tra la politica nazionale con quella locale. Ma il punto non è che la ragione sta da una parte, o dall’altra».
Le indagini della magistratura però nelle città giudate dal centrosinistra sono sotto gli occhi di tutti.
«Il problema fondamentale è che ci sono delle situazioni che presentano elementi degenerativi nelle realtà locali, ma questo è proprio il risultato dello scollamento, della frattura e della mancanza di rappresentanza nel rapporto tra il gruppo nazionale e realtà politica e amministrativa dei territori. La questione ci rimanda di nuovo al tipo di partito che vogliamo costruire».
L’inchiesta su Castello ripropone il tema delle intercettazioni telefoniche. In questo periodo l’argomento è al centro del dibattito politico.
«Credo che questo strumento di indagine debba servire a completare e non a dare inizio all’inchiesta. Qualcuno mette in discussione la legittimità degli atti amministrativi? Che lo dica. Ci sono comportamenti di persone che da dentro l’amministrazione hanno condizionato le scelte del Comune? Sono convinto di no. Ci sono prove contrarie? Credo che se si rimane a livello di uso vergognoso di intercettazioni telefoniche è difficile fare un discorso».
Sullo sfondo ci sono le primarie per la scelta del suo successore e le polemiche per la sua decisione di disertare il consiglio comunale.
«È evidente che prima di tornare ci vuole un chiarimento politico (per domani è previsto un vertice a Palazzo Vecchio, ndr), che non può riguardare solo il presente, ma anche i problemi di coalizione e le scelte programmatiche future».
Sindaco, è sempre dell’idea di non prendere parte al consiglio comunale?
«Si solleva un problema che a mio motivo non ha motivo di essere. Perché prima di tornare in consiglio comunale è evidente che ci vuole un chiarimento politico».
Lei si riferisce ai suoi alleati?
«Esatto. Il chiarimento politico non può riguardare solo il presente, ma deve toccare anche i problemi di coalizione, di scelte politiche programmatiche del futuro. Io ho sempre pensato che si doveva costruire la prospettiva futura, partendo da quanto abbiamo fatto in questi nove anni e mezzo di governo della città, che considero positivo, come dimostrano i dati statistici su Firenze in rapporto alle altra città italiane».
Invece?
«Vedo che si è deciso di rovesciare la questione: siccome tutti pensano alla prospettiva futura promuovendo la demolizione della esperienza presente, senza una ragione reale, in rottura con quello che si è fatto in questi anni. Non è una questione personale, ma politica. Penso che sia un approccio sbagliato che rischia di avere conseguenze pesanti».
Lei chiama in causa il suo partito?
«Il Partito democratico dovrebbe riflettere su questo e agire di conseguenza. Il problema non è tanto il sostegno alla mia amministrazione, bensì di capacità di iniziativa politica, di risposta, di elaborazione propria, di reazione, anche di battaglia verso le opposizioni e dei gruppi di poteri, più o meno occulti, che si sono riattivati in vista della prossima campagna elettorale. Ecco io noto che da questo punto di vista il Pd fiorentino mi sembra piuttosto passivo, per non dire amorfo. Purtroppo devo constatare che anche a Firenze, come in altre parti d’Italia, si pone il problema su che tipo di partito abbiamo costruito, o stiamo costruendo».
La sua risposta qual è?
«Vogliamo fare un partito capace di esprimere una proposta programmatica forte, oppure, vogliamo fare un partito che sia soltanto una sommatoria di comitati elettorali. Credo che questa sia la prospettiva più rischiosa, ma credo anche che sia la situazione in cui ci troviamo in questo momento».
A Firenze il Pd è alle prese con le primarie. I problemi non mancano.
«Penso che sia assurdo andare con quattro candidati. A mio parere il Pd dovrebbe indicare un candidato, al massimo due, con una sorta di doppio turno. Il partito deve avere un sussulto di ragionevolezza: se si riunisce e discute il tempo per cambiare le cose non manca. Poi si parla di primarie di coalizione, ma non ho ancora capito esattamente quale è la coalizione, da chi è composta ma soprattutto in che rapporto sta questa prospettiva con quella attuale. Forse si vorrebbe che qualcuno tirasse la carretta fino in fondo».

il Riformista 8.1.09
Cretinismi di sinistra su Israele
di Peppino Calderola


L'occupazione della Palestina da parte di Israele è una brutale pratica coloniale. L'ideologia sionista, alla base della nascita dello Stato di Israele, è nata all'interno di una cultura europea che legittimava e praticava il colonialismo... Israele è l'ancella dell'imperialismo in Medio Oriente… (Israele è)… una società militarizzata e compattamente schierata a favore dei crimini di guerra». Sono le frasi principali di un articolo pubblicato ieri da "Liberazione" e firmato da Fabio Amati, responsabile esteri di Rifondazione comunista. È difficile commentarle. Il dramma è che le opinioni di questo Amati sono assai diffuse anche oltre Rifondazione comunista. Non mi scandalizza, anche se mi fa schifo, il giudizio su Israele. Vogliono distruggerla, almeno Amati ha il coraggio di dirlo. Ma è la protervia di definire Israele «una società militarizzata e compattamente schierata a favore dei crimini di guerra» che fa uscire la posizione di Amati dalla mostruosità politica per entrare nel cretinismo puro. In quella «società militarizzata» ognuno è libero di fare quel che crede, in quei paesi islamici che Amati ammira le donne sono segregate, gli omosessuali tormentati (tutti seguaci di Massimo Fagioli?), non si possono avere pensieri diversi da quelli previsti dalle autorità religiose. Diciamo la verità: c'è gente e c'è più di un partito a sinistra con cui non si può prendere neppure un caffè. Rottamare questa sinistra per rinascere. Serve una discarica per il post-comunismo.

Repubblica 8.1.09
"La Chiesa non escluda i preti gay" l'apertura del giornale dei vescovi
Il direttore di "Avvenire": dibattito costruttivo
Lo psichiatra Vittorino Andreoli: "L'omosessualità non è una malattia"
di Marco Politi


Smettere di considerare l´omosessualità come una malattia. Lo scrive su "Avvenire" lo psichiatra e scrittore Vittorino Andreoli, invitando i lettori cattolici a fare i conti con l´evoluzione culturale e scientifica e a capire che l´omosessualità non risponde più a vecchi stereotipi. Ma Andreoli va anche più in là. Pur sottolineando di non entrare minimamente nella questione del diritto della Chiesa di selezionare il clero secondo propri criteri, lo psichiatra mette nero su bianco: «Questo lascia aperta la questione sul perché debbano essere per forza oggi escluse dalla vita sacerdotale le persone di orientamento omosessuale».
Andreoli sta svolgendo sul giornale dei vescovi un´inchiesta sui preti che ha già raggiunto le quarantotto puntate. E l´articolo su «Il sacerdote nei casi estremi: l´omosessualità» è introdotto con tutti i crismi dal direttore Dino Boffo, che rende omaggio alla sua professionalità, spiegando che il suo argomentare «è affidato alla nostra riflessione libera e ad un dibattito costruttivo».
In effetti l´intervento cade come un sasso nello stagno, mentre da anni la gerarchia ecclesiastica batte sul tasto dell´omosessualità come peccato orribile da non assolvere se si vive stabilmente con un partner gay, come «grave disordine morale» e causa di non ammissione all´ordinazione secondo quanto ribadito recentemente da un´Istruzione vaticana.
Leggere sull´ "Avvenire" che sul piano scientifico «le manifestazioni e i comportamenti che scaturiscono dall´omosessualità non sono patologie, ma variabili all´interno di quella che si chiama normalità, pur se questa è difficile da definire», è un piccolo terremoto. Un «fatto importante» dicono a "Repubblica" tre persone di orientamento del tutto differente: il professor Tonino Cantelmi, presidente dell´Associazione psicologi e psichiatri cattolici, Franco Grillini già presidente dell´Arcigay, Gianni Geraci del gruppo omosessuale cattolico milanese «Il Guado».
Per il professor Cantelmi affrontare il tema «è positivo». Fermo restando che tocca alla Chiesa l´aspetto morale e spirituale, Cantelmi sottolinea da psichiatra cattolico che «noi ci adeguiamo ai convincimenti della comunità scientifica e comunque la scelta dell´ "Avvenire" dimostra che la Chiesa non ha un atteggiamento discriminatorio verso i gay». Più colorito Grillini: «È bene che nella tana del lupo (l´ "Avvenire") si leggano cose di buon senso. In America un dirigente dell´associazione Exodus, che organizzava corsi di pseudoguarigione dall´omosessualità, ha dovuto chiedere scusa all´opinione pubblica gay».
Gianni Geraci, che per anni ha animato il coordinamento dei gay cattolici italiani, trova «interessantissimo» che sul giornale dei vescovi si manifesti attenzione a «discorsi scientificamente fondati», respingendo la tendenza di certi movimenti carismatici a voler guarire gli omosessuali.
Andreoli preannuncia un approfondimento. Il suo approccio iniziale è stato estremamente soft. Parla di «orientamento omosessuale» e non di pratica. Ribadisce: «Non mi scandalizzo se un´organizzazione come la Chiesa decide di escludere dal sacerdozio ministeriale l´omosessuale». Ma le sue conclusioni lasciano il segno. Ai sacerdoti scopertisi omosessuali e che soffrono per restare fedeli alla loro vocazione (in castità) «vorrei dire � io non credente � di rivolgersi a Dio e chiedergli l´aiuto che anche questa caratteristica diventi una ricchezza al servizio della missione».

Repubblica 8.1.09
Intervista a Gustavo Zagrebelsky
Le libertà oggi a rischio
di Simonetta Fiori


Professor Gustavo Zagrebelsky, qual è l´insegnamento essenziale che viene dalla lezione pubblicata in questa pagina?
«Si può notare quanto questo testo sia lontano dal cliché che fa del professor Bobbio un teorico della democrazia esclusivamente formale, cioè della democrazia come insieme di regole procedurali. Senza queste regole, non c´è democrazia. Ma non è vero che la democrazia si esaurisca qui. Non bastano le istituzioni; occorre che le istituzioni siano "alimentate da saldi principi" e questi saldi principi sono l´humus della democrazia. Occorre dunque che le forme della democrazia operino in una sostanza democratica. Bobbio, in questo campo, era tutt´altro che un formalista. Avendo appreso la lezione dalla teoria e dalla storia, sapeva bene che, senza sostanza, la democrazia si trasforma in un guscio vuoto che può contenere, cercando magari di nasconderla o di imbellettarla, qualsiasi sozzura e che ciò, alla fine, si rivolgerà contro le sue regole formali, rendendole odiose ai più. Se le procedure democratiche si riducono a una scorciatoia per gli interessi dei potenti di turno, è facile che la frustrazione dei molti possa essere indirizzata contro la democrazia, invece che contro chi ne abusa. L´origine del populismo è questa».
Sta parlando di noi?
«Sto parlando, mi pare, di un rischio che la democrazia corre in quanto tale. Se poi oggi viviamo in condizioni particolari di pericolo, ciascuno giudichi da sé. Per dare un giudizio, questo testo suggerisce di non limitarci alle forme e di portare l´attenzione sulla sostanza. Bene o male, le forme ci sono o, se non ci sono, è perché, prima, si è persa di vista la sostanza».
Tre sono i punti essenziali indicati da Bobbio: libertà civili, libertà politiche, libertà sociali. Quali libertà sono oggi più "a rischio"?
«Questo testo parla una sola volta di uguaglianza, a proposito della libertà in politica: in democrazia non vi sono "governanti e governati per destinazione, potenti incontrollati e servi rassegnati". Ma l´uguaglianza è una condizione onnipervasiva della democrazia. Senza uguaglianza di mezzi materiali e intellettuali, la libertà cambia natura e la democrazia si trasforma in maschera dell´oligarchia, cioè del regime del privilegio di pochi, non necessariamente i migliori, a danno dei molti, non necessariamente i peggiori, ma certamente i più deboli. Cioè: la democrazia, che dovrebbe essere il regime che bandisce tra gli esseri umani l´uso della forza, si rovescia nel suo contrario, cioè nel regime basato sullo squilibrio della forza. Da qui può venire una risposta alla sua domanda. Mai come in questo momento della vita della nostra società constatiamo tanta iniquità nella distribuzione dei beni materiali, delle conoscenze e delle risorse intellettuali. La critica antidemocratica ha sempre sottolineato il rischio della massificazione, dell´appiattimento verso il basso. Ma qui, ora, si prefigura un incubo diverso: il gregge esposto e ignaro, guidato da pochi pastori, cioè da gente che - come diceva Trasimaco - solo l´ingenuo Socrate poteva credere avesse a cuore il bene delle sue pecore, piuttosto che il proprio interesse. Una politica per l´uguaglianza: ecco ciò di cui ci sarebbe bisogno e non si vede in giro, nemmeno a sinistra».
Di fronte all´involuzione in atto, suonano profetiche le parole di Bobbio che, all´ottimismo dei padri, oppone la necessità di essere "democratici in allarme". Non siamo stati abbastanza "in allarme"?
«Bisogna prendere sul serio quanto Bobbio stesso dice della democrazia. Dice che non è un dato di fatto, un "cammino fatale" che si possa percorrere con facile fiducia. No. La democrazia è una meta, anzi "la meta più alta", che richiede molto impegno e molte rinunce e non può vivere senza un ethos adeguato».
È ciò che manca oggi in Italia?
«Sì, abbiamo pensato che la democrazia sia un regime naturale, al quale tutti, purché non coartati da qualche dittatore, si sarebbero orientati spontaneamente. Ricorda il discorso di Montesquieu sulla "molla della politica"? La molla che fa funzionare il dispotismo, per esempio, è la paura; il potere dei privilegiati, l´invidia (finché dura e non si trasforma in rabbia). Per la democrazia, che è il regime di tutti, occorre una "virtù" particolare, fatta di serietà e sobrietà negli stili di vita, di stima reciproca, di spirito d´uguaglianza, di rifiuto del privilegio e rispetto del diritto, di cura per le cose pubbliche che, essendo di tutti, non possono essere preda di nessuno in particolare. Potrei continuare e sarebbe un elenco che ci farebbe venire i brividi, per quanto lontani siamo dall´avere consolidato quella molla ideale. L´atteggiamento etico che è stato diffuso dappertutto e con tutti i mezzi, in questi decenni, è l´esatto contrario di tutto ciò. E ci stupiamo se avvertiamo la democrazia scricchiolare?».
È questo l´effetto che le ha fatto leggere le parole di Bobbio?
«Sì. I nemici della democrazia sanno che la prima battaglia per combatterla si svolge nei convincimenti e negli stili di vita che essi promuovono. Gli amici della democrazia dovrebbero fare altrettanto, sul versante opposto».

Repubblica 8.1.09
Bobbio. L'edizione di tutte le opere convegni e mostre
di Massimo Novelli


Quando Norberto Bobbio venne sepolto nella tomba di famiglia di Rivalta Bormida, il 12 gennaio del 2004, uno dei figli volle leggere uno suo scritto. Il filosofo rinsaldava lì il suo legame con il borgo contadino, adagiato tra basse colline, vigneti e foschie, in cui era nata la madre Rosa Caviglia, e ricordava: «È bene mantenere le proprie radici» che «si hanno solo nel paese d´origine, nella terra, non nel cemento delle città». Così da quelle radici di Rivalta, un piccolo comune in provincia di Alessandria, domani pomeriggio, in coincidenza con il quinto anniversario della morte, cominciano con una cerimonia a Palazzo Bruni le celebrazioni per il centenario della nascita (avvenuta a Torino il 18 ottobre 1909) di uno dei testimoni e dei protagonisti più significativi della cultura del Novecento.
Sabato, nell´aula magna del rettorato dell´Università di Torino, dove Bobbio insegnò a lungo, insieme alla presentazione delle manifestazioni verrà rievocata la sua figura. Sono previsti interventi di Gastone Cottino, Enzo Pelizzetti, Paolo Garbarino, Marcello Gallo e Pietro Rossi. Il calendario delle iniziative promosse dal Comitato nazionale per il centenario, presieduto da Gastone Cottino e sorto per l´impegno del Centro studi Piero Gobetti, entrerà nel vivo tra aprile e ottobre, con punte nel 2010, attraverso seminari, lezioni, un convegno internazionale (al quale dovrebbe prendere parte il capo dello Stato Giorgio Napolitano), uno spettacolo teatrale, una mostra all´Archivio di Stato di Torino e il completamento dell´edizione critica integrale delle sue opere.
Altri appuntamenti sono in programma in Brasile, in Messico e in Spagna. Spiega Marco Revelli, vicepresidente del Centro Gobetti: «Saranno celebrazioni sobrie, nello spirito di Bobbio. L´intento è di lasciare qualcosa di concreto, non di creare degli "eventi" effimeri». Quelle cose concrete di cui si occupava Bobbio, ultimo grande rappresentante dell´"Italia civile". Ne incarnò i principi tanto da diventare per tanti l´estremo maestro, malgrado la sua ritrosia.
Bobbio era nato nel 1909, lo stesso anno di Alessandro Galante Garrone e di Leone Ginzburg, che con lui - chi fino in fondo come il "mite giacobino", chi fino alla precoce morte come Ginzburg - percorsero gli impervi e drammatici cammini del secolo scorso. Il centenario sarà l´occasione per riflettere sulla generazione di intellettuali che animò l´antifascismo e la breve eppure fondamentale e sempre viva stagione dell´azionismo. Non a caso il convegno di ottobre porta un titolo eloquente: "Dal Novecento al Duemila. Il futuro di Bobbio".

Repubblica 8.1.09
Se vengono meno i principi della democrazia
di Norberto Bobbio


In un articolo scritto nel 1958, l´apprensione per la sorte dei principi conquistati dopo il fascismo e la sottolineatura di ciò a cui non si dovrà mai rinunciare, le libertà civili, politiche e sociali
Oggi non crediamo, come credevano i liberali e i socialisti del primo Novecento, che il cammino democratico sia inesorabile
Bisogna essere sempre vigilanti, non rassegnarsi, ma neppure abbandonarsi alle sorti fatalmente progressive dell´umanità

Questo testo comparve nel 1958 su "Risorgimento" che, in occasione del primo decennale della Costituzione, aveva promosso un´inchiesta. Venne poi pubblicato, nello stesso anno, sul bollettino dell´Ateneo di Torino.

Quando parliamo di democrazia, non ci riferiamo soltanto a un insieme di istituzioni, ma indichiamo anche una generale concezione della vita. Nella democrazia siamo impegnati non soltanto come cittadini aventi certi diritti e certi doveri, ma anche come uomini che debbono ispirarsi a un certo modo di vivere e di comportarsi con se stessi e con gli altri.
Come regime politico la democrazia moderna è fondata sul riconoscimento e la garanzia della libertà sotto tre aspetti fondamentali: la libertà civile, la libertà politica e la libertà sociale. Per libertà civile s´intende la facoltà, attribuita ad ogni cittadino, di fare scelte personali senza ingerenza da parte dei pubblici poteri, in quei campi della vita spirituale ed economica, entro i quali si spiega, si esprime, si rafforza la personalità di ciascuno. Attraverso la libertà politica, che è il diritto di partecipare direttamente o indirettamente alla formazione delle leggi, viene riconosciuto al cittadino il potere di contribuire alle scelte politiche che determinano l´orientamento del governo, e di discutere e magari di modificare le scelte politiche fatte da altri, in modo che il potere politico perda il carattere odioso di oppressione dall´alto. Inoltre, oggi siamo convinti che libertà civile e libertà politica siano nomi vani qualora non vengano integrate dalla libertà sociale, che sola può dare al cittadino un potere effettivo e non solo astratto o formale, e gli consente di soddisfare i propri bisogni fondamentali e di sviluppare le proprie capacità naturali.
Queste tre libertà sono l´espressione di una compiuta concezione della vita e della storia, della più alta e umanamente più ricca concezione della vita e della storia che gli uomini abbiano creato nel corso dei secoli. Dietro la libertà civile c´è il riconoscimento dell´uomo come persona, e quindi il principio che società giusta è soltanto quella in cui il potere dello stato ha dei limiti ben stabiliti e invalicabili, e ogni abuso di potere può essere legittimamente, cioè con mezzi giuridici, respinto, e vi domina lo spirito del dialogo, il metodo della persuasione contro ogni forma di dogmatismo delle idee, di fanatismo, di oppressione spirituale, di violenza fisica e morale. Dietro la libertà politica c´è l´idea della fondamentale eguaglianza degli uomini di fronte al potere politico, il principio che dinanzi al compito di governare, essenziale per la sopravvivenza stessa e per lo sviluppo della società umana, non vi sono eletti e reprobi, governanti e governati per destinazione, potenti incontrollati e servi rassegnati, classi inferiori e classi superiori, ma tutti possono essere, a volta a volta, governanti o governati, e gli uni e gli altri si avvicendano secondo gli eventi, gli interessi, le ideologie. Infine, dietro la libertà sociale c´è il principio, tardi e faticosamente apparso, ma non più rifiutabile, che gli uomini contano, devono contare, non per quello che hanno, ma per quello che fanno, e il lavoro, non la proprietà, il contributo effettivo che ciascuno può dare secondo le proprie capacità allo sviluppo sociale, e non il possesso che ciascuno detiene senza merito o in misura non proporzionata al merito, costituisce la dignità civile dell´uomo in società.
Una democrazia ha bisogno, certo, di istituzioni adatte, ma non vive se queste istituzioni non sono alimentate da saldi principi. Là dove i principi che hanno ispirato le istituzioni perdono vigore negli animi, anche le istituzioni decadono, diventano, prima, vuoti scheletri, e rischiano poi al primo urto di finire in polvere. Se oggi c´è un problema della democrazia in Italia, è più un problema di principi che di istituzioni. A dieci anni dalla promulgazione della costituzione possiamo dire che le principali istituzioni per il funzionamento di uno stato democratico esistono. Ma possiamo dire con altrettanta sicurezza che i principi delle democrazia siano diventati parte viva del nostro costume? Non posso non esprime su questo punto qualche apprensione.
Il cammino della democrazia non è un cammino facile. Per questo bisogna essere continuamente vigilanti, non rassegnarsi al peggio, ma neppure abbandonarsi ad una tranquilla fiducia nelle sorti fatalmente progressive dell´umanità. Oggi non crediamo, come credevano i liberali, i democratici, i socialisti al principio del secolo, che la democrazia sia un cammino fatale. Io appartengo alla generazione che ha appreso dalla Resistenza europea qual somma di sofferenze sia stata necessaria per restituire l´Europa alla vita civile. La differenza tra la mia generazione e quella dei nostri padri è che loro erano democratici ottimisti. Noi siamo, dobbiamo essere, democratici sempre in allarme.

Repubblica 8.1.09
Un libro provocatorio dello svedese Wijkmark
Quando la morte diventa utile
di Franco Marcoaldi


Una questione terrificante: le società di massa dovranno quantificare anche le morti di cui hanno bisogno per far tornare i propri conti

Se nelle società contemporanee, democratiche e di massa, tutto finisce per soggiacere a un´ideologia angustamente utilitarista, è inevitabile che a un certo punto quel "tutto" includa anche il problema della morte. Per essere ancora più chiari; il consorzio sociale dovrà giungere alla quantificazione precisa delle morti di cui ha bisogno per far tornare i propri conti, sì che "giusta" risulti la proporzione tra la percentuale della popolazione produttiva e quella che non lo è (vecchi, malati cronici, minorati mentali). Pena l´affondamento economico del paese.
In estrema sintesi, è questa la terrificante questione messa a tema dallo scrittore svedese Carl-Henning Wijkmark ne La morte moderna (traduzione di Carmen Giorgetti Cima, postfazione di Claudio Magris, Iperborea, pagg. 119, euro 11). L´autore, per rendere più efficace il tratto indubitabilmente provocatorio della sua opera, sceglie la strada del "teatro", del "dramma". E a tal fine ci invita a partecipare a un ipotetico simposio a porte chiuse su «La fase terminale della vita umana», organizzato dal FATER, un comitato interno del Ministero degli Affari Sociali svedese, a cui partecipano esperti in campo sociologico e teologico, filosofico e biologico.
Il direttore Bert Persson espone con flautata brutalità i termini della questione: «La piramide demografica ha attualmente la forma di un sigaro, ma se tutto continuerà a procedere come ha fatto finora, rischia di passare rapidamente a quella di un fungo. I bambini di cui ci privano gli aborti, ce li ritroviamo moltiplicati per tre sotto forma di anziani improduttivi al vertice della piramide. Uno svedese su quattro è in pensione di anzianità, e uno su otto in età produttiva è in pensionamento anticipato. Il settantacinque per cento dei costi della Sanità va alla cura di malati cronici o senza speranza, in un settore in cui il tetto è stato raggiunto e sfondato da più di quindici anni».
I politici, naturalmente, tacciono: perché i voti dei pensionati fanno gola a tutti. Ma se ben indirizzati, saranno proprio i vecchi e i pensionati a capire - presto o tardi - che c´è un momento in cui bisogna farla finita. E proponendo la stessa data per tutti si arriverà, democraticamente, alla formula dell´«obbligo volontario». Il che consentirà finalmente di ridurre i problemi dell´assistenza medica e di evitare scelte arbitrarie su chi e perché e come salvare nella massa sempre più esorbitante di infartuati o di malati in dialisi. Se poi si riuscisse, argomentano ancora gli uomini del FATER, a superare la riluttanza dei familiari nel cedere alla comunità i corpi senza vita delle persone care, si potrebbero mettere in atto anche delle grandi «stazioni terminali» per il riciclaggio dei cadaveri, con impensati benefici per lo sviluppo (anche in termini occupazionali) dell´industria farmaceutica e dei concimi.
A ben vedere, conclude il moderatore, questa idea «non implica in qualche modo la realizzazione di uno dei sogni più antichi dell´umanità: la definitiva integrazione sociale della morte? Dall´altra parte del confine non ci attendono più potenze ignote, ma un ulteriore contributo alla comunità in cui siamo vissuti (...) Questa morte asettica e inodore nella cella frigofera della stazione terminale - non è forse la morte moderna nel vero senso della parola? E tutti seguiamo lo stesso cammino, non alcuni nelle fiamme e altri nella terra. Macinati, ridotti in polvere fine, saremo sparsi su vasti campi della società e le daremo nutrimento».
L´unica voce dissonante in questo agghiacciante consesso di pianificazione mortale democratica è rappresentata da Rönning, lo scrittore che incarna i valori non negoziabili della vita umana.
Le sue parole, improntate a un senso compassionevole di umanità e giustizia, portano ovviamente il lettore tutto dalla sua parte. Ma ha ragione Magris nel sottolineare l´oggettiva debolezza di quelle nobili parole. Una volta infatti che l´idea di «utilità collettiva» impone precisi tempi sociali anche alla morte (negando in tal modo la stessa, eventuale scelta individuale dell´eutanasia), il richiamo al valore irriducibile di ogni singola vita e di ogni singola morte, fatica a sostenere il confronto con chi si appella a una presunta razionalità egualitaria di ordine meramente quantitativo.
L´abilità di Wijkmark sta esattamente in questo: nella capacità di inscenare un irresolubile dramma incardinato in uno scenario futuribile (ma nient´affatto improbabile), dove un delirante imperativo economico, applicato a una perversa idea di controllo democratico che si impone anche nel passaggio ultimo dell´esistenza, finisce per azzittire quel che resta della tradizione umanista. «Come mi disse una volta un vecchio in un reparto di lunga degenza», commenta compiaciuto uno dei partecipanti al simposio. «Nasciamo tutti alla stessa età, perché non dovremmo morire alla stessa età?».

Corriere della sera 8.1.09
La riforma dell'università alla Camera
Passa la fiducia, oggi il voto finale


ROMA — Via libera al decreto Gelmini sull'università. la Camera ha votato la fiducia, la nona del governo Berlusconi, con 302 sì e 228 no e due astenuti. Oggi il voto finale sul decreto, che doveva essere convertito, pena decadenza, entro il 9 gennaio. Con questa legge il ministro Mariastella Gelmini intende rendere più trasparente la gestione delle università, combattere le «baronie» e favorire il rientro dei cervelli. Per il reclutamento di professori e ricercatori universitari saranno formate commissioni tramite il sorteggio degli esaminatori, riducendo a uno il numero dei docenti nominati dalle facoltà. Inoltre i docenti dovranno dimostrare di avere fatto ricerca scientifica, attraverso l'anagrafe nazionale delle pubblicazioni. Ci sarà il blocco delle assunzioni per le sole università con una spesa per il personale troppo elevata, ma per favorire l'assunzione dei giovani ricercatori il turn over sarà innalzato al 50% In più, per attirare i migliori, le università potranno procedere alla copertura di posti attraverso la chiamata diretta di studiosi «stabilmente impegnati all'estero» o «di chiara fama». . Aumenteranno anche i finanziamenti alle Università migliori sulla base dei criteri dell'offerta formativa, della qualità della ricerca scientifica, e di qualità, efficacia ed efficienza delle sedi didattiche. Infine, più borse di studio e 65 milioni di euro per la realizzazione di nuove residenze universitari. Per gli studenti universitari si tratta di un «altro giorno triste, con il destino dell'università deciso in modo autoritario e senza discussione».
Il voto è stato caratterizzato dal maltempo. La neve al Centro-Nord, con le conseguenti difficoltà incontrate dai deputati delle regioni settentrionali per raggiungere Roma, ha destato nella maggioranza la preoccupazione di non avere i numeri in Aula. Da qui la decisione, assunta dal presidente della Camera Gianfranco Fini una volta sentiti tutti i gruppi parlamentari, di far slittare di due ore la votazione. Una scelta, questa che però non sarebbe stata digerita inizialmente tanto di buon grado sia dall'Idv sia dal Pd.

Repubblica 8.1.09
Allevi e il concerto delle polemiche
risponde Corrado Augias


Caro Augias, mi lasci tornare sull'imbarazzante episodio verificatosi in Senato per il concerto delle festività di fine anno. Un Senato e un presidente della Repubblica posti ad ascoltare un'orchestra diretta da chi palesemente non sapeva dirigere, oltre ad essere un mediocre pianista che esegue proprie musiche che non saprei se qualificare da piano-bar o da che cosa, il tutto reclamizzato come rivoluzione nella musica contemporanea. Mi pare faccia pari con due secoli di lotte sociali serie e talvolta tragiche sfociate ultimamente nel trionfo di Luxuria all'Isola dei Famosi. Di sciocchezze se ne sono dette da Adamo in poi, soltanto non esisteva il megafono dei "media": dunque sarebbe auspicabile un po' di cautela prima di spararle pubblicamente. Aggiungerei che con queste marmellate in cui tutto si equivale non ci dovremmo stupire se tanta gente non sappia più stare al mondo, e si comporta di conseguenza. Ci apprestiamo a festeggiare l'Unità d'Italia: spero che il collante che ci unisce non stia diventando l'idiozia. "L'Italia s'è desta" oppure "l'Italia sede e sta?".

Cesare Mazzonis Direttore Artistico dell'Orchestra Nazionale Rai

I l concerto tenuto in Senato dal giovane pianista compositore Giovanni Allevi (Ascoli Piceno, 1969) ha suscitato un vivace dibattito come testimonia la lettera del prof Mazzonis che è stato tra l'altro direttore artistico del Teatro alla Scala e del Maggio Musicale Fiorentino. Chi sia Allevi chiunque può vedere e sentire andando su You Tube. E' un quarantenne di talento, dotato di un forte senso dello spettacolo (a cominciare dalla capigliatura alla Lucio Battisti-Angela Davis), affermatosi grazie a doti naturali e all'aiuto di un'abile operazione di marketing. E' diplomato a pieni voti in conservatorio, laureato in Filosofia. In Senato ha eseguito e/o diretto sette brani (con l'orchestra "I virtuosi italiani"), cinque a sua firma, due di Puccini. Alcune sue musiche sono state scelte per spot pubblicitari, insomma Allevi si presenta come un tipico prodotto ben riuscito. Compone infatti mescolando spunti classici a modi jazz, con un risultato gradevole che il sito svizzero "Schwingende Klangwelt", che ne vende i Cd ha definito: «melodie ben fatte, perfette come rilassante passatempo serale, senza essere noiose». Criticato con notevole durezza dal violinista Uto Ughi su 'La Stampa', Allevi ha risposto reclamando a se stesso il compito di animare una nuova musica colta contemporanea. Ho simpatia per Allevi e proprio per questo lo esorterei alla calma. Il nostro mondo musicale è asfittico, i concerti sono frequentati da persone in età diciamo così 'matura'. La funzione di un Allevi può essere preziosa a condizione che non perda la testa e tralasci confronti troppo impegnativi. Quanto al Senato, farebbe piacere vedere di tanto in tanto qualche padre coscritto in una sala da concerto, a cominciare dal presidente di quell'assemblea. Servirebbe a dargli una più corretta visione dei valori musicali.

l’Unità 8.1.09
Futurismo, un’avanguardia esplosiva giovane di cent’anni
di Giovanna Trento


Tra i tanti anniversari che questo 2009 ospiterà ci sarà anche il centenario del «Manifesto del Futurismo», pubblicato sul «Figaro» nel 1909. Parigi lo celebra con una mostra che approderà in febbraio a Roma
Nel 2009 ricorrerà il centenario della pubblicazione del manifesto futurista, redatto da Marinetti e apparso il 20 febbraio 1909 sulla prima pagina del quotidiano francese Le Figaro. Aprendo la strada alle iniziative previste in Europa per ricordare e ripensare la prima avanguardia europea del XX secolo, il centro Pompidou propone fino al 26 gennaio a Parigi - città che vide ai tempi l’uscita del manifesto - una mostra dedicata al Futurismo italiano, ponendo l’accento sui rapporti che questo intrattenne all’epoca con la scena artistica francese ed europea e sulle mutue influenze che ne derivarono.
UN SOLITARIO LUNA PARK
Le Futurisme à Paris. Une avant-garde explosive è un’esposizione a cura di Didier Ottinger, in collaborazione con le Scuderie del Quirinale e la Tate Modern di Londra. In catalogo saggi, fra gli altri, di Giovanni Lista ed Ester Coen. Sebbene il sottotitolo della mostra («un’avanguardia esplosiva») lasci presagire un recupero delle atmosfere chiassose e anarcoidi che caratterizzavano le prime avanguardie europee, la veste espositiva è alquanto composta e ordinata. Prima di intraprendere il nostro percorso attraverso spaziosi e quieti corridoi - ben diversi da quelli sovraccarichi della mostra Traces du Sacré, da non molto conclusasi nel medesimo museo parigino - la scelta museografica ci propone una sosta di fronte al solitario Luna Park a Parigi, dipinto da Giacomo Balla nel 1900 con un impianto ancora prettamente divisionista. Purtroppo poi la presenza di Balla in mostra è scarsissima, e mi domando come tale carenza sarà accolta a Roma, visto che l’esposizione si trasferirà alle Scuderie del Quirinale fra il febbraio e il maggio 2009, per poi spostarsi a Londra in estate.
Le Futurisme à Paris dà invece notevole rilievo a Carrà, Severini, Russolo e soprattutto alle immaginifiche ricostruzioni urbane di Umberto Boccioni, autore molto quotato all’estero, in particolare negli Stati Uniti (vari pezzi provengono dal MOMA di New York, come il travolgente La città che sale).
La mostra parigina include numerose opere - forse troppe, dato il tema - di Picasso, Braque, Léger. La prepotente presenza cubista in una mostra ispirata al Futurismo italiano è dovuta sia al fatto che il suo curatore intende leggere oggi il Futurismo in una prospettiva globale e internazionale, sia al fatto che - eccetto Félix Del Marle e il suo Manifesto futurista contro Montmartre - in Francia il Futurismo non ebbe mai grande presa (nonostante la mostra itinerante di pittura futurista, tenutasi a Parigi nel 1912, che l’attuale esposizione francese intende in parte ricostruire). Buona parte della mostra in corso al Pompidou sottolinea le dissonanze e i rapporti fra futurismo e cubismo, con opere di Duchamp, Kupka, Duchamp-Villon, Picabia e altri, sostenendo anche un legame forte fra il futurismo e l’orfismo di Delaunay. Ma il movimento di Marinetti, con la sua carica di estetizzazione della tecnica, ebbe vivace eco più a nord, come documentato ampiamente dall’esposizione del Pompidou che si sofferma su futurismo russo e vorticismo britannico, con opere, fra gli altri, di Gontcharova, Malevitch, Popova, Lewis, Bomberg e Nevinson. Si è inoltre voluto proiettare il movimento futurista nella contemporaneità, rendendogli omaggio con un’istallazione multimediale del 2008 del nordamericano Jeff Mills.
Incuriosiscono infine alcune pubblicazioni di allora. Innanzitutto, le prime pagine dei giornali (Le Figaro o La Gazzetta dell’Emilia) su cui rileggere il manifesto redatto da Marinetti, in una lingua ancora vivace e comunicativa, nonostante la provocatorietà dei toni aggressivi e maschilisti. Poi, alcuni esemplari di volumi d’epoca (non dimentichiamo che Marinetti fino al 1912 pubblicava le sue opere in francese prima che in italiano), fra cui Mafarka le Futuriste. Roman africain, la cui pubblicazione in Italia nel 1910 causò all’autore un processo per oltraggio al pudore che, come documentato in mostra da una divertente pagina del quotidiano francese Comœdia, si tramutò per Marinetti in un successo di critica e di pubblico, che lascia però aperti spinosi interrogativi sull’interventismo colonialista italiano, sulla sua retorica e sulle sue conseguenze nell’immaginario nazionale.

...sulla vicenda Liberazione
di Giovanni Perrino


Devo scrivere di quello che sta accadendo nella sinistra italiana, dopo la decisione, ancora da verificare, del gruppo dirigente di Rifondazione, che vuole sfiduciare il direttore del suo giornale, reo di aver determinato una linea editoriale sbagliata dal punto di vista politico e improduttiva da quello economico.

Devo parlarne perché dalla vicenda sembrerebbe emergere un nuovo quadro politico, e la coseguente accelerazione del processo di disgregamento di Rifondazione e di costituzione di un alternativo soggetto della sinistra alla sinistra del PD, le cui sorti strategiche ed elettorali dipenderebbero, ad oggi, per la verità, più dalla crisi di quest'ultimo che da un'autonoma progettazione in grado di provocare una qualche concreta innovazione.

Devo uscire allo scoperto e esprimere la mia opinione, di solito malcelata nelle pieghe di un politicismo tutt'altro che comodo, ma interno alle vicende schizofreniche della politica italiana degli ultimi quindici anni. Perché di mezzo c'è Fagioli, il mio enorme debito contratto con le sue teorie, uniche portatrici sane di una diversa filosofia occidentale, e Bertinotti, l'ultimo leader dell'unica sinistra novecentesca che mi piace, quella libertaria e socialista. Protagonisti entrambi non solo e non tanto del loro tempo, ma del futuro, cosa possibile solo agli eretici.

Devo dire di Fagioli, di Bertinotti, della Sinistra. Anche se preferirei tacere, e strare tranquillo al coperto, lontano dallo tsunami che sta spazzando via le fragili baracche delle vecchie ideologie e delle logore e corrotte pratiche della democrazia italiana, eccezion fatta ovviamente per i berluscones e i dipietros, che con la democrazia non c'entrano niente. Invece dovrei stare fermo e aspettare che il cadavere del mio nemico mi passi accanto senza che abbia fatto nulla per ucciderlo. Senza nemmeno sporcarmi le mani. Già! Ma di mezzo c'è Fagioli, e Bertinotti e la Sinistra, e allora la mia razionalità se ne va a puttane.

Allora intervengo, per spiegare il mio punto di vista: quello che la mia storia e la mia scelta politica mi impone, quello che il mio tempo ha perso sotto la scure di un pratico e affaristico relativismo, contrario alle idee, alla cultura, alla Storia; quello che nel Medioevo presente non ha diritto di cittadinanza tanto come in quello passato; quello che si chiama laicità, tolleranza, rispetto per l'altro, ma che si dovrebbe chiamare soltanto politica, e dovrebbe creare la possibilità della trasformazione sociale, e dovrebbe conoscere la verità del cambiamento.

Ecco cosa manca in questa vicenda, ancora una volta: la Politica.

mercoledì 7 gennaio 2009

Repubblica 7.1.09
Quest’anno al via le celebrazioni per il bicentenario
Darwin, il plagio inventato. La storia del "caso" Wallace
di Piergiorgio Odifreddi


Chi tra i due fu il primo a formulare la famosa teoria sull´origine della specie? Una falsa domanda perché in realtà si trattò solo di un´"impressionante coincidenza"
I loro lavori furono presentati assieme Il naturalista gallese parlò d´un "caso fortunato"
I due scienziati svolsero, nello stesso periodo di tempo, studi paralleli

È appena iniziato l´anno darwiniano, che celebra il bicentenario della nascita di Charles Darwin e il cento cinquantenario della pubblicazione del suo capolavoro L´origine delle specie. E ancora prima dell´inizio delle feste sono cominciati i fuochi di fila dei guastafeste, che probabilmente dureranno per tutto il 2009: ad esempio, come ha riportato Repubblica il 29 dicembre, di quelli che si sono appena inventati un possibile "plagio" di Darwin ai danni di Alfred Russell Wallace.
Si tratta, ovviamente, di una di quelle bufale che tanto piacciono a coloro dei quali canta la statua del Commendatore nel Don Giovanni di Mozart: «Non si pasce del cibo celeste [della scienza], chi si pasce del cibo mortale [dei pettegolezzi]». È ben noto, infatti, che Wallace arrivò indipendentemente alla formulazione della teoria dell´evoluzione, ma accettò di buon grado la priorità di Darwin e si accontentò sempre dell´onore della condivisione: fu addirittura lui stesso a coniare il termine Darwinismo, in un omonimo libro del 1889. D´altra parte, sarebbe comunque riduttivo descrivere Wallace come L´uomo che gettò nel panico Darwin, come fa il titolo della peraltro completa e affascinante antologia di suoi scritti curata da Federico Focher (Bollati Boringhieri, 2006). Quelle stesse pagine mostrano infatti che c´è molto di più nella vita e nelle opere di Wallace, oltre alla (ri) scoperta della teoria dell´evoluzione, e vale la pena di vedere cosa.
I due eventi cruciali della sua formazione furono l´incontro con Henry Bates e la lettura di Malthus. Agli inizi solo il primo ebbe però un effetto immediato: i due amici, ispirati fra l´altro dalla lettura del Viaggio di un naturalista antorno al mondo di Darwin, progettarono infatti una spedizione in Amazzonia da finanziare con la raccolta di esemplari rari di insetti e farfalle da vendere ai collezionisti, e partirono il 20 aprile 1848 da Liverpool per approdare un mese dopo a Belèm. Dopo qualche mese di coabitazione, i due si separarono. Bates si dedicò al Rio delle Amazzoni, rimanendovi undici anni. Wallace si dedicò invece al Rio Negro, e tornò dopo quattro anni: senza esemplari, però, perché la nave fece naufragio e lui perse tutto eccetto i ricordi, che pubblicò nel 1853 nel Racconto di viaggio sulle Amazzoni e il Rio Negro.
Benché nei dieci giorni alla deriva e nei settanta del viaggio di ritorno egli si fosse ripromesso di non reimbarcarsi mai più, due anni dopo era di nuovo in partenza: questa volta per l´arcipelago malese, dove rimase otto anni, e fu lì che egli trovò gradualmente il bandolo della matassa di quel problema dell´origine delle specie che già prima di partire per l´Amazzonia aveva identificato, in una lettera a Bates, come uno degli scopi del suo primo viaggio.
Il primo passo fu compiuto nell´articolo del 1855 Sulla legge che ha regolato l´introduzione di nuove specie, nel quale è enunciata la cosiddetta legge di Sarawak (dal nome della provincia in cui Wallace era ospite del "raja bianco" James Brooke, che ispirò il personaggio omonimo del ciclo di Sandokan di Emilio Salgari): «ogni specie ha avuto un´origine coincidente, sia nello spazio che nel tempo, con una specie preesistente strettamente affine», e dunque «la successione naturale delle affinità rappresenta anche l´ordine secondo il quale le varie specie sono venute alla luce».
In particolare, secondo la metafora dell´albero della vita che sarebbe stata usata anche da Darwin, «si è creata una complicata ramificazione delle linee di affinità, tanto intricata quanto i rametti di una quercia nodosa o il sistema vascolare del corpo umano».
La chiarezza delle idee di Wallace e la persuasività delle sue argomentazioni fecero vacillare la posizione fissista del grande geologo Charles Lyell, ma non furono sufficienti a spingere Darwin a rivelargli di aver già trovato la soluzione dell´enigma: ancora nel gennaio del 1858 Wallace scriveva infatti a Bates che «la grande opera che Darwin sta preparando, e per la quale raccoglie materiale da vent´anni, potrebbe risparmiarmi la fatica di aggiungere altro sulla mia ipotesi, oppure potrebbe mettermi nei guai arrivando a un´altra conclusione».
Un mese dopo, nel febbraio del 1858, Wallace risolse il problema da solo, in un momento di illuminazione venutogli durante un attacco di febbre, brividi e vampate di calore che lo costrinse a letto per ore. Impossibilitato a far altro che pensare, gli tornò alla memoria il Saggio sul principio di popolazione di Malthus che aveva letto circa vent´anni prima, e intuì che le stesse cause che limitano la crescita della popolazione umana agiscono in continuazione anche nel mondo animale. Si domandò perché alcuni muoiono mentre altri vivono, e la risposta fu ovviamente che, nel complesso, sopravvivono i meglio adattati. Quella stessa sera, appena calata la febbre, Wallace scrisse il famoso articolo Sulla tendenza delle varietà a divergere indefinitamente dal tipo originale. Due giorni dopo lo spedì a Darwin, che lo ricevette il 18 giugno 1858 e vi trovò esposta una teoria identica alla sua.
Darwin inviò l´articolo di Wallace a Lyell, parlando di una «coincidenza impressionante» col suo lavoro, di cui «non si sarebbe potuto fare un riassunto migliore». Fortunatamente per lui, nel settembre 1857 egli aveva scritto una lunga lettera al botanico Asa Gray esponendogli i punti salienti delle sue ricerche, e Lyell propose di pubblicarla insieme all´articolo di Wallace: i due lavori furono presentati alla Società Linnea il 1 luglio 1858, il giorno stesso in cui Darwin seppelliva il figlio Charles morto di scarlattina a diciotto mesi.
Lungi dal gridare al "plagio", Wallace accettò di buon grado la situazione e riconobbe che in fondo solo «un caso fortunato» gli aveva permesso di condividere ufficialmente con Darwin un´idea alla quale essi avevano dedicato, rispettivamente, «una settimana contro vent´anni». E tornò al suo interesse principale, che era la biogeografia, pubblicando nell´estate del 1859 l´articolo Zoogeografia dell´arcipelago malese, in cui individuava il confine che separa le regioni zoologiche australiana e indiana, nonostante la loro sostanziale identità climatica e geologica. In seguito estenderà la sua attenzione all´intero globo, in ricerche compendiate nella sua opera principale, La distribuzione geografica degli animali del 1876.
A offuscare la sua fama scientifica rimane però un articolo del 1869 su I limiti della selezione naturale applicata all´uomo, in cui Wallace sosteneva che «un´intelligenza superiore ha guidato lo sviluppo dell´uomo in una ben precisa direzione e per uno scopo speciale, esattamente come l´uomo governa lo sviluppo di molte forme animali e vegetali». Darwin ne fu inorridito, e gli scrisse: «Se non me lo aveste detto, avrei pensato che quelle frasi le avesse aggiunte qualcun altro», chiosando: «Spero che non abbiate del tutto assassinato la vostra e mia creatura».
In realtà Wallace fece anche di peggio, prendendo apertamente posizione a favore dello spiritismo e dei fenomeni paranormali, e scrivendo nel 1885 un pamphlet in cui accusava la vaccinazione di essere «inutile e dannosa». Nonostante le sue sbandate irrazionaliste, non arrivò comunque mai al punto di apprezzare la religione, e rimase sempre un sostenitore del socialismo ideale e della nazionalizzazione della terra, dedicando all´impegno sociale una parte apprezzabile della sua lunga, avventurosa e intensa vita.

Repubblica 7.1.09
Islam tra scienza e magia
Una lezione antica del mondo mussulmano
di Nadia Fusini


Ci fu un tempo in cui tra Oriente e Occidente il rapporto era di scambio creativo come dimostra il grande classico "Le meraviglie del creato e le stranezze degli esseri" di Zakariyya al-Qazwini
L´autore sembra rivolgersi al lettore con un´intima confidenza: non deve essere uno specialista, ma curioso e pronto alla sorpresa
Fin da subito di un´immensa popolarità, divenne uno dei testi più celebri della letteratura araba e tra i più letti dagli eruditi d´Oriente
Un´enciclopedia della natura del Duecento che descrive i fenomeni senza eliminarne l´eccentricità e con una specie di rapimento estatico

Sapreste rispondere alla domanda: l´amore è figlio della conoscenza, o la conoscenza dell´amore? Leonardo dice che è vera la prima ipotesi, qualora si intenda una conoscenza concreta. Alla stessa domanda al-Qazwini risponderebbe che no, la conoscenza è figlia dell´amore. Anzi, aristotelicamente, della meraviglia. La quale meraviglia ha molto a che fare con l´amore, e con il sentimento della gratitudine. E´ un sentimento che trasuda dallo studio del creato del grande studioso persiano del Duecento Zakariyya Ibn Muhammad al-Qazwini, intitolato per l´appunto Le meraviglie del creato e le stranezze degli esseri (a cura di Syrinx von Hees, traduzione di Francesca Bellino, Mondadori, pagg. xxxv+322, euro 17,00).
Già dal titolo si intende che sarà una particolarissima opera scientifica, dove la scienza più che una fredda disciplina preoccupata del rigore dei suoi statuti, è interpretata come una disposizione alla catalogazione, alla descrizione dei fenomeni. Al-Qazwini, più che uno scienziato, più che un filosofo, è un enciclopedista, e soprattutto uno scrittore e descrive il mondo creato con rapimento estatico, mai togliendo ai fenomeni quel che la scienza, la nostra idea di scienza, tenderà a far passare in secondo piano, addirittura eliminare, e cioè, la singolarità, l´eccentricità. Chi fa scienza da un certo punto in poi, intendo dal punto di vista temporale, dovrà rispondere alla struttura generale, più che all´esperienza singola. Dovrà descrivere leggi.
Ma c´è un momento, meraviglioso davvero, di cui questo libro scritto nel Medioevo islamico è un esempio, e che dura più o meno fino al Cinquecento, dove la scienza e la magia si toccano.
Vengono in mente altrettanto meravigliose opere che circolano ancora nel Rinascimento inglese, come il De proprietatibus rerum del francescano Bartolomeus Anglicus, scritto intorno alla prima metà del secolo XIII, o il Liber de natura rerum, del belga Tommaso di Cantimpré scritto anch´esso negli stessi anni.
Non sorprende che questa enciclopedia della natura dell´erudito Zakariyya godette fin da subito di una immensa popolarità, fino a diventare, come conferma la dotta curatrice del volume Syrinx von Hees, uno dei testi più celebri della letteratura araba: fu tradotto in varie lingue e si impose come uno dei libri più letti dagli eruditi d´Oriente fino al XIX secolo. La valorosa traduttrice, Francesca Bellino, da parte sua ci rammenta che nonostante l´importanza e l´ampia circolazione nel mondo islamico, l´opera non è stata mai tradotta integralmente in nessuna lingua occidentale. Anche questa sua traduzione riguarda circa la metà delle meraviglie e delle stranezze catalogate e descritte nell´originale. Ma tanto basta per incantare il lettore. Il quale, a distanza di secoli e di terre e mari, si sente interpellato direttamente dall´autore con una confidenza intima, semplice.
Affìdati a me, gli consiglia Zakariyya, e ti racconterò le meraviglie del creato e non devi essere uno specialista, devi essere curioso e pronto alla sorpresa. Per te, lettore, continua, io ho raccolto quel che era sparpagliato e ho rilegato in un libro quel che era disperso. Un libro! C´è forse qualcosa di più meraviglioso di un libro? - un libro che fa da specchio al libro della Natura, che è il libro di Dio? Nel nome di Dio, Clemente e Misericordioso il servo Zakariyya si mette all´opera. Scrive. Perché i libri danno senso alla vita.
E racconta come fu che lui personalmente cominciò a leggere i libri. Non aveva neppure vent´anni, quando la sua città, Qazwin, collocata a nord-ovest di Teheran, ai piedi delle montagne che s´affacciano sulla riva meridionale del Mar Caspio, fu conquistata dall´esercito mongolo. Insieme ad altri dotti persiani Zakariyya emigrò e si stabilì a Mosul, e lì trascorse gran parte della sua esistenza. Nella nuova città si trovò bene, ma la nostalgia era grande, e la solitudine tanta. E prese a leggere i libri: «la migliore compagnia». E a osservare il mondo intorno a lui. Ma sempre attraverso gli occhi di un libro, il Corano, che insegna tra le altre cose anche a guardare. Perché spiega Zakariyya, il significato di guardare non è tanto quello di scrutare con gli occhi, bisogna avere cuore. Esseri che hanno cuori con i quali non comprendono, insegna il Profeta, hanno occhi con i quali non vedono, hanno orecchi con i quali non sentono... Il vero significato di guardare è di leggere in ogni cosa la presenza divina. In altro modo, noi potremmo dire: riconoscere a ogni cosa il significato profondo. La realtà.
Questo non è facile, riconosce lo studioso; l´uomo ignorante e negligente non lo sa fare, mentre è esercizio che riguarda l´uomo intelligente e saggio. E´ a lui che rivolge il suo libro, con innocente pedanteria affermando: «non ho inventato nulla, ho scritto tutto così come l´ho ricevuto». La tradizione è concetto importante, qui; religioso. Per lo più Zakariyya poggia su Aristotele, sul Corano, su Tolomeo, su Avicenna e altri enciclopedisti più o meno contemporanei.
Poi passa a spiegare i due termini centrali del suo trattato: "meraviglia" e "stranezze". Con "meraviglia" intende lo stupore che prende chi guardi qualcosa di cui ignora il come e il che cosa. Fa l´esempio di un´arnia. Uno che non l´abbia mai vista si stupirà senz´altro della sua perfezione architettonica: chi ha potuto e saputo creare quegli esagoni equilateri, che neanche un ingegnoso ingegnere con tanto di riga e compasso potrebbe eguagliare? E da dove viene la cera che sigilla le piccole celle una identica all´altra? e il miele che farà da scorta per l´inverno? e come fanno le api a sapere che è arrivato l´inverno?
Le domande incalzano la mente intelligente, che rimane sbigottita; l´animo perspicace, che sorpreso rende lode a Dio.
Ecco il significato di "meraviglia". Per quanto riguarda la "stranezza", "strano" è ogni fatto che capita di rado, diverso da quanto si vede di solito. Come i miracoli dei profeti. E gli atti dei santi pii. Tra i fatti strani si contano i fenomeni celesti, le stelle cadenti, le comete, la nascita di animali, come ad esempio un uomo con il corpo di donna da metà in giù, e da metà in su due corpi diversi con quattro mani e due teste e due facce.
Ora, la disposizione alla meraviglia, allo stupore, alla stranezza, che è atteggiamento proprio del giovane, di chi manca di esperienza, è naturale che con l´età si perda. Ma almeno in parte dovremmo conservare quel modo di restare aperti alla realtà. Alla sua bellezza.
Perché di questo si tratta, in fondo: non si muove atomo nei cieli e sulla terra che non provi la magnificenza, la maestà di Dio. Noi potremmo dire: della Realtà. Della Natura. Due termini che, certo, acquisiscono una particolare forza se si sostengono a uno sfondo metafisico, religioso. Ma anche se spogliata del fondale religioso, anche a chi legga oggi con occhi abituati all´indigenza, la realtà che al-Qazwini descrive apparirà magnifica. Anche chi non vi sappia rintracciare l´arte divina, coglierà la bellezza delle forme. La complessità strabiliante.
Il fine didattico dell´enciclopedia è chiaro, e a tal scopo al-Qazwini seleziona un sapere specialistico, derivato da autorità della materia, e lo organizza in modo chiaro, elegante, fedele. Altrettanto chiaro è l´insegnamento: ovvero, grazie alla legge religiosa, ogni cosa trova il suo posto. Il suo senso.
Di tale insegnamento un lettore di oggi, crocefisso alla croce della sua modernità, per forza ironica, che ne farà? Lo terrà a mente e dell´ordine e del senso cui rimanda ne godrà come di una rivelazione estetica. E rifletterà su come, più o meno sempre, la contemplazione trasformi l´oggetto del suo atto in un affascinante agalma: immagine bella, simbolo, feticcio, idolo, trappola che sia. Segno della presenza, o assenza - è la stessa cosa - dell´Altro.

Corriere della Sera 7.1.09
Escono dall'editore Steidl le note quotidiane con cui il Nobel commentò nel 1990 gli eventi che portarono alla fine della Ddr
Il rimpianto di Grass per le due Germanie
Nel diario duri attacchi a chi accelerò l'unificazione
di Danilo Taino


BERLINO — Due locuste appariranno sulla copertina del diario che Günter Grass manderà nelle librerie tedesche il prossimo 29 gennaio. Le ha disegnate egli stesso e sono la citazione figurata di una frase famosa dell'attuale capo del Partito socialdemocratico, Franz Müntefering. Certi capitalisti, certi investitori — diceva il politico — sono come locuste che assalgono un Paese e lo riducono a nulla. I capitalisti, gli investitori occidentali, soprattutto tedeschi, sono coloro che si sono mangiati la ex Germania dell'Est dopo l'unificazione del 3 ottobre 1990 — dice Grass. Due colpi di matita, forse populisti ma geniali, per portare all'attualità la cronaca di un anno lontano, il 1990, nel quale le due Germanie decisero di diventare una sola.
Grass — che non aveva ancora vinto il premio Nobel (gli sarà assegnato nel 1999), ma era già l'intellettuale più ascoltato e ammirato della Germania — sapeva che quello sarebbe stato un anno importantissimo. E, come buona parte dei socialdemocratici, pensava che una fusione affrettata tra le due parti del Paese sarebbe stata un disastro. Tenne così un diario nel quale annotò i fatti, commentò le alternative, fissò le sue opinioni. E nel quale dette giudizi, soprattutto su Helmut Kohl, allora cancelliere, che come una locomotiva a pieno vapore correva verso la Germania unita. Ora, quelle pagine saranno pubblicate dalla casa editrice Steidl con il titolo Unterwegs von Deutschland nach Deutschland («Per strada dalla Germania alla Germania»): un'edizione con 20 disegni dell'autore, a 20 euro, e una con una settantina di tavole illustrate, a 38 euro. L'anno in cui si celebra il ventesimo anniversario della caduta del Muro di Berlino si apre insomma con Grass che stabilisce il terreno del dibattito.
Sul tema dell'unificazione, il grande intellettuale si era già espresso in mille modi. Soprattutto, nel 1995 aveva pubblicato È una lunga storia (Einaudi), romanzo nel quale sosteneva che nel 1990 si era di fatto verificata l'occupazione della Germania Est da parte della Germania Ovest: non militare ma economica, effettuata dal mondo del business con l'imposizione del mercato e delle privatizzazioni a un Paese che non era preparato. Reazioni dure alla pubblicazione, scandalo: il settimanale Spiegel
pubblicò una copertina nella quale un critico letterario stracciava il romanzo. Le copie vendute furono molte, 350 mila, ma l'impatto politico relativo: erano ancora anni di entusiasmo, a Est come a Ovest, per la riunificazione. Oggi, probabilmente, la forza politica delle argomentazioni di Grass sarà più forte: non solo perché un terzo dei tedeschi (e quasi metà nelle regioni orientali) ha nostalgia dei vecchi tempi; soprattutto perché il capitalismo, che negli anni Novanta era trionfante, nella crisi è debole anche sul piano politico e culturale.
Dei contenuti del diario non si sa ancora molto. Il 30 gennaio 1990, Grass si domanda se sarà possibile fare fronte alla «presunta convinzione popolare» che la riunificazione debba avvenire al più presto possibile. «Almeno certi politici — scrive quel giorno — dovrebbero sapere che se anche una riunificazione rapida fosse possibile, essa sarebbe pagata con sfiducia e con una larga breccia» tra le due parti della Germania. In marzo, mentre è a Cottbus, nel-l'Est, riflette sulle conseguenze negative dell'unione monetaria tedesca, sulla base della quale Kohl garantì ai marchi orientali un tasso di cambio uno a uno con quelli occidentali. Grass prevede che i cittadini dell'Est consumeranno i loro nuovi marchi per comprare merci occidentali, con il risultato di distruggere la debole economia della Repubblica democratica. «Al contrario — aggiunge — sarà impossibile vendere i beni prodotti qui e molte imprese chiuderanno, comprese alcune che, con altri metodi, si sarebbero potute salvare».
In via di principio, Grass non era contrario alla riunificazione. Sosteneva però che le due metà del Paese erano troppo diverse per essere messe assieme in pochi mesi. Dopo Hitler, la Repubblica di Bonn aveva avuto il piano Marshall e la democrazia. La Ddr Stalin e la Stasi. «Ho sempre creduto nella possibilità dell'unificazione — disse in quegli anni —. Ma ho sempre detto che dovevamo andare piano e con cautela. Helmut Kohl, però, era interessato solo a vincere le elezioni del 1990». In questo modo «abbiamo distrutto l'economia della Germania dell'Est». A suo parere, quel drammatico 1990 — in cui Kohl conquistò applausi in tutto il mondo oltre che la conferma alla cancelleria — fu in realtà la «colonizzazione» dell'Ovest sull'Est. Come fece il romanzo del 1995, il diario in uscita a fine mese vuole raccontare gli «inizi criminali» di questa conquista.
Senza dubbio, la Germania del 2009 è più pronta che in passato ad ascoltare la versione di Grass. Quasi vent'anni dopo, i Länder del-l'Est sono ancora di gran lunga i più poveri: ci sono casi di eccellenza e innovazione, per esempio a Dresda, ma la disoccupazione è più alta che a Ovest, buona parte delle campagne è desolata, i giovani (soprattutto le ragazze) scappano, i partiti storici sembrano assenti, spesso a vantaggio dei neonazisti. E, tra i tedeschi, il libero mercato in questi giorni ha una pessima reputazione. Se Grass mette insieme i vecchi tempi delle due Germanie con le locuste, può diventare esplosivo.

Corriere della Sera 7.1.09
Crudeltà. Torna aggiornato lo studio sui supplizi di Franco Di Bella. Con una postfazione del figlio Antonio
Così l'Inquisizione torturava eretici e streghe
di Armando Torno


La Storia della tortura di Franco Di Bella usciva nel 1961 da Sugar. Scritta con verve giornalistica, l'opera era ricca di informazioni e colmava una lacuna. In quell'anno, anche se Giovanni XXIII promulgava l'enciclica Mater et magistra, le torture continuavano, tra l'altro in Algeria e in Congo. Qui Patrice Lumumba era ucciso per ordine di Ciombé, mentre le cronache illustravano quella lontana guerra civile anche con atti di cannibalismo. Il libro proponeva un inventario di quanto la storia occidentale aveva lasciato, dalle ordalie alle pratiche dell'Inquisizione, dai supplizi per le streghe alla gogna, dai ceppi al cavalletto. Con un intento: archiviare definitivamente queste vergogne.
È trascorso quasi mezzo secolo dalla pubblicazione e la tortura è viva. Anzi, rischia a volte di essere più raffinata che in passato. Guantánamo, il Guatemala o le zone di guerra o taluni paradisi della povertà la richiamano subito alla mente; resta una pratica che molti osservatori segnalano ancora in Cina. Abbiamo dei sospetti quando Cuba nega l'accesso alla Croce rossa internazionale e ad altre organizzazioni umanitarie alle sue prigioni. Per questi e per numerosi altri motivi la riproposta aggiornata del saggio di Di Bella (Editrice Odoya, pp. 336, e 20) è un contributo ai sentimenti civili. Vediamo quel che è stato fatto. Innanzitutto si sono ristampati i primi otto capitoli del saggio, con le antiche crudeltà, note e combattute già da Verri e Beccaria. Gli ultimi due, invece, dedicati rispettivamente al periodo che va dai Lumi alla camera a gas e a quanto è avvenuto nel Novecento (che non è poco), sono stati aggiornati con un testo posto tra parentesi quadre. Infine c'è una postfazione del figlio dell'autore, Antonio Di Bella (con lui ha collaborato John Manisco), che riprende e integra il discorso sulle torture contemporanee.
Il libro evidenzia quel che è stato commesso in nome degli ideali, della giustizia e di Dio da uomini ad altri uomini; soprattutto ricorda che i torturatori erano crudeli ma attenti al bilancio, giacché quasi sempre le spese della nefasta pratica erano a carico del supposto colpevole. Tra gli esempi, Di Bella offre una buona descrizione del caso Damiens che fu squartato vivo nel 1757 per aver procurato una scalfittura a Luigi XV; non mancano le sottigliezze del boia che doveva tormentare (magari strappando con tenaglie infuocate parti di membra...) ma non uccidere subito il condannato, affinché la plebe potesse deliziarsi a lungo. La Monaca di Monza conobbe i sibilli che bloccavano l'afflusso di sangue alle dita e procuravano dolori lancinanti; Galileo fu sottoposto a «rigoroso esame», ovvero a tortura eccetera eccetera. La crudeltà ha avuto sempre una fantasia in più. E Di Bella ne illustra la triste storia.

martedì 6 gennaio 2009

Liberazione 6.1.08
Noi da "Liberazione" vorremmo un punto di vista comunista


Caro Piero, i lavoratori, i pensionati, gli studenti comunisti comprano "Liberazione" per trovarvi le notizie dell'Italia e del mondo commentate dal punto di vista comunista, cioè per trovarvi la controinformazione assolutamente necessaria, laddove la disinformazione di massa è praticata da tutti i giornali e da tutte le televisioni in mano ai padroni. "Liberazione" la compriamo tutti i giorni, assai pochi in verità, perché riteniamo che essa sia uno strumento indispensabile per un'educazione dei giovani orientata alla diffusione ed affermazione degi ideali socialisti. Non mi sembra che l'inserto domenicale "Queer" assolva a questi compiti; in genere vi leggiamo sproloqui incomprensibili ai più, spesse volte scemenze irritanti; a volte, però, "Queer" diventa chiara e comprensibilissima, come negli ultimi due numeri, totalmente dedicati alla propaganda anticomunista. L'anticomunismo è l'attività principale degli altri giornali: che bisogno c'è di accodarsi? Continuare su questa strada significa costringere i comunisti a non comprare più il loro giornale. Piero, smettetela, finché siente ancora in tempo!
Nando Spera Avezzano (Aq)

Caro Nando, dietro il muro di Berlino non c'era il comunismo che noi abbiamo sempre sognato. C'era una schifezza.
P. S.

Liberazione 6.1.08
"Liberazione", muoia Sanson con tutti i filistei?


Uno strano destino quello di Rifondazione Comunista e del suo giornale. Nati come una eresia contro le chiese del conformismo politico e del pensiero unico sono oggi devastati dal teppismo dei sacerdotii delle chiese che volevavano criticare. I primi quelli del luogo comune che dietro al realismo, alla necessità delle "masse critiche", del progetto politico "di grande respiro" (ci mancherebbe!) propongono l'omologazione alla modernità, i secondi quelli dell'ortodossia che senza la parola comunismo non riescono ad addormentarsi. Così dopo la performance di Cristiano, segretario toscano, ecco Petrini con le sue considerazioni sul ricordo che Delbono ha fatto di Pinter accompagnate dalle puntuali repliche di Sansonetti e amplificate da un can can mediatico che offende il lavoro quotidiano di tante compagne e compagni e che invece resta oscuro ed oscurato. Ora siccome anche la stupidità ha un limite viene da chiedersi: che sia proprio Sansonetti (l'assonanza con Sansone induce al sospetto) a favorire quelle lettere perché crolli il tempio e con esso muoiano tutti i filistei?
Giuliano Brandoni
capogruppo Prc alla Regione Marche

Liberazione 6.1.08
Pinter e la contraddizione di "Liberazione"


Cara "Liberazione", curiosamente il "Corriere della sera" del 5 gennaio riprende in prima pagina, con grande risalto, la mia lettera a "Liberazione" su Pinter. E curiosamente, accanto all'articolo, compare un fondo di Paolo Franchi che rilancia la proposta di Sansonetti di qualche tempo fa di un quotidiano unico della sinistra. Il "Corriere", per parte sua, fa il suo mestiere. Siamo abituati a questa modalità: anziché informare i propri lettori sulle iniziative del Prc e sulle sue battaglie politiche, il giornale si concentra pretestuosamente e in modo caricaturale sulle nostre discussioni interne. Ma tant'è: c'è da aspettarselo appunto. Stupisce invece - o forse non stupisce affatto - che sia proprio Sansonetti a prestarsi a questo gioco, richiamando, sempre sul "Corriere", un «clima di intimidazione da anni 50» del «gruppo dirigente del partito». Mi piacerebbe sapere cosa c'entra l'intimidazione con una lettera che diceva una cosa molto tranquilla. La seguente: proprio perché Pinter è uno scrittore importante e interessante, non si capisce perché lo si debba utilizzare a fini strumentali, per dire, cioè, che il comunismo non sarebbe altro che "attaccamento al potere". Sono particolarmente affezionato alla libertà di espressione degli artisti. Mi occupo professionalmente proprio di teatro e ho scritto diverse cose al riguardo, fra cui un libro dedicato al mio amatissimo Carmelo Bene, che in quanto ad anarchismo non scherzava affatto. Il punto non è questo. Il punto, come mi pare molto chiaro, è in una linea editoriale del nostro giornale che sfrutta qualsiasi pretesto per portare avanti una battaglia politica contro il comunismo, contro le sue ragioni teoriche e contro la sua storia. Che questo lo si faccia con metodi in fin dei conti "stalinisti", scartando cioè puntualmente il merito di ciò che si discute, pazienza: ciascun lettore lo potrà giudicare da sé. Che questo lo si faccia in modo sistematico dalle colonne di un "giornale comunista" è una contraddizione logica che meriterebbe una riflessione più approfondita.
Armando Petrini
segretario regionale Prc Piemonte

Liberazione 6.1.08
Riflessioni sul partito e Liberazione
Marco Assennato lascia il partito e Michele De Palma il comitato politico nazionale
di Dario Danti


Marco Assennato lascia il partito e Michele De Palma il comitato politico nazionale. Marco e Michele, con questi gesti, ci pongono questioni gigantesche, che sono anche etiche. Le sento mie, non solo perché con loro sono cresciuto, ma perché segnano, con dolore, differenti cesure politiche e umane da una comunità politica. Una comunità politica che non riconosco più.
Stavolta lo spettro che si aggira non è il comunismo, ma uno zombie politico: la rifondazione di Paolo Ferrero. Rispetto la sua proposta - ad oggi quella del pane a un euro una tantum e dei dentisti-rossi a prezzo calmierato - ma non la condivido. Come non condivido la critica astratta a una certa "sinistra salottiera" che fa il paio con l'occupazione concreta di qualsiasi spazio mediatico a costo di sostenere faccia a faccia con Francesco Storace e Roberto Fiore. Come non condivido le parole della sua politica: "stronzo" e "porcherie", come ama ribadire in una sua recente intervista a Repubblica , sono un lessico sguaiato e sgangherato che introietta la brutalità dell'espressione a una dimensione, ormai ostaggio del leghismo padano. Al di là del lessico è bene, comunque, non parlare a sproposito. Perché dire che "i consiglieri fuoriusciti dal Prc" sostengono le "porcherie" del Pd perché non votano la commissione d'inchiesta su Fiat-Fondiaria al Comune di Firenze, significa sostenere che il gruppo del Prc in Regione Toscana sostiene le "porcherie" del Pd poiché anche in quella sede, e il partito lì è in maggioranza, la commissione è stata bocciata. Si dovrebbe sapere che grazie alla mozione del gruppo della Sinistra si è bloccato il piano strutturale di Firenze.
Cose che succedono in Toscana. Essere ipocriti è la cosa peggiore, altro che essere comunisti. Che dire di chi con zelo si era apprestato a voler recidere rapporti di lavoro fra gruppo consiliare regionale e dipendenti "vendoliani" e poi è stata fermata? Oppure della politica della casa, che oscilla, a seconda degli orientamenti congressuali, fra sostegno alla buona legge del nostro assessore e critiche disparate seguendo le paturnie delle varie mozioni e sottogruppi?
Il trasformismo e i dirigenti per tutte le stagioni sono due pratiche ormai di moda nel Prc. Così hanno fatto in molti: da adoratori e veneratori di Fausto Bertinotti hanno finito per condividere gli accostamenti del segretario toscano fra l'ex-leader del Prc e i naziskin. Eppure è stata proprio la tanto vituperata Liberazione a dare spazio a queste posizioni pseudopolitiche.
Ho scritto per tanti anni su Liberazione , l'ho letta, amata e criticata, anche duramente. La Liberazione di Piero, Simonetta, Anubi, Angela è bella proprio per questo: è un giornale libero, che ha fatto della libertà la sua stella (cometa e polare). Libertà, ci spiegava un "cantattore" del secolo scorso, fa tutt'uno con partecipazione. E allora perché non ascoltare la proposta del direttore e dei giornalisti, ovvero fare di chi lavora a Liberazione gli attori del suo rilancio? E perché chi la legge non potrebbe diventare protagonista, magari attraverso un azionariato popolare? Perché la prima scelta deve essere quella di un editore privato?
C'è chi con tanta facilità dà lezioni di coerenza. L'ha fatto ieri per il nostro giornale sostenendo che deve riportare (coerentemente) la linea del partito; l'ha fatto l'altro ieri quando si è scagliata per prima contro l'eventuale doppio incarico a Nichi Vendola, qualora fosse diventato segretario nazionale del Prc, mantenendo anche la carica di governatore della Puglia. Vedi, cara Roberta Fantozzi, chi dà lezioni di coerenza dovrebbe agire di conseguenza (e in anticipo) e non mantenere da quasi quattro anni il doppio incarico fra segreteria nazionale e consiglio regionale della Toscana. Almeno così si era concordato quando ero segretario della federazione di Pisa in solenni riunioni. Si possono lanciare tutti gli strali che si vuole, ma quando si colleziona la medaglia d'oro di consigliere più assenteista del 2008 e, negli anni precedenti, quelle d'argento e di bronzo, bisognerebbe contare fino a cento prima di parlare e scrivere. Alla faccia delle tante prediche sul ripartire dal basso, anzi "in basso a sinistra". Anche questo è diventata Rifondazione, ma quella Rifondazione ora non c'è più.

Liberazione prima pagina 2.6.07
A Roma una bella giornata discutendo di Politica con Bertinotti
Un aula stracolma di giovani per interrogare il presidente della Camera
La cultura non è solo di sinistra...»
di Rina Gagliardi


A volte, la politica, quella con la P maiuscola, riserva qualche sorpresa. Quel grande salone dell’Auditorium di Roma - lo stesso che una settimana fa rigurgitava di padroni e padroncini “orgogliosi” di esserlo e di avere un capo come lo scudisciatore Montez. – ieri mattina si è incredibilmente riempito di giovani, di studenti, di professionisti – e cittadini curiosi. Una folla tutt’affatto diversa da quella confindustriale, venuta per confrontarsi e discutere con un interlocutore speciale come il presidente della Camera – sì, proprio quel Fausto Bertinotti contro il quale proprio quella sala aveva scatenato il suo eccitato dissenso. Quasi una legge del contrappasso. O un risarcimento. O una “vendetta” della ragione critica che, almeno per qualche ora, si è ripresa il suo legittimo posto.
Giacchè quel che colpiva, di primo acchito, era la quantità di persone che avevano voglia di dedicare una mattinata intera a discutere di alcuni grandi temi del nostro tempo: il socialismo, la persistenza delle religioni, il rapporto tra politica e “genere umano”, la violenza e la nonviolenza, i fondamenti dell’idea stessa di trasformazione – della società, del capitalismo, ma anche della mente e del cuore di cui ogni “irriducibile” persona è fatta. Ma non era certo soltanto una questione numerica. C’era emozione, in quella sala, e un fervore dell’accoglienza, se così possiamo dire, del tutto sconosciuta alle ritualità della politica. C’era un’attenzione straordinaria – non volava una mosca, non c’erano il solito viavai per i corridoi o il consueto chiacchiericcio di fondo, ma, semplicemente, ascolto e concentrazione. I giovani si alzavano per porre i loro quesiti epocali, per dire sulla razionalità e l’irrazionalità della politica, ben preparati su fogli e quaderni, e parlavano con tono pacato, composto, garbato – emozionato. Bertinotti rispondeva, spaziando “in alto” e “in basso” (“c’è anche la pancia, oltre al cuore e alla mente”), sempre cercando di interloquire con un punto di vista certo originale e spesso diverso dal suo, e mai, quasi mai, eludendo le difficoltà. E poi? E poi, via via, la discussione andava in un crescendo comunicativo, in una liason al tempo stesso affettiva e curiosa, e costruiva pezzi di “ricerca umana”, anzi di “analisi collettiva”. Superando alcune tentazioni ricorrenti – come l’idea che la scienza o la tecnica sono, al fondo, un po’ neutrali. O come la radicata convinzione che la destra è sinonimo di irrazionalità, stupidità, non umanità. E rimanendo sempre “disinteressata”, nel senso nobile del termine. Se dio vuole, questo incontro non doveva decidere nulla, non doveva licenziare documenti o mozioni, non doveva neppure, e soprattutto, occuparsi del Piddì o della sorte prossima del governo Prodi. Infatti, i giornalisti presenti erano un po’ a disagio: dove stava la notizia? Poco dopo, a incontro concluso, il presidente della Camera non ha potuto non soddisfare quella fame insaziabile e divorante, che alla fine rischierà di divorare l’ultimo boccone di politica. Ma intanto, là dentro, si era vissuto un incontro vero, una bella mattinata di Politica.

Repubblica 6.1.09
Vita impossibile. Senza scampo
In questi luoghi le condizioni di vita sono sempre state terribili: una densità incredibile di popolazione, igiene inesistente, una miseria estrema
Gli abitanti della Striscia non hanno scampo: non possono scappare perché le strade sono interrotte e i confini presidiati. Devono solo raccomandarsi al loro dio
Nella Striscia infernale la catastrofe del Medio Oriente
di Sandro Viola


Occupato da Israele nel 1967, poi abitato dai profughi, sede dell´Olp e di Hamas, questo luogo conteso sembra essere il frutto avvelenato di un conflitto che appare senza fine

Guardavo alla televisione, sere fa, un documentario sulla "battaglia d´Inghilterra", come furono chiamati i bombardamenti aerei tedeschi su Londra durante la Seconda guerra mondiale. Erano immagini non tanto diverse da quelle dei bombardamenti israeliani su Gaza, che avevo visto poco prima nel telegiornale. Edifici sventrati, strade sconvolte, gente in lacrime. Ma conoscendo tanto Londra quanto Gaza city, una differenza, una differenza sostanziale e decisiva tra le due situazioni, mi appariva chiarissima. A Londra, una buona parte dei londinesi poté sfuggire ai bombardamenti. I bambini venivano evacuati in luoghi sicuri dell´Oxfordshire e del Sussex, gli adulti potevano, alla chiusura degli uffici, andare a dormire in case amiche sparse nella campagna attorno alla capitale, e quelli che invece restavano a Londra trascorrevano la notte - quando si susseguivano regolari le ondate degli Stukas tedeschi - al riparo nei sotterranei della metropolitana. Una coperta, un thermos col tè, il pacchetto di sigarette. E il coraggio inglese.
Ma i palestinesi di Gaza non possono mettersi in salvo, perché dalla Striscia di Gaza non è possibile uscire. I due confini, a nord con Israele e a sud con l´Egitto, sono sbarrati. L´unica strada che corre da un capo all´altro della Striscia è ovunque crivellata dalle enormi buche delle esplosioni, ormai impraticabile. I bambini non possono quindi essere trasferiti in luoghi sicuri (per esempio a ridosso della frontiera egiziana, dove gli aerei evitano di bombardare), mentre gli adulti non hanno una ferrovia sotterranea o cantine con mura robuste dove rifugiarsi. Questo sinché si trattava soltanto d´attacchi aerei: ma dal pomeriggio di sabato scorso, con i carri armati che avanzano sulle strade di Gaza city, sui fianchi dei campi profughi, lungo la riva del mare, le possibilità di sottrarsi alle bombe, alle cannonate e alla fucileria si sono ancora ridotte.
In senso letterale, non figurato, Gaza è dunque una trappola. E se uno si trova dentro la trappola mentre dal cielo piovono i missili dell´aviazione d´Israele e da terra sparano i mitra dei "commandos", quel tale non ha vie d´uscita. Né lui, né la moglie, né i figli. Devono restare, tremanti, raccomandandosi al loro dio che il prossimo missile non esploda troppo vicino. E non basta. La notte, con temperature che s´avvicinano allo zero, devono dormire con le finestre aperte perché lo spostamento d´aria delle esplosioni provocherebbe a finestre chiuse una micidiale mitraglia di vetri infranti: ferite, emorragie che nessun medico, negli ospedali dove arrivano di continuo corpi ben più straziati, si attarderebbe a curare.
Era molto meglio, la vita a Gaza, prima che nella mattina di sabato 27 dicembre cominciassero i raid dell´aviazione israeliana? Meglio sì, in quanto i suoi abitanti non rischiavano ogni giorno di morire durante una qualsiasi delle novecento azioni di bombardamento aereo che si sono susseguite in questi giorni. Ma per il resto no, non era tanto meglio. Adesso in inverno il puzzo delle fogne a cielo aperto non è terribile come col gran caldo dell´estate, ma dai canali di scolo lungo le strade di Gaza city, di Khan Yunis, di Rafah, sale anche in inverno un tanfo asfissiante. Fogne a cielo aperto, rottami, roghi di immondizie, macerie (macerie di bombardamenti non solo israeliani ma anche della guerra tra palestinesi, Hamas contro Fatah, dell´estate 2007), caterve d´altre immondizie ancora da bruciare.
E come mangiavano, prima dei bombardamenti, gli abitanti di Gaza? Novecentomila almeno del milione e quattrocentomila abitanti della Striscia, si nutrivano essenzialmente con la farina e il riso distribuiti dall´Unwra, la branca dell´Onu che assiste i rifugiati. L´Unwra è perciò molto attiva a Gaza, essendo Gaza un universo di rifugiati. Vale a dire i palestinesi fuggiti nel �48 dalle terre man mano occupate da Israele nella sua guerra d´indipendenza, e restati sino ad oggi per la massima parte - con i loro altissimi tassi di natalità - nei campi profughi della Striscia. Nel campo di Jabalya, per esempio, uno dei più grandi, con una storia importante nel conflitto israelo-palestinese perché fu qui che s´avviò nel 1987 la prima Intifada, le sassate dei ragazzi palestinesi contro i carri armati d´Israele.
Quattro o cinque anni fa, l´ultima volta che misi piede a Jabalya, tutto era restato come nelle mie prime visite al campo. 75 mila persone ammassate in uno spazio che nel mondo civile ne conterrebbe a malapena 6-7 mila, i viottoli di terra battuta disseminati di rifiuti, immondi fogli di plastica che volteggiavano ad ogni soffio di vento, il puzzo delle immondizie, nugoli di mosche sul carretto del venditore di panini al sesamo. E in mezzo gli uffici dell´Unwra, i sacchi di farina e di riso, gli scatoloni dei medicinali.
Soprattutto di questo vivevano sino all´estate del 2005, quando gli israeliani ancora occupavano Gaza, gli abitanti di Jabalya. Di aiuti umanitari. Solo che allora i camion dell´Unwra entravano regolarmente dai valichi tra Israele e la Striscia, mentre dal gennaio 2006, quando Hamas vinse le elezioni, camion con farina e riso ne sono arrivati sempre meno, e negli ultimi mesi (nonostante durasse una fragile tregua tra Hamas e Israele) a Gaza ne sono entrati pochissimi. E con una disoccupazione che sfiora il 40 per cento, il che significa una miseria diffusa, si può immaginare come abbia pesato sugli abitanti il diradarsi degli aiuti Onu.
Questa storia dei valichi chiusi ai camion con le derrate alimentari e i medicinali, ha poi un altro risvolto. Gli ottomila coloni ebrei che s´erano installati nella Striscia dopo la guerra dei Sei giorni nel 1967, avevano messo su una prospera industria agricola: serre per le primizie, frutteti, coltivazione di ortaggi. Ma da quando Ariel Sharon decise d´evacuare Gaza nel 2005, ed estirparne le colonie ebraiche, quell´industria è andata in malora. Colpa dei palestinesi all´inizio, che avevano distrutto molte serre in quanto simboli dell´occupazione. Ma poi, quando anche i palestinesi erano riusciti a riprendere le coltivazioni, i loro prodotti - destinati al mercato israeliano - restavano a marcire sotto il sole dinanzi ai valichi chiusi.
E visto che abbiamo parlato del 2005, qualche parola va detta sulla decisione di uscire da Gaza presa quell´anno da Sharon. La decisione fu unilaterale, non concordata con l´Autorità palestinese e col suo presidente Abu Mazen. Sharon non riconosceva infatti ad Abu Mazen alcun ruolo politico, e dunque non volle trattare la consegna di Gaza da parte del governo israeliano ai rappresentanti legittimamente eletti dai palestinesi. E quell´arroganza partorì i disastri che hanno portato alla guerra di questi giorni. Il moderato Abu Mazen venne indebolito, pressoché squalificato, dal rifiuto di Sharon di riconoscerlo come un interlocutore in un passaggio cruciale come l´uscita di Israele da Gaza. Hamas ne uscì rafforzata (infatti cinque mesi dopo vinse le elezioni parlamentari), e il blocco dei valichi, con le conseguenze che ebbe sulle condizioni di vita della popolazione, convinse i palestinesi di Gaza che la sola linea da tenere con Israele era l´oltranzismo dei fondamentalisti. Poi Hamas cacciò dalla striscia gli uomini di Abu Mazen, Gaza diventò l´Hamastan, un ridotto islamista alle frontiere d´Israele, e il lancio di razzi sul Negev s´intensificò. Le condizioni dell´attuale catastrofe erano ormai create.

Corriere della Sera 6.1.09
Tullia Zevi: «Due popoli destinati a convivere la guerra rischia di annientarli»
di Gian Guido Vecchi


ROMA — In Israele, professoressa, c'è chi dice: fermiamoci.
«Quanti sono i morti?».
Pare più di cinquecento...
«Mi pare che possano abbondantemente bastare. Di lacrime ne abbiamo versate troppe. Non c'è "noi" o "loro". Sempre vite umane sono. Abbiamo tutti un sangue rosso che scorre nelle vene». Tullia Zevi, grande anima dell'ebraismo europeo, per sedici anni presidente delle comunità italiane, sospira: «Vede, io sono pacifista per pessimismo».
Per pessimismo?
«La guerra è in sé nefasta. Se non sei pacifista finisci per essere a favore di qualche intervento, "giusto" o "ingiusto" che sia. Ma la guerra è una crudele risolutrice di problemi. E sempre i suoi esiti sono distruttivi».
Ma che si può fare, se c'è Hamas?
«Le armi della logica valgono più del fragore delle armi. Qui ci sono due popoli, c'è chi sostiene "condannati" ma io preferisco dire "destinati" a coesistere. E vogliono la stessa cosa: prima ci sarà l'avvento della pace e meno vite umane andranno sprecate. Sa qual è l'alternativa?
Quale?
«Che uno dei due rischi di eliminare l'altro.
Esiste anche il tragico e forse ineluttabile pericolo che si annientino a vicenda. Due culture antiche che devono congiungere gli sforzi verso una convivenza possibile e necessaria. L'ora è gravida di minacce, ma bisogna continuare a sperare contro lo scetticismo. E aiutarli».
E come?
«Il dramma è che manca un mediatore vero. Ci vorrebbe un colpo d'ala della Ue.
Mi appello alle forze dialoganti delle due parti e anche alle diaspore perché collaborino a una iniziativa che metta uno di fronte all'altro. In tv ho visto immagini tragiche e allarmanti. E l'odio nutre l'odio».

Corriere della Sera 6.1.09
Scuola Giovedì il voto. Il ministro Vito: accolte anche proposte del centrosinistra. L'opposizione: un atto grave che impedisce il dialogo
Università, il governo accelera: fiducia sul decreto Gelmini
di Mariolina Iossa


ROMA — Fiducia domani pomeriggio, voto finale giovedì alle ore 13. Chiede la fiducia il governo, e non è certo una sorpresa, sul decreto che riguarda l'Università e che scade il 9 gennaio. Il decreto aveva già ricevuto il via libera dal Senato lo scorso 12 dicembre. Ancora una volta il governo pone la fiducia (è la nona volta) per evitare rischi e far presto.
«La scadenza è troppo vicina — ha spiegato il ministro per i Rapporti con il Parlamento Elio Vito — e in commissione si è già sviluppato un esame compiuto del testo». Inoltre, conclude Vito «il Senato aveva già apportato rilevanti modifiche accogliendo anche proposte dell'opposizione ». «È un provvedimento assolutamente utile e necessario — l'ha definito il ministro Mariastella Gelmini —. Un passo in avanti verso la meritocrazia, perché distingue le università virtuose dalle altre, agevola il ricambio generazionale assumendo giovani ricercatori e assicura più trasparenza nei concorsi».
Insorge l'opposizione. Il ministro ombra dell'Istruzione Maria Pia Garavaglia denuncia questa «strategia dell'inganno dell'opinione pubblica» e aggiunge che «il ricorso alla fiducia rappresenta un atto grave con il quale il governo pone un ostacolo enorme a ogni possibile opzione di dialogo ». Manuela Ghizzoni, capogruppo Pd in commissione Cultura giudica «offensivo che il ministro Vito dichiari che c'è sostanziale condivisione tra maggioranza e opposizione sul decreto. In realtà al Senato sono stati accolti solo pochi emendamenti formali. Abbiamo perciò chiesto di illustrare comunque in aula i nostri emendamenti perché fosse chiara la nostra posizione. Questo è un decreto peggiorativo che rischia di non raggiungere nessuno dei risultati che si prefigge».
Ma quali sono le novità del decreto Gelmini sull'università? Eccole: le commissioni che giudicheranno gli aspiranti professori ordinari saranno composte da quattro professori sorteggiati da un elenco di commissari eletti a loro volta da una lista di ordinari del settore scientifico disciplinare oggetto del bando e da un solo professore ordinario nominato dalla facoltà che ha richiesto il bando. In attesa di un riordino organico, le commissioni che giudicheranno i candidati al concorso di ricercatore saranno composte da un professore associato nominato dalla facoltà che richiede il bando e da due professori ordinari sorteggiati da una lista di commissari eletti tra i professori appartenenti al settore disciplinare oggetto del bando.
Le università sprecone (spesa per il personale oltre il 90 per cento dello stanziamento statale) non potranno fare nuove assunzioni. Per favorire l'assunzione dei giovani ricercatori, il blocco del turnover (20 per cento nelle altre amministrazioni) sale al 50 per cento. Il 60 per cento delle assunzioni dovrà essere riservato ai nuovi ricercatori. Gli atenei migliori, quelli con offerta formativa efficienza e qualità della ricerca più alte, avranno più fondi e tutti gli aventi diritto (180 mila circa) avranno la borsa di studio, per questo sono stati stanziati 135 milioni di euro.

Repubblica lettere 6.1.09
Israele, il Dio biblico e l'editoriale di Scalfari
di Stefano Romano Di Segni


Gentile Direttore, può immaginare lei che piacere ho provato nel leggere l'editoriale in prima pagina del Suo giornale di ieri, 4 gennaio, e apprendere dalla penna del suo fondatore oggi teologo Eugenio Scalfari che: «Quanto a Israele, il Dio biblico non è tanto quello di Abramo e di Salomone quanto il Dio degli eserciti di Saul e di David, il Dio vendicatore e vendicativo. «E' rassicurante riconoscere in lui l'incrollabile coerenza di chi, all'inizio della sua sfolgorante carriera, scrisse su «Roma Fascista» del 24 settembre 1942: «Gli imperi quali noi li concepiamo sono basati sul cardine di razza escludendo perciò l'estensione della cittadinanza da parte dello Stato Nucleo alle altre genti».
Mi lasci solo aggiungere che è raro incontrare in un Opinion Leader maturo e flessibile, che ha scritto di tutto e del suo contrario, tanta lucidità e determinazione nel voler riaffermare le sue convinzioni evidentemente più profonde.

Il dottor Di Segni insulta invece di contestare gli argomenti con altri argomenti.

Repubblica 6.1.09
Cresce la tensione dopo le parole del sindaco di Roma e di Frati sugli inviti alla Sapienza
"Criminale è chi smantella l´Università" l´Onda contro Alemanno e il rettore
di Carlo Picozza


ROMA - «Criminale è il disegno di quanti, come il sindaco e il rettore, vogliono smantellare l´università». Non si fa aspettare la risposta dell´Onda alle parole del sindaco Gianni Alemanno («La Sapienza è ostaggio di 300 piccoli criminali») e alle «interpretazioni» che ne dà il rettore Luigi Frati. L´affermazione di Alemanno («Criminali; gente di cui dobbiamo liberarci») è benzina sul fuoco delle polemiche per l´incontro (saltato) con l´ex br Valerio Morucci e l´annuncio a Repubblica del nuovo invito consegnato dal rettore al Papa (dopo quello, contestato, per la prolusione di Benedetto XVI all´apertura dello scorso anno accademico).
«La demonizzazione del movimento», per Francesco Raparelli, dottorando in Filosofia, «mira a nascondere le insidie della privatizzazione degli atenei, dei tagli a ricerca e personale, dell´abbassamento dei saperi. Si punta alla normalizzazione, complice Frati che vuole usare questa come merce di scambio con il governo per qualche briciola in più». «Il rettore», aggiunge Luca Cafagna (Scienze politiche), «vorrebbe ridurre l´esperienza di democrazia dell´Onda all´azione di una minoranza e, guarda caso, parla di libertà di parola quando nessuno, nell´università chiusa per ferie, può parlare». «Ogni giorno Frati fa un gioco diverso», ancora Raparelli, «ora fa le veci dell´alleato Alemanno tentando di minimizzarne le affermazioni, aggiustandone il tiro pro domo sua e addita come bersaglio del sindaco i senzatetto che hanno occupato la vecchia sede dell´ospedale dei tumori, un edificio che gli sta a cuore». «I due vogliono depistare dall´operazione di smantellamento dell´università», dice Alioscia Castronovo, laureando di Lettere. «Criminale è questo disegno non quello di quanti vi si oppongono». Anche i docenti reagiscono alle parole di Alemanno. Il presidente dell´ateneo della Scienza, Fabrizio Martinelli, sente «puzza di "pulizia culturale"». E Fabrizio Vestroni, preside di Ingegneria, esorta: «Più equilibrio. E dialogo».

Repubblica 6.1.09
Morto esule nel '63 in Urss, era stato in carcere 15 anni
Ankara pronta a riabilitare Nazim Hikmet
di Marco Ansaldo


Quando, alcuni anni fa, Orhan Pamuk accettò di fare per sole 24 ore il direttore del quotidiano turco Radikal, pubblicò tra lo sconcerto dei nazionalisti un articolo che apriva la sezione Cultura intitolandolo "Possono sputarti in faccia quanto vogliono". Il pezzo riguardava il più grande poeta nazionale, Nazim Hikmet, perseguitato per le sue idee di sinistra e considerato un traditore, al punto da doversi rifugiare in Russia, dove morì esule nel 1963. I suoi lavori furono proibiti per molti anni. L´immagine scelta dal premio Nobel a corredo della pagina ricordava un numero del quotidiano Cumhuriyet, quando nel 1951 scrisse a proposito di Hikmet: «Fai moltiplicare la sua foto così che il paese possa sputare fino a saziarsi».
Ieri il governo di Ankara ha fatto sapere di essere pronto a riabilitare il suo poeta più celebre del XX secolo, ridandogli la cittadinanza. Primo a usare i versi liberi, tradotto in 50 lingue, vincitore del premio internazionale della Pace nel 1955, Hikmet non nascose mai le sue simpatie marxiste. Pubblicò lavori sui massacri degli armeni, e scontò 15 anni di prigione, da cui uscì solo grazie a un´amnistia, perdendo però la cittadinanza a favore di quella polacca. Morì a 61 anni, per un attacco di cuore. Le sue spoglie si trovano ancora a Mosca.
Soprannominato «il gigante dagli occhi blu», Hikmet è ora oggetto di una vera e propria riscoperta. Non solo dell´opera, ben conosciuta anche in Italia. Ma della sua figura. Due anni fa, un film con un bravissimo attore turco che lo impersonava, Yetkin Dikinciler, ha avuto un grande successo in Turchia.
Rileggendo adesso il servizio su Hikmet nel giornale firmato da Pamuk, si nota ancora: «Quel comportamento riassume la condizione degli scrittori e degli artisti agli occhi dello Stato e della stampa». Ieri il vice premier turco Cemil Cicek ha detto, spiegando la misura presa dal governo: «I delitti che all´epoca portarono a togliere la nazionalità a Hikmet non sono oggi più considerati dei crimini». Che le cose stiano iniziando a cambiare, o che più probabilmente le autorità di Ankara vogliano dare un segnale positivo alle tante pressioni internazionali a favore degli intellettuali in Turchia, è comunque una buona notizia.

Liberazione 6.1.09
Le origini del mutualismo e un nuovo obiettivo della militanza
La "campagna del pane"
e l'iniziativa sociale di Rifondazione
di Fosco Giannini


La "campagna del pane" ha caratterizzato, più di altre, l'iniziativa sociale del Prc in questa fase. Dai primi responsi giunti dai territori tale iniziativa ha avuto un buon successo e ha permesso al Partito di iniziare , faticosamente, a riannodare alcuni di quei legami sociali brutalmente recisi dagli errori politicisti ed istituzionalisti commessi precedentemente da Rifondazione Comunista e sfociati nella Caporetto del 13 e 14 aprile 2008.
E' importante analizzare la campagna del pane poiché essa ha messo in evidenza alcune, non trascurabili, contraddizioni: da una parte vi è stata una buona - e non scontata - risposta militante, nei Circoli e nelle Federazioni. Il Partito è sceso in piazza e si è impegnato; si è convinto della bontà dell'iniziativa. D'altra parte vi è stata una risposta negativa ( con punte di sprezzo) da parte della minoranza. Oltre ciò, si percepisce una "terra di mezzo" - non si sa quanto vasta - segnata da una sorta di scetticismo o silenziosa attesa.
Chi scrive, per evitare equivoci, si dichiara d'accordo con l'iniziativa e anche con le diverse forme di lavoro sociale che essa evoca.
Ma le contraddizioni interne che il lancio della campagna ha provocato meritano un supplemento di indagine e di riflessione.
Partiamo dall'essenza delle cose: il segretario nazionale, Paolo Ferrero, e il nuovo gruppo dirigente tentano - attraverso la campagna del pane - di introdurre un'innovazione politica, culturale e organizzativa nel Partito ( nel senso che essa aggiunge un pezzo di lavoro inedito all'impegno militante).
Ferrero chiama questo nuovo pezzo di lavoro militante "mutualismo".
D'accordo: tuttavia, proprio alla luce delle contrarietà e dei silenzi provocati nel Partito credo che di questa innovazione dobbiamo parlare.
Prima questione: non dobbiamo ripetere gli errori commessi - a mio avviso - da Bertinotti. L'ex segretario lanciava "innovazioni" spesso prive del minimo sostegno politico e teorico necessario, sino al punto che esse si trasformavano - per la loro fragilità culturale - in atti liquidatori , e non rifondativi, della cultura e della prassi comuniste.
Il mutualismo che ci propone Ferrero, dunque, che cosa deve essere ? Che cosa non deve essere? La imposterei così, la questione, senza pregiudizi o reticenze nella discussione, ma con spirito aperto e costruttivo.
Quali sono le origini del mutualismo?
Sembra che tra i primi ad usare il termine "mutualismo"(mutualisme) sia stato, nel 1822, Charles Fourier ; è sicuro che fu una organizzazione di lavoratori di Lione - verso il 1830 - ad autodefinirsi mutualista ed è nella storia del pensiero filosofico ed economico il fatto che la categoria di mutualismo sia stato il cuore dell'analisi complessiva di Pierre - Joseph Proudhon.
Fourier, Proudhon, Josiah Warren, in buona parte Saint - Simon, del tutto Robert Owen : è lungo quest'asse di socialisti-utopisti, di umanisti non materialisti e pre-marxisti che prende corpo la concezione del mutualismo.
Essa è molto chiara in Proudhon: il mutualismo è il progetto di collaborazione, in senso solidale, tra produttori associati, non è certo il superamento dei rapporti capitalistici di produzione. Il problema centrale del capitalismo non è - per Warren e Proudhon - lo sfruttamento oggettivo sul lavoro tramite l'estrazione di plus valore, ma è "la violazione del principio del costo", violazione attraverso la quale il capitale accresce arbitrariamente tutti i prezzi delle merci. Proudhon (significativamente rilanciato - in una fase anticomunista acuta del centro sinistra storico italiano - da Bettino Craxi) è famoso per aver affermato che "la proprietà è un furto", anche se meno conosciuta, ma intimamente coerente al suo sistema di pensiero, è la sua affermazione secondo la quale " la proprietà è libertà" e che " la proprietà degli strumenti di lavoro è essenziale per la libertà".
Peraltro, saranno proprio Marx ed Engels (già ne "Il Manifesto del Partito Comunista") a fare i conti con il socialismo utopistico e con la concezione del mutualismo.
Si legge ne "Il Manifesto" : "I sistemi di Saint- Simon, di Fourier, di Owen, emergono nella prima e non sviluppata fase della lotta tra proletariato e borghesia…I fondatori di quei sistemi colgono la contrapposizione fra le classi…ma non colgono affatto l'autonomo ruolo storico del proletariato… Al posto dell'attività sociale deve subentrare la loro propria inventiva personale, al posto delle condizioni storiche dell'emancipazione del proletariato devono subentrare condizioni immaginarie, al posto della graduale organizzazione del proletariato in classe deve subentrare una organizzazione della società da loro stessi escogitata".
E sarà ancora Marx, nella "Miseria della Filosofia", a rispondere al Proudhon che asseriva che "è il tasso del salario a determinare il prezzo delle merci". Scrive Marx che vi è il diritto alla sciocchezza e Proudhon ignora che è stato lo stesso Ricardo a confutare una volta per tutte questo errore tradizionale.
I socialisti utopisti avevano escogitato un loro mutualismo e Marx l'aveva ridicolizzato.
Dunque, è chiaro che la proposta del mutualismo non può di certo riferirsi alla riproposizione delle concezioni di Fourier, Proudhon e Owen. Ma questo, mi pare d'aver capito, è lo stesso Ferrero ad asserirlo.
Che cosa può essere, dunque, il mutualismo proposto dal segretario del Prc?
Non deve essere e non è una riassunzione - nè per i tempi brevi né per i tempi lunghi - del senso ultimo della Società dell'Armonia senza più conflitti di Fourier o di un rilancio di quelle forme di cooperazione e associazionismo che si propagarono nella metà dell'ottocento e poi degenerarono in organizzazioni neo capitaliste volte, come le altre, al massimo profitto.
Per comprendere il mutualismo possibile potrebbero esserci utili le riflessioni di Lorenzo Guadagnucci (" Il nuovo mutualismo", Feltrinelli, 2007).
Guadagnucci ci ricorda, in quel suo lavoro, come le forme di autorganizzazione sociale crebbero e si diffusero, nella prima metà del XIX secolo, come tentativo di ricostruzione di quei legami sociali che il capitalismo degli "spiriti animali" del tempo aveva violentemente lacerato. E come oggi, di fronte al nuovo e lungo ciclo iperliberista segnato da un vasto disagio sociale e dalla distruzione generale del welfare, nuove forme mutualistiche, di spontaneo mutuo soccorso, si stiano diffondendo ed auto organizzando (molte, ed in espansione carsica, sono ad esempio, le nuove forme del credito democratico e svincolato dall'usura delle banche).
Ed è importante l'analisi di Guadagnucci poiché, da una parte, ci invita - anche noi comunisti - a non avere un rapporto aristocratico con tali forme di autorganizzazione sociale e, d'altra parte, a non dimenticare la degenerazione affaristica di quelle forme sociali spontanee che alla fine dell'ottocento si istituzionalizzarono entrando infine nel mercato come soggettività capitalistiche a tutto tondo, senza più nessun retaggio etico o solidale.
Questioni che riprende anche Giulio Marcon nel suo libro "Le utopie del ben fare", quando ricorda il pericolo di degenerazione del no profit e del terzo settore.
Che cosa deve dunque essere la proposta di Ferrero del mutualismo?
Prendendo nettamente le distanze da ogni forma mutualistica sbagliata e ambigua (da Proudhon all'odierno terzo settore) il nostro mutualismo dovrebbe essere essenzialmente un nuovo terreno di lavoro, un nuovo obiettivo della militanza, una nuova forma di penetrazione nel corpo sociale e di organizzazione del consenso. Oltreché l'anticipazione di una nuova etica: quella comunista e solidale.
Dobbiamo, cioè, con la massima concretezza possibile, stare a fianco della grande sofferenza sociale, offrire alle persone in carne ed ossa colpite quotidianamente dal capitale il nostro aiuto solidale; nelle periferie delle metropoli, nei paesi, nei quartieri, nei condomini, a fianco dei lavoratori divenuti esuberi, delle famiglie povere, degli immigrati, di quegli anziani e di quei malati ( penso all'Alzhaimer) con pensioni che non permettono né istituti né badanti a tempo pieno. E' troppo cristiano, tutto ciò, per noi comunisti? E' lavoro da crocerossine? No: ricordo che gli Oratori delle parrocchie, con la loro capillare rete di relazioni sociali, sono tra le più formidabili macchine di organizzazione del consenso conosciute e noi, senza "media" e senza fondi, abbiamo un'unica possibilità : il radicamento in ogni piega sociale (certo: innanzitutto nei luoghi della produzione e del conflitto vivo tra capitale e lavoro, presenza organizzata senza la quale ogni altra forma di militanza, compreso il mutualismo, perde senso).
Ma il mutualismo può essere un tassello importante - nella sua forma sociale di Soccorso Rosso - del nostro radicamento.
E mi affido alle memorie di Ho Chi Min: i comunisti vietnamiti - durante la lotta di Liberazione - facevano le iniezioni, gratuitamente, ai contadini poveri e malati. Ho Chi Min era nascosto tra i contadini e lavorava con essi in incognito. Un giorno un contadino gli disse : "Ma chi sono questi comunisti?". E Ho Chi Min gli rispose : "Non lo so. Ma se vengono qui a farci le iniezioni e ce le fanno gratuitamente saranno sicuramente brave persone".
Il mutualismo così concepito (solidarietà concreta, di classe) può attenuare il nostro conflitto con il capitale?
Mi pare una sciocchezza solo il pensarlo. Molte altre cose ci hanno portato lontani dalla lotta: il tentativo di trasformare il nostro Partito - comunista - in qualcos'altro da sé e la crescita di un grande amore per le poltrone.
Se il mutualismo - assieme al nostro imprescindibile protagonismo nei luoghi di lavoro - ci aiuterà a rafforzare i nostri deboli rapporti di massa ci aiuterà anche ad innalzare la nostra capacità di organizzare il conflitto sociale. In senso anticapitalista.

Corriere della Sera 6.1.09
Dispute Due saggi sulla caduta dell'impero con tesi opposte. Si riapre il dibattito cominciato da Gibbon
Fine di Roma: crollo o evoluzione?
Bryan Ward-Perkins: sparì la civiltà. Peter Wells: no, la cultura continuò
di Antonio Carioti


La caduta dell'impero romano d'Occidente (476 d.C.) ha sempre affascinato gli storici. Nel Settecento l'inglese Edward Gibbon le dedicò un'indagine minuziosa, sostenendo che il cristianesimo era stato il fattore principale del crollo. Ma il dibattito sulle cause del tramonto di Roma non si è mai interrotto, tanto che anni fa lo studioso tedesco Alexander Demandt stilò un elenco di 210 ragioni (dalla crisi di legittimità al surriscaldamento delle terme frequentate dalla classe dirigente) indicate di volta in volta dagli storici per spiegare il traumatico evento. Nella fervida discussione sui motivi, tra gli antichisti di vecchio stampo c'era però un consenso generale sulla gravità del disastro: «Uno stacco si verificò, senza dubbio, violento come un urto di continenti », scriveva Santo Mazzarino, uno dei maggiori studiosi di storia romana, nel saggio del 1959 La fine del mondo antico,
ora riedito da Bollati Boringhieri (pp. 217, € 14).
Poi però nel 1971 lo storico irlandese Peter Brown mise al bando le idee di decadenza e crollo, affermando che c'era stata piuttosto una grande trasformazione, cominciata sotto il tardo impero e proseguita dopo le invasioni barbariche, senza rotture brusche, in un clima di sostanziale continuità. Una tesi che si è fatta strada fino a diventare quasi egemone al giorno d'oggi. Per esempio lo studioso canadese Walter Goffart ha criticato il concetto stesso di «invasioni barbariche»: a suo avviso furono i romani a consentire lo stanziamento dei popoli nordici entro i confini dell'impero, anche se poi quell'esperimento d'inclusione andò «un po' fuori controllo».
Espressione di questa corrente storiografica è il libro dell'americano Peter S. Wells Barbarians to Angels, appena tradotto da Lindau con il più prudente titolo Barbari (pp. 241, € 19). Qui i famigerati «secoli bui» — dal V fino all'VIII, che segnò con Carlo Magno la «rinascita carolingia» — sono presentati come «un'epoca tutt'altro che senza luce», anzi «ricca di una brillante attività culturale». All'opposto Bryan Ward-Perkins, docente a Oxford, nel polemico saggio La caduta di Roma e la fine della civiltà (Laterza, pp. 293, € 19,50) vuole dimostrare che «gli effetti a lungo termine del crollo dell'impero furono drammatici», se non altro perché «l'arte, la filosofia e le buone fognature sparirono tutte dall'Occidente».
Eppure le due opere svolgono le rispettive argomentazioni partendo da una premessa comune. Wells osserva che per ricostruire la fine dell'impero non ci si può basare sui testi antichi giunti fino a noi, perché gli autori latini dell'epoca (come san Girolamo o Gregorio di Tours) avevano una visione romanocentrica, quindi catastrofista, smentita dalle acquisizioni dell'archeologia moderna. Ma Ward-Perkins accetta la sfida, nel senso che anch'egli si basa in prevalenza sui reperti archeologici, dai quali però ricava conclusioni assai diverse.
Per esempio entrambi gli autori constatano la scomparsa, una volta caduto l'impero, dei grandi edifici di pietra con tetti in tegole. Ma se per Ward-Perkins questa è la prova di un rovinoso declino dell'edilizia abitativa, Wells ribatte che si trattò semmai di un mutamento nel modo di realizzare le costruzioni, con l'utilizzo di materiali deperibili come il legno, che non implicò affatto lo spopolamento delle città e il collasso dell'economia. I vasti e spessi strati di terriccio scuro che si trovano nei siti urbani, fitti di resti «certamente databili dopo il periodo imperiale», dimostrano a suo parere che quei luoghi rimasero densamente abitati e pulsanti di attività anche in epoca post romana.
Inoltre Wells sottolinea che nelle tombe dei re barbari come il franco Childerico, vissuto nel V secolo, si trovano armi e gioielli di gran pregio, che solo una civiltà raffinata poteva offrire. Ward-Perkins replica però che non bisogna guardare a simili «oggetti d'élite, prodotti o importati per i più alti livelli della società»: l'attenzione va rivolta agli «articoli di buona qualità e a basso prezzo». Per esempio il vasellame, abbondantissimo sotto l'impero e poi quasi sparito, tanto che i ritrovamenti passano da «montagne di ceramica romana» a «qualche scatola di cocci», per giunta «privi di ogni finezza funzionale o estetica», dell'epoca barbarica.
Altri fenomeni riscontrati negli scavi sembrano confortare Ward-Perkins. Uno è la scomparsa degli spiccioli: le monetine di rame non vengono più coniate in Occidente a partire dal VI secolo, con l'unica eccezione delle aree dominate dai bizantini, dal che si deduce una drastica riduzione degli scambi economici. Altrettanto significativo è il venir meno della scrittura nella vita quotidiana. I graffiti di età romana spesso si riferiscono a piccole transazioni commerciali o a episodi banali: tipico il caso del cliente di un postribolo che manifesta per iscritto il suo gradimento per la prestazione ricevuta. Caduto l'impero, i testi scritti si fanno molto più rari e riguardano tutti «documenti formali, destinati a durare». Un chiaro sintomo che l'alfabetizzazione era diventata appannaggio di una ristretta élite.
Tutto ciò induce Ward-Perkins a parlare di regresso culturale e «disintegrazione economica », con annessa «una brusca caduta della produzione alimentare». E qui il contrasto tra i due autori si fa stridente, perché Wells esalta invece «lo sviluppo di una nuova tecnologia agricola — basata sull'adozione dell'aratro pesante a ruota — capace d'incrementare in modo esponenziale l'efficienza nella produzione di cibo, come mai era stato possibile ottenere ai tempi di Roma».
A volte ci si stupisce di quanto sia arduo scrivere una storia condivisa del secolo scorso, ma in fondo le difficoltà sono anche maggiori quando si tratta di avvenimenti trascorsi da un millennio e mezzo.