lunedì 12 gennaio 2009

Repubblica 12.1.09
Pedofilia e riti satanici crescono i reati dei preti li assolve solo il Papa
Superlavoro al tribunale del clero
di Orazio La Rocca


CITTÀ DEL VATICANO - Rubare ostie consacrate per usarle in riti satanici; violare il segreto della confessione; commettere peccati sessuali da parte di un ecclesiastico o di una religiosa, a partire dalla pedofilia; abortire o rendersi corresponsabile dell´interruzione volontaria della gravidanza; aggredire o offendere la persona del Papa. Sono i 5 «grandi» peccati per essere assolti dai quali non è sufficiente confessarsi, ma occorre una speciale dispensa papale emanata da un dicastero pontificio ad hoc, la Penitenzieria Apostolica, retta attualmente dal cardinale James Stafford. Peccati, dunque, gravissimi per la Chiesa, in forte crescita, specialmente - spiegano in Vaticano - attraverso l´aborto, la violazione del celibato sacerdotale e la profanazione delle ostie, un delitto, quest´ultimo, in aumento in particolare tra le sette dell´America Latina e in Europa. Peccati non a caso chiamati «Delitti riservati alla Santa Sede», il cui "ministero" di competenza - il più antico dicastero vaticano fondato nel 1200 da papa Onorio III - ogni giorno è chiamato a far fronte ad un superlavoro per rispondere alle richieste di «assoluzione e perdono» inviate da preti e vescovi di tutto il mondo.
Un lavoro delicato e riservato, svolto da un organismo interno al dicastero chiamato Congresso presieduto dal cardinale Stafford, affiancato dal vescovo Reggente Gianframco Girotti e da dieci membri, abituati da sempre ad operare con discrezione e senza pubblicità per far fronte alle migliaia di richieste avanzate dai sacerdoti che chiedono l´assoluzione papale per i 5 grandi peccati riservati alla S. Sede. «Numeri non ne possiamo fare, ma posso assicurare - ammette monsignor Girotti - che è un lavoro costante e molto rilevante». Ogni pratica viene evasa nel giro di una giornata. «Anche se ci possono essere casi - aggiunge il Reggente - che richiedono più sedute e doverosi approfondimenti per meglio verificare se il pentimento è autentico, spontaneo e sincero». Facile immaginare che tra questi casi un posto importante è occupato dalle richieste di perdono avanzate per quei sacerdoti che si sono macchiati del delitto di pedofilia, come è avvenuto recentemente negli Usa, e più in generale per la violazione del celibato sacerdotale.
Da domani se ne parlerà nel simposio pubblico di due giorni organizzato per la prima volta dalla Penitenzieria nella sede di piazza della Cancelleria 1, a Roma. Presenti il cardinale segretario di Stato Tarcisio Bertone, i vescovi Gianfranco Ravasi e Rino Fisichella, il professore Agostino Borromeo, docente alla facoltà di Scienze politiche all´università La Sapienza di Roma, teologi e moralisti. «È la prima volta che questo nostro dicastero dà vita ad un incontro pubblico», preannuncia monsignor Girotti. «Lo facciamo - sottolinea l´alto prelato - non per metterci in vetrina, ma per dimostrare che non siamo un dicastero burocratico, ma di grazia e di misericordia, che su delega del Santo Padre, dà vita e senso ad uno dei sacramenti più importanti, la confessione».

Repubblica 12.1.09
È morto a 86 anni il porporato amico di Bush e primo nunzio apostolico a Washington. Sulla sua carriera la macchia del periodo trascorso in Argentina
Pio Laghi, il cardinale che non sfidò la dittatura
di Marco Politi


Tentò di fermare la prima guerra in Iraq mediando tra la Casa Bianca e l´Iraq

CITTÀ DEL VATICANO - L´ultima sua missione fu l´incontro cruciale con Bush il 5 marzo 2003, quando papa Wojtyla lo inviò a Washington per bloccare in extremis la guerra all´Iraq. Pio Laghi - il porporato morto ieri all´età di ottantasei anni, per il quale il presidente Napolitano ha mandato un messaggio di cordoglio - era amico personale della famiglia Bush. Ma fu un dialogo fra sordi. George W. Bush aveva già deciso di arrivare a Bagdad.
«Quando uscii - ci ha confidato anni dopo il cardinale - un generale accompagnandomi alla macchina, mi sussurrò: "Non si preoccupi, in pochi mesi sarà tutto sistemato"».
Il destino ha voluto che l´ultimo suo intervento sia stato ancora dedicato all´America. L´elezione di Obama libera gli Stati Uniti «da quell´orrendo peccato originale, che è stato lo schiavismo», disse a dicembre ad un dibattito organizzato al centro Elea.
Non fosse stato per il periodo passato da nunzio a Buenos Aires dal 1974 al 1980, il cardinale Laghi avrebbe potuto vantarsi di una carriera perfetta. Pacato e gran lavoratore, nato il 21 maggio 1922 nei pressi Forlì e diventato vescovo a quarantasette anni, Paolo VI lo aveva inviato nel 1969 a Gerusalemme come delegato apostolico. Nell´80 Giovanni Paolo II gli aveva assegnato Washington, dove - in seguito ai negoziati tra Santa Sede e amministrazione Reagan - assunse nel 1984 l´incarico di primo nunzio vaticano nella storia degli Stati Uniti. Nel 1990 Wojtyla lo nominò alla guida della Congregazione per l´Educazione cattolica, servizio premiato dopo nove anni con la porpora. Ancora nel 2001 era tornato in Terrasanta con lettere papali per mediare tra il premier israeliano Sharon e il leader palestinese Arafat.
I sei anni trascorsi a Buenos Aires al tempo della dittatura dei generali e delle feroci rappresaglie contro gli oppositori del regime, gli sono rimasti invece addosso come una macchia e forse un rimorso. In linea con le istruzioni vaticane di non dare spazio all´opposizione marxista (o comunque armata) Laghi tenne nei confronti del regime militare argentino un atteggiamento di assoluta realpolitik, senza lasciarsi andare a denunce o gesti di biasimo, nemmeno quando aumentarono le «sparizioni» degli oppositori. Angela Boitano, madre di due desaparecidos italo-argentini, ricorda che insieme ad altri familiari di vittime incontrò il cardinale nel 1979, a margine della Conferenza episcopale latinoamericana a Puebla (Messico), chiedendo il suo aiuto per rintracciare gli sventurati: «Laghi ci ascoltò e ci rispose solamente: se sono stati molto torturati, i militari non li lasceranno mai in libertà». Nemmeno un militare, commenta la Boitano, «si sarebbe permesso una tale brutalità».
Laghi si difese in seguito, dicendo che soltanto verso la fine del 1979 (quando stava per partire) «ebbi la certezza che la violazione dei diritti umani fosse divenuta sistematica e la condannai». La verità è che gran parte dei vescovi argentini appoggiava la dittatura e il Vaticano in quel periodo non si spese in condanne.

Repubblica 12.1.09
Croce e Venturi. La libertà perduta
di Nello Ajello


Dagli anni del fascismo al dopoguerra andò avanti un carteggio ora curato da Silvia Berti, fra il filosofo e il giovanissimo storico
Dopo la Liberazione il dialogo si spinge sul Partito d´Azione avversato dall´uno sostenuto dall´altro

«Senatore e caro Maestro», «Carissimo giovane amico». Il primo è il settantunenne Benedetto Croce. L´altro è Franco Venturi, ventitré anni, destinato a diventare il maggiore studioso italiano dell´Illuminismo. Scambiandosi quegli appellativi, essi danno inizio nel 1937 a un denso rapporto epistolare - quaranta lettere in totale - che si prolungherà fino al 1950. In massima parte inedita, la corrispondenza esce a giorni presso il Mulino, a cura di Silvia Berti, in un volume intitolato Carteggio Croce - F. Venturi (pagg. 150, euro 20).
Fra i due esistono rapporti consolidati. Franco appartiene a una famiglia di illustri tradizioni intellettuali. Suo nonno, Adolfo Venturi, è stato una figura dominante della critica d´arte a cavallo fra Otto e Novecento; attività ereditata, con una più deliberata apertura agli stimoli della modernità, dal figlio Lionello, padre di Franco. Nel 1931, Lionello s´era rifiutato di sottoscrivere il giuramento di fedeltà al regime fascista imposto da Gentile ai docenti italiani. Dal marzo del ´32 l´intera famiglia Venturi s´era stabilita a Parigi. Alla mancata firma sotto l´editto gentiliano s´era aggiunto il coinvolgimento del giovane Franco in quell´ondata giudiziaria che, fra arresti e sospetti, aveva di recente colpito il gruppo antifascista torinese di Giustizia e Libertà. Come già a Torino, anche nella capitale francese, Croce incontrava i Venturi: una consuetudine che, nata con un marchio intellettuale, si nutriva di umori politici.
Quest´ultima dimensione, insita nei rapporti tra il giovane e l´anziano, resta però sottintesa nelle lettere che essi si scambiano. Sono, entrambi, sorvegliati speciali. Il filosofo, la cui abitazione napoletana era stata invasa, nell´ottobre del ´26, da una squadraccia fascista, alludeva all´episodio dichiarando di aver «avuto l´onore di ricevere una visita dello Stato Etico».
Quanto a Franco Venturi, il suo nome figurava nell´elenco degli antifascisti da perseguire. A dispetto di ogni cautela usata dai corrispondenti, le loro lettere vengono registrate negli archivi della Polizia. Come ha sottolineato Silvia Berti nella diffusa introduzione al volume, il cuore di questo dialogo epistolare «sono i libri o, in più d´un caso, l´assenza di libri». Venturi intrattiene Croce sui propri studi e progetti: una ricerca sull´illuminismo piemontese, poi l´abbozzo di un saggio dedicato a Filippo Buonarroti; e via via altri temi che il giovane storico ha già saggiato, da Diderot a una più generale disamina dell´illuminismo francese, da Tommaso Campanella a N. A. Boulanger, da Hegel «storico dell´illuminismo» a un esame della cultura del Settecento nell´intero continente: «Vedo di fronte a me come una meta lontana e in un certo senso ideale», egli specifica, «una storia europea del secolo dei lumi». Croce incoraggia l´amico. Consente con alcune delle sue diagnosi. Lo aiuta nel procurarsi i libri.
I libri, appunto, come ricerca. Poi, ben presto, come assenza e rimpianto. Al quasi dorato esilio parigino, nella vita di Franco Venturi subentra infatti una nuova fase. Nella corrispondenza con Croce ne risuona un´eco desolata. Arrestato a Port Bou dalla polizia franchista nell´ottobre del 1940, mentre cercava di raggiungere Lisbona per poi imbarcarsi per gli Stati Uniti dove la famiglia si era intanto trasferita, Venturi sperimenta per cinque mesi la severità delle carceri spagnole. Prima a Figueras, poi a Madrid e Barcellona. Estradato in Italia, lo custodiscono in carcere a Genova e Torino, finendo con l´assegnarlo al confino.
Destinazione: Monteforte Irpino. È il maggio del ´41. Franco si sente così trasformare - e ne scrive al «caro Maestro» - in «un prigioniero che ha visto interrotto il suo lavoro in cui metteva tutta la sua passione e la sua anima». Ad Avigliano (Potenza) dove viene trasferito grazie all´intervento del nonno Adolfo presso qualche residuo amico autorevole, va meglio, ma solo un po´. Croce continua a scrivergli. «Soffro per Lei perché so quale spasimo sia non poter avere a mano gli strumenti necessarii ai nostri dubbi e alle nostre ricerche!». E aggiunge: «Se posso esserle utile, mi adoperi».
Ma ecco che vien meno anche il soccorso epistolare. Agli internati, adesso, è consentito di scrivere solo ai familiari: una lettera per settimana, lunga non più di ventiquattro righe. La corrispondenza con Croce prima si dirada, poi tace. Per quattro anni: dal ´42 al ´46. Dopo la caduta del fascismo, per Venturi s´è aperta una stagione di lotta politica. Egli lavora alla stampa clandestina di Giustizia e Libertà, s´impegna nella Resistenza.
Anche il suo essere crociano subisce l´influenza di nuove idee e pulsioni. Si manifestano, sul pensiero del «caro Maestro», delle riserve che la comune avversione al fascismo aveva mimetizzato.
Sono sfumature che non sfuggono a una studiosa attenta come la curatrice Berti: su più d´un argomento trattato nelle lettere, le pare di avvertire uno scarto di sensibilità fra l´approccio più freddo, prevalentemente filosofico-letterario di Croce e quello passionale e deliberatamente «democratico» di Venturi. Un solo esempio: nell´entusiasmo professato dal giovane studioso per l´illuminismo piemontese la curatrice vede profilarsi l´ombra di Gobetti, non del tutto gradita al filosofo.
La novità, a fascismo appena caduto, è l´idiosincrasia di Croce per Giustizia e Libertà (e per il partito d´Azione che ne è l´erede). L´argomento trascende l´epistolario: lì non se ne parla, anche se altrove Venturi non risparmia a Croce critiche pesanti. E si spiega. Quell´idiosincrasia angustia, in particolare, quegli intellettuali borghesi (fra i quali proprio Venturi) nella cui formazione politico-culturale il direttore della Critica era assurto a simbolo di spirito critico e dignità civile. Il dialogo diretto fra Croce e Venturi diventa, nell´ultima sua fase meno umanamente drammatico, più tecnico, tale da schivare temi scottanti. Ma, fuori, nella società politica, la discussione sul tema del P. d´A. è così aspra e tenace da riflettersi nei rapporti fra Croce e il suo discepolo prediletto, Adolfo Omodeo. Vi si trova coinvolta perfino la cerchia familiare del Senatore: è un fervente «azionista» suo genero, Raimondo Craveri, marito della figlia Elena. Per Croce il partito di Parri e di Lussu è un bersaglio fisso. Lo considera una costruzione insensata, a partire dalla «diade» (cioè dalla coppia di parole) Giustizia e Libertà che presiede alla sua nascita. Lo giudica un «ircocervo», una bestia immaginaria, mezza liberale, mezza socialista. Qualcosa da deridere in linea teorica, prima ancora di criticarla nei fatti.
Tra le pagine più intense del libro curato dalla Berti figura, pubblicata in appendice, una lettera di Leo Valiani a Croce. Data: 6 ottobre 1945. È la testimonianza di un esponente azionista che, di fronte alla requisitoria del grande filosofo contro il suo partito, resiste a «non dirsi crociano». Valiani rievoca che cosa abbia rappresentato per una generazione di antifascisti «la lettura e la meditazione dei libri di Benedetto Croce, che penetravano nei nostri reclusori di Lucca e di Civitavecchia», accompagnandoci nella «fornace della lotta clandestina e della guerra rivoluzionaria». Che cos´altro, d´altronde, potevamo, fare noi "quattro gatti giellisti" «se non costituirci in un partito che fosse "d´azione" proprio nel senso che Mazzini» dava a questa parola? E così è sorta quella creatura politica «a Dio spiacente ed ai nemici suoi», che porta in sé la propria condanna. «Se vincono i comunisti ci rimettono in prigione; se vincono i cattolici ci mettono all´indice; se vincono i liberali ci trattano da poveri pazzi. Ma questo è il destino delle eresie. E anche l´amore delle eresie l´abbiamo imparato da Benedetto Croce».
Non si sa come l´abbia presa Croce. Ma se lo scrivere lettere equivale a confessarsi, questa di Valiani - politico sfiduciato, rivoluzionario deluso - è davvero da manuale.

Corriere della Sera 12.1.09
Nicaragua A due anni dall'insediamento, il presidente è isolato. Nel lusso della villa di Managua
Sandinismo addio, «tradito» da Ortega
Brogli, censure, diktat: l'ex ribelle ha perso il sostegno internazionale
Ancora una volta una rivoluzione è stata tradita dall'interno
di Rocco Cotroneo


RIO DE JANEIRO — Quando Daniel Ortega tornò al potere in Nicaragua, nel novembre 2006, in pochi si allarmarono: il comandante della Revolución del 1979 aveva smesso i panni del guerrigliero e girava avvolto in bandiere rosa, al suono delle canzoni di John Lennon, chiamando il Nicaragua alla pace e all'amore. In quei giorni, però, ancor meno persone si esaltarono per la rivincita di un personaggio che fu anche assai amato. Quel ritorno era frutto di indecenti accordi trasversali con gli ex nemici, poggiava su una risicata maggioranza di voti e non prometteva niente di buono. Avevano visto giusto.
Due anni dopo, il Nicaragua è tra i più instabili Paesi dell'America Latina. Nulla di comparabile alla scia di sangue del passato, ma qualcosa di pesante è di nuovo nell'aria. Il Parlamento è di fatto chiuso dallo scorso agosto, governo e opposizione non si riconoscono a vicenda, la crisi economica incombe, il mondo ha bloccato aiuti e finanziamenti. Ortega è isolato nella sua villa nascosta dalle palme, a Managua, quella che sottrasse a un miliardario filo-Somoza nel 1979 e dalla quale non si è più mosso. Governa affiancato dalla moglie e pochi fedelissimi, accusato del peggior caudillismo, di censura, di aver imbrogliato alle ultime elezioni amministrative. Non parla, non appare in pubblico. Ha perso soprattutto molte simpatie all'estero e nei circoli intellettuali, che erano sempre stati un punto di forza dei sandinisti.
Esiste un ampio consenso, dentro e fuori il Nicaragua, che il voto dello scorso novembre, assegnando una gran maggioranza dei municipi al Fronte Sandinista, sia frutto di una frode guidata dal governo. Se fosse stato pulito, Ortega ne sarebbe uscito sconfitto. Gli effetti si trascinano ancor oggi. La scelta aventiniana dell'opposizione non riesce a far raggiungere il numero legale alle riunioni del Parlamento e il budget per quest'anno è fermo. Ortega è pronto alla prova di forza: vuol fare approvare la legge per decreto, contro la Costituzione.
Colpisce la lista dei simpatizzanti persi per strada e i regolamenti di conti con chi non approva il suo governo. Ortega è andato a ripescare una vecchia causa contro Ernesto Cardenal, 83 anni, poeta e teologo, che fu suo ministro della Cultura dopo la rivoluzione e oggi è critico sul nuovo corso (Ortega, dice, gestisce una monarchia appoggiata da poche famiglie). «L' azione contro Cardenal è opera di un regime esecrabile», ha reagito lo scrittore uruguayano Eduardo Galeano. «Un'altra rivoluzione tradita da dentro», ha rincarato il portoghese José Saramago. Per difendere un altro ex maltrattato da Ortega, Sergio Ramírez, si sono mossi pure Gabriel García Márquez e Carlos Fuentes. Allo scrittore Ramírez il governo di Managua ha impedito di scrivere un articolo culturale sul quotidiano spagnolo El País, adducendo i diritti sull'argomento. È stato il principale caso all'ultima fiera del libro di Guadalajara. Il piccolo Paese centroamericano è anche nel mirino dei gruppi femministi per aver approvato la legge più rigida al mondo contro l'aborto, d'accordo con le gerarchie cattoliche.
Come di costume, ogni difficoltà interna a un governo di sinistra in America Latina viene imputata all'eterno imperialismo americano. Ortega segue il copione dell'alleato Hugo Chávez e denuncia complotti, cerca una sponda con la Russia di Medvedev, e dialoga con Iran e Libia. Lo scandalo delle ultime elezioni ha alienato al Nicaragua molti aiuti internazionali, che pesano per un buon 40% del bilancio pubblico. Al Nicaragua resta l'Alba, l'alleanza poggiata sui petrodollari che il Venezuela ha distribuito copiosi ai suoi alleati in questi anni. Ma con la crisi internazionale e i problemi interni di Chávez, il futuro del meccanismo è incerto. Così come la seconda vita del comandante Ortega.

Repubblica 12.1.09
Da Rembrandt a Vermeer
Il nord e l'arte di descrivere
Cinquantacinque dipinti esposti a Roma documentano la grande sapienza di olandesi e fiamminghi del Seicento


ROMA Verso il 1630, divenne molto popolare nei Paesi Bassi una bizzarra incisione, in cui era rappresentata la sezione del tronco di un melo. La stampa accreditava il sinistro presagio che molti avevano individuato nelle strane figure generate dal midollo del melo all´interno del tronco. In quelle chimeriche configurazioni si erano ravvisate le inquietanti silhouettes di monache, frati ed altri esponenti del detestato clero «papista», il che era stato messo in relazione con la minacciosa presenza, ai confini della repubblica calvinista d´Olanda, di un agguerrito esercito spagnolo, deciso a rovesciarla per reinstaurarvi un regime cattolico.
Capitata nelle mani dello scettico Rubens, l´incisione aveva suscitato un disincantato commento circa il ruolo svolto dalle forti emozioni nello scatenare la fervida immaginazione popolare. Come rileva Svetlana Alpers, che ha rievocato l´episodio in un affascinante libro dedicato all´arte olandese e alla sua inconfondibile vocazione descrittiva (Arte del descrivere. Scienza e pittura nel Seicento olandese, 1984), Rubens, benché di origine nordica, era imbevuto di cultura italiana. Si può pertanto esser certi che, se per caso gli fosse stata commissionata un´opera sul «prodigio del melo», si sarebbe disinteressato della forma dell´albero e avrebbe inscenato, in linea con la sua formazione italianizzante, una gran macchina narrativa, animata da protagonisti e comparse impegnate a esprimere stupore, paura, commozione mediante i moti del corpo e la mimica dei gesti e dei volti.
Al polo opposto della tradizione italiana, che intende il quadro come una narrazione per immagini e privilegia la rappresentazione delle azioni umane e l´espressione dei sentimenti, si colloca la tradizione «nordica», che sboccia nella portentosa stagione del ´400 fiammingo e conosce una seconda, non meno rigogliosa fioritura, nel ´600, soprattutto olandese. Anziché sforzarsi di rendere l´invisibile attraverso il visibile, la linea nordica si concentra in modo pressoché esclusivo sulle apparenze: tutta la sua inarrivabile e quasi maniacale maestria tecnica mira a riprodurre al meglio la superficie delle cose, la loro «pelle». Se la pittura italiana nasce all´insegna del motto oraziano ut pictura poesis - la pittura è come la poesia - quella nordica si colloca sotto l´egida dell´ut pictura visio. Il suo scopo è l´esercizio virtuoso di un´attività analiticamente descrittiva; i suoi emblemi potrebbero essere un pennello dai peli finissimi, capace di catturare ogni minimo dettaglio della realtà, ed una lente, lo strumento ottico che perfeziona e potenzia la facoltà visiva.
A dispetto della capricciosa arbitrarietà delle figure che riproduce, la stampa del «melo miracoloso» s´inserisce dunque nel solco analitico-descrittivo della tradizione nordica, così come appartiene al medesimo filone l´incisione di Pieter Saenredam, che intese smentire quella prima stampa riproducendo un buon numero di sezioni del famoso tronco, per dimostrare come solo un´accesa fantasia potesse aver scambiato per minacciose immagini fratesche le casuali e innocue figure disegnate dal midollo. E a scanso di equivoci la didascalia che accompagna questa seconda stampa assicura che «nel melo non ci sono altre immagini all´infuori di queste, e non se ne potrebbero trovare altre, nemmeno se lo guardate attraverso una lente di cristallo».
La visitatissima mostra romana che espone 55 dipinti fiamminghi e olandesi del ´600 provenienti dalla Gemldegalerie di Berlino («Da Rembrandt a Vermeer. Valori civili nella pittura fiamminga e olandese del ´600, a cura di B.W. Lindemann, Museo Fondazione Roma, fino al 15 febbraio) è un´eccellente occasione per ammirare alcuni dei più rappresentativi esemplari di questa nordica «arte del descrivere», ma anche per constatare come in molti suoi protagonisti, ed in particolare in quelli nativi delle Fiandre, la componente nordica s´intrecci spesso con la cultura figurativa barocca di matrice italiana.
Nel XV secolo tanto l´odierno Belgio che l´Olanda facevano parte del ducato di Borgogna, piccolo regno incuneato tra il territorio della Francia e quello dell´Impero. Con l´estinzione della dinastia di Borgogna, all´inizio del ´500 il ducato passò a Carlo V e da allora fu governato dalla monarchia spagnola. Ma in seguito a lunghe guerre, anche di natura religiosa, le province settentrionali degli antichi Paesi Bassi borgognoni, che avevano aderito alla Riforma protestante, riuscirono a staccarsi dalla corona di Spagna e a dar vita alla Repubblica olandese, mentre gli Asburgo sottomisero Bruxelles e le province meridionali, instaurandovi la Controriforma e un regime cattolico. Di qui la maggiore penetrazione nelle Fiandre dell´arte di stampo italianizzante.
Dalla fine del XVI secolo, la pittura olandese anticipò un fenomeno che si sarebbe generalizzato nel resto del mondo solo alla fine dell´800: i dipinti, o almeno la maggior parte di essi, non vennero più eseguiti su commissione, ma furono prodotti come tutte le altre merci e destinate al mercato, che a sua volta li proponeva e vendeva al miglior offerente. Come osserva Lindemann nel saggio in catalogo, «non è un caso che in questo clima dominato dalla domanda e dall´offerta, si sia affermata un´immensa gamma di generi e di modi. Accanto ai classici soggetti delle rappresentazioni storiche tratte dalla Bibbia, dalla mitologia e dalla grande storia, si aggiunsero la pittura di genere, il paesaggio, varie tipologie di ritratto, la natura morta».
I dipinti in mostra esemplificano in modo egregio questa varietà di generi, privilegiando i ritratti (con capolavori di van Dyck, Rembrandt, Dou e Frans Hals), i paesaggi (da Rubens a Jacob van Ruysdaeld, van de Velde, van Goyen) e le scene d´interno, sia nel filone pauperistico satirico delle risse all´osteria e degli interni contadini, di pittori del calibro di Steen e van Ostade, sia in quello quietamente intimista e opulento degli interni borghesi. Appartengono a quest´ultimo genere i due dipinti forse più emozionanti della mostra: La Madre di Pieter de Hooch - che con le sue superfici lustre e l´implacabile nitidezza ottica nella messa a fuoco dei dettagli incarna al massimo livello la virtù nordica dell´«arte del descrivere» - e la Ragazza con il filo di perle di Vermeer, in cui la poetica del gesto quotidiano, che nell´atmosfera di magica sospensione si trasforma in un frammento di eternità, si carica di sottili implicazioni voyeuristiche, come sarà recepito non solo dalla pittura novecentesca di Hopper, ma anche dal cinema, a cominciare da quello di Hitchcock.

Repubblica 12.1.09
MADRID. L'invenzione del XX secolo. Carl Einstein e le avanguardie
Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofia. Fino al 16 febbraio


Lo storico e critico d'arte tedesco, esponente dell'espressionismo berlinese, morto suicida nel 1940 per non cadere nelle mani dei nazisti, fu una delle personalità più rilevanti dell'arte e della cultura del suo tempo. Trasferitosi a Parigi nel 1907, divenne amico di Picasso, Braque e Gris. I suoi scritti furono fondamentali per lo studio delle avanguardie: basti pensare che introdusse in occidente l'arte africana. La sua attività, riscoperta in questi ultimi decenni, è oggi ripercorsa in una grande esposizione che raccoglie centoventi lavori eseguiti dagli artisti a lui più vicini, come Dalí, Grosz, Léger, Mirò, Rousseau, Klee e Dix. La mostra è articolata in sezioni dedicate alla scultura africana e oceanica, al dadaismo, al cubismo, al surrealismo e all'arte durante la guerra civile spagnola. Einstein era anarchico e partecipò a questo conflitto nel 1936. Completa la visita una sezione documentaria con tutti i suoi scritti: La scultura negra del 1915, il primo saggio sull'estetica negro-africana conosciuto in Europa, L'arte del XX secolo del 1926, i numeri della rivista surrealista Documents del 1929-'30, da lui fondata insieme a Leiris e Bataille, e la prima monografia dedicata a Braque nel 1934.

Repubblica 12.1.09
Parigi. La passione all'opera. Rodin e Freud collezionisti
Musée Rodin. Fino al 22 febbraio


«L'antico è la vita stessa», amava ripetere il grande scultore. Ora una mostra prende in esame la sua raccolta, consistente in ben seimila pezzi, mettendola a confronto con quella di Sigmund Freud, oggi conservata nel museo di Londra, con l'obiettivo di sottolineare gli stretti legami esistenti tra l'opera dei due grandi uomini e la loro passione per l'antichità. Entrambi hanno iniziato a raccogliere i primi oggetti intorno al 1890, Freud a Vienna e Rodin a Parigi. La presenza ossessiva di statuette nello studio del padre della psicoanalisi che possedeva tremila pezzi, procedeva di pari passo con l'acquisizione di oggetti di scavo nella casa dello scultore a Meudon. Il percorso propone una selezione significativa di reperti, provenienti dall'Egitto, dalla Grecia e da Roma, tra cui figura la Gradiva , il celebre bassorilievo in marmo del II secolo d. C., proveniente dal Museo Chiaramonti in Vaticano, da cui Freud ha tratto ispirazione.

Repubblica 12.1.09
Caravaggio ospita Caravaggio
Pinacoteca di Brera. Dal 17 gennaio


In occasione delle celebrazioni del bicentenario del museo, da vedere l'omaggio al maestro che ruota attorno alla Cena in Emmaus , realizzata nel 1606 e giunta alla Pinacoteca nel 1939, come dono dell'Associazione Amici di Brera. La mostra, curata da Mina Gregori e Amalia Pacia, mette a confronto il dipinto con la redazione giovanile dello stesso tema, conservata alla National Gallery di Londra. Un evento eccezionale, come il prestito di altri due capolavori dell'artista. Si tratta dei Musici del Metropolitan Museum, una delle prime opere eseguite dal giovane Caravaggio a Roma per il Cardinal Del Monte, passata poi nelle raccolte di Antonio Barberini, di Richelieu, della duchessa d'Anguillon, prima di arrivare al Met nel 1953, e del Giovane con canestro di frutta della Galleria Borghese.

Repubblica 12.1.09
Rovereto. Futurismo 100: illuminazioni. Avanguardie a confronto. Italia Germania Russia
MART. Dal 17 gennaio


Il 20 febbraio 1909 Marinetti fondava il movimento con la pubblicazione a Parigi del primo manifesto. Apre le celebrazioni del centenario una mostra che si prefigge di indagare le complesse relazioni esistenti tra i futuristi e i più importanti esponenti delle avanguardie russe e tedesche. Curata da Ester Coen, l'esposizione prende in esame i rapporti con gli artisti che hanno partecipato alla vicenda di Der Sturm , Chagall, Kandinskij, Klee, Macke e Marc. Ricorda il leggendario viaggio di Marinetti in Russia del 1914 l'inedito resoconto dello storico dell'arte moscovita Lapsin, recentemente scomparso, che permette di analizzare i legami con i pittori cubo-futuristi Larionov, Exter, Goncharova e Rozanova. Da segnalare, inoltre, la riapertura della Casa d'Arte Futurista Fortunato Depero, dopo un lungo restauro.

Corriere della Sera 12.1.09
Walter Pedullà rilegge la lezione del Novecento e dice: stiamo vivendo un ritorno all'ordine
La sperimentazione (aperta col Futurismo) è ormai finita
di Paolo Di Stefano


Riferimenti
Un omaggio all'avanguardia storica che coltivò il terreno per tutta la letteratura successiva

Walter Pedullà è uno di quei critici che non temono di affrontare i grandi temi. Un po' sul modello del suo maestro Giacomo Debenedetti. Diciamo che da sempre preferisce misurarsi con i macrofenomeni letterari e con i vari ismi che si sono succeduti decennio dopo decennio. Per usare una sua metafora, Pedullà è un critico di fiuto e pure di fiato. Lo dimostra anche in questo suo nuovo libro, Per esempio il Novecento (Rizzoli), in cui raccoglie, con estrema coerenza, saggi che spaziano dal Futurismo ai giorni nostri. La coerenza sta nel leggere il secolo scorso attraverso la specola della tensione sperimentale nelle sue varie forme (espressive e tematiche) e derivazioni, comprese le più imprevedibili e lontane dai movimenti di inizio secolo. C'è un richiamo continuo alla microfisica, che — osserva Pedullà — a chi scrive nel Novecento dà un consiglio: «Il suo linguaggio sia sempre come la particella stramba che non segue il percorso delle altre particelle atomiche».
Un bell'omaggio all'avanguardia storica italiana nel centenario del primo manifesto, perché la morale che si trae dal libro è che in fin dei conti quei distruttori per vocazione che in partenza furono Marinetti e i suoi compagni in realtà ararono il terreno per il futuro, meglio lasciarono semi che avrebbero attecchito qua e là, capricciosamente, per tutto un secolo. Sicché si può intravedere una tradizione del nuovo o una funzione sperimentale che tocca in pieno o di striscio tanti e tanti dei nostri narratori, che sono poi da sempre quelli più cari a Pedullà: «Il Futurismo — scrive Pedullà — ha contagiato il secolo», dunque non deve meravigliare se con quell'imprinting «tutti gli esperimenti oggi risultino già fatti o così pare, almeno in letteratura ». Al punto da ritenere questi nostri tempi come una fase di (inevitabile) riflusso se non di ritorno all'ordine rispetto all'esigenza, attraverso la letteratura, di «andare oltre la salute» dichiarata da Volponi o di «aggiungere vita alla vita», che era l'obiettivo perseguito da Pizzuto: «I giovani scrittori — futuro senza Futurismo e senza ogni ismo — sanno che questa è l'unica vita a disposizione e si limitano a raccontarla come se non ci fossero più salti strutturali dai quali il mondo è una cosa mai vista». In realtà la pagina di Pedullà è quella di un critico-narratore, fluviale e affabile sì, ma sempre preoccupato di non tradire due principi di militanza: la disponibilità all'ascolto del testo e la presa di responsabilità che gli fa scegliere un autore e scartare l'altro senza troppi peli sulla lingua. Come quando osserva: «È storia pure la nevrosi, epidemia borghese del primo Novecento della quale Gadda fu l'untore. Invece Moravia scelse il ruolo del terapeuta e si limitò a consolare ».
Del resto, la prospettiva viene dichiarata sin dal capitolo iniziale, sul bello in letteratura, dove Pedullà, sulla scorta di due concetti opposti e complementari (la «scrittura» di Debenedetti e la «struttura» di Della Volpe), non resiste alla tentazione di offrire i suoi esempi, citando qualche passaggio gaddiano, il racconto di Alvaro Il ritratto di Melusina, «uno dei più bei risultati della narrativa del Novecento », un paio di pagine di Horcynus Orca
(«il mare non ha mai mandato un così intenso odore attraverso il suono delle parole»), «romanzo di caos, dissoluzione, riduzione all'inorganico».
Nel novero delle sue preferenze ci stanno nomi prevedibili, da Palazzeschi a Gadda a Manganelli, ma ci sta anche molto altro: il filone comico-assurdo- satirico, che riguarda Campanile, Brancati, Zavattini, il fantastico-surreale della linea Bontempelli-Savinio- Landolfi-Calvino, il barocco meridionale di Alvaro, Pizzuto, Rea, Bonaviri, D'Arrigo, l'espressivismo di Testori e Pasolini, le esperienze neoavanguardiste di Pagliarani, Volponi e Malerba. E se i singoli saggi, poi, si concentrano a sondare uno o l'altro di questi autori, non si perde mai il disegno più generale entro cui si inquadrano. C'è solo l'imbarazzo della scelta, nel Novecento inquieto, razionale e irrazionale, tragico e comico-giocoso, distruttivo e positivo, che ci propone Pedullà: «Il Novecento italiano è stato un grande secolo: l'abbiamo detto all'Europa e abbiamo portato le prove, nei secondi cinquant'anni non meno che nei primi». Compreso il maestro Debenedetti, la cui opera saggistica non ha nulla da invidiare alla narrativa più sperimentale, perché vi si trova naturalmente, tra l'altro, «la particella stramba», che è il personaggio uomo, e cioè l'autore stesso; c'è l'epifania da cui veniva folgorato il critico leggendo i suoi autori; c'è quell'incompiutezza che apprezzò in certi narratori come necessità. Lui stesso, Debenedetti, va annoverato tra i rivoluzionari inconsapevoli che gli piacevano tanto in letteratura (a cominciare da Svevo e Tozzi). Anche un altro rivoluzionario (non proprio inconsapevole) come Gadda sceglie di non concludere i romanzi, mentre chiude con puntualità i racconti, nel suo perenne andare e tornare dal tragico al comico (nelle sue varie gradazioni, dall'umorismo manzoniano al riso «cretinoski»). Il tragico sarà predominante nella seconda parte della Cognizione e in particolare nelle pagine che Pedullà cita più volte come il vertice della narrativa italiana, dove la Vecchia Signora riceve la notizia che il figlio più caro è morto in guerra: «È uno strazio reso lancinante dal silenzio in cui si svolge la scena- madre del romanzo e del suo autore ». La convivenza gaddiana di tragico e comico diventa compresenza di follia e sapienza nel «più europeo, cioè più moderno, della maggior parte dei nostri scrittori, anche nel senso che è straniero rispetto a tutte le patrie». Si sta parlando di Landolfi: grasso nei diari, magro nei racconti, dove questo nomade scettico, questo avventuriero nell'ignoto, questo nemico di ogni dogma, autocritico fino al masochismo (la cui psiche però non è «ulcerata » come quella di Gadda) impone tutta la potenza negativa del fantastico, del paradosso, dell'assurdo: «Non sanno — avverte Pedullà — che cosa si perdono i lettori di tutto il mondo a ignorare questo scrittore le cui fantasie meritano la cittadinanza in ogni lingua ».
Pedullà, spesso e volentieri, chiama in causa i lettori, quasi a voler lanciare un appello, come nel caso di D'Arrigo, che non avrebbe ottenuto quel che merita. Ma non c'è bisogno di essere trasgressivi fino a quel punto, per essere originali: si prendano la scrittura magra di Domenico Rea, il realismo magico di Alvaro, la miscela di fiaba e memoria infantile in Bonaviri, il rovello masochistico di Testori, l'attrazione del vuoto in Malerba, i vulcani mai spenti di Pagliarani. Il bilancio del nostro Novecento letterario è ampiamente all'attivo: con le sue inquietudini, accensioni, epifanie ha saputo «aggiungere vita alla vita» della storia culturale europea. Quegli incendiari di Marinetti e compagni sotto sotto ne sarebbero fieri.
WALTER PEDULLÀ Per esempio il Novecento RIZZOLI PP. 565, e 21,50

Corriere della Sera 12.1.09
L'assenzio. L'insidiosa «fata verde» tentazione di tanti artisti


Attrazione fatale o precipitosa fuga dal tujone? Per i non iniziati, il tujone è il componente «tossico» dell'artemisia, la pianta da cui deriva l'assenzio: la magica fée verte («fata verde») che ispirò, avvelenandoli anche, scrittori maledetti e artisti dell'Impressionismo francese, protagonisti degli anni Novanta dell'800: Rimbaud, Verlaine, Baudelaire, Van Gogh, Toulouse-Lautrec. Questi, per inciso, possedeva un bastone da passeggio, concavo, che conteneva una riserva di assenzio, con capacità di mezzo litro. E un bicchierino a parte. La moda dannata, con il suo affascinante rituale di servizio (il cucchiaino forato, la zolletta di zucchero, l'acqua da «taglio » che, versandola, rende opalescente il liquido verde smeraldo), trovò fertile terreno anche in Inghilterra e Oltreoceano, superando felicemente il secolo XIX fino al proibizionismo datato 1915. L'«ora verde» (dalle 17 alle 19, tardo pomeriggio fino all'aperitivo) degli accaniti consumatori (il vizio avrebbe contagiato anche le donne borghesi e quindi la classe operaia della rivoluzione industriale) sprofondò nell'oblio per molto tempo. Ma un recente revival ha riscoperto sia la bevanda (riveduta e corretta, meno dannosa) sia la leggenda. Scorrendo le pagine de Il libro dell'assenzio, autore Phil Baker (Voland), ricco di notizie, nomi, aneddoti, citazioni e qualche consiglio, si resta sull'orlo del burrone. Dalla personalità del lettore dipenderà, poi, se buttarsi o ritrarsi.
Marisa Fumagalli PHIL BAKER Il libro dell'assenzio Trad. Luca Caddia VOLAND PP. 288, e 15

Corriere della Sera 12.1.09
Prorogata l'esposizione dei capolavori dell'Hermitage. Ma intanto il nuovo Maec si propone anche come un modello per l'Italia
Cortona, piccoli musei crescono. Nel segno degli Etruschi
Stefano Bucci


La formula. Nuove sale, collezioni che tornano nelle loro terre d'origine, collaborazioni eccellenti e custodi che sono tecnici L'urna etrusca dell'Hermitage in mostra a Cortona

CORTONA (Arezzo) — Ai trenta capolavori etruschi dell'Hermitage (in mostra fino al 25 gennaio) il Maec di Cortona affida il suo nuovo corso: opere certamente strepitose che per la prima volta tornano in Italia (dalla bellissima scultura-urna in bronzo raffigurante un giovane disteso all'incredibile placchetta con il Dio del Sole alato proveniente dalla collezione Campana fino all'anfora con delfini, ippocampi e draghi marini che tanto ricorda Gio Ponti) ma che, idealmente, fanno «solo» da testimonial eccellenti ad un progetto avviato ormai da tempo dallo stesso Museo dell'Accademia etrusca e della città di Cortona (Maec appunto), un progetto che sembra avere orizzonti di ben più ampio respiro di quelli legati ad una semplice «esposizione- evento».
La mostra curata da Elena Ananich, Paolo Giulierini, Paolo Bruschetti (catalogo Skira, per informazioni 0575/637235) non propone così soltanto crateri, buccheri, anfore a figure rosse oppure nere. Ma, ad esempio, sei nuove sale (l'allestimento curato da Andrea Mandara ha puntato sulla linearità utilizzando con successo videoproiezioni e schermi digitali) dove è esposta, per la prima volta dall'inizio degli scavi nel 2005, una parte dei reperti trovati nella necropoli etrusca dell'area archeologica del Sodo. E che rappresentano l'ideale continuazione di un percorso ben più antico iniziato nel 1726 con la nascita, proprio a Cortona, di quella Accademia Etrusca che costituisce il nucleo storico della collezione oggi ospitata nel trecentesco Palazzo Casali: settemila opere, duemila metri di spazio espositivo, diecimila volumi conservati (il tutto affidato ai curatori Paolo Giulierini e Paolo Bruschetti) con una appendice moderna dedicata al concittadino Gino Severini (da vedere la magnifica Maternità del 1916). Mentre l'impegno congiunto di Comune, Ministero e Soprintendenze è servito a migliorare l'operatività e l'accessibilità del Parco Archeologico attraverso la creazione — tra l'altro — di un laboratorio di restauro. Da Cortona arrivano però anche altri segnali, che confermerebbero una nuova via della museologia italiana (testimoniata in qualche modo dal protocollo d'intesa firmato di recente dagli Uffizi di Firenze e che dovrebbe affidare ai musei della provincia quelle opere attualmente costrette nei depositi della galleria per motivi di spazio). L'archeologo Mario Torelli dell'Università di Perugia (cui era stato affidato nel 1986 il progetto organico di indagine sull'antica polis di Cortona e sul territorio) aveva a suo tempo parlato, durante l'inaugurazione, di «grandi musei centrali che sono ormai morti, finiti»; di «collezioni che devono tornare alle loro terre d'origine, nei piccoli musei sparsi sul territorio »; di «vetrine che non possono essere più soltanto boutique dove esporre oggetti bellissimi, ma che devono invece ospitare i risultati di concrete ricerche scientifiche».
Il Maec di Cortona può essere, dunque, un buon modello di piccolo museo locale con vocazione internazionale (magari anche un po' glamour/fashion visto le tante celebrities, da Jovanotti a Robert Redford, che frequentano quella che Henry James aveva definito «la più antica e straordinaria città d'Italia»). Non è un caso, insomma, che la mostra sia nata dalla collaborazione con la Fondazione Hermitage-Italia (che annuncia per quest'anno un'esposizione a Prato dedicata ai tessuti) e che negli scavi attorno alla città toscana sia fin dall'inizio coinvolta l'Università di Alberta in Canada. Come non è certo un caso che il museo si proponga come l'unico in Italia dove i custodi sono veri esperti, archeologi o quantomeno tecnici. Il che, certo, non guasta.

Il Giornale 12.1.09
Tra assolutismo e nichilismo


Negli ultimi vent’anni abbiamo assistito al progressivo e irreversibile sgretolarsi di molte certezze ideologiche che avevano imperversato negli anni Sessanta e Settanta. È venuta meno, soprattutto a sinistra, l’idea di una linea temporale della storia intesa come risolvimento continuo e ininterrotto del passato nel futuro, come processo qualitativamente accumulativo, come svolgimento irreversibile che va dal male al bene. Un’idea che rifletteva l’universo mentale di tutti coloro che avevano creduto che la storia fosse portatrice di un movimento universale spingente da sinistra a destra, tale da relegare quest’ultima in un angolo, per poi dissolverla del tutto. Erano credenti convinti di possedere la giusta visione della marcia inarrestabile del progresso.
Questo immaginario ha avuto come suo esatto pendant una concezione naïf della realtà storico-umana. Il paradigma dell’ideologia, infatti, ridisegnava uno spartiacque decisivo all’interno della modernità tra un prima e un dopo. Il processo storico era dislocato “geograficamente” fra una destra, espressione del passato - arretratezza, conservazione, chiusura -, e una sinistra espressione del futuro - avanzamento, novità, apertura. L’homo ideologicus non era interessato a sapere se le cose erano vere o erano false, se erano giuste o se erano sbagliate, ma solo se erano progressive o reazionarie.
Le «dure repliche della storia» - per dirla con Norberto Bobbio - hanno invece dimostrato tutto il semplicismo storico-filosofico di questa concezione. Basti pensare a tutti i conflitti etnico-religiosi degli ultimi quindici anni. Riportiamo qui due immagini poetico-letterarie che valgono molto di più di tante riflessioni filosofiche. Così Robert Musil: «Il cammino della storia non è quello di una palla di biliardo, che segue una inflessibile legge causale; somiglia piuttosto a quello di una nuvola, a quello di chi va bighellonando per le strade, e qui è sviato da un’ombra, là da un gruppo di persone o dallo spettacolo di una piazza barocca, e infine giunge in un luogo che non conosceva e dove non desiderava andare». E così, lapidariamente, Eugenio Montale: «la storia non procede/né recede, si sposta di binario/e la sua direzione non è nell’orario». In conclusione la storia non ha alcuna direzione e (forse) alcun senso. Il suo casuale accadere si dispiega come un susseguirsi di fatti privi di un finalistico incremento di valori. Cioè il contrario di quanto appariva dall’inganno prospettico dell’ideologia progressista.
Alla constatazione che il processo storico non ha una direzione volta ad assegnare un fine prestabilito all’azione umana sono giunti ormai molti pensatori contemporanei, i quali, giustamente, hanno ridimensionato alquanto il prometeismo politico e ideologico dei decenni precedenti. Se non che a questa conclusione è subentrata, per contro, la teorizzazione di un pensiero debole che, nel sottolineare i limiti della ragione, del razionalismo e della scienza, ha propagato un sentire scettico che si è imposto come una nuova visione del mondo. Siamo caduti così in un altro conformismo: il conformismo del relativismo.
Ora se per relativismo si intende il riconoscimento del pluralismo delle fedi e dei valori all’interno di un quadro normativo dato dallo Stato di diritto, dove ognuno è legittimato a perseguire i propri fini, purché non intralci quelli altrui, non c’è dubbio che questo relativismo deve essere difeso a spada tratta. Esso, infatti, è il Dna della civiltà liberale e dello stesso Occidente. Se, invece, per relativismo si deve intendere l’idea acritica che tutto, appunto perché relativo, si equivale, allora non c’è dubbio che assistiamo all’insignificanza dei valori e alla perdita netta della loro importanza. In questo senso la valenza nichilistica del relativismo è innegabile. Sorge dunque una domanda decisiva: come è possibile mantenere integra la libertà insita nel relativismo, evitando che questo vada verso la deriva del nichilismo?
È questa, in sostanza, la sfida teorica raccolta da due filosofi contemporanei, Dario Antiseri e Giulio Giorello, che in nome di una comune fede nella libertà, hanno costruito un limpido dialogo sui temi fondamentali del relativismo e della libertà stessa (Libertà. Un manifesto per credenti e non credenti, con una postfazione di Silvano Tagliagambe, Bompiani). L’interesse del confronto è dato dal fatto che gli argomenti trattati sono di grande rilevanza e perché i due autori sono, per molti versi, del tutto antitetici: Antiseri è un filosofo cattolico e Giorello è un matematico e un filosofo che ama definirsi «ateo protestante». Il terreno di incontro è quello del riconoscimento del valore comune del pluralismo e della laicità, intesi come rifiuto di verità dogmatiche, siano esse religiose, filosofiche, politiche o sociali. Li unisce, inoltre, la comune rinuncia a tutte quelle filosofie che, assegnando in qualche modo alla storia fini trascendenti e collettivi, finiscono per sollevare i singoli individui dalle proprie dirette responsabilità etiche e politiche. Un libro, dunque, che interviene nel grande dibattito sul significato e sui limiti della democrazia e del liberalismo, in cui a confrontarsi sono, in un serrato intreccio, la scienza, la Chiesa, la fede in Dio e la libertà d’espressione liberata da ogni pretesa di assolutismo.
Ridotta all’osso, la tesi di Giorello è quella di un libertario che afferma le ragioni irriducibili dell’individuo e il suo diritto di sbagliare, poiché, comunque, nessuna verità è in grado di trascenderlo. Per suffragare la sua tesi Giorello non esita a citare, facendola propria, la considerazione di Benedetto XVI che nella Spe salvi (n.14) rileva giustamente che «la libertà rimane sempre libertà, anche per il male». E ciò perché nessuno può pensare per te e agire al tuo posto. Infatti, «se ci fossero strutture che fissassero in modo irrevocabile una determinata - buona - condizione del mondo, sarebbe negata la libertà dell’uomo, e per questo motivo non sarebbero, in definitiva, per nulla buone strutture». Il che, appunto, è quanto dire che il bene riposa soltanto nella libera coscienza degli individui. Tesi naturalmente questa, che Giorello porta al suo estremo risolvendola poi contro lo stesso Ratzinger.
Antiseri si trova d’accordo con Giorello sulla necessità di rivendicare il metodo della libertà quale criterio di rispetto di ogni credo e di ogni teoria. Si deve infatti avere la consapevolezza che nulla è fissato ab aeterno e che, pertanto, solo la libera e incessante ricerca in ogni campo della vita intellettuale permette di «aggiustare il tiro» verso ulteriori verità, intese, però, sempre come un traguardo provvisorio, rivedibile e superabile («la ricerca non ha fine», affermava Karl Popper). Antiseri rivendica la sua fede cattolica, osservando, con ragione, che proprio perché l’uomo «non è in grado di proporre valori assoluti razionalmente dimostrabili, che l’umana conoscenza è sempre parziale e fallibile, incapace di costruire degli assoluti terrestri», si apre lo spazio per una scelta di fede. Insomma proprio il relativismo conferma la giustezza del metodo della libertà, la quale permette ad ognuno di scegliere quei valori che più gli sono congeniali.
Naturalmente, aggiungiamo noi, solo se la stessa libertà viene intesa come un valore non relativo.

Corriere della Sera 12.1.09
In Italia sono 260
Siti pro anoressia, allarme mondiale «Bisogna oscurarli»
di Mario Pappagallo


In Francia sono stati vietati. In Spagna la polizia ne ha scoperti quattrocento

MILANO — Ana e Mia. Sono due killer virtuali per molte adolescenti. Ana l'anoressica, Mia la bulimica. E in rete i siti web pro Ana e pro Mia dilagano. Negli Stati Uniti e in Europa. Parole d'ordine per adolescenti che si sfidano in una battaglia autodistruttiva i cui effetti non sono virtuali.
L'allarme è internazionale. In Francia da aprile 2008 questi siti sono vietati, in Spagna la polizia ne ha scoperti 400 e ora le autorità devono decidere che cosa fare. Secondo un'indagine Eurispes solo in Italia (3 milioni di anoressici-bulimici e 9.000 nuovi casi ogni anno) sono ben 260 i siti web pro anoressia, con un trend in triste crescita.
Spesso si tratta di blog dove le ragazze, giovani o giovanissime, si raccontano giornalmente facendosi forza in quella che per loro è una battaglia da vincere, ma che in realtà è una pericolosissima sfida alla vita. Spesso però incitano a dimagrire con istruzioni e trucchi per non farsi scoprire. Come i blog giapponesi per aspiranti suicidi. «Permettimi di presentarmi. Il mio nome è Ana. Possiamo diventare grandi socie, noi due. Investirò molto tempo con te e mi aspetto lo stesso da parte tua...». Il messaggio aggancia la ragazza insicura e insoddisfatta di sé, del suo corpo, dei rapporti familiari. Ana promette: «Ti spronerò al limite. Dovrai accettarlo, perché non puoi sfidarmi ». Il ritorno sul blog diventa parossistico, i chili si perdono... la mente e la vita sfuggono. I medici a volte non sospettano nemmeno quale nemico hanno di fronte. Virtuale solo per modo di dire.
Così è anche Mia, una trainer che non abbandona mai le amiche: stanno male, si sentono sole e perse, il cibo le consola ma poi va rigettato. Mia c'è, sul blog, e le ragazze le scrivono: «Ho bisogno di te, sto male aiutami, solo tu puoi perché solo tu sei importante per me, sei l'unica che può, ti prego fammi stare bene». C'è chi registra diligentemente le calorie contenute nei piatti che ha mangiato e chi dice di odiarsi per il tempo passato chiusa in bagno a vomitare. C'è chi — pur sapendo di avere un atteggiamento autodistruttivo — chiede di essere lasciata stare, di non ricevere commenti con la «morale » e chi — con strategia quasi militare — parla della propria marcia forzata per perdere due taglie in un mese, anzi «meglio in meno».
Per limitare la raggiungibilità dei siti, spesso vengono utilizzate sigle particolari o codici speciali con cui gli utenti possono individuare questi siti. Oltre a Ana e Mia, si utilizzano appellativi metaforici come «amica», «dio», «santità», «dea». Entrando nei siti, poi, si trovano sezioni dedicate alle abitudini e alle pratiche per una perdita veloce di peso, con immagini di modelle, ginnaste, ballerine scarne e felici, magrissime e ricche. Messaggi subliminali, come se non bastasse la già deviata proiezione psichica della ragazza malata.
Il web è pieno di queste storie, del disagio di adolescenti che invece di trovare aiuto cadono nella rete che le sfida a peggiorare. E l'anoressia diventa un culto, una religione consacrata dai pro Ana. La Francia è il primo Paese che, a seguito della presentazione a Roma di uno studio sul fenomeno, è corsa ai ripari: blog vietati. In Italia, invece, continua a non esserci regolamentazione: i diari delle e per le anoressiche continuano a diffondersi e non vengono di fatto contrastati.
Si contano in 300.000 i siti pro anoressia sul web. Siti e blog consultati essenzialmente da giovani donne tra i 12 e i 28 anni. Lo sostiene l'università di Torino, che ha pubblicato su Eating and Weight Disorders i risultati di una ricerca sul rapporto fra disturbi alimentari e Internet. I ricercatori diretti da Secondo Fassino sono giunti a risultati allarmanti. Proprio con l'aiuto di Google e utilizzando parole chiave come: «anorexia nervosa (An) and treatment», «An and psychotherapy », «An and pharmacotherapy», «pro anorexia », «pro ana sites», «thinspiration» e «anorexicnation » si sono palesati circa 300.000 siti che inneggiano al raggiungimento della magrezza come «stato di grazia» e di perfezione assoluta. Di questi 257.000 contengono la parola chiave «pro anorexia», 18.600 «pro axa», 14.200 «thinspiration » (ispirazione alla magrezza) e 577 «anorexicnation », ovvero «nazione anoressica», uno dei neologismi che indicano la forte tendenza alla creazione di una «subcultura anoressica».

inviatospeciale.com 12.1.09
Sansonetti, la vittima di se stesso


Stamattina la Direzione del Prc dovrebbe nominare il nuovo direttore di Liberazione. C’è da sperare che dopo anni di declino il giornale torni alla realtà. E trovi le energie per sopravvivere.

Con il titolo “Lo abbiamo fatto strano” ieri Liberazione, il quotidiano di Rifondazione comunista, ha annunciato la fine dell’era Sansonetti.
Questa mattina la Direzione del Prc riterrà concluso il rapporto fiduciario col direttore e subito dopo Sergio Boccadutri, amministratore unico della Mcr Spa, la società editrice del giornale, nominerà il nuovo direttore, Dino Greco. Non essendo il nuovo arrivato giornalista gli sarà affiancato un direttore responsabile ancora da designare.
Nel suo editoriale dal titolo “Io ho paura…”, Sansonetti scrive: “Ieri pomeriggio, nella sede del giornale, abbiamo brindato, interrompendo per una mezz’ora il lavoro. Abbiamo bevuto champagne e mangiato pasticcini, scherzando e scambiandoci gli auguri. Perché? Perché siamo gente strana, e infatti - come dice il titolo - in questi anni abbiamo fatto un giornale strano. Quando siamo tristi, a noi viene voglia di scherzare, di godere un po’”.
La festicciola a champagne della redazione, si può star certi, avrà fatto arrabbiare non solo i difensori del prodotto nazionale, lo spumante, ma anche quei ‘diseredati’ del quale il quotidiano dovrebbe interessarsi e che di questi tempi non hanno molte occasioni per brindare e godere. Ma la domanda cruciale è: come si fà un giornale ’strano’?
Dalla vaga banalità della citazione da Verdone (lo famo strano) alla realtà. La mostra Claudio Grassi, dirigente del Prc, che ha elencato alcuni dati: “Partendo dal 2005 e arrivando fino ad oggi (visto che l’attuale direzione di Piero Sansonetti inizia nell’ottobre del 2004), le perdite sono queste: nel 2005, 1.756.000 euro; nel 2006, 1.991.000; nel 2007, 2030.000; nel 2008, 3.300.000, più 500.000 per aumentare il capitale sociale. Il partito ha quindi dato al giornale, nei quattro anni di direzione Sansonetti, 9.576.000 euro. Circa venti miliardi di vecchie lire. Per quanto riguarda le vendite il dato è altrettanto chiaro. Facendo riferimento allo stesso periodo, quindi allo stesso direttore, passiamo da 9638 copie (gennaio 2005) a 5380 (dicembre 2008) con un calo, sempre in quattro anni, di ben 4258 copie, pari al 44,18 per cento delle stesse”.
Il lettore deve sapere che le entrate per pubblicità e vendita di Liberazione sono esigue, per cui a quei nove milioni e mezzo di euro, che hanno consentito la vita al quotidiano, sono da aggiungersi i versamenti ottenuti per via dei finanziamenti all’editoria. A fronte di ricavi minimi.
Sempre nel suo ‘editoriale Sansonetti spiega cos’è la ’stranitudine”: “Mi hanno detto - i dirigenti di Rifondazione - che devo andarmene perché non rispetto la linea del partito. Anzi, mi hanno detto che la contrasto apertamente. Mi sono chiesto: ma qual è la linea del partito? Quando Liberazione l’ha contrastata? Quando si è battuta, più di ogni altro giornale, contro l’insicurezza e gli infortuni, e i morti sul lavoro? Quando ha gridato contro il patriarcato, contro il maschilismo, ha raccontato che in questa nostra società, da millenni, c’è una lotta tra i sessi? Quando si è trovata abbastanza sola nella battaglia senza quartiere al razzismo, per la difesa dei rom, degli stranieri, contro i quali il centrosinistra aveva emanato un decreto inaccettabile, e che ha aperto la strada alla Lega? Quando ha organizzato la grande manifestazione del 20 ottobre del 2007 (insieme al manifesto e a Carta) che teneva insieme diritti civili e sociali, metalmeccanici e gay, femministe e anticlericali, pensionati e studenti?”.
Se la crisi del partito che fu di Bertinotti è nota, quella di Liberazione è chiara. Quando il numero dei lettori si assottiglia di oltre il 40 per cento un professionista dovrebbe chiedersi dove sta sbagliando. Forse è stato quel voler ‘tenere’ insieme tutto che non ha fatto ‘prendere’ nulla. Nei salotti televisivi o in quelli pseudo-intellettuali è facile chiacchierare, ma quando si racconta la società è difficile scantonare. I cittadini si affezionano ad un giornale solo se si identificano, si rendono conto di ricevere informazioni serie, sentono di crescere. Altrimenti comprano altro o non comprano nulla, il caso più diffuso.
Negli ultimi anni Liberazione non ha mai lanciato un reportage, un’inchiesta, un lavoro di giornalismo investigativo che realmente abbia graffiato il corpo ruvido della disinformazone nazionale.
Negli ultimi tempi ha cavalcato Luxuria. Eppure poco l’Isola dei Famosi ha a che fare coi diritti civili degli omosessuali o dei transgender, perchè prima, durante e dopo il programma della Ventura le discriminazioni e le vessazioni alle quali sono sottoposte queste persone sono rimaste intatte. Solo per Vladimiro Guadagno qualcosa è cambiato e chi guarda la tv se n’è accorto, perchè lei è ovunque.
Al giornale lavorano oltre trenta giornalisti, più di trecento sono i collaboratori esterni. Un esercito con tutte e chances per realizzare un prodotto competitivo. Si è inventata una ‘free press’ che nell’ultimo anno ha mangiato risorse enormi e nessuno in Italia si è accorto del Liberazione free. Come mai? Mentre il sito Internet del quotidiano neppure funziona con tutti i browser, perchè gli ’strani’ giornalisti non si interessano alla modernità della Rete, alle enormi possibilità di espansione del bacino di utenti che consente, al risparmio possibile per i costi bassissimi dell’informazione digitale.
Allora quel’è il punto? Protagonista dello scontro interno a Rifondazione tra la linea di Ferrero e la minoranza di Vendola, Sansonetti si è presentato come vittima di un ‘processo stalinista’, lamentando la soppressione di una voce libera, la sua. La partita vera, invece, è la scissione che alcuni vogliono e come farla e quando. La tattica è stata ‘usare’ Liberazione, trasformare una crisi di piano editoriale in ‘caso politico’ e collegare al bailamme le conclusioni.
Oggi vedremo se la sostituzione del direttore produrrà lo strappo, l’uscita della minoranza dal partito o no. Comunque vada i prolemi son ben lontani dalla redazione del giornale par giusto almeno ricordarlo.
Per Sansonetti c’è un piano di osservazione differente e parallelo, perchè lui è solo il testimone del proprio fallimento. I giornali si valutano per numero di copie vendute, non per proclami libertari accompagnati da battaglie contro l’esclusione e pasticcini. Se il giornale fosse stato quel laboratorio avvenieristico ed autonomo di cui si parla come mai è stato anche un flop editoriale colossale?
Nel suo ultimo fondo, il direttore ’strano’ ha scritto: “Io però oggi ho paura. Rovescio il titolo del bel libro di Niccolò Ammanniti: ho paura. Paura perché non vedo più la sinistra. Mi pare senza anima, senza idee, senza cuore. Non vedo più né la vecchia sinistra riformista, né quella radicale, che avevo incontrato a Genova. Ho paura perché sento che più nessuno trova necessario il “culto della libertà”. Perché vedo una destra che dilaga, che si impossessa dello spirito pubblico, che conquista il popolo, e impone valori reazionari, che io non sopporto. Ho paura perché mi pare che all’orizzonte ci sia il buio, e che se non riusciamo a riprendere il filo dei nostri discorsi libertari e socialisti, vincerà Berlusconi, per dieci anni, per cento, per sempre”.
Ha ragione Sansonetti, il modello berlusconiano è fortissimo, si espande ovunque senza freni, la sinistra è immobile ed incapace di affermare non solo un progetto politico, ma una cultura in grado di battersi contro le perline colorate che i colonizzatori di Arcore distribuiscono a cittadini-indigeni storiditi.
Tuttavia, il ‘martire di oggi’ ha avuto anni per costruire e nulla ha edificato. Anzi, il nascondere il fallimento di una progetto di comunicazione dietro un presunto ostracismo della maggioranza politica che guida oggi il Prc è perfettamente in linea con la disinformatia tanto cara al Cavaliere.
Se Sansonetti avesse saputo raccontare la parte muta del Paese c’è da scommettere che nessuno avrebbe potuto mettere in discussione la sua strategia, perchè Liberazione avrebbe avuto dalla sua parte non dei redattori, Luxuria e qualche ‘illuminato’ frequentatore di circoletti paraintelletualei, ma i cittadini-lettori, migliaia e migliaia di atenti cittadini-lettori.
Però ci sono la moda del presente e lo sport del salotto trasversale: rappresentarsi, poco importa la verità.
L’opportunità adesso è tutta in Dino Greco, sindacalista e persona intelligente, perchè sappia ricondurre il quotidiano verso la società italiana, un mondo ormai nascosto dalla quasi totalità degli altri Media nazionali, e restituire la voce ai cittadini. Un giornale che non guardi al tinello radical-chic romano, ma si rivolga ad esseri umani veri, ad un popolo di sinistra e non solo che oggi non ha un ideale in cui sperare ed in compenso vede molte fazioni che si combattono tra loro per affermare improbabili verità.
Prima che un altro giornale chiuda. Per mancanza di lettori e denari. E prima di tutto idee.

dazebao.org 11.1.09
Prc e Liberazione: “alea iacta est”, la scissione in cammino
di Alessandro Cardulli


I “vendoliani” potrebbero lasciare la direzione. Un seminario a fine gennaio per ufficializzare l’uscita dal partito. Caprili: “lanciamo l’appello per continuare dentro Rifondazione la battaglia per gli obiettivi della mozione due”

ROMA - Si annuncia una giornata pesante, molto pesante, quella di lunedì per Rifondazione comunista. Forse, il condizionale è d’obbligo quando si parla di politica, si porrà fine al tormentato percorso che ha preso il via subito dopo il Congresso di Chianciano che ha registrato una profonda spaccatura dentro il partito.
Si poteva supporre che regolati conti fra le diverse aree, con la messa in minoranza dell’area che fa capo a Nichi Vendola e che aveva presentato la mozione due il dibattito, pur aspro potesse svolgersi, normalmente, dentro gli organismi dirigenti eletti dal congresso. In effetti così non è stato. Il congresso non è mai finito, lo scontro fra chi vuole rafforzare il partito, come un punto fondamentale per l’unità della sinistra, tutta da costruire e chi vuole “andare oltre” il Prc, ha assunto toni sempre più forti, violenti, da “separati in casa”. Un continuo tiramolla, “ me ne vado, non me ne vado”, “ me ne vado ora o fra qualche tempo” ha per protagonisti i “vendoliani” Ma il tempo sta per scadere. Lunedì mattina si riuniscono la composita area di maggioranza e quella che fa capo, fra gli altri, a Vendola, Giordano, Migliore per preparare la riunione della Direzione che si svolgerà alla sala Libertini nei locali di viale del Policlinico. Ufficialmente l’organismo dirigente è convocato per decidere il cambio della guardia alla direzione di Liberazione. Al posto di Sansonetti, ormai in rotta di collisione con il partito che è proprietario della testata, dovrebbe arrivare Dino Greco, un sindacalista della Cgil cui la segreteria del Prc aveva rivolto la proposta qualche giorno fa e che ha accettato. La sua nomina dovrà essere votata dalla direzione, insieme a quella di un direttore responsabile visto che Greco non è un giornalista e che non ha dimestichezza con l’organizzazione del lavoro redazionale in un quotidiano, per di più che fa capo a un partito.
La minoranza “vendoliana” si divide
I “vendoliani” hanno annunciato “ barricate”, simboliche s’intende, esprimendo l’intenzione di lasciare la direzione del partito. Praticamente un primo atto che preannuncia la scissione. Ma qui subentra il fatto nuovo: la minoranza vendoliana si divide. Un gruppo di dirigenti fra i quali membri della direzione, del Comitato politico nazionale, del collegio nazionale dei garanti, esponenti delle strutture territoriali, si sono riuniti ed hanno annunciato che non lasceranno il partito, continueranno la loro battaglia politica dentro il Prc, proprio per affermare le scelte della “mozione due” di cui si considerano ancora facenti parte. Si sono riuniti sabato, Liberazione li ha definiti, fra l’ironico e lo sprezzante, i “ sommergibili”. Ma, come ci dice l’ex vice presidente del Senato Milziade Caprili che a “Dazebao” aveva anticipato i contenuti della riunione, “non c’è niente di sommerso. La riunione si è svolta alla luce del sole, anche se Liberazione la cui vicenda ci preoccupa molto non ha scritto neppure una riga sull’esito del nostro incontro”. Caprili conferma che è stato discusso un documento, la stesura definiva verrà resa nota lunedì dopo la riunione della direzione. “ Per continuare il cammino di Rifondazione per la sinistra significa- prosegue Caprili- che noi non rinunciamo agli obiettivi che ci eravamo posti al congresso e che riguardano una sinistra unita e plurale. Non facciamo sconti a nessuno e giudichiamo l’attuale politica della maggioranza sbagliata e impraticabile e continueremo a stare all’opposizione. Sono molti i compagni e le compagne che la pensano come noi: ci hanno anche rimproverato perché non invitati alla riunione. Ma si è trattato di un primo incontro ora andremo avanti. Noi ci sentiamo ancora espressione della mozione due. Poi vedremo cosa accadrà”. L’ex vicepresidente del Senato ricorda che nel dibattito congressuale alle accuse della mozione che faceva capo a Paolo Ferrero rivolte ai “ vendoliani” accusati di preparare la scissione “ rispondemmo che non era vero, che la nostra battaglia era dentro il partito. Questo per noi vale ancora oggi. E poi- prosegue- cosa significa la Costituente con Sinistra democratica, un pezzo dei verdi e noi? Un processo tutto dall’alto, di ceto politico. Dopo il congresso non abbiamo costruito niente, noi che vogliamo una sinistra unita e plurale. Dal basso bisogna partire per dare nuova credibilità ai gruppi dirigenti. Un operazione centralista non porta da nessuna parte”.
Lo scenario post-direzione
Allora che accadrà, che potrà accadere lunedì? Lo scenario probabile: la direzione nomina il nuovo direttore di Liberazione, parte dell’area “vendoliana” se ne va, lascia l’organo dirigente, qualcuno,forse, direttamente anche il partito. La mozione due finisce così il suo percorso e si da appuntamento per un seminario previsto per il 24-25 gennaio a Chianciano. Come si dice, si torna sempre sul luogo del delitto. E non si tratterà di un innocuo seminario. Si riuniranno i membri del Comitato politico e gli eletti nelle amministrazioni. Decideranno di lasciare il partito a meno di improbabili ripensamenti, dei mea culpa a 360 gradi. “ Ci vorrebbe una assemblea dei delegati della mozione due che hanno preso parte al congresso-contesta Caprili – non può essere un seminario a decidere una scissione che noi contrasteremo”. Ma ci crede poco anche lui. Del resto quanto sta avvenendo nella formazione di alcune liste per le elezioni amministrative e regionali è un segnale inequivocabile. In Sardegna tre consiglieri che facevano parte di Rifondazione presenteranno una lista, “La Sinistra per la Sardegna”, con la copertura di Sinistra democratica. Un atto di rottura, un segnale chiaro che, dicono le voci di corridoio in genere bene informate, che è stato dato un “affidamento” a Sinistra democratica sulla partecipazione dei “vendoliani” alla Costituente che va “oltre” Rifondazione. Come dire , con una celebre frase, “alea iacta est” (il dado è tratto), pronunciata da Giulio Cesare mentre passava il Rubicone, una cinquantina di anni prima della nascita di Cristo. Ma le truppe potrebbero essere molto smilze ed i calcoli dei “vendoliani” sbagliati. Come avvenne al congresso.

domenica 11 gennaio 2009

Aprile on line 9.1.09
Perchè restare nel Prc
di Augusto Rocchi


Una parte della mozione Vendola ha elaborato un documento politico, che sarà presentato sabato, in cui chiede di non lasciare il partito, come indicato da Giordano nell'intervista a Repubblica. Il nuovo soggetto unitario infatti non può avere i tempi di un'unica lista elettorale nè può essere minato dalle urne

La sconfitta elettorale di aprile ha posto, a tutti noi, con evidenza, la profondissima crisi in cui versa la sinistra italiana. Sul perché, sulle cause profonde di questa crisi, si è ancora troppo poco discusso ed analizzato. Eppure dovrebbe essere il punto di partenza necessario, direi indispensabile, per costruire un nuovo inizio.
Fino ad ora a questo tema si sono date risposte del tutto insufficienti, parziali se non profondamente errate. Non convince l'analisi di chi assegna alla recente esperienza di governo la responsabilità del nostro fallimento, come se bastasse un salutare ritorno all'opposizione per ricostruire il consenso perduto, così come non convince la teoria che se non c'è l'orizzonte di governo come discrimine politico non si costruisce una sinistra credibile.
Certo l'esperienza del governo Prodi ha determinato una profonda disillusione nei settori popolari che speravano in un miglioramento della loro vita, così come non è certo una sinistra minoritaria ed un po' estremista che può essere ritenuta credibile ed efficace a tale scopo, si tratta perciò di ricostruire un progetto di trasformazione della società che sappia misurarsi con la realtà per quello che oggi è, e che sappia contrastare l'egemonia culturale populista della destra, per ciò alleanze e governo sono elementi che riguardano la tattica politica e non una sua ridefinizione strategica.
Un lavoro complesso di iniziativa politica e lotte da ricostruire a partire dall'opposizione al governo delle destre. Le novità più rilevanti intercorse da luglio ad oggi -una crisi economica gravissima che dimostra il fallimento delle politiche neoliberiste che hanno guidato la globalizzazione, l'imponente movimento della scuola contro la riforma Gelmini, le scelte della CGIL e la riuscita dello sciopero generale, gli stessi drammatici avvenimenti in Medio Oriente con l'ennesimo massacro di palestinesi che ci ripropongono il tema della pace e dei diritti dei popoli - ci chiedono di lavorare alla costruzione di nuovo soggetto politico unitario e plurale della sinistra.
Il generoso, ma fallimentare tentativo compiuto con la Sinistra Arcobaleno deve dirci con chiarezza che non si va da nessuna parte con scelte politiciste e centraliste che puntano più alla costruzione dell'"involucro" che al reinsediamento materiale e territoriale della sinistra che vogliamo costruire.
E con altrettanta chiarezza penso che non è certo con il produrre ulteriori divisioni che si possa costruire una più larga unità. Per questo presenteremo un documento che, riconfermando le scelte della mozione 2, afferma comunque la contrarietà ad ogni ipotesi di lasciare il partito adesso.
Ricostruire la sinistra, un soggetto unitario, è un obiettivo che non può che avere tempi medi di lavoro, non dunque quelli di una lista unitaria elettorale. Per l'appuntamento di giugno sarebbe invece opportuno lavorare ad un cartello unitario della sinistra. Il processo costituente non può essere infatti minato dal passaggio elettorale.
Tenendo sempre a mente il principale compito. Ovvero partire dai territori e dalla ricostruzione di una nuova rappresentatività sociale, esercitare sino in fondo la democrazia della partecipazione, non avere preclusioni aprioristiche verso la storia politica di ognuno, penso che quella comunista con la sua gloria ed i suoi fallimenti possa dare un contributo importante alla costruzione di questo progetto.
Questi sono secondo me i terreni di lavoro da praticare dentro e fuori le forze politiche in cui ognuno sta o non sta, o almeno questo è il processo costituente a cui penso si debba lavorare, con la faticosa tenacia unitaria di chi vuol costruire una Sinistra capace di essere portatrice di un autonomo progetto di trasformazione della società.
*Rifondazione per la Sinistra


Liberazione 11.1.09
Rifondazione, nessuno usi la storia come una clava
risponde Paolo Ferrero


Caro Paolo, ho letto un articolo sul "Riformista" che sosteneva che la Rifondazione Comunista di questi anni non esiste più. Tu che hai proposto al Congresso un cambio di linea, che ne pensi? Sei d'accordo?
Claudio via mail


Caro Claudio, da una decina di giorni è cominciata una nuova campagna stampa: riguarda il fatto che la Rifondazione Comunista di oggi non avrebbe nulla a che fare con la storia di questi anni, sarebbe una "Rifondazione irriconoscibile da quello che abbiamo costruito insieme in questi anni". Io penso che questa campagna, che fa leva in particolare sulla scelta di cambiare il direttore di "Liberazione" - come dimostra il giornale di oggi - sia finalizzata a legittimare la scissione che alcuni compagni e compagne stanno preparando. In fondo la logica è semplice: Rifondazione non è più quella di una volta per cui si può, anzi si deve andare via, in nome di una coerenza con Rifondazione stessa. In qualche modo ci troviamo di fronte ad un classico: ogni scissione nella storia del movimento operaio è stata giustificata in nome dell'ortodossia; in altri anni si faceva in nome di Marx e della rivoluzione, oggi...
Il fatto che io pensi che vi è un intento del tutto strumentale e politico dietro a questa campagna mediatica sullo stravolgimento di Rifondazione Comunista, nulla toglie al fatto che questa tesi deve essere affrontata e discussa con attenzione. Proverò a farlo qui di seguito con tre riflessioni.
In primo luogo non è la prima volta che Rifondazione Comunista viene accusata di tradire se stessa. Ad esempio dopo la rottura con il primo governo Prodi venimmo inondati di insulti e ci venne imputato di essere usciti dalla tradizione del comunismo italiano. Si disse che Rifondazione era diventata un partitino estremista e gruppettaro. Ci fu una polemica feroce sul fatto che la votazione che decise l'uscita dal governo avvenne rompendo la maggioranza congressuale e con il voto determinante del compianto Livio Maitan, che aveva con qualche altro compagno il torto storico di essere troskista. Venimmo accusati di fare un accrocco tra stalinisti, troskisti e gruppettari guidati dal "parolaio rosso". Fausto Bertinotti venne insultato in modi irripetibili - ricordo una tragica Perugia Assisi -, attaccato e bistrattato, descritto nei modi peggiori sia sul piano politico che personale. La mia stima per Bertinotti crebbe di molto in quel passaggio in cui lui sopportò tonnellate di insulti in nome di una prospettiva politica difficile.
Io da questo trarrei una prima considerazione: quando Rifondazione svolta a sinistra, rompendo gli elementi di comunanza di ceto politico e ripropone il tema della trasformazione sociale come elemento fondante il proprio agire e non solo i propri discorsi, il tentativo di distruggerla scatta immediatamente. Non attraverso la repressione ma attraverso la denigrazione: tanto più feroce quanto è alto il grado di vicinanza politica del denigratore.
In secondo luogo è bene chiedersi se la storia del Prc possa essere utilizzata come un tutt'uno da cui oggi staremo fuoriuscendo. Io penso che la storia di Rifondazione sia una storia assai varia a articolata, con cambiamenti, rotture, svolte a 180 gradi. Il Prc ha avuto - se ho contato bene - almeno 5 scissioni. Da destra sulla vicenda del governo Dini, poi sulla vicenda del governo Prodi; da sinistra, quella di Bacciardi e poi ancora con il secondo governo Prodi, Ferrando e - dopo l'espulsione di Turigliatto - i compagni di sinistra critica. Senza arrivare alle scissioni, abbiamo avuto la Rifondazione Comunista "cuore dell'opposizione" guidata dal compagno Garavini, fatto fuori da segretario in drammatici Cpn. L'elezione di Bertinotti nel Congresso successivo con la proposta di unità del fronte progressista. Poi abbiamo visto la rottura di quella maggioranza congressuale sulla vicenda del governo Dini e l'ingresso in maggioranza di una parte delle minoranze congressuali. In seguito abbiamo avuto l'alleanza con Prodi nel 1996, poi la rottura, con la scissione di Cossutta, poi la teorizzazione delle due sinistre, la partecipazione al movimento di Genova con la teorizzazione che lo sbocco politico del movimento era il movimento stesso, salvo poi decidere di costruire l'Unione partecipando a pieno al secondo governo Prodi; da ultimo la Rifondazione Comunista che partecipa alla Sinistra Arcobaleno con Bertinotti che - pochi giorni prima delle elezioni - ci dice dover diventare il primo passo di un nuovo partito politico. Potrei continuare ma è chiaro che dipingere come un fenomeno unitario la storia di un partito che ha avuto queste traversie è una completa mistificazione. La storia di Rifondazione è una storia travagliata con grandi crisi, rotture, discussioni, in cui le stesse persone - a partire dal sottoscritto - hanno giocato ruoli diversi nelle diverse fasi. Nella Rifondazione che abbiamo costruito insieme in questi anni vi è quella che vota con Maitan l'uscita dalla maggioranza di Prodi, vi è quella che espelle Turigliatto per stare dentro la maggioranza di Prodi. Vi è quella che partecipa alle giornate di Genova e ai Social Forum e quella che al Congresso di Venezia blinda la maggioranza e indica alla minoranza la porta. Storia travagliata con un punto che - nel bene e nel male - mi pare abbia caratterizzato tutta la storia del Prc: sostanzialmente ha sempre prevalso la democrazia rispetto ad una gestione oligarchica che prevale in altri partiti. Nel bene e nel male è stato così all'inizio, con la defenestrazione di Garavini che ha aperto la strada alla segreteria di Bertinotti; è stato così quando è stato messo in minoranza Cossutta, è stato così nel Congresso di Chianciano. La vera essenza della Rifondazione Comunista, il filo rosso della nostra storia che oggi si vuole mettere in discussione è proprio questo: la possibilità per gli iscritti e le iscritte di decidere liberamente del destino della propria organizzazione politica, della propria comunità. Anche , ci si permetta, del direttore di "Liberazione". Il fatto che tutti noi abbiamo attraversato questa storia e queste contraddizioni, a volte in maggioranza a volte in minoranza, non autorizza nessuno a rivendicare una Rifondazione Comunista autentica da brandire contro qualcun altro come una clava. La pubblicazione della Storia del P.C.(b) dell'Urss da parte di Stalin aveva lo scopo di legittimare le sue aberranti pratiche politiche e il suo gruppo dirigente. Mi parrebbe opportuno evitare una operazione simile in cui la storia di Rifondazione viene riscritta ad uso e consumo di delegittimazione di un gruppo dirigente e di legittimazione di un altro.
Il punto su cui ragionare senza infingimenti - e questa è la mia terza considerazione - è una relazione critica con la nostra storia, quella vera, con i suoi travagli, le sue contraddizioni. Sinteticamente la mia idea è che occorre riprendere il filo della Rifondazione della rottura con Prodi, delle due sinistre e di Genova e occorre buttare la Rifondazione del Congresso di Venezia e delle segreterie di maggioranza. Per questo ripropongo anche oggi la gestione unitaria del partito. Il partito è di tutti, maggioranza e minoranza, lo si gestisca insieme, invece di produrci unicamente in delegittimazioni reciproche.


Liberazione Queer 11.1.09 p 2
Grazie a chi ci ha scritto, a chi ci ha letto, a chi ci ha criticato, a chi ci ha amato.
Oggi ci suicidiamo per protesta. Perché finisce una storia. Una bella storia
Queer. we have a dream
di Angela Azzaro, Carla Colli


Le storie, anche quelle più intellettuali, bisogna raccontarle con nomi e cognomi. Solo così si capiscono bene. E la storia di "Queer" inizia quattro anni fa, quando Piero Sansonetti decise che anche "Liberazione" doveva avere un suo inserto culturale.
La scelta del nome non fu indolore. Al momento del dunque in molti tentarono di opporre resistenza. Di dire no: è troppo settario. Un discorso che conosciamo bene. Se si usa un vocabolo del linguaggio dominante, diventa immediatamente «universale», per tutti. Se invece si fa riferimento a un'altra cultura, detta di nicchia solo per discriminarla e non perché lo sia davvero, si diventa immediatamente parziali, incapaci di parlare all'universo mondo. Wu Ming1, che all'inizio doveva collaborare con l'inserto domenicale, scrisse una mail abbastanza stizzita: «Ma voi chiamereste mai un inserto inglese "frocio"?». Noi rispondemmo di sì, e andammo avanti, perdendo i Wu Ming ma acquistando tanti, tantissimi compagni e compagne di strada.
Ma che cavolo vuol dire "queer"? E quale è stata la sua sfida? Se si cerca sul dizionario si trovano diversi significati: viene fuori effettivamente la parola «frocio», ma anche «bizzarro», «strano», «insolito». Queer è una filosofia, fa riferimento al movimento femminista e glbtq che mette al centro i soggetti. La principale teorizzatrice è la filosofa statunitense Judith Butler e oggi i queer studies si stanno affermando anche nei collage americani, spesso prendendo il posto dei gender studies. Un successo dovuto alla carica rivoluzionaria che questa piccola parola sa evocare: queer è la messa in discussione delle identità. E' un discorso antiessenzialista che conserva la carica politica di chi si posiziona fuori dal discorso dominante: quello eterosessuale. Queer rompe gli argini, le dicotomie (anche quella omo-etero) chiede l'attraversamento come tattica per destabilizzare il potere.
La finiamo qua, anche se il discorso è molto lungo. Ci siamo dilungate solo un po' per farvi capire quanto grande fosse l'impegno e quanto torto abbiano coloro che lo hanno bollato come effimero, stupido, vergognoso. Certo, spesso la carica è stata ironica, divertita, ma facciamo un giornale non un bollettino né manifesti funebri. Almeno finora, almeno finché abbiamo potuto.
Queer dalla teoria alla pratica. Una speranza. Un sogno. Un'idea che, a un certo punto, è stata condivisa anche da Rifondazione comunista (almeno a parole). Rinnovare la sinistra, rileggere criticamente la propria storia, per rilanciare ancora più forte il discorso sulla libertà e sull'uguaglianza. Per farlo abbiamo messo al centro soggetti e culture critiche spesso in conflitto con la storia del comunismo. Abbiamo scommesso sull'ibridazione, sull'attraversamento, sul ribaltamento. Il motto femminista degli anni Settanta, «il personale è politico», lo abbiamo calato nella realtà, nei fatti. Così è stato per una delle pagine che più ha fatto incazzare: «La rivoluzione proletaria passa anche attraverso il buco del culo». Cosa volevamo dire? Per la sinistra gay, lesbiche, trans sono un optional. Sono cioè categorie a cui rivolgersi per chiedere il voto o, al massimo della concessione, a cui garantire diritti. Dire che la rivoluzione passa attraverso il buco del culo vuol dire smascherare, da una parte, l'omofobia che alberga anche (soprattutto?) a sinistra e dire che non basta aggiungere alla lista della spesa lesbiche, trans e gay, ma che bisogna riscrivere le proprie categorie, i propri paradigmi e che oggi la sinistra non può che ripartire da qui.
Non siamo pazze. Siamo femministe. Parte da qui il nostro dialogo con lettrici e lettori, da un pensiero che ha criticato, prima di tutto, la scissione tra mente e corpo, tra teoria e pratica, tra il dire e il fare. Il femminismo non come copertura («ciao compagne e compagni» e poi via alle modalità maschiliste e staliniste) ma come critica radicale a ciò che è stato. Compreso il comunismo. Soprattutto il comunismo.
E' stato un lavoro di ricerca che dalla prima parte monografica ha contagiato anche critica letteraria teatro cinema musica nuovi linguaggi. Guardare le cose in modo queer significa non guardarle in modo convenzionale, come fanno tutti, per compiacere. Ha anche voluto dire raccontare quello che gli altri mezzi di informazione cancellano. Dargli spazio, voce, visibilità.
Tutto questo lavoro di ricerca non sarebbe stato possibile senza i tanti collaboratori che con noi hanno condiviso idee, passioni, immaginario, linguaggi. Impossibile citare tutte e tutti - faremo un nome solo, quello di Monia Cappuccini, la compagna di redazione precaria senza la quale Queer non sarebbe mai decollato - doveroso ringraziare tutte e tutti per il lavoro fatto, per la cura, per l'amore con cui hanno scritto i loro articoli o hanno proposto temi, appuntamenti. Per la passione con cui hanno contrastato in questi anni la deriva sicuritaria, punitiva, giustizialista, qualunquista. Non ci siamo fatte e fatti mancare nulla. La libertà come bussola, il conflitto a trecentosessanta gradi come orizzonte. Ma grazie soprattutto a Sansonetti che non hai mai detto: no. Non ha mai detto: questo è troppo provocatorio, questo non va bene. Ci ha dato carta bianca, perché con noi ha condiviso questa esperienza. Ci ha creduto, ci crede. Crede, come noi, nella possibilità di cambiare il mondo con quello che abbiamo. Le idee, le passioni, le relazioni. Lo spirito critico che non può essere solo una frase, morta, da attribuire a qualche vecchio filosofo per poi dimenticarsela subito dopo. Ha creduto che il femminismo non fosse solo un etichetta da appiccircarsi per farsi bello (quanti altri uomini lo hanno fatto?) ma davvero un'occasione per rilanciare una politica quasi morta, una sinistra senza futuro.
Oggi questa storia finisce. Queer si suicida. Non può tollerare né il metodo, né il merito della cacciata di Sansonetti e con lui la cancellazione di un'esperienza giornalistica. Queer è per la libertà, per l'attraversamento, contro la critica della forma partito che si è affermata nel Novecento (ma non era questo un punto condiviso anche dall'attuale segretario del Prc, Paolo Ferrero?). Con la destituzione di Sansonetti, la fine dell'apertura e dell'innovazione, spiriamo l'ultimo respiro. Per protesta, per rabbia. Ma anche per speranza...

Liberazione Queer 11.1.09 p 3
7 maggio 2006. L'intellettuale femminista rilegge il padre della psicoanalisi.
Subito diopo l'uscita del numero interamente dedicato ai 150 anni dalla nascita, Luca Bonaccorsi - attuale acquirente di "Liberazione" - chiese di destituire la curatrice dell'inserto angela azzaro
Freud, come Marx, le due grandi utopie del 900
Davvero, Rifondazione, lo vuoi scaricare?
di Lea Melandri


«Dal fondo del torpore, quasi dal sonno, un pensiero solitario. Dopo lo squarcio iniziale, la psicanalisi ha finito per basarsi sul presupposto di una necessità…l'idea di un uomo che sempre deve difendersi, sin dalla nascita, da un pericolo interno.
Bardato. Corazzato. Dalla foresta appuntita delle difese non si esce. Ma invece accoglimento, accettazione, fiducia intrepida verso ciò che si profila all'orizzonte. Nausicaa, Ulisse. Le regge di Creta aperte verso il mare, senza difese… Anche per la scoperta freudiana fu così? Un'accettazione di qualcosa che veniva, in certo senso, dall'esterno, dopo un estenuante brancolare? Bisognerebbe rileggere le origini della psicanalisi da questo punto… Il sogno osa generalmente di più di quanto si permetta il sognatore da sveglio. Di qui l'idea di Freud di trasferire questo oltrepassamento alla coscienza vigile nella cura dei nevrotici. Il sogno testimonia di ciò che vuoi essere - ciò che puoi essere, allora» (Elvio Fachinelli, La mente estatica, Adelphi 1989).
Forse l'invenzione, scientifica o non scientifica, procede sempre con un movimento analogo, che è allentamento di difese, abbandono al fantasticare, defluire di frammenti, sprazzi di idee, da cui emerge un messaggio inatteso, un pensiero più organizzato e coerente. Ma non possono non colpire le risonanze profonde tra un geniale interprete di Freud, quale è stato Elvio Fachinelli nel momento in cui si accingeva, avendo se stesso "come unica bussola", a esplorare quell'"area di frontiera" che è per ogni essere umano l'originaria indistinzione con la madre, e il singolare "conquistador" che nell'ultimo decennio dell'800 cominciava a inoltrarsi, "primo tra i mortali", in regioni inesplorate della vita psichica. A Wilhelm Fliess, l'"amico segreto" con cui intrattiene uno scambio intenso, intellettuale e, pur nella castità, dichiaratamente amoroso, nel periodo più originale della sua scoperta - gli studi sull'isteria, l'autoanalisi, l'interpretazione dei sogni - Freud scrive: «Posso guarire solo lavorando con l'inconscio: con sforzi esclusivamente coscienti non posso farcela…uno strano stato mentale che la coscienza non riesce ad afferrare; pensieri crepuscolari, la mente offuscata, appena un raggio di luce qua e là».
«In una giornata come e come oggi tutto tace dentro di me e io mi sento terribilmente solo… bello attendere che qualcosa cominci a muoversi dentro di me e che io riesca ad accorgermene. Perciò spesso sogno per giorni interi».
«Mi sono aiutato col rinunciare a qualsiasi sforzo mentale cosciente, in modo da affrontare i problemi a tentoni. Da allora ho lavorato forse meglio di prima, ma quasi non so quel che sto effettivamente facendo».
«Io non sono né uno scienziato né un osservatore né uno sperimentatore né un pensatore. Non sono altro che un conquistador per temperamento - un avventuriero, se volete tradurre il termine - con la curiosità, la baldanza e la tenacia propria di quel genere di individui».
Nel momento in cui rinunciano a tradurre "in modo razionale e scientifico" il misterioso mondo della psiche, per cimentarsi nell'"eroica impresa" di esplorare il proprio inconscio, fin nelle regioni estreme verso cui li spinge "la passione per il preistorico", sia Freud che Fachinelli operano, sia pure in contesti storici diversi, un rovesciamento di prospettiva. Ne sono investiti e trasformati in eguale misura: l'io onnipotente della ragione tecnica e burocratica, la coscienza certa di non avere alle spalle che il deserto del senso, la cultura occidentale avviata al dominio del mondo, e la figura di una maschilità distorta dall'abitudine millenaria all'offesa e alla difesa. Indagatori entrambi della felicità, a partire dalle sue misteriose radici nell'infanzia, curiosi dell'origine e della natura degli umani, disposti a imbarcare la ragione "nel mare procelloso del mondo emotivo", non potevano non approdare a verità ambigue, contraddittorie, sfuggenti a interpretazioni lineari e sistematiche, reperti di un passato mai del tutto estinto e, nel medesimo tempo, segnali di insospettate potenzialità antropologiche.
La scoperta dell'inconscio, e dei modi per aprirgli uno spiraglio dentro i territori della coscienza, era destinata a produrre un radicale ripensamento di quell'"enigma del dualismo" che, quasi negli stessi anni, Otto Weininger si affrettava a riportare sulle solide fondamenta della cultura occidentale, greca e cristiana. Freud si muove ancora dentro la cornice di opposizioni complementari - biologia e psicologia, vita e anima, corpo e mente, realtà e sogno - e cerca per tutti gli anni del suo maggiore sforzo esplorativo della vita psichica l'armonioso completamento di parti maschili e femminili di sé - e quindi della "fecondità" creativa - nella "gioia smisurata" che gli danno gli incontri con Fliess. «Mi era necessario amarti per poter arricchire la mia vita. Nessuno può sostituire i rapporti con un amico che un lato particolare di me stesso - forse femminile - richiede». Fliess è, rispetto a Freud, colui che sa, che dà, che può appagare la fame e la sete di chi vive nell'attesa di riempire un vuoto, di ricevere incoraggiamento, consolazione, consigli.
Ma, al di là dell'aspetto più evidente del loro rapporto - in cui si mescolano le figure complementari di una sedotta e di femminili e maschili scambievoli - si profila oscuramente una situazione più complessa, destinata a gettare una luce nuova sul rapporto tra i sessi e sul legame profondo che ha tenuto insieme per millenni una comunità storica di soli uomini.
Lo svelamento non poteva che avvenire attraverso lo sguardo dell'esploratore che, con uguale ardimento, a distanza di un secolo, si addentra nello stesso paesaggio e mostra quello che l'altro non poteva ancora vedere. Nella rilettura del rapporto tra Freud e Fliess, Fachinelli scrive: «L'attesa sembra rivolta a una figura resuscitata: quella della prima madre, el sesso (il riferimento è alla vecchia bambinaia che, scoperta a rubare, sarà cacciata dal fratellastro Phillip). L'incontro con Fliess l'ha fatta tornare e Fliess dovrebbe saziare una fame non saziata, colmare un vuoto che si creò allora bruscamente… Siamo qui nell'ambito di un rapporto di compenetrazione con una particolare figura materna… Vi è un sovrappiù, un acme di godimento, qualcosa che si collega a un "desiderio preistorico", l'unico che generi felicità secondo Freud».
Ma è proprio questa "gioia smisurata" a far sorgere l'immagine dell'assorbimento nell'oceano materno, a costituirsi come minaccia per la propria identità. Dietro il sogno realizzato della fusione col primo oggetto d'amore, si profila l'ombra della pulsione di morte, cessazione di ogni tensione, cioè della vita stessa. «Come segno di compromesso - scrive sempre Fachinelli - tra tendenze all'unità e tendenze all'individuazione, affiora la figura del doppio, del gemello, dell'alter. Basta qui una sola citazione: "Non posso fare a meno di un altro, l'unico altro, l'alter, sei tu"».
Il femminile conosciuto dall'uomo nella "beatitudine", sia pure solo sognata, di un'originaria indistinzione, è ciò da cui si fugge ma è anche nel cuore dell'amore e odio per la persona dello stesso sesso. A distanza di un secolo, nel punto più alto dello sviluppo tecnologico e industriale, la preistoria parla con la stessa lingua, ma il paesaggio e i suoi protagonisti appaiono dislocati, i contorni meno nitidi, i fantasmi più vicini alla coscienza che li ha prodotti. Il mutamento più significativo riguarda la figura del padre, che già nell'autoanalisi Freud era venuto decantando.
Dopo aver ipotizzato una seduzione da parte dell'adulto di sesso maschile nella genesi delle nevrosi, Freud si accorge di aver piegato la teoria alle sue fantasie, e da quel momento affiorano altri rapporti con fratelli, nipoti, soprattutto con due figure materne, la madre reale e la vecchia bambinaia, e il fratellastro Phillip, collocato nei sogni al posto del padre. A muoversi dentro un'imbrogliata vicenda famigliare è il Freud-figlio, prossimo a quella che considera l'unica felicità possibile e, nel medesimo tempo, la "terra promessa" in cui non potrà entrare. Il "complesso di Edipo" si può pensare allora che intervenga, come osserva Fachinelli, come "ideale regolatore", destinato a fare un po' d'ordine nella grande confusione, a ridare una certa importanza e centralità alla figura di Jacob, il padre di Freud morto nel 1896, poco prima che Freud cominciasse la sua autoanalisi.
Nella zona più remota e inesplorata della preistoria degli umani non poteva che esserci il corpo femminile da cui si nasce, la memoria di un'appartenenza intima che entrambi i sessi hanno conosciuto, i segni di un desiderio sessuale che li accomuna, indipendentemente dal diverso destino che la storia ha loro assegnato. Se prima dell'autoanalisi, negli Studi sull'isteria, Freud aveva creduto di trovare l'origine della malattia nell'incompatibilità tra pulsioni sessuali e "purezza morale" delle donne prese in cura, nel Caso Dorariconosce, sia pure alcuni anni dopo che la giovane paziente aveva interrotto l'analisi, il suo "errore tecnico": non aver detto in tempo alla malata «che il suo impulso erotico omosessuale con la signora K. era la più forte delle sue correnti psichiche inconsce». Se la madre è per entrambi il primo oggetto d'amore, come giunge la bambina a rinunziarvi e ad assumere invece il padre come oggetto? Questa "svolta" verso l'uomo, «necessaria al mantenimento del matrimonio in una società civile », concludeva Freud, potrebbe per molte donne non avvenire mai. L'affermazione "l'anatomia è il destino", con cui sembra voler dare un fondamento biologico alla differenza tra i sessi, può essere letta allora, non diversamente dal "complesso edipico", come l'extrema ratio di un osservatore che ha visto cadere ad una ad una ragioni preconcette, l'ultimo appiglio a quella visione del mondo che il suo nuovo sapere stava mettendo alle corde.
Negli anni '70, sia il movimento antiautoritario, che scopriva la necessità della politica di "andare alle radici dell'umano", l'influenza decisiva delle esperienze infantili sui sistemi sociali, sia il femminismo che riportava l'attenzione sul corpo e sulla sessualità cancellata delle donne, hanno riservato a Freud la stessa critica repressiva, patriarcale e autoritaria, proprio nel momento in cui appariva chiaro il declino della figura paterna, l'emergere, dietro al consumismo di massa, di un fantasma materno saziante e divorante. Strano, ingiustificato destino per l'intrepido "avventuriero" che, con angoscia, vergogna, tentennamenti, aveva osato penetrare il "rimosso" innominabile della storia dei padri, sfidare i rigidi codici del rigore scientifico, affinché la sua grande scoperta, la "cura delle parole", lasciasse parlare l'umano in tutta la sua complessità.
«Le storie cliniche che scrivo si l'impronta rigorosa della scientificità… una rappresentazione particolareggiata dei processi psichici, quale in genere ci è data dagli scrittori…Mi servo di una serie di similitudini, mi prendo la libertà di fare uso di paragoni… mi guida l'intenzione di rendere intuibile una situazione mentale estremamente complessa e mai sinora descritta» (Breuer, Freud, Studi sull'isteria ).
Mai il pensiero e la vita, la parola e il corpo sono parsi vicini e indisgiungibili come nella lettura che Freud fa dei sintomi isterici: un archivio di simboli, idee, esperienze allontanate dalla coscienza, perché troppo dolorose, torna a partecipare al discorso, a raccontare attraverso segnali corporei le storie di sofferenze sepolte, mai registrate. Il "demone" che ora irrigidisce ora agita oltre misura i corpi delle isteriche, se va talvolta a collocarsi sotto il segno di un male da estirpare - "cavità purulenta", "camino da spazzare" - nella maggior parte dei casi viene accolto, attraverso le fessure che gli apre la coscienza, come irruzione di energie intellettuali e psichiche sorprendenti, messaggere di individualità femminili a venire, di cui Freud sembra avere un'oscura ma inequivocabile percezione.
La scoperta della sessualità infantile e dell'influenza che ha la preistoria degli umani sulle sedimentazioni inconsce della vita psichica, non poteva che affiorare all'animo inquieto di un uomo- figlio; l'analisi in chiave psicologica dell'isteria, l'attenzione straordinaria, partecipe e lungimirante con cui Freud si addentra nelle inedite storie delle sue pazienti, sarebbe inspiegabile senza quel movimento parallelo che piega lo sguardo su di sé, su quella "parte femminile" che l'uomo tiene celata dentro la corazza della virilità, e su cui ha continuato a costruire fisionomie immaginarie dell'altro sesso. Se è l'uomo di scienza, il medico, l'appassionato esploratore della mente umana, che vede nella sessualità - identificata con la donna, la famiglia - una "stirpe" che la civiltà ha asservito alle sue "sublimazioni", non c'è dubbio che è la tenerezza filiale a voler vedere come "esente da ambivalenze" il rapporto madre-figlio, a fare dell'unità a due dell'origine il modello di ogni felicità, a leggere nelle carezze di una madre "antiche aspirazioni sessuali" inibite o scoraggiate dalla violenza maschile. L'idealizzazione dell'Eros nella sua forma primordiale, dove ancora si confondono l'Io e il suo oggetto d'amore, impedisce a Freud di accorgersi quanto abbia a che vedere con il "rifiuto della femminilità" la pulsione di morte che si accompagna all'abbraccio-inglobamento materno; è quella che lo induce a ritenere "naturale" il riserbo, la purezza morale, la dedizione della donna a padri, mariti, figli, la cura dei malati, a scapito della propria persona.
Ma è per la stessa ragione che, paradossalmente, Freud arriva a intuire che non è genericamente la sessualità repressa, tenuta a bada dalle convinzioni morali, a provocare la malattia, bensì la sessualità violenta, che decide deldel destino della donna. La "non comune intelligenza", l'"acuto spirito critico", il talento, l'ambizione, lo spirito di indipendenza, la combattività, che nota nelle sue pazienti, non incontrano solo l'ostacolo di pulsioni sessuali incanalate in disturbi corporei, ma urtano in modo più diretto e consapevole con una sorte decisa da altri, che toglie loro i piaceri più elementari, che fa del dovere, della moralità, del sacrificio, l'unica via praticabile per avere riconoscimento e autostima. Contrastano, soprattutto, con la solitudine e il bisogno d'amore a cui sembra condannata la donna che non si piega alla sottomissione, alla violenza sessuale e psicologica a cui la costringe quasi sempre il matrimonio: «Effettivamente essa era molto scontenta del suo stato di ragazza, era piena di progetti ambiziosi, voleva studiare o perfezionarsi nella musica, si ribellava al pensiero di dover sacrificare in un matrimonio le sue inclinazioni e la sua libertà di giudizio».
«…il senso di non poter mai, come ragazza sola, godere qualcosa della vita o fare qualcosa nella vita. Fino ad allora essa si era creduta forte abbastanza per poter fare a meno dell'aiuto di un uomo, adesso si impossessava di lei il sentimento della sua debolezza femminile, una nostalgia di amore sulla quale la rigidezza del suo carattere cominciava a sciogliersi».
«La tendenza a respingere ciò che è sessuale viene ulteriormente rafforzata dal fatto che l'eccitamento sessuale nella vergine ha una componente di angoscia, il timore dell'ignoto, del presagito, di quel che verrà, mentre nel giovane maschio sano e naturale è una pulsione nettamente aggressiva. La fanciulla presagisce nell'Eros la terribile potenza che ne domina e decide il destino ed è angosciata da essa… Il matrimonio porta traumi sessuali…la prima notte… tanto spesso non è una seduzione erotica, bensì uno stupro… non credo di esagerare affermando che la grande maggioranza delle nevrosi gravi nelle donne proviene dal letto matrimoniale».
Sulla strada del suo avventuroso viaggio nel mondo ignoto della vita psichica, Freud non poteva non incontrare prima di tutto il sesso che la storia ha identificato con le sue origini - corpo, animalità, sessualità, infanzia - e cioè la donna, ma non avrebbe potuto leggere così a fondo nelle vicende e passioni contraddittorie dell'esistenza femminile se non avesse scoperto quasi contemporaneamente in se stesso il protagonismo del corpo, dell'infanzia, dell'immaginario sessuale, di un "preistorico", esclusivo, e perciò tirannico, modello di felicità.

Liberazione Queer 11.1.09 p 4
30 dicembre 2006 / Foucault è stato un compagno di strada che ci ha aiutato a raccontare i movimenti, i nuovi soggetti del conflittoe a condannare, senza se e senza ma, tutte le poilitiche sicuritarie. Di destra e di sinistra
Foucault: per qualcuno (Fagioli) è un «pederasta»
Per noi è un grande che va letto e riletto
di Judith Revel


"La volontà di sapere" è un libro strano. E' l'ultimo volume firmato da Foucault negli anni Settanta ma è anche il primo tomo di una "Storia della sessualità" che ne conterà finalmente altri tre (di cui uno tutt'ora inedito).
La volontà di sapere ha spesso colpito per la rottura che introduceva rispetto alle problematizzazioni precedenti e ad una linea - quella dell'«archeologia» - a partire dalla quale Foucault aveva costruito la sua ricerca fin dai primi lavori. Tuttavia, non è solo un libro che segna uno spostamento nell'indagine, è anche un testo programmatico che sceglie di annunciare le tappe del lavoro a venire. Ed è forse quest'aspetto che rende il suo statuto difficilmente comprensibile - perché paradossalmente tale programma non sarà mai compiuto; perché ci vorranno altri otto anni per vedere in Francia la pubblicazione dei due volumi successivi, L'uso dei piaceri e La cura di sé ; perché il libro del ‘76 verrà in realtà condannato a rimanere in bilico, isolato, tra quello che aveva scelto di lasciarsi alle spalle e un progetto di ricerca che, seppur annunciato con grande forza, sarà quasi immediatamente abbandonato e ridefinito.
Questa strana situazione spiega in parte perché capita spesso, ancora oggi, di sentir parlare di La volontà di sapere come se gli otto anni successivi di silenzio editoriale (bilanciati, tuttavia, da un'enorme produzione di testi brevi, d'interventi, di lezioni e di conferenze) non fossero mai esistiti; e, al contrario, perché succede anche di dover leggere commenti del Foucault degli anni '80 come se si trattasse di quello degli anni '60: come se niente fosse accaduto. Nei due casi, si aggira la difficoltà che rappresenta La volontà di sapere e si afferma, nonostante tutto, l'assoluta continuità e linearità del percorso foucaultiano. Eppure l'artificialità di tale lettura «continuista» è palese. Non solo perché, applicata ad un pensatore che non cessò mai di concettualizzare la discontinuità e la discronia come figure essenziali del proprio rapporto con la storia e con la pratica del pensiero, la mossa sembra a dir poco azzardata, ma anche e soprattutto perché le discontinuità, in Foucault, non interrompono: piuttosto reinvestono, riformulano, rilanciano le poste in gioco del lavoro precedentemente svolto alla luce di un'altra problematizzazione. Più semplicemente ancora: spostano il baricentro dell'indagine ed è l'indagine stessa che ne viene profondamente mutata.
E' uno spostamento di questo tipo che sottende la scrittura de La volontà di sapere, così come sarà un secondo spostamento a spiegare almeno in parte l'abbandono del programma di ricerca annunciato nel libro e alla fine mai svolto. Il primo spostamento consiste nel mettere al centro dell'inchiesta non più le forme assunte dai dispositivi di potere/sapere - così com'era in realtà il caso fin dalla Storia della follia e fino a Sorvegliare e punire - ma le soggettività.
In Foucault, prima del '76, il problema della produzione storica delle soggettività apparteneva a due registri essenziali. Da una parte, lo studio del modo in cui si costituiscono un certo numero di saperi sul soggetto - visibile nella ricerca che, dalla Storia della follia a L'archeologia del sapere, passando per Le parole e le cose, prende per filo rosso la costituzione di saperi oggettivi del soggetto (per esempio il soggetto parlante nella linguistica, o il soggetto produttivo nell'economia e l'analisi della ricchezza); dall'altra, lo studio del modo in cui vengono costruite e storicamente modificate le pratiche di dominazione e le strategie di governo allo scopo di sottomettere gli individui (tentativo per esempio visibile in Sorvegliare e punire ). Nei due casi, si tratta di usare «pratiche di divisione» per separare il soggetto da se stesso e dagli altri: si oppone allora il malato all'uomo in buona salute, il folle all'uomo di ragione, il delinquente all'onesto cittadino, etc. Da questo punto di vista, La volontà di sapere rompe doppiamente, nella misura in cui, fin dalle prima pagine, rivendica esplicitamente di non voler fare né la storia dei saperi che sono stati prodotti sui comportamenti e sulle pratiche sessuali, né solamente quella della coercizione e dei divieti applicati alla sessualità. Il tentativo è dunque d'introdurre una terza dimensione nell'inchiesta sulla soggettività: quella che fa del sesso il crocevia degli interdetti e della liberazione della parola, del nascondere e del disvelare, del celare e del mostrare. Si tenta, insomma, l'analisi di un «dispositivo di sessualità» che si dà come il luogo - reale e/o simbolico - a partire dal quale interrogare il nostro rapporto con la verità. Perché la sessualità è diventata progressivamente ciò che poteva dire quello che eravamo? E perché la verità del sesso, attraverso il sesso - che ha effettivamente assunto un posto centrale per esempio nelle analisi degli psichiatri alla fine dell'800 - è stata presto raddoppiata dalla ricerca di una «verità nel sesso»?
L'idea di una lettura «a specchio» della verità e della sessualità attraverso quello che Foucault caratterizza come una vera e propria «scientia sexualis» è il baricentro del libro. Ma presto, Foucault deve accorgersi di due cose. La prima è che, se non c'è verità senza storicizzazione delle sue forme, allora bisogna ipotizzare che la pretesa degli uomini di dire la verità cambia nella storia. In quale momento la sessualità è diventata luogo di verità? Esistono nella storia altre modalità di questo costituirsi della «verità degli uomini»? La seconda consiste invece nel prendere alla lettera la «scientia sexualis» - un sapere, cioè, che passa da un discorso oggettivante ad una pratica soggettivante. E' su questi due punti che si ridefinirà poi il progetto della Storia della sessualità. Bisognava anche analizzare il modo in cui alcune «tecniche» (intese nel senso ovviamente non tecnicista), alcune esperienze permettono agli uomini di «lavorare» il rapporto che intrattengono con se stessi per trasformarsi ed inventarsi. «Nel corso della loro storia, scrive Foucault, gli uomini non hanno mai cessato di costruire se stessi, ovvero di spostare continuamente la loro soggettività», ma storicamente, questa tecnologia del sé, questa produzione di soggettività è avvenuta a partire da esperienze diverse e con modalità diverse. La sessualità è una modalità - storicamente determinata - di questa produzione.
Oggi bisognerebbe leggere l'esperienza che consente questa invenzione di sé e partire dalla ricerca di ciò che Foucault chiama l'ethos. Costruire un percorso etico, ecco ciò che diventa il paziente lavoro foucaultiano. Essa non esclude né un'attenzione minuta per la storia, né la descrizione del modo in cui la sessualità è progressivamente stata investita dai giochi di verità. Ma assume come proprio centro quello che La volontà di sapere , pur identificandolo, non vedeva pienamente: la possibilità di costruire a partire dall'archeologia del passato una genealogia del presente, la possibilità per gli uomini d'inventare se stessi all'infinito dall'interno delle determinazioni che li fanno essere quelli che sono, ovvero la possibilità di tessere dall'interno delle maglie dei saperi e dei poteri lo spazio della libertà.

Liberazione Queer 11.1.09 p 5
23 marzo 2008 / Arriva in Italia la pensatrice che ha ispirato il nome del nostro inserto.
Un tributo, ma anche - come sempre - un andare oltre
Judith Butler, contro la norma etero
Sotto tiro il pensiero della differenza


E' stata la casa editrice Feltrinelli a far circolare nel ‘96, in Italia, uno dei libri più noti di Judith Butler ("Corpi che contano") attraverso il paziente lavoro filosofico di Adriana Cavarero che, coraggiosamente, ne scrisse l'introduzione attraversando anche la controversa tematica del queer.
Poi è stata la casa editrice Sansoni a mandare in stampa (anche se con una traduzione molto discutibile) il libro più controverso e famoso di Judith Butler ( Scambi di genere ) sino al lavoro di cura svolto da Olivia Guaraldo di alcuni tra i suoi testi più recenti per Meltemi ( Vite precarie e La disfatta del genere ). Nessuno, prima di allora, almeno in Italia e in Francia aveva osato sfidare le asfittiche teorie del pensiero della differenza sessuale e di genere di matrice irygariana per il tramite dell'immane lavoro di ricerca di Judith Butler.
Infine è arrivato anche questo inserto che, più di altri, ha saputo coniugare il lavoro teorico della femminista di Berkeley con i movimenti queer, femministi e lgbtq presenti in Italia. Movimenti che, tra l'altro, stanno conoscendo una nuova e ricca stagione sostanziata dalla necessità collettiva di riprodurre un nuovo "taglio", del tutto diverso da quello prodotto nei '70 con l'emancipazionismo e negli '80 con il pensiero della differenza, l'apologia del pensiero debole e delle teorie di Heidegger, Lacan etc. Un nuovo "taglio" che mira a spostare le analisi sui generi o l'analisi dell'Io, quasi sempre narcisista, tautologico e auto-celebrativo, sul piano della messa in discussione della sessualità e dell'anti-razzismo. Femminismi e movimenti lgbtq insieme, cioè, contro tutte le forme di discriminazione sessuale e razziale e per un nuovo ethos della libertà. Tuttavia non c'è una sola Butler, ce ne sono molte, tante, a seconda di chi ha saputo tradurre il suo pensiero, ma anche a seconda dei suoi testi che, almeno per chi scrive, sono sempre stati dei caleidoscopi attraverso cui, però, è impossibile smarrirsi. Per sostanziare le sue tesi anti-identitarie rispetto alle codificazioni del gender e del sex Butler ha letto veramente tutto, dai cosiddetti post-francofortesi, con le loro teorie sul riconoscimento a Hegel, da Foucault (che secondo me è stato il suo autore principale) a Lévinas, da Julia Kristeva a Irigaray, da Monique Witting a Lèvi- Strauss. Una mole impressionante di autori spulciati per dire sostanzialmente una cosa: non ha senso interrogarsi sulle differenze e sui soggetti sessuati se non si fa, a priori, uno sforzo per capire il dispositivo di potere che le genera - sia dal punto di vista della natura, sia dal punto di vista della cultura - ovvero la norma eterosessuale. Judith Butler pubblica negli Stati Uniti Scambi di Genere ('90) perché ritiene che sino a quel momento la riflessione intorno al femminismo e intorno alle strutture elementari della parentela non abbia mai affrontato il problema della norma eterosessuale intesa come matrice fondativa che, a sua volta, produce i generi e le gerarchie tra i generi. Ci si era interrogati sulla riproduzione, sulle famiglie che mutavano progressivamente segno a partire dagli anni '70, sulle rivendicazioni dei diritti da parte di lesbiche e omosessuali, ma senza mai mettere in discussione l'origine di tutti questi discorsi, il dispositivo attraverso cui si generano: la norma eterosessuale.
La studiosa statunitense, cioè, ci ha detto che il pensiero femminile aveva sempre studiato il ruolo del femminile e del maschile nelle società occidentali, ma solo attraverso delle costruzioni identitarie e cioè solo a partire dal pregiudizio costruito dalla norma eterosessuale. Un pregiudizio attraverso cui si regolamentano le società e le culture facendo a sua volta dell'altro una costruzione identitaria che si produce in antitesi alla norma: «Ero e sono convinta - sostiene Butler - che le teorie femministe inclini a ridurre il significato del genere alle presupposizioni della sua pratica istituiscono norme di genere esclusive all'interno del femminismo» . Un'esclusività che colloca il genere all'interno di una codificazione normativa a sua volta indotta dalla norma eterosessuale: «La sessualità normativa rinsalda il genere normativo». La studiosa statunitense, cioè, ci ha mostrato come tutti gli ordini discorsivi, che hanno cercato di "spostare" l'analisi culturale e sociale nella direzione della messa in discussione del sistema patriarcale, non abbiano mai messo in discussione la funzione normativa e normalizzante dell'eterosessualità. Lei, infatti, non è interessata alle analisi sul femminile o sulla donna in quanto tale a partire dal sistema patriarcale, ma al contrario è interessata a spingere la sua analisi sulle forme reali e simboliche dei generi prodotte dalla norma eterosessuale. E', cioè, sempre la norma eterosessuale che produce il patriarcato, la differenza sessuale e le soggettività che la "eccedono" ovvero le lesbiche, i gay, i trans in un'ottica fortemente gerarchizzata. Scrive: «Se la gerarchia di genere presuppone una nozione operativa del genere, il genere è quel che causa il genere, e la formulazione culmina nella tautologia». La formulazione culmina nella tautologia perché il maschile ed il femminile, strutturati su base gerarchica ab origine, vengono costruiti attraverso un processo storico-sociale e culturale di codificazione dei ruoli identitari che si autodefiniscono e definiscono a loro volta i generi seppure differenziandoli. I generi, però, sono sempre e solo due. Perché? Perché, ci dice Judith Butler, la norma eterosessuale li ha definiti in quanto tali: maschile e femminile. Tutto il resto eccede la norma. Tale "essenza" produce a sua volta delle "aspettative" sul ruolo che tutti si aspettano di vederci recitare. Tale aspettativa culturale e sociale del ruolo «finisce per produrre proprio il fenomeno atteso», diventa cioè performance, rappresentazione del genere assumendo, quindi, una connotazione collettiva costruita socialmente e culturalmente. Diventa «un rituale che sortisce i suoi effetti mediante la naturalizzazione nel contesto di un corpo», diventa un corpo naturale sostenuto culturalmente ma sempre e solo a partire dall'interiorizzazione della norma eterosessuale. La singolarità dei corpi, quindi, nel momento in cui è costretta a rappresentarsi attraverso un ruolo di genere è altresì costretta a rinunciare a tutto quel che eccede la sua configurazione identitaria, pena il mancato riconoscimento sociale e giuridico. La sovversione dell'idea identitaria di gender e sex ha raggiunto il suo culmine nell'ultimo lavoro di Judith Butler apparso in Italia dal titolo piuttosto esplicativo (La disfatta del genere). In questo testo, infatti, l'autrice decostruisce il pensiero della differenza di matrice europea sino in fondo spostando l'asse del suo interesse tematico su come si vanno definendo, oggi, i grandi discorsi della vita e della morte e su come i processi di disumanizzazione dell'umano ci chiedono nuove prospettive etiche e politiche legate ad un'idea di democrazia radicale. Una rivoluzione anti "autoritaria" la sua, quasi silenziosa, timida, attenta. L'esatto contrario, cioè, di chi ha voluto fare della donna e della madre un modello di autorevolezza (seppure non autoritaria) che pone all'interno di una logica gerarchica o simbolica che sia chiunque "venga dopo" rinunciando al dialogo intergenerazionale e alla relazione. Il femminismo e i movimenti lgbtq avevano proprio bisogno di questo nuovo vento fresco e salutare per ripensare tutte le libertà possibili da agire qui e ora.

Liberazione Queer 11.1.09 p 6
26 giugno 2005 / L'articolo dello scandalo. Il filosofo Parinetto rilegge Freud e Marx. Lettere di protesta, insulti, anche di alcuni redattori di Liberazione
Sì, la rivoluzione passa per il buco del culo
di Aldo Nove


«La rivoluzione proletaria passa anche attraverso il buco del culo», sosteneva Luciano Parinetto nel suo "L'utopia del diavolo", uno dei testi che ravvivarono il dibattito tra marxisti italiani nei primi anni Settanta. L'affermazione suscitò reazioni stupite e indignate, a dire il vero più indignate che stupite.
Ma cosa significa «la rivoluzione proletaria passa anche per il buco del culo»? Per capirlo facciamo dapprima riferimento a un altro saggio di Parinetto, Capitalismo e analità, (ora raccolto, insieme ad altri saggi del grande filosofo, prematuramente scomparso nel 2001, in Marx diversoperverso, Edizioni Unicopli). Si parte dai testi giovanili di Marx e dal corpus delle opere di Freud. Il giovane Marx e Freud concordano nell'attribuire alla formazione della fase anale (alla sua "normalizzazione" e"sublimazione") l'origine del capitale, ossia dell'attitudine alienante ad accumulare soldi e a fare di questa attitudine una forma di religione universale, la più forte religione del mondo. Differentemente da Max Weber, che in L'etica protestante e lo spirito del capitalismo vedeva l'origine del capitalismo nella «vocazione professionale e dedizione al lavoro professionale» tipiche della società calvinistica, Marx e Freud riletti da Parinetto insistono invece su un'alienazione sociale che non ha origine dalla religione ma da abitudini, cristallizzate nel tempo e disciplinate poi da leggi, che riguardano il corpo dei singoli individui. Marx (dai Manoscritti economico-filosofici del 1844 ): «Al posto di tutti i sensi fisici e spirituali, attraverso l'alienazione dell'individuo nel rapporto servo-padrone, il capitale ha imposto il senso dell'avere». E se il corpo è un infinito scambio (uno scambio sacro, ci ricorda Ginsberg) con l'universo, il capitale, la logica dell'avere rispetto alla visceralità osmotica dei sensi nel mondo, è chiusura e negazione, follia collettiva. Freud (da Tre saggi sulla teoria della sessualità): «Considerando l'ano, è proprio il disgusto a bollare questa meta sessuale come perversione. Ma questa ripugnanza non è diversamente significativa di quella data dalle ragazze isteriche verso il genitale maschile. Che cioè esso serve per la minzione. Nella sessualità, normalità e anormalità non sono assoluti, ma sono inestricabilmente legati a società storiche che sorgono dal loro tentativo di autoconservazione mediante la plasmazione della libido con i mezzi dell'educazione infantile, del pudore, del disgusto, della moralità e, soprattutto, dell'inibizione autoritaria».
Ma torniamo all'ano, questa volta attraverso altri due filosofi, G. Deleuze e F. Guattari, citando un passo di Capitalismo e schizofrenia: «Le nostre società moderne hanno proceduto a una vasta privatizzazione degli organi. Il primo organo privatizzato, messo fuori campo sociale, è stato l'ano. E' lui che ha dato il suo modello alla privatizzazione, nello stesso tempo in cui il denaro esprimeva il nuovo Stato borghese». Insomma, c'è, nel buco del culo o, meglio, nella sua negazione, qualcosa di fondante rispetto alla nostra società. Qualcosa di ineluttabilmente deviante rispetto a una verità umana distorta da un'altra verità, quella del capitale e ancora prima del potere.
Nell'antica Roma, era il rapporto tra padrone e schiavo a regolamentare la sessualità anale: il padrone poteva sodomizzare, lo schiavo poteva essere sodomizzato, in un irrigidimento di ruoli falsamente riferito a un modello "naturale" in cui è il rapporto di forza a determinare la liceità delle forme del piacere. Mentre nel medioevo, dove la sessualità anale è ufficialmente bandita, il suo trionfo non può che essere negativo e difatti ritorna nel Sabba, dove le streghe si riuniscono per baciare il buco del culo del diavolo, oppure nell'iconografia del male, ad esempio nelle stampe popolari dove si ritraeva una donna che, rimirandosi allo specchio, vedeva riflessa non la propria immagine ma quella del diavolo che gli mostrava il proprio ano.
A questo punto, l'affermazione iniziale di Parinetto ci appare più comprensibile. Parinetto, che scriveva dopo lo strappo del Partito comunista italiano con quello sovietico e molto dopo la denuncia dei crimini di Stalin, era andato, nella lettura di Marx, ai fondamenti di un'alienazione umana che denunciava nella società, in ogni tipo di società presente e ancora a venire, la preistoria dell'uomo. Preistoria confermata da ogni tipo di regime instaurato nel Novecento. Preistoria che si supererà soltanto nel superamento di ogni forma di alienazione storica. Di qualunque alienazione. Nell'affermazione e nel superamento della diversità. Leggiamo un altro suo passaggio: «L'omosessualità, l'analità, la danza delle streghe (con il suo poliformismo e la sua transessualità) hanno il compito di distruggere, nel vissuto, quei ruoli sessuali che sono essenzialmente funzionali alla riproduzione del capitale». Ma attenzione: «La contestazione omosessuale e femminista se, come lo è l'ateismo nei confronti di dio, non vuole essere una posizione per negazione di quel capitalismo che l'ha fatta emergere per emarginazione e stigmatizzazione, se non vuole confermare i ruoli sessuali mediante una semplice negazione di essi (ciò che si pone per negazione dipende da ciò che va negando), deve presentarsi come introduzione alla dissoluzione dei ruoli, vale a dire alla transessualità, cioè a un totalmente altro, a una radicalmente nuova posizione, sia riguardo alla normalità, sia riguardo alla diversità». Il linguaggio di stampo hegeliano, oggi piuttosto astruso, non ci proibisce di cogliere il significato di queste parole: un femminismo come pura reattività storica nei confronti del maschilismo ne crea un clone invertito, così come l'omosessualità che si pone come diversa ortodossia non mutano, nella sostanza, nulla.
Non deve esistere, insomma, normalità. E' la norma, l'alienazione. Per Parinetto, l'eterosessualità è omosessualità travestita («In questa società, il rapporto dell'uomo con la donna è un inconsapevole rapporto dell'uomo con se stesso, tanto è vero che in una simile società il travestito impersona perfettamente l'immagine che l'uomo si fa della donna»), mentre l'omosessualità militante o unidirezionale è, nella sostanza, la stessa cosa, esprimendo comunque dialettiche di potere, giochi di ruoli.
Un testo della metà del IV secolo, il copto Vangelo secondo Tommaso, fa dire a Gesù: «Quando farete in modo che due siano uno, che l'interno sia come l'esterno, e l'alto come il basso, e se voi fate del maschio e della femmina una cosa sola, affinché il maschio non sia più maschio e la femmina non sia più femmina, entrerete nel regno»

Liberazione Queer 11.1.09 p 7
5 dicembre 2006 / Contro il mito del cazzo grande, nella vita, nella politica... e nel sesso.
Un articolo che ha fatto ridere, ma mica tanto
Elogio del micropisello
La sinistra riparte da qui
di Francesco Warbear Macarone Palmieri


Il panorama della sessualità eterocentrica è qualunquista nella sua semplice strutturazione bipolare, concentrica e verticale. E' storicamente naturale che il mondo sia diviso nettamente in due generi.
E' biologicamente accettato che essi siano geneticamente tracciati ed identificabili dai genitali degli individui. E' socialmente stabilito che essi abbiano delle norme di riferimento mutate in diritti e doveri sul piano legislativo e cristallizzate in istituzioni matrimoniali. E' culturalmente stabilito che il genere maschile sia il sesso forte con diritti e che quello femminile sia debole con doveri. Sul piano semantico, il fallo viene significato come eretto, l'attività, il fuori, l'aggiungere, il positivo, il sopra caratterizzante il potere del maschio che prende, viola e insemina. Per un'algebra degli opposti, la vagina viene significata come simbolismo cavernoso - la passività, il dentro, il levare, il negativo, il sotto - costretta a fertilizzare, a ricevere e partorire. Su questa schematica bipolare, verticale e concentrica si struttura la violenza del potere. In esso, il corpo assume rappresentazioni differenti come elemento speculativo dell'economia dell'informazione contemporanea.
E' idea qualunquista che il corpo di una "bella" donna produca plusvalore in una cultura maschilista. Il concetto sessista del "bello" produce la nudità della donna da copertina generalista, su qualsiasi medium essa sia. Ma attenzione, la nudità non può essere vaginale altrimenti dal bello si passa allo scabroso e lo scabroso è moralmente pericoloso quindi vietato poiché pornografico. Seguendo questa logica, due sono le riflessioni parziali. L'astrazione della vagina è una palese rimozione del sessismo che sottende tale pratica economica. Sulla base di ciò, ça va sans dire che l'esposizione genitale, spingendo la rappresentazione dei corpi sul confine della pornografia, diventa politicamente sovversiva poiché linguaggio della crisi che "denuda" i rapporti di potere che silenziosamente attraversano e significano i corpi. Ancora su questa linea, il fallo, simbolicamente codificato come lo strumento bruto della forza, del potere, del dominio dell'asservimento, mai e poi mai potrà essere vendibile e quindi esposto come tale. Specialmente nella meccanica morale per la quale la nudità è degradante se resa pubblica. Per questo, una politica di cambiamento reale dell'esistente non può che passare attraverso l'autoesposizione genitale come pratica di ribaltamento, geometria della turbolenza culturale che vada a sviscerare ordini morali e a produrre critica radicale.
Passo quindi dal fallo al "fallo" come seconda persona singolare del verbo fare riferendomi al concetto di D.I.Y. (Do It Yourself) come pratica controculturale e la applico a due ambiti del mio vissuto. Dalla nascita del progetto queer "Phag Off" lavoro sulla desimbolizzazione, sia sul piano grafico, attraverso flyer e manifesti che promuovono gli eventi, sia sul piano porno/grafico attraverso l'organizzazione di rassegne di pornografia indipendente in collaborazione con il Tekfestival. In entrambi i contesti, l'esposizione fallica evoca immediatamente potere, paura, rifiuto, nonostante il fallo stesso sia riletto in chiave queer come "Raspberry Reich" di Labruce o proposto ironicamente come dildo, nel caso dell'artista parigino Tom De Pekin. La paura del fallo tocca codici morali opposti dove la sua rappresentazione non scappa alla morsa dell'autorità. In un pensiero politicamente corretto, il corpo è rimosso perché la sua nudità scorretta in quanto tale, soprattutto se autorappresentata. In un pensiero politicamente corretto non può esistere pène che non indichi péne. Non può esistere desiderio fallico che non produca nevrosi. Non può esistere desiderio della sua stessa violenza come pratica di desimbolizzazione. Pasolini parlava soggettivamente dello stupro come pratica di liberazione della proprietà privata del corpo. Rendere pubblico il corpo privato. Rendere visibile il corpo negato quando è il desiderio tout court a non sopravvivere nella correttezza politica. E ciò è evidente in certe aree di un femminismo più tradizionale soggiogate da un sessismo inverso così come in certe aree di pensiero libero che si mostra schiavo delle schematiche verticali e concentriche.
Ancor più che per la donna, socializzare visivamente con il pene è pericolosissimo per l'uomo eterosessuale poiché simbolo di omosessualità latente. Come afferma Healey in Gay Skins. Class, masculinity, queer reappropriation , in una società basata sul sessismo, omosocialità e omosessualità devono essere due sfere separate a tenuta stagna altrimenti minano radicalmente l'ordine stabilito. Ora, se la negazione della rappresentazione fallica unisce due ambiti libertari quali quello femminista e quello controculturale, la sua sovraesposizione spesso caratterizza quello gay, specialmente nelle sue logiche pornografiche. Seguendo la definizione di Linda Williams della pornografia gay come produzione di uguaglianza al contrario di quella etero come produzione della differenza di genere le meccaniche di identificazione sono altrettanto complesse e pericolose. Se è il superdotato ad attivare tutta l'energia sessuale, il rischio è che si riproduca la meccanica di potere: si eterosessualizza l'atto nella ricostruzione dell differenza dei ruoli in cui c'è il butch, l'attivo, che penetra l'efebo, il passivo, che ricopre i ruolo sottomesso della donna con l'obbligo del godimento nell'essere penetrata. A quest proposito è interessante andare ad indagare un immaginario, facente parte del circuit dei chubs (gay obesi, scena che si intreccia con quella degli orsi) di chi ama le microdotazioni e che, in questo senso, irrompe nel panorama della stereotipizzazione fallica basata sull'uguaglianza "dimensione-potere" e ristabilisce una democratizzazione dell'omosessualità orientata al fallo come vagina - un cortocircuito simbolico quindi al pene come levare, nascondere, scomparire.
Usiamo le parole di xbearx prese dal sito sbqr.com: «Credo che del micropisello, del più impertinente tra i piselli cicciosi, non si sia mai parlato abbastanza. Le sue delizie sono state trascurate con una superficialità incomprensibile da tanti, da troppi! Eppure sono quelle di un ninnolo liquoroso che arroventa gli occhi di chi l'osserva e tutto quello che sta loro attorno. Cosa c'è di più emozionante di un microciccio che s'erge al contatto dell tua pelle, delle tue mani, che trasforma due colline di cicci e di pelo nella cornice incandescente di un joystick duro morbido ad un tempo? Cos c'è più di quell'affarino con cui hai giocato nei tuoi sogni fin da piccolo? Per non parlare dei più fortunati che, possedendolo, possono girarselo tra le mani ad ogni ora del giorno. Che il gingillino più piccolo avesse un fascino irresistibile lo avevano capito bene persino i primi fotografi di nudo quando iniziarono a proporre non solo i superdotati che oggi inflazionano la rete, la carta l'immaginario di molti. Ma lo sapevano anche alcuni dei più grandi scultori e pittori della storia dell'arte. Un'intuizione artistica che è forse uno de motivi per i quali in tanti, ancora oggi, perdiamo completamente qualsiasi chance di autocontrollo di fronte ad un bottoncino rosa che sguscia tra gli ispidi peli di un pube ciccioso. Eh già, perché nel mondo chubby il micropisello è per nostra fortuna un trofeo d esporre con orgoglio, una nota di appartenza, il simbolo di una cultura, la ciliegina sopra la torta, il goloso vizietto capace di fermare uno sguardo trasformare un attimo in un sessoeternità».

Liberazione Queer 11.1.09 p 7
30 ottobre 2005 / Tre numeri di Queer interamente dedicati alla morte del poeta, intellettuale, scrittore...
Siamo stati anche questo. E poi Antonio Gramsci, Hannah Arendt, Simone De Beauvoir, Levi Strauss... etc etc
L'omaggio a Pasolini. Ecco cosa scriveva Luxuria
Quella che adesso non andrebbe bene perché...
di Vladimir Luxuria


Ci sarebbe piaciuto sapere l'opinione di un grande scrittore e regista come Pier Paolo Pasolini sul movimento gay, lesbico e transessuale allo stato attuale.
Dopo trenta anni dalla sua morte violenta molte cose sono successe: i "Gay Pride", il dibattito sui Pacs in Italia e il "matrimonio" in Spagna; la sua scomparsa ci lascia orfani di un prezioso contributo intellettuale, di un suo comizio d'amore contemporaneo. Se non esaustivo almeno consolatorio può essere il tentativo di una ricostruzione retroattiva del suo pensiero. Pasolini interessa non solo in quanto autore omosessuale ma come persona che sul tema non si è mai esonerato dall'esprimere il suo pensiero, pagando: i processi su di lui saranno una costante che lo accompagneranno durante la sua vita (le critiche dalla destra, dalla Dc, il processo dal Tribunale dello Stato e il 26 ottobre 1949 dal Pci per "indegnità morale") e dopo la sua vita (tutti i processi sui misteri della sua morte). Sul rapporto conflittuale con la sua sessualità si è già scritto molto, da quello vissuto con sensi di colpa in Atti impuri a quello più libero da conflitti morali e religiosi in Amado mio ; per un intellettuale questa dicotomia rientra in un più generale interrogarsi sulla nostra ragione d'esistere e sulla nostra possibilità di vivere l'amore come appagamento e non come tortura (forse solo la pecorella leopardiana aveva la fortuna di vivere senza troppe paranoie!).
Quello che mi interessa di più è il concetto di "omologazione" rapportata al dibattito sul movimento glbt odierno. Più volte Pasolini si è espresso contro il pericolo della omologazione, l'appiattimento delle diversità, la convinzione che rendendo tutto uguale cancellando le diversità non si arrivi a una vera uguaglianza ma a una globalizzazione del pensiero; in uno Scritto Corsaro del 24 giugno 1974 scrive: «Oggi - quasi di colpo, in una specie di Avvento - distinzione e unificazione storica hanno ceduto il passo a una omologazione che realizza quasi miracolosamente il sogno interclassista del vecchio Potere. A cosa è dovuta tale omologazione? Evidentemente a un nuovo Potere». La minaccia C della trasformazione di contadini e sottoproletari in piccoli borghesi riguarda oggi anche gli omosessuali? Si è molto dibattuto sul matrimonio gay ottenuto in Spagna con Zapatero e forse nell'entusiasmo generale delle associazioni gay e lesbiche si è messo in secondo piano il dubbio pasoliniano sull'imborghesimento omosessuale.
Il Pacs è una proposta nuova per un'uguaglianza nella differenza, un riconoscimento degli stessi diritti civili a tutti; il matrimonio è omologarsi a una realtà già esistente per un desiderio inconscio di normalizzarsi, di essere accettati dagli altri facendo quello che hanno già fatto gli altri, ovvero sposarsi? Mi rendo conto della provocazione di queste riflessioni, ma è quello che viene da chiedersi rileggendo alcune riflessioni di Pasolini in un dialogo con i suoi lettori del 12 agosto 1961: «Può nascere, per esempio, il conformismo, per quanto ciò possa sembrare paradossale. L'anormale complessato, infatti, non volendo accettare l'anormalità che lo relega in una minoranza di diversi rispetto alla società dove vive, e anzi soffrendone orribilmente, tenta di inserirsi di prepotenza nella maggioranza, accogliendone e facendone suoi tutti i canoni, tutte le regole, tutte le istituzioni. E, come sempre succede, finisce, come si dice, con l'essere più realista del re. Non c'è nessuno che sia più fanatico, più duro, più intransigente di un anormale che difende la norma».
Le riflessioni sulla omologazione omosessuale si possono estendere anche sul nostro modo di porci nel mondo: il gay può essere accettato dalla società solo se non ostenta, non sculetta, se è virile, se è ricco e magari anche di pelle bianca. Quello che dà fastidio è l'effeminatezza, l'immediata ed espressa diversità, nessuna presunta "trasgressione" ma solo normalità non inquietante. In Empirismo eretico del 1966 Pasolini scrive: «La vittoria su una norma trasgredita rientra subito nell'infinita possibilità di modificarsi e di allargarsi che ha il codice» e nella recensione al libro Gli omosessuali di Daniel-Baudry è «intollerabile, per un uomo, essere tollerato». Oggi il gay effeminato chiede la sua quota fucsia in un mondo dove la misoginia si esprime anche nella condanna e soppressione del femmineo, dove il termine "checca" è dispregiativo. Eppure Pasolini, descrivendo dall'interno il mondo delle checche al rimorchio, non le tratta con disprezzo ma con un'ironia affettuosa: sono il ritratto di un mondo che scompare, insieme a quei luoghi all'aperto dove si faceva sesso prima che il mercato intervenisse per trasferirci tutti in discoteche e dark-room. In Ragazzi di vita viene offerto un ritratto che oggi già sembra un affresco, qualcosa che appartiene a storia passata: «Il frocio era già quasi sui cinquant'anni, ma voleva dimostrarne almeno venti di meno: continuava a stringersi con aria di persona cagionevole di salute il colletto della camicia, contro il suo pettuccio di pollo». Il peggiore compromesso che possa fare il movimento per ottenere cittadinanza è proprio quello della omologazione, rinunciare alla propria specificità, proporre un unico modello di gay o lesbica gettando alle ortiche la varietà del nostro mondo, rinnegando storicamente le battaglie provocatorie dei Mieli, Cascina, Sanna... Se oggi un manager in giacca e cravatta può dire più liberamente di essere gay è stato anche grazie alla sfrontatezza e alla militanza di tante checche in corteo.

Liberazione Queer 11.1.09 p 8
28 settembre 2008 / Ordinanza dei sindaci e ddl Carfagna tentano di criminalizzare le sex workers. Molte donne pensano che questa cosa non le riguardi e moralisticamente si pongono solo il problema di eliminare la prostituzione
A che serve reprimere le prostitute?
A controllare le donne
di Beatrice Busi


Mentre Carfagna criminalizza la prostituzione di strada, scopriamo con un certo stupore che l'Agenzia delle entrate tassa le prostitute che esercitano in casa.
Dopo una sentenza di fine 2007, che ha imposto a una professionista del sesso milanese il pagamento delle imposte relative alla sua ventennale attività, nell'ultimo anno sono sempre più numerose le prostitute costrette a pagare le tasse. A Genova, Padova e Parma, in particolare, la Finanza ha cominciato programmaticamente la caccia alle lavoratrici del sesso. Le locali Agenzie delle entrate si appellano al decreto Bersani-Visco del 2006, che consente il prelievo fiscale anche sui redditti derivanti da attività illecite, non meglio precisate. Il decreto Bersani-Visco, in sé, non c'entra nulla con la prostituzione, e, inoltre, secondo la legge Merlin, ancora vigente a dispetto della Carfagna, la prostituzione non è reato, quindi, formalmente nemmeno un'attività illecita. Un'ambiguità che ha dato il via a diversi ricorsi giudiziari: da quello di "Margherita", prostituta di Verona, che contesta la legittimità delle richieste del Fisco e si rifiuta di pagare le tasse a quello di un'escort di Parma che ha versato 90mila euro all'Agenzia delle Entrate e sta dando battaglia in tribunale affinché i suoi redditi (e le sue tasse) vengano riconosciuti come provenienti da un'attività, appunto, lecita. Quello attuale, dunque, è un mix esplosivo, che vede convergere sulla pelle delle prostitute pratiche repressive e poliziesche e meccanismo di controllo e normalizzazione.
Che la normalizzazione sia in mano al fisco potrebbe sembrare una novità, ma se guardiamo all'indietro nei secoli, troviamo invece interessanti precedenti.
La situazione attuale assomiglia molto, infatti, a quella del Graducato di Toscana, tra il 1600 e 1700. Come racconta Roberta Sapio nel suo Prostituzione. Dal diritto ai diritti , durante il lungo regno di Cosimo III, a Firenze venne istituito un ufficio del Decoro pubblico, un nucleo speciale di guardie assegnate a controllare le prostitute, che potevano esercitare in luogo pubblico ma solo in particolari zone della città. Nascosti dietro le porte, i "salti" (evocativo nomignolo per le guardie antiprostituzione), piombavano sulle donne per coglierle in flagranza e arrestarle per il reato di "puttanesimo" in luogo non autorizzato. Ma alle prostitute toscane veniva offerta una via di scampo, sia ai "ghetti" che al carcere, proprio dal fisco: se accettavano di pagare 6 scudi di tasse all'anno, in cambio potevano godere di una relativa libertà, venendo esentate sia dall'obbligo di esercitare in quartieri imposti che da quello di iscrivere il proprio nome nei registri dell'ufficio del decoro pubblico.
Alla fine dell'Ottocento, invece, nel pieno del regime "regolamentarista" stabilito dal Regolamento Cavour che nel 1860 estendeva a tutto il regno d'Italia il regolamento piemontese già in vigore dal 1855, le varie tasse garantivano cospicui introiti alle casse dello Stato, ma nessun beneficio particolare alle prostitute: oltre alle tasse annuali sulla licenza d'esercizio pagate dai bordelli autorizzati, si aggiungevano 21 lire di tassa sul libretto obbligatorio e quella prelevata direttamente alle prostitute in occasione delle visite sanitarie alle quali erano periodicamente obbligate a sottoporsi, che variava da 50 centesimi a una lira e mezzo. In totale, circa due milioni di lire, di allora, all'anno.
Ma i corsi e ricorsi storici riguardano anche un'altra ossessione statale, ovvero la distinzione tra "donne per bene" e "donne per male", comune a molti regolamenti.
Mentre oggi la polizia municipale di Roma, attende ancora di sapere dal sindaco Alemanno in quale modo potrà distinguere le "prostitute" dalle "donne normali", nel granducato di Toscana era compito delle prostitute quello di autosegnalarsi e distinguersi indossando un fiocco giallo tra i capelli.
Per quanto riguarda il regolamento Cavour, invece, che nell'articolo 17 introduceva il principio e l'obbligo della "notorietà" per le prostitute, erano diversi gli articoli dedicati a controllarne i comportamenti. In regime di "case chiuse", l'articolo 20 vietava alle «prostitute pubbliche» di sostare per strada e frequentare vie, piazze, pubbliche passeggiate o teatri, mentre, l'articolo 32 stabiliva il divieto di rimanere fuori dalla propria abitazione, senza «giusta causa», dopo le otto di sera dal mese di ottobre a marzo e dopo le dieci negli altri mesi. Questa fattispecie di reato venne poi estesa dal Regolamento fascista. Mussolini, infatti, che nel 1923 aveva già iniziato a «fare ordine e pulizia» espellendo le straniere dalle case di tolleranza, con l'articolo 213 del 1926 incluse tra i divieti imposti dal suo regolamento, anche «la sosta in luoghi pubblici in attitudine di adescamento». Fu poi compito della giurisprudenza, escludere, ad esempio, che il "cenno del capo", potesse costituire invito o eccitamento al libertinaggio.
La "confusione" tra donne per bene e donne per male e gli errori, dato l'ampio margine di arbitrarietà nell'applicazione dei divieti, ovviamente, erano all'ordine del giorno. Inoltre, dai tempi di Cavour fino alla legge Merlin, purtroppo, a dare la prova definitiva della "colpevolezza" di una donna, era l'esame vaginale coatto, praticato nei posti di polizia, spesso in assenza di personale medico e senza alcun criterio né di igiene né tantomeno di privacy. Una visita che, l'emancipazionista inglese Josephine Butler, all'inizio del Novecento, definiva, senzi mezzi termini, stupro.
Una storia, esemplare per tante altre, ce la racconta Rina Macrelli in apertura de L'indegna schiavitù , il suo libro sulla battaglia contro la prostituzione di stato alla quale l'emancipazionista italiana Anna Maria Mozzoni dedicò tutta la sua vita politica. E' una sera d'autunno del 1859, quando, a Milano, due ragazze sorprese dalle guardie a passeggiare verso mezzanotte, vengono condotte nell'Ufficio sanitario"appena istituito, come "meretrici girovaghe", ovvero come prostitute clandestine. Sono in arresto, in attesa che il "medico visitatore" decida del loro destino. Il dottor Castiglioni, che sovrintendeva in Lomdardia all'applicazione del regolamento piemontese, e il dottor Bazzoni, si accorgono subito dell'"errore". «Durammo fatica a salvare dall'ignominia di una visita sul letto delle prostitute due oneste donzelle, figlie di un rispettabile cittadino esercente una professione liberale», scriverà lo stesso Castiglioni dieci anni dopo. Le ragazze fermate protestavano e pregavano di essere lasciate andare, «ma chi dà ascolto a delle ragazze in un ufficio di polizia?». «E poi, - continua ironicamente Macrelli - cosa andavano a fare in giro a quell'ora, se sono per bene? A curiosare nei circoli politici? Ma lì le donne non hanno niente a che fare. A godersi la campagna elettorale, la prima del regno? Ma la politica è roba da uomini, e se una donna va tra gli uomini a quell'ora è chiaramente per adescare...».
Del resto, la possibilità dei cosiddetti errori non derivava di certo dall'inesperienza della polizia ancora nuova all'applicazione di un simile regolamento, ma costituiva, al contrario, proprio il nucleo politico della regolamentazione. Nel nuovo Regno d'Italia la distinzione tra "donne per bene" e "donne per male" era evidentemente, come nell'Italia di oggi, solo di superficie, e l'attacco alla libertà delle donne era generalizzato. Nella Lombardia dell'epoca, annessa al Piemonte nel 1859, venivano attaccate da un lato le donne borghesi, private del diritto di voto amministrativo che avevano, invece, sotto l'impero austriaco, dall'altro, attraverso il regolamento sulla prostituzione, si limitava di fatto anche la libertà di movimento delle donne proletarie. Erano molte, infatti, quelle impiegate in lavori notturni, dunque passibili di controlli polizieschi e di "errori" di persona in orari "disdicevoli". I fautori del regolamento Cavour, del resto, sottolineavano spesso la natura della continuità tra la grisette , l'operaia vestita di panno grigio, e la femme galante , l'emancipata borghese: tutte donne corrotte dai tempi moderni, che trascuravano i loro compiti familiari, perdute a causa della loro immorale aspirazione a libertà e uguaglianza.
Un quadro storico, quello fornito da Macrelli, che non può che farci riflettere anche a proposito delle politiche attuali. Oggi, ci troviamo di fronte, da un lato alla criminalizzazione della prostituzione di strada, che in Europa è svolta per l'80 per cento dalle migranti e dall'altro lato alle campagne mediatico-governative che, da un pacchetto sicurezza all'altro, dipingono la "strada" come luogo insicuro per le donne, pur di tacere che la violenza contro le donne avviene prevaletemente in casa, in famiglia.
Tra Otto e Novecento, Anna Maria Mozzoni e le prime emancipazioniste, seppero rovesciare la finta distinzione tra "prostitute" e "donne normali" in un forte strumento di battaglia politica: c'è un vincolo solidale che unisce le donne di tutti i ranghi sociali, diceva Mozzoni, poiché tutte sono oppresse dalle stesse istituzioni. Oggi, in vista della manifestazione nazionale contro la violenza maschile contro le donne che si terrà il 22 novembre, probabilmente a Roma, un'occasione simile si presenta a noi. Un'occasione, che certamente, non verrà persa.

Liberazione Queer 11.1.09 p 9
10 febbraio 2008 / Un articolo che riprende un editoriale uscito sul quotidiano.
Un articolo scomodo, per molte non condivisibile. Che apre un dibattito
Io ridico: l'aborto non è un dramma
di Angela Azzaro


C'è è un leit motiv che unisce, come un filo nero, questi anni di attacchi all'autodeterminazione e alla libertà delle donne.
Nel discorso pubblico si è insediato, come centrale, il tentativo di colpevolizzare le donne. Oggi più che mai con questa storiaccia della moratoria dell'aborto. Anche molti e molte (soprattutto tra i politici e le politiche) che difendono la 194 non cambiano registro. La legge non si tocca, dicono, ma poi giù nel dire è un dramma, un'esperienza tragica, l'extrema ratio. Ma così non si rischia di dare ragione a Giuliano Ferrara che ha definito l'aborto omicidio perfetto? Perché, o l'embrione è vita e allora ha ragione lui, oppure si riconosce che non c'è vita senza la relazione tra la madre e il figlio, senza il progetto, la scelta della donna e allora dire che è un dramma è pericoloso o connivente.
Qualche anno fa su Liberazione scrissi la stessa cosa. Ricevetti molti consensi. Ma anche molte, moltissime critiche, anche da parte delle donne. Resto convinta che usare la parola dramma nasconda sempre e comunque la volontà di colpevolizzare da una parte, dall'altra di rinchiudere le singole in una Donna mitica e come tale stereotipata, riflesso di un desiderio o di un giudizio maschile da cui cerchiamo di sottrarci.
L'esperienza dell'interruzione di gravidanza era e resta un fatto individuale e come tale può suscitare reazioni molto diverse: di dolore, di indifferenza, di ansia, di liberazione, di fatica. E ancora altre mille emozioni che non posso essere rinchiuse in un unico schema se non venendo a patti con i sostenitori della campagna anti aborto. Il clima che si è creato intorno all'interruzione di gravidanza - l'alto numero di obiettori, i processi che si subiscono nei consultori, il discorso pubbli- co dominato dai cattolici integralisti - non permette però sicuramente di fare con serenità una scelta che, invece, per molte potrebbe essere e nonostante tutto è tale.
Ecco allora che la parola dramma ci racconta molto di quello che sta accadendo e ci aiuta a capire perché oggi il tema "dei diritti dell'embrione" sta diventando il cuore dello scontro politico e culturale.
Si è detto tante volte, ma è bene ricordarlo: gli stessi che tanto si preoccupano per embrioni e feti sono quelli che non hanno la ben che minima attenzione alla vita vera, reale delle persone. Molto spesso sono gli stessi schierati in prima linea nel sostenere la guerra, l'impoverimento delle popolazioni, nel legittimare un sistema basato sullo sfruttamento del lavoro, anche e soprattutto minorile, fino all'ultimo respiro. Fino alla morte. Se la difesa della vita è una scusa, quale è il loro obiettivo? Cosa vuol dire usare toni così violenti come fa Ferrara quando parla di omicidio perfetto? Lo stesso direttore del Foglio dice che la 194 non si tocca. Di fatto stanno facendo di tutto per svuotarla sia con i fatti che spostando il senso comune. Oggi la legge 194 è in aperto conflitto con un'altra legge dello Stato, la numero 40 sulla fecondazione medicalmente assistita. Questa normativa dice che l'embrione è soggetto di diritto mentre la 194, con tutti i limiti, riconosce come prioritaria la scelta della donna. Tra i due contendenti il terzo gode, cioè l'uomo e il potere che lo rappresenta (medico, scientifico, religioso, di stato).
Dire che c'è un attacco alla legge 194 però non basta. Bisogna dire che il vero attacco è nei confronti della libertà di scelta della donna, della sua soggettività, della sua autonomia e autodeterminazione. E' questa la bussola che ci può e deve guidare per non soccombere, nel dibattito bioetico, alle disquisizioni dei paladini della moratoria dell'aborto. Il fatto che molti e molte, a sinistra o nel centrosinistra, ci cadano non è un caso. E' la conseguenza di un discorso che non è mai andato a fondo, ma è rimasto imbevuto dell'etica cattolica (maschilista). Dire che l'aborto è un dramma sta in questo ordine di senso, vuol dire non sviscerare fino in fondo le nostre categorie, non fare i conti su che cosa sia per noi vita, che cosa libertà delle donne. Dire, invece, che l'aborto non è un dramma è anche un modo per rilanciare una radicalità che è fondamentale non solo sul piano teorico-politico, ma anche per la ricaduta che ha sulle singole vite, sulle singole esistenze di tante donne. Donne in carne e ossa che, oggi, molti vorrebbero cancellare in nome di un embrione chimera, proiezione del desiderio di onnipotenza maschile: mi autogenero, posso tutto, anche senza, o contro, il corpo che mi ha messo al mondo. Potere medico e scientifico sono alleati in questoprogetto. Lo hanno dimostrato ancora una volta i neonatologi delle cliniche universitarie romane che pur di affermare la loro verità e il loro obiettivo - l'utero artificiale? - sperimentano sulla pelle altrui. Si arriverà alla partogenesi di Ferrara? Affari suoi, verrebbe da dire. Se non fosse che in gioco c'è la nostra libertà.

Liberazione Queer 11.1.09 p 9
6 marzo 2005 / Durante il congresso del Prc di Venezia Queer parla del piacere clitorideo...
Un bel colpo per delegati e delegate... Ecco il dialogo tra Aldo Nove e Elena Stancanelli
Aldo: La clitoride, che difficile trovarla!
Elena: Basta cercarla bene!
di Aldo Nove, Elena Stancanelli


In una battuta della serie televisiva di culto "Sex and the city" Miranda Hobbes (Cynthia Nixon) dice a uno sprovveduto partner: «E' proprio lì, a due centimetri da dove la stai cercando».
L'oggetto della ricerca è abbastanza intuitivo. Chi scrive (non) lo ha scoperto circa vent'anni fa. Era la prima volta e il batticuore si confondeva alla colonna sonora praticamente obbligatoria di "Hotel California" degli Eagles nella camera da letto dei genitori di lei usciti per andare a teatro. Io con la lingua cercavo appunto di trovare con estremo entusiasmo prima, e dopo sempre con più tensione e smarrimento questo discretissimo essenziale punto di decollo del piacere della mia fidanzata di allora che dall'alto (io ero sotto giustamente) restava muta e non capivo dal suo respiro se lo avevo trovato o meno e mi accanivo su ogni millimetro della sua vagina che avesse un rilievo o si presentasse come possibile clitoride muovendomi in un mondo di sapori e profumi e dolcezze morbide e bagnate che non conoscevo ancora continuavo a pensare senza punteggiatura come adesso sto scrivendo con concitazione speriamo che la faccio godere pensavo speriamo che sia felice speriamo che ho trovato il posticino dove andare a abitare con la lingua per qualche minuto qualche secondo qualche ora fino a che non mi sono interrotto come adesso con la scrittura all'improvviso. Lei, non aveva goduto. Io nei giorni successivi controllavo nell'enciclopedia della salute com'è fatta la vagina, dov'è la clitoride (in alto, dove le grandi labbra si chiudono c'è la clitoride, era indicata da una freccetta) e la vedevo, ma un conto è l'enciclopedia della salute e un conto è la realtà, un conto sono i fascicoli rilegati acquistati in edicola del volume sull'apparato sessuale femminile un conto è trovarsi improvvisamente a diciotto anni scaraventati nel mondo potentissimo dell'amore quando devi amare e non hai l'enciclopedia sotto mano non hai neanche la torcia elettrica per scrutare a fondo per osservare meglio per identificare in modo appropriato la topologia della felicità femminile. Fare un pompino è molto più facile.
Aldo Nove

Ci sono diverse circostanze che rendono la caccia al clitoride più affannosa di qualsiasi altra attività di braccaggio. La prima delle quali è la prossemica. Non esiste alcuna possibilità per una donna le cui gambe siano attaccate al tronco - e cioè per quasi tutte le donne - di guardare negli occhi la persona china tra le sue cosce.Questo significa che la comunicazione eventuale non può essere condotta scrutando nel volto dell'avversario le reazioni. Di conseguenza la cosa a cui somiglia di più un cunnilinctus è una telefonata. Ora. La donna ha a disposizione due tipi di comando verbale: i mugolii e le indicazioni vere e proprie. Mugolare si mugola, comunque. Ma il mugolìo non è facilmente decodificabile, e varia moltissimo da donna a donna. Più di quanto non vari la posizione del clitoride che, diciamolo una volta per tutte, sta subito sotto l'apertura delle grandi labbra. Più o meno, d'accordo. Ci sono donne che mugolano come pazze appena sentono avvicinarsi anche solo il respiro, altre che arrivano all'orgasmo praticamente in silenzio. Quanto alle indicazioni del tipo più su più giù ecco piano ci sei piano… dove vai? c'eri! no cazzo non lì… non lo so, non mi è mai sembrato utile e spesso si rivela esasperante. Ma un cunnilinctus, per quanto abbia simili modalità non è esattamente come parlare al telefono. Perché, come si deduce dalla linctus e dal cunnus, ci sono i corpi. E i corpi possono discretamente assestarsi, senza l'un l'altro offendersi. Cioè il cunnus (o la cunnus? ) può dolcemente slittare, sempre senza offendere, per mettersi più a favore della linctus. Che però, in cambio, dovrebbe impegnarsi a garantire una prestazione il più possibile linerare e continuata. Una volta trovate la posizione e il ritmo, mantenerle è il modo migliore per arrivare in fondo in fretta con reciproca soddisfazione. Un pompino è più facile? E' più intuitivo, tutto quello che serve è lì, è arduo confondersi. E poi, come disse un giorno un amico, un cattivo pompino è comunque un buon pompino. Genitali generosi, i loro. Capaci di cedere con gioia e riconoscenza anche a un'inesperta buona volontà.
Elena Stancanelli

Liberazione Queer 11.1.09 p 10
4 gennaio 2009 / Gli ultimi due numeri sono stati dedicati alla caduta della Cortina di ferro
Due numeri ponderati, pacati, ma netti su un punto: quella storia non va rivendicata, va criticata duramente.Altro che elogio del Muro e del socialismo reale
La libertà non è valore secondario a nulla
di Franco Berardi Bifo


E' paradossale. Proprio quando le ultime vestigia del comunismo sembrano essersi cancellate dalla storia del mondo, proprio quando le forme organizzative prodotte dal movimento comunista novecentesco sembrano essersi dissolte, il capitalismo entra nella sua crisi (forse) finale.
Oggi assistiamo al collasso (non alla crisi) dell'economia capitalista. Ma proprio dall'esistenza di un movimento comunista, proprio dall'esistenza di un'alternativa sociale radicale come solo il comunismo può essere (e non e' mai stato) dipende la possibilità di mettere la parola fine alla storia dello sfruttamento.
E allora? Allora forse occorre dare un senso e uno sbocco alla volontà di rifondazione che negli ultimi anni ha animato settori coscienti del movimento di classe. E per far questo occorre prima di tutto chiedersi cosa sia stato il comunismo novecentesco, e perché abbia finito per crollare così rovinosamente da trascinare con sé anche la forza sociale e contrattuale dei lavoratori.
La parola comunismo evoca due diversi ordini di questioni: in primo luogo evoca la priorità dell'interesse sociale rispetto all'interesse privato, implica l'abolizione della proprietà privata (o la sua subordinazione all'interesse pubblico), ed infine implica la comunione dei beni d'uso indipendentemente dal loro valore di scambio.
Ma in secondo luogo, nella realtà storica la parola comunismo ha significato, e di conseguenza evoca inevitabilmente nella memoria e nell'immaginazione collettiva, una metodologia politica basata su premesse filosofiche di tipo storico-dialettico. La società capitalistica è stata intesa come totalità, e la rottura sociale operaia è stata concepita come il superamento dialettico e come l'instaurazione di una totalità superiore e successiva.
L'eredità dell'illusione di origine hegeliana, secondo cui nella storia si presentano delle formazioni totalizzanti e si verificano delle rotture capaci di "abolire" la forma presente e di instaurare totalità, filtra nella storia del movimento operaio attraverso le ambiguità filosofiche di Marx, e si salda infine con il soggettivismo paranoico del pensiero di Lenin.
Occorrerebbe in verità ricostruire la genesi della metodologia politica del comunismo novecentesco partendo dalla storia del pensiero moderno della politica, partendo cioè dalla visione machiavelliana della volontà in opposizione al caso (alla fortuna, dice Machiavelli) e dalla visione hobbesiana dello stato come espressione della volontà politica che risolve il conflitto sociale. Ma qui ci limitiamo a ricordare che il leninismo, ovvero la forma che il comunismo novecentesco ha preso inevitabilmente dopo la rottura del 1917, ha finito per modellare in modo profondo le linee di sviluppo dei movimenti operai così da costringerli a subire una visione di tipo oppositivo-dialettico che non comprende assolutamente la realtà delle vicende umane e sociali.
In effetti il comunismo leninista ( e dopo il '17 comunismo ha finito per significare obbligatoriamente leninismo) ha prodotto una identificazione del movimento reale con l'astrazione storicista e dialettica. La lotta di classe è stata di conseguenza ridotta al terreno di una contraddizione semplice, nella quale il soggetto fattosi partito afferma un progetto soggettivo e volontaristico di imposizione di una forma totalizzante.
Questa visione è fallita molto prima del 1989, forse già negli anni della Nep sovietica, e certamente negli anni della Rivoluzione culturale cinese. Ma ha continuato a imporsi come verità di stato, come pilastro essenziale della sopravvivenza di uno stato totalitario che ha sistematicamente sacrificato alla sua sopravvivenza gli interessi e il futuro della classe operaia internazionale. Per questo il crollo del muro e soprattutto il crollo dell'Urss, pur avendo scatenato processi di regressione spaventosa, vanno considerati come fenomeni di tipo liberatorio: hanno aperto la strada a una visione finalmente non più totalizzante e non più totalitaria del movimento operaio e del comunismo. Ma questo dipende dall'evoluzione presente e futura, dipende dalla nostra capacità di ricostruire, oggi, una prospettiva comunista libertaria egualitaria e umanistica, nel crollo del capitalismo globale, nell'imminenza di una barbarie generalizzata.

Liberazione Queer 11.1.09 p 10
29 ottobre 2006 / Sono molti i pezzi e i numeri dedicati alla pornografia, spesso quella alternativa.
Dildo, giochi, immaginario al servizio della liberazione sessuale e del godimento
In difesa del porno
Contro chi lo usa e nega
di Gia Maqi Giuliani


Domenica scorsa, alle prime luci dell'alba, si chiudeva a Berlino il primo Porno Film Festival, e, insieme a questo, una lunga settimana di eventi legati alla pornografia "differente" inaugurata dal il primo Post-porno Politics Symposium europeo.
Nati per volontà di due persone diverse Tim Stüttgen e Jürgen Brüning che, proprio in occasione dei due eventi hanno iniziato a collaborare, il Symposium e il Festival hanno tenuto in scacco per dieci giorni le pagine culturali e le rubriche degli eventi dei giornali locali. Dieci giorni di proiezioni, conferenze, seminari e laboratori che hanno coinvolto una massa enorme di persone berlinesi e tedesche, italiane, spagnole, francesi, olandesi e perfino giapponesi.
Una miriade di "comunità" si sono date appuntamento nelle varie location dei due eventi: quella queer, in maggioranza, quella più tradizionalmente "gay", quella lesbica in massa e quella transessuale a cui molte pellicole sono state dedicate. Ma "oltre le appartenenze" erano presenti tutti coloro che semplicemente sono interessati alla pornografia "critica" o "post", attratte dai due principi ispiratori di entrambi gli eventi: valorizzare la rappresentazione di chi "fucks different", come ha tenuto a sottolineare Brüning durante le presentazioni delle singole pellicole, e considerare il porno un "open concept", una pratica condivisa, capace di sintonizzare gli immaginari e le fantasie su canali diversi da quello normalmente conosciuto come il "porno" commerciale.
Questa lunga settimana di "passione" è stata inaugurata dal Symposium (14 e 15 ottobre) un evento che ha visto la presenza di novecento persone, afferma entusiasta il suo organizzatore Tim Stüttgen, un 29enne che ha vissuto tra Berlino, Amsterdam e Londra approfondendo i suoi studi di filosofia, da Jaques Derrida a Judith Butler, dal post-moderno alle queer theories, dall'arte visiva e performativa al cinema. Un evento che, prosegue, poteva essere organizzato a Berlino perché «questa metropoli è una delle poche città europee che si occupano, producono e diffondono un discorso differente del e sul porno. Berlino è un'interfaccia importantissima sia per l'attivismo queer, sia per il vivace dibattito accademico sui temi legati alla sessualità e alle sue rappresentazioni. E, a parte l'università, Berlino è ricchissima di una produzione teorica sperimentale e indipendente, tangibile attraverso le pubblicazioni in circolazione: una produzione che taglia trasversalmente il pensiero femminista, il pensiero queer o post-identitario, le varie forme d'arte e di espressione della sessualità». Il Symposium, finanziato per un buon 60% dall'università, dallo stesso Brüning e da Bbook (una libreria di Kreuzberg, lo storico quartiere "turco" di Berlino, sede da quindici anni di incontri e dibattiti teorici e filosofici che ruotano attorno alla sessualità), si è tenuto al teatro Volkbühne e ha contato una ventina di eventi pubblici tra incontri e conferenze, workshop e happening musicali. Il fil rouge che ha unito tutti gli interventi, ci ha spiegato Tim, «è stato il mio interesse personale. Ho contattato personalmente i partecipanti basandomi sul fatto che alcuni di loro avevano letteralmente cambiato la mia vita. Sto parlando di persone come la sex worker, performer e femminista Annie Sprinkle che per prima ha coniato il termine post-porno, il regista indipendente canadese BruceLaBruce e Lee Elderman, filosofa e teorica queer americana».
Ogni discorso che gettasse luce sulle forme di rappresentazione differente, critica, consapevole e micropolitica della sessualità è stato benvenuto, ci dice ancora Tim Stüttgen, poiché, riprendendo Lee Elderman «la post-pornografia permette di spingere al limite i confini della sessualità, secondo un'etica umanista che riporta al centro ogni forma di sessualità definita generalmente come deviante». Riemergono ormai "antichi" dibattiti, sia a livello artistico sia teorico, tra coloro che sostengono un'idea di rappresentazione pornografica del corpo come inconciliabile con un rapporto consapevole con la propria sessualità e chi riconosce nel porno lo strumento di creazione, riconoscimento e legittimazione di sessualità e orientamenti, immaginari e desideri "altri".
Tra le personalità presenti al Symposium, oltre alle già citate Sprinkle e Elderman, vi erano la studiosa belga Katrien Jacobs, docente della City University di Hong Kong specializzata in netart e sex performance e curatrice della prima conferenza "Net Porn" tenutasi ad Amsterdam lo scorso anno, e Todd Verow, un importante film-maker della scena porno-gay americana.
Molto interessante è stato l'intervento di Maxime Cervulle (un membro del collettivo francese Panik Qulture, il gruppo rivelazione del Porno Film Festival che si è aggiudicato il primo premio della sezione dei corti self-made), incentrato sugli stereotipi coloniali di certa pornografia gay. Intitolato "Poor guys do it better. Ethnic gay pornography and class", l'intervento si è ricollegato all'impegno politico del collettivo di cui Cervulle fa parte, orientato ad una pratica "pornografica" anticolonialista, antirazzista, antisessista e promotrice di uno sguardo liberatorio verso ogni tipo di sessualità. A ricordare le difficoltà legate alla rappresentazione pubblica della sessualità "differente" e "libera", è stata la sospensione della performance della parigina Shu Lea Cheng in programma per la serata conclusiva del Symposium. Abbiamo chiesto a Tim Stüttgen le ragioni di tale sospensione. Tim ci ha risposto che, se il motivo principale è stato quello di "tutelare" performer e pubblico (la performance era, infatti, del tutto improvvisata e avrebbe coinvolto sia gli speakers sia il pubblico che non sapevano a che cosa sarebbero stati esposti), sicuramente le perplessità avanzate dallo staff del teatro, uno dei principali della città, rispetto ad atti sessuali "liberamente performati" sul palco e in platea, è stata determinante.
Il Symposium è stato accompagnato da party estemporanei che hanno permesso a organizzatori e partecipanti di conoscersi e progettare insieme i prossimi eventi internazionali, tra cui il party organizzato dallo staff della competizione di corti porno "Cum2Cut" allo storico Barbie Deinhoff (un locale queer di Kreuzberg) che prende il nome dalle numerose bambole Barbie esposte in vetrina e dietro il bancone, famoso per happening musicali e artistici. Due giorni dopo la chiusura del Symposium è stato ufficialmente inaugurato il Porn Film Festival Berlin che si è aperto con le proiezioni, al cinema Kant Kino in Kantstrasse 54, della famosa pellicola della regista francese Virginie Despentes Baise-moi , del cult-movie "cyber-porno" giapponese I. K. U e con la rassegna di corti a tematica lesbica.
Abbiamo intervistato l'organizzatore Jürgen Brüning, un veterano dell'ideazione e della produzione di film "sulla sessualità" che da Berlino a New York lavora da più di vent'anni con Bruce LaBruce, Ela Troyano e Maria Cyber esplorando le connessioni tra cultura punk, arte performativa e cinema porno. Oggi è il direttore degli studios Wurstfilm specializzati nella produzione di film porno a tematica gay. Brüning ci ha raccontato che l'idea del festival è nata dalla proposta dell'amica studiosa e scenografa Maria Cyber, una delle prime attiviste della scena lesbica e gay di Atene, che gli aveva proposto di organizzare un festival di arte performativa sulla sessualità: Brüning decise di mirare più in alto e di realizzare il primo Porno Film Festival berlinese. Fece girare la notizia e cominciò a ricevere le prime richieste di partecipazione e i primi film. «L'organizzazione del festival non è stata particolarmente difficile - spiega Brüning - sia per il fatto che il Kant Kino, il cinema che ha ospitato l'evento e che normalmente non organizza festival, si è reso immediatamente disponibile, sia perché la rete di sponsor legata agli studios Wurstfilm e al mondo gay e lesbico, ha accolto con entusiasmo il progetto».
Gli sponsor principali sono stati la BlueMovie che produce film erotici per la televisione, la Beate-Uhse, la più grande catena europea di distribuzione di sextoy per i sexyshop, la stessa Wurstfilm production, la Inflagranti Film Production di Berlino e numerose riviste gay e lesbiche berlinesi. La ottima realizzazione del Festival, sia per le presenze, sia per l'attenzione mediatica prestata all'evento - di cui hanno parlato i più importanti giornali e riviste berlinesi - è dipesa dal duro lavoro dei volontari, degli amici e delle reti gay, lesbiche e transgender locali. La reazione all'evento è stata positiva, anche se, «ma c'era da immaginarselo, i politici interpellati dai media sull'evento hanno taciuto o hanno cambiato discorso con imbarazzo». Abbiamo chiesto a Brüning cosa è cambiato nell'immaginario collettivo berlinese e non solo, dalla famosa notte in cui, nel 1977, l'attivista femminista Alice Schwarzer (direttrice del giornale per sole donne Emma ) irruppe con un gruppo di donne anti-pornografia alla prima proiezione di Gola profonda al Kölner Cinedom di Berlino buttando all'aria il foyer del cinema.
L'organizzatore del festival ha risposto che «molte cose sono successe da quegli anni, prima fra tutte la "rivoluzione" nell'immaginario operata dai movimenti queer». Se nella critica femminista la pornografia coincideva con la celebrazione del desiderio maschile e, di conseguenza, con la scomposizione, oggettificazione e mercificazione del corpo femminile, che veniva identificato esclusivamente come «corpo per la produzione del piacere dell'uomo», la riabilitazione di questo linguaggio visivo è stata operata dall'attivismo gay, lesbico e trans. Esso ha utilizzato la «rappresentazione della sessualità differente attraverso il porno come strumento per dare legittimità al discorso pubblico sulla sessualità non eterosessuale ». In tal senso la pornografia indipendente, "orizzontale", "punk" e autoprodotta, nata dal lavoro teorico e creativo di singoli/ e e collettivi che è stata resa pubblica e fruibile da tutti attraverso il Porn Film Festival di Berlino è ancora uno strumento "dirompente", in grado non solo di eccitare il pubblico in sala, ma di creare "senso", "discussione" e "condivisione" attorno alla sessualità e alle sue molteplici e infinite rappresentazioni.

Liberazione Queer 11.1.09 p 11
28 giugno 2008 / Evento mondano controllato dalle case editrici, il Premio Strega è diventato il simbolo di un mercato editoriale che ha perso la bussola. Noi non ci siamo arresi
A morte il Premio Strega. Le nostre battaglie contro l'omologazione della critica letteraria
di Nicola La Gioia


Sarebbe potuto essere il nostro National Book Award, e invece il Premio Strega è ancora l'equivalente letterario di Sanremo.
A parte certe note positive degli ultimi tempi (la vittoria di Caos calmo , la possibilità che un esordiente assoluto come Giordano possa giocarsela con Rea - ma già il fatto che la cinquina sia nel migliore dei casi una lotta a due deve dare da pensare), se si guarda l'albo d'oro del premio nell'ultimo quarto di secolo, la scollatura tra vincitori e "letteratura reale" è angosciosamente lampante.
Credo sia difficile negare che libri come Altri libertini, Seminario sulla gioventù, Tu, sanguinosa infanzia, Troppi paradisi, Romanzo criminale, Un amore dell'altro mondo e perfino (mi voglio rovinare) Castelli di rabbia di Baricco siano ad esempio entrati bene o male nella recente storia letteraria del nostro Paese, mentre Il Natale del 1883 di Mario Pomilio (vincitore dello Strega) quasi esclusivamente sui documenti ufficiali del premio - eppure, i nomi di autori veramente rappresentativi come Tondelli, Busi, Pincio, Siti, Mari non hanno mai avuto accesso al Ninfeo di Villa Giulia (sede della finale Strega) o lo hanno fatto (il caso di Giuseppe Montesano e Luther Blisset) solo come splendidi outsider destinati alla sconfitta, o alla non-vittoria, da prima ancora che le votazioni avessero inizio. Insomma, un po' come se a Sanremo ci andassero Paolo Conte e Vinicio Capossela: di fatto tra i migliori talenti della nostra musica leggera, ma sul palco dell'Ariston destinati quasi sempre a diventare i secondi dei pur onesti Toto Cutugno o Lola Ponce. In teoria, dovrebbero essere i 400 Amici della domenica (una giuria selezionata di scrittori, critici, operatori culturali e senatori a vita) a determinare il vincitore del premio, scegliendo in base alle proposte di almeno due di loro i libri in concorso e, rispetto alla sensibilità e ai gusti squisitamente personali di ciascuno, i finalisti e dunque i vincitori. Di fatto, si tratta di un premio quasi esclusivamente in mano agli editori. A proposito di senatori a vita… poiché la lista dei 400 si rinnova - a parte i rari casi di abbandono volontario - secondo criteri perlopiù tanatologici (un "amico della domenica" passa a miglior vita, dentro un altro…) si è purtroppo creato negli anni un meccanismo quasi "naturale" in base a cui ciascun editore (grande o piccolo) cerca di sfruttare le proprie forze per attrarre verso la causa del proprio libro in concorso quanti più Amici della domenica possibili. Con la conseguenza che cinquina e vincitore sono solo in piccola parte il risultato della preferenza espressa in totale autonomia da ogni singolo votante e rispecchiano invece per lo più le proporzioni dei rapporti di influenza (e le loro relative variazioni, un anno dopo l'altro…) delle singole case editrici. Inutile scandalizzarsi troppo. Solo per fare un esempio tra i tanti possibili: se è la stessa formula del premio a favorirlo, è effettivamente difficile - e molto umano - che un "amico della domenica" che sia anche un autore di lunga data di una casa editrice (o addirittura un giornalista o un critico che lavori per quella casa editrice: basti pensare che Rizzoli è tra le altre cose anche l'editore del Corsera o che Mondadori è proprietaria di Einaudi…) non decida di votare il libro in concorso per quest'ultima, senza che la qualità letteraria la faccia da padrone. Qualità che non viene necessariamente privilegiata neanche dagli editori al momento di "mandare" un libro in concorso: più che alla forza del libro, ci si affida ad esempio all'autorevolezza dell'autore sperando in un premio alla carriera (il caso di Ermanno Rea di quest'anno), o a questioni di semplici tirature (il caso di Ammaniti, mandato allo Strega probabilmente perché Come Dio comanda stava andando decisamente meno bene di Io non ho paura ). Anche in questo caso: tenendo conto del meccanismo che si è creato, è naturale che gli editori ragionino così. Non resta che affidarsi ai cani sciolti. Ma a parte il fatto che ce ne sono pochi, molti dei votanti per così dire "autonomi" non è detto che abbiano il polso della situazione: il senatore a vita Giulio Andreotti o Susanna Agnelli (entrambi Amici della domenica) non mi sembrano degli assidui frequentatori della letteratura italiana contemporanea, e lo stesso si potrebbe dire per Nantas Salvalaggio, noto più che altro alle agiografie musicali per la canzone di Vasco Rossi (è lui «quel tale / che scrive sul giornale» di "Vado al massimo").
Chi scrive, lavora per una casa editrice che negli scorsi anni ha mandato i propri libri allo Strega con alterne fortune. E' andata insomma come ci si aspettava e spesso come si sperava che andasse. Ma ogni volta che qualcuno (io ad altri editori, altri editori a me; io ad altri autori, altri autori a me…) esprimeva perplessità sulle dinamiche dei giochi, la risposta automatica era un'alzata di spalle, come a dire: "è lo Strega, baby". Ma una situazione in cui si pretenda che la controparte del cinismo sia necessariamente la dabbenaggine non può non considerarsi sconfortante. Con lo Strega temo insomma si sia creato uno di quegli stalli squisitamente italiani in cui tutti hanno colpa e nessuno ha colpa. Le conseguenze di questa situazione sono preoccupanti. Il premio fa vendere e ha risonanza, ma in questo modo: 1) spesso non è la qualità a essere premiata e dunque frequentata da quei lettori (non sono pochi) per i quali la fascetta "vincitore" ha un senso; 2) i libri che vincono lo Strega vengono quasi sempre tradotti all'estero: ma così non esportiamo la nostra migliore letteratura, con tutte le conseguenze - non è un caso che il Don De Lillo di Rumore bianco o il Philip Roth de Il teatro di Sabbath (entrambi vincitori del National Book Award) siano libri che ci fanno giustamente valutare con entusiasmo la letteratura statunitense contemporanea; ma i lettori statunitensi o inglesi o francesi alle prese con L'armata dei fiumi perduti di Carlo Sgorlon o Passaggio in ombra di Mariateresa Di Lascia (ovvero i corrispettivi per quegli anni di Roth e De Lillo secondo il più importante premio letterario italiano) non rischiano, probabilmente a torto, di considerarci una cultura di serie B?; 3) i concorrenti dello Strega, a meno che non siano degli ingenui totali, sanno che a essere premiato non sarà tanto il loro libro, ma soprattutto gli sforzi della loro casa editrice, e questo non può non essere almeno un po' umiliante per il loro talento e la loro intelligenza. Per tutti questi motivi, mi appello a Tullio De Mauro, presidente da quest'anno del Premio Strega. Caro De Mauro, lei ha una storia importante ed è una persona autorevole: cerchi di rinnovare il premio. Provi a mutare formula, o apporti altri cambiamenti, ma faccia in modo che la cultura italiana (anche attraverso lo Strega) non sia uno specchio fedele dei problemi di questo Paese ma agisca come una vera forza di cambiamento. Amministrare bene non basta: è necessaria una spallata. In fondo, lo Strega nacque per questi motivi: dare un segnale di rinascita nell'Italia appena uscita dalla guerra. Noi non abbiamo avuto una guerra, ma veniamo dai peggiori vent'anni di storia repubblicana: la situazione ha bisogno dello stesso entusiasmo e dello stesso coraggio che spinse sessant'anni fa il gruppo Bellonci a istituire il premio.
Naturalmente, oltre che a De Mauro, l'invito è a tutti quanti noi - giornalisti, scrittori, editor, e a qualunque intellettuale che non sia già completamente un funzionario: inutile indignarsi sui conflitti d'interesse altrui, se poi non serve a seminare d'etica anche il proprio orticello. È una questione di coscienza e di come guardarsi allo specchio prima di andare a letto: e De Mauro (onori e oneri) sarà il primo a dover gestire il problema.

l'Unità 11.1.09
«Concorrenza sleale» la nuova ondata
di Furio Colombo


Il boicottaggio contro i «negozi degli ebrei» e il preside che dichiara «l’attualità di Evola»: un percorso di odio che parte da lontano

Penso a molti lettori de l’Unità ed elettori del Pd che hanno letto la notizia del boicottaggio dei negozi ebrei invocato, nei giorni scorsi, da un sindacato del commercio romano. La notizia ha subito fatto ricordare la celebre fotografia in cui si vede una ragazza ridente intenta ad affiggere su una vetrina di Roma il cartello su cui è scritto «questo negozio è ariano». La fotografia serve a capire che il boicottaggio con cui si volevano punire i commercianti ebrei era solo in apparenza dovuto all’offesa per la vasta operazione militare israeliana che tenta di sradicare Hamas dai suoi immediati confini, con molte vittime fra la popolazione.
Infatti l’azione proposta (boicottaggio) era identica a quella adottata quando gli ebrei erano soli e dispersi (anche se credevano di essere cittadini italiani), non avevano eserciti e potevano essere tranquillamente arrestati in casa da rappresentanti legittimi dello Stato italiano, espulsi dalle scuole del regno e perseguitati da leggi italiane dette «per la difesa della razza». Segno che per la pura razza italiana gli ebrei erano un pericolo.
Rievocando il giorno in cui è comparso per la prima volta sulla vetrina di un negozio italiano la scritta «questo negozio è ariano» Ettore Scola aveva intitolato un suo bellissimo film “Concorrenza sleale”. E di concorrenza sleale stiamo ancora parlando. Perché il boicottaggio romano dei giorni scorsi è stato, da prima e impetuosamente, invocato «contro i negozi degli ebrei» e soltanto dopo il soprassalto di stupore di molti è diventato «richiesta di boicottare i prodotti israeliani» che, come si sa, sono molto pochi in Italia, mentre è alta e remunerativa l’esportazione italiana in Israele, dove nessuno ha raccomandato una «ritorsione verso l’Italia». Solo stupore.
Lo stupore è anche nel dover constatare che i cittadini italiani ebrei vengono visti come «israeliani» in caso di colpa o presunta colpa o comunque di controversia intorno a quel Paese.
Viviamo in tempi in cui Umberto Terracini, il grande antifascista e deputato comunista che ha firmato la Costituzione, verrebbe chiamato a scusarsi per ciò che sta accadendo a Gaza in quanto ebreo, oppure a proclamarsi non ebreo. Attenzione però. Non dite che la nuova ondata di «concorrenza sleale» che si sta abbattendo sull’Italia trova una sua umana giustificazione adesso, nella mano pesante dell’esercito israeliano. Nel mese di ottobre, all’inizio dell’anno scolastico, nessun evento internazionale o esasperazione umanitaria può avere indotto il docente di Storia della Accademia di Belle Arti di Roma ad ammonire gli studenti che non c’è mai stata né Shoah né persecuzione degli ebrei, che si è trattato di un loro complotto per assicurarsi vantaggi e mano libera negli affari del mondo. Solo la ribellione di alcuni studenti ci ha fatto sapere l’incredibile notizia.
C’era ancora tregua e speranza di pace il 22 novembre, in Medio Oriente, quando il preside del Liceo Parini di Milano, Carlo Pedretti, ha ordinato ai bidelli di distribuire agli studenti del liceo e alle due classi del ginnasio il volantino che invitava i ragazzi a partecipare, il 28 novembre, al convegno «Attualità del pensiero di Julius Evola». Attenzione alla parola «attualità». Due insegnanti, Fiorenza Bevilacqua e Vanna Lora, si sono opposte in tutti i modi ma il preside ha tenuto duro e molti colleghi si sono defilati secondo la buona regola appresa ai tempi delle leggi razziali: mai impicciarsi nei fatti che non ti riguardano.
Ma attenzione: anche la collezione di svastiche e croci celtiche apparse improvvisamente nella notte di sabato a Roma sulle saracinesche di negozi che erano già stati individuati e «tenuti d’occhio» perché ebrei, anche questo nuovo gesto non dimostra esasperazione emotiva o scatto di nervi dovuto alle drammatiche notizie dei telegiornali. Le scritte «Hamas vince», «Sion boia», «Israele deve morire», «Gesù non era ebreo», «Alemanno topo sionista», sono il proseguimento di un progetto, in cui tutti sono colpevoli se osano stare dalla parte degli ebrei.
Non c’è trasalimento, c’è continuazione di un percorso di odio cominciato molto prima, diretto molto più lontano. Quanto lontano? Lo dice un’altra delle scritte che sto citando: «Fuori gli ebrei (gli ebrei, non gli israeliani, ndr) dalla galassia». Cioè dal diritto di esistere. E’ un odio solido, radicato, antico che spiega molto anche della politica di questi giorni. Il vero punto non è se l’operazione militare israeliana sia eccessiva o sia un errore. Il vero punto è: «Ebrei fuori dalla galassia».
Tutto ciò non è per parlare d’altro e non del dolore per i tanti bambini e i tanti civili che stanno morendo in queste ore. Ma per ricordare quanto più tragica sia l’inquadratura di questo terribile film. In esso possono esservi scene di una distruzione molto più grande, intorno a cui, purtroppo, ci sarebbe silenzio. La storia, anche la storia di questi giorni, insegna.

l'Unità 11.1.09
Amate da morire
Lo scandalo infinito della strage delle ex fidanzate
di Federica Fantozzi


Pena ridotta per l’assassino di Sanremo. Ma i casi si ripetono
in tutt’Italia, spesso preceduti da vane denunce.
I magistrati: migliaia di querele impossibile verificarle

Le prede vengono spiate, inseguite, braccate, isolate da chiunque possa proteggerle, ammutolite con minacce di ritorsioni, poi aggredite e, a volte, uccise. I cacciatori hanno gioco facile: sanno dove abitano, conoscono le loro abitudini, spesso possiedono le chiavi di casa.
Uomini che odiano le donne, direbbe lo scrittore svedese Stieg Larsson, autore di una trilogia che scava nella violenza di famiglia, nei frutti marci degli alberi genealogici. Uomini che dietro gli sproloqui sull’amore sono ammalati di possesso. Ex mariti, ex compagni, ex amanti, ex brevi flirt senza importanza, che avvertono le vittime con agghiacciante lucidità: «Se non torni con me ti ammazzo», «Io finirò in galera ma tu al cimitero».
Ma i colpevoli di questa persecuzione (in inglese si chiama stalking: appunto, incalzare la preda, e il relativo disegno di legge è arenato in Parlamento) in cella finiscono di rado, per poco tempo e quando è troppo tardi. Il tribunale di Sanremo ha condannato a 16 anni di carcere Luca Delfino che l’agosto 2007 uccise con 40 coltellate la fidanzata Antonella Multari. La madre della vittima è svenuta in aula, il padre ha avuto parole rabbiose contro il vuoto di giustizia.
Adesso Delfino, 32enne dallo sguardo gelido e la barba da santone con «personalità sadica e narcisista», tra 4 anni potrebbe ottenere un permesso e tra 6 essere libero. Lei, ragazza dai capelli lucenti e dal sorriso solare, è stata ridotta a una bambola di sangue sul corso della cittadina ligure in pieno giorno, appena uscita da un beauty center alla vigilia del suo compleanno. Lui è stato arrestato con il coltello sporco di sangue tra le mani guantate di lattice, accanto alla moto rubata su cui aveva pedinato la donna colpevole di voler vivere senza di lui.
Non è un caso unico. Dell’uccisione di Barbara Cicioni, picchiata e soffocata all’ottavo mese di gravidanza, è accusato il marito Roberto Spaccino, da lei più volte denunciato per violenze. Della morte di Silvia Mantovani, studentessa parmigiana di 27 anni, è imputato l’ex fidanzato Aldo Cagna: si erano lasciati da anni, lei frequentava un altro, ma liti e discussioni continuavano e «lui la cercava in modo ossessivo». Due badanti ucraine sono state assassinate nel Bergamasco: reo confesso il 67enne Anacleto Roncalli, ex marito di una delle due. Lei, Nataliya Holovko lo aveva denunciato due volte per violazione di domicilio e minaccia. Eppure secondo il procuratore di Bergamo nulla lasciava presagire il dramma: «Ogni anno raccogliamo 5mila querele per minacce, percosse e ingiurie. Impossibile verificarle tutte».
Amen, verrebbe da dire. Perchè a scorrere le brevi di cronaca, dietro i delitti ci sono quelli evitati di un soffio, come Natacha, romena 42enne che ha schivato il fendente al cuore rannicchiandosi in posizione fetale: per la violenza la punta del coltello si è spezzata contro il ginocchio. Ci sono odissee, come per la commessa 37enne sequestrata dall’ex fidanzato con un complice, minacciata con una pistola alla testa, salvata dai carabinieri. C’è forse l’ultimo brutale stupro di Roma: gli inquirenti ipotizzano che l’autore sia qualcuno di conosciuto che la vittima teme troppo per denunciare.
Per tutte una tela vischiosa fatta di telefonate mute, sms minacciosi, agguati nei luoghi cari, pneumatici sgonfiati. Un’angoscia solida e duratura che, spesso, lega più persone. Come le due donne di Trento senza niente in comune salvo le violenze dello stesso uomo che si sono incatenate davanti al tribunale di Trieste per protesta contro la scarcerazione.
E come Luciana Biggi, ballerina trovata nel 2006 nei carruggi di Genova con la gola squarciata da un coccio di bottiglia. Per questo omicidio è indagato l’ex fidanzato Luca Delfino, che con Antonella avrebbe solo replicato il copione. Se lo condanneranno dopo l’approvazione della legge sullo stalking la pena obbligata sarà l’ergastolo.

l'Unità 11.1.09
Beppino Englaro:
«Incivile un paese che non sa attuare le sentenze»
di Federica Fantozzi


«Non vogliamo decidereal posto di Eluana, ma con lei» dice a Fazio, a «Che tempo che fa»
Le ragioni della battaglia:«Ora una legge sul testamento biologico, senza paletti inaccettabili»

Alla vigilia della decisione della clinica di Udine sul ricovero di Eluana, il padre rompe il silenzio: «Finora hanno deciso sempre gli altri, in 17 anni non siamo riusciti a rispettare la sua volontà».
Da 6204 giorni Eluana Englaro è in coma. Il 18 gennaio saranno 17 anni da quel fatale incidente d’auto. «L’Eluana ci aveva dato indicazioni precise, in tutto questo tempo non siamo riusciti a rispettarle pur avendo esperito tutti i gradi della giustizia». È tutta qui l’amarezza di Beppino: l’impossibilità di far capire al mondo che per sua figlia «la vita era la libertà».
Alla vigilia della decisione della clinica “Città di Udine” se accogliere o meno Eluana, suo padre rompe il silenzio che aveva imposto a se stesso e chiesto a media e politica per raccontare la sua storia alla platea di “Che tempo che fa”.
Incassato nella poltroncina bianca, addosso la solita giacca scura sulla camicia, sembra piccolo e quasi sperduto nello sfondo blu elettrico dello studio. È venuto a presentare il libro sulla vicenda di Eluana scritto con la giovane studiosa di bioetica Elena Nave. A testimoniare la sua incredulità: «Non mi aspettavo che dopo la sentenza della Corte di Cassazione intervenisse qualcos’altro. Invece Sacconi ha convinto la clinica a fare approfondimenti tecnico-amministrativi». Alla famiglia non resta che un supplemento di attesa.
Englaro spiega perché staccare il sondino è la sospensione di una cura e non una forma di eutanasia: «È alimentazione forzata, un presidio terapeutico che non ha niente a che vedere con la naturalità». Lei non mangia. Non deglutisce: «Il resto sono deliri». Fabio Fazio avverte che «qui le parole devono avere rispetto enorme», cita la ballata di Guido Ceronetti per lei «priva di morte e orfana di vita», chiede se davvero Eluana avesse un’opinione così netta. «A dieci anni ci ha chiesto: cosa c’entrate voi con la mia vita?» risponde Englaro che cita le testimonianze delle amiche, tali da convincere i giudici. «Ormai è tutto chiarito - spiega - Vogliamo decidere non al posto o per Eluana ma con lei».
Fazio domanda perché abbia scelto «ostinatamente la via del diritto» anziché battere strade meno esposte e più indolori: «Guardi Fabio, la vera libertà è dentro la società. E dentro la società ci si muove così». In qualche momento del lungo cammino ha vacillato? «Mai. Era un tacito patto di sangue in famiglia. Per il rispetto assoluto di noi stessi e degli altri». Cosa si prova ad essere giudicati da tutti? «È meglio aver contro il mondo intero che me stesso - risponde Beppino - La prima cosa non dipende da me».
Poche parole sull’accanimento sanitario: «È mancata la possibilità di venire incontro alle libertà fondamentali della persona. Trovarsi scoperti perché in condizioni di incapacità di intendere e volere è inaccettabile». Per questo, osserva, serve una legge sul testamento biologico: «Un testo semplice, senza i paletti di cui sento parlare perché gli italiani si ribellerebbero. Non si può vietare di interrompere la nutrizione artificiale, sarebbe una discriminazione».
Solo all’ultimo affiora lo sconforto: «Finora per l'Eliana hanno deciso sempre gli altri creandoci situazioni paradossali. Viene da pensare che in Italia non ci sia un minimo di civiltà. Non lasciare attuare una sentenza passata in giudicato è preoccupante per una nazione. Ma è una situazione in cui potremmo trovarci tutti: chiamarsi fuori è pericoloso».
La decisione di papà Englaro è stata criticata dal foglio” di Giuliano Ferrara che alla vicenda ieri dedicava ben due articoli. Un editoriale dal titolo «Silenzio stampa sì, ma non per Fazio» e una lettera aperta al conduttore televisivo da parte di Fulvio De Negras, direttore del centro studi “Gli amici di Luca” con la richiesta di «dare voce» anche a persone che vivono la stessa vicenda «in modo propositivo».

Repubblica 11.1.09
Visionari: Werner Herzog
di Leonetta Bentivoglio


Radicale, ossessivo, segnato da una brama insaziabile di eccessi, il regista di "Aguirre" e "Fitzcarraldo" si dedica adesso alla lirica. "La prima volta che andai all´opera", racconta, "fu alla Scala Il cantante fu insultato dal pubblico, mi affascinò quella pazzia". Misterioso, elusivo, avido di utopie, a 67 anni coltiva un progetto segreto: mettere in scena Wagner a Sciacca, "in un teatro fantasma che non è mai stato aperto"
I film non hanno vita lunga, si deteriorano troppo Mentre Virgilio, Hölderlin e Rimbaud, quando tutto finirà, saranno l´ultima cosa a scomparire

Valencia. Grande visionario, radicale e ossessivo, voglioso di forzare i limiti del possibile, calamitato dai disastri per vocazione congenita. Il regista tedesco Werner Herzog è così: attratto irresistibilmente dalle catastrofi. Per questo ha progettato di mettere in scena le opere di Richard Wagner in quell´obbrobrio senza storia né identità che è il teatro di Sciacca in Sicilia, «edificato qualche anno fa probabilmente con i soldi della mafia», racconta. «È un teatro fantasma che non è mai stato aperto: nessuno lo gestisce, nessuno ci lavora, nessuno lo ha inaugurato; non ha passato né presente né futuro. Sorge come un gigante di cemento ricoperto da erbacce e circondato da una rete metallica come un lager. Perfetto per il wagneriano Anello del Nibelungo, in particolare per il capitolo conclusivo della saga, Il crepuscolo degli dei, dove le fiamme divorano il Walhalla decretando la fine di ogni olimpo. Ho sognato di realizzare proprio a Sciacca la messinscena del ciclo, e se il progetto fosse andato in porto avrei fatto saltare in aria l´edificio prima dell´ultimo atto del "Crepuscolo", dopo aver sistemato pubblico, orchestra e cantanti a una distanza di sicurezza. Una volta scesa la cortina di polvere, gli interpreti avrebbero rappresentato il finale sopra le rovine. Avevo già contattato un team di esperti di demolizioni che sarebbero arrivati apposta dal New Jersey. Ma il cemento con cui è fatto il teatro è così solido, pesante e abbondante che ci vorrebbe una quantità mostruosa di dinamite per buttarlo giù, e si distruggerebbe mezza città».
Non è uno scherzo. Seduto nel suo camerino dell´avveniristica Opera di Valencia, dove ha appena montato la regia di un nuovo Parsifal diretto da Lorin Maazel, Herzog parla con estrema serietà. D´altronde lo fa sempre. Mai che sorrida, o suggerisca squarci di humour, o si conceda un attimo di senso leggero della vita. Niente incrina il muro della sua furia fredda, della sua fanatica (e molto germanica) concentrazione sui propri obiettivi, della sua brama insaziabile di eccessi. Anche per questo, dice, ama la dimensione della lirica, un mondo che degli eccessi ha fatto la sua linfa: «La prima opera che vidi, molti anni fa, fu Ernani alla Scala, pensavo a un rito e invece fu un gran macello, un cantante aveva problemi di voce e scoppiò la gazzarra, con spettatori scatenati che gridavano insulti verso il palcoscenico. Mi affascinò quella pazzia ingiustificata, quella corrida di artisti mandati allo sbaraglio come gladiatori, pronti a farsi divorare da un pubblico sadico, eccitabile, assetato di massacri».
Herzog prese ad allestire opere liriche relativamente tardi, a metà anni Ottanta, quand´era già famoso come cineasta, e una delle sue prime produzioni operistiche fu un Lohengrin nel tempio wagneriano di Bayreuth: «Wolfgang Wagner, direttore del festival, mi chiamò per propormi di montarla. Risposi: non ne so niente, ho solo il vago ricordo che nella trama ci sia di mezzo un cigno, dunque lasciamo perdere, ho altro da fare. Lui non poteva credere che rifiutassi di lavorare nel regno sacro della musica tedesca. Così volle mandarmi la sua registrazione preferita dell´opera e mi avvertì: se dopo aver sentito questo disco sei della stessa opinione non insisto più. E ascoltando il preludio il mio cuore si fermò».
Tuttora la bella musica lo inebria e lo esalta, anche quella di Parsifal, messaggero di salvezza e puro folle destinato a redimere l´umanità, immesso da Herzog in uno spettacolo netto e sontuoso siglato da un finale genere Star Wars, con lancio di astronave nello spazio quando l´eroe scopre il Santo Graal. Traduce Wagner in fantascienza perché la sua musica, sostiene, «ha una straordinaria potenza profetica e futuristica: va oltre il Ventesimo secolo, vola persino al di là del tempo».
Anche Herzog, che è nato a Monaco di Baviera nel 1942, e oggi vive a Los Angeles con la sua ultima, graziosa moglie Lena Pisetski («è americana ma originaria della Siberia»), insegue fin da giovane e senza mai fermarsi il proprio Santo Graal. Non a caso, all´epoca dei suoi film più apocalittici e imponenti, qualcuno lo definì «il Parsifal bavarese». Figlio di due biologi e cresciuto in piena campagna, da enfant sauvage immerso nella natura e ignaro di ogni strumento tecnologico («solo da adulto conobbi radio e televisione, non vidi un´automobile fino all´età di dodici anni e feci la mia prima telefonata a diciassette»), dagli anni Settanta ha concepito un cinema grandioso e impegnativo nell´aspirazione a una Natura maiuscola, tanto aggressiva quanto spettacolare coi suoi ghiacciai inaccessibili, le sue aggrovigliate foreste amazzoniche, i suoi oceani da svelare come mitiche galassie.
Luoghi angoscianti per metafisica bellezza, fotografati ed esplorati in film di culto come Aguirre, furore di Dio, nato da una lavorazione in Perù talmente piena di avversità da indurlo a puntare una pistola su Klaus Kinski, che voleva abbandonare le riprese; o Fitzcarraldo, il cui protagonista - ancora Kinski, divenuto suo attore feticcio - fa trasportare agli indios una nave oltre una montagna, nel mezzo della giungla brasiliana; o Cobra Verde, con un sempre più allucinato Kinski nel ruolo di un feroce mercante di schiavi; o Grido di pietra, scritto con Messner, dove gli scalatori puntano alla conquista del Cerro Torre, in Patagonia. Opere leggendarie ed estranee ad etichette, che hanno finito per sottrarlo al filone del "Nuovo cinema tedesco", pur tanto vago nell´eterogeneità dei suoi frutti, che vanno dalla passionalità iconoclasta di Fassbinder alle parabole cerebrali di Wim Wenders. Herzog è un autore a parte, misterioso ed elusivo, avido di utopie, sospinto dalla ricerca maniacale di quella «verità estatica» (lui la chiama così) che non la cronaca e la realtà ma solo la reinvenzione e stilizzazione del cinema e della letteratura possono restituirci.
Rispetto ai granitici kolossal di un tempo, talmente intrepidi ed estenuanti da far correre il pericolo di confondere ogni film con la storia della sua realizzazione, oggi il lavoro di Herzog si è fatto molto più agile e frammentato. Negli ultimi anni, oltre alle regie di lirica, crea soprattutto sensazionali documentari, dallo sconvolgente Apocalisse nel deserto, viaggio nel Kuwait martoriato dalla Guerra del Golfo, a Grizzly Man, dedicato a Timothy Treadwell, ritiratosi nel �90 in Alaska per osservare la vita degli orsi bruni americani da cui finì sbranato; da L´ignoto spazio profondo, sui tesori psichedelici dei fondali marini, alle rivelazioni abbaglianti di Encounters at the End of the World, girato al Polo Sud, «là dove il tempo non esiste più, e cinque mesi sono come un giorno solo. Il sole ti gira attorno, guardi in un punto e sono le dieci del mattino, ti volti un poco e sono le sei di sera, ti muovi ancora e sono le ventitré. I fusi orari convergono, scegli quello che vuoi, e ciascuna delle direzioni verso cui guardi è sempre nord. Non c´è alcun tempo definibile, spazio e tempo si scambiano e si fondono. Stesso clima del Parsifal: nella confraternita del Graal i cavalieri si uniscono nei loro rituali, e non esiste più nulla del mondo esterno e delle sue convenzioni spazio-temporali».
Attualmente impegnato nella post-produzione del film The Bad Lieutenant, girato a New Orleans (è un remake de Il cattivo tenente di Abel Ferrara, con Nicolas Cage nella parte che fu di Harvey Keitel), Herzog detesta che si distinguano i suoi documentari dalle fiction: «Sono tutti film, e probabilmente il migliore tra i miei documentari è stato Fitzcarraldo». D´altra parte ogni autentico paesaggio «non è solo la rappresentazione di un deserto o di una foresta. Mostra uno stato della mente, orizzonti interiori, ed è l´animo umano il protagonista dei paesaggi del mio cinema».
Col suo spirito romantico (dunque privo d´ironia), vive i suoi panorami paradisiaci ed infernali come motori di quel magico triangolo che lega la natura, lo sguardo di chi la osserva e la percezione di una divinità diffusa; e sa bene che da esso colse grande nutrimento il romanticismo degli artisti suoi connazionali ed antenati. A questo proposito conferma di essere sempre stato sedotto dall´invisibile, «da quella certa luce essenziale che vibra dietro alle immagini di un film, un palpito ineffabile che a volte illumina anche la letteratura». In questa crede moltissimo, «perché i film non hanno vita lunga, si deteriorano troppo, mentre Virgilio, Hölderlin e Rimbaud, quando tutto finirà, saranno l´ultima cosa a scomparire».
Anch´egli è autore di libri, tra cui predilige La conquista dell´inutile (Mondadori, 2007), ed è giunto alla conclusione che «scrivere è quello che so fare meglio, il che mi piace, vista la resistenza delle opere scritte». Dice che ha appena rivisto un suo vecchio film, La Soufrière, «girato in un´isola caraibica che stava per essere distrutta da un´eruzione: lo realizzai sulla cima del vulcano, e l´intera pellicola ha perso i suoi colori tranne il rosa. Lo feci solo trent´anni fa ed è questo il risultato che rimane: un film rosa. C´è più stabilità nella letteratura che nel cinema così come le spugne sono più resistenti dell´uomo. Di certo ci sopravviveranno, al pari di scarafaggi e rettili, tanto più antichi e robusti di noi».
Sulle sorti del genere umano è ovviamente pessimista, nel senso che considera evidente che «la nostra esistenza su questo pianeta è insostenibile. Siamo creature instabili, e notoriamente la terra è soggetta a cicli di estinzioni. Non so se ce ne andremo tra due secoli o duecentomila anni, e aggiungo che non m´importa né mi rende nervoso. Al momento mi preoccupa di più il destino di certi meravigliosi fossili come l´ammonite».

Corriere della Sera 11.1.09
E Fassino difende Israele «Hamas il primo colpevole»
Incontro bipartisan con la comunità ebraica. Ronchi: no al terrorismo
di Fabrizio Caccia


Stretta di mano Renzo Gattegna, presidente dell'Ucei, Andrea Ronchi, l'ambasciatore Gideon Meir, Piero Fassino e Riccardo Pacifici, presidente della Comunità ebraica di Roma (Benvegnù-Guaitoli) La serata all'Hotel Parco dei Principi. A Roma il quartiere Parioli blindato per paura di attentati
ROMA — «Dimostriamo a Israele che non è solo», dice rivolta alla platea Joanna Arbib, dell'associazione Keren Hayesod. «Poiché tutti noi condividiamo una storia comune e un comune destino», le fa eco l'ambasciatore Gideon Meir. È questo il senso forte della serata: sentirsi vicini, stare uniti. L'Hotel Parco dei Principi è gremito: dopo lo shabbat sono venuti in tanti, almeno mille persone, per aderire alla manifestazione «Sosteniamo Israele sosteniamo la pace», voluta dal presidente dell'Ucei Renzo Gattegna e da Riccardo Pacifici, presidente della comunità ebraica di Roma. Il quartiere Parioli è blindato, polizia e carabinieri hanno circondato l'albergo, gli artificieri hanno bonificato la sala, si entra con l'invito: l'incubo terrorismo è tornato.
Manifestazione bipartisan. Il Pd è stato invitato e ora c'è Piero Fassino, il ministro degli Esteri del governo ombra, per lui standing ovation quando dice: «La responsabilità è prima di tutto di Hamas perché continua a negare il diritto di Israele ad esistere. Israele ha il diritto di vivere in pace così come i palestinesi hanno diritto ad avere una patria. La pace negoziata e condivisa è l'unica strada possibile. Ma Hamas scelga: o riconosce il diritto di Israele ad esistere e allora sarà anch'esso attore del processo di pace oppure resterà fuori con tutte le conseguenze ». Serata bipartisan. Il ministro delle Politiche comunitarie, Andrea Ronchi, anche lui applauditissimo: «Gli israeliani sono aggrediti e Hamas è l'aggressore perché ha rotto la tregua. La nostra cultura è contro il terrorismo e contro chi non ha il coraggio di dire che Israele ha ragione, contro gli infami striscioni e gli sciacalli che vogliono boicottare i negozi ebrei. Chi in Italia brucia le bandiere è corresponsabile come Hamas». L'Udc è rappresentata da Ferdinando Adornato. Francesco Rutelli ha mandato un messaggio forte: «È giusto che ci sia una radicale e certa cessazione del conflitto a Gaza. Non posso accettare, tuttavia, che si definisca "cessate il fuoco" solo la cessazione del fuoco israeliano mentre si tollera da parte di taluni la continuità del fuoco verso Israele. Pochi si sono preoccupati di definire "sproporzionati" gli attentati suicidi che colpivano la popolazione civile israeliana sino a pochi anni fa». Parterre di lusso: Giancarlo Elia Valori e Fiorella Kostoris, Olga D'Antona e Furio Colombo, Maurizio Gasparri e Fabrizio Cicchitto, Fiamma Nirenstein e Clemente Mimun. In prima fila pure Ottaviano Del Turco, l'ex governatore d'Abruzzo sotto inchiesta per presunte tangenti nella sanità: «Un'associazione terrorista combatte una guerra contro uno Stato democratico. Con chi volete che stia un socialista riformista come me?». Sullo schermo scorrono le immagini di Sderot bombardata dai razzi Qassam, si sente l'urlo della sirena che avverte i bambini israeliani. È l'ora di correre nei rifugi. Ci sono 15 secondi di tempo.

Corriere della Sera 11.1.09
Marco Rizzo Intervista al leader dei Comunisti italiani al Parlamento europeo
«Il Pd sceglie i carri armati? Pensa ai voti»
Veltroni e Fassino hanno capito che stare dalla parte dei palestinesi, ovvero dei più deboli, non porta consensi elettorali
Le ragioni Sono contro lo Stato d'Israele, non contro gli ebrei Se distinguere tra torti e ragioni è essere estremisti, io lo sono
di Fabrizio Roncone


ROMA — «Me lo conferma, vero? Fassino è andato alla manifestazione in favore di Israele e...».
Sì, Fassino è andato.
«Ah, perfetto... Allora adesso voglio proprio vedere quanti avranno il coraggio di spiegare quali sono le vere ragioni che hanno spinto il Pd a sostenere i carri armati... quei carri che stanno compiendo le stragi nella Striscia di Gaza...».
L'intervista continua se riusciamo a mantenere un poco di equilibrio.
«Equilibrio davanti a una guerra così? Cosa sarebbe accaduto se avessero ucciso ottocento soldati israeliani? Eh? Ma lo so, dico cose strane, faccio ragionamenti politicamente scorretti. In fondo, come hanno capito bene Veltroni e Fassino, stare dalla parte dei più deboli, dei palestinesi, non porta voti. Meglio ingraziarsi le lobby dello Stato di Israele che, oggi più che in passato, influenzano profondamente la politica italiana. E allora eccolo lì, Fassino, che addirittura va a manifestare...».
( Marco Rizzo conosce Piero Fassino piuttosto bene: sono cresciuti entrambi nella Torino plumbea degli anni Settanta, solo che mentre Rizzo era un temuto capo del servizio d'ordine nei cortei extraparlamentari di sinistra, Fassino avanzava, già magrissimo, alla testa di quelli organizzati dalla Fgci, cioè dai giovani del Pci. Rizzo poi ha fatto anche il pugile, e il facchino. Biografia politica: tre volte deputato nazionale, oggi guida la delegazione del Pdci al Parlamento europeo insieme a Umberto Guidoni, l'astronauta comunista).
Par di capire che lei abbia un'idea precisa di ciò che sta accadendo a Gaza.
«Io so ciò che è evidente: c'è un esercito armatissimo che aggredisce e una popolazione che, inutilmente, a giudicare dal numero delle vittime, cerca di difendersi».
Hamas spediva razzi su Israele.
«Su questo dovremmo ragionare. Perché è in corso anche un'altra battaglia».
Sarebbe?
«La battaglia mediatica. Per cui i tigì italiani dedicano dieci minuti a un razzo Kassam che fa un buco di venti centimetri su una parete, e poi ne dedicano altrettanti alle operazioni dell'esercito israeliano, che però sta spianando interi quartieri...
D'altra parte, scusi: ha sentito cosa dice il cardinal Martino? Gaza è diventato un campo di concentramento».
Gaza è anche...
«Glielo dico io cos'è anche Gaza: è un luogo dove è in corso una forma di lotta di classe. Tant'è che Hamas riesce ad avere la meglio sulla corrotta Anp e non su tutta Al Fatah, proprio grazie al fatto che fornisce servizi basilari come le scuole, gli ospedali...».
Lo Stato di Israele considera Hamas un'organizzazione terroristica.
«Terroristi? Ah sì? Beh, lo sono tanto quanto lo furono pure i progenitori di Israele, proprio nel tentativo di far nascere quello Stato».
Lei è un estremista, onorevole Rizzo.
«Senta: se riconoscere dove stanno i torti e le ragioni significa essere estremista... sì, scriva pure che sono un estremista».
Non crede che, davanti alle fiamme di Gaza, si debbano misurare le parole?
«Guardi, sia chiara una cosa: io non sono contro gli ebrei. Lo scriva bene, perché io poi lo so che basta un niente per essere fraintesi. Io sono contro lo Stato d'Israele...».
Non si preoccupi, questo s'era capito. Il guaio è che poi con ragionamenti così si finisce magari per fomentare azioni come quella del sindacato autonomo del commercio che a Roma ha proposto di boicottare tutti i negozi romani gestiti da ebrei.
«Iniziativa assurda. O sono dei dementi, e non hanno capito il genere di piacere mediatico che avrebbero fatto a Israele, oppure...».
Oppure?
«Più probabilmente sono stati imbeccati: dite così, fate così... le guerre si combattono anche con i servizi di intelligence, lo sa?».

Corriere della Sera 11.1.09
Via libera del Parlamento, il re promulga la normativa: è la prima volta in Europa di uno Stato cattolico
Belgio: sì alla ricerca sugli embrioni, la Chiesa insorge
Biobanca. La banca degli embrioni «orfani» mai partita in Italia
di Luigi Offeddu


I vescovi: «Siamo agghiacciati, l'essere umano è definito materiale corporeo disponibile per la ricerca»

Il primo caso dopo Londra
Con la legge appena entrata in vigore, il Belgio è il primo Stato europeo cattolico a seguire l'esempio della Gran Bretagna, in cui già dal 2002 è possibile effettuare ricerche scientifiche sugli embrioni umani, creando una «banca» per le staminali di origine embrionale. In Spagna, invece, la legge permette l'uso di tutte le tecniche atte a ottenere cellule embrionali umane a fini terapeutici e investigativi

BRUXELLES — «Alberto II re dei Belgi, a tutti, cittadini presenti e futuri, salve. Le Camere hanno adottato, e noi sanzioniamo, ciò che segue... ».
Comincia con una tradizionale formula di rito la legge che il Parlamento e il governo belga hanno approvato poco prima di Natale, e che il Re ha ora promulgato. Ma è una legge che ha poco di tradizionale, almeno per un Paese cattolico come il Belgio. A cominciare dall'intestazione: «Sull'ottenimento e sull'utilizzazione di materiale corporeo umano destinato alle applicazioni mediche umane o a fini di ricerca scientifica».
In due parole, si ammettono — sia pure con molti distinguo e vincoli — esperimenti e ricerche (articolo 2, comma 1) «su tutto il materiale biologico umano, compresi tessuti e cellule, gameti, embrioni, feti, e le sostanze che ne vengano estratte». La Camera ha approvato il progetto di legge, dopo il Senato, con 95 «sì» e 34 astensioni, senza un solo «no».
Ma il «no», netto e sonoro, arriva ora dalla Conferenza dei vescovi cattolici: «Siamo agghiacciati», perché «l'essere umano in divenire (la frontiera fra l'embrione e il feto essendo fissata alle otto settimane di gestazione)» viene definito «materiale corporeo umano disponibile per la ricerca medica». E tutto ciò, aggiungono i vescovi, «che riduce a un oggetto l'essere umano, costituisce una regressione nel progetto della civilizzazione umanista».
La nuova legge ammette le ricerche medico-scientifiche sul «materiale umano», fissando però una serie di paletti preventivi: queste ricerche devono avere uno scopo «preventivo, diagnostico, terapeutico e scientificamente fondato », devono svolgersi in ospedali o strutture autorizzate e ad opera di personale specializzato, non devono comportare vantaggi materiali (sono previsti solo «indennizzi-spese » per eventuali «donatori» maggiorenni e consenzienti di cellule, organi o tessuti), e così via. Sono inoltre vietati i prelievi di organi o tessuti da una persona «quando le conseguenze sull'organismo del donatore non siano proporzionate », ed è vietato lo «stoccaggio » per fini industriali o anche terapeutici, ma al di fuori delle strutture autorizzate.
La legge precisa anche che sono esclusi da tutte queste disposizioni «capelli, peli, unghie, urina, latte materno, lacrime, sudore».
Ma non è naturalmente per questioni di capelli, che è scoppiata la polemica con il mondo cattolico. È soprattutto per la definizione di «feto», fornita dal legislatore: «l'insieme funzionale di cellule di età superiore alle 8 settimane di sviluppo e suscettibili, nello svilupparsi, di dar vita a una persona umana». Secondo Bran Godeau, presidente del movimento Jongeren Voor Het Leven, «Giovani per la vita », «questa definizione lascia intendere che il feto, e prima ancora l'embrione, non sia una persona».
Sarebbe dunque escluso dalle garanzie fornite dalla legge ai viventi, e inoltre, «degradato al rango di materiale corporeo umano», l'embrione o il feto diventerebbe disponibile alle ricerche «qualunque sia la sua età e il suo stadio di sviluppo, fino alla nascita: una vera rivoluzione per la legislazione belga, che fino a oggi limitava questa disponibilità ai 14 giorni di vita. Un giorno, chissà, potremmo assistere alla produzione di feti-farmaci... ».

Corriere della Sera 11.1.09
Una edizione rinnovata del romanzo pubblicato nel 1904
Cos'è l'amore nel Paese dei ciechi? E Wells saldò scienza e fantasy
di Antonio Debenedetti


Al loro apparire, nel 1904, queste pagine ebbero il fascino inquietante d'una sfida. L'autore vi racconta infatti una storia di fantasia imbastendola inusitatamente col filo d'una appassionata cultura scientifica. Decenni dopo Sergio Solmi, con l'affidabilità della sua severa e illuminante intelligenza critica, avrebbe invitato a considerare il risultato raggiunto, cioè Il paese dei ciechi, come «il più bello dei più bei racconti di Wells».
In seguito a un ruzzolone dalle conseguenze sorprendenti il protagonista, Nuñez, finisce col trovarsi in una vallata persa nell'aspra solitudine delle Ande ecuadoriane. Qui vive, difesa dall'inaccessibilità dei luoghi, un'antica comunità di non vedenti. Ormai da quattordici generazioni, a causa d'un misterioso morbo ereditario, i suoi componenti hanno perso l'uso degli occhi. In compenso il loro udito e il loro tatto hanno acquistato un'estrema sensibilità. Al punto di poter percepire il battito d'un cuore umano a dieci passi di distanza e di disporre d'un olfatto superiore a quello dei cani. Quali siano le conseguenze anche negative di tutto ciò, sul comportamento e sulla vita di questi stranissimi valligiani, Nuñez verrà sperimentando a proprie spese. Tanto che innamoratosi d'una giovane, disposta a corrisponderlo, sarà indotto a compiere una scelta lacerante. Rimanere con lei adeguandosi alla realtà di uomini avvolti nelle tenebre, mutilati della storia, o perderla fuggendo però da quel limbo?
Figlio dell'ultimo Ottocento inglese H. G. Wells, che studiò biologia «sotto il magistero di T. H. Hukley soprannominato il mastino di Darwin» come ricorda Sandro Modeo nella sua effervescente postfazione a questa nuova edizione ( Nel paese dei ciechi, Adelphi, pp. 61, e 5,50, traduzione di Franco Salvatorelli), scelse la letteratura e il successo senza rinnegare la propria formazione scientifica. Si spiegano anche così romanzi come La macchina del tempo, L'isola del dottor Moreau e L'uomo invisibile.
Fatto sta che in Wells, ritenuto con Jules Verne l'iniziatore della science fiction, pensieri, convincimenti derivati dall'evoluzionismo potenziano e incoraggiano l'inventiva. Si traducono in abili spunti narrativi. Il rischio per un autore abitualmente leggibilissimo come lui? Quello di cedere, e a notarlo è stato Borges, alle tentazioni pedagogiche. Cosa che fortunatamente non succede nel Paese dei ciechi

Corriere della Sera Salute 11.1.09
Identità sessuale L'ipotesi, non ancora approvata, nelle nuove linee guida della Società internazionale di Endocrinologia.
Tendenze trans? «Rimandati» in sesso
Fa discutere la proposta di bloccare, nel dubbio, la pubertà fino a 16 anni
di Franca Porciani


Bambine che a tre anni fantasticano sulla barba che avranno da grandi, maschietti che già a cinque all'idea di sostituire la Barbie con la classica automobolina fanno capricci interminabili. Sono le infanzie «diverse»; condizioni che gli addetti ai lavori chiamano in via diplomatica disturbi dell'identità di genere, più esplicitamente transessuali primari (uno su 10.000 il maschio che si sente femmina, una su 30.000 la bimba con simpatie «virili»). Primari per distinguerli dai secondari, legati ad un disagio psichico (spesso c'è una storia di abuso sessuale) che nella maggior parte dei casi si risolve con una terapia adeguata. Questi altri, invece, non «guariscono» e una volta adulti, vogliono, spesso, cambiare sesso. Non tutti, ma in un buon 20 per cento accade.
Se in queste condizioni si ritardasse la pubertà di qualche anno, evitando poi inutili mutilazioni? Lo propongono le nuove linee guida (il documento non è stato ancora approvato ufficialmente) della International endocrine society, un progetto innovativo che sta facendo discutere la stessa comunità scientifica.
La motivazione sembra, in effetti, valida: quando la virilità ha avuto già uno sviluppo completo, cambiare sesso significa mutilare i genitali, togliere barba e peli, asportare il pomo d'Adamo e molto altro ancora. Nel caso della femmina che si sente maschio lo sviluppo delle mammelle, una volta, avvenuto, è reversibile soltanto col bisturi.
Bloccando, invece, lo sviluppo puberale fino a sedici anni (ma prima dei diciotto le stesse linee guida non ritengono consapevole e quindi lecita un'eventuale scelta chirurgica) si dà al ragazzo/a la possibilità di optare poi per l'altro sesso senza interventi pesanti. Una sorta di «limbo» lecito vista l'incertezza di queste condizioni.
«L'idea è dibattuta da tempo - commenta Domenico Di Ceglie, psichiatra infantile trapiantato a Londra da trent'anni, dove dirige l'unico servizio per bambini e adolescenti con disturbi dell'identità di genere esistente nel Regno Unito e uno dei pochi in Europa, presso la Tavistock Clinic — . Già alcuni centri specializzati hanno adottato una strategia del genere, ad esempio quello della Free university di Amsterdam, diretto da Peggy Cohen-Kettenis, che ha una grande esperienza e, non a caso, ha contribuito alla stesura delle nuove linee guida. Strategia che consiste nel somministrare sui 12, 13 anni di età farmaci che bloccano lo sviluppo puberale ai bambini che manifestano queste condizioni: segni di identificazione con l'altro sesso precocissimi e eclatanti che si accentuano con l'inizio dello sviluppo puberale, un profilo psicologico stabile e un contesto familiare equilibrato. E l'esperienza olandese sembra dare buoni risultati. Noi qui a Londra adottiamo una politica più prudente: aspettiamo che la pubertà vada un po' più avanti anche perché i dati ci dicono che dei bimbi che mostrano segni di transessualismo l'80 per cento supera il problema con l'età adulta. È vero che l'atteggiamento attendista porta a cambiamenti del corpo che non possono regredire, ma è altrettanto vero che non sappiamo quanto le terapie che bloccano la pubertà influiscano sull'identità di genere a livello del cervello: c'è il rischio di confondere ulteriormente una situazione già incerta».
I farmaci in questione sono quelli che si utilizzano da almeno vent'anni per curare la pubertà precoce, i casi in cui si rischia di diventare adulti troppo presto con conseguenze pesanti, ad esempio la bassa statura perché si saldano le cartilagini di coniugazione, che consentono l'allungamento delle ossa. «Si tratta di cure collaudate e sicure — conferma Giuseppe Chiumello, direttore del centro di endocrinologia dell'infanzia e della adolescenza dell'istituto San Raffaele di Milano — ma soprattutto senza conseguenze. Appena si sospendono i farmaci, lo sviluppo puberale riprende dal punto in cui l'abbiamo fermato. Ritengo le nuove linee guida una scelta coraggiosa e sensibile. Non dimentichiamo che queste persone vivono fin dall'infanzia una situazione psicologica di grande sofferenza».
Certo è che i transessuali sono ancora un mistero scientifico. «Si sono ipotizzate alterazioni genetiche o ormonali durante la vita intrauterina, ma per ora non sono emerse certezze » aggiunge Chiumello. In Italia dal 1998 esiste un osservatorio nazionale sull'identità di genere che si propone di approfondire le conoscenze sul transessualismo e di promuovere la libertà di espressione delle persone transgender. «Vorremmo arrivare anche ad un censimento - informa il presidente, Orlando Todarello, direttore della clinica psichiatrica di Bari — ma non è facile. Al momento si sono registrati sul nostro siti in 300». Nel Regno Unito, il governo stima che i transessuali siano circa 5000.

Corriere della Sera Salute 11.1.09
I percorsi di chi decide per una nuova vita e di chi sceglie l'ambiguità
di F.P.


Quando era Colin Bone, ginecologo nonché stimato direttore del Queen Elisabeth Hospital di Norfolk, l'attuale Celia Macleod era famoso/a per la sua collezione di «farfallini» e di bombette (oltre 80). Nessuno, ora, osa immaginare che cosa riuscirà a collezionare in versione femminile. Alla ragguardevole età di sessantuno anni, il medico, che è tornato a lavorare come ginecologa part-time nello stesso ospedale, ha deciso che la sua ambiguità non era più sostenibile ed ha affrontato un complesso cambiamento di sesso (terapia ormonale, chirurgia plastica del viso poi anche quella dei genitali). I due figli, ormai grandi, e la moglie sembrano aver capito profondamente la sua scelta, decisamente tardiva; anzi l'hanno supportata.
Come i pazienti, che non disertano lo studio di Colin/Celia, convinti che quel che conta è la professionalità, non il sesso del medico. Un lieto fine che è stato un po' più difficile da raggiungere per Jasmine Tayfun, trentaseienne di Istanbul, ex ufficiale dell'esercito turco, diventata donna qualche anno fa dopo un lungo e tormentato percorso psicologico. Sposata, con due figli, fece scalpore in una trasmissione televisiva la sua testimonianza, ma soprattutto quella della moglie Silvia che ha accettato la nuova condizione del marito, decidendo di continuare a vivere con lui/lei e i due figli. Una sorta di famigliola normale: pur paradossale, la continuità sembra funzionare in nome dell'amore reciproco, dicono Mara e Silvia. Quando si parla di transgender non si può dimenticare la testimonial per definizione di questa condizione, Vladimir Lussuria, trionfatrice dell'Isola dei famosi, ex deputato di Rifondazione comunista, al secolo Wladimiro Guadagno, nato a Foggia poco più di quarant'anni fa. Afferma di essere attratta dagli uomini, ma non ha fatto l'intervento di riattribuzione chirurgica del sesso (consiste nella mutilazione dei genitali con formazione di un «simulacro» del sesso opposto) che in Italia consente di cambiare sesso all'anagrafe, anzi ne è condizione indispensabile, rivendicando nell'incertezza fra i sessi la condizione d'identità che più le corrisponde. Ben più radicale la scelta di Elena/Christian (anche una figlia nella prima vita, al femminile) di diventare uomo per sposare la donna che conosceva e ammirava fin dall'adolescenza. Alle sue spalle, un'infanzia dolorosa di bambina abbandonata, adottata poi a undici anni da una famiglia che, pur amandola ed essendo a conoscenza della sua diversità, avevano cercato di «normalizzarla» in tutti i modi. In realtà, dopo il matrimonio e la nascita della figlia (un pancione vissuto con una angoscia terribile), il problema è emerso via via con maggiore prepotenza fino ad approdare alla scelta di diventare Christian.
Photonews/Francesco Del Bo Jasmin Donna in Italia
laureato in chimica, fuggito dal suo Paese perché non riusciva a trovare una risposta al desiderio di diventare donna visto che ai musulmani sunniti il cambiamento di sesso è vietato e i turchi rientrano fra questi (gli sciiti, al contrario, lo ammettono tanto che a Teheran esistono cliniche specializzate in questi interventi).
Ora Jasmine è soddisfatta: si è sottoposta ad un lungo percorso di cure al centro per i disturbi di genere delle Molinette di Torino, città dove ha anche scelto di vivere dopo essere passata per Amsterdam e Roma.
Particolarmente complessa, anche perché ne è protagonista il figlio di una persona importante, il primo procuratore Antimafia Bruno Siclari, la storia di Mario/Mara Luxuria Niente bisturi

Corriere della Sera Salute 11.1.09
Eiaculazione precoce In arrivo entro l'anno il primo farmaco specifico per questo disturbo
La molecola che «trattiene» il piacere
Sembra efficace, ma non sono chiari gli effetti dell'uso protratto


È la disfunzione sessuale maschile più comune nei giovani fra i 18 e i 30 anni, ma può anche insorgere fra i 45 e i 65 anni, in concomitanza con un deficit dell'erezione.
Chi ne soffre non riesce ad impedire che l'eiaculazione avvenga in meno di due minuti dal momento della massima eccitazione, contro gli otto dell'uomo che si «trattiene» mediamente bene. Ora questo disturbo sembra avere, finalmente, il suo primo farmaco specifico: si chiama dapoxetina, in fase di registrazione in Italia e in altri paesi europei. Se ne prevede l'arrivo in farmacia entro la metà di quest'anno.
Per comprendere come agisce la molecola occorre tenere presente che la serotonina, uno dei neurotrasmettitori cerebrali più importanti, ha un'azione di freno sull'eiaculazione per cui una sua minore disponibilità ne accorcia i tempi. D'altro canto è noto da anni che gli antidepressivi serotoninergici, farmaci che aumentano nel cervello i livelli di serotonina, allungano il tempo che intercorre fra la penetrazione vaginale e l'eiaculazione.
«Anche la dapoxetina è un farmaco di questa famiglia — spiega Vicenzo Gentile, presidente della Società italiana di andrologia — ma ha una rapidità d'azione di gran lunga maggiore rispetto a tutti gli altri farmaci della stessa classe, tanto è vero che va presa solo al bisogno, per la precisione una pillola un'ora prima del rapporto sessuale. Inoltre, gli effetti collaterali negativi sono ridotti al minimo perché la dapoxetina viene eliminata in meno di quattro ore contro il tempo di gran lunga maggiore degli altri farmaci analoghi, due settimane, ad esempio, per la paroxetina, cinque per la fluoxetina. Tanto che il loro impiego per l'eiaculazione precoce porta inevitabilmente ad effetti collaterali tali da scoraggiarne l'uso. Quando l'eiaculazione precoce è associata ad un deficit dell'erezione, è consigliabile curare prima questo, anche se non esiste alcuna controindicazione all'impiego contemporaneo della dapoxetina. Va considerato che spesso l'eiaculazione precoce è correlata con il timore o con la reale la difficoltà di mantenere l'erezione, per cui l'uomo cerca di eiaculare al più presto».
Emmanuele Iannini, docente di sessuologia medica all'università dell'Aquila, rileva che il ricorso alla dapoxetina si sta dimostrando efficace, tanto che finalmente sembra di essere in grado di agire sull'eiaculazione precoce.
Accanto a queste buone notizie, non mancano i dubbi: non sono ancora disponibili studi sugli effetti a lungo termine della dapoxetina presa in modo sistematico.
D'altro canto, non è detto che sia indicata per tutte le forme di eiaculazione precoce, soprattutto quando il disturbo è legato a cause organiche.
Quali esattamente? Una prostatite, l'ipertiroidismo, l'uso di certi farmaci, le amfetamine ad esempio, o di droghe come la cocaina.
«Non dimentichiamo — aggiunge Gentile — che l'eiaculazione precoce ha comunque una componente psichica più o meno importante che influisce sul comportamento dell'uomo e della partner. Per questo può essere opportuno combinare la terapia farmacologica con una terapia comportamentale a coinvolgimento psicologico ».
Anzi, in passato l'eiaculazione precoce era considerata una disfunzione quasi esclusivamente di tipo psicologico. Poi è diventata sempre più chiara l'esistenza di una forma primaria, che coinvolge la «chimica» cerebrale, che compare fin dalle prime esperienze sessuali dell'adolescenza, è permanente in 7 casi su 10 e si è dimostrata quella più difficile da curare.
Cesare Capone La «fretta» E' il problema sessuale più comune tra i 18 e i 30 anni

il Riformista 11.1.09
Scienza È nata in Gran Bretagna la prima donna che non si ammalerà mai di tumore al seno
Guerra etica a Londra per la bimba cancer-free
di Mauro Bottarelli


LIFE STYLE. Tutti potranno sapere se sono predisposti ad una malattia fatale oppure no. Lo promette l'University College Hospital ai sudditi della regina e si apre il dibattito. In molti temono che le persone si lascino andare dopo aver scoperto che non moriranno mai per una patologia grave.

Brca1 non è l'acronimo di qualche misconosciuta band di rap music e nemmeno il nome dell'ultimo modello di auto sportiva che fa impazzire gli inglesi: è un gene, per l'esattezza il gene responsabile del cancro al seno. Da tre giorni, in Inghilterra, quel nome, quel gene, non fa più paura. O, almeno, non fa paura come prima. Già, perchè 72 ore fa allo University College Hospital di Londra è nata la prima bambina "cancer-free", ovvero certa di non contrarre il cancro al seno - ereditario nella sua famiglia per bisonna, nonna e zia - grazie a una modificazione genetica che ha eliminato quella sigla così spaventosa.
La bimba, il cui nome non è stato reso noto e di cui si conosce soltanto lo stato di salute - «ottimo» dicono i medici - e il fatto che la madre sia una raggiante 27enne inglese, è diventata un vero e proprio caso nazionale e, soprattutto, ha scatenato una vera e propria guerra tra gruppi che ritengono a vario titolo inaccettabile questo spingersi avanti della scienza e comunità scientifica, talmente esaltata dal primo esperimento riuscito alla perfezione da aver offerto uno screening completo del dna anche ai cittadini londinesi che non hanno precedenti oncologici nel proprio albero genealogico. O, almeno, per quanto riguarda i tre tipi di tumori su cui si può intervenire attraverso il gene Brca1 e le sue varianti Brca2: ovvero, seno, ovaie e prostata. Fino ad ora la Nhs, il servizio sanitario publico, offriva lo screening gratis di questo gene, ma solo a donne che avessero precedenti di tumour al seno in famiglia.
Detto fatto, ieri mattina il Times dedicava a questa decisione dei ricercatori dello University College of London, che gestiscono il programma, l'intera prima pagina e due pagine all'interno: insomma, il dibattito è scoppiato, se non tra i politici certamente tra la gente e gli opinion makers. E infatti se sono molte le associazioni "etiche" che condannano profondamente l'operato dei medici londinesi, altrettanti sono i cattolici - politici e non - che ritengono alle soglie del faustiano quanto accaduto: insomma, una certa opposizione esiste anche nella secolarizzata e multiculturale Gran Bretagna. Ma per capire quanto stia accadendo occorre gettarsi per le strade e tastare il polso della gente.
La prima pagina del Times, infatti, segnala il potenziale della notizia a livello politico mentre il fatto che venerdì i due giornali della free press londinese - Lite London e Thelondonpaper - letture obbligate dei pendolari con l'occhio mezzo socchiuso durante il ritorno a casa in metropolitana - abbiano entrambe optato per sparare la notizia a tutta pagina con toni trionfalistici denota l'appeal che l'accaduto può potenzialmente avere sull'inglese medio. Il quale, infatti, mangia troppo e male, fa poca attività fisica, beve e fuma ma si distingue contemporaneamente per una parossistica ipocondria e per un ricorso smodato a farmarci e consigli medici.
Inoltre, da due giorni anche sugli autobus in servizio lungo Piccadilly Road, esattamente come in Spagna, sono comparse pubblicità che recitano: «Probabilmente Dio non esiste, quindi smetti di temere e goditi la vita». Messaggio con molto appeal per l'inglese medio. Tanto più che la Chiesa d'Inghilterra e i deputati cattolici, tra cui alcuni ministeri del Cabinet laburista, difficilmente andranno alla guerra: già alcuni mesi fa avevano tuonato anatemi e minacciato abbandoni del governo in caso non fosse stato pesantemente emendato il cosiddetto Embryo Bill, ovvero la legge che regolamente la fecondazione artificiale e permette analisi pre-impianto e la creazione di embrioni chimera. Nulla da fare, la legge passò grazie alla forza dei numeri e all'appoggio della comunità scientifica e le azienda farmaceutiche e di ricerca che puntano a trasformare questo settore nell'eccellenza del Regno Unito. Una missione già preconizzata da Tony Blair che ora, in tempi di crisi, nessuno può permettersi di dismettere a cuor leggero. Etica oppure no e il governo, Gordon Brown in testa, lo sa bene.

Il Foglio 10.1.09
Tra Luxuria, Sansonetti e Massimo Fagioli
La farsa della sinistra da psicoanalisi è in un libro scritto trent’anni fa
di Mariarosa Mancuso


Sapendo che le cose del mondo usano presentarsi due volte, la prima con il paludamento della tragedia e la seconda con gli stracci della farsa, nulla più stupisce. Ma quando la residua sinistra italiana – Luxuria “che è il nostro Obama” e Luca Bonaccorsi “che potrebbe salvare Liberazione, se solo Piero Sansonetti mollasse la poltrona” – si accapiglia per questioni di psicoanalisi, neanche la parola farsa ormai rende l’idea. Vivendo tra libri e film, evidentemente abbiamo dimenticato di aggiornarci sulle passioni della sinistra. Se non fosse scoppiata la rissa – e se non fosse di nuovo tornato fuori il nome di Massimo Fagioli – riposeremmo nella beata convinzione che la psicoanalisi è “una pratica borghese che si abbatte e non si cambia”. Invece no: da quando i turnisti votano Lega e i romani votano Alemanno, gli strizzacervelli hanno ritrovato la loro centralità democratica. Sono consultati da Fausto Bertinotti – recentemente ha preso le distanze, prima si faceva osannare dai discepoli del guru, detti fagiolini, all’Auditorium – e più di lui provocano scissioni. Vivendo tra libri e film, conosciamo Massimo Fagioli per un lungo sodalizio con Marco Bellocchio: cominciò negli anni Settanta come cura e diventò negli anni Ottanta collaborazione artistica. A partire da “Diavolo in corpo” (e per i tre film successivi: “La visione del sabba”, “La condanna”, “Il sogno della farfalla”), lo psichiatra fu promosso sceneggiatore. Si può, come Sigmund Freud, esercitare la professione e nello stesso tempo scrivere bene – le 700 pagine dei “Casi clinici” uscite da Bollati Boringhieri sono lì per dimostrarlo. Chi ha visto quei film di Bellocchio sa che nel caso di Massimo Fagioli la felice coincidenza non si è ripetuta. Durante molti anni abbiamo portato il lutto per il regista dei “Pugni in tasca”. Poi il rapporto finì, Bellocchio tornò a frequentare sceneggiatori professionisti e a girare un film bello come “Buongiorno, notte” (ritrovandosi al festival di Venezia con il suo grande rivale Bernardo Bertolucci che, rimasto impigliato nel ’68, portava in dote “The Dreamers”). Vivendo tra libri e film, abbiamo conosciuto l’analisi collettiva che Massimo Fagioli pratica da una trentina d’anni – per motivi che non siamo mai riusciti di preciso a decifrare, colpa di una scrittura contorta che vorrebbe imitare Lacan (ma non è mai buona mossa nominare uno psicoanalista davanti a un altro psicoanalista, di solito si odiano) – in un romanzo di Ferdinando Camon. Intitolato “La malattia chiamata uomo”, uscì nel 1981. Ora lo ristampa Garzanti, che ha dimenticato di aggiungere la fascetta “Prima di ‘In Treatment’, quando l’analisi era selvaggia”. Si indovina che la materia è parecchio autobiografica, e non si fanno nomi. C’è il dottore chiamato “Lui”, che fa stendere sul lettino: “Ci siamo parlati per mille e cinquanta ore, ma non so con esattezza chi è”. C’è il dottore di Venezia, che preferisce la poltrona e sulla ricevuta scrive solo metà della cifra, e aggiunge “come tutti, io sono un evasore fiscale”. C’è il dottore di Roma, nel capitolo “L’ammucchiata”. Il narratore racconta i viaggi della speranza da Padova a Roma, quando la cuccetta di seconda costava tremila lire. Meta agognata: un’ora di analisi personale e due o tre di analisi collettiva, subito dopo. Infatti sente arrivare il gruppo, che si sistema nella stanza a fianco (il brano va letto con un occhio al video – su YouTube – che inquadra il portone e gli attuali pazienti di Massimo Fagioli che si recano all’appuntamento romano del mercoledì): “Cercavo di capire se erano tre-quattro, o quaranta-cinquanta, o se c’ erano tutti”. Poi si passa all’interpretazione dei sogni, e ai sottogruppi malattie: Frigidità, Denaro, Abbandono, il Pene della Donna, il Pene Piccolo. Ognuno diretto da un leader, come nelle assemblee. A questo punto il narratore comincia a saltare le sedute per un pomeriggio al cinema. Fa giusto in tempo a vedere il guru furioso mentre caccia via, con l’indice teso verso la porta, un giovanotto che si era appena dichiarato omosessuale.

Il Foglio 10.1.09
Liberazione da Sansonetti
di Stefano Di Michele


Nei giorni della cacciata, il direttore del giornale comunista si trova al fianco SDM. Che ci racconta in diretta il conflitto tra i due Vladimir (Lenin e Luxuria) e tra i due Ferrero (Paolo e Rocher)

C’è Freud, pure lui, da difendere. Ci sono i comunisti e ci sono gli anticomunisti – anzi, secondo i comunisti abbondano gli anticomunisti, tra le pagine del giornale comunista. C’è il Muro di Berlino e c’è Grand Hotel (nel senso di rivista di fotoromanzi). C’è pure il buco del culo – esattamente così: “il buco del culo” – che avrà nuova gloria nel tramonto di questi giorni, e il “microfallo”, che gloria ebbe e perplessità accese. Ci sono psicanalisti ed editori e sindacalisti ed ex brigatisti. Ci sono i trans e c’è l’Isola dei famosi sempre lodata, c’è Simona Ventura innalzata alle glorie un tempo leniniste lungo i muri della redazione. Lo scontro giornalistico interno – tra i sostenitori del direttore che sta per essere rimosso, Piero Sansonetti, e quelli del segretario, Paolo Ferrero – corre appunto anche sulle pareti delle stanze di viale del Policlinico. E se gli “ortodossi”, diciamo così, si fanno sotto con un volantino dove figurano tanto Luxuria con pareo da isolana televisiva quanto un classico Lenin pensoso e riflessivo, con inevitabile slogan “C’è Vladimir e c’è Vladimir” – così sospesi, l’una tra la presa di Muccassassina e l’altro di quella del Palazzo d’Inverno – gli “eretici”, diciamo così, replicano con un altro volantino: sopra, la faccia del segretario del partito, sotto un Mon Cherì, ottimo cioccolatino con pralina e liquore della nota casa dolciaria. E perciò: “C’è pure Ferrero e Ferrero” – inteso Paolo il primo, in una foto con sigaro e aria tristissima, e Rocher il secondo. Arca di sapienza trasgressiva per molti, scialuppa di scapocciati provocatori per altri, il battello sansonettiano va ormai, senza speranza, verso il definitivo naufragio: lunedì il vertice di Rifondazione ne sancirà la fine (e al posto di direttore arriverà un sindacalista, Dino Greco, “non farò un bollettino di partito”) – e nessuna fine poteva essere più mesta o rabbiosa. “Di merda nel ventilatore ne è stata infilata a quintali, in queste settimane”, dice il segretario Ferrero. Si lasciano dei mondi che non comunicano più. E il lasciarsi e il separarsi e lo sconnettersi a sinistra prende sempre la forma del dramma, e (quasi) sempre la sostanza del risentimento. Piero Sansonetti, certo, ha osato molto. Un partito comunista – fosse pure un partito comunista molto sul vago come Rifondazione – non aveva mai avuto un giornale del genere. Con Bertinotti la cosa è andata, con Ferrero la situazione è esplosa (a parte i conti, a parte le copie, a parte le polemiche: soprattutto pianeti che vagano, dopo la dissoluzione, per galassie diverse). Come il mondo sia vario e lo stupore continuo, lo racconta bene la stanza di Sansonetti. Tra scrivania e scaffali si possono annotare: libro di Adalberto Minucci, “Il comunismo, illusione e realtà” (appunto), volume di Marcello Pera “Perché dobbiamo dirci cristiani”, Bacio Perugina (non inviato, c’è da supporre, dalla segreteria del partito), scatoletta-gadget di mentine con immagine di Obama, capace di far rosicare pure Veltroni (“Yes we can. Presidential Inaguration January 20, 2009”), agendina della Polizia di stato, bandiera della pace, calendario della Polizia di stato (la Polizia di stato ha molto concorso all’abbellimento dell’ufficio sansonettiano), bottiglia di Coca Cola (sia pure senza caffeina), dato che l’immondo beveraggio americano dilaga da quando la compagna Rina Gagliardi ha smesso gli attenti pattugliamenti di qualche anno fa, a discapito di certe bevande equo-solidali. Da un bel po’ di tempo l’accusa principale che viene rivolta a Sansonetti, dentro il partito e da una parte dei lettori, è quella di essere un fottuto anticomunista al cubo. Pure quando è stato ricordato quello di Harold Pinter, di anticomunismo, sono arrivate lettere di lettori furibondi: “Il direttore ha passato tutti i limiti...”. E di limiti, va detto, Sansonetti ne ha passati oggettivamente parecchi. “Il giornale scrive e io poi devo rispondere a stronzate come quella se voglio liberare la Franzoni!”, si è sfogato Ferrero durante l’assemblea con la redazione, l’altro giorno. Beh, certo: la pazienza è virtù rivoluzionaria, chissà se comunista, fatto sta che il vertice del partito dice di averla esaurita. Sansonetti – una vita a l’Unità, qualche grana pure col Pci di Botteghe Oscure – di suo ce l’ha messa tutta. “Io non sono comunista, l’ho detto tante volte – racconta – Francamente però è difficile trovare un giornalista più a sinistra di me. Sono di sinistra in maniera patologica. Liberale e radicalmente di sinistra. Per me la libertà è la cosa più importante del mondo, non una cosa da mettere tra parentesi mentre si parla di politica”. Poi dice pure – mentre il conto alla rovescia è cominciato ed è ormai chiaro che non si fermerà: “Da ragazzi consideravamo un vecchio burocrate Cossutta, ma Cossutta, rispetto a questi qui di Rifondazione, era un vero fricchettone…”. Voleva la grazia per la Franzoni, Sansonetti, “la nostra cosa più impopolare”. Non voleva Previti in galera. Per lui, la sinistra doveva chiedere scusa alla Carfagna dopo gli insulti di piazza Navona. Quando l’hanno accusato di fare Grand Hotel al posto di un giornale comunista, invece di contestare l’accusa ha pubblicato un’ esaltazione di Saverio Aversa della storica rivista di fotoromanzi, e subito dopo l’articolo di un ex direttore della stessa, Alberto Tagliati: “Io, ex direttore di Grand Hotel molto letto proprio dagli operai” – che ironizzava sul “Metallurgico, plumbeo periodico sindacale ben poco letto ma acquistato per solidarietà di categoria”, e figurarsi adesso che proprio un sindacalista arriva al posto di Sansonetti. Però, scusa Sansonè: se il giornale è del partito che ci mette i soldi, non sarà pure padrone di metterci il direttore che vuole? “Beh, ci mettano chi cazzo gli pare! Ma non rompano i coglioni pensando che io segua una linea non mia. Del tutto legittimo, lo ripeto, ma forse, secondo la mia opinione, non è del tutto legittimo il modo in cui hanno cambiato il consiglio d’amministrazione…”. Questo palazzo di via del Policlinico vive in una sorta di continua schizofrenia politica. La rampa a sinistra porta a Liberazione, la rampa a destra porta al partito. Una all’ufficio di Sansonetti, l’altra a quello di Ferrero. Ogni tanto i ue si telefonano. “Il rapporto è scherzoso”, dice il direttore. Scherzi? “Ci prendiamo in giro reciprocamente. Durante l’ultima telefonata mi fa: volevo avvertirti che siamo arrivati alla fine. E io: perché la fine, può darsi che la direzione voti a mio favore. E lui: in quel caso mi devo dimettere io, sempre alla fine di qualcosa siamo arrivati. Un rapporto giocherellone, diciamo”. E’ andata avanti oltre quattro anni, la storia. “E ho fatto il giornale che volevo. Io volevo fare un giornale che svecchiasse la sinistra portandola più a sinistra, loro vogliono fare un giornale che invecchia la sinistra portandola più a destra”. E Bertinotti? E già Bertinotti… Sembra una storia di un’altra era, invece erano solo pochi mesi fa. “Mi ha telefonato un paio di volte, è sempre molto affettuoso. Il giornale gli è sempre piaciuto, anche quando non gli piaceva”. Ogni rampa di scala qui porta a un altro mondo, ad altre visioni. Irrinunciabili, per coloro che finora hanno fatto il giornale; intollerabili, per coloro che da lunedì cominceranno a farne uno nuovo. Tra le prime cose che spariranno, sicuramente c’è Queer, l’inserto domenicale, capace di far saltare dalla sedia un qualunque banale libertino, figurarsi un comunista seppur di più recente conio. E’ stato il centro del centro del sommovimento sansonettian-bertinottiano degli anni belli di lotta e di governo e di salotti e di nuove trasgressioni. Ora, per dire del nuovo orizzonte, già arrivano articoli dove si analizza – politicamente,
sociologicamente – la parola “mutualismo”, che forse dal tempo di Turati non si sentiva. “La rivoluzione passa attraverso il buco del culo”: così, tra l’analisi marxista e l’anale (e basta), trovarono scritto sul loro giornale i lettori-militanti di Liberazione. La questione detta (né si poteva dire meglio né si poteva dire diversamente) del “buco del culo” fu tra le più appassionanti tra le molte sollevate nei 180 numeri di Queer che hanno accompagnato gli anni sansonettiani. Questione che inevitabilmente ben si combinava con un intero numero dedicato al “piacero clitorideo” – che sciaguratamente vide la luce proprio nei giorni del congresso di Venezia, con inopportune confusioni tra tesi congressuali e tesi manuali – o con il rilancio (e non che il popolo aspettasse per agire una direttiva politica in tal senso) del femoneno di “Gola profonda” – quale pellicola e quale pratica – o il massimo della provocazione, diretta al maschio, ma pure alle aspettative più profonde nelle masse popolari: l’ elogio, per pagine e pagine, del “microfallo”, nel senso proprio di piccolo pisello, pochi centimetri di saggezza neomarxista, che pure Franco Giordano, all’epoca segretario del partito, ebbe un quasi mancamento quando in pieno Transatlantico un cronista gli chiese la sua opinione sull’opportunità di stare sotto i dieci centimetri. Più che il comunismo o l’anticomunismo, il governo o la lotta di piazza, forse è su quelle otto pazze pagine che è passata la vera linea di frattura dentro il palazzetto di viale del Policlinico. “Un percorso situazionista”, dice Angela Azzaro, che dell’inserto è responsabile.
Dietro la sua scrivania, sotto cornice, un paio di slip color fucsia (ma è tutto molto vario: nella stanza a fianco, c’è un quadretto di una Madonnina che manco all’Osservatore Romano). “Sono mutande contro l’ingerenza vaticana”, spiega l’Azzaro. Mutande spaventapapa? Lei nientemeno rivendica pure l’elogio del “microfallo”, che nella sua brevità “è una speranza per i maschi, invece di sentirsi depressi perché ce l’hanno piccolo” – insomma, ci si butta in politica anziché sul metro. Anche se, al momento della sconfitta elettorale, a sorpresa, tra pagina dieci e pagina undici, in uno sproposito che correva da bordo a bordo, un giorno apparve un macrofallo di tre palmi abbondanti. Fu il ritorno alla durezza dell’opposizione, una fase che anche nella redazione di viale del Policlinico ormai definiscono quella dell’“asta siempre!”. E comunque, senza star lì a contare i centimetri, la curatrice di Queer ha un’idea ancora più radicale. “Se tutti questi politici pensassero di più al loro pisello, la politica ne avrebbe un vantaggio bellissimo. Paolo Ferrero, dai, fai vedere il tuo pisello! Dovrebbero rimettere al centro la soggettività, il piacere, tutto ciò che la politica, soprattutto quella comunista, ha rimossso”. Beh, anticomunista come il direttore? “In fondo sì. Io mi sono iscritta a Rifondazione, non al comunismo. Prima ci hanno raccontato questa favola, adesso che bisogna rifare il Muro di Berlino e il socialismo reale. Loro, non noi, sono impazziti. Loro, non noi, debbono spiegare”. Angela Azzaro spinge, rivendica, provoca. “O ti rifugi nel pane e pasta che vuol distribuire Rifondazione e fai la rivoluzione, o la rivoluzione la fai con quello che hai nel sistema telematico. Non arrendersi alla confusione semiologica, cercando non di ricostruire una norma, la norma comunista poi, ma uno spiazzamento. Qeer ha cercato il disordine, loro vogliono il soviet supremo”. E se la Liberazione sansonettiana ha da morire in questo mese di gennaio, l’accompagnerà nella sua fine tre settimane del “meglio di Queer”, visto che, come dice la pubblicità dell’iniziativa sullo stesso giornale, “arrivano i cosacchi, e da domani, gente di poca fede, comincerete e rimpiangerci”. E in redazione è tutto un ricercare le sortite migliori – “dov’è il microfallo?”, “così piccolo non si vede”, e difficoltoso si annuncia anche il resto, “abbiamo perso il buco del culo!”, s’allarma una redattrice – inteso manufatto giornalistico, non azzardata e pesante metafora. Un po’ di allegria e un po’ di tristezza, a ondate. Sguardi tirati – e sguardi spianati di sollievo anche tra i redattori che invece hanno poco amato il giornale un po’ pazzoide del compagno Piero (e ce ne sono). Sulla porta della stanza del servizio politico c’è un foglietto attaccato con del nastro adesivo. Due righe scritte a mano da Sandro Curzi, e che sono rimaste attaccate lì dai tempi del mitico direttore Kojak. “Bacco, tabacco e riunione rendono il comunista coglione”. Bacco ben poco, tabacco se ne vede, riunioni se ne fanno a raffica. Ce n’è una col segretario Ferrero, qui nell’atrio della redazione. Linguaggi diversi, si parlano, segni che faticano a intendersi. Anche se il tono resta composto, ad animarlo soprattutto la passione di Anubi D’Avossa Lussurgiu, qualcosa di non inteso lo percepiscono tutti. C’è la certificazione che Sansonetti dovrà fare i bagagli. C’è la (magra) consolazione per i suoi sostenitori della presa d’atto, da parte di Ferrero, di una proposta di acquisto, oltre che da parte di Luca Bonaccorsi, anche da un consorzio di piccole imprese e cooperative. Il possibile arrivo di Luca Bonaccorsi, definito dalla stessa Liberazione “noto seguace di Massimo Fagioli”, è duramente contestato in redazione. Giorni fa, i redattori e il direttore sono scesi a protestare per strada, sotto la sede del partito (che poi è anche la sede del giornale). “Fagioli, giù le mani da Liberazione”, il grande titolo, il giorno dopo, sullo stesso quotidiano. “Rifondazione ha bisogno di uno psicanalista, Liberazione no”, diceva uno dei cartelli. E Sansonetti: “Sta avanzando l’ipotesi di vendere il giornale a un editore privato vicino allo psichiatra che ha definito Freud un imbecille: è una follia”. E qui, in questa storia di sinistra che insegue sempre pezzi di sinistra, e ogni pezzo si fa più piccolo ad ogni giro, c’è un altro surreale paradosso: Fagioli è (è stato?) un punto di riferimento molto importante per Bertinotti, che nella libreria dello psichiatra, nel cuore di Roma, aprì la campagna per le primarie; Sansonetti è il direttore che Bertinotti ha voluto a tutti i costi – e ora l’uno contro l’altro, l’uno a marcare le distanze dall’ altro. “Eterno bambino del ’68”, ha detto Fagioli del direttore. Dice il direttore: “Io con questo Fagioli ho sempre mantenuto le distanze. Loro si muovono in gruppo, sono tanti, anche in grado di far aumentare o diminuire le copie di un giornale, ma non mi sono fidato lo stesso. Infatti mai un loro articolo, neanche un articolo di riferimento al loro mondo, è uscito sulla prima di Liberazione. E ne hanno mandati tanti… Evidentemente faccio bene a regolarmi così…”. E intanto, giungono lettere di militanti sbalorditi (anche se il rapporto tra Bertinotti e Fagioli è sempre stato noto e pubblico): “Allora è proprio vero che siamo da ricovero! Qualcuno mi dica subito che la storia recente di Rifondazione si è sviluppata autonomamente, senza risentire dell’influsso del ‘Fagioli-pensiero’, perché altrimenti impazzisco…”.
Antonella Marrone e Stefano Bocconetti, come Sansonetti, arrivano dall’Unità. Anche da quella brutta storia della chiusura, otto anni fa, del giornale che fu l’organo del Pci. “In questi momenti non viene fuori certo il meglio delle persone – sospira Antonella – Ma qui, rispetto alla crisi dell’Unità, è saltata ogni forma di galateo, di signorilità.
Ci comunicano tutto sempre dopo. Una grande delusione…”. Bocconetti è romanista e comunista, in quest’ordine, oltre che giornalista parlamentare. La situazione politica già si presentava poco facile (così scarsa la prospettiva del socialismo, per dire, che Stefano puntava di più persino sullo scudetto alla Roma), quella del giornale ha aumentato disagio e rabbia. Giallo e rosso e fantasioso, Bocconetti ha ritirato fuori lo slogan con il quale accompagnò gli ultimi giorni dell’Unità: “Non ci avrete”, e sotto un gran pugno chiuso, vicino, alternativamente, alle testate della Pravda o del Rude Pravo. Frida Nacinovich è un’altra redattrice del servizio politico. I giorni passano, i rapporti col partito si complicano, e lei confida a Sansonetti: “Pensavo che volessero te, invece vogliono noi tutti...”. Sospira: “Noi gli abbiamo tirato uno schiaffetto, loro ci sono venuti addosso col carro armato. Fanno gli operaisti, poi ti vendono al mercato della colla come si faceva una volta con i cavalli usati…”. Orrenda metafora, metafora indovinata? Di là, nell’atrio, Ferrero cerca di alleggerire il clima che sente intorno. Ogni tanto finisce nel politichese, “il punto politico della strutturalità del percorso”, a volte – pur usando un tono basso, pur stando attento a non accendere gli animi – lancia accuse precise: “La lettera di Bonaccorsi è stata rubata nel mio ufficio, fotocopiata e fatta circolare...”. Proprio dietro le sue spalle ha il volantino dove hanno appaiato la sua foto e quella del cioccolatino che si chiama come lui, le pareti sono disseminate di battute tipo “Fagioli e cotiche” oppure “Non mi è mai piaciuta la minestra di Fagioli” e anche il poster di un vecchio film con Bud Spencer e Giuliano Gemma, “Anche gli angeli mangiano fagioli”.
Al piano di sopra scuote la testa Paolo Persichetti. Mica è un redattore qualunque, lui. Praticamente, è ai lavori domiciliari. La mattina arriva in redazione da Rebibbia, la sera deve rientrare in cella. Un ex brigatista, condannato per banda armata e concorso nell’ omicidio del generale Giorgieri. Un giorno, Sansonetti gli ha fatto trovare, sulla scrivania, proprio il calendario della Polizia. Persichetti non ha, diciamo, gradito il presente. Per Queer ha curato un numero su Di Pietro, si occupa di recensioni e di carceri, “ciò che è legato al vissuto e ne parli”, fa desk. Mangia un panino con la frittata, allarga le braccia e ironizza: “Assisto dal di dentro allo stato terribile della sinistra”. Ma non sarà una cosa da poco, per il poco che resta della sinistra radicale, la fine dell’era Sansonetti a Liberazione. Lui sorride, mentre mancano ormai poche ore: “Ehi, oggi abbiamo ricevuto quasi solo lettere di sostegno…”, paginate e paginate di “allarme democratico”, come in anni meno incerti si diceva, si sprecano. “Ciao lettori, ci mandano via…”, titolo gigantesco, pezzo di Sansonetti e della sua vice, Simonetta Cossu, per assicurare: “Nel 2008 abbiamo ‘quintuplicato’ la diffusione”. Oppure: “Care lettrici, ci vogliono epurare”, e nel caso il “compagno Adriano Boscolo, membro del direttivo del Circolo di Copparo, Rho, Formignana” annuncia che non metterà più piede all’edicola per comperare il giornale. Ma molte di più sono forse le lettere contro: mettono sotto accusa le “scemenze irritanti” di Queer, notano una “propaganda anticomunista”, chiedono “un punto di vista comunista” al quotidiano. Ormai è andata. Un redattore dell’economia si è portato un piatto di gnocchi da casa. “Ma quello che volevo fare l’ho fatto”, ripete Sansonetti. Luxuria è con lui, un mondo inabissato riemerge intorno, ma più forte di tutto è già la nostalgia per anni e storie che sono ora al capolinea. “Dodicimila euro al giorno ci costa Liberazione…”, dice il segretario giù nell’ atrio.