martedì 13 gennaio 2009

l'Unità 13.1.09
I vendoliani ieri se ne sono andati dalla direzione del partito
Burrasca al quotidiano: non c’è ancora un direttore responsabile. Oggi sciopero
Rc, scissione ormai vicina. Sansonetti via da Liberazione
di Simone Collini


Ferrero apre la Direzione Prc chiedendo il licenziamento del direttore di Liberazione Sansonetti. I vendoliani si dimettono dall’organismo. Contestato il voto finale. Sit-in di protesta davanti alla sede del quotidiano.
È il primo passo verso la scissione: i 28 vendoliani membri della Direzione Prc che uno a uno (tranne tre) chiedono la parola, attaccano la maggioranza del partito e alla fine dell’intervento annunciano le dimissioni dall’organismo. Il secondo passo sarà a Chianciano, all’assemblea fissata per il 24 e 25 di questo mese, quando Nichi Vendola e i suoi formalizzeranno il distacco da un partito che Fausto Bertinotti ha definito «irriconoscibile». Il terzo e definitivo passo sarà a metà febbraio, quando verrà convocata la seconda assemblea nazionale dell’associazione “Per la sinistra” (di cui fanno parte anche Sd, parte dei Verdi e la minoranza Pdci) che farà da battesimo per il nuovo soggetto politico.
Il casus belli è il licenziamento di Piero Sansonetti da direttore di Liberazione. Viene ribadito dal segretario Paolo Ferrero all’inizio della Direzione: «Porta avanti una linea politica avversa a quella stabilita dalla maggioranza del partito». Decisione comunque largamente annunciata. E infatti prima che la Direzione cominci, a via del Policlinico va in scena un sit-in di protesta che si trasforma anche in brindisi a favore della libertà di stampa e contro Ferrero (come dice l’sms fatto circolare la sera prima). Davanti al portone del palazzo che ospita sia gli uffici del partito che la redazione del giornale ci sono Sansonetti e un bel po’ di giornalisti, Franco Giordano, Gennaro Migliore, altri vendoliani. Sul muro sono stati attaccati alcuni cartelli. «Grazie Liberazione, addio Rifondazione», dice uno. Arriva Ferrero, fende la folla sorridente: «Che c’è una manifestazione? Perché non mi avete avvisato?». Non viene apprezzato. «Che c... si ride», sbotta una ragazza. Anche Migliore non ha troppa voglia di scherzare. «Vuole occupare oggi il giornale per chiuderlo domani», dice il coordinatore dell’area “Rifondazione per la sinistra”. «Non ci sentiamo più dirigenti di questo partito». Dal portone escono i membri del Cdr, ai quali è stato appena comunicato che la maggioranza non è riuscita a trovare un vicedirettore che firmi il giornale, visto che il direttore Dino Greco non è un giornalista. Parte un coro: «Buffoni, buffoni». Si stappano alcune bottiglie di champagne. Sansonetti se la ride. Giordano dice quello che ripeterà poco dopo nel chiuso della Direzione, e cioè che la gravità sta non solo nel metodo stalinista di far fuori il direttore, ma nel rompere i contatti con tutto un mondo di sinistra che in questi anni collaborava con il giornale (da Lea Melandri a Mario Tronti, da Marcello Cini a Bifo) e disinteressarsene.
L’accusa di stalinismo se la rinfacciano da ambo le parti. Il clima si fa teso durante la riunione. Fino al voto finale: il licenziamento di Sansonetti passa con 28 sì e la minoranza contesta la mancanza del numero legale. Ci vogliono tre votazioni perché il direttore sia dimissionato. Ma Sansonetti a sera continua a ridersela: «La situazione è paradossale e un po’ grottesca: non hanno trovato ancora un giornalista che possa firmare il giornale e se ho capito bene mi hanno chiesto di rimanere per mandarlo intanto avanti». Il problema ieri non si è posto: la redazione ha scioperato e Liberazione oggi non è in edicola.

Repubblica 13.1.09
Strappo a Rifondazione Vendola se ne va licenziato Sansonetti
Il Prc licenzia Sansonetti Bertinotti e i suoi se ne vanno
Proteste a Liberazione, in direzione accuse di stalinismo
Dino Greco alla guida del quotidiano, ma non è giornalista
di c.l.


ROMA - Si consuma tra accuse reciproche di stalinismo e una surreale disputa se fosse più di sinistra la tenuta o piuttosto la caduta del muro di Berlino, la nuova, inevitabile, lacerante scissione degli eredi molto lontani del Pci. Rifondazione comunista «licenzia» a maggioranza il direttore di "Liberazione" Piero Sansonetti e lo sostituisce col sindacalista bresciano Dino Greco. Ma l´annunciato strappo in direzione, passato con i 26 voti su 60 dei dirigenti che fanno capo al segretario Paolo Ferrero, dà la stura per l´addio di tutta la minoranza vicina a Vendola. Il governatore della Puglia non si presenta neppure. Non partecipano alla votazione e lasciano l´organismo di vertice dopo ore di accuse in 25: i bertinottiani Franco Giordano e Gennaro Migliore, Alfonso Gianni e Patrizia Sentinelli, tra gli altri. In tre della stessa corrente (Luigi Cogodi, Rosa Rinaldi e Augusto Rocchi) preferiscono restare, per ora. L´area Vendola si dà appuntamento per il 24 e 25 gennaio a Chianciano per dare il via alla nuova avventura. Si chiamerà "la Sinistra" e abbraccerà nel suo cammino gli Sd di Fava e Mussi, pezzi dei verdi e quant´altri vorranno affiancarsi.
«Auguri!». Stappa spumante e brinda coi suoi giornalisti per strada, il direttore di Liberazione Piero Sansonetti. Sono le 14 e prima della direzione va in scena il sit-in di protesta dei redattori contro l´avvicendamento su via del Policlinico, davanti la redazione che è anche sede del Prc, tra i manifesti anti Ferrero e un «Grazie Liberazione, addio Rifondazione» firmato Vladimir Luxuria. «Roba da anni Cinquanta, decisione un po´ sovietica, e per paradosso, non avendo ancora un direttore responsabile, mi chiedono di restare per firmare per un paio di giorni» commenta sarcastico Sansonetti. Greco infatti non è giornalista e dovrà essere affiancato da un vice responsabile. Ma fino a sera la segreteria non era riuscita a indicare un nome al comitato di redazione del giornale. Sembra che lo farà nelle prossime ore. Oggi intanto il quotidiano non sarà in edicola per lo sciopero dei giornalisti.
Dentro la sala Lucio Libertini lo psicodramma dell´ultima resa dei conti dura più di cinque ore, preludio della scissione. Con strascico polemico. Alle 20,30 il siluramento di Sansonetti passa con 26 voti che secondo i vendoliani (rimasti fuori) non sarebbero sufficienti a garantire il numero legale. Ma il dato politico è lo strappo e quello si è ormai consumato. E la gestione di Liberazione è stata l´oggetto del contendere. Rimuoverlo è «una decisione democratica, non stalinista o da anni ‘50», spiega tra i brontolii in sala il segretario Ferrero nella sua relazione: «Crollo delle copie vendute, ridotte a 6 mila, aumento del deficit, che ha toccato i 3,5 milioni, ma soprattutto il progetto di superare il Prc, legittimo ma non da perseguire coi soldi di Rifondazione». I vendoliani vanno via. «Non mi sento più dirigente di questo partito, siete in preda a un cupio dissolvi» saluta Gennaro Migliore». E dopo di lui Mascia, Sentinelli, Gagliardi, Gianni, tra gli altri. «Dov´è la democrazia? Ci sentiamo cacciati». L´attuale maggioranza interna, conclude l´ex segretario Franco Giordano «appartiene ad un´altra tradizione politica e culturale. Ferrero sta erigendo un muro di fronte alla ricchezza» che c´è fuori. Grida e veleni finali. Alle spalle del segretario una scenografia colorata e quanto mai evocativa: un martello da una parte, una falce dall´altra, una stella rossa per aria, tutto diviso. A un certo punto entra in sala perfino una cane randagio bianco e nero. Guarda, neanche abbaia e se ne va.

Repubblica 13.1.09
Vendola: risentimenti e menzogne della vicenda Liberazione mi hanno fatto soffrire da comunista
"Siamo finiti in una gabbia di veleni cambiamo casa per rifondare la sinistra"
Le accuse di Fagioli? Mi provocano ricordi da brivido. Con Fausto d´accordo su come andare avanti
di Carmelo Lopapa


ROMA - «È giunto il momento di mettere ordine, di riscrivere lo spartito della sinistra del futuro. Le miserie umane e culturali alle quali abbiamo assistito ci hanno indotto a questo passo, quello della rifondazione della sinistra. Questa non era più casa nostra».
Nichi Vendola, governatore della Puglia, perché non sarebbe più casa vostra? Perché abbandonate il partito?
«Una storia si è ormai compiuta, finita dentro una prigione di risentimenti. È stata scritta una pagina brutta, siamo finiti tutti in una spirale ritorsiva. Quella non è più casa nostra perché è poco accogliente, è un luogo che ha chiuso i conti con la parola "rifondazione". Il Prc per 18 anni è stato protagonista vivace, efficace, controverso, fascinoso e vero della politica italiana. Quella storia, ecco, si è illividita, sfarinata».
Vi accusano di non esservi arresi al fatto di aver perso il congresso.
«Non dico queste cose perché ho perso il congresso, che pure in qualche modo ho vinto col 47%, ma perché col vulnus inferto a Liberazione, al diritto di informazione e all´autonomia del giornalismo, non c´è stata solo la presa d´atto di una divaricazione politica, ma qualcosa di più profondo. E siccome non dobbiamo passare il resto della vita a maledirci, allora meglio ricostruire qualcosa partendo da ciò che ci divide. Ho sofferto tanto per quanto accaduto, da giornalista e da comunista».
Con il Prc dite addio una volta per tutte anche all´utopia comunista?
«L´utopia è come l´araba fenice, rinasce dalle proprie ceneri. E l´utopia dell´eguaglianza non è riducibile alle conseguenze di alcun fallimento, continuerà a camminare lungo le strade della politica».
E la vostra strada porta alla costruzione con Fava, Mussi, pezzi dei verdi, di un nuovo soggetto. Ma c´è bisogno di un´altra bandierina a sinistra? Di un piccolo Arcobaleno?
«Si può continuare la battaglia dentro e fuori il Prc, si può anche avere la doppia tessera. Niente ingessature. Ma dobbiamo prendere atto che ci è cascato il mondo addosso. L´Italia che fu il paese dell´anomalia comunista è oggi diventato il paese in cui l´anomalia è rappresentata dall´assenza di una forte sinistra politica. Antirazzismo, la cura per le persone più deboli, dell´ambiente: la parola sinistra deve tornare ad avere senso. Rifondazione e il Pd rischiano di essere la narrazione dello stesso suicidio. Da un lato, la ricerca affannosa di governismo a tutti i costi, dall´altro, la predicazione velleitaria lontana dalla realtà».
Si dice che Bertinotti abbia benedetto lo strappo.
«Con Fausto facciamo lunghe chiacchierate. Parlare con lui per me è respirare aria pulita, ossigenare il cervello. Condividiamo la fiducia nel fatto che la sinistra sia un´istanza oggettiva».
Presidente Vendola, confessi, quanto male le hanno fatto le parole dello psichiatra Fagioli sull´incompatibilità tra l´essere comunista, gay e cattolico?
«Non mi hanno scalfito per nulla, piuttosto ho notato che spesso una certa veemenza viscerale ha degli effetti antipatici sul viso di chi la esprime. Detto questo, non bisogna necessariamente essere comunisti e neppure avere confidenza con la società dei lumi per non simpatizzare con chiunque giudichi le altre persone, non per i loro comportamenti, ma per la loro condizione esistenziale. Sono cose che a me danno ricordi da brivido».

Corriere della Sera 13.1.09
Dai vendoliani addio direzione


Sciopero Liberazione cambia direttore, i vendoliani abbandonano la direzione di Rifondazione comunista. Dopo una riunione di sette ore, il Prc ha votato la sostituzione di Piero Sansonetti con Dino Greco. Il giornale oggi non uscirà per sciopero, mentre la minoranza guidata da Nichi Vendola si incontrerà a Chianciano il 24 gennaio per decidere sull'uscita dal partito

il Riformista 13.1.09
Rifondazione. Ferrero silura Sansonetti. È scissione
di A.D.A.


Rifondazione. Ultimo atto. Il segretario Paolo Ferrero vince la sua «guerra di Piero». La direzione del partito - svoltasi ieri a via del Policlinico - vota a favore del defenestramento del direttore di Liberazione Piero Sansonetti. In un clima avvelenato Ferrero, nel suo intervento, ha tirato dritto. Primo: «Le copie vendute sono dimezzate». Secondo: «Il giornale non è funzionale al progetto di Rifondazione ma a quello del suo superamento». Via libera al prossimo direttore: Dino Greco, sindacalista bresciano, una vita nella sinistra del Pci e nella Cgil. che però non è giornalista. Tanto che Ferrero ieri ha chiesto a Sansonetti di continuare a firmare il giornale.
Quanto basta per dare il via libera alla scissione che sarà annunciata dall'area Vendola il 24 gennaio in un seminario a Chianciano. Ormai è solo un fatto formale. Per è guerra su tutto. Prima si è svolto un sit in di protesta pro-Sansonetti di giornalisti e dirigenti vicini a Vendola. Poi molti funzionari della corrente sono andati a contrattare licenziamento e liquidazione. Per non parlare dei big. Che - uno dopo l'altro - si sono dimessi dalla direzione del partito. L'ex segretario Franco Giordano, ha affermato: «Quando scegliemmo Sansonetti fu una scelta condivisa, adesso no. Pezzi importanti della sinistra italiana non scriveranno più sul giornale ma non vi importa. Attorno a Rifondazione avete eretto un muro». E l'ex capogruppo Gennaro Migliore ha aggiunto: «Ci dimettiamo perché non ci sentiamo più dirigenti di questo partito».
Volano gli stracci. Pure sul muro di Berlino. Agli uomini di Ferrero non è piaciuta la scelta dei giovani comunisti di stampare sulla loro tessera la foto dei berlinesi esultanti dopo il crollo del muro. Alfonso Gianni picchia duro: «Non si può stare a cavalcioni sul muro di Berlino. Il socialismo reale ha iniziato a perdere quando il muro è stato costruito, e non si può rimpiangere quando è crollato». Oggi il giornale non sarà in edicola. Vendola è già con un piede fuori dal partito: «È ora di mettere mano alla costruzione di un nuovo percorso».

il manifesto 13.1.09
Rifondazione si divide, 
cronaca di un addio
di Matteo Bartocci


Più che un sipario un sudario. La parola fine su Rifondazione comunista così com'è stata fino a oggi viene pronunciata nella sala intitolata a Lucio Libertini, una catacomba gelida e stretta sotto la sede di via del Policlinico, a Roma.
Perché la sostituzione di Piero Sansonetti alla guida di "Liberazione" viene interpretata dalla minoranza «vendoliana» sconfitta di misura al congresso di luglio (47,3 per cento) come «uno strappo incolmabile», sintetizza dal palco per tutti gli «scissionisti» una commmossa Graziella Mascia. Via via si alternano uno dopo l'altro gli addii di una larga parte del gruppo dirigente più vicino a Bertinotti, mescolati ad affondi personali e politici durissimi e livorosi con accuse di stalinismo e nostalgia del muro di Berlino. Interventi nervosi più che appassionati. Un palcoscenico per vecchi e nuovi rancori. La scissione a lungo vagheggiata, evidentemente, è ormai metabolizzata almeno ai vertici. Da Nichi Vendola in serata arriva un gelido addio a distanza, che benedice le dimissioni dagli organismi dirigenti del partito di buona parte della sua mozione (anche se con eccezioni significative).
Intervenendo in apertura, il segretario Paolo Ferrero spiega che i motivi a favore della sostituzione di Sansonetti sono essenzialmente due. «L'insuccesso editoriale, per usare un eufemismo», e una divergenza di linea politica secondo cui «Piero ha diretto il giornale sulla base di un progetto opposto a quello della rifondazione comunista che invece ha vinto democraticamente il congresso». La sua sostituzione, promette Ferrero, non scalfirà l'autonomia del giornale e di chi ci lavora, «ma è chiaro a tutti che se si prosegue così il Prc rischia di scomparire per mancanza di fondi». Le cifre sono ormai note. "Liberazione" vendeva circa 10mila copie nel 2004 e arriva a stento a 6mila. Il suo deficit pesa sul bilancio del partito per circa un terzo: 3-3,5 milioni di euro su 10. 
Cifre drammatiche ma non nuove. E' evidente che la questione è politica. «Uguaglianza e libertà sono entrambi elementi fondanti della cultura politica del Prc e ci resteranno, nel nostro statuto c'è l'obiettivo del superamento del capitalismo e del patriarcato», assicura Ferrero. E a chi lo accusa di avere nostalgia della "Pravda" ricorda di volere un giornale e un partito simile a quello di Genova, «una casa per tutti, senza distinzioni tra chi è dentro e chi è fuori». 
Fino alla fine, dopo oltre 7 ore, ci si avvita anche sulle procedure. Il sindacalista di Brescia infatti non è un giornalista e per legge ha bisogno di un vicedirettore responsabile al suo fianco che però ancora non è stato presentato. La sua nomina passa in serata con solo 26 voti su 60 membri della direzione. Decisivi per il numero legale 3 «vendoliani» contrari alla scissione come Augusto Rocchi, Rosa Rinaldi e Luigi Cogodi. Astenuti però anche due «ferreriani» doc come Maurizio Acerbo (primo firmatario della mozione congressuale) e Giovanni Russo Spena. «Quando se ne va via una parte così importante del partito è una sconfitta per tutti - dice Russo Spena - però la drammatizzazione sul giornale è diventata lo strumento di chi vuole distruggere Rifondazione». 
Quasi tutti i dirigenti della «mozione 2» affondano i colpi soprattutto su chi gli era più vicino come Ferrero. «Quando eri in segreteria non ti sei mai preoccupato del deficit di "Liberazione" perché non ti conveniva», attacca Gennaro Migliore. E dopo di lui Maurizio Zipponi suona quasi paradossale: «Voi state sciogliendo il Prc - dice alla nuova segreteria - dimettevi finché siete in tempo». E sulla figura di Greco si lascia andare a vecchie ruggini: «Alla camera del lavoro di Brescia ha sempre perso, perfino sul suo successore. Ci ha portati a 8 anni di rottura con la Fiom. Noi siamo contenti ma ora a Roma sono cazzi vostri». Critiche su cui la platea rumoreggia più o meno all'unanimità. A difesa del neo-direttore interviene Alfio Nicotra: «Non vogliamo né purghe né gulag, chiediamo solo che il giornale valorizzi le posizioni della maggioranza del partito senza ridicolizzarle». Il dibattito, già non eccelso, si avvita: tutti contro tutti a colpi di stalinismo, con esiti perfino paradossali, come Alfonso Gianni e Ramon Mantovani, oggi su mozioni opposte, ma che entrambi nel '71 gridavano «viva Stalin» tra i katanga milanesi.
Gianni è durissimo, dice di non avere «un sassolino nella scarpa ma un muro»: «Sul muro di Berlino puoi stare di qua o di là ma non ci puoi stare a cavalcioni», accusa l'ex sottosegretario, che poi però segna un punto da cui non si può prescindere: «Liberazione è stata per il partito una finestra sul mondo, attraverso la quale noi guardavamo fuori e gli altri guardavano noi, anche nelle nostre porcherie interne». Non è un giornale di partito? «Bene, benissimo - tuona Gianni - è proprio questo che l'ha fatta vivere negli anni, modesta ma vitale, "Europa" e "il Secolo" chi li legge, a chi servono?». Il suo intervento scatena un putiferio di insulti e improperi. «Riconosco lo stalinismo anche quando si ammanta di anti-stalinismo», risponde Mantovani, critico da sempre con Sansonetti, di cui ricorda la fucilazione pubblica di Francesco Caruso quando (a torto) definì «un assassino» Marco Biagi a causa della legge 30: «La democrazia - dice - prevede la nomina del direttore ma anche la sua sostituzione». E poi l'affondo alla sua vecchia corrente: «Se al congresso Vendola avesse avuto pochi voti in più grazie alle altre mozioni che avreste detto sul rispetto degli iscritti?».
Ferrero a margine rovescia le accuse di stalinismo indirettamente anche su Bertinotti, che aveva parlato di Rifondazione «irriconoscibile»: «E' staliniano l'uso della storia da parte dei dirigenti per legittimarsi o meno a vicenda».
Il futuro resta incerto. Non tutti i «vendoliani» usciranno dal partito. In direzione ieri sono rimasti in tre (Rocchi, Cogodi e Rinaldi). Cioè intere regioni come Sardegna (dove si vota tra poco) e Sicilia più quadri sparsi nel resto d'Italia che potrebbero superare un terzo dei sostenitori della vecchia «mozione 2». Oggi diffonderanno un documento pubblico che chiede di restare a dare battaglia dentro pur essendo d'accordo alla rifondazione della sinistra. L'appuntamento per tutta l'area comunque è a Chianciano il prossimo 24 gennaio. 
Non un congresso fondativo, per ora, ma un seminario che dovrà decidere il da farsi. Le ipotesi in campo sono essenzialmente due. La prima punta tutto sullo sfascio del Pd e prevede un cartello elettorale con Sd e Verdi che rimandi il nuovo partito a dopo le europee. L'altra, più ambiziosa, mira a un partito subito, con primarie dal basso su dirigenti e candidature. E' scissione. Ma ancora non ha le idee chiare.

Repubblica 13.1.09
Atei, spot shock a Genova "Dio non c'è e non serve"
Sfida a Bagnasco. Il sindaco: nessun veto
di Donatella Alfonso


GENOVA - Il dubbio viaggia sul bus. «La cattiva notizia è che Dio non esiste. Quella buona è che non ne hai bisogno» recita la scritta su sfondo azzurro con nuvolette bianche, la "firma" dell´Uaar ben indicata; la campagna per l´incredulità, che già ha suscitato aspre polemiche a Londra come a Barcellona, arriva in Italia e parte da Genova, la città dove è arcivescovo Angelo Bagnasco, presidente della Cei. Due bus dell´Amt, l´azienda di trasporto pubblico cittadina, porteranno in giro per Genova il messaggio dell´incredulità dal 4 febbraio e per l´intero mese; una maniera per far uscire gli atei allo scoperto, dimostrare che esistono e hanno diritto di parola, dicono all´Uaar, l´unione degli atei, agnostici e razionalisti già promotrice delle campagne per lo sbattezzo, che ora raccoglie sul suo sito le donazioni per raccogliere fondi necessari a pagare altre campagne, in diverse città italiane.
E se in Gran Bretagna come in Spagna lo slogan recita «Probabilmente Dio non c´è. Adesso smettila di preoccuparti e goditi la vita», la scelta degli atei italiani, invece, più che sull´edonismo, punta sulla serenità: puoi farcela anche da solo, senza guardare in alto. «Non è una provocazione, ma un modo per cercare di unire il discorso etico del vivere senza fede e quello laico - spiega Raffaele Carcano, segretario generale dell´Uaar - È chiaro, Genova è stata scelta, tra l´altro, per le posizioni polemiche di Bagnasco rispetto al Gay Pride che si terrà in città a giugno, per la concomitanza con la data del Corpus Domini; e per le posizioni prese dalla Chiesa in materia di diritti civili, scienza, riproduzione. Ci riprendiamo un po´ di visibilità, anche per far pensare».
Il cardinale è partito ieri mattina per Fatima, in pellegrinaggio con i seminaristi genovesi; non farà sentire la sua voce, si dice in Curia, fino alla fine della settimana. Parla per lui don Gianfranco Calabrese, direttore dell´Ufficio catechistico diocesano «ci sono modi e modi di esprimere sia la tolleranza che l´intolleranza e la ricerca della tolleranza è sempre il dialogo» mentre «la contrapposizione è sempre intolleranza, e atteggiamenti di contrapposizione frontale non aiutano il dialogo. Il "Pride"? Collocare appositamente questo appuntamento in un momento significativo e tradizionale per la Chiesa, è quasi cercare lo scontro per lo scontro». Per don Marco Granara, rettore del santuario della Guardia che da secoli raccoglie la devozione dei genovesi, l´iniziativa dell´Uaar «può essere uno stimolo per i cristiani, per offrire la propria testimonianza e rispondere in termini intelligenti, come chiede il Papa, dimostrando una fede pensata ed amica dell´intelligenza. Speriamo che venga fuori un dibattito e che molti cristiani si sveglino».
Marta Vincenzi, sindaco di centrosinistra, laica attenta al dialogo con le religioni, avverte: non è pensabile alcuna censura da parte del Comune, azionista di maggioranza di Amt. «Questa città sta facendo parlare l´Italia intera per le posizioni di libertà espresse da Fabrizio De Andrè. Non è una buona notizia che Dio non ci sia; la campagna mi pare un invito a riflettere e naturalmente esprime un punto di vista, non mi sembra che faccia proselitismo per l´ateismo. Spero nessuno si offenda; con una battuta, chi non vorrà prendere il bus "ateo", aspetterà quello dopo... ».

Repubblica 13.1.09
Spagna, nuove regole nell'esercito i soldati potranno dire "Signornò"
La nuova legge: se un ordine costituisce un delitto è giusto disobbedire
di Alessandro Oppes


MADRID - L´obbedienza cieca non potrà più essere un obbligo per i militari sottoposti alla disciplina gerarchica. La nuova legge sulle Forze Armate, che il governo Zapatero prevede di varare in Consiglio dei ministri venerdì prossimo, stabilisce per la prima volta in modo netto che nessun militare potrà essere costretto a eseguire ordini «che siano costitutivi di delitto», in particolare «contro la Costituzione e le persone e beni protetti in caso di conflitto armato». Secondo le anticipazioni pubblicate sul quotidiano El País, le nuove «Reali Ordinanze» prevedono anche la possibilità di obiezione rispetto a un ordine dal quale si dissente. Il militare però dovrà attendere ad aver portato a termine la missione prima di mostrare il suo dissenso, nel caso in cui questo potesse compromettere il risultato dell´operazione.
Nell´articolo che fissa i «limiti dell´obbedienza», la legge chiarisce che è un ordine legittimo solo «l´incarico relativo al servizio che un militare dà a un subordinato, nella forma adeguata e all´interno delle proprie competenze». Chi dovesse compiere ordini illegittimi o contrari alle leggi, dovrà «assumere la grave responsabilità della sua azione». Una buona parte dei principi indicati nel testo riprendono quelli delle ordinanze militari varate già trent´anni fa, all´epoca dell´approvazione della Costituzione democratica spagnola.
Ma il governo Zapatero ha deciso di aggiornare la legge per adeguarla a cambiamenti importanti, come la professionalizzazione delle forze armate, l´incorporazione delle donne, la partecipazione in missioni militari all´estero.
Si stabilisce così che i superiori dovranno favorire la convivenza tra tutti i loro subordinati, «senza discriminazioni per ragione di nascita, origine razziale o etnica, genere, orientamento sessuale, religione o convinzioni». Una norma che raccoglie un fondamentale principio costituzionale, ma che il governo sapeva di dover sottolineare con chiarezza fissando le regole di convivenza di un esercito aperto alle donne e agli stranieri, con una forte presenza di militari di religione musulmana e con un gran numero di omosessuali che nascondono ormai più la loro condizione.
Una delle novità di maggior rilievo è costituita dal codice di condotta per i militari che partecipano in operazioni, sia di guerra che di pace o di aiuto umanitario in situazioni di emergenza o di catastrofe. Le regole fondamentali: uso graduale e proporzionato della forza; distinguere tra civili e combattenti e tra beni di carattere civile e obiettivi militari; evitare per quanto possibile le «perdite occasionali di vite, sofferenze fisiche o danni materiali». Il codice proibisce poi di «sottomettere a torture o vessazione» i prigionieri o detenuti, che dovranno essere trattati con «umanità e rispetto».
I militari in missione all´estero dovranno impegnarsi in particolare nella difesa dei più deboli, «soprattutto donne e bambini», «contro la violenza, la prostituzione forzata o qualunque tipo di aggressione sessuale».

Repubblica 13.1.09
Il diritto e la cura
di Ignazio Marino


«Credo nella libertà di scelta», «non si può costringere un ammalato a curarsi contro le sua volontà», «sacra è la vita e sacra l´autodeterminazione». Sono alcune delle frasi dei cinquanta mila cittadini che, in questi giorni, hanno aderito all´appello per il diritto alla libertà di cura (www. appellotestamentobiologico. it). Sono voci che rappresentano il Paese e che vanno considerate nel momento in cui il Parlamento si avvia a fissare, per legge, alcune regole che riguardano la fine della vita. Il mio convincimento è che vada garantito sempre e comunque il diritto alla libertà di cura come previsto dalla Costituzione, un diritto che esiste in teoria per tutti, ma che non può essere esercitato da chi ha perso l´integrità intellettiva e con essa la capacità di esprimere le proprie volontà.
Proviamo a calare il principio nella realtà: un paziente con un cancro all´esofago, nella fase avanzata della malattia, si troverà a non poter più deglutire e ad alimentarsi naturalmente. Per continuare a nutrirsi potrà ricorrere a tecniche artificiali, ovvero ad un tubo inserito chirurgicamente nello stomaco attraverso il quale introdurre nutrimenti chimici per la sopravvivenza. Di fronte a questa prospettiva, il paziente può scegliere se accettare oppure rifiutare. Se accetta forse vivrà più a lungo, altrimenti arriverà alla fine della sua esistenza, secondo il destino segnato dalla malattia. Qualunque essa sia, la scelta sarà rispettata. Ma nel caso di una persona in stato vegetativo, chi deciderà? E chi farà rispettare le volontà del malato?
Di qui la necessità di una legge sul testamento biologico, che fissi le regole in base alle quali il diritto costituzionale della scelta delle terapie sia sempre garantito e i cittadini non debbano rivolgersi ai tribunali.
Vi sono molti progetti in Parlamento ed io, assieme ad altri cento senatori, propongo una legge che dia, soltanto a chi lo vuole, la possibilità di indicare quali terapie si intendono accettare e quali no, se un giorno si perderà la capacità di esprimere il proprio consenso. Si tratta di una norma molto semplice, a mio modo di vedere persino conservatrice, perché non cambia nulla, semplicemente ribadisce il diritto alla libertà di cura già previsto dalla Costituzione. Altri, come il sottosegretario Roccella e l´onorevole Binetti, propongono una vera rivoluzione: l´alimentazione artificiale sia somministrata sempre, diventi terapia obbligatoria per legge e, quindi, venga esclusa dalla nostra libertà di scelta.
Tale impostazione tradisce la Costituzione ed implica gravissime conseguenze. Esistono casi in cui l´alimentazione artificiale è consigliata, altri in cui prolunga solo un´inutile agonia. La valutazione spetta ai familiari del paziente e ai medici che li accompagnano in una scelta che va fatta caso per caso e non in base ad una legge uguale per tutti. Quali le conseguenze per i medici? Si troverebbero davanti ad un bivio: violare la legge restando fedeli alla deontologia che impone di non fare nulla contro la volontà del paziente, oppure rompere, in nome di un´imposizione dello Stato, il patto di alleanza terapeutica con l´ammalato. Un patto che io, come chirurgo, considero sacro.
Le difficoltà aumenteranno e, con esse, il numero delle persone che si rivolgeranno ai tribunali. E così il Parlamento otterrà il risultato di aumentare i contenziosi. In questo contesto la Chiesa si mostra preoccupata. Alcuni temono il rischio che la libertà di scelta si trasformi in abbandono e nell´interruzione delle cure ai più deboli. Anche su questo dobbiamo essere chiari: non si può immaginare di aiutare i più bisognosi limitando la libertà degli individui. La difesa della fragilità non è in discussione e non è una discriminante tra credenti e non credenti, è un dovere del nostro convivere civile.
Va ricordato poi, che nella tradizione cristiana, l´accettazione della morte per sciogliersi dal corpo e ricongiungersi al Padre è elemento essenziale della fede. Essa è rintracciabile nei secoli, nella fine della vita di San Francesco come in quella del patriarca Athenagoras: l´arcivescovo di Costantinopoli, che lavorò con Paolo VI per l´unità dei cristiani, ricoverato in seguito ad una frattura del femore, chiese di non essere nutrito ma lasciato morire come un monaco, pregando e ricevendo come unico cibo la Santa Comunione. Come si sarebbero comportati il sottosegretario Roccella ed il ministro Sacconi con il patriarca? Ne avrebbero ordinato la nutrizione forzata per decreto?
Infine la politica, e le scelte che il Pd è chiamato a fare. Nel Partito Democratico, è noto, vi sono approcci più o meno scientifici nell´affrontare le questioni bioetiche, ciò è normale in un partito che cerca di unire culture diverse. Io, da credente, rispetto le posizioni di chi non lo è e non sento l´esigenza di imporre una visione univoca del mondo e della vita. Mi pare tuttavia urgente, oltre che logico, arrivare ad una posizione chiara del Pd, espressione della maggioranza se non di tutti, da difendere senza esitazione nelle sedi parlamentari e nel dibattito pubblico; una posizione che caratterizzi il Pd e che rifletta l´orientamento e le istanze dei suoi sostenitori. Se la libertà di pensiero rappresenta un punto di forza per un moderno partito riformista, l´assenza di una posizione definita rischia di trasformarsi nel suo tallone d´Achille.
L´autore è presidente della Commissione parlamentare d´inchiesta sul Servizio Sanitario Nazionale

Corriere della Sera 13.1.09
Documenti Pubblicata da Laterza un'antologia di messaggi scritti in condizioni estreme: una sfida orgogliosa ai nazisti e ai loro collaboratori
Vendetta. L'ultimo grido dalla Shoah «Siate leoni e non agnelli»
La missione affidata ai posteri dagli ebrei morenti
di Sergio Luzzatto


«Cari genitori, se il cielo fosse carta e tutti i mari del mondo inchiostro, non potrei descrivervi il mio dolore e tutto quello che vedo intorno a me». Così, in un giorno imprecisato della Seconda guerra mondiale, il figlio di una coppia di contadini ebrei della Galizia si rivolgeva ai genitori, dall'interno del Lager di Pustków, infilando la lettera nel recinto di filo spinato del campo. «So che non esco vivo da qui. Dico addio a tutti, cara mamma, caro papà, cari fratelli e piango...».
È questa soltanto una (neppure la più straziante) del centinaio di Lettere dalla Shoah
pubblicate ora da Laterza, nel mese del Giorno della memoria. Si tratta dell'edizione italiana di una raccolta uscita anni fa in Israele per cura dell'istituto Yad Vashem: una strana raccolta, meritoria nelle intenzioni, effettivamente memorabile nei contenuti, ma incredibilmente confusa nei criteri di presentazione, cui neppure la scrupolosa versione italiana — dove gli originali sono stati tradotti da tredici lingue, quasi l'intero campionario di idiomi della diaspora ebraica — può rimediare con efficacia. Il che non impedisce al libro di valere, lettera per lettera, voce per voce, come il più diretto possibile degli accessi all'inferno della Shoah.
«Cari sorella e cognato, vi scrivo della nostra disgraziata morte». Qualunque sia l'autore di ciascuna di queste missive (non sempre si è riusciti a identificarli), ci troviamo dentro una costellazione letteraria che le molte tragedie del Novecento hanno reso sin troppo familiare: appunto, il «genere» delle ultime lettere di condannati a morte. Percezione della fine imminente, inquietudine per la sorte dei familiari, fierezza di sé davanti all'infamia del nemico, consegne morali ai figli, rifugio nella fede o investimento sull'idea: nonostante l'incomparabile enormità storica della Soluzione finale, il campionario di temi presenti nelle Lettere dalla Shoah riflette la gamma di altre raccolte consimili, siano le ultime lettere dalla Resistenza italiana ed europea, o le ultime lettere dalla repubblica di Salò, o anche, al limite, le ultime lettere della Wehrmacht da Stalingrado.
Ma proprio l'enormità storica della Soluzione finale — lo sterminio di tutti gli ebrei d'Europa, uomini donne vecchi bambini — conferisce alle ultime lettere dalla Shoah qualcosa di unico. Per l'inaudita sua natura, il programma nazista mosse infatti, in extremis, la penna non soltanto di maschi in età di combattere, militari o militanti, ma anche di anziani, di ragazzi, e soprattutto di donne. Sicché per la prima volta nella storia terribile di questo genere letterario, le voci femminili si sentono qui almeno altrettanto delle voci maschili. Dall'oltretomba della Shoah parlano anche le mogli, parlano le madri e le figlie, parlano le nipoti e le nonne. E senza posa si interrogano sullo spettacolo mai visto che avevano sotto gli occhi, nei ghetti di Polonia come nei villaggi di Lituania, nei boschi d'Ucraina come nelle campagne di Boemia: la condanna a morte non dell'uno o dell'altro combattente di una causa, ma di tutti gli appartenenti a un'etnia; il massacro paziente e sistematico di un popolo intero. «Oggi vediamo come il mondo appare senza ebrei».
Le ultime lettere dalla Shoah furono scritte in circostanze estreme. Raramente sono documenti prodotti dal residuo di antichi rituali guerreschi, messaggi autorizzati dal nemico alla vigilia dell'esecuzione di un condannato. Il più delle volte, sono frammenti di carta rimessi dai rastrellati alla pietà di passanti sconosciuti, sono iscrizioni sulle pareti di sinagoghe diroccate, sono graffiti sui muri nelle fabbriche del lavoro coatto, sono fogli interrati nelle rovine dei ghetti, sono biglietti lanciati dai treni in movimento verso Auschwitz. Ciò che contribuisce a spiegare, forse, un ulteriore carattere distintivo di queste lettere: l'appello dei morituri — insistito, implacato, biblico — affinché sui tedeschi (e sui loro volenterosi collaboratori polacchi, ucraini, bielorussi, lituani) fosse fatta vendetta.
«Ricordatevi quello che ci ha fatto Amalek. Ricordatelo e (...) trasmettetelo come una volontà divina alle generazioni future»: in articulo mortis, vittime della Soluzione finale hanno parlato con le parole della Torah, aggrappandosi al Dio della vendetta. Una madre, Zlatke, al marito Moshe fortunosamente fuggito in America: «L'unica cosa che potete fare per noi è la vendetta sui nostri assassini. Poca cosa la vendetta su di loro». Un giovane, Asher, alla sorella Rivka scappata in Israele: «Tu e i tuoi figli, sappiate vendicare il nostro incolpevole sangue ebraico versato... uccidete ( dei tedeschi) chi vi viene a portata di mano. Nessuna differenza, uomini, donne, bambini, giacché con noi si è fatto lo stesso. (...) Devono dunque i vostri cuori solo bramare vendetta, vendetta, vendetta».
Siano uomini o siano donne, certi condannati a morte della Shoah sembrano non chiedere altro che questo: vendetta, vendetta, vendetta. Mushiya: «Avete l'obbligo di vendicarci ». Melech: «Esorto tutti gli ebrei che saranno ancora vivi dopo la guerra: vendicateci in tutti i modi e in ogni occasione che avrete! ». Fanja: «Fratelli di ogni paese, vendicateci ». Devorah: «Dopo la guerra ricordatevi di vendicare vostra sorella, a cui non è stato concesso di rivedervi ancora una volta». Natke: «Ricorda solo di vendicarci, se potrai». Eliezer: «Fratelli miei, siamo noi quelli a cui è stato assegnato un dovere sacro, e questo dovere è la vendetta». Esther: «Sorelle e fratelli, vendicateci dei nostri assassini». Gina: «Vai in guerra e vendica tua moglie e il tuo unico figlio». Feivish: «Abbiamo una sola richiesta, ed è la vendetta». Quasi settant'anni dopo, che fare della spaventosa litania che accompagnò derelitti ebrei d'Europa nel loro cammino verso la fossa (ancora Eliezer, un rabbino polacco: «Io stesso ho udito centinaia di volte i martiri che ho visto — ero costretto a farlo — mentre rendevano l'anima a Dio in santità e purezza, e le loro ultime parole erano: "Fratelli nostri, ricordate, vendicateci, vendicate il nostro sangue"»)? Questa litania sulla vendetta basta forse per rimettere in discussione la migliore storiografia, che ha sottolineato piuttosto la dimensione intrinsecamente narrativa — documentaria, testamentaria, lapidaria — della «letteratura» della Shoah ( La vendetta è il racconto, secondo il titolo di un saggio di Pier Vincenzo Mengaldo)?
Ovviamente, non basta. Ma la litania sulla vendetta ci dice pur sempre una cosa importante riguardo all'impatto storico della Shoah sopra l'anima dell'ebraismo. Agli ebrei sopravvissuti, gli ebrei sterminati chiesero di vivere un futuro diverso da tanto, da troppo passato: non un futuro da agnelli, ma un futuro da leoni.
E lo chiesero, in particolare, ai fratelli approdati nella «Terra», in Palestina: «Che la vendetta contro i nostri nemici sia molto grande e condotta dal popolo di Israele». Dopo l'orrore della Soluzione finale, nulla poteva, né doveva, essere più come prima.

il Riformista 13.1.09
L'ipocrita allegria del luna park davanti all'Auschwitz italiana
di Antonella Benanzato


Trieste. Un luna park lungo il perimetro dell'unico campo di sterminio nazi-fascista su suolo italiano. Più di qualche visitatore ha potuto constatare questo curioso abbinamento durante le festività natalizie. Alla periferia di Trieste, a ridosso della Risiera di San Sabba dove morirono 5 mila persone (triestini antifascisti, ebrei, sloveni, croati) bruciati nel forno crematorio, è stata attrezzata un'area con giostrine, tiro a segno e altre festose amenità.
La memoria storica è evidentemente un pò labile. Eppure l'oltraggio alle vittime dell'olocausto e dell'antifascismo, non è sfuggito a chi ha visitato e firmato il registro delle presenze in quello che Saragat nel 1965, dichiarò monumento nazionale.
Tra i numerosi messaggi di solidarietà e di ripudio della violenza nazi-fascista, ci sono anche interrogativi eloquenti, firmati da cittadini italiani e stranieri: «Ma come si fa a mettere un luna park a fianco di un luogo come questo?». Si rabbrividisce quando si varca il lungo corridoio sormontato da pareti di cemento armato, che porta alle celle dove furono imprigionati, torturati e seviziati centinaia di esseri umani (uomini e donne di tutte le età e bambini anche di pochi mesi). Da qui molti di loro finirono a Dachau, Auschwitz, Mauthausen, un orrore che si consumò dall'8 settembre del 1943 al 1945. Alle finestre sporgono ancora minacciosi gli altoparlanti dai quali le SS impartivano gli ordini ai prigionieri o trasmettevano musica a tutto volume per coprire le urla delle loro vittime, in quello che istituirono come Polizeihaftlager. Nel cortile delle esecuzioni c'è ancora la traccia dell'enorme camino, del forno crematorio che ogni giorno bruciava quasi un centinaio di persone. Gli oggetti di queste persone sono conservati nelle teche del museo, insieme alle loro disperate lettere di addio, dei testamenti che si fatica a leggere sino in fondo.
Lo sconcerto assale il visitatore quando, tra le fessure delle alte pareti in mattoni rossi della piliera, occhieggia l'insegna del luna park. Un contrasto macabro che lascia interdetti. Eppure le raccomandazioni che si possono leggere all'interno dell'area monumentale richiamano al massimo rispetto e alla doverosa compostezza. Sulle pareti delle celle di appena qualche metro dove venivano stipati i prigionieri, si possono ancora leggere incise le frasi dei condannati a morte, le ultime parole di chi da lì a poco sarebbe "passato per il camino". Anche i disegni del pittore Anton Zoran Music, rinchiuso alla Risiera, documentano l'orrore del lager triestino. Fu l'artista goriziano, tra l'altro, a segnalare il passaggio alla Risiera di Padre Placido Cortese, frate della Basilica di Sant'Antonio da Padova e direttore del Messaggero di Sant'Antonio, attivo nel soccorso ai perseguitati. Il religioso fu rapito e torturato dai nazisti a Trieste e ucciso, probabilmente, proprio a San Sabba. Dopo essersi serviti, nel periodo gennaio-marzo 1944, dell'impianto del preesistente essicatoio, i nazisti lo trasformarono in forno crematorio, in grado di incenerire un numero maggiore di cadaveri, secondo il progetto di Erwin Lambert, che già aveva costruito forni crematori in alcuni campi di sterminio nazisti in Polonia. Questa nuova struttura venne collaudata il 4 aprile 1944, con la cremazione di settanta cadaveri di ostaggi fucilati il giorno prima nel poligono di tiro di Opicina.
L'edificio del forno crematorio e la connessa ciminiera vennero distrutti con la dinamite dai nazisti in fuga, nella notte tra il 29 e il 30 aprile 1945, per eliminare le prove dei loro crimini, secondo la prassi seguita in altri campi al momento del loro abbandono. Tra le macerie furono rinvenute ossa e ceneri umane raccolte in tre sacchi di carta, di quelli usati per il cemento. Le indicibili torture documentate dagli stessi disegni dei prigionieri cozzano con l'atmosfera scintillante che si respira a pochi metri dal museo. Del resto, non si può guardare sempre indietro. Anche se il 27 gennaio sarà la Giornata della Memoria e alla Risiera di San Sabba sarà la solita parata di autorità. Ma per quel giorno, probabilmente del luna park non ci sarà più traccia.

Aprile on line 13.1.09 18:34
Rifondazione il giorno dopo
di Marzia Bonacci


Dopo la sfiducia in Direzione del direttore di Liberazione Sansonetti, sostituito da Greco e Fania, sia Vendola che Giordano delineano l'uscita dal partito, che verrà discussa all'assemblea di Chianciano il 24, e rilanciano la costituente della Sinistra. Alcuni però restano pur rimanendo fedeli al progetto e critici verso la segreteria Ferrero. Le ripercussioni si fanno sentire anche nel Pdci

Il giorno dopo la Direzione del partito con cui la maggioranza di Ferrero ha sfiduciato il direttore di Liberazione Sansonetti e che ha prodotto, con la scelta di lasciare il parlamentino del Prc, la prima mossa scissionista della famiglia degli ex bertinottiani, le acque mosse della Sinistra si placano, almeno apparentemente, lasciando emergere in superficie i prossimi passaggi politici che l'attendono.
Primo fra tutti l'appuntamento di Chianciano previsto per il 24 e il 25 del mese in cui l'area dei giordano-vendoliani farà il punto su quanto accaduto nelle ultime settimane sul caso Liberazione e sancirà l'uscita dal partito. In una intervista doppia rilasciata a La Stampa e a La Repubblica il governatore pugliese ha infatti ratificato, ancora una volta, l'impossibilità di permanere nella formazione. Una storia, quella durata 18 anni, che "si è ormai compiuta, finita dentro una prigione di risentimenti" che di fatto fa in modo che il Prc "non è più casa nostra", perché è "un luogo che ha chiuso i conti con la parola rifondazione", preferendo far nascere "un'altra cosa", quella che gli ricorda molto da vicino "quei gruppi extraparlamentari degli anni Settanta", spiega il leader dell'area scissionista. E che non sia più una dimora accogliente lo dimostra il "vulnus", lo definisce proprio così, inferto al quotidiano comunista, che ha rappresentato per Vendola "qualcosa di più profondo". Che fare allora? "Meglio ricostruire qualcosa di nuovo", "mettere ordine", "riscrivere lo spartito della sinistra del futuro", che tradotto più semplicemente vuol dire "partecipare alla costruzione di un nuovo soggetto della sinistra italiana". Occasione per scegliere il da farsi sarà comunque l'appuntamento di Chianciano con cui si definiranno anche tempi e modi per la scissione: "decideremo insieme tra dieci giorni, cercando di convincere più gente possibile dentro e fuori Rifondazione", promette il governatore della Puglia rilanciando dunque l'obiettivo della costituente della Sinistra che lo vedrà impegnato a riannodare i fili del legame con Sd, con cui è nata l'associazione Per la Sinistra.
D'accordo su tutta la linea è anche l'ex segretario Giordano, che ribadisce come la situazione sia tutt'altro che recuperabile: "gli spazi sono veramente ristretti, quasi inagibili", perché "la maggioranza va avanti solipsisticamente". Dunque è tempo di nuove imprese, anche se specifica Giordano "nessuno parla di nuovi partiti", visto che semmai "è tempo di ridefinire un progetto politico di sinistra credibile nella società". Comunque anche di questo si parlerà a Chianciano, come delle prospettive che si aprono in merito alle elezioni, europee e amministrative: la discussione dell'ipotesi di una lista unitaria per Strasburgo, spiega Giordano, è infatti rinviata all'assise che l'area terrà a fine mese.
Se qualcuno se ne va, per altro nomi pesanti nel partito (oltre a Vendola e Giordano, anche Migliore, Gianni, Gagliardi, Mascia), qualcun altro, pur fedele alla mozione 2 e al progetto della costituente della sinistra, sceglie invece di restare e dare battaglia dentro il Prc. Si tratta della pattuglia di giordano-vendoliani antiscissionisti che ieri in Direzione, nella veste di Rosa Rinaldi, Luigi Cogodi e Augusto Rocchi, sono rimasti nel parlamentino e, pur votando contro l'allontanamento di Sansonetti, hanno comunque garantito il numero legale per la votazione contro il direttore di Liberazione. Gli stessi che oggi hanno reso pubblico un documento con cui spiegano la loro scelta. "Proseguiamo il nostro impegno politico in e da Rifondazione comunista", si legge nel testo, perché contrari "a ogni ulteriore divisione della Sinistra o a troppo generici processi unitari", anche se il fine resta sempre quello di lavorare "all'avvio di un processo costituente della Sinistra". La loro critica si rivolge al fatto che questo stesso tentativo, almeno attualmente, si sta realizzando con modalità non rassicuranti: "non può avere né i tempi della prossime elezioni amministrative ed europee né l'indeterminatezza dell'agire politico", ammoniscono gli antiscissionisti che prediligono la strada "dei tempi medi", ovvero un nuovo soggetto politico che nasca come "sbocco di un lavoro che deve ripartire dal cuore della crisi della Sinistra, cioè dal suo reinsediamento sociale e territoriale".
Oltre ai tre esponenti della Direzione, questa area di bertinottiani che sceglie di restare conta sull'adesione di diversi esponenti nazionali e locali, almeno una trentina: Milziade Caprili (già vicepresidente del Senato), Ezio Locatelli (ex deputato e segretario della federazione di Bergamo), l'ex deputata Marilde Provera, Rosario Rappa (segretario uscente del Prc in Sicilia), Gianluca Schiavon (membro della Commissione nazionale di Garanzia), Raffaele Tecce (già senatore e responsabile Enti Locali del Prc), Tommaso Sodano (già presidente della commissione Ambiente del Senato e responsabile Ambiente del Prc), oltre che gli gruppi dirigenti di Sardegna e Calabria, come Damiano Guagliardi, esponente della direzione del Prc e assessore regionale in Calabria, Fernando Aiello, assessore provinciale di Cosenza e membro del Comitato politico nazionale del Prc, Angelo Brocco a Rocco Tassone, a loro volta membri del Cpn.
Sul fronte Liberazione è ufficiale da sabato ed è stato confermato ieri col voto della Direzione, l'arrivo a via del Policlinico del sindacalista cigiellino Dino Greco. Ad affiancarlo, in quanto non giornalista professionista, Fulvio Fania, storica firma del quotidiano ed esperto vaticanista. Fino ad oggi comunque non si avevano notizie del secondo direttore, così che il segretario Ferrero era stato costretto a chiedere al dimissionato Sansonetti di restare per consentire l'uscita del giornale. A seguito del suo rifiuto, mentre la redazione nella serata di ieri confermava lo sciopero, la società editrice Mrc Spa ha fatto sapere di non essere in condizioni, a norma di legge, per dar corso alla pubblicazione della testata, che mercoledì e giovedì infatti non sarà in edicola. Prosegue comunque l'iter per la sua vendita che vede in campo come protagonista principale Luca Bonaccorsi, editore di Left e Alternative per il socialismo. Un'acquisizione che preoccupa i lavoratori che denunciano la mancanza di certezze lavorative e sindacali.
Gli eventi di Rifondazione comunque destano interesse anche nel resto delle formazioni della Sinistra. Il Pdci, in tutte e due le sue versioni, quella dei vicini alla costituente (Belillo e Guidoni) e quella della maggioranza di Diliberto che vorrebbe la sintesi fra i due partiti della falcemartello, è in fibrillazione. Per l'eurodeputato dell'associazione Unire la Sinistra, infatti, "non possiamo più perdere tempo", perché "Vendola ha ragione: non possiamo continuare una politica nevrotica del contrasto all'interno dei nostri partiti", dice Guidoni rinnovando il suo impegno e quello della sua area per "contribuire alla nascita del nuovo partito della Sinistra". Al contrario per la maggioranza dilibertiana, l'uscita dei giordano-vendoliani è l'est ist zeit per la riunificazione dei due partiti fratelli: "ci batteremo per tornare in Parlamento. Ma da comunisti", afferma, rispondendo al governatore pugliese che se il Prc è ridotto a un gruppo extraparlamentare è certo grazie a lui e Bertinotti "che hanno abbandonato gli ideali comunisti".
Cosa accadrà è difficile stabilirlo. Soprattutto perché a rendere il quadro più complesso è il mistero sulla riforma della legge elettorale. Dalla presenza o meno della soglia di sbarramento, oltre che dalla misura che verrà stabilita se si deciderà di porla, dipendono anche le riorganizzazioni a Sinistra e i loro tempi. La riunificazione, da un parte, tra Prc e Pdci con conseguente unità agli appuntamenti elettorali prossimi venturi? La nascita, dall'altra parte, di una lista comune fra scissionisti di Rifondazione, Sd, comunisti minoritari e parte dei Verdi? In che forma, poi, si realizzerà quest'ultima? Già come partito da testare alle amministrative e alle europee oppure come semplice cartello per rinviare la nascita della nuova formazione al dopo elezioni? Sono tutti interrogativi a cui, senza certezza sul sistema di voto, appare molto difficile dare risposta.

lunedì 12 gennaio 2009

Repubblica 12.1.09
Pedofilia e riti satanici crescono i reati dei preti li assolve solo il Papa
Superlavoro al tribunale del clero
di Orazio La Rocca


CITTÀ DEL VATICANO - Rubare ostie consacrate per usarle in riti satanici; violare il segreto della confessione; commettere peccati sessuali da parte di un ecclesiastico o di una religiosa, a partire dalla pedofilia; abortire o rendersi corresponsabile dell´interruzione volontaria della gravidanza; aggredire o offendere la persona del Papa. Sono i 5 «grandi» peccati per essere assolti dai quali non è sufficiente confessarsi, ma occorre una speciale dispensa papale emanata da un dicastero pontificio ad hoc, la Penitenzieria Apostolica, retta attualmente dal cardinale James Stafford. Peccati, dunque, gravissimi per la Chiesa, in forte crescita, specialmente - spiegano in Vaticano - attraverso l´aborto, la violazione del celibato sacerdotale e la profanazione delle ostie, un delitto, quest´ultimo, in aumento in particolare tra le sette dell´America Latina e in Europa. Peccati non a caso chiamati «Delitti riservati alla Santa Sede», il cui "ministero" di competenza - il più antico dicastero vaticano fondato nel 1200 da papa Onorio III - ogni giorno è chiamato a far fronte ad un superlavoro per rispondere alle richieste di «assoluzione e perdono» inviate da preti e vescovi di tutto il mondo.
Un lavoro delicato e riservato, svolto da un organismo interno al dicastero chiamato Congresso presieduto dal cardinale Stafford, affiancato dal vescovo Reggente Gianframco Girotti e da dieci membri, abituati da sempre ad operare con discrezione e senza pubblicità per far fronte alle migliaia di richieste avanzate dai sacerdoti che chiedono l´assoluzione papale per i 5 grandi peccati riservati alla S. Sede. «Numeri non ne possiamo fare, ma posso assicurare - ammette monsignor Girotti - che è un lavoro costante e molto rilevante». Ogni pratica viene evasa nel giro di una giornata. «Anche se ci possono essere casi - aggiunge il Reggente - che richiedono più sedute e doverosi approfondimenti per meglio verificare se il pentimento è autentico, spontaneo e sincero». Facile immaginare che tra questi casi un posto importante è occupato dalle richieste di perdono avanzate per quei sacerdoti che si sono macchiati del delitto di pedofilia, come è avvenuto recentemente negli Usa, e più in generale per la violazione del celibato sacerdotale.
Da domani se ne parlerà nel simposio pubblico di due giorni organizzato per la prima volta dalla Penitenzieria nella sede di piazza della Cancelleria 1, a Roma. Presenti il cardinale segretario di Stato Tarcisio Bertone, i vescovi Gianfranco Ravasi e Rino Fisichella, il professore Agostino Borromeo, docente alla facoltà di Scienze politiche all´università La Sapienza di Roma, teologi e moralisti. «È la prima volta che questo nostro dicastero dà vita ad un incontro pubblico», preannuncia monsignor Girotti. «Lo facciamo - sottolinea l´alto prelato - non per metterci in vetrina, ma per dimostrare che non siamo un dicastero burocratico, ma di grazia e di misericordia, che su delega del Santo Padre, dà vita e senso ad uno dei sacramenti più importanti, la confessione».

Repubblica 12.1.09
È morto a 86 anni il porporato amico di Bush e primo nunzio apostolico a Washington. Sulla sua carriera la macchia del periodo trascorso in Argentina
Pio Laghi, il cardinale che non sfidò la dittatura
di Marco Politi


Tentò di fermare la prima guerra in Iraq mediando tra la Casa Bianca e l´Iraq

CITTÀ DEL VATICANO - L´ultima sua missione fu l´incontro cruciale con Bush il 5 marzo 2003, quando papa Wojtyla lo inviò a Washington per bloccare in extremis la guerra all´Iraq. Pio Laghi - il porporato morto ieri all´età di ottantasei anni, per il quale il presidente Napolitano ha mandato un messaggio di cordoglio - era amico personale della famiglia Bush. Ma fu un dialogo fra sordi. George W. Bush aveva già deciso di arrivare a Bagdad.
«Quando uscii - ci ha confidato anni dopo il cardinale - un generale accompagnandomi alla macchina, mi sussurrò: "Non si preoccupi, in pochi mesi sarà tutto sistemato"».
Il destino ha voluto che l´ultimo suo intervento sia stato ancora dedicato all´America. L´elezione di Obama libera gli Stati Uniti «da quell´orrendo peccato originale, che è stato lo schiavismo», disse a dicembre ad un dibattito organizzato al centro Elea.
Non fosse stato per il periodo passato da nunzio a Buenos Aires dal 1974 al 1980, il cardinale Laghi avrebbe potuto vantarsi di una carriera perfetta. Pacato e gran lavoratore, nato il 21 maggio 1922 nei pressi Forlì e diventato vescovo a quarantasette anni, Paolo VI lo aveva inviato nel 1969 a Gerusalemme come delegato apostolico. Nell´80 Giovanni Paolo II gli aveva assegnato Washington, dove - in seguito ai negoziati tra Santa Sede e amministrazione Reagan - assunse nel 1984 l´incarico di primo nunzio vaticano nella storia degli Stati Uniti. Nel 1990 Wojtyla lo nominò alla guida della Congregazione per l´Educazione cattolica, servizio premiato dopo nove anni con la porpora. Ancora nel 2001 era tornato in Terrasanta con lettere papali per mediare tra il premier israeliano Sharon e il leader palestinese Arafat.
I sei anni trascorsi a Buenos Aires al tempo della dittatura dei generali e delle feroci rappresaglie contro gli oppositori del regime, gli sono rimasti invece addosso come una macchia e forse un rimorso. In linea con le istruzioni vaticane di non dare spazio all´opposizione marxista (o comunque armata) Laghi tenne nei confronti del regime militare argentino un atteggiamento di assoluta realpolitik, senza lasciarsi andare a denunce o gesti di biasimo, nemmeno quando aumentarono le «sparizioni» degli oppositori. Angela Boitano, madre di due desaparecidos italo-argentini, ricorda che insieme ad altri familiari di vittime incontrò il cardinale nel 1979, a margine della Conferenza episcopale latinoamericana a Puebla (Messico), chiedendo il suo aiuto per rintracciare gli sventurati: «Laghi ci ascoltò e ci rispose solamente: se sono stati molto torturati, i militari non li lasceranno mai in libertà». Nemmeno un militare, commenta la Boitano, «si sarebbe permesso una tale brutalità».
Laghi si difese in seguito, dicendo che soltanto verso la fine del 1979 (quando stava per partire) «ebbi la certezza che la violazione dei diritti umani fosse divenuta sistematica e la condannai». La verità è che gran parte dei vescovi argentini appoggiava la dittatura e il Vaticano in quel periodo non si spese in condanne.

Repubblica 12.1.09
Croce e Venturi. La libertà perduta
di Nello Ajello


Dagli anni del fascismo al dopoguerra andò avanti un carteggio ora curato da Silvia Berti, fra il filosofo e il giovanissimo storico
Dopo la Liberazione il dialogo si spinge sul Partito d´Azione avversato dall´uno sostenuto dall´altro

«Senatore e caro Maestro», «Carissimo giovane amico». Il primo è il settantunenne Benedetto Croce. L´altro è Franco Venturi, ventitré anni, destinato a diventare il maggiore studioso italiano dell´Illuminismo. Scambiandosi quegli appellativi, essi danno inizio nel 1937 a un denso rapporto epistolare - quaranta lettere in totale - che si prolungherà fino al 1950. In massima parte inedita, la corrispondenza esce a giorni presso il Mulino, a cura di Silvia Berti, in un volume intitolato Carteggio Croce - F. Venturi (pagg. 150, euro 20).
Fra i due esistono rapporti consolidati. Franco appartiene a una famiglia di illustri tradizioni intellettuali. Suo nonno, Adolfo Venturi, è stato una figura dominante della critica d´arte a cavallo fra Otto e Novecento; attività ereditata, con una più deliberata apertura agli stimoli della modernità, dal figlio Lionello, padre di Franco. Nel 1931, Lionello s´era rifiutato di sottoscrivere il giuramento di fedeltà al regime fascista imposto da Gentile ai docenti italiani. Dal marzo del ´32 l´intera famiglia Venturi s´era stabilita a Parigi. Alla mancata firma sotto l´editto gentiliano s´era aggiunto il coinvolgimento del giovane Franco in quell´ondata giudiziaria che, fra arresti e sospetti, aveva di recente colpito il gruppo antifascista torinese di Giustizia e Libertà. Come già a Torino, anche nella capitale francese, Croce incontrava i Venturi: una consuetudine che, nata con un marchio intellettuale, si nutriva di umori politici.
Quest´ultima dimensione, insita nei rapporti tra il giovane e l´anziano, resta però sottintesa nelle lettere che essi si scambiano. Sono, entrambi, sorvegliati speciali. Il filosofo, la cui abitazione napoletana era stata invasa, nell´ottobre del ´26, da una squadraccia fascista, alludeva all´episodio dichiarando di aver «avuto l´onore di ricevere una visita dello Stato Etico».
Quanto a Franco Venturi, il suo nome figurava nell´elenco degli antifascisti da perseguire. A dispetto di ogni cautela usata dai corrispondenti, le loro lettere vengono registrate negli archivi della Polizia. Come ha sottolineato Silvia Berti nella diffusa introduzione al volume, il cuore di questo dialogo epistolare «sono i libri o, in più d´un caso, l´assenza di libri». Venturi intrattiene Croce sui propri studi e progetti: una ricerca sull´illuminismo piemontese, poi l´abbozzo di un saggio dedicato a Filippo Buonarroti; e via via altri temi che il giovane storico ha già saggiato, da Diderot a una più generale disamina dell´illuminismo francese, da Tommaso Campanella a N. A. Boulanger, da Hegel «storico dell´illuminismo» a un esame della cultura del Settecento nell´intero continente: «Vedo di fronte a me come una meta lontana e in un certo senso ideale», egli specifica, «una storia europea del secolo dei lumi». Croce incoraggia l´amico. Consente con alcune delle sue diagnosi. Lo aiuta nel procurarsi i libri.
I libri, appunto, come ricerca. Poi, ben presto, come assenza e rimpianto. Al quasi dorato esilio parigino, nella vita di Franco Venturi subentra infatti una nuova fase. Nella corrispondenza con Croce ne risuona un´eco desolata. Arrestato a Port Bou dalla polizia franchista nell´ottobre del 1940, mentre cercava di raggiungere Lisbona per poi imbarcarsi per gli Stati Uniti dove la famiglia si era intanto trasferita, Venturi sperimenta per cinque mesi la severità delle carceri spagnole. Prima a Figueras, poi a Madrid e Barcellona. Estradato in Italia, lo custodiscono in carcere a Genova e Torino, finendo con l´assegnarlo al confino.
Destinazione: Monteforte Irpino. È il maggio del ´41. Franco si sente così trasformare - e ne scrive al «caro Maestro» - in «un prigioniero che ha visto interrotto il suo lavoro in cui metteva tutta la sua passione e la sua anima». Ad Avigliano (Potenza) dove viene trasferito grazie all´intervento del nonno Adolfo presso qualche residuo amico autorevole, va meglio, ma solo un po´. Croce continua a scrivergli. «Soffro per Lei perché so quale spasimo sia non poter avere a mano gli strumenti necessarii ai nostri dubbi e alle nostre ricerche!». E aggiunge: «Se posso esserle utile, mi adoperi».
Ma ecco che vien meno anche il soccorso epistolare. Agli internati, adesso, è consentito di scrivere solo ai familiari: una lettera per settimana, lunga non più di ventiquattro righe. La corrispondenza con Croce prima si dirada, poi tace. Per quattro anni: dal ´42 al ´46. Dopo la caduta del fascismo, per Venturi s´è aperta una stagione di lotta politica. Egli lavora alla stampa clandestina di Giustizia e Libertà, s´impegna nella Resistenza.
Anche il suo essere crociano subisce l´influenza di nuove idee e pulsioni. Si manifestano, sul pensiero del «caro Maestro», delle riserve che la comune avversione al fascismo aveva mimetizzato.
Sono sfumature che non sfuggono a una studiosa attenta come la curatrice Berti: su più d´un argomento trattato nelle lettere, le pare di avvertire uno scarto di sensibilità fra l´approccio più freddo, prevalentemente filosofico-letterario di Croce e quello passionale e deliberatamente «democratico» di Venturi. Un solo esempio: nell´entusiasmo professato dal giovane studioso per l´illuminismo piemontese la curatrice vede profilarsi l´ombra di Gobetti, non del tutto gradita al filosofo.
La novità, a fascismo appena caduto, è l´idiosincrasia di Croce per Giustizia e Libertà (e per il partito d´Azione che ne è l´erede). L´argomento trascende l´epistolario: lì non se ne parla, anche se altrove Venturi non risparmia a Croce critiche pesanti. E si spiega. Quell´idiosincrasia angustia, in particolare, quegli intellettuali borghesi (fra i quali proprio Venturi) nella cui formazione politico-culturale il direttore della Critica era assurto a simbolo di spirito critico e dignità civile. Il dialogo diretto fra Croce e Venturi diventa, nell´ultima sua fase meno umanamente drammatico, più tecnico, tale da schivare temi scottanti. Ma, fuori, nella società politica, la discussione sul tema del P. d´A. è così aspra e tenace da riflettersi nei rapporti fra Croce e il suo discepolo prediletto, Adolfo Omodeo. Vi si trova coinvolta perfino la cerchia familiare del Senatore: è un fervente «azionista» suo genero, Raimondo Craveri, marito della figlia Elena. Per Croce il partito di Parri e di Lussu è un bersaglio fisso. Lo considera una costruzione insensata, a partire dalla «diade» (cioè dalla coppia di parole) Giustizia e Libertà che presiede alla sua nascita. Lo giudica un «ircocervo», una bestia immaginaria, mezza liberale, mezza socialista. Qualcosa da deridere in linea teorica, prima ancora di criticarla nei fatti.
Tra le pagine più intense del libro curato dalla Berti figura, pubblicata in appendice, una lettera di Leo Valiani a Croce. Data: 6 ottobre 1945. È la testimonianza di un esponente azionista che, di fronte alla requisitoria del grande filosofo contro il suo partito, resiste a «non dirsi crociano». Valiani rievoca che cosa abbia rappresentato per una generazione di antifascisti «la lettura e la meditazione dei libri di Benedetto Croce, che penetravano nei nostri reclusori di Lucca e di Civitavecchia», accompagnandoci nella «fornace della lotta clandestina e della guerra rivoluzionaria». Che cos´altro, d´altronde, potevamo, fare noi "quattro gatti giellisti" «se non costituirci in un partito che fosse "d´azione" proprio nel senso che Mazzini» dava a questa parola? E così è sorta quella creatura politica «a Dio spiacente ed ai nemici suoi», che porta in sé la propria condanna. «Se vincono i comunisti ci rimettono in prigione; se vincono i cattolici ci mettono all´indice; se vincono i liberali ci trattano da poveri pazzi. Ma questo è il destino delle eresie. E anche l´amore delle eresie l´abbiamo imparato da Benedetto Croce».
Non si sa come l´abbia presa Croce. Ma se lo scrivere lettere equivale a confessarsi, questa di Valiani - politico sfiduciato, rivoluzionario deluso - è davvero da manuale.

Corriere della Sera 12.1.09
Nicaragua A due anni dall'insediamento, il presidente è isolato. Nel lusso della villa di Managua
Sandinismo addio, «tradito» da Ortega
Brogli, censure, diktat: l'ex ribelle ha perso il sostegno internazionale
Ancora una volta una rivoluzione è stata tradita dall'interno
di Rocco Cotroneo


RIO DE JANEIRO — Quando Daniel Ortega tornò al potere in Nicaragua, nel novembre 2006, in pochi si allarmarono: il comandante della Revolución del 1979 aveva smesso i panni del guerrigliero e girava avvolto in bandiere rosa, al suono delle canzoni di John Lennon, chiamando il Nicaragua alla pace e all'amore. In quei giorni, però, ancor meno persone si esaltarono per la rivincita di un personaggio che fu anche assai amato. Quel ritorno era frutto di indecenti accordi trasversali con gli ex nemici, poggiava su una risicata maggioranza di voti e non prometteva niente di buono. Avevano visto giusto.
Due anni dopo, il Nicaragua è tra i più instabili Paesi dell'America Latina. Nulla di comparabile alla scia di sangue del passato, ma qualcosa di pesante è di nuovo nell'aria. Il Parlamento è di fatto chiuso dallo scorso agosto, governo e opposizione non si riconoscono a vicenda, la crisi economica incombe, il mondo ha bloccato aiuti e finanziamenti. Ortega è isolato nella sua villa nascosta dalle palme, a Managua, quella che sottrasse a un miliardario filo-Somoza nel 1979 e dalla quale non si è più mosso. Governa affiancato dalla moglie e pochi fedelissimi, accusato del peggior caudillismo, di censura, di aver imbrogliato alle ultime elezioni amministrative. Non parla, non appare in pubblico. Ha perso soprattutto molte simpatie all'estero e nei circoli intellettuali, che erano sempre stati un punto di forza dei sandinisti.
Esiste un ampio consenso, dentro e fuori il Nicaragua, che il voto dello scorso novembre, assegnando una gran maggioranza dei municipi al Fronte Sandinista, sia frutto di una frode guidata dal governo. Se fosse stato pulito, Ortega ne sarebbe uscito sconfitto. Gli effetti si trascinano ancor oggi. La scelta aventiniana dell'opposizione non riesce a far raggiungere il numero legale alle riunioni del Parlamento e il budget per quest'anno è fermo. Ortega è pronto alla prova di forza: vuol fare approvare la legge per decreto, contro la Costituzione.
Colpisce la lista dei simpatizzanti persi per strada e i regolamenti di conti con chi non approva il suo governo. Ortega è andato a ripescare una vecchia causa contro Ernesto Cardenal, 83 anni, poeta e teologo, che fu suo ministro della Cultura dopo la rivoluzione e oggi è critico sul nuovo corso (Ortega, dice, gestisce una monarchia appoggiata da poche famiglie). «L' azione contro Cardenal è opera di un regime esecrabile», ha reagito lo scrittore uruguayano Eduardo Galeano. «Un'altra rivoluzione tradita da dentro», ha rincarato il portoghese José Saramago. Per difendere un altro ex maltrattato da Ortega, Sergio Ramírez, si sono mossi pure Gabriel García Márquez e Carlos Fuentes. Allo scrittore Ramírez il governo di Managua ha impedito di scrivere un articolo culturale sul quotidiano spagnolo El País, adducendo i diritti sull'argomento. È stato il principale caso all'ultima fiera del libro di Guadalajara. Il piccolo Paese centroamericano è anche nel mirino dei gruppi femministi per aver approvato la legge più rigida al mondo contro l'aborto, d'accordo con le gerarchie cattoliche.
Come di costume, ogni difficoltà interna a un governo di sinistra in America Latina viene imputata all'eterno imperialismo americano. Ortega segue il copione dell'alleato Hugo Chávez e denuncia complotti, cerca una sponda con la Russia di Medvedev, e dialoga con Iran e Libia. Lo scandalo delle ultime elezioni ha alienato al Nicaragua molti aiuti internazionali, che pesano per un buon 40% del bilancio pubblico. Al Nicaragua resta l'Alba, l'alleanza poggiata sui petrodollari che il Venezuela ha distribuito copiosi ai suoi alleati in questi anni. Ma con la crisi internazionale e i problemi interni di Chávez, il futuro del meccanismo è incerto. Così come la seconda vita del comandante Ortega.

Repubblica 12.1.09
Da Rembrandt a Vermeer
Il nord e l'arte di descrivere
Cinquantacinque dipinti esposti a Roma documentano la grande sapienza di olandesi e fiamminghi del Seicento


ROMA Verso il 1630, divenne molto popolare nei Paesi Bassi una bizzarra incisione, in cui era rappresentata la sezione del tronco di un melo. La stampa accreditava il sinistro presagio che molti avevano individuato nelle strane figure generate dal midollo del melo all´interno del tronco. In quelle chimeriche configurazioni si erano ravvisate le inquietanti silhouettes di monache, frati ed altri esponenti del detestato clero «papista», il che era stato messo in relazione con la minacciosa presenza, ai confini della repubblica calvinista d´Olanda, di un agguerrito esercito spagnolo, deciso a rovesciarla per reinstaurarvi un regime cattolico.
Capitata nelle mani dello scettico Rubens, l´incisione aveva suscitato un disincantato commento circa il ruolo svolto dalle forti emozioni nello scatenare la fervida immaginazione popolare. Come rileva Svetlana Alpers, che ha rievocato l´episodio in un affascinante libro dedicato all´arte olandese e alla sua inconfondibile vocazione descrittiva (Arte del descrivere. Scienza e pittura nel Seicento olandese, 1984), Rubens, benché di origine nordica, era imbevuto di cultura italiana. Si può pertanto esser certi che, se per caso gli fosse stata commissionata un´opera sul «prodigio del melo», si sarebbe disinteressato della forma dell´albero e avrebbe inscenato, in linea con la sua formazione italianizzante, una gran macchina narrativa, animata da protagonisti e comparse impegnate a esprimere stupore, paura, commozione mediante i moti del corpo e la mimica dei gesti e dei volti.
Al polo opposto della tradizione italiana, che intende il quadro come una narrazione per immagini e privilegia la rappresentazione delle azioni umane e l´espressione dei sentimenti, si colloca la tradizione «nordica», che sboccia nella portentosa stagione del ´400 fiammingo e conosce una seconda, non meno rigogliosa fioritura, nel ´600, soprattutto olandese. Anziché sforzarsi di rendere l´invisibile attraverso il visibile, la linea nordica si concentra in modo pressoché esclusivo sulle apparenze: tutta la sua inarrivabile e quasi maniacale maestria tecnica mira a riprodurre al meglio la superficie delle cose, la loro «pelle». Se la pittura italiana nasce all´insegna del motto oraziano ut pictura poesis - la pittura è come la poesia - quella nordica si colloca sotto l´egida dell´ut pictura visio. Il suo scopo è l´esercizio virtuoso di un´attività analiticamente descrittiva; i suoi emblemi potrebbero essere un pennello dai peli finissimi, capace di catturare ogni minimo dettaglio della realtà, ed una lente, lo strumento ottico che perfeziona e potenzia la facoltà visiva.
A dispetto della capricciosa arbitrarietà delle figure che riproduce, la stampa del «melo miracoloso» s´inserisce dunque nel solco analitico-descrittivo della tradizione nordica, così come appartiene al medesimo filone l´incisione di Pieter Saenredam, che intese smentire quella prima stampa riproducendo un buon numero di sezioni del famoso tronco, per dimostrare come solo un´accesa fantasia potesse aver scambiato per minacciose immagini fratesche le casuali e innocue figure disegnate dal midollo. E a scanso di equivoci la didascalia che accompagna questa seconda stampa assicura che «nel melo non ci sono altre immagini all´infuori di queste, e non se ne potrebbero trovare altre, nemmeno se lo guardate attraverso una lente di cristallo».
La visitatissima mostra romana che espone 55 dipinti fiamminghi e olandesi del ´600 provenienti dalla Gemldegalerie di Berlino («Da Rembrandt a Vermeer. Valori civili nella pittura fiamminga e olandese del ´600, a cura di B.W. Lindemann, Museo Fondazione Roma, fino al 15 febbraio) è un´eccellente occasione per ammirare alcuni dei più rappresentativi esemplari di questa nordica «arte del descrivere», ma anche per constatare come in molti suoi protagonisti, ed in particolare in quelli nativi delle Fiandre, la componente nordica s´intrecci spesso con la cultura figurativa barocca di matrice italiana.
Nel XV secolo tanto l´odierno Belgio che l´Olanda facevano parte del ducato di Borgogna, piccolo regno incuneato tra il territorio della Francia e quello dell´Impero. Con l´estinzione della dinastia di Borgogna, all´inizio del ´500 il ducato passò a Carlo V e da allora fu governato dalla monarchia spagnola. Ma in seguito a lunghe guerre, anche di natura religiosa, le province settentrionali degli antichi Paesi Bassi borgognoni, che avevano aderito alla Riforma protestante, riuscirono a staccarsi dalla corona di Spagna e a dar vita alla Repubblica olandese, mentre gli Asburgo sottomisero Bruxelles e le province meridionali, instaurandovi la Controriforma e un regime cattolico. Di qui la maggiore penetrazione nelle Fiandre dell´arte di stampo italianizzante.
Dalla fine del XVI secolo, la pittura olandese anticipò un fenomeno che si sarebbe generalizzato nel resto del mondo solo alla fine dell´800: i dipinti, o almeno la maggior parte di essi, non vennero più eseguiti su commissione, ma furono prodotti come tutte le altre merci e destinate al mercato, che a sua volta li proponeva e vendeva al miglior offerente. Come osserva Lindemann nel saggio in catalogo, «non è un caso che in questo clima dominato dalla domanda e dall´offerta, si sia affermata un´immensa gamma di generi e di modi. Accanto ai classici soggetti delle rappresentazioni storiche tratte dalla Bibbia, dalla mitologia e dalla grande storia, si aggiunsero la pittura di genere, il paesaggio, varie tipologie di ritratto, la natura morta».
I dipinti in mostra esemplificano in modo egregio questa varietà di generi, privilegiando i ritratti (con capolavori di van Dyck, Rembrandt, Dou e Frans Hals), i paesaggi (da Rubens a Jacob van Ruysdaeld, van de Velde, van Goyen) e le scene d´interno, sia nel filone pauperistico satirico delle risse all´osteria e degli interni contadini, di pittori del calibro di Steen e van Ostade, sia in quello quietamente intimista e opulento degli interni borghesi. Appartengono a quest´ultimo genere i due dipinti forse più emozionanti della mostra: La Madre di Pieter de Hooch - che con le sue superfici lustre e l´implacabile nitidezza ottica nella messa a fuoco dei dettagli incarna al massimo livello la virtù nordica dell´«arte del descrivere» - e la Ragazza con il filo di perle di Vermeer, in cui la poetica del gesto quotidiano, che nell´atmosfera di magica sospensione si trasforma in un frammento di eternità, si carica di sottili implicazioni voyeuristiche, come sarà recepito non solo dalla pittura novecentesca di Hopper, ma anche dal cinema, a cominciare da quello di Hitchcock.

Repubblica 12.1.09
MADRID. L'invenzione del XX secolo. Carl Einstein e le avanguardie
Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofia. Fino al 16 febbraio


Lo storico e critico d'arte tedesco, esponente dell'espressionismo berlinese, morto suicida nel 1940 per non cadere nelle mani dei nazisti, fu una delle personalità più rilevanti dell'arte e della cultura del suo tempo. Trasferitosi a Parigi nel 1907, divenne amico di Picasso, Braque e Gris. I suoi scritti furono fondamentali per lo studio delle avanguardie: basti pensare che introdusse in occidente l'arte africana. La sua attività, riscoperta in questi ultimi decenni, è oggi ripercorsa in una grande esposizione che raccoglie centoventi lavori eseguiti dagli artisti a lui più vicini, come Dalí, Grosz, Léger, Mirò, Rousseau, Klee e Dix. La mostra è articolata in sezioni dedicate alla scultura africana e oceanica, al dadaismo, al cubismo, al surrealismo e all'arte durante la guerra civile spagnola. Einstein era anarchico e partecipò a questo conflitto nel 1936. Completa la visita una sezione documentaria con tutti i suoi scritti: La scultura negra del 1915, il primo saggio sull'estetica negro-africana conosciuto in Europa, L'arte del XX secolo del 1926, i numeri della rivista surrealista Documents del 1929-'30, da lui fondata insieme a Leiris e Bataille, e la prima monografia dedicata a Braque nel 1934.

Repubblica 12.1.09
Parigi. La passione all'opera. Rodin e Freud collezionisti
Musée Rodin. Fino al 22 febbraio


«L'antico è la vita stessa», amava ripetere il grande scultore. Ora una mostra prende in esame la sua raccolta, consistente in ben seimila pezzi, mettendola a confronto con quella di Sigmund Freud, oggi conservata nel museo di Londra, con l'obiettivo di sottolineare gli stretti legami esistenti tra l'opera dei due grandi uomini e la loro passione per l'antichità. Entrambi hanno iniziato a raccogliere i primi oggetti intorno al 1890, Freud a Vienna e Rodin a Parigi. La presenza ossessiva di statuette nello studio del padre della psicoanalisi che possedeva tremila pezzi, procedeva di pari passo con l'acquisizione di oggetti di scavo nella casa dello scultore a Meudon. Il percorso propone una selezione significativa di reperti, provenienti dall'Egitto, dalla Grecia e da Roma, tra cui figura la Gradiva , il celebre bassorilievo in marmo del II secolo d. C., proveniente dal Museo Chiaramonti in Vaticano, da cui Freud ha tratto ispirazione.

Repubblica 12.1.09
Caravaggio ospita Caravaggio
Pinacoteca di Brera. Dal 17 gennaio


In occasione delle celebrazioni del bicentenario del museo, da vedere l'omaggio al maestro che ruota attorno alla Cena in Emmaus , realizzata nel 1606 e giunta alla Pinacoteca nel 1939, come dono dell'Associazione Amici di Brera. La mostra, curata da Mina Gregori e Amalia Pacia, mette a confronto il dipinto con la redazione giovanile dello stesso tema, conservata alla National Gallery di Londra. Un evento eccezionale, come il prestito di altri due capolavori dell'artista. Si tratta dei Musici del Metropolitan Museum, una delle prime opere eseguite dal giovane Caravaggio a Roma per il Cardinal Del Monte, passata poi nelle raccolte di Antonio Barberini, di Richelieu, della duchessa d'Anguillon, prima di arrivare al Met nel 1953, e del Giovane con canestro di frutta della Galleria Borghese.

Repubblica 12.1.09
Rovereto. Futurismo 100: illuminazioni. Avanguardie a confronto. Italia Germania Russia
MART. Dal 17 gennaio


Il 20 febbraio 1909 Marinetti fondava il movimento con la pubblicazione a Parigi del primo manifesto. Apre le celebrazioni del centenario una mostra che si prefigge di indagare le complesse relazioni esistenti tra i futuristi e i più importanti esponenti delle avanguardie russe e tedesche. Curata da Ester Coen, l'esposizione prende in esame i rapporti con gli artisti che hanno partecipato alla vicenda di Der Sturm , Chagall, Kandinskij, Klee, Macke e Marc. Ricorda il leggendario viaggio di Marinetti in Russia del 1914 l'inedito resoconto dello storico dell'arte moscovita Lapsin, recentemente scomparso, che permette di analizzare i legami con i pittori cubo-futuristi Larionov, Exter, Goncharova e Rozanova. Da segnalare, inoltre, la riapertura della Casa d'Arte Futurista Fortunato Depero, dopo un lungo restauro.

Corriere della Sera 12.1.09
Walter Pedullà rilegge la lezione del Novecento e dice: stiamo vivendo un ritorno all'ordine
La sperimentazione (aperta col Futurismo) è ormai finita
di Paolo Di Stefano


Riferimenti
Un omaggio all'avanguardia storica che coltivò il terreno per tutta la letteratura successiva

Walter Pedullà è uno di quei critici che non temono di affrontare i grandi temi. Un po' sul modello del suo maestro Giacomo Debenedetti. Diciamo che da sempre preferisce misurarsi con i macrofenomeni letterari e con i vari ismi che si sono succeduti decennio dopo decennio. Per usare una sua metafora, Pedullà è un critico di fiuto e pure di fiato. Lo dimostra anche in questo suo nuovo libro, Per esempio il Novecento (Rizzoli), in cui raccoglie, con estrema coerenza, saggi che spaziano dal Futurismo ai giorni nostri. La coerenza sta nel leggere il secolo scorso attraverso la specola della tensione sperimentale nelle sue varie forme (espressive e tematiche) e derivazioni, comprese le più imprevedibili e lontane dai movimenti di inizio secolo. C'è un richiamo continuo alla microfisica, che — osserva Pedullà — a chi scrive nel Novecento dà un consiglio: «Il suo linguaggio sia sempre come la particella stramba che non segue il percorso delle altre particelle atomiche».
Un bell'omaggio all'avanguardia storica italiana nel centenario del primo manifesto, perché la morale che si trae dal libro è che in fin dei conti quei distruttori per vocazione che in partenza furono Marinetti e i suoi compagni in realtà ararono il terreno per il futuro, meglio lasciarono semi che avrebbero attecchito qua e là, capricciosamente, per tutto un secolo. Sicché si può intravedere una tradizione del nuovo o una funzione sperimentale che tocca in pieno o di striscio tanti e tanti dei nostri narratori, che sono poi da sempre quelli più cari a Pedullà: «Il Futurismo — scrive Pedullà — ha contagiato il secolo», dunque non deve meravigliare se con quell'imprinting «tutti gli esperimenti oggi risultino già fatti o così pare, almeno in letteratura ». Al punto da ritenere questi nostri tempi come una fase di (inevitabile) riflusso se non di ritorno all'ordine rispetto all'esigenza, attraverso la letteratura, di «andare oltre la salute» dichiarata da Volponi o di «aggiungere vita alla vita», che era l'obiettivo perseguito da Pizzuto: «I giovani scrittori — futuro senza Futurismo e senza ogni ismo — sanno che questa è l'unica vita a disposizione e si limitano a raccontarla come se non ci fossero più salti strutturali dai quali il mondo è una cosa mai vista». In realtà la pagina di Pedullà è quella di un critico-narratore, fluviale e affabile sì, ma sempre preoccupato di non tradire due principi di militanza: la disponibilità all'ascolto del testo e la presa di responsabilità che gli fa scegliere un autore e scartare l'altro senza troppi peli sulla lingua. Come quando osserva: «È storia pure la nevrosi, epidemia borghese del primo Novecento della quale Gadda fu l'untore. Invece Moravia scelse il ruolo del terapeuta e si limitò a consolare ».
Del resto, la prospettiva viene dichiarata sin dal capitolo iniziale, sul bello in letteratura, dove Pedullà, sulla scorta di due concetti opposti e complementari (la «scrittura» di Debenedetti e la «struttura» di Della Volpe), non resiste alla tentazione di offrire i suoi esempi, citando qualche passaggio gaddiano, il racconto di Alvaro Il ritratto di Melusina, «uno dei più bei risultati della narrativa del Novecento », un paio di pagine di Horcynus Orca
(«il mare non ha mai mandato un così intenso odore attraverso il suono delle parole»), «romanzo di caos, dissoluzione, riduzione all'inorganico».
Nel novero delle sue preferenze ci stanno nomi prevedibili, da Palazzeschi a Gadda a Manganelli, ma ci sta anche molto altro: il filone comico-assurdo- satirico, che riguarda Campanile, Brancati, Zavattini, il fantastico-surreale della linea Bontempelli-Savinio- Landolfi-Calvino, il barocco meridionale di Alvaro, Pizzuto, Rea, Bonaviri, D'Arrigo, l'espressivismo di Testori e Pasolini, le esperienze neoavanguardiste di Pagliarani, Volponi e Malerba. E se i singoli saggi, poi, si concentrano a sondare uno o l'altro di questi autori, non si perde mai il disegno più generale entro cui si inquadrano. C'è solo l'imbarazzo della scelta, nel Novecento inquieto, razionale e irrazionale, tragico e comico-giocoso, distruttivo e positivo, che ci propone Pedullà: «Il Novecento italiano è stato un grande secolo: l'abbiamo detto all'Europa e abbiamo portato le prove, nei secondi cinquant'anni non meno che nei primi». Compreso il maestro Debenedetti, la cui opera saggistica non ha nulla da invidiare alla narrativa più sperimentale, perché vi si trova naturalmente, tra l'altro, «la particella stramba», che è il personaggio uomo, e cioè l'autore stesso; c'è l'epifania da cui veniva folgorato il critico leggendo i suoi autori; c'è quell'incompiutezza che apprezzò in certi narratori come necessità. Lui stesso, Debenedetti, va annoverato tra i rivoluzionari inconsapevoli che gli piacevano tanto in letteratura (a cominciare da Svevo e Tozzi). Anche un altro rivoluzionario (non proprio inconsapevole) come Gadda sceglie di non concludere i romanzi, mentre chiude con puntualità i racconti, nel suo perenne andare e tornare dal tragico al comico (nelle sue varie gradazioni, dall'umorismo manzoniano al riso «cretinoski»). Il tragico sarà predominante nella seconda parte della Cognizione e in particolare nelle pagine che Pedullà cita più volte come il vertice della narrativa italiana, dove la Vecchia Signora riceve la notizia che il figlio più caro è morto in guerra: «È uno strazio reso lancinante dal silenzio in cui si svolge la scena- madre del romanzo e del suo autore ». La convivenza gaddiana di tragico e comico diventa compresenza di follia e sapienza nel «più europeo, cioè più moderno, della maggior parte dei nostri scrittori, anche nel senso che è straniero rispetto a tutte le patrie». Si sta parlando di Landolfi: grasso nei diari, magro nei racconti, dove questo nomade scettico, questo avventuriero nell'ignoto, questo nemico di ogni dogma, autocritico fino al masochismo (la cui psiche però non è «ulcerata » come quella di Gadda) impone tutta la potenza negativa del fantastico, del paradosso, dell'assurdo: «Non sanno — avverte Pedullà — che cosa si perdono i lettori di tutto il mondo a ignorare questo scrittore le cui fantasie meritano la cittadinanza in ogni lingua ».
Pedullà, spesso e volentieri, chiama in causa i lettori, quasi a voler lanciare un appello, come nel caso di D'Arrigo, che non avrebbe ottenuto quel che merita. Ma non c'è bisogno di essere trasgressivi fino a quel punto, per essere originali: si prendano la scrittura magra di Domenico Rea, il realismo magico di Alvaro, la miscela di fiaba e memoria infantile in Bonaviri, il rovello masochistico di Testori, l'attrazione del vuoto in Malerba, i vulcani mai spenti di Pagliarani. Il bilancio del nostro Novecento letterario è ampiamente all'attivo: con le sue inquietudini, accensioni, epifanie ha saputo «aggiungere vita alla vita» della storia culturale europea. Quegli incendiari di Marinetti e compagni sotto sotto ne sarebbero fieri.
WALTER PEDULLÀ Per esempio il Novecento RIZZOLI PP. 565, e 21,50

Corriere della Sera 12.1.09
L'assenzio. L'insidiosa «fata verde» tentazione di tanti artisti


Attrazione fatale o precipitosa fuga dal tujone? Per i non iniziati, il tujone è il componente «tossico» dell'artemisia, la pianta da cui deriva l'assenzio: la magica fée verte («fata verde») che ispirò, avvelenandoli anche, scrittori maledetti e artisti dell'Impressionismo francese, protagonisti degli anni Novanta dell'800: Rimbaud, Verlaine, Baudelaire, Van Gogh, Toulouse-Lautrec. Questi, per inciso, possedeva un bastone da passeggio, concavo, che conteneva una riserva di assenzio, con capacità di mezzo litro. E un bicchierino a parte. La moda dannata, con il suo affascinante rituale di servizio (il cucchiaino forato, la zolletta di zucchero, l'acqua da «taglio » che, versandola, rende opalescente il liquido verde smeraldo), trovò fertile terreno anche in Inghilterra e Oltreoceano, superando felicemente il secolo XIX fino al proibizionismo datato 1915. L'«ora verde» (dalle 17 alle 19, tardo pomeriggio fino all'aperitivo) degli accaniti consumatori (il vizio avrebbe contagiato anche le donne borghesi e quindi la classe operaia della rivoluzione industriale) sprofondò nell'oblio per molto tempo. Ma un recente revival ha riscoperto sia la bevanda (riveduta e corretta, meno dannosa) sia la leggenda. Scorrendo le pagine de Il libro dell'assenzio, autore Phil Baker (Voland), ricco di notizie, nomi, aneddoti, citazioni e qualche consiglio, si resta sull'orlo del burrone. Dalla personalità del lettore dipenderà, poi, se buttarsi o ritrarsi.
Marisa Fumagalli PHIL BAKER Il libro dell'assenzio Trad. Luca Caddia VOLAND PP. 288, e 15

Corriere della Sera 12.1.09
Prorogata l'esposizione dei capolavori dell'Hermitage. Ma intanto il nuovo Maec si propone anche come un modello per l'Italia
Cortona, piccoli musei crescono. Nel segno degli Etruschi
Stefano Bucci


La formula. Nuove sale, collezioni che tornano nelle loro terre d'origine, collaborazioni eccellenti e custodi che sono tecnici L'urna etrusca dell'Hermitage in mostra a Cortona

CORTONA (Arezzo) — Ai trenta capolavori etruschi dell'Hermitage (in mostra fino al 25 gennaio) il Maec di Cortona affida il suo nuovo corso: opere certamente strepitose che per la prima volta tornano in Italia (dalla bellissima scultura-urna in bronzo raffigurante un giovane disteso all'incredibile placchetta con il Dio del Sole alato proveniente dalla collezione Campana fino all'anfora con delfini, ippocampi e draghi marini che tanto ricorda Gio Ponti) ma che, idealmente, fanno «solo» da testimonial eccellenti ad un progetto avviato ormai da tempo dallo stesso Museo dell'Accademia etrusca e della città di Cortona (Maec appunto), un progetto che sembra avere orizzonti di ben più ampio respiro di quelli legati ad una semplice «esposizione- evento».
La mostra curata da Elena Ananich, Paolo Giulierini, Paolo Bruschetti (catalogo Skira, per informazioni 0575/637235) non propone così soltanto crateri, buccheri, anfore a figure rosse oppure nere. Ma, ad esempio, sei nuove sale (l'allestimento curato da Andrea Mandara ha puntato sulla linearità utilizzando con successo videoproiezioni e schermi digitali) dove è esposta, per la prima volta dall'inizio degli scavi nel 2005, una parte dei reperti trovati nella necropoli etrusca dell'area archeologica del Sodo. E che rappresentano l'ideale continuazione di un percorso ben più antico iniziato nel 1726 con la nascita, proprio a Cortona, di quella Accademia Etrusca che costituisce il nucleo storico della collezione oggi ospitata nel trecentesco Palazzo Casali: settemila opere, duemila metri di spazio espositivo, diecimila volumi conservati (il tutto affidato ai curatori Paolo Giulierini e Paolo Bruschetti) con una appendice moderna dedicata al concittadino Gino Severini (da vedere la magnifica Maternità del 1916). Mentre l'impegno congiunto di Comune, Ministero e Soprintendenze è servito a migliorare l'operatività e l'accessibilità del Parco Archeologico attraverso la creazione — tra l'altro — di un laboratorio di restauro. Da Cortona arrivano però anche altri segnali, che confermerebbero una nuova via della museologia italiana (testimoniata in qualche modo dal protocollo d'intesa firmato di recente dagli Uffizi di Firenze e che dovrebbe affidare ai musei della provincia quelle opere attualmente costrette nei depositi della galleria per motivi di spazio). L'archeologo Mario Torelli dell'Università di Perugia (cui era stato affidato nel 1986 il progetto organico di indagine sull'antica polis di Cortona e sul territorio) aveva a suo tempo parlato, durante l'inaugurazione, di «grandi musei centrali che sono ormai morti, finiti»; di «collezioni che devono tornare alle loro terre d'origine, nei piccoli musei sparsi sul territorio »; di «vetrine che non possono essere più soltanto boutique dove esporre oggetti bellissimi, ma che devono invece ospitare i risultati di concrete ricerche scientifiche».
Il Maec di Cortona può essere, dunque, un buon modello di piccolo museo locale con vocazione internazionale (magari anche un po' glamour/fashion visto le tante celebrities, da Jovanotti a Robert Redford, che frequentano quella che Henry James aveva definito «la più antica e straordinaria città d'Italia»). Non è un caso, insomma, che la mostra sia nata dalla collaborazione con la Fondazione Hermitage-Italia (che annuncia per quest'anno un'esposizione a Prato dedicata ai tessuti) e che negli scavi attorno alla città toscana sia fin dall'inizio coinvolta l'Università di Alberta in Canada. Come non è certo un caso che il museo si proponga come l'unico in Italia dove i custodi sono veri esperti, archeologi o quantomeno tecnici. Il che, certo, non guasta.

Il Giornale 12.1.09
Tra assolutismo e nichilismo


Negli ultimi vent’anni abbiamo assistito al progressivo e irreversibile sgretolarsi di molte certezze ideologiche che avevano imperversato negli anni Sessanta e Settanta. È venuta meno, soprattutto a sinistra, l’idea di una linea temporale della storia intesa come risolvimento continuo e ininterrotto del passato nel futuro, come processo qualitativamente accumulativo, come svolgimento irreversibile che va dal male al bene. Un’idea che rifletteva l’universo mentale di tutti coloro che avevano creduto che la storia fosse portatrice di un movimento universale spingente da sinistra a destra, tale da relegare quest’ultima in un angolo, per poi dissolverla del tutto. Erano credenti convinti di possedere la giusta visione della marcia inarrestabile del progresso.
Questo immaginario ha avuto come suo esatto pendant una concezione naïf della realtà storico-umana. Il paradigma dell’ideologia, infatti, ridisegnava uno spartiacque decisivo all’interno della modernità tra un prima e un dopo. Il processo storico era dislocato “geograficamente” fra una destra, espressione del passato - arretratezza, conservazione, chiusura -, e una sinistra espressione del futuro - avanzamento, novità, apertura. L’homo ideologicus non era interessato a sapere se le cose erano vere o erano false, se erano giuste o se erano sbagliate, ma solo se erano progressive o reazionarie.
Le «dure repliche della storia» - per dirla con Norberto Bobbio - hanno invece dimostrato tutto il semplicismo storico-filosofico di questa concezione. Basti pensare a tutti i conflitti etnico-religiosi degli ultimi quindici anni. Riportiamo qui due immagini poetico-letterarie che valgono molto di più di tante riflessioni filosofiche. Così Robert Musil: «Il cammino della storia non è quello di una palla di biliardo, che segue una inflessibile legge causale; somiglia piuttosto a quello di una nuvola, a quello di chi va bighellonando per le strade, e qui è sviato da un’ombra, là da un gruppo di persone o dallo spettacolo di una piazza barocca, e infine giunge in un luogo che non conosceva e dove non desiderava andare». E così, lapidariamente, Eugenio Montale: «la storia non procede/né recede, si sposta di binario/e la sua direzione non è nell’orario». In conclusione la storia non ha alcuna direzione e (forse) alcun senso. Il suo casuale accadere si dispiega come un susseguirsi di fatti privi di un finalistico incremento di valori. Cioè il contrario di quanto appariva dall’inganno prospettico dell’ideologia progressista.
Alla constatazione che il processo storico non ha una direzione volta ad assegnare un fine prestabilito all’azione umana sono giunti ormai molti pensatori contemporanei, i quali, giustamente, hanno ridimensionato alquanto il prometeismo politico e ideologico dei decenni precedenti. Se non che a questa conclusione è subentrata, per contro, la teorizzazione di un pensiero debole che, nel sottolineare i limiti della ragione, del razionalismo e della scienza, ha propagato un sentire scettico che si è imposto come una nuova visione del mondo. Siamo caduti così in un altro conformismo: il conformismo del relativismo.
Ora se per relativismo si intende il riconoscimento del pluralismo delle fedi e dei valori all’interno di un quadro normativo dato dallo Stato di diritto, dove ognuno è legittimato a perseguire i propri fini, purché non intralci quelli altrui, non c’è dubbio che questo relativismo deve essere difeso a spada tratta. Esso, infatti, è il Dna della civiltà liberale e dello stesso Occidente. Se, invece, per relativismo si deve intendere l’idea acritica che tutto, appunto perché relativo, si equivale, allora non c’è dubbio che assistiamo all’insignificanza dei valori e alla perdita netta della loro importanza. In questo senso la valenza nichilistica del relativismo è innegabile. Sorge dunque una domanda decisiva: come è possibile mantenere integra la libertà insita nel relativismo, evitando che questo vada verso la deriva del nichilismo?
È questa, in sostanza, la sfida teorica raccolta da due filosofi contemporanei, Dario Antiseri e Giulio Giorello, che in nome di una comune fede nella libertà, hanno costruito un limpido dialogo sui temi fondamentali del relativismo e della libertà stessa (Libertà. Un manifesto per credenti e non credenti, con una postfazione di Silvano Tagliagambe, Bompiani). L’interesse del confronto è dato dal fatto che gli argomenti trattati sono di grande rilevanza e perché i due autori sono, per molti versi, del tutto antitetici: Antiseri è un filosofo cattolico e Giorello è un matematico e un filosofo che ama definirsi «ateo protestante». Il terreno di incontro è quello del riconoscimento del valore comune del pluralismo e della laicità, intesi come rifiuto di verità dogmatiche, siano esse religiose, filosofiche, politiche o sociali. Li unisce, inoltre, la comune rinuncia a tutte quelle filosofie che, assegnando in qualche modo alla storia fini trascendenti e collettivi, finiscono per sollevare i singoli individui dalle proprie dirette responsabilità etiche e politiche. Un libro, dunque, che interviene nel grande dibattito sul significato e sui limiti della democrazia e del liberalismo, in cui a confrontarsi sono, in un serrato intreccio, la scienza, la Chiesa, la fede in Dio e la libertà d’espressione liberata da ogni pretesa di assolutismo.
Ridotta all’osso, la tesi di Giorello è quella di un libertario che afferma le ragioni irriducibili dell’individuo e il suo diritto di sbagliare, poiché, comunque, nessuna verità è in grado di trascenderlo. Per suffragare la sua tesi Giorello non esita a citare, facendola propria, la considerazione di Benedetto XVI che nella Spe salvi (n.14) rileva giustamente che «la libertà rimane sempre libertà, anche per il male». E ciò perché nessuno può pensare per te e agire al tuo posto. Infatti, «se ci fossero strutture che fissassero in modo irrevocabile una determinata - buona - condizione del mondo, sarebbe negata la libertà dell’uomo, e per questo motivo non sarebbero, in definitiva, per nulla buone strutture». Il che, appunto, è quanto dire che il bene riposa soltanto nella libera coscienza degli individui. Tesi naturalmente questa, che Giorello porta al suo estremo risolvendola poi contro lo stesso Ratzinger.
Antiseri si trova d’accordo con Giorello sulla necessità di rivendicare il metodo della libertà quale criterio di rispetto di ogni credo e di ogni teoria. Si deve infatti avere la consapevolezza che nulla è fissato ab aeterno e che, pertanto, solo la libera e incessante ricerca in ogni campo della vita intellettuale permette di «aggiustare il tiro» verso ulteriori verità, intese, però, sempre come un traguardo provvisorio, rivedibile e superabile («la ricerca non ha fine», affermava Karl Popper). Antiseri rivendica la sua fede cattolica, osservando, con ragione, che proprio perché l’uomo «non è in grado di proporre valori assoluti razionalmente dimostrabili, che l’umana conoscenza è sempre parziale e fallibile, incapace di costruire degli assoluti terrestri», si apre lo spazio per una scelta di fede. Insomma proprio il relativismo conferma la giustezza del metodo della libertà, la quale permette ad ognuno di scegliere quei valori che più gli sono congeniali.
Naturalmente, aggiungiamo noi, solo se la stessa libertà viene intesa come un valore non relativo.

Corriere della Sera 12.1.09
In Italia sono 260
Siti pro anoressia, allarme mondiale «Bisogna oscurarli»
di Mario Pappagallo


In Francia sono stati vietati. In Spagna la polizia ne ha scoperti quattrocento

MILANO — Ana e Mia. Sono due killer virtuali per molte adolescenti. Ana l'anoressica, Mia la bulimica. E in rete i siti web pro Ana e pro Mia dilagano. Negli Stati Uniti e in Europa. Parole d'ordine per adolescenti che si sfidano in una battaglia autodistruttiva i cui effetti non sono virtuali.
L'allarme è internazionale. In Francia da aprile 2008 questi siti sono vietati, in Spagna la polizia ne ha scoperti 400 e ora le autorità devono decidere che cosa fare. Secondo un'indagine Eurispes solo in Italia (3 milioni di anoressici-bulimici e 9.000 nuovi casi ogni anno) sono ben 260 i siti web pro anoressia, con un trend in triste crescita.
Spesso si tratta di blog dove le ragazze, giovani o giovanissime, si raccontano giornalmente facendosi forza in quella che per loro è una battaglia da vincere, ma che in realtà è una pericolosissima sfida alla vita. Spesso però incitano a dimagrire con istruzioni e trucchi per non farsi scoprire. Come i blog giapponesi per aspiranti suicidi. «Permettimi di presentarmi. Il mio nome è Ana. Possiamo diventare grandi socie, noi due. Investirò molto tempo con te e mi aspetto lo stesso da parte tua...». Il messaggio aggancia la ragazza insicura e insoddisfatta di sé, del suo corpo, dei rapporti familiari. Ana promette: «Ti spronerò al limite. Dovrai accettarlo, perché non puoi sfidarmi ». Il ritorno sul blog diventa parossistico, i chili si perdono... la mente e la vita sfuggono. I medici a volte non sospettano nemmeno quale nemico hanno di fronte. Virtuale solo per modo di dire.
Così è anche Mia, una trainer che non abbandona mai le amiche: stanno male, si sentono sole e perse, il cibo le consola ma poi va rigettato. Mia c'è, sul blog, e le ragazze le scrivono: «Ho bisogno di te, sto male aiutami, solo tu puoi perché solo tu sei importante per me, sei l'unica che può, ti prego fammi stare bene». C'è chi registra diligentemente le calorie contenute nei piatti che ha mangiato e chi dice di odiarsi per il tempo passato chiusa in bagno a vomitare. C'è chi — pur sapendo di avere un atteggiamento autodistruttivo — chiede di essere lasciata stare, di non ricevere commenti con la «morale » e chi — con strategia quasi militare — parla della propria marcia forzata per perdere due taglie in un mese, anzi «meglio in meno».
Per limitare la raggiungibilità dei siti, spesso vengono utilizzate sigle particolari o codici speciali con cui gli utenti possono individuare questi siti. Oltre a Ana e Mia, si utilizzano appellativi metaforici come «amica», «dio», «santità», «dea». Entrando nei siti, poi, si trovano sezioni dedicate alle abitudini e alle pratiche per una perdita veloce di peso, con immagini di modelle, ginnaste, ballerine scarne e felici, magrissime e ricche. Messaggi subliminali, come se non bastasse la già deviata proiezione psichica della ragazza malata.
Il web è pieno di queste storie, del disagio di adolescenti che invece di trovare aiuto cadono nella rete che le sfida a peggiorare. E l'anoressia diventa un culto, una religione consacrata dai pro Ana. La Francia è il primo Paese che, a seguito della presentazione a Roma di uno studio sul fenomeno, è corsa ai ripari: blog vietati. In Italia, invece, continua a non esserci regolamentazione: i diari delle e per le anoressiche continuano a diffondersi e non vengono di fatto contrastati.
Si contano in 300.000 i siti pro anoressia sul web. Siti e blog consultati essenzialmente da giovani donne tra i 12 e i 28 anni. Lo sostiene l'università di Torino, che ha pubblicato su Eating and Weight Disorders i risultati di una ricerca sul rapporto fra disturbi alimentari e Internet. I ricercatori diretti da Secondo Fassino sono giunti a risultati allarmanti. Proprio con l'aiuto di Google e utilizzando parole chiave come: «anorexia nervosa (An) and treatment», «An and psychotherapy », «An and pharmacotherapy», «pro anorexia », «pro ana sites», «thinspiration» e «anorexicnation » si sono palesati circa 300.000 siti che inneggiano al raggiungimento della magrezza come «stato di grazia» e di perfezione assoluta. Di questi 257.000 contengono la parola chiave «pro anorexia», 18.600 «pro axa», 14.200 «thinspiration » (ispirazione alla magrezza) e 577 «anorexicnation », ovvero «nazione anoressica», uno dei neologismi che indicano la forte tendenza alla creazione di una «subcultura anoressica».

inviatospeciale.com 12.1.09
Sansonetti, la vittima di se stesso


Stamattina la Direzione del Prc dovrebbe nominare il nuovo direttore di Liberazione. C’è da sperare che dopo anni di declino il giornale torni alla realtà. E trovi le energie per sopravvivere.

Con il titolo “Lo abbiamo fatto strano” ieri Liberazione, il quotidiano di Rifondazione comunista, ha annunciato la fine dell’era Sansonetti.
Questa mattina la Direzione del Prc riterrà concluso il rapporto fiduciario col direttore e subito dopo Sergio Boccadutri, amministratore unico della Mcr Spa, la società editrice del giornale, nominerà il nuovo direttore, Dino Greco. Non essendo il nuovo arrivato giornalista gli sarà affiancato un direttore responsabile ancora da designare.
Nel suo editoriale dal titolo “Io ho paura…”, Sansonetti scrive: “Ieri pomeriggio, nella sede del giornale, abbiamo brindato, interrompendo per una mezz’ora il lavoro. Abbiamo bevuto champagne e mangiato pasticcini, scherzando e scambiandoci gli auguri. Perché? Perché siamo gente strana, e infatti - come dice il titolo - in questi anni abbiamo fatto un giornale strano. Quando siamo tristi, a noi viene voglia di scherzare, di godere un po’”.
La festicciola a champagne della redazione, si può star certi, avrà fatto arrabbiare non solo i difensori del prodotto nazionale, lo spumante, ma anche quei ‘diseredati’ del quale il quotidiano dovrebbe interessarsi e che di questi tempi non hanno molte occasioni per brindare e godere. Ma la domanda cruciale è: come si fà un giornale ’strano’?
Dalla vaga banalità della citazione da Verdone (lo famo strano) alla realtà. La mostra Claudio Grassi, dirigente del Prc, che ha elencato alcuni dati: “Partendo dal 2005 e arrivando fino ad oggi (visto che l’attuale direzione di Piero Sansonetti inizia nell’ottobre del 2004), le perdite sono queste: nel 2005, 1.756.000 euro; nel 2006, 1.991.000; nel 2007, 2030.000; nel 2008, 3.300.000, più 500.000 per aumentare il capitale sociale. Il partito ha quindi dato al giornale, nei quattro anni di direzione Sansonetti, 9.576.000 euro. Circa venti miliardi di vecchie lire. Per quanto riguarda le vendite il dato è altrettanto chiaro. Facendo riferimento allo stesso periodo, quindi allo stesso direttore, passiamo da 9638 copie (gennaio 2005) a 5380 (dicembre 2008) con un calo, sempre in quattro anni, di ben 4258 copie, pari al 44,18 per cento delle stesse”.
Il lettore deve sapere che le entrate per pubblicità e vendita di Liberazione sono esigue, per cui a quei nove milioni e mezzo di euro, che hanno consentito la vita al quotidiano, sono da aggiungersi i versamenti ottenuti per via dei finanziamenti all’editoria. A fronte di ricavi minimi.
Sempre nel suo ‘editoriale Sansonetti spiega cos’è la ’stranitudine”: “Mi hanno detto - i dirigenti di Rifondazione - che devo andarmene perché non rispetto la linea del partito. Anzi, mi hanno detto che la contrasto apertamente. Mi sono chiesto: ma qual è la linea del partito? Quando Liberazione l’ha contrastata? Quando si è battuta, più di ogni altro giornale, contro l’insicurezza e gli infortuni, e i morti sul lavoro? Quando ha gridato contro il patriarcato, contro il maschilismo, ha raccontato che in questa nostra società, da millenni, c’è una lotta tra i sessi? Quando si è trovata abbastanza sola nella battaglia senza quartiere al razzismo, per la difesa dei rom, degli stranieri, contro i quali il centrosinistra aveva emanato un decreto inaccettabile, e che ha aperto la strada alla Lega? Quando ha organizzato la grande manifestazione del 20 ottobre del 2007 (insieme al manifesto e a Carta) che teneva insieme diritti civili e sociali, metalmeccanici e gay, femministe e anticlericali, pensionati e studenti?”.
Se la crisi del partito che fu di Bertinotti è nota, quella di Liberazione è chiara. Quando il numero dei lettori si assottiglia di oltre il 40 per cento un professionista dovrebbe chiedersi dove sta sbagliando. Forse è stato quel voler ‘tenere’ insieme tutto che non ha fatto ‘prendere’ nulla. Nei salotti televisivi o in quelli pseudo-intellettuali è facile chiacchierare, ma quando si racconta la società è difficile scantonare. I cittadini si affezionano ad un giornale solo se si identificano, si rendono conto di ricevere informazioni serie, sentono di crescere. Altrimenti comprano altro o non comprano nulla, il caso più diffuso.
Negli ultimi anni Liberazione non ha mai lanciato un reportage, un’inchiesta, un lavoro di giornalismo investigativo che realmente abbia graffiato il corpo ruvido della disinformazone nazionale.
Negli ultimi tempi ha cavalcato Luxuria. Eppure poco l’Isola dei Famosi ha a che fare coi diritti civili degli omosessuali o dei transgender, perchè prima, durante e dopo il programma della Ventura le discriminazioni e le vessazioni alle quali sono sottoposte queste persone sono rimaste intatte. Solo per Vladimiro Guadagno qualcosa è cambiato e chi guarda la tv se n’è accorto, perchè lei è ovunque.
Al giornale lavorano oltre trenta giornalisti, più di trecento sono i collaboratori esterni. Un esercito con tutte e chances per realizzare un prodotto competitivo. Si è inventata una ‘free press’ che nell’ultimo anno ha mangiato risorse enormi e nessuno in Italia si è accorto del Liberazione free. Come mai? Mentre il sito Internet del quotidiano neppure funziona con tutti i browser, perchè gli ’strani’ giornalisti non si interessano alla modernità della Rete, alle enormi possibilità di espansione del bacino di utenti che consente, al risparmio possibile per i costi bassissimi dell’informazione digitale.
Allora quel’è il punto? Protagonista dello scontro interno a Rifondazione tra la linea di Ferrero e la minoranza di Vendola, Sansonetti si è presentato come vittima di un ‘processo stalinista’, lamentando la soppressione di una voce libera, la sua. La partita vera, invece, è la scissione che alcuni vogliono e come farla e quando. La tattica è stata ‘usare’ Liberazione, trasformare una crisi di piano editoriale in ‘caso politico’ e collegare al bailamme le conclusioni.
Oggi vedremo se la sostituzione del direttore produrrà lo strappo, l’uscita della minoranza dal partito o no. Comunque vada i prolemi son ben lontani dalla redazione del giornale par giusto almeno ricordarlo.
Per Sansonetti c’è un piano di osservazione differente e parallelo, perchè lui è solo il testimone del proprio fallimento. I giornali si valutano per numero di copie vendute, non per proclami libertari accompagnati da battaglie contro l’esclusione e pasticcini. Se il giornale fosse stato quel laboratorio avvenieristico ed autonomo di cui si parla come mai è stato anche un flop editoriale colossale?
Nel suo ultimo fondo, il direttore ’strano’ ha scritto: “Io però oggi ho paura. Rovescio il titolo del bel libro di Niccolò Ammanniti: ho paura. Paura perché non vedo più la sinistra. Mi pare senza anima, senza idee, senza cuore. Non vedo più né la vecchia sinistra riformista, né quella radicale, che avevo incontrato a Genova. Ho paura perché sento che più nessuno trova necessario il “culto della libertà”. Perché vedo una destra che dilaga, che si impossessa dello spirito pubblico, che conquista il popolo, e impone valori reazionari, che io non sopporto. Ho paura perché mi pare che all’orizzonte ci sia il buio, e che se non riusciamo a riprendere il filo dei nostri discorsi libertari e socialisti, vincerà Berlusconi, per dieci anni, per cento, per sempre”.
Ha ragione Sansonetti, il modello berlusconiano è fortissimo, si espande ovunque senza freni, la sinistra è immobile ed incapace di affermare non solo un progetto politico, ma una cultura in grado di battersi contro le perline colorate che i colonizzatori di Arcore distribuiscono a cittadini-indigeni storiditi.
Tuttavia, il ‘martire di oggi’ ha avuto anni per costruire e nulla ha edificato. Anzi, il nascondere il fallimento di una progetto di comunicazione dietro un presunto ostracismo della maggioranza politica che guida oggi il Prc è perfettamente in linea con la disinformatia tanto cara al Cavaliere.
Se Sansonetti avesse saputo raccontare la parte muta del Paese c’è da scommettere che nessuno avrebbe potuto mettere in discussione la sua strategia, perchè Liberazione avrebbe avuto dalla sua parte non dei redattori, Luxuria e qualche ‘illuminato’ frequentatore di circoletti paraintelletualei, ma i cittadini-lettori, migliaia e migliaia di atenti cittadini-lettori.
Però ci sono la moda del presente e lo sport del salotto trasversale: rappresentarsi, poco importa la verità.
L’opportunità adesso è tutta in Dino Greco, sindacalista e persona intelligente, perchè sappia ricondurre il quotidiano verso la società italiana, un mondo ormai nascosto dalla quasi totalità degli altri Media nazionali, e restituire la voce ai cittadini. Un giornale che non guardi al tinello radical-chic romano, ma si rivolga ad esseri umani veri, ad un popolo di sinistra e non solo che oggi non ha un ideale in cui sperare ed in compenso vede molte fazioni che si combattono tra loro per affermare improbabili verità.
Prima che un altro giornale chiuda. Per mancanza di lettori e denari. E prima di tutto idee.

dazebao.org 11.1.09
Prc e Liberazione: “alea iacta est”, la scissione in cammino
di Alessandro Cardulli


I “vendoliani” potrebbero lasciare la direzione. Un seminario a fine gennaio per ufficializzare l’uscita dal partito. Caprili: “lanciamo l’appello per continuare dentro Rifondazione la battaglia per gli obiettivi della mozione due”

ROMA - Si annuncia una giornata pesante, molto pesante, quella di lunedì per Rifondazione comunista. Forse, il condizionale è d’obbligo quando si parla di politica, si porrà fine al tormentato percorso che ha preso il via subito dopo il Congresso di Chianciano che ha registrato una profonda spaccatura dentro il partito.
Si poteva supporre che regolati conti fra le diverse aree, con la messa in minoranza dell’area che fa capo a Nichi Vendola e che aveva presentato la mozione due il dibattito, pur aspro potesse svolgersi, normalmente, dentro gli organismi dirigenti eletti dal congresso. In effetti così non è stato. Il congresso non è mai finito, lo scontro fra chi vuole rafforzare il partito, come un punto fondamentale per l’unità della sinistra, tutta da costruire e chi vuole “andare oltre” il Prc, ha assunto toni sempre più forti, violenti, da “separati in casa”. Un continuo tiramolla, “ me ne vado, non me ne vado”, “ me ne vado ora o fra qualche tempo” ha per protagonisti i “vendoliani” Ma il tempo sta per scadere. Lunedì mattina si riuniscono la composita area di maggioranza e quella che fa capo, fra gli altri, a Vendola, Giordano, Migliore per preparare la riunione della Direzione che si svolgerà alla sala Libertini nei locali di viale del Policlinico. Ufficialmente l’organismo dirigente è convocato per decidere il cambio della guardia alla direzione di Liberazione. Al posto di Sansonetti, ormai in rotta di collisione con il partito che è proprietario della testata, dovrebbe arrivare Dino Greco, un sindacalista della Cgil cui la segreteria del Prc aveva rivolto la proposta qualche giorno fa e che ha accettato. La sua nomina dovrà essere votata dalla direzione, insieme a quella di un direttore responsabile visto che Greco non è un giornalista e che non ha dimestichezza con l’organizzazione del lavoro redazionale in un quotidiano, per di più che fa capo a un partito.
La minoranza “vendoliana” si divide
I “vendoliani” hanno annunciato “ barricate”, simboliche s’intende, esprimendo l’intenzione di lasciare la direzione del partito. Praticamente un primo atto che preannuncia la scissione. Ma qui subentra il fatto nuovo: la minoranza vendoliana si divide. Un gruppo di dirigenti fra i quali membri della direzione, del Comitato politico nazionale, del collegio nazionale dei garanti, esponenti delle strutture territoriali, si sono riuniti ed hanno annunciato che non lasceranno il partito, continueranno la loro battaglia politica dentro il Prc, proprio per affermare le scelte della “mozione due” di cui si considerano ancora facenti parte. Si sono riuniti sabato, Liberazione li ha definiti, fra l’ironico e lo sprezzante, i “ sommergibili”. Ma, come ci dice l’ex vice presidente del Senato Milziade Caprili che a “Dazebao” aveva anticipato i contenuti della riunione, “non c’è niente di sommerso. La riunione si è svolta alla luce del sole, anche se Liberazione la cui vicenda ci preoccupa molto non ha scritto neppure una riga sull’esito del nostro incontro”. Caprili conferma che è stato discusso un documento, la stesura definiva verrà resa nota lunedì dopo la riunione della direzione. “ Per continuare il cammino di Rifondazione per la sinistra significa- prosegue Caprili- che noi non rinunciamo agli obiettivi che ci eravamo posti al congresso e che riguardano una sinistra unita e plurale. Non facciamo sconti a nessuno e giudichiamo l’attuale politica della maggioranza sbagliata e impraticabile e continueremo a stare all’opposizione. Sono molti i compagni e le compagne che la pensano come noi: ci hanno anche rimproverato perché non invitati alla riunione. Ma si è trattato di un primo incontro ora andremo avanti. Noi ci sentiamo ancora espressione della mozione due. Poi vedremo cosa accadrà”. L’ex vicepresidente del Senato ricorda che nel dibattito congressuale alle accuse della mozione che faceva capo a Paolo Ferrero rivolte ai “ vendoliani” accusati di preparare la scissione “ rispondemmo che non era vero, che la nostra battaglia era dentro il partito. Questo per noi vale ancora oggi. E poi- prosegue- cosa significa la Costituente con Sinistra democratica, un pezzo dei verdi e noi? Un processo tutto dall’alto, di ceto politico. Dopo il congresso non abbiamo costruito niente, noi che vogliamo una sinistra unita e plurale. Dal basso bisogna partire per dare nuova credibilità ai gruppi dirigenti. Un operazione centralista non porta da nessuna parte”.
Lo scenario post-direzione
Allora che accadrà, che potrà accadere lunedì? Lo scenario probabile: la direzione nomina il nuovo direttore di Liberazione, parte dell’area “vendoliana” se ne va, lascia l’organo dirigente, qualcuno,forse, direttamente anche il partito. La mozione due finisce così il suo percorso e si da appuntamento per un seminario previsto per il 24-25 gennaio a Chianciano. Come si dice, si torna sempre sul luogo del delitto. E non si tratterà di un innocuo seminario. Si riuniranno i membri del Comitato politico e gli eletti nelle amministrazioni. Decideranno di lasciare il partito a meno di improbabili ripensamenti, dei mea culpa a 360 gradi. “ Ci vorrebbe una assemblea dei delegati della mozione due che hanno preso parte al congresso-contesta Caprili – non può essere un seminario a decidere una scissione che noi contrasteremo”. Ma ci crede poco anche lui. Del resto quanto sta avvenendo nella formazione di alcune liste per le elezioni amministrative e regionali è un segnale inequivocabile. In Sardegna tre consiglieri che facevano parte di Rifondazione presenteranno una lista, “La Sinistra per la Sardegna”, con la copertura di Sinistra democratica. Un atto di rottura, un segnale chiaro che, dicono le voci di corridoio in genere bene informate, che è stato dato un “affidamento” a Sinistra democratica sulla partecipazione dei “vendoliani” alla Costituente che va “oltre” Rifondazione. Come dire , con una celebre frase, “alea iacta est” (il dado è tratto), pronunciata da Giulio Cesare mentre passava il Rubicone, una cinquantina di anni prima della nascita di Cristo. Ma le truppe potrebbero essere molto smilze ed i calcoli dei “vendoliani” sbagliati. Come avvenne al congresso.