mercoledì 14 gennaio 2009

il Riformista 14,1.09
Rifondazione. Scissione, ora Vendola perde i pezzi


«No, io resto. Faccio battaglia dentro Rifondazione». Quella che era una sporadica voce, dentro un Prc in cui la scissione è consumata (verrà ufficializzata il 24 e 25 gennaio), diventa sempre più consistente. Esponenti, ma anche militanti, che hanno sostenuto al congresso di Chianciano la mozione 2, quella di Vendola, decidono ora di non uscire dal partito: «Non rinunciamo all'obiettivo politico di costruire un nuovo soggetto unitario e plurale. Ma questo lavoro non deve essere il prodotto di qualche escamotage politicista, già fallito peraltro con la Sinistra Arcobaleno». Così prima il documento «Per continuare il cammino di Rifondazione per la sinistra», sottoscritto da pochi (tra questi Milziade Caprili, Rosy Rinaldi e Tommaso Sodano), poi ieri un nuovo appello con una vistosa crescita di adesioni. Anche di bertinottiani di ferro, come Salvatore Bonadonna. «Stiamo ottendendo un risultato inatteso», dichiara con enfasi Augusto Rocchi, ex deputato e attuale responsabile Economia del Prc, «ci arrivano approvazioni da tutta Italia».
Dati alla mano, interi gruppi dirigenti di Sardegna e Calabria e pezzi consistenti di Lombardia e Sicilia hanno già annunciato di rimanere nel Prc «per continuare la battaglia contro Ferrero». Nella stessa Puglia di Vendola risultano defezioni. E se nella direzione nazionale la stragrande maggioranza della mozione 2 abbandonerà il partito, nel Comitato politico nazionale, espressione delle realtà territoriali, su 112 vendoliani almeno una quarantina resteranno. Per la felicità (assurdo ma vero) del segretario che userà questa componente per non rimanere ostaggio della sua stessa maggioranza, la quale punta dritto all'unità comunista. A partire dal Pdci di Diliberto. Dal canto suo, la mozione 2 non dispera di aver perso pezzi, convinta di recuperarli dopo le europee: è diversa solo la strategia per arrivare alla nascita di una sinistra più plurale. Cosa che, a livello di cartello elettorale, potrebbe tornare in voga se il governo decidesse in extremis di varare una nuova legge elettorale con sbarramento.
Sul fronte Liberazione, ieri nomina a vicedirettore responsabile di Fulvio Fania, vaticanista del giornale e persona di «mediazione». Fania, e il direttore Dino Greco, saranno attivi da giovedì. Non prima: manca, dopo il rifiuto dell'ex Piero Sansonetti, la firma di un "professionista" per l'uscita del quotidiano. Inconvenienti che capitano solo in questa sinistra.

Corriere della Sera 14.1.09
«Bandiere bruciate? Più scossi dai bambini uccisi»
D'Alema: io indignato anche dai falò, gli italiani pensano alle vittime. Scintille con l'ambasciatore Meir
L'ex ministro degli Esteri sottolinea i grandi ascolti di Al Jazeera
Meir: paragone offensivo per i giornali italiani
di Maurizio Caprara


ROMA — «Io mi indigno anche per le bandiere bruciate, tuttavia non c'è il minimo dubbio che l'opinione pubblica italiana è molto più scossa per i bambini. Vorrei che lei non pensasse che l'opinione pubblica italiana è rappresentata da certi editoriali di giornali che rappresentano solo se stessi», ha risposto Massimo D'Alema quando Hamid Masoumi Nejad, corrispondente televisivo della

Islamic Republic Iran broadcasting, gli ha domandato se non credeva che in Italia ci si indignasse più per le bandiere israeliane messe a fuoco in certe manifestazioni che non per i bombardamenti di Israele su Gaza.
Da parte dell'ex ministro degli Esteri che nel 2006 visitò i quartieri bombardati di Beirut accompagnato da un dirigente di Hezbollah, nella risposta data ieri mattina davanti alla Stampa estera c'era la condanna dell'offesa allo Stato ebraico compiuta in recenti cortei («Nel mondo islamico non si dovrebbe incoraggiare quelli che bruciano», ha sottolineato), c'era la sua consueta botta ai giornali ritenuti non amici, c'era una sintesi del pensiero dalemiano in materia. «Non si bruciano le bandiere di nessuno », ha preferito dichiarare secco, nel pomeriggio, Walter Veltroni, il segretario del partito di D'Alema. E' chiaro che il punto di divergenza tra i due non può essere sulle fiamme alle bandiere, ma quello di ieri per il Partito democratico è stato un giorno nel quale impostazioni diverse sul Medio Oriente tra i due principali ex eredi di Botteghe Oscure si sono intraviste dalle scelte lessicali e non da scontri frontali. Nei toni, nei visi.
Veltroni, che contro la massiccia risposta militare israeliana ai ripetuti lanci di razzi di Hamas ha evitato di ricorrere alla piazza, ha radunato tra le mura di San Macuto dirigenti del suo partito, l'ambasciatore d'Israele Gideon Meir e il rappresentante dell'Autorità palestinese Sabri Ateyeh. Amico delle parti. D'Alema, pur in sala, aveva dominato già un altro lato della scena mediatica presentandosi alla Stampa estera, di fatto, come il miglior amico degli arabi e di Abu Mazen, senza spingere oltre l'usuale le critiche a Israele.
Lanciare razzi è stata «un'azione criminale» di Hamas, ha risposto D'Alema al corrispondente della radio israeliana Yosi Bar. Ma nel deplorare l'offensiva su Gaza ha aggiunto che «anche gli americani spesso fanno un uso sproporzionato della forza, dopodiché autocritica». Poi l'ex ministro ha circoscritto la sua tesi sulla necessità di dialogare con Hamas specificando che «nessuno chiede a Israele di negoziare un trattato di pace con Hamas » e che «con Hamas bisogna negoziare una tregua» su Gaza. Più tardi, in nome del realismo, D'Alema ha riallargato la tesi: «Discutemmo con israeliani che non riconoscevano il diritto dei palestinesi a uno Stato.. si può discutere anche con palestinesi che non riconoscono il diritto di Israele ad avere uno Stato.... non significa dare ragione».
Scelte di postura nella foto di gruppo del Pd, più che battaglia sulle decisioni di politica estera. Ma dopo che D'Alema, oltre ad attaccare giornali italiani, ha sottolineato i grandi ascolti di Al Jazeera per le cronache da Gaza, Meir parlato di «paragone offensivo». D'Alema ha sostenuto di non aver fatto paragoni. Botta e risposta non nuovo. Sempre con Israele, tuttavia.

Corriere della Sera 14.1.09
Fo: «Ha ragione Torniamo alla linea di Moro e Craxi»
di R. Zuc.


ROMA — Cita Nelson Mandela che dal suo carcere sudafricano parlava a Thomas Friedman di «apartheid» a proposito di Israele e Palestina.
Dario Fo, ma è davvero «apartheid»?
«Sì, apartheid culturale, civile ed economico. Quando si parla di risentimento palestinese non si pensa mai all'umiliazione che ha subìto quel popolo. Certo, è un risentimento che si esprime con un terrorismo, ma in misura blanda rispetto alla risposta messa in atto da Israele, anche se in Italia questo aspetto viene ignorato».
È quindi d'accordo con Massimo D'Alema quando sostiene che nel nostro Paese «è tabù criticare Israele» e parlare di «uso sproporzionato della forza»?
«Dico di più: c'è su questo argomento quasi un andamento ricattatorio. Si spara a zero contro chiunque osa avanzare un minimo dubbio sul comportamento morale di Gerusalemme».
L'ex ministro degli Esteri rimprovera Berlusconi per avere abbandonato la politica estera di «mediazione» che fu di Moro e Craxi.
«Ha ragione: bisognerebbe riprendere quella linea politica nei confronti del Medio Oriente. Ne sono convinto. E vanno lodati quei giovani che sabato scorso hanno manifestato a Milano a favore della Palestina: anche loro si sono inginocchiati per pregare come successe davanti al Duomo.
Ho molto apprezzato quel gesto».
D'Alema ha definito «sgradevole» la sovrapposizione della guerra a Gaza con le elezioni israeliane.
«È normale: in campagna elettorale è tutto lecito, persino una guerra. O altre assurdità. Basta pensare all'Italia: non è per le elezioni imminenti che Berlusconi, promettendo "italianità", ha ottenuto nella primavera scorsa la svendita di Alitalia?».
Verso l'inaugurazione La richiesta dell'associazione dei non credenti: «Via la religione dalla cerimonia, si viola la Costituzione»

Repubblica 14.1.09
Perché non possiamo rivalutare Salò
di Giorgio Bocca


La notizia è di ieri. Dopo il presidente emerito della Corte costituzionale Giuliano Vassalli - arrestato e torturato dai fascisti - e Armando Cossutta, anche due ex presidenti della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi e Oscar Luigi Scalfaro, bocciano il disegno di legge con il quale la maggioranza tenta di equiparare partigiani, militari e deportati ai repubblichini di Salò sotto un fantomatico simbolo definito "Ordine del Tricolore".
Ciampi e Scalfaro, in un messaggio inviato all´Anpi spiegano che la proposta del centrodestra è in contrasto con la verità e la realtà storica e dimentica che la Repubblica di Salò appoggiò con la sua azione la causa del nazismo, contro la quale combatterono le forze armate italiane.
Ritorna così ancora una volta, con una tenacia impressionante, la questione della parificazione fra gli ex combattenti di Salò e gli ex partigiani. E per l´ennesima volta cerchiamo di chiarire i termini della questione. La pacificazione nazionale fra i combattenti di tutte le guerre è un dato di fatto che risale ai primi giorni della Repubblica democratica.
L´ammissione al voto dei neofascisti del Movimento sociale italiano, il fatto che nel Parlamento italiano fossero presenti anche coloro che avevano combattuto per la Repubblica di Mussolini, alleata fino all´ultimo con la Germania nazista, chiudeva il discorso sulla pacificazione. Anche gli ex fascisti avevano il diritto di essere rappresentati.
Altra cosa è la parificazione che dovrebbe avvenire in un ordine dei combattenti, una sorta di partito al valore militare superiore ai partiti politici. Su questo il giudizio degli ex partigiani e dei democratici non può che essere di netto dissenso.
La pacificazione ha reso tutti i cittadini italiani eguali nella partecipazione politica e la prova è che ex fascisti sono presidenti della Camera, o sindaci di grandi città, e che nello spirito della pacificazione è stato quasi sempre dimenticato l´obbligo legale di proibire l´apologia del fascismo.
Ma pretendere di riunire in un ordine militare nazionale, un ordine della Repubblica democratica, combattenti per la libertà e combattenti per il nazifascismo pare una inutile provocazione, una prova che c´è un fascismo superstite. Un fascismo che, approfittando della situazione politica favorevole, vuole ritornare sulla scena italiana con tutti gli onori.

Repubblica 14.1.09
Salò come la Resistenza, no di Ciampi e Scalfaro
"Rispetto per il dolore, ma equiparare repubblichini e partigiani è un imbroglio"


L´ex premier torna in campo con un articolo per la rivista di un hospice

ROMA - La norma della discordia porta il numero 1360, è un disegno di legge in discussione in commissione Difesa della Camera ed equipara, nella sostanza, partigiani, deportati e militari ai repubblichini di Salò. O meglio, come si legge nel testo targato Pdl, prevede l´istituzione dell´Ordine del Tricolore e l´assegnazione di un vitalizio indistintamente ai partigiani e «ai combattenti che ritennero onorevole la scelta a difesa del regime ferito e languente e aderirono a Salo». Il caso è stato sollevato dall´Anpi, l´Associazione dei partigiani e ieri proprio al convegno organizzato per discutere del ddl anche due ex presidenti della Repubblica hanno manifestato tutto il loro stupore, se non l´indignazione per una proposta di quel genere.
La prima lettera porta la firma del presidente emerito Carlo Azeglio Ciampi, sostiene che «il giudizio storico sulla Repubblica di Salò non può dimenticare che essa appoggiò con la sua azione la causa del nazismo, contro la quale combatterono le forze armate italiane». Sulla stessa linea il suo predecessore al Quirinale, Oscar Luigi Scalfaro, secondo il quale la legge proposta dal centrodestra «parte da un´errata valutazione della verità storica non può che generare falsità e imbroglio. Il richiamo che ognuno di noi ha il dovere di fare è di rispettare le sofferenze di tutti, mai di confondere chi per la libertà ha combattuto e ha dato la vita, con chi si è schierato per la dittatura e il tedesco invasore, anche se soggettivamente in buonafede». Proposta «sbagliata, nessuna equiparazione è possibile», la boccia anche Walter Veltroni: «La storia non si può riscrivere. Nemmeno in un tempo come questo, in cui si vorrebbe che tutto fosse indistinto e per questo meno chiaro». Al convegno partecipano e si fanno sentire anche il presidente emerito della Corte Costituzionale Giuliano Vassalli e l´ex senatore Armando Cossutta. Per entrambi, quel ddl segnerebbe un «sovvertimento della storia».

Repubblica 14.1.09
Attacco a Alberto: "Ha firmato quelle norme"
Vaticano contro il re del Belgio "Embrioni, legge agghiacciante"


CITTÀ DEL VATICANO - E´ polemica tra la Chiesa cattolica e Alberto II di Belgio, re timorato di Dio ma colpevole - agli occhi dei vescovi belgi e del Vaticano - di aver promulgato nei giorni scorsi una legge che definisce l´essere umano in divenire, compresi embrioni e feti, come «materiale corporeo umano» disponibile per le applicazioni mediche o la ricerca scientifica. Si tratta di una normativa «agghiacciante», ha attaccato l´episcopato del Belgio in una nota che è stata rilanciata ieri dall´Osservatore Romano.
Nel comunicato ripreso dall´organo vaticano si lamenta l´amarezza per il comportamento di Alberto, che non ha rifiutato la sua firma alla nuova legge approvata dal Parlamento nello scorso dicembre. Ben diverso - si ricorda in Vaticano - l´atteggiamento di suo fratello, re Baldovino, il quale preferì abdicare per due giorni nel 1989 piuttosto che firmare la legge sull´aborto.
I vescovi belgi mettono sotto accusa in particolare l´articolo 2 comma 1 della legge belga che ammette l´ottenimento e l´utilizzazione a fini medici e scientifici di «tutto il materiale biologico umano, compresi tessuti, cellule, gameti, embrioni, feti, così come le sostanze che ne vengono estratte, qualunque sia il grado di trasformazione».
Il progetto di legge, passato con il «sì» definitivo della Camera (95 voti a favore, 34 astensioni e nessun «no»), fa del cattolico Belgio - ha sottolineato l´Osservatore Romano - uno dei pochi stati europei ad aver promulgato una normativa relativa alla ricerca sugli embrioni. Segue in questo la Gran Bretagna, che dal 2002 ha creato una «banca» per le cellule staminali di origine embrionale, e la Spagna che - ha ricordato ancora il giornale vaticano - permette l´uso di tutte le tecniche utili all´ottenimento di cellule embrionali umane a fini terapeutici.

Corriere della Sera 14.1.09
Obama, no agli atei: «Giurerò invocando Dio»
Il presidente eletto annuncia: pronuncerò la tradizionale frase sulla Bibbia di Lincoln
Intentata un'azione legale ma Barack, religioso, assicura che non rinuncerà all'invocazione: «Che Dio mi aiuti»
di Ennio Caretto


WASHINGTON — Il nome di Dio viene invocato molto spesso dallo stato americano. «In God we trust», Confidiamo in Dio, è il motto stampato sulle sue banconote. «One nation under God», Una nazione sotto Dio, figura nel Giuramento alla bandiera dal '54, l'era dell'anticomunismo. «God bless America », Dio benedica l'America, è la chiosa finale dei discorsi presidenziali. E alla sua inaugurazione, il nuovo presidente chiede «So help me God», Che Dio mi aiuti. Una tradizione, sostengono molti storici, iniziata da George Washington nel 1789 (è tuttavia dubbio) e osservata solo da alcuni suoi successori, ma divenuta prassi dal '33, con Franklin Roosevelt, il quale forse segretamente dubitava di riuscire a salvare il Paese dalla Grande depressione senza l'appoggio divino.
Le continue invocazioni a Dio hanno così disturbato gli atei americani — secondo cui sono incostituzionali — che un loro esponente di punta, il medico californiano Michael Newdow, ha citato a giudizio (a nome di 10 associazioni e 17 persone) i comitati organizzatori dell'inaugurazione di Obama, i due predicatori Joseph Lowery e Rick Warren, che terranno le preghiere, nonché il presidente della Corte suprema John Roberts, chiedendo che alla cerimonia non si pronunci la parola «Dio» e Obama non concluda il solenne giuramento — «Svolgerò fedelmente l'incarico di presidente, e farò del mio meglio per preservare proteggere e difendere la Costituzione » — col fatidico «So help me God».
È difficile che il tribunale federale sentenzi in tempo — la citazione è del 31 dicembre scorso — anzi è probabile che finisca per respingerla.
Ma Obama, che è religioso e giurerà sulla Bibbia di Lincoln, il presidente dell'abolizione della schiavitù, l'ha anticipato affermando che dirà «Dio mi aiuti». È un'invocazione che non intacca il principio della separazione Stato-Chiesa, hanno notato i portavoce, e che non viola la Costituzione, il cui primo articolo vieta al Congresso di stabilire una religione in America. Un atto di fede appropriato in un momento molto delicato per il Paese.
Newdow ha incassato. Ha spiegato di non avere citato Obama personalmente «perché come cittadino ha il diritto di osservare la sua religione », ma di sperare ancora che dica «So help me God» in privato. E ha aggiunto che se bocciato dal tribunale ricorrerà in appello, per ottenere che dopo le elezioni del 2012 Obama o il suo successore rinuncino al «Dio mi aiuti». Una missione impossibile? Newdow fallì già nel 2001 e nel 2005 all'insediamento di Bush alla Casa Bianca, epoca in cui i neocon si battevano perché l'America si definisse una repubblica cristiana. I credenti americani lo attaccarono. «Vuole che lo stato smentisca l'esistenza di Dio», ribatté Scott Walter della Fondazione della libertà di religione. «Ma i nostri valori si basano su di essa».

Corriere della Sera 14.1.09
Sanità La Mater Dei di Roma: «È medicina difensiva»
Nove neonati su dieci con il parto cesareo La clinica del record
I ginecologi: tra 10 anni così in tutta Italia
di Margherita De Bac


I medici: non c'è differenza di onorario tra cesareo e naturale, alla Mater Dei chiediamo 900 euro l'ora

Il Maggiore di Bologna: il timore di contenziosi fa crescere il fenomeno. Nel Lazio l'aumento di un punto all'anno

ROMA — Verrà il giorno in cui partorire per vie naturali sarà una vera eccezione. Quel giorno è dietro l'angolo. Malgrado il tentativo vano di arginarlo, il fiume dei cesarei è in piena. E il parto chirurgico ha il predominio quasi assoluto in molte cliniche italiane. Una delle strutture all'avanguardia, anche da questo punto di vista, è la Mater Dei, a Roma, quartiere Parioli, solo ricoveri a pagamento. Il rapporto dell'efficiente Agenzia per i servizi sanitari del Lazio (Asp) aggiornato al primo trimestre del 2008, la pone al secondo posto nella classifica delle nascite col bisturi. L'84,4% dei bambini sono venuti al mondo con questo sistema. Quasi 9 su 10. Di meglio sempre nello stesso periodo ha fatto solo Villa Europa, quartiere Eur, che ha raggiunto quota 86,2% prima di chiudere i battenti per ragioni legate alla proprietà. E' una tendenza che si sta affermando rapidamente in tutto il Paese, in alcune Regioni più che in altre, salvo realtà locali, nonostante ogni anno linee guida e piani sanitari si prefiggano di abbattere percentuali di cesarei superiori al resto d'Europa.
Enrico Zupi è uno dei nove ginecologi che lavorano alla Mater Dei: «Non c'è ragione di essere criminalizzati. E' un atteggiamento comprensibile. Noi medici veniamo denunciati per eventi e complicanze non classificabili come sbagli, che non creano danni. Applichiamo la medicina difensiva. E finché non depenalizzeranno l'errore medico, così sarà. Non siamo martiri. E se una donna è minimamente a rischio la spingiamo verso la chirurgia, se non è lei stessa a chiederlo come il più delle volte accade, specie quando si tratta di donne informate. E' una sua libera scelta che rispettiamo. L'incisione è minima, 3 giorni di ricovero, dolore contenuto, anestesia leggera».
La clinica dei Parioli, frequentata da clientela di classe sociale medio-alta, rientra nell'identikit delle strutture dove il cesareo gode di grande popolarità. Private, numero contenuto di parti, medici che si dividono tra attività pubblica in ospedale e privata. Zupi respinge il sospetto che dietro si nasconda l'interesse del ginecologo: «Non è vero che il taglio cesareo rende di più. Dal punto di vista dell'onorario non c'è nessuna differenza col vaginale. Il costo della sala operatoria? Da noi è di 900 euro all'ora ».
Tranne che in isolate realtà territoriali, dove il cesareo è tra 20 e 30%, si avverte un senso di resa tra gli operatori sanitari. Allarga le braccia Corrado Melega, ospedale Maggiore di Bologna: «Noi siamo al 29% in tutta la provincia ma la curva cresce malgrado gli sforzi. La pressione dell'opinione pubblica e il timore dei contenziosi agiscono da alimentatori. Non vorrei essere un cattivo profeta ma ho l'impressione che non ci sia più nulla da fare». Gian Carlo Di Renzo, direttore della clinica ostetrica di Perugia, azzarda la stessa previsione: «I parti naturali saranno una rarità. Ma se si dedica attenzione qualcosa può migliorare. Noi siamo scesi dal 34 al 32,5%. Il problema è che nessuno ha più voglia di seguire un lungo travaglio». Domenico Di Lallo, dell'Asp, commenta gli ultimi dati: «Nel Lazio l'aumento è di un punto all'anno. Non dobbiamo più illuderci. Tra 10 anni quasi tutte le donne partoriranno in sala operatoria».

Corriere della Sera 14.1.09
Risponde Sergio Romano
Todt, l'ingegnere di Hitler e la sua organizzazione


Spesso nelle testimonianze dei deportati e dei lavoratori coatti italiani durante la seconda guerra mondiale si fa riferimento alla famigerata «Organizzazione Todt». Ma che cosa era veramente e come funzionava questa impresa il cui fondatore fu predecessore di Albert Speer al ministero degli Armamenti e Approvvigionamenti della Germania nazista?
Mario Taliani, mtali@tin.it

Caro Taliani,
L'Organizzazione Todt face un largo uso del lavoro coatto ed ebbe per queste ragioni, soprattutto dopo l'8 settembre 1943, una cattiva reputazione. Ma la figura di Fritz Todt e il modo in cui realizzò il compito che gli era stato assegnato meritano qualche attenzione. I primi ad accorgersene furono gli Alleati. Sorpresi dalla straordinaria efficienza con cui i tecnici tedeschi rifornivano le forze armate e realizzavano le grandi opere necessarie al conflitto, vollero che Albert Speer venisse sottoposto a un lungo interrogatorio. Ne troverà i verbali in un libro dello storico inglese Richard Overy intitolato, per l'appunto, «Interrogatori» e pubblicato da Mondadori nel 2002.
Fritz Todt nacque a Pforzheim nel 1891, fece la Grande guerra in un reggimento di fanteria, si laureò in ingegneria civile, lavorò in una fabbrica, divenne nazista e conobbe Hitler a cui fece subito una eccellente impressione. Fu questa la ragione per cui, subito dopo la conquista del potere, fu nominato alla testa di un ufficio nuovo per la realizzazione della grande rete autostradale con cui il leader nazista si riprometteva di assorbire una parte della disoccupazione tedesca. Da allora Todt divenne progressivamente responsabile di tutto lo sforzo bellico del Reich: la linea Sigfrido, la rete stradale dei territori occupati, le linee ferroviarie, il Vallo Atlantico, le fortificazioni, i rifugi per i sottomarini e naturalmente, come ministro dell'Armamento, la produzione di armi e munizioni. Il segreto del suo successo fu l'abilità con cui seppe coinvolgere le grandi imprese, assicurare il loro coordinamento, suddividere i compiti, affidare a tecnici e dirigenti d'azienda l'esecuzione dei lavori. Quando dovette spiegare agli Alleati il funzionamento di questa «macchina », Speer riconobbe che Todt aveva adottato per il regime nazista il metodo messo a punto da un industriale ebreo, Walter Rathenau, per pianificare e dirigere l'economia tedesca durante la Prima guerra mondiale. Un collaboratore di Rathenau, sopravvissuto in un ufficio del ministero degli Armamenti, descrisse il funzionamento di questo sistema in una relazione che ispirò Todt e la sua organizzazione. Per un singolare paradosso l'ebreo Rathenau, divenuto dopo la guerra ministro degli Esteri della Repubblica di Weimar, trasmise ai suoi maggiori nemici una ricetta perfettamente adatta ai loro scopi.
Todt fu un uomo serio, schivo, molto stimato da Hitler ma restio a fare un uso personale del suo potere e poco amato dagli ambiziosi cortigiani che ronzavano intorno alla persona del Führer. Morì in un incidente aereo l'8 febbraio 1942 dopo un lungo incontro con Hitler nel quartiere generale di Rastenburg. Veniva da una ispezione in Ucraina nel corso della quale aveva assistito a fenomeni— la disorganizzazione dell'Intendenza e dei servizi sanitari, il basso morale delle truppe che lo avevano colpito e depresso. È molto probabile che abbia riferito le sue impressioni al Führer, ma su quell'ultimo colloquio non esiste documentazione. L'aereo in cui prese posto il mattino seguente esplose a 20 metri d'altezza, immediatamente dopo il decollo. Hitler sospettò un attentato e dette ordine che venisse istituita una commissione d'inchiesta. Ma sembra che l'aereo, come tutti quelli che svolgevano funzioni di corriere in prossimità del fronte, fosse dotato di un dispositivo per l'autodistruzione: una leva, collocata a fianco del pilota, che avrebbe provocato l'esplosione in pochi secondi. Albert Speer, successore di Todt, si limitò a ricordare nelle sue memorie che il predecessore, poco tempo prima, aveva depositato in una cassaforte una importante somma di denaro: era destinata a una sua fedele segretaria nell'eventualità della sua morte.

l'Unità 14.1.09
La squadra Wiesenthal
di Claudia Fusani


Franz, Luigi, Sandro, Alessandro: sono giovani tra i 30 e 40 anni. Chiamati dalla Procura militare di La Spezia, dal 2002 vanno a caccia di ufficiali nazisti responsabili degli eccidi compiuti in Italia nel 1944. In sei anni ne hanno scovati una quarantina. E hanno imparato la storia lavorando

Uno è stato recuperato che alzava sbarre al porto di La Spezia, Luigi Di Mari, guardia di Finanza. Il brigadiere Franz Stuppner guidava tranquillo la sua stazione dei carabinieri in Val Senales. Sandro Romano, anche lui dell’Arma, napoletano cresciuto in Germania, era al radiomobile di Bolzano. E così il maresciallo Alessandro Isgrò, pure lui mezzo siciliano e mezzo tedesco. Tutti, per un motivo o per l’altro perfettamente bilingue, la mattina del 15 dicembre 2002 si ritrovano in uno stanzone al piano terra della procura militare di La Spezia. Hanno tra i trenta e i quaranta anni. Li ha chiamati Marco De Paolis, pm della procura militare di La Spezia. Roma ha finalmente ordinato e distribuito tra le - allora - nove procure militari italiane i 695 fascicoli dell’armadio della vergogna, le indagini sulle stragi naziste compiute nel 1944 per lo più in Toscana e lungo la linea Gotica, il confine costruito con terrore e sangue e che andava dalla provincia di Massa sul Tirreno fino all’altezza di Rimini sull’Adriatico. A nord tedeschi e partigiani arroccati sulle montagne. A sud le truppe alleate. Improvvisamente, quella mattina del 15 dicembre, dopo quasi cinquant’anni di silenzio in nome della ragion di stato, quei fascicoli tornano a gridare e a pretendere di fare i conti con la verità e con la giustizia.
Franz, Luigi, Sandro, Alessandro nulla sanno di cosa raccontano quelle carte. Li ha convocati il colonnello Roberto D’Elia, il cacciatore del boia di Bolzano («Seifert è in carcere, ancora adesso, e ci resta, la giustizia arriva, prima o poi»), ha bisogno di una squadra che lavori a tempo pieno sui fascicoli. «Ricordo ancora – sorride Romano – che li guardai per dire ma voi siete pazzi. Era impossibile fare quelle indagini, ritrovare oggi il sottufficiale tedesco che nell’agosto del 1944 aveva scaricato a S.Anna un intero mitra su una bambina di due mesi…. Impossibile. Quella stanza era sommersa di polvere e immersa nella nebbia». La nebbia che si deposita quando si decide che un pezzo di storia va dimenticato.
Comincia così tra nebbie della storia e della memoria e polvere vera il primo giorno di lavoro del Pool multilingue di polizia giudiziaria militare addetto alle indagini sulle stragi naziste. Sono i nostri ‘piccoli’ Wiesenthal, cacciatori di ufficiali e sottufficiali nazisti. In sei anni ne hanno scovati una quarantina, qualcuno come Schiffmann, responsabile per la strage di S.Cesareo sul Panaro, è morto l’ultimo giorno del processo, per poche ore, a ottant’anni, ha mancato la sentenza che lo avrebbe condannato all’ergastolo.
Hanno tutti imparato la storia lavorando. «Non sapevamo nulla della Linea Gotica, delle stragi, di cosa è successo in quegli anni in quella parte d’Italia» raccontano oggi seduti intorno a un tavolo. La loro sede è a Bolzano, ma si dividono tra la procura militare di Verona e quella di Roma, nucleo ormai ridotto all’osso per uomini (quattro) e mezzi anziché essere valorizzato e protetto. «All’inizio eravamo scettici e anche distaccati, è roba vecchia, ci si diceva, saranno tutti morti, a chi interesserà mai. Poi però - aggiunge Stuppner – non siamo più riusciti a stare senza. È diventata come una droga, mesi e mesi di ricerche disperate, dalle otto del mattino fino a mezzanotte in ufficio a La Spezia e mesi e mesi in Germania, tra gli archivi di Berlino e quelli di Friburgo».
Tra settembre 1943 e il 1945 i tedeschi, indietreggiando lungo l’Italia che li aveva «traditi», uccisero migliaia e migliaia di persone, per lo più anziani, donne, bambini, parroci perché gli uomini era nei gruppi partigiani , almeno diecimila civili innocenti secondo i 695 fascicoli dell’armadio della vergogna. «Finchè ci sarà anche solo uno dei loro parenti che chiede di sapere chi ha ucciso» dice il colonnello D’Elia, «il nostro lavoro non deve finire». La verità storica pesa quanto quella giudiziaria. Scelte politiche e tagli alla Finanziaria permettendo.
«Indagini atipiche», Sandro Romano le chiama così. I nostri Cold case. Ogni indagine è cominciata con la lettura dei report dei Sib, le special investigation branch inglesi che risalivano l’Italia e ricostruivano appena possibile le stragi naziste. Luogo, data, numero dei morti, testimonianze sull’accaduto. Questo il materiale contenuto in ognuno dei fascicoli dell’armadio della vergogna che il pool ha cominciato a spulciare quella mattina del 15 dicembre 2002.
«Capiamo subito – racconta il colonnello D’Elia – che avevamo a che fare con dodicimila sadici pazzi, la famigerata Sedicesima divisione delle SS: case incendiate con all’interno persone vive; mitra scaricati su bambini di pochi mesi; gente sepolta viva e altri fatti saltare, da vivi, con cariche di esplosivo messe in tasca; altri impiccati con il filo spinato…». Le parole sono insufficienti per descrivere le foto d’epoca trovate nei fascicoli impolverati. Sono uomini grandi e grossi, ma molti di loro hanno perso il sonno in quelle carte.
Per procedere nell’indagine atipica occorre dare nome e cognome ai «dodicimila sadici» e dimostrare, sessant’anni dopo, che erano lì e in quel giorno. Costruire la prova. E qui bisogna dir grazie a quella arguzia e tenacia un po’ speciali che possono venir fuori mescolando un altoatesino con un napoletano. O un siciliano. «Diciamo che con molto impegno personale ci siamo aperti le porte del Paradiso, dal ministero della Giustizia tedesco alla procura generale, dalla Bka, la polizia federale, alla Lka, quella locale, altrimenti eravamo ancora ad aspettare di vedere una carta» sintetizza Romano. Il punto è che i tedeschi hanno archiviato ogni loro mossa. Bisogna solo trovare lo schedario giusto. La prima tappa è Friburgo, Kranchen buchlager, l’archivio militare che conserva tutte le mappe e i diari di guerra. Da qui si risale al Reparto in azione in quel luogo e in quella data, nomi, cognomi e gradi, e ai Rapporti giornalieri con il diario della giornata. La seconda tappa è Berlino, il Bundes archive, 180 milioni di atti conservati compreso l’elenco delle piastrine di ogni militare tedesco a partire dal 1939. «A quel punto confrontando – spiega Stuppner - fascicoli, libretti matricolari, ricoveri ospedalieri con feriti e morti, siamo arrivati all’elenco dei militari tedeschi coinvolti nelle stragi e ancora in vita». Romano ricorda soprattutto una cosa: «Uno degli archivi di Berlino era stata la sede delle SS, la storia tornava dove era cominciata. Abbiamo lavorato per quattro mesi in quelle celle gelide, i rapporti di Himmler, Goering, Hitler, abbiamo tenuto la realtà in mano, un puzzle da cinquantamila pezzi e alla fine abbiamo capito la vera storia capitata all’Italia».
Arriva la fase della ricerca degli indagati, atti di rogatoria condotti insieme all’autorità giudiziaria tedesca, in genere ottantenni pensionati in anonimi paesini tedeschi. All’emozione della storia tenuta tra le mani, subentra lo choc di incontrare persone affatto preoccupate dalla giustizia che li viene a cercare sessant’anni dopo, sicure di sé, della loro impunità, certi che la Germania ha già prescritto tutto, «protetti da una rete molto ideologizzata di mutua assistenza legale». Anziani gerarchi che rivendicano tutto e ridono in faccia agli investigatori italiani. «Uno interrogato in una stazione di polizia – ricorda Stuppner – mi disse urlando che lo stavo offendendo perché se non c’erano lui e le SS io adesso non sarei stato un poliziotto e il procuratore non sarebbe stato un magistrato. Lui ci aveva dato la libertà e noi lo accusavamo, sessant’anni dopo. Era fuori di sé». Un imputato austriaco per la strage di S. Anna di Stazzema si alzò in tribunale urlando: «Se la Germania mi chiama io vado anche ora». A Baden-Baden un ufficiale indagato e interrogato s’arrabbiò: «Io non sono un ex delle SS e lei (il brigadiere Romano ndr) non mi faccia domande stupide su cosa abbiamo fatto in quei giorni: abbiamo eseguito ordini». Il giudice tedesco lo ha punito con mille euro di multa per oltraggio a pubblico ufficiale. Facce e storie che si rincorrono nella memoria del pool con brividi diversi. «Un teste tedesco non voleva collaborare. Il figlio che era magistrato, volle essere presente all’interrogatorio e non sapeva nulla del passato militare del padre. Quando capì, supplicò il padre di parlare. Il vecchio tacque, comunque, evitando di diventare agli atti un traditore dei suoi commilitoni e un assassino per il figlio. Non scorderò mai quella faccia». Per non parlare di un altro indagato per la strage di Civitella che negava di essere coinvolto anche perché non aveva mai avuto il grado come risultava dai rapporti. Aveva 86 anni, era arrivato senza bastone e non aveva chiesto soste in dieci ore di interrogatorio. Alla fine Stuppner lo incastra con la domanda della pensione trovata in archivio da dove risultava il grado. Il pool capisce di aver fatto la cosa giusta accettando di andare a vedere in quella «nebbia» della storia, via via che incontra i parenti delle vittime. Lo scetticismo e la diffidenza iniziale di gente che per decenni era stata ignorata e che ora veniva sentita da giovani che nulla sapevano di loro, donne di 80 anni che mostrano ferite, ex bambini sopravvissuti perché nascosti da qualche parte che hanno visto le loro famiglie sterminate e che ricordano ogni dettaglio, persino le voci. «La memoria di certi ex bambini ha fatto venire i brividi a molti» racconta il colonnello D’Elia. «Abbiamo sofferto con loro» aggiunge Romano. Stuppner ricorda l’aula alla sentenza per la strage di S.Anna di Stazzema: «Silenzio, compostezza, nessun urlo, nessun odio. “Oggi siamo rinati” mi disse una persona. “Adesso posso morire in pace” disse un’altra». Una storia a parte andrebbe dedicata ai sacerdoti e ai parroci che si sono fatti uccidere anche solo per ritardare la morte di altri.
In nome di tutte queste persone e di tutti quelli che vogliono sapere e ricordare, il lavoro del pool non può finire. Decine di stragi sono state archiviate per pigrizia: anche se sono morti gli ufficiali nazisti c’è comunque la necessità di scrivere le cronache di quei giorni lungo la linea Gotica e di mettere a posto i pezzi del puzzle. Quante di queste stragi potevano essere evitate? «Abbiamo sentito come testimoni ex camicie nere, uomini ma anche donne che avevano relazioni con i tedeschi, persone che conducono una vita insospettabile e che ci hanno pregato di non rivelare niente a nessuno» racconta D’Elia.
Ieri a Roma è cominciato il processo a dieci gerarchi nazisti accusati di omicidio e violenze: in una settimana, tra il 19 e il 24 agosto 1944 hanno ucciso, sotto gli ordini del maggiore Reder e del tenente Fischer, più di 400 persone in una dozzina di paesini della Lunigiana. In aula ci sono solo i parenti delle vittime. Ma l’udienza è stata dichiarata aperta «in nome del popolo italiano». Della sua memoria.

l'Unità 14.1.09
Così la politica perseguitò Einstein e la relatività
di David Kaiser


Tutto relativo. La sua teoria veniva piegata agli interessi delle potenze, in Europa e in America
Nel mirino. Controllato dall’Fbi, «proibito» dai nazisti e poi «usato» durante la guerra fredda

Ecco come le esigenze della politica si attorcigliarono su uno dei più grandi scienziati di tutti i tempi, Einstein. Ce ne parla David Kaiser, del quale anticipiamo stralci della «lezione» che terrà al Festival della Scienza.

Abbiamo la tendenza a pensare che Albert Einstein fosse un solitario, un uomo che evitava il trambusto della vita di tutti i giorni preferendo la tranquilla contemplazione. A dispetto di questa immagine familiare ai più, Einstein si è occupato molto di politica durante tutto il corso della sua vita. Socialista e pacifista convinto, si è impegnato instancabilmente nel campo dei diritti civili, per il controllo civile dell’energia atomica e per correggere gli eccessi dell’anticomunismo. Di fatto fu attivo politicamente al punto che l’Fbi lo tenne sotto stretta sorveglianza per decenni redigendo un rapporto segreto di 2.000 pagine sulle sue attività politiche. Anche il più importante e duraturo contributo scientifico di Einstein - la teoria generale della relatività, vale a dire il modo in cui i fisici spiegano la gravità e il fondamento di quasi tutte le nostre teorie sul cosmo - è stato considerato alla stregua di un grande, austero tempio estraneo ai drammi politici fin troppo umani della storia moderna. Ma era davvero così? Come il suo autore, anche la teoria di Einstein era profondamente inscritta negli avvenimenti politici.
Einstein dedicò dieci anni di lavoro alla teoria prima di scoprire le equazioni che mettono la curvatura dello spazio e del tempo in relazione con la distribuzione della materia e dell’energia. Secondo la nuova concezione di Einstein, la gravità altro non era che geometria; con buona pace per Newton, Einstein dichiarò che non esisteva alcuna «forza» di gravità, ma esisteva solo la deformazione elastica dello spazio-tempo. La forma definitiva delle sue equazioni venne alla luce in una serie di pubblicazioni ravvicinate nel novembre del 1915 in piena prima guerra mondiale. La guerra esercitò un profondo effetto sul modo in cui gli scienziati vennero a conoscenza del lavoro di Einstein. Uno dei primi adepti fu il matematico russo Vsevolod Frederiks, che allo scoppio della guerra studiava a Gottinga. Poco dopo aver seguito una conferenza di Einstein sul suo nuovo lavoro, il matematico russo fu internato come prigioniero civile di guerra. Alla fine della guerra fu rilasciato ed estradato nella natia San Pietroburgo. Frederiks fu il primo scienziato russo a tenere corsi sulla teoria di Einstein e contribuì a formare una intera generazione di esperti in gravitazione. (...)
La guerra condizionò anche la diffusione della teoria di Einstein in Occidente. Alcuni degli amici più intimi e degli ex studenti di Einstein lavoravano a Leiden. Anche dopo lo scoppio della guerra Einsten affrontò diverse volte il lungo viaggio per arrivare a Leiden al solo scopo di discutere del suo lavoro - viaggi resi possibili dal fatto che l’Olanda era ancora un Paese neutrale. Ma la guerra aveva troncato tutti i contatti diretti tra gli scienziati in Gran Bretagna e in Germania. Gli scienziati britannici, come ad esempio Arthur Eddington, vennero a conoscenza del lavoro di Einstein solo tramite i colleghi di Einstein a Leiden. Uno di loro, Willem de Sitter, inviò a Eddington una copia delle carte di Einstein (c’era l’embargo sui giornali) e scrisse per Eddington e i suoi colleghi alcuni lunghissimi manuali in inglese. Il corso di fisica della relatività a distanza funzionò e con il tempo e un certo impegno Eddington divenne il più profondo conoscitore in Gran Bretagna della teoria della relatività.
GUERRA E SCIENZA
Anche in questo circostanza la guerra svolse un ruolo nella diffusione della teoria accelerandone invece che rallentandone la diffusione. Eddington, che era un quacchero, durante la guerra fu un tenace obiettore di coscienza. I suoi superiori insistettero sul governo affinché gli fosse permesso di dedicare il servizio civile obbligatorio alla preparazione di una spedizione per studiare una eclissi (...). I posti migliori per osservare la nuova eclissi erano lontani dai campi di battaglia europei e quindi Eddington riuscì ad evitare il destino che era toccato in sorte a Freundlich. Una equipe (guidata da Eddington) arrivò nella minuscola isola di Principe, al largo della costa occidentale dell’Africa, mentre l’altra osservò l’eclissi dal Brasile. Quasi esattamente un anno dopo l’armistizio che aveva messo fine alla prima guerra mondiale, Eddington annunciò dinanzi ad un folto pubblico riunito a Londra che le osservazioni sulla eclissi suffragavano la previsione di Einstein: la gravità aveva curvato la traiettoria della luce stellare.
Nel giro di 24 ore Einstein divenne una star internazionale. Il tripudio fu ancora più sensazionale in quanto una equipe scientifica britannica aveva verificato la teoria di uno scienziato tedesco in un momento in cui gli scienziati dei due Paesi non potevano ancora incontrarsi di persona alle conferenze internazionali. Einstein colse lo strano intreccio tra scienza e politica quando spiego ad un giornalista del Times di Londra: «In Germania oggi mi considerano uno “scienziato tedesco” e in Inghilterra un “ebreo svizzero”. Se domani dovessi diventare una bete noire (bestia nera, ndt) la realtà si rovescerebbe e diventerei un “ebreo svizzero” per i tedeschi e uno “scienziato tedesco” per gli inglesi».
arrivano i nazisti
La sfortunata situazione si verificò prima di quanto Einstein avesse immaginato. A partire dal 1920, i primi sostenitori del nazismo cominciarono ad organizzare in tutta la Germania imponenti manifestazioni anti-Einstein. A guidare questo movimento c’erano due Nobel tedeschi per la fisica che attaccarono il lavoro di Einstein giudicandolo anti-ariano nello spirito. Tutti i veri ariani - sostenevano - si erano resi conto della «forza» presente nelle loro ossa lavorando la terra. Nessuno sarebbe stato così rammollito da eliminare il concetto di forza come aveva fatto Einstein. I due scienziati attaccarono Einstein su due fronti: condannarono il lavoro di Einstein per il fatto di essere ripugnante per la sensibilità ariana e, al tempo stesso, perché il più famoso risultato di Einstein - la curvatura della traiettoria della luce stellare ad opera di un corpo di notevole massa come il sole - era stato rubato ad un vero ricercatore ariano ed era in sostanza frutto di un plagio.(...)
Nel 1933, subito dopo la loro ascesa al potere, i nazisti proibirono l’insegnamento della fisica di Einstein in tutto il Reich. L’interesse nei confronti della teoria di Einstein scemò in tutto il mondo, persino in luoghi molti lontani dall’influenza nazista. Intorno alla metà degli anni ’30 la maggior parte degli scienziati convennero sul fatto che alla maggior parte delle domande «semplici» era stata data risposta e che qualunque altra domanda si sarebbe rivela troppo difficile per avere risposta o troppo remota dal resto della fisica per meritare un approfondimento. Appena un decennio dopo che Einstein era stato accolto con grandi onori e che le pubblicazioni sulla sua teoria erano apparse a centinaia ogni anno, l’interesse crollò ai livelli precedenti la spedizione per l’osservazione dell’eclissi.
Dopo aver vivacchiato ai margini del mondo scientifico per una ventina d’anni, la teoria ricominciò a suscitare un modesto interesse da parte di pochi negli anni 50. A quell’epoca una seconda guerra mondiale aveva modificato la situazione della ricerca nel campo della fisica stabilendo nuovi rapporti tra i fisici e i vari finanziatori. Negli Stati Uniti un eccentrico milionario di nome Roger Babson creò una nuova fondazione per contribuire al progresso della ricerca sulla gravità. (...)
La seconda guerra mondiale consentì diversi altri sviluppi nello studio della teoria di Einstein. (...) Anche gli armamenti fecero la loro parte. Gli scienziati riciclarono idee e tecniche che facevano parte dei progetti della nuova bomba all’idrogeno degli anni 50 - armi nucleari molte volte più devastanti delle bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki alla fine della seconda guerra mondiale - per far compiere progressi all’astrofisica relativistica. (...)
In tutti questi modi la stupenda teoria di Einstein conobbe alti e bassi seguendo le maree della poltica. Nata in tempo di guerra, la teoria della relatività generale continuò ad essere influenzata da questioni di rilevanza mondiale: prima dai suoi detrattori nazisti e in seguito da una nuova generazione di ricercatori che operavano nel clima della guerra fredda.

Traduzione di Carlo Antonio Biscotto - http://web.mit.edu/dikaiser/www/

Repubblica 14.1.09
Quel che resta del futurismo
L'avanguardia che innervosì il '900
di Achille Bonito Oliva


Figli di quell´onda lunga sono anche Burri e Fontana Schifano e Warhol Bill Viola e Gehry
Una rivoluzione spesso appannata dai comportamenti degli stessi futuristi
Il manifesto fu pubblicato sulla "Gazzetta dell´Emilia" il 5 febbraio del 1909 e poi su "Le Figaro". Velocità e azione le parole d´ordine. Ma fra gli esiti ci fu anche il fascismo

Sicuramente tra tutte le Avanguardie il Futurismo è stato il movimento più nervoso del Novecento, un secolo nervoso per eccellenza. Si evince dal primo manifesto di Filippo Tommaso Marinetti, pubblicato il 5 febbraio 1909 sulla Gazzetta dell´Emilia, e apparso il 20 febbraio sulle pagine del quotidiano francese Le Figaro, che esplode come una violenta deflagrazione sullo sfondo di un´Italia contadina e analfabeta, ancora abbondantemente assopita tra scampoli e retaggi di una cultura tardo-romantica, ottocentesca. Velocità, dinamismo, azione, modernità, il mito della macchina e del progresso, insieme al disprezzo per la tradizione e l´accademismo, costituiscono i nuovi valori dello Sturm und drang, impeto e assalto, futurista: per il rinnovamento della società italiana e il superamento delle vecchie ideologie attraverso l´impiego massiccio e bulimico del manifesto, forma di militarizzazione della parola usata come proclama e dichiarazione di guerra contro il mondo passatista.
Accanto a Marinetti, vero e proprio deus ex machina del movimento, compaiono sulla scena Balla, Boccioni, Carrà, Severini, Russolo, che attribuiscono al movimento, concepito originariamente come letterario, una propria concreta fisionomia artistica. Tra il 1910 e il 1914 vedono la luce, solo per citare alcuni fondamentali scritti, il Manifesto dei pittori Futuristi, il Manifesto dei Musicisti Futuristi, Il Manifesto della Scultura Futurista e il Manifesto della Scultura Futurista. I proclami di Marinetti si susseguono con intensità crescente, fino a inondare, con la tipica verve linguistica e lo spirito pungente che caratterizza la formazione, ogni aspetto del vivere civile e ogni forma di espressione artistica: dal romanzo al teatro, dalla poesia alla danza, dalla fotografia all´architettura, dal cinema alla moda, dalla radio al design, dalla tipografia alla musica, dalla cucina alla politica, al concetto di donna e quello di amore, approdando, in un documento stilato a quattro mani da Balla e Depero, all´estrema ipotesi di una Ricostruzione futurista dell´Universo.
Nel tentativo di agguantare la vita e di trasformarla attraverso l´arte, il Futurismo si fa nervoso, "caffeina d´Europa", nei suoi manifesti sprizza insonnia, impazienza, irruenza, vitalismo, superomismo, conflittualità. Fino a cadere sciaguratamente nelle braccia del Regime, nell´impossibile tentativo dell´immaginazione al potere attraverso l´estetizzazione della politica e del quotidiano.
La rivoluzione linguistica del Futurismo spesso è stata appannata dagli stessi artisti per uno stile di vita e comportamenti politicamente scomodi e inaccettabili (l´adesione al Fascismo fino alla sua fine) e rimossa dalla critica fino agli anni sessanta.
I manifesti futuristi senza dubbio esprimono principalmente idealità di comportamento, indicate attraverso pubblici proclami e poi magari contraddetti nel quotidiano e nella propria vita privata.
Il superamento di ogni modica quantità, l´amore per il pericolo e l´azzardo, l´apologia della macchina e dell´industria, la pubblicazione del primo Manifesto su un quotidiano della città più cosmopolita d´Europa, ci segnalano una modernissima ansietà di comunicazione: oltrepassare il recinto del linguaggio e bucare l´immaginario collettivo di una società di massa magari disattenta.
È facile fare i conti con le Avanguardie storiche. Insonnia futurista contro sogno surrealista, vitalismo contro platonismo dell´astrazione, esplosione contro scomposizione cubista, nichilismo attivo contro anarchia dadaista, euforia contro lamento espressionista. D´altronde anche Antonio Gramsci si pose la domanda sull´onda anomala del Futurismo: «Marinetti rivoluzionario?» (Ordine Nuovo, 5 giugno 1921). Gramsci scriveva: «I futuristi hanno svolto questo compito nel campo della cultura borghese: hanno distrutto, senza preoccuparsi se le nuove creazioni, prodotte dalla loro attività, fossero nel complesso, una opera superiore a quella distrutta: hanno avuto fiducia in sé stessi, nella foga delle energie giovani, hanno avuto la concezione netta e chiara che l´epoca nostra, l´epoca della grande industria, della grande città operaia, della vita intensa e tumultuosa doveva avere nuove forme di arte, di filosofia, di costume, di linguaggio: hanno avuto questa concezione nettamente rivoluzionaria, assolutamente marxista».
Smentita tragicamente tale asserzione sul piano politico, la si può confermare invece su quello culturale e condividere la sentenza finale dell´articolo di Gramsci: «I futuristi, nel loro campo, nel campo della cultura, sono rivoluzionari».
Visto che è l´anniversario, a cento anni dalla sua nascita, chiediamoci: che cosa è rimasto del Futurismo, fino a dove è arrivato il suo tsunami? Sicuramente il Futurismo è stata un´onda lunga che ha investito sul piano della sperimentazione linguistica molte generazioni di artisti. Pensiamo al polimaterismo di Alberto Burri e di Robert Raushenberg, al continuum spazio-temporale del taglio di Fontana, alla pittura urbana di Stuart Davis, alla Pop Art americana, alla velocità pittorica di Schifano e al dandismo di massa di Warhol, all´eclatanza iconografica di Cattelan, alla multimedialità di Kentridge, ai video di Bill Viola, all´energia dei materiali nell´Arte povera con la sua discesa dalla parete e l´occupazione dello spazio quotidiano, ai linguaggi pittorici figurativi di Chia e a quelli astratti di Nicola De Maria nella Transavanguardia, alla musica concreta, elettronica e a quella di Cage, agli ologrammi di Bruce Nauman, all´happening e alle azioni di Fluxus, a Dan Flavin, a Frank Gehry. E che dire della pubblicità, dei videoclip di Michael Jackson, dei graffiti di Basquiat , ed infine della "nouvelle cousine" di Ferran Adrià che ha introdotto un´attenzione chimica nell´elaborazione di nuovi piatti?
Ma sicuramente l´ansietas della comunicazione è la grande eredità del Futurismo, interamente puntata sul mondo, al limite del fondamentalismo estetico e proclamata quasi sempre a volume alto, nell´impossibile tentativo di dare un presente immediato al nostro futuro.

Repubblica 14.1.09
Le riserve dell´artista russo sui futuristi
Kandinsky, l´arte è sacra
di Vassilij Kandinsky


Kandinsky a Franz Marc (Sui Futuristi) 1908.«La teoria è una cosa ma il �talento´ è cosa ben diversa. Nella musica il talento è normale, un dato certo: raramente l´artista li comprende entrambi; per esempio Schoenberg. Inoltre i "manifesti" completi ...sono disordine senza precedenti, che apparentemente può svilupparsi solo dalle teste degli italiani. Molto più concretamente, invece, i nostri manifesti risultano essere sempre organici e più costruttivi. Insomma, l´arte è oggettivamente una cosa sacra di cui non si può disporre in modo così superficiale. E i futuristi giocano pericolosamente con le idee più importanti che si affacciano oggi nel dominio dell´arte, prendendole un po´ qui e un po´ là. Tutto ciò senza ponderazione, senza riflessione. Sono così superficiali...».
A Franz Marc (Su van Gogh) 1913
«che dire sulla nuova arte? L´unica, nuova e interessante forma d´arte, veramente viva, è rappresentata dalle opere di un giovane olandese che qualche volta ho incontrato. Si tratta di un certo van Goghï».
A Herwarth Walden (Sui Futuristi e sulla linea)
«Le loro opere sono composizioni accademiche. Ciò si evince anche dalla disposizione schematica che troviamo nei musei. E ciò fa capire, anche, quanto poco i musei abbiano compreso dei futuristi. I musei concorreranno a confondere le idee. Questo schematismo, li pone in una erronea dimensione, cosa che nessun maestro può permettere... La linea ha da sempre rappresentato per me una domanda davvero difficile intorno al dominio dell´arte. Ha costituito momenti di dubbio, fatica. I miei occhi sono severi. La spensieratezza, la leggerezza e la fretta sono caratteristiche fondamentali per molti artisti oggi. In ragione di ciò credo, anzi sostengo fortemente che i futuristi abbiano rovinato ciò che in loro poteva esserci di buono».
Le lettere inedite sono tratte dal catalogo di "Illuminazioni" (Electa, a cura di Ester Coen), traduzione e cura di Francesca Bolino

Repubblica 14.1.09
Un testo raro di Piero Gobetti sul fondatore del movimento
"Marinetti? insulso"
di Piero Gobetti


Chi conosce Marinetti ha l´impressione di un uomo impotente a riflettere. Non può vivere che di rumori e di trovate insulse. La sua più grande scoperta artistica è il teatro di varietà, la sua religione il tattilismo. Ma toglietelo dal palcoscenico, sottraetelo agli artifici delle luci e trovare un debole, un minorato. Nulla di più penoso che un colloquio con Marinetti da solo a solo. Non ha niente da dirvi: i suoi silenzi danno un senso di disagio e di pietà.
Egli ha bisogno degli intona-rumori, della grancassa, di un codazzo di adulatori pacchiani e di servi zelanti che gli facciano da coro, che lo sollevino dalla sua povera malinconia, che lo aiutino ad esaltarsi. Ecco il segreto della sua banda: essa gli dà una garanzia di continuità della sua mistificazione.
Non è successo altrove che gli armati gregari sostituissero la fede assente? Corte e pretoriani, umanisti e camicie nere furono sempre consolatori e custodi dei regimi improvvisati con arte e difesi contro i pretendenti.
Così è del pari lo stile di Marinetti. I Manifesti, scritti in linguaggio cristiano, mostrano la vivacità dell´orso che balla, e più la tenace pedanteria di un professore tedesco. Sono insistenti, noiosi, divisi in capitoli e in paragrafi, scolastici come un catechismo, schematici come un trattato. Quando poi egli si abbandona all´onda del lirismo, allora le parole in libertà, le proposizioni asintattiche, ritraggono la sua anima vuota e sconnessa, le sue doti di osservatore semplicista, devoto al più grossolano impressionismo, incapace di una continuità lirica e di una personalità grammaticale. (...)
Quando l´arte è così vicina alla politica; quando gli intona-rumori diventano da un giorno all´altro squadristi; come non pensa il Duce ad assicurarsi da un pretendente? La rappresentazione non potrà mutarsi all´improvviso in comizio? Non bisogna dimenticare che Marinetti è rimasto anticlericale, antimonarchico. Non ci darà egli il superfascismo?
Brano tratto dall´"Opera Critica"

Repubblica 14.1.09
I limiti di un movimento che si propose come rivoluzionario
L'oscurantismo del nuovo
di Mario Perniola


È noto che il grande scrittore giapponese Mori Ogai tradusse in giapponese il Manifesto del Futurismo di Marinetti, uscito sul giornale francese Le Figaro il 20 febbraio 1909, poche settimane dopo la sua pubblicazione. Meno noto è invece che la sua versione adoperò caratteri d´origine cinese rari e già allora caduti in disuso. Più o meno inconsciamente, egli si attenne alla strategia di modernizzazione adottata dal Giappone nel 1868, secondo cui questa deve avvenire attraverso una conciliazione tra il nuovo e il vecchio, senza che i due termini opposti vengano mai a conflitto. Paradossalmente un testo estremamente iconoclastico e sovversivo, che anticipa lo stile spettacolare e violento della pubblicità e della comunicazione massmediatica attuale, era trasformato in qualcosa la cui comprensione richiedeva la conoscenza del passato.
Questo curioso episodio è per noi molto significativo perché ci induce a riflettere sulla china autodistruttiva e devastatrice presa dalla mentalità occidentale, quando ha cominciato a credere che il nuovo fosse per definizione migliore del vecchio. Tale convinzione, le cui origini affondano nel Barocco e nella sua esaltazione della meraviglia come precetto estetico primario, ha trovato il suo culmine nel Novecento, che appunto è stato il secolo futuristico per eccellenza. Nel momento in cui la maggior parte del mondo si trova dinanzi alla necessità di modernizzarsi per non essere ancora una volta colonizzato dall´Occidente, vale la pena di mettere in dubbio il pregiudizio futuristico, secondo il quale la novità, solo perché tale, è a priori superiore a ciò che è già conosciuto e sperimentato. Ora non si tratta in nessun modo di sposare il tradizionalismo e il passatismo, ma soltanto di chiedersi come la versione traviata della modernità e del progresso, sostenuta da Marinetti con «violenza travolgente e incendiaria» (secondo le parole del suo Manifesto) sia potuta diventare egemonica, relegando nelle anticaglie e nei vecchiumi non solo il sapere, ma perfino la coerenza e la logica.
Giova sottolineare che questo tralignamento non è affatto una conseguenza del pensiero moderno. Il Rinascimento è stato in tutte le sue manifestazioni un ritorno alla cultura antica e della sua concezione del mondo. Anche la Riforma si è configurata come un ritorno alle fonti della religiosità. Quanto alle Rivoluzioni politico-sociali per eccellenza, quella americana e quella francese, esse iniziarono come restaurazioni "dell´antico ordine di cose" contro i soprusi del governo coloniale inglese e contro il dispotismo della monarchia francese. Marx esortava a non considerare Hegel come un "cane morto" e la psicoanalisi è basata sui miti dell´antica Grecia. Perfino Guy Debord, che passa come uno dei più radicali ispiratori della contestazione studentesca del Sessantotto, è intriso di cultura classica e non è mai venuto meno nella sua vita come nei suoi scritti al "grande stile" degli antichi e dell´animatore della Fronda, de Retz.
Il futurismo è stato una forma di oscurantismo al massimo grado aggressivo, che ha contagiato per tutto il Novecento tutti i movimenti di massa e fuorviato non pochi leader politici. Oggi, la sua eredità mi sembra che si manifesti soprattutto nell´antipolitica del "Vaffanculo!", la quale costituisce un fenomeno molto differente dal populismo, dal qualunquismo e dal moltitudinismo: questa è connessa più con la bolla futuristica derivante dall´uso aberrante di Internet che con qualsiasi tipo di ideologia. Al neofuturismo degli "incazzati in pigiama" è ancora preferibile il "no future" del movimento Punk

Corriere della Sera 14.1.09
Storie Esce domani «Il lamento del prepuzio», che la critica americana ha avvicinato a Groucho Marx e Roth
Una risata per salvarci da Dio
Le irriverenti memorie di Shalom Auslander: scrivo su consiglio dello psichiatra
di Livia Manera


«Quand'ero bambino — racconta Shalom Auslander nel più irriverente memoir degli ultimi anni a cominciare dal titolo, Il lamento del prepuzio
— i miei genitori e i miei insegnanti mi raccontavano di un uomo che era molto forte. Mi dicevano che era capace di distruggere il mondo intero. Mi dicevano che era capace di sollevare le montagne. Mi dicevano che era capace di dividere le acque del mare. Era importante che tenessimo quell'uomo di buon umore. Quando obbedivamo ai suoi comandamenti, gli eravamo simpatici. Gli eravamo così simpatici che uccideva chiunque non ci amasse. Ma quando non obbedivamo ai suoi comandamenti, non gli eravamo simpatici. Ci odiava. Certi giorni ci odiava tanto da ucciderci; altri giorni lasciava che ci uccidessero altri. Noi chiamiamo questi giorni "giorni di festa". Purim è quando cercarono di ucciderci i persiani. Pesach è quando cercarono di ucciderci gli egiziani. Chanukah è quando cercarono di ucciderci i greci».
Così comincia Il lamento del prepuzio, da domani in libreria per Guanda (pp.
268, e 15,50, traduzione di Elettra Caporello), il libro più polemico e blasfemo sul rapporto tra gli uomini e Dio ad arrivare in libreria dopo Dio non è grande di Christopher Hitchens, solo molto più spiritoso, ancora più arrabbiato e soprattutto più tragico. Ed esattamente così, spiritoso, arrabbiato e tragico nella sua vulnerabilità, appare il trentaduenne Shalom Auslander di Monsey, Stato di New York: lo scrittore più «teologicamente abusato » d'America (che la critica ha avvicinato a Groucho Marx e Philip Roth), il figlio di una coppia di ebrei ortodossi così autoritari (padre falegname, madre casalinga) che alla domanda «Che cosa avrebbe fatto se non avesse scritto queste memorie?» — consigliate da uno psichiatra — risponde: «Sarei morto».
E dopo aver spiegato di aver dovuto troncare ogni rapporto con la famiglia, spiega: «Mi sarei ammazzato, senza ombra di dubbio. Dieci anni fa ci sono arrivato veramente vicino. La sola ragione per cui mi sono rivolto a uno psichiatra è che avevo una moglie che amavo, e ho pensato: glielo devo. Altrimenti, suicidarsi è la sola soluzione sensata quando hai la testa piena di cose che rendono ogni momento della tua vita insopportabilmente doloroso ». Salvo aggiungere con un sorriso malizioso: «È anche il più grande atto di ribellione contro un Dio che può controllare tutto tranne quel gesto. Per questo ti insegnano fin da piccolo che il suicidio è il peccato più grave di tutti ».
Prima di diventare una celebrità grazie alla radio e al «New Yorker» che hanno anticipato Il lamento del prepuzio
scatenando un polverone («Ho ricevuto centinaia di e-mail d'odio e di minacce. Fortuna che quando il libro è uscito e la gente lo ha letto, si è accorta che non l'ho scritto per sostenere che la religione ebraica è terrorizzante e abusiva, ma che così è stata insegnata a me»), Shalom Auslander scriveva pezzi comici per «Harper's» («l'umorismo è l'unica cosa che renda la vita sopportabile »), racconti (la raccolta Beware of God) e lavorava in pubblicità, nascosto con la moglie Orly nei boschi di Woodstock, il più lontano possibile dal suo ambiente d'origine, «dove era proibito mangiare carne di vitello insieme ai latticini. Per cui se uno aveva mangiato del vitello, gli era proibito mangiare latticini per sei ore; e se aveva mangiato latticini, non poteva mangiare vitello per tre ore. E a tutti era proibito mangiare maiale, almeno fino all'avvento del Messia, giorno in cui i malvagi sarebbero stati puniti, i morti sarebbero risorti e i maiali sarebbero diventati kosher».
Nell'attesa di tutto ciò, Shalom cresce cercando di schivare i pugni di suo padre e le polpette consolatorie di sua madre, studiando alla Yeshiva e introiettando insegnamenti minacciosi come «l'uomo pianifica, dicevano i miei genitori, e Dio ride», nella consapevolezza che per sua madre «guidare l'automobile di Shabbat è finire il lavoro che Hitler ha cominciato», che per un uomo come suo padre ogni nemico è un nazista. E che siccome in una sola eiaculazione muoiono cinquanta milioni di spermatozoi (come gli spiegano quando raggiunge la pubertà) ogni volta che Shalom si masturba «fanno circa nove olocausti, il che mi rendeva colpevole di genocidio dalle tre alle quattro volte al giorno».
Altre tentazioni peccaminose per un giovane ortodosso sono la pizza non kosher, i marshmallows e gli hamburger di McDonald. E Il lamento del prepuzio continua nel racconto di una perdizione adolescenziale fatta di orge di cibo non kosher, giornali pornografici e spinelli, fino al momento in cui l'autore s'innamora, si sposa e scopre che sta per diventare padre. «E a quel punto ho cominciato a pensare a me stesso come a Mosè che porta in salvo gli ebrei ma muore prima di arrivare alla Terra Promessa. E a dirmi: forse non mi libererò mai di questo Dio vendicativo che si è avvinghiato ai miei anni formativi, ma posso portare mio figlio a una Terra Promessa dove non c'è alcun Dio. Ed è questo il vero argomento del mio libro».
Un'ode all'agnosticismo, dunque. Peccato che malgrado non sia più osservante, Shalom Auslander sia rimasto «penosamente, straziatamente, incurabilmente, miserabilmente religioso », il che alla luce di quanto ha raccontato finora significa che vive nel terrore che Dio si vendichi di questo suo imperdonabile libro.
«Quindi ti prego, Dio — scrive nella pagina finale che di solito gli autori dedicano ai ringraziamenti — non uccidere mia moglie a causa di questo libro. Non uccidere mio figlio e non uccidere i miei cani. Se devi per forza uccidere qualcuno, uccidi Geoff Kloske alla Riverhead Books (il suo editore
ndr). Uccidi David Remnick del "New Yorker", e uccidi Carin Besser, che è qui in fondo al corridoio... e se voi uccidi anche Craig Markus (che ha disegnato la copertina ndr) ... ma non uccidere me. E non uccidere Orly. E non uccidere nostro figlio. Dopotutto è solo un libro!».

Aprile on line 14.1.09 17.06
Rifondazione, continua lo scontro
di Marzia Bonacci


Rifondazione, continua lo scontro Politica Il segretario Ferrero sostiene che la scissione vendoliana "si poteva evitare" se la minoranza avesse accettato l'esito del Congresso "che ha visto vincere il rilancio del Prc". Indica infine nell'esperienza del governo e della presidenza della Camera di Bertinotti i due grandi errori. Per il lider maximo invece la sinsitra si salva solo con un "big bang". Cominciano i primi esodi a livello locale degli scissionisti

Dice di aver evitato la scissione degli ex bertinottiani in tutti i modi, così come di aver offerto una possibilità, poi tradita, al direttore di Liberazione, destituito a inizio settimana e già rimpiazzato dal sindacalista bresciano della Cgil Dino Greco e dal giornalista Fulvio Fania. Il segretario del Prc Paolo Ferrero è tornato a parlare della situazione vissuta dal suo partito ai microfoni di Red-azione intervistato dal vicedirettore de L'Unità Pietro Spataro.
"Avevo chiesto a Sansonetti un giornale di tutti, ma lui è un ultra di Vendola": spiega così la decisione della sua segreteria di rimuovere il direttore del giornale comunista. Una decisione che trova poi giustificazione, come va ripetendo da tempo, anche nella condizione vissuta dalle casse del partito e della testata, di cui il primo è proprietario. Almeno per il momento, perché la trattativa per venderla all'editore fagiolino Bonaccorsi pur essendo ancora in ballo, si fa comunque sempre più concreta. "Liberazione vende poco e c'è un buco finanziario", ha infatti aggiunto il segretario.
Sull'esodo dei giordano-vendoliani -che si riuniranno il 24 a Chianciano per stabilire modi e tempi della loro uscita e che saranno in piazza ad Assisi per manifestare in sostegno della pace in Medioriente mentre il Prc ha aderito all'appuntamento di Roma-, Ferrero si è detto convinto che "si poteva evitare". Certo se solo si fosse rispettato, da parte degli ex bertinottiani, quanto stabilito dall'assise estiva del partito, che "ha visto vincere il rilancio del Prc" e non l'ipotesi di un suo superamento, a cui invece guardano i compagni della minoranza in uscita. Gli stessi che secondo Ferrero "stanno tentando di imporre, tramite forzature, quello che non è accaduto democraticamente al congresso". Con modalità che non gli piacciono e che riassume come "continua denigrazione e falsificazione per dipingere Rifondazione nella maniera peggiore possibile". Ovviamente la sua Rifondazione, quella che ha visto la prevalenza della mozione da lui animata insieme a Claudio Grassi.
Poi rivolge lo sguardo profeticamente al futuro, con la coscienza che la sfida che si è posto non è semplice. Potrebbe infatti "rimanere un generale senza truppa", cosicché alla fine sarebbe "come se il congresso l'avesse vinto Vendola". Quello che dunque l'attende, ammette, "è una battaglia difficile", soprattutto perché "se fallisce, fallirò io". La corsa in autonomia del Prc, il suo rivolgimento suo stesso per rilanciarsi, non è missione semplice. Ma Ferrero si dice comunque "abbastanza tranquillo". Dunque nessun passo indietro, nessuna revisione della linea politica.
E se guarda al futuro, non risparmia di analizzare il passato. E quando si affronta questo tema, dentro Rifondazione, non si può prescindere da chi ne è stato protagonista per oltre 14 anni. "Fausto ha fatto uno strano percorso", dice Ferrero, ma l'errore principale risiede "nelle mosse di Governo, con lui alla presidenza della Camera". Detto dall'unico ministro comunista nell'esecutivo Prodi, penseranno in molti, ha del discutibile. Altro errore di quella stagione, prosegue, è stato quello di aver fatto un programma di più di duecento pagine "dove di quello che chiedevamo noi non c'era traccia". Dunque il male originario fu "in quella esperienza di governo, non in Rifondazione". E la stagione del Prc inserito nella sfida a governare il paese chiama in causa anche l'altra componente politica di allora: il Pd. Lo stesso che oggi non può essere un interlocutore perché legarsi con esso "può portare alla fine di Rifondazione", ammonisce.
Poco dopo è Bertinotti ad intervenire al programma Faccia a Faccia di RadioTre intervistato da Paolo Franchi. L'ex leader massimo, ormai fuori dalla mischia comunista, ammette che "la sconfitta alle ultime elezioni era nell'aria" ed anche per questo "ho voluto metterci coraggiosamente la faccia". Ma è acqua passata, bisogna rivolgersi al futuro e soprattutto al presente. "Se vogliamo rinascere dobbiamo smetterla di guardare con ansia alle elezioni e dobbiamo impegnarci a una nuova progettualità". Cioè capire che "il centro della rinascita è nella società", attraverso la riscoperta di temi come retribuzioni, lavoro, disparità sociale, "che meritano di essere ispezionati politicamente". Da ex sindacalista, non a caso, indica come esempio quanto compiuto da Di Vittorio negli anni '50. E per redire più chiaro ciò che intende con rinascita usa una metafora, quella della nascita dell'Universo: la rifondazione della sinistra passa per un vero e proprio "big bang" che ponga fine a ciò che è stata fino ad ora: "iperrealista" e quindi "subalterna al pensiero dominante". Soprattutto perché di essa c'è un grande bisogno, in questo presente in cui "è finita una storia, quella drammatica e gigantesca del Novecento, ed è finita in Europa", spiega Bertinotti. Crolla un secolo e una tradizione politica, ma "non sono finite le ragioni della sinistra" tutt'al più di "questa sinistra", ammonisce.
Parole di speranza che mal si coniugano con la realtà delle ultime ore. Cominciano infatti ad avanzare le defezioni, con alcuni esponenti della minoranza che, a livello locale magari anche con incarichi istituzionali, scelgono di dimettersi per seguire sul piano nazionale l'esodo dal partito della propria area. Come accade per esempio nel Lazio dove l'assessore regionale al Bilancio Luigi Neri fa sapere che forse lascerà il Prc perché "c'è bisogno oggi di un soggetto politico nuovo", generato da una unità di forze della sinistra che risulta possibile, come dimostra il caso della Regione, "unica in cui esiste un gruppo consiliare federato". Un piccolo sconvolgimento come dimostra la reazione di alcuni esponenti locali, che fanno sapere come "nei municipi di Roma Rifondazione Comunista continua ad essere presente" perché "l'uscita dal partito di assessori nominati dai presidenti della Provincia e della Regione Lazio non esaurisce la presenza del partito nelle istituzioni locali", hanno detto in una nota il vice presidente del consiglio e l'assessore del municipio Roma XVI, Massimiliano Ortu e Valentina Steri, il presidente del consiglio del municipio Roma XVII Giovanni Barbera e il capogruppo del municipio Roma XIX Claudio Ortale.
E come dimostra anche la reazione dei fratelli (oggi meno coltelli) del Pdci. In Sardegna per loro ha parlato Elias Vacca, ex deputato ed esponente dell'Ufficio politico, che ha spinto Vendola a "spiegare a tutti gli elettori sardi, che andranno al voto tra qualche settimana, che dentro Rifondazione è in atto una scissione" e dunque "chi vuol votare per il Prc avrà l'incognita di non sapere se vota per un candidato comunista o per uno che seguirà Vendola nella scissione". Ragione per cui, conclude Vacca, "continuiamo a chiedere a Rifondazione l'unita' dei comunisti", ben sapendo della difficoltà del progetto, almeno finchè l'uscita non è compiuta, perché "da questo orecchio, almeno per il momento, non ci sentono visto che alcuni dei loro leader, proprio coloro che stanno andando via, continuano a declassare il comunismo a tendenza culturale".
Mentre in Emilia è il segretario provinciale Donato Vena ad esortare all'unità comunista annunciando che a marzo "effettueremo una verifica in tutti i comuni e dove l'accorso non sarà trovato partiremo in modo autonomo con le nostre liste". E se non fosse chiaro il messaggio, Vena ha anche specificato che "una prima richiesta la facciamo al Prc" ricordandogli come "non ha più senso tenere in piedi due partiti comunisti".

martedì 13 gennaio 2009

l'Unità 13.1.09
I vendoliani ieri se ne sono andati dalla direzione del partito
Burrasca al quotidiano: non c’è ancora un direttore responsabile. Oggi sciopero
Rc, scissione ormai vicina. Sansonetti via da Liberazione
di Simone Collini


Ferrero apre la Direzione Prc chiedendo il licenziamento del direttore di Liberazione Sansonetti. I vendoliani si dimettono dall’organismo. Contestato il voto finale. Sit-in di protesta davanti alla sede del quotidiano.
È il primo passo verso la scissione: i 28 vendoliani membri della Direzione Prc che uno a uno (tranne tre) chiedono la parola, attaccano la maggioranza del partito e alla fine dell’intervento annunciano le dimissioni dall’organismo. Il secondo passo sarà a Chianciano, all’assemblea fissata per il 24 e 25 di questo mese, quando Nichi Vendola e i suoi formalizzeranno il distacco da un partito che Fausto Bertinotti ha definito «irriconoscibile». Il terzo e definitivo passo sarà a metà febbraio, quando verrà convocata la seconda assemblea nazionale dell’associazione “Per la sinistra” (di cui fanno parte anche Sd, parte dei Verdi e la minoranza Pdci) che farà da battesimo per il nuovo soggetto politico.
Il casus belli è il licenziamento di Piero Sansonetti da direttore di Liberazione. Viene ribadito dal segretario Paolo Ferrero all’inizio della Direzione: «Porta avanti una linea politica avversa a quella stabilita dalla maggioranza del partito». Decisione comunque largamente annunciata. E infatti prima che la Direzione cominci, a via del Policlinico va in scena un sit-in di protesta che si trasforma anche in brindisi a favore della libertà di stampa e contro Ferrero (come dice l’sms fatto circolare la sera prima). Davanti al portone del palazzo che ospita sia gli uffici del partito che la redazione del giornale ci sono Sansonetti e un bel po’ di giornalisti, Franco Giordano, Gennaro Migliore, altri vendoliani. Sul muro sono stati attaccati alcuni cartelli. «Grazie Liberazione, addio Rifondazione», dice uno. Arriva Ferrero, fende la folla sorridente: «Che c’è una manifestazione? Perché non mi avete avvisato?». Non viene apprezzato. «Che c... si ride», sbotta una ragazza. Anche Migliore non ha troppa voglia di scherzare. «Vuole occupare oggi il giornale per chiuderlo domani», dice il coordinatore dell’area “Rifondazione per la sinistra”. «Non ci sentiamo più dirigenti di questo partito». Dal portone escono i membri del Cdr, ai quali è stato appena comunicato che la maggioranza non è riuscita a trovare un vicedirettore che firmi il giornale, visto che il direttore Dino Greco non è un giornalista. Parte un coro: «Buffoni, buffoni». Si stappano alcune bottiglie di champagne. Sansonetti se la ride. Giordano dice quello che ripeterà poco dopo nel chiuso della Direzione, e cioè che la gravità sta non solo nel metodo stalinista di far fuori il direttore, ma nel rompere i contatti con tutto un mondo di sinistra che in questi anni collaborava con il giornale (da Lea Melandri a Mario Tronti, da Marcello Cini a Bifo) e disinteressarsene.
L’accusa di stalinismo se la rinfacciano da ambo le parti. Il clima si fa teso durante la riunione. Fino al voto finale: il licenziamento di Sansonetti passa con 28 sì e la minoranza contesta la mancanza del numero legale. Ci vogliono tre votazioni perché il direttore sia dimissionato. Ma Sansonetti a sera continua a ridersela: «La situazione è paradossale e un po’ grottesca: non hanno trovato ancora un giornalista che possa firmare il giornale e se ho capito bene mi hanno chiesto di rimanere per mandarlo intanto avanti». Il problema ieri non si è posto: la redazione ha scioperato e Liberazione oggi non è in edicola.

Repubblica 13.1.09
Strappo a Rifondazione Vendola se ne va licenziato Sansonetti
Il Prc licenzia Sansonetti Bertinotti e i suoi se ne vanno
Proteste a Liberazione, in direzione accuse di stalinismo
Dino Greco alla guida del quotidiano, ma non è giornalista
di c.l.


ROMA - Si consuma tra accuse reciproche di stalinismo e una surreale disputa se fosse più di sinistra la tenuta o piuttosto la caduta del muro di Berlino, la nuova, inevitabile, lacerante scissione degli eredi molto lontani del Pci. Rifondazione comunista «licenzia» a maggioranza il direttore di "Liberazione" Piero Sansonetti e lo sostituisce col sindacalista bresciano Dino Greco. Ma l´annunciato strappo in direzione, passato con i 26 voti su 60 dei dirigenti che fanno capo al segretario Paolo Ferrero, dà la stura per l´addio di tutta la minoranza vicina a Vendola. Il governatore della Puglia non si presenta neppure. Non partecipano alla votazione e lasciano l´organismo di vertice dopo ore di accuse in 25: i bertinottiani Franco Giordano e Gennaro Migliore, Alfonso Gianni e Patrizia Sentinelli, tra gli altri. In tre della stessa corrente (Luigi Cogodi, Rosa Rinaldi e Augusto Rocchi) preferiscono restare, per ora. L´area Vendola si dà appuntamento per il 24 e 25 gennaio a Chianciano per dare il via alla nuova avventura. Si chiamerà "la Sinistra" e abbraccerà nel suo cammino gli Sd di Fava e Mussi, pezzi dei verdi e quant´altri vorranno affiancarsi.
«Auguri!». Stappa spumante e brinda coi suoi giornalisti per strada, il direttore di Liberazione Piero Sansonetti. Sono le 14 e prima della direzione va in scena il sit-in di protesta dei redattori contro l´avvicendamento su via del Policlinico, davanti la redazione che è anche sede del Prc, tra i manifesti anti Ferrero e un «Grazie Liberazione, addio Rifondazione» firmato Vladimir Luxuria. «Roba da anni Cinquanta, decisione un po´ sovietica, e per paradosso, non avendo ancora un direttore responsabile, mi chiedono di restare per firmare per un paio di giorni» commenta sarcastico Sansonetti. Greco infatti non è giornalista e dovrà essere affiancato da un vice responsabile. Ma fino a sera la segreteria non era riuscita a indicare un nome al comitato di redazione del giornale. Sembra che lo farà nelle prossime ore. Oggi intanto il quotidiano non sarà in edicola per lo sciopero dei giornalisti.
Dentro la sala Lucio Libertini lo psicodramma dell´ultima resa dei conti dura più di cinque ore, preludio della scissione. Con strascico polemico. Alle 20,30 il siluramento di Sansonetti passa con 26 voti che secondo i vendoliani (rimasti fuori) non sarebbero sufficienti a garantire il numero legale. Ma il dato politico è lo strappo e quello si è ormai consumato. E la gestione di Liberazione è stata l´oggetto del contendere. Rimuoverlo è «una decisione democratica, non stalinista o da anni ‘50», spiega tra i brontolii in sala il segretario Ferrero nella sua relazione: «Crollo delle copie vendute, ridotte a 6 mila, aumento del deficit, che ha toccato i 3,5 milioni, ma soprattutto il progetto di superare il Prc, legittimo ma non da perseguire coi soldi di Rifondazione». I vendoliani vanno via. «Non mi sento più dirigente di questo partito, siete in preda a un cupio dissolvi» saluta Gennaro Migliore». E dopo di lui Mascia, Sentinelli, Gagliardi, Gianni, tra gli altri. «Dov´è la democrazia? Ci sentiamo cacciati». L´attuale maggioranza interna, conclude l´ex segretario Franco Giordano «appartiene ad un´altra tradizione politica e culturale. Ferrero sta erigendo un muro di fronte alla ricchezza» che c´è fuori. Grida e veleni finali. Alle spalle del segretario una scenografia colorata e quanto mai evocativa: un martello da una parte, una falce dall´altra, una stella rossa per aria, tutto diviso. A un certo punto entra in sala perfino una cane randagio bianco e nero. Guarda, neanche abbaia e se ne va.

Repubblica 13.1.09
Vendola: risentimenti e menzogne della vicenda Liberazione mi hanno fatto soffrire da comunista
"Siamo finiti in una gabbia di veleni cambiamo casa per rifondare la sinistra"
Le accuse di Fagioli? Mi provocano ricordi da brivido. Con Fausto d´accordo su come andare avanti
di Carmelo Lopapa


ROMA - «È giunto il momento di mettere ordine, di riscrivere lo spartito della sinistra del futuro. Le miserie umane e culturali alle quali abbiamo assistito ci hanno indotto a questo passo, quello della rifondazione della sinistra. Questa non era più casa nostra».
Nichi Vendola, governatore della Puglia, perché non sarebbe più casa vostra? Perché abbandonate il partito?
«Una storia si è ormai compiuta, finita dentro una prigione di risentimenti. È stata scritta una pagina brutta, siamo finiti tutti in una spirale ritorsiva. Quella non è più casa nostra perché è poco accogliente, è un luogo che ha chiuso i conti con la parola "rifondazione". Il Prc per 18 anni è stato protagonista vivace, efficace, controverso, fascinoso e vero della politica italiana. Quella storia, ecco, si è illividita, sfarinata».
Vi accusano di non esservi arresi al fatto di aver perso il congresso.
«Non dico queste cose perché ho perso il congresso, che pure in qualche modo ho vinto col 47%, ma perché col vulnus inferto a Liberazione, al diritto di informazione e all´autonomia del giornalismo, non c´è stata solo la presa d´atto di una divaricazione politica, ma qualcosa di più profondo. E siccome non dobbiamo passare il resto della vita a maledirci, allora meglio ricostruire qualcosa partendo da ciò che ci divide. Ho sofferto tanto per quanto accaduto, da giornalista e da comunista».
Con il Prc dite addio una volta per tutte anche all´utopia comunista?
«L´utopia è come l´araba fenice, rinasce dalle proprie ceneri. E l´utopia dell´eguaglianza non è riducibile alle conseguenze di alcun fallimento, continuerà a camminare lungo le strade della politica».
E la vostra strada porta alla costruzione con Fava, Mussi, pezzi dei verdi, di un nuovo soggetto. Ma c´è bisogno di un´altra bandierina a sinistra? Di un piccolo Arcobaleno?
«Si può continuare la battaglia dentro e fuori il Prc, si può anche avere la doppia tessera. Niente ingessature. Ma dobbiamo prendere atto che ci è cascato il mondo addosso. L´Italia che fu il paese dell´anomalia comunista è oggi diventato il paese in cui l´anomalia è rappresentata dall´assenza di una forte sinistra politica. Antirazzismo, la cura per le persone più deboli, dell´ambiente: la parola sinistra deve tornare ad avere senso. Rifondazione e il Pd rischiano di essere la narrazione dello stesso suicidio. Da un lato, la ricerca affannosa di governismo a tutti i costi, dall´altro, la predicazione velleitaria lontana dalla realtà».
Si dice che Bertinotti abbia benedetto lo strappo.
«Con Fausto facciamo lunghe chiacchierate. Parlare con lui per me è respirare aria pulita, ossigenare il cervello. Condividiamo la fiducia nel fatto che la sinistra sia un´istanza oggettiva».
Presidente Vendola, confessi, quanto male le hanno fatto le parole dello psichiatra Fagioli sull´incompatibilità tra l´essere comunista, gay e cattolico?
«Non mi hanno scalfito per nulla, piuttosto ho notato che spesso una certa veemenza viscerale ha degli effetti antipatici sul viso di chi la esprime. Detto questo, non bisogna necessariamente essere comunisti e neppure avere confidenza con la società dei lumi per non simpatizzare con chiunque giudichi le altre persone, non per i loro comportamenti, ma per la loro condizione esistenziale. Sono cose che a me danno ricordi da brivido».

Corriere della Sera 13.1.09
Dai vendoliani addio direzione


Sciopero Liberazione cambia direttore, i vendoliani abbandonano la direzione di Rifondazione comunista. Dopo una riunione di sette ore, il Prc ha votato la sostituzione di Piero Sansonetti con Dino Greco. Il giornale oggi non uscirà per sciopero, mentre la minoranza guidata da Nichi Vendola si incontrerà a Chianciano il 24 gennaio per decidere sull'uscita dal partito

il Riformista 13.1.09
Rifondazione. Ferrero silura Sansonetti. È scissione
di A.D.A.


Rifondazione. Ultimo atto. Il segretario Paolo Ferrero vince la sua «guerra di Piero». La direzione del partito - svoltasi ieri a via del Policlinico - vota a favore del defenestramento del direttore di Liberazione Piero Sansonetti. In un clima avvelenato Ferrero, nel suo intervento, ha tirato dritto. Primo: «Le copie vendute sono dimezzate». Secondo: «Il giornale non è funzionale al progetto di Rifondazione ma a quello del suo superamento». Via libera al prossimo direttore: Dino Greco, sindacalista bresciano, una vita nella sinistra del Pci e nella Cgil. che però non è giornalista. Tanto che Ferrero ieri ha chiesto a Sansonetti di continuare a firmare il giornale.
Quanto basta per dare il via libera alla scissione che sarà annunciata dall'area Vendola il 24 gennaio in un seminario a Chianciano. Ormai è solo un fatto formale. Per è guerra su tutto. Prima si è svolto un sit in di protesta pro-Sansonetti di giornalisti e dirigenti vicini a Vendola. Poi molti funzionari della corrente sono andati a contrattare licenziamento e liquidazione. Per non parlare dei big. Che - uno dopo l'altro - si sono dimessi dalla direzione del partito. L'ex segretario Franco Giordano, ha affermato: «Quando scegliemmo Sansonetti fu una scelta condivisa, adesso no. Pezzi importanti della sinistra italiana non scriveranno più sul giornale ma non vi importa. Attorno a Rifondazione avete eretto un muro». E l'ex capogruppo Gennaro Migliore ha aggiunto: «Ci dimettiamo perché non ci sentiamo più dirigenti di questo partito».
Volano gli stracci. Pure sul muro di Berlino. Agli uomini di Ferrero non è piaciuta la scelta dei giovani comunisti di stampare sulla loro tessera la foto dei berlinesi esultanti dopo il crollo del muro. Alfonso Gianni picchia duro: «Non si può stare a cavalcioni sul muro di Berlino. Il socialismo reale ha iniziato a perdere quando il muro è stato costruito, e non si può rimpiangere quando è crollato». Oggi il giornale non sarà in edicola. Vendola è già con un piede fuori dal partito: «È ora di mettere mano alla costruzione di un nuovo percorso».

il manifesto 13.1.09
Rifondazione si divide, 
cronaca di un addio
di Matteo Bartocci


Più che un sipario un sudario. La parola fine su Rifondazione comunista così com'è stata fino a oggi viene pronunciata nella sala intitolata a Lucio Libertini, una catacomba gelida e stretta sotto la sede di via del Policlinico, a Roma.
Perché la sostituzione di Piero Sansonetti alla guida di "Liberazione" viene interpretata dalla minoranza «vendoliana» sconfitta di misura al congresso di luglio (47,3 per cento) come «uno strappo incolmabile», sintetizza dal palco per tutti gli «scissionisti» una commmossa Graziella Mascia. Via via si alternano uno dopo l'altro gli addii di una larga parte del gruppo dirigente più vicino a Bertinotti, mescolati ad affondi personali e politici durissimi e livorosi con accuse di stalinismo e nostalgia del muro di Berlino. Interventi nervosi più che appassionati. Un palcoscenico per vecchi e nuovi rancori. La scissione a lungo vagheggiata, evidentemente, è ormai metabolizzata almeno ai vertici. Da Nichi Vendola in serata arriva un gelido addio a distanza, che benedice le dimissioni dagli organismi dirigenti del partito di buona parte della sua mozione (anche se con eccezioni significative).
Intervenendo in apertura, il segretario Paolo Ferrero spiega che i motivi a favore della sostituzione di Sansonetti sono essenzialmente due. «L'insuccesso editoriale, per usare un eufemismo», e una divergenza di linea politica secondo cui «Piero ha diretto il giornale sulla base di un progetto opposto a quello della rifondazione comunista che invece ha vinto democraticamente il congresso». La sua sostituzione, promette Ferrero, non scalfirà l'autonomia del giornale e di chi ci lavora, «ma è chiaro a tutti che se si prosegue così il Prc rischia di scomparire per mancanza di fondi». Le cifre sono ormai note. "Liberazione" vendeva circa 10mila copie nel 2004 e arriva a stento a 6mila. Il suo deficit pesa sul bilancio del partito per circa un terzo: 3-3,5 milioni di euro su 10. 
Cifre drammatiche ma non nuove. E' evidente che la questione è politica. «Uguaglianza e libertà sono entrambi elementi fondanti della cultura politica del Prc e ci resteranno, nel nostro statuto c'è l'obiettivo del superamento del capitalismo e del patriarcato», assicura Ferrero. E a chi lo accusa di avere nostalgia della "Pravda" ricorda di volere un giornale e un partito simile a quello di Genova, «una casa per tutti, senza distinzioni tra chi è dentro e chi è fuori». 
Fino alla fine, dopo oltre 7 ore, ci si avvita anche sulle procedure. Il sindacalista di Brescia infatti non è un giornalista e per legge ha bisogno di un vicedirettore responsabile al suo fianco che però ancora non è stato presentato. La sua nomina passa in serata con solo 26 voti su 60 membri della direzione. Decisivi per il numero legale 3 «vendoliani» contrari alla scissione come Augusto Rocchi, Rosa Rinaldi e Luigi Cogodi. Astenuti però anche due «ferreriani» doc come Maurizio Acerbo (primo firmatario della mozione congressuale) e Giovanni Russo Spena. «Quando se ne va via una parte così importante del partito è una sconfitta per tutti - dice Russo Spena - però la drammatizzazione sul giornale è diventata lo strumento di chi vuole distruggere Rifondazione». 
Quasi tutti i dirigenti della «mozione 2» affondano i colpi soprattutto su chi gli era più vicino come Ferrero. «Quando eri in segreteria non ti sei mai preoccupato del deficit di "Liberazione" perché non ti conveniva», attacca Gennaro Migliore. E dopo di lui Maurizio Zipponi suona quasi paradossale: «Voi state sciogliendo il Prc - dice alla nuova segreteria - dimettevi finché siete in tempo». E sulla figura di Greco si lascia andare a vecchie ruggini: «Alla camera del lavoro di Brescia ha sempre perso, perfino sul suo successore. Ci ha portati a 8 anni di rottura con la Fiom. Noi siamo contenti ma ora a Roma sono cazzi vostri». Critiche su cui la platea rumoreggia più o meno all'unanimità. A difesa del neo-direttore interviene Alfio Nicotra: «Non vogliamo né purghe né gulag, chiediamo solo che il giornale valorizzi le posizioni della maggioranza del partito senza ridicolizzarle». Il dibattito, già non eccelso, si avvita: tutti contro tutti a colpi di stalinismo, con esiti perfino paradossali, come Alfonso Gianni e Ramon Mantovani, oggi su mozioni opposte, ma che entrambi nel '71 gridavano «viva Stalin» tra i katanga milanesi.
Gianni è durissimo, dice di non avere «un sassolino nella scarpa ma un muro»: «Sul muro di Berlino puoi stare di qua o di là ma non ci puoi stare a cavalcioni», accusa l'ex sottosegretario, che poi però segna un punto da cui non si può prescindere: «Liberazione è stata per il partito una finestra sul mondo, attraverso la quale noi guardavamo fuori e gli altri guardavano noi, anche nelle nostre porcherie interne». Non è un giornale di partito? «Bene, benissimo - tuona Gianni - è proprio questo che l'ha fatta vivere negli anni, modesta ma vitale, "Europa" e "il Secolo" chi li legge, a chi servono?». Il suo intervento scatena un putiferio di insulti e improperi. «Riconosco lo stalinismo anche quando si ammanta di anti-stalinismo», risponde Mantovani, critico da sempre con Sansonetti, di cui ricorda la fucilazione pubblica di Francesco Caruso quando (a torto) definì «un assassino» Marco Biagi a causa della legge 30: «La democrazia - dice - prevede la nomina del direttore ma anche la sua sostituzione». E poi l'affondo alla sua vecchia corrente: «Se al congresso Vendola avesse avuto pochi voti in più grazie alle altre mozioni che avreste detto sul rispetto degli iscritti?».
Ferrero a margine rovescia le accuse di stalinismo indirettamente anche su Bertinotti, che aveva parlato di Rifondazione «irriconoscibile»: «E' staliniano l'uso della storia da parte dei dirigenti per legittimarsi o meno a vicenda».
Il futuro resta incerto. Non tutti i «vendoliani» usciranno dal partito. In direzione ieri sono rimasti in tre (Rocchi, Cogodi e Rinaldi). Cioè intere regioni come Sardegna (dove si vota tra poco) e Sicilia più quadri sparsi nel resto d'Italia che potrebbero superare un terzo dei sostenitori della vecchia «mozione 2». Oggi diffonderanno un documento pubblico che chiede di restare a dare battaglia dentro pur essendo d'accordo alla rifondazione della sinistra. L'appuntamento per tutta l'area comunque è a Chianciano il prossimo 24 gennaio. 
Non un congresso fondativo, per ora, ma un seminario che dovrà decidere il da farsi. Le ipotesi in campo sono essenzialmente due. La prima punta tutto sullo sfascio del Pd e prevede un cartello elettorale con Sd e Verdi che rimandi il nuovo partito a dopo le europee. L'altra, più ambiziosa, mira a un partito subito, con primarie dal basso su dirigenti e candidature. E' scissione. Ma ancora non ha le idee chiare.

Repubblica 13.1.09
Atei, spot shock a Genova "Dio non c'è e non serve"
Sfida a Bagnasco. Il sindaco: nessun veto
di Donatella Alfonso


GENOVA - Il dubbio viaggia sul bus. «La cattiva notizia è che Dio non esiste. Quella buona è che non ne hai bisogno» recita la scritta su sfondo azzurro con nuvolette bianche, la "firma" dell´Uaar ben indicata; la campagna per l´incredulità, che già ha suscitato aspre polemiche a Londra come a Barcellona, arriva in Italia e parte da Genova, la città dove è arcivescovo Angelo Bagnasco, presidente della Cei. Due bus dell´Amt, l´azienda di trasporto pubblico cittadina, porteranno in giro per Genova il messaggio dell´incredulità dal 4 febbraio e per l´intero mese; una maniera per far uscire gli atei allo scoperto, dimostrare che esistono e hanno diritto di parola, dicono all´Uaar, l´unione degli atei, agnostici e razionalisti già promotrice delle campagne per lo sbattezzo, che ora raccoglie sul suo sito le donazioni per raccogliere fondi necessari a pagare altre campagne, in diverse città italiane.
E se in Gran Bretagna come in Spagna lo slogan recita «Probabilmente Dio non c´è. Adesso smettila di preoccuparti e goditi la vita», la scelta degli atei italiani, invece, più che sull´edonismo, punta sulla serenità: puoi farcela anche da solo, senza guardare in alto. «Non è una provocazione, ma un modo per cercare di unire il discorso etico del vivere senza fede e quello laico - spiega Raffaele Carcano, segretario generale dell´Uaar - È chiaro, Genova è stata scelta, tra l´altro, per le posizioni polemiche di Bagnasco rispetto al Gay Pride che si terrà in città a giugno, per la concomitanza con la data del Corpus Domini; e per le posizioni prese dalla Chiesa in materia di diritti civili, scienza, riproduzione. Ci riprendiamo un po´ di visibilità, anche per far pensare».
Il cardinale è partito ieri mattina per Fatima, in pellegrinaggio con i seminaristi genovesi; non farà sentire la sua voce, si dice in Curia, fino alla fine della settimana. Parla per lui don Gianfranco Calabrese, direttore dell´Ufficio catechistico diocesano «ci sono modi e modi di esprimere sia la tolleranza che l´intolleranza e la ricerca della tolleranza è sempre il dialogo» mentre «la contrapposizione è sempre intolleranza, e atteggiamenti di contrapposizione frontale non aiutano il dialogo. Il "Pride"? Collocare appositamente questo appuntamento in un momento significativo e tradizionale per la Chiesa, è quasi cercare lo scontro per lo scontro». Per don Marco Granara, rettore del santuario della Guardia che da secoli raccoglie la devozione dei genovesi, l´iniziativa dell´Uaar «può essere uno stimolo per i cristiani, per offrire la propria testimonianza e rispondere in termini intelligenti, come chiede il Papa, dimostrando una fede pensata ed amica dell´intelligenza. Speriamo che venga fuori un dibattito e che molti cristiani si sveglino».
Marta Vincenzi, sindaco di centrosinistra, laica attenta al dialogo con le religioni, avverte: non è pensabile alcuna censura da parte del Comune, azionista di maggioranza di Amt. «Questa città sta facendo parlare l´Italia intera per le posizioni di libertà espresse da Fabrizio De Andrè. Non è una buona notizia che Dio non ci sia; la campagna mi pare un invito a riflettere e naturalmente esprime un punto di vista, non mi sembra che faccia proselitismo per l´ateismo. Spero nessuno si offenda; con una battuta, chi non vorrà prendere il bus "ateo", aspetterà quello dopo... ».

Repubblica 13.1.09
Spagna, nuove regole nell'esercito i soldati potranno dire "Signornò"
La nuova legge: se un ordine costituisce un delitto è giusto disobbedire
di Alessandro Oppes


MADRID - L´obbedienza cieca non potrà più essere un obbligo per i militari sottoposti alla disciplina gerarchica. La nuova legge sulle Forze Armate, che il governo Zapatero prevede di varare in Consiglio dei ministri venerdì prossimo, stabilisce per la prima volta in modo netto che nessun militare potrà essere costretto a eseguire ordini «che siano costitutivi di delitto», in particolare «contro la Costituzione e le persone e beni protetti in caso di conflitto armato». Secondo le anticipazioni pubblicate sul quotidiano El País, le nuove «Reali Ordinanze» prevedono anche la possibilità di obiezione rispetto a un ordine dal quale si dissente. Il militare però dovrà attendere ad aver portato a termine la missione prima di mostrare il suo dissenso, nel caso in cui questo potesse compromettere il risultato dell´operazione.
Nell´articolo che fissa i «limiti dell´obbedienza», la legge chiarisce che è un ordine legittimo solo «l´incarico relativo al servizio che un militare dà a un subordinato, nella forma adeguata e all´interno delle proprie competenze». Chi dovesse compiere ordini illegittimi o contrari alle leggi, dovrà «assumere la grave responsabilità della sua azione». Una buona parte dei principi indicati nel testo riprendono quelli delle ordinanze militari varate già trent´anni fa, all´epoca dell´approvazione della Costituzione democratica spagnola.
Ma il governo Zapatero ha deciso di aggiornare la legge per adeguarla a cambiamenti importanti, come la professionalizzazione delle forze armate, l´incorporazione delle donne, la partecipazione in missioni militari all´estero.
Si stabilisce così che i superiori dovranno favorire la convivenza tra tutti i loro subordinati, «senza discriminazioni per ragione di nascita, origine razziale o etnica, genere, orientamento sessuale, religione o convinzioni». Una norma che raccoglie un fondamentale principio costituzionale, ma che il governo sapeva di dover sottolineare con chiarezza fissando le regole di convivenza di un esercito aperto alle donne e agli stranieri, con una forte presenza di militari di religione musulmana e con un gran numero di omosessuali che nascondono ormai più la loro condizione.
Una delle novità di maggior rilievo è costituita dal codice di condotta per i militari che partecipano in operazioni, sia di guerra che di pace o di aiuto umanitario in situazioni di emergenza o di catastrofe. Le regole fondamentali: uso graduale e proporzionato della forza; distinguere tra civili e combattenti e tra beni di carattere civile e obiettivi militari; evitare per quanto possibile le «perdite occasionali di vite, sofferenze fisiche o danni materiali». Il codice proibisce poi di «sottomettere a torture o vessazione» i prigionieri o detenuti, che dovranno essere trattati con «umanità e rispetto».
I militari in missione all´estero dovranno impegnarsi in particolare nella difesa dei più deboli, «soprattutto donne e bambini», «contro la violenza, la prostituzione forzata o qualunque tipo di aggressione sessuale».

Repubblica 13.1.09
Il diritto e la cura
di Ignazio Marino


«Credo nella libertà di scelta», «non si può costringere un ammalato a curarsi contro le sua volontà», «sacra è la vita e sacra l´autodeterminazione». Sono alcune delle frasi dei cinquanta mila cittadini che, in questi giorni, hanno aderito all´appello per il diritto alla libertà di cura (www. appellotestamentobiologico. it). Sono voci che rappresentano il Paese e che vanno considerate nel momento in cui il Parlamento si avvia a fissare, per legge, alcune regole che riguardano la fine della vita. Il mio convincimento è che vada garantito sempre e comunque il diritto alla libertà di cura come previsto dalla Costituzione, un diritto che esiste in teoria per tutti, ma che non può essere esercitato da chi ha perso l´integrità intellettiva e con essa la capacità di esprimere le proprie volontà.
Proviamo a calare il principio nella realtà: un paziente con un cancro all´esofago, nella fase avanzata della malattia, si troverà a non poter più deglutire e ad alimentarsi naturalmente. Per continuare a nutrirsi potrà ricorrere a tecniche artificiali, ovvero ad un tubo inserito chirurgicamente nello stomaco attraverso il quale introdurre nutrimenti chimici per la sopravvivenza. Di fronte a questa prospettiva, il paziente può scegliere se accettare oppure rifiutare. Se accetta forse vivrà più a lungo, altrimenti arriverà alla fine della sua esistenza, secondo il destino segnato dalla malattia. Qualunque essa sia, la scelta sarà rispettata. Ma nel caso di una persona in stato vegetativo, chi deciderà? E chi farà rispettare le volontà del malato?
Di qui la necessità di una legge sul testamento biologico, che fissi le regole in base alle quali il diritto costituzionale della scelta delle terapie sia sempre garantito e i cittadini non debbano rivolgersi ai tribunali.
Vi sono molti progetti in Parlamento ed io, assieme ad altri cento senatori, propongo una legge che dia, soltanto a chi lo vuole, la possibilità di indicare quali terapie si intendono accettare e quali no, se un giorno si perderà la capacità di esprimere il proprio consenso. Si tratta di una norma molto semplice, a mio modo di vedere persino conservatrice, perché non cambia nulla, semplicemente ribadisce il diritto alla libertà di cura già previsto dalla Costituzione. Altri, come il sottosegretario Roccella e l´onorevole Binetti, propongono una vera rivoluzione: l´alimentazione artificiale sia somministrata sempre, diventi terapia obbligatoria per legge e, quindi, venga esclusa dalla nostra libertà di scelta.
Tale impostazione tradisce la Costituzione ed implica gravissime conseguenze. Esistono casi in cui l´alimentazione artificiale è consigliata, altri in cui prolunga solo un´inutile agonia. La valutazione spetta ai familiari del paziente e ai medici che li accompagnano in una scelta che va fatta caso per caso e non in base ad una legge uguale per tutti. Quali le conseguenze per i medici? Si troverebbero davanti ad un bivio: violare la legge restando fedeli alla deontologia che impone di non fare nulla contro la volontà del paziente, oppure rompere, in nome di un´imposizione dello Stato, il patto di alleanza terapeutica con l´ammalato. Un patto che io, come chirurgo, considero sacro.
Le difficoltà aumenteranno e, con esse, il numero delle persone che si rivolgeranno ai tribunali. E così il Parlamento otterrà il risultato di aumentare i contenziosi. In questo contesto la Chiesa si mostra preoccupata. Alcuni temono il rischio che la libertà di scelta si trasformi in abbandono e nell´interruzione delle cure ai più deboli. Anche su questo dobbiamo essere chiari: non si può immaginare di aiutare i più bisognosi limitando la libertà degli individui. La difesa della fragilità non è in discussione e non è una discriminante tra credenti e non credenti, è un dovere del nostro convivere civile.
Va ricordato poi, che nella tradizione cristiana, l´accettazione della morte per sciogliersi dal corpo e ricongiungersi al Padre è elemento essenziale della fede. Essa è rintracciabile nei secoli, nella fine della vita di San Francesco come in quella del patriarca Athenagoras: l´arcivescovo di Costantinopoli, che lavorò con Paolo VI per l´unità dei cristiani, ricoverato in seguito ad una frattura del femore, chiese di non essere nutrito ma lasciato morire come un monaco, pregando e ricevendo come unico cibo la Santa Comunione. Come si sarebbero comportati il sottosegretario Roccella ed il ministro Sacconi con il patriarca? Ne avrebbero ordinato la nutrizione forzata per decreto?
Infine la politica, e le scelte che il Pd è chiamato a fare. Nel Partito Democratico, è noto, vi sono approcci più o meno scientifici nell´affrontare le questioni bioetiche, ciò è normale in un partito che cerca di unire culture diverse. Io, da credente, rispetto le posizioni di chi non lo è e non sento l´esigenza di imporre una visione univoca del mondo e della vita. Mi pare tuttavia urgente, oltre che logico, arrivare ad una posizione chiara del Pd, espressione della maggioranza se non di tutti, da difendere senza esitazione nelle sedi parlamentari e nel dibattito pubblico; una posizione che caratterizzi il Pd e che rifletta l´orientamento e le istanze dei suoi sostenitori. Se la libertà di pensiero rappresenta un punto di forza per un moderno partito riformista, l´assenza di una posizione definita rischia di trasformarsi nel suo tallone d´Achille.
L´autore è presidente della Commissione parlamentare d´inchiesta sul Servizio Sanitario Nazionale

Corriere della Sera 13.1.09
Documenti Pubblicata da Laterza un'antologia di messaggi scritti in condizioni estreme: una sfida orgogliosa ai nazisti e ai loro collaboratori
Vendetta. L'ultimo grido dalla Shoah «Siate leoni e non agnelli»
La missione affidata ai posteri dagli ebrei morenti
di Sergio Luzzatto


«Cari genitori, se il cielo fosse carta e tutti i mari del mondo inchiostro, non potrei descrivervi il mio dolore e tutto quello che vedo intorno a me». Così, in un giorno imprecisato della Seconda guerra mondiale, il figlio di una coppia di contadini ebrei della Galizia si rivolgeva ai genitori, dall'interno del Lager di Pustków, infilando la lettera nel recinto di filo spinato del campo. «So che non esco vivo da qui. Dico addio a tutti, cara mamma, caro papà, cari fratelli e piango...».
È questa soltanto una (neppure la più straziante) del centinaio di Lettere dalla Shoah
pubblicate ora da Laterza, nel mese del Giorno della memoria. Si tratta dell'edizione italiana di una raccolta uscita anni fa in Israele per cura dell'istituto Yad Vashem: una strana raccolta, meritoria nelle intenzioni, effettivamente memorabile nei contenuti, ma incredibilmente confusa nei criteri di presentazione, cui neppure la scrupolosa versione italiana — dove gli originali sono stati tradotti da tredici lingue, quasi l'intero campionario di idiomi della diaspora ebraica — può rimediare con efficacia. Il che non impedisce al libro di valere, lettera per lettera, voce per voce, come il più diretto possibile degli accessi all'inferno della Shoah.
«Cari sorella e cognato, vi scrivo della nostra disgraziata morte». Qualunque sia l'autore di ciascuna di queste missive (non sempre si è riusciti a identificarli), ci troviamo dentro una costellazione letteraria che le molte tragedie del Novecento hanno reso sin troppo familiare: appunto, il «genere» delle ultime lettere di condannati a morte. Percezione della fine imminente, inquietudine per la sorte dei familiari, fierezza di sé davanti all'infamia del nemico, consegne morali ai figli, rifugio nella fede o investimento sull'idea: nonostante l'incomparabile enormità storica della Soluzione finale, il campionario di temi presenti nelle Lettere dalla Shoah riflette la gamma di altre raccolte consimili, siano le ultime lettere dalla Resistenza italiana ed europea, o le ultime lettere dalla repubblica di Salò, o anche, al limite, le ultime lettere della Wehrmacht da Stalingrado.
Ma proprio l'enormità storica della Soluzione finale — lo sterminio di tutti gli ebrei d'Europa, uomini donne vecchi bambini — conferisce alle ultime lettere dalla Shoah qualcosa di unico. Per l'inaudita sua natura, il programma nazista mosse infatti, in extremis, la penna non soltanto di maschi in età di combattere, militari o militanti, ma anche di anziani, di ragazzi, e soprattutto di donne. Sicché per la prima volta nella storia terribile di questo genere letterario, le voci femminili si sentono qui almeno altrettanto delle voci maschili. Dall'oltretomba della Shoah parlano anche le mogli, parlano le madri e le figlie, parlano le nipoti e le nonne. E senza posa si interrogano sullo spettacolo mai visto che avevano sotto gli occhi, nei ghetti di Polonia come nei villaggi di Lituania, nei boschi d'Ucraina come nelle campagne di Boemia: la condanna a morte non dell'uno o dell'altro combattente di una causa, ma di tutti gli appartenenti a un'etnia; il massacro paziente e sistematico di un popolo intero. «Oggi vediamo come il mondo appare senza ebrei».
Le ultime lettere dalla Shoah furono scritte in circostanze estreme. Raramente sono documenti prodotti dal residuo di antichi rituali guerreschi, messaggi autorizzati dal nemico alla vigilia dell'esecuzione di un condannato. Il più delle volte, sono frammenti di carta rimessi dai rastrellati alla pietà di passanti sconosciuti, sono iscrizioni sulle pareti di sinagoghe diroccate, sono graffiti sui muri nelle fabbriche del lavoro coatto, sono fogli interrati nelle rovine dei ghetti, sono biglietti lanciati dai treni in movimento verso Auschwitz. Ciò che contribuisce a spiegare, forse, un ulteriore carattere distintivo di queste lettere: l'appello dei morituri — insistito, implacato, biblico — affinché sui tedeschi (e sui loro volenterosi collaboratori polacchi, ucraini, bielorussi, lituani) fosse fatta vendetta.
«Ricordatevi quello che ci ha fatto Amalek. Ricordatelo e (...) trasmettetelo come una volontà divina alle generazioni future»: in articulo mortis, vittime della Soluzione finale hanno parlato con le parole della Torah, aggrappandosi al Dio della vendetta. Una madre, Zlatke, al marito Moshe fortunosamente fuggito in America: «L'unica cosa che potete fare per noi è la vendetta sui nostri assassini. Poca cosa la vendetta su di loro». Un giovane, Asher, alla sorella Rivka scappata in Israele: «Tu e i tuoi figli, sappiate vendicare il nostro incolpevole sangue ebraico versato... uccidete ( dei tedeschi) chi vi viene a portata di mano. Nessuna differenza, uomini, donne, bambini, giacché con noi si è fatto lo stesso. (...) Devono dunque i vostri cuori solo bramare vendetta, vendetta, vendetta».
Siano uomini o siano donne, certi condannati a morte della Shoah sembrano non chiedere altro che questo: vendetta, vendetta, vendetta. Mushiya: «Avete l'obbligo di vendicarci ». Melech: «Esorto tutti gli ebrei che saranno ancora vivi dopo la guerra: vendicateci in tutti i modi e in ogni occasione che avrete! ». Fanja: «Fratelli di ogni paese, vendicateci ». Devorah: «Dopo la guerra ricordatevi di vendicare vostra sorella, a cui non è stato concesso di rivedervi ancora una volta». Natke: «Ricorda solo di vendicarci, se potrai». Eliezer: «Fratelli miei, siamo noi quelli a cui è stato assegnato un dovere sacro, e questo dovere è la vendetta». Esther: «Sorelle e fratelli, vendicateci dei nostri assassini». Gina: «Vai in guerra e vendica tua moglie e il tuo unico figlio». Feivish: «Abbiamo una sola richiesta, ed è la vendetta». Quasi settant'anni dopo, che fare della spaventosa litania che accompagnò derelitti ebrei d'Europa nel loro cammino verso la fossa (ancora Eliezer, un rabbino polacco: «Io stesso ho udito centinaia di volte i martiri che ho visto — ero costretto a farlo — mentre rendevano l'anima a Dio in santità e purezza, e le loro ultime parole erano: "Fratelli nostri, ricordate, vendicateci, vendicate il nostro sangue"»)? Questa litania sulla vendetta basta forse per rimettere in discussione la migliore storiografia, che ha sottolineato piuttosto la dimensione intrinsecamente narrativa — documentaria, testamentaria, lapidaria — della «letteratura» della Shoah ( La vendetta è il racconto, secondo il titolo di un saggio di Pier Vincenzo Mengaldo)?
Ovviamente, non basta. Ma la litania sulla vendetta ci dice pur sempre una cosa importante riguardo all'impatto storico della Shoah sopra l'anima dell'ebraismo. Agli ebrei sopravvissuti, gli ebrei sterminati chiesero di vivere un futuro diverso da tanto, da troppo passato: non un futuro da agnelli, ma un futuro da leoni.
E lo chiesero, in particolare, ai fratelli approdati nella «Terra», in Palestina: «Che la vendetta contro i nostri nemici sia molto grande e condotta dal popolo di Israele». Dopo l'orrore della Soluzione finale, nulla poteva, né doveva, essere più come prima.

il Riformista 13.1.09
L'ipocrita allegria del luna park davanti all'Auschwitz italiana
di Antonella Benanzato


Trieste. Un luna park lungo il perimetro dell'unico campo di sterminio nazi-fascista su suolo italiano. Più di qualche visitatore ha potuto constatare questo curioso abbinamento durante le festività natalizie. Alla periferia di Trieste, a ridosso della Risiera di San Sabba dove morirono 5 mila persone (triestini antifascisti, ebrei, sloveni, croati) bruciati nel forno crematorio, è stata attrezzata un'area con giostrine, tiro a segno e altre festose amenità.
La memoria storica è evidentemente un pò labile. Eppure l'oltraggio alle vittime dell'olocausto e dell'antifascismo, non è sfuggito a chi ha visitato e firmato il registro delle presenze in quello che Saragat nel 1965, dichiarò monumento nazionale.
Tra i numerosi messaggi di solidarietà e di ripudio della violenza nazi-fascista, ci sono anche interrogativi eloquenti, firmati da cittadini italiani e stranieri: «Ma come si fa a mettere un luna park a fianco di un luogo come questo?». Si rabbrividisce quando si varca il lungo corridoio sormontato da pareti di cemento armato, che porta alle celle dove furono imprigionati, torturati e seviziati centinaia di esseri umani (uomini e donne di tutte le età e bambini anche di pochi mesi). Da qui molti di loro finirono a Dachau, Auschwitz, Mauthausen, un orrore che si consumò dall'8 settembre del 1943 al 1945. Alle finestre sporgono ancora minacciosi gli altoparlanti dai quali le SS impartivano gli ordini ai prigionieri o trasmettevano musica a tutto volume per coprire le urla delle loro vittime, in quello che istituirono come Polizeihaftlager. Nel cortile delle esecuzioni c'è ancora la traccia dell'enorme camino, del forno crematorio che ogni giorno bruciava quasi un centinaio di persone. Gli oggetti di queste persone sono conservati nelle teche del museo, insieme alle loro disperate lettere di addio, dei testamenti che si fatica a leggere sino in fondo.
Lo sconcerto assale il visitatore quando, tra le fessure delle alte pareti in mattoni rossi della piliera, occhieggia l'insegna del luna park. Un contrasto macabro che lascia interdetti. Eppure le raccomandazioni che si possono leggere all'interno dell'area monumentale richiamano al massimo rispetto e alla doverosa compostezza. Sulle pareti delle celle di appena qualche metro dove venivano stipati i prigionieri, si possono ancora leggere incise le frasi dei condannati a morte, le ultime parole di chi da lì a poco sarebbe "passato per il camino". Anche i disegni del pittore Anton Zoran Music, rinchiuso alla Risiera, documentano l'orrore del lager triestino. Fu l'artista goriziano, tra l'altro, a segnalare il passaggio alla Risiera di Padre Placido Cortese, frate della Basilica di Sant'Antonio da Padova e direttore del Messaggero di Sant'Antonio, attivo nel soccorso ai perseguitati. Il religioso fu rapito e torturato dai nazisti a Trieste e ucciso, probabilmente, proprio a San Sabba. Dopo essersi serviti, nel periodo gennaio-marzo 1944, dell'impianto del preesistente essicatoio, i nazisti lo trasformarono in forno crematorio, in grado di incenerire un numero maggiore di cadaveri, secondo il progetto di Erwin Lambert, che già aveva costruito forni crematori in alcuni campi di sterminio nazisti in Polonia. Questa nuova struttura venne collaudata il 4 aprile 1944, con la cremazione di settanta cadaveri di ostaggi fucilati il giorno prima nel poligono di tiro di Opicina.
L'edificio del forno crematorio e la connessa ciminiera vennero distrutti con la dinamite dai nazisti in fuga, nella notte tra il 29 e il 30 aprile 1945, per eliminare le prove dei loro crimini, secondo la prassi seguita in altri campi al momento del loro abbandono. Tra le macerie furono rinvenute ossa e ceneri umane raccolte in tre sacchi di carta, di quelli usati per il cemento. Le indicibili torture documentate dagli stessi disegni dei prigionieri cozzano con l'atmosfera scintillante che si respira a pochi metri dal museo. Del resto, non si può guardare sempre indietro. Anche se il 27 gennaio sarà la Giornata della Memoria e alla Risiera di San Sabba sarà la solita parata di autorità. Ma per quel giorno, probabilmente del luna park non ci sarà più traccia.

Aprile on line 13.1.09 18:34
Rifondazione il giorno dopo
di Marzia Bonacci


Dopo la sfiducia in Direzione del direttore di Liberazione Sansonetti, sostituito da Greco e Fania, sia Vendola che Giordano delineano l'uscita dal partito, che verrà discussa all'assemblea di Chianciano il 24, e rilanciano la costituente della Sinistra. Alcuni però restano pur rimanendo fedeli al progetto e critici verso la segreteria Ferrero. Le ripercussioni si fanno sentire anche nel Pdci

Il giorno dopo la Direzione del partito con cui la maggioranza di Ferrero ha sfiduciato il direttore di Liberazione Sansonetti e che ha prodotto, con la scelta di lasciare il parlamentino del Prc, la prima mossa scissionista della famiglia degli ex bertinottiani, le acque mosse della Sinistra si placano, almeno apparentemente, lasciando emergere in superficie i prossimi passaggi politici che l'attendono.
Primo fra tutti l'appuntamento di Chianciano previsto per il 24 e il 25 del mese in cui l'area dei giordano-vendoliani farà il punto su quanto accaduto nelle ultime settimane sul caso Liberazione e sancirà l'uscita dal partito. In una intervista doppia rilasciata a La Stampa e a La Repubblica il governatore pugliese ha infatti ratificato, ancora una volta, l'impossibilità di permanere nella formazione. Una storia, quella durata 18 anni, che "si è ormai compiuta, finita dentro una prigione di risentimenti" che di fatto fa in modo che il Prc "non è più casa nostra", perché è "un luogo che ha chiuso i conti con la parola rifondazione", preferendo far nascere "un'altra cosa", quella che gli ricorda molto da vicino "quei gruppi extraparlamentari degli anni Settanta", spiega il leader dell'area scissionista. E che non sia più una dimora accogliente lo dimostra il "vulnus", lo definisce proprio così, inferto al quotidiano comunista, che ha rappresentato per Vendola "qualcosa di più profondo". Che fare allora? "Meglio ricostruire qualcosa di nuovo", "mettere ordine", "riscrivere lo spartito della sinistra del futuro", che tradotto più semplicemente vuol dire "partecipare alla costruzione di un nuovo soggetto della sinistra italiana". Occasione per scegliere il da farsi sarà comunque l'appuntamento di Chianciano con cui si definiranno anche tempi e modi per la scissione: "decideremo insieme tra dieci giorni, cercando di convincere più gente possibile dentro e fuori Rifondazione", promette il governatore della Puglia rilanciando dunque l'obiettivo della costituente della Sinistra che lo vedrà impegnato a riannodare i fili del legame con Sd, con cui è nata l'associazione Per la Sinistra.
D'accordo su tutta la linea è anche l'ex segretario Giordano, che ribadisce come la situazione sia tutt'altro che recuperabile: "gli spazi sono veramente ristretti, quasi inagibili", perché "la maggioranza va avanti solipsisticamente". Dunque è tempo di nuove imprese, anche se specifica Giordano "nessuno parla di nuovi partiti", visto che semmai "è tempo di ridefinire un progetto politico di sinistra credibile nella società". Comunque anche di questo si parlerà a Chianciano, come delle prospettive che si aprono in merito alle elezioni, europee e amministrative: la discussione dell'ipotesi di una lista unitaria per Strasburgo, spiega Giordano, è infatti rinviata all'assise che l'area terrà a fine mese.
Se qualcuno se ne va, per altro nomi pesanti nel partito (oltre a Vendola e Giordano, anche Migliore, Gianni, Gagliardi, Mascia), qualcun altro, pur fedele alla mozione 2 e al progetto della costituente della sinistra, sceglie invece di restare e dare battaglia dentro il Prc. Si tratta della pattuglia di giordano-vendoliani antiscissionisti che ieri in Direzione, nella veste di Rosa Rinaldi, Luigi Cogodi e Augusto Rocchi, sono rimasti nel parlamentino e, pur votando contro l'allontanamento di Sansonetti, hanno comunque garantito il numero legale per la votazione contro il direttore di Liberazione. Gli stessi che oggi hanno reso pubblico un documento con cui spiegano la loro scelta. "Proseguiamo il nostro impegno politico in e da Rifondazione comunista", si legge nel testo, perché contrari "a ogni ulteriore divisione della Sinistra o a troppo generici processi unitari", anche se il fine resta sempre quello di lavorare "all'avvio di un processo costituente della Sinistra". La loro critica si rivolge al fatto che questo stesso tentativo, almeno attualmente, si sta realizzando con modalità non rassicuranti: "non può avere né i tempi della prossime elezioni amministrative ed europee né l'indeterminatezza dell'agire politico", ammoniscono gli antiscissionisti che prediligono la strada "dei tempi medi", ovvero un nuovo soggetto politico che nasca come "sbocco di un lavoro che deve ripartire dal cuore della crisi della Sinistra, cioè dal suo reinsediamento sociale e territoriale".
Oltre ai tre esponenti della Direzione, questa area di bertinottiani che sceglie di restare conta sull'adesione di diversi esponenti nazionali e locali, almeno una trentina: Milziade Caprili (già vicepresidente del Senato), Ezio Locatelli (ex deputato e segretario della federazione di Bergamo), l'ex deputata Marilde Provera, Rosario Rappa (segretario uscente del Prc in Sicilia), Gianluca Schiavon (membro della Commissione nazionale di Garanzia), Raffaele Tecce (già senatore e responsabile Enti Locali del Prc), Tommaso Sodano (già presidente della commissione Ambiente del Senato e responsabile Ambiente del Prc), oltre che gli gruppi dirigenti di Sardegna e Calabria, come Damiano Guagliardi, esponente della direzione del Prc e assessore regionale in Calabria, Fernando Aiello, assessore provinciale di Cosenza e membro del Comitato politico nazionale del Prc, Angelo Brocco a Rocco Tassone, a loro volta membri del Cpn.
Sul fronte Liberazione è ufficiale da sabato ed è stato confermato ieri col voto della Direzione, l'arrivo a via del Policlinico del sindacalista cigiellino Dino Greco. Ad affiancarlo, in quanto non giornalista professionista, Fulvio Fania, storica firma del quotidiano ed esperto vaticanista. Fino ad oggi comunque non si avevano notizie del secondo direttore, così che il segretario Ferrero era stato costretto a chiedere al dimissionato Sansonetti di restare per consentire l'uscita del giornale. A seguito del suo rifiuto, mentre la redazione nella serata di ieri confermava lo sciopero, la società editrice Mrc Spa ha fatto sapere di non essere in condizioni, a norma di legge, per dar corso alla pubblicazione della testata, che mercoledì e giovedì infatti non sarà in edicola. Prosegue comunque l'iter per la sua vendita che vede in campo come protagonista principale Luca Bonaccorsi, editore di Left e Alternative per il socialismo. Un'acquisizione che preoccupa i lavoratori che denunciano la mancanza di certezze lavorative e sindacali.
Gli eventi di Rifondazione comunque destano interesse anche nel resto delle formazioni della Sinistra. Il Pdci, in tutte e due le sue versioni, quella dei vicini alla costituente (Belillo e Guidoni) e quella della maggioranza di Diliberto che vorrebbe la sintesi fra i due partiti della falcemartello, è in fibrillazione. Per l'eurodeputato dell'associazione Unire la Sinistra, infatti, "non possiamo più perdere tempo", perché "Vendola ha ragione: non possiamo continuare una politica nevrotica del contrasto all'interno dei nostri partiti", dice Guidoni rinnovando il suo impegno e quello della sua area per "contribuire alla nascita del nuovo partito della Sinistra". Al contrario per la maggioranza dilibertiana, l'uscita dei giordano-vendoliani è l'est ist zeit per la riunificazione dei due partiti fratelli: "ci batteremo per tornare in Parlamento. Ma da comunisti", afferma, rispondendo al governatore pugliese che se il Prc è ridotto a un gruppo extraparlamentare è certo grazie a lui e Bertinotti "che hanno abbandonato gli ideali comunisti".
Cosa accadrà è difficile stabilirlo. Soprattutto perché a rendere il quadro più complesso è il mistero sulla riforma della legge elettorale. Dalla presenza o meno della soglia di sbarramento, oltre che dalla misura che verrà stabilita se si deciderà di porla, dipendono anche le riorganizzazioni a Sinistra e i loro tempi. La riunificazione, da un parte, tra Prc e Pdci con conseguente unità agli appuntamenti elettorali prossimi venturi? La nascita, dall'altra parte, di una lista comune fra scissionisti di Rifondazione, Sd, comunisti minoritari e parte dei Verdi? In che forma, poi, si realizzerà quest'ultima? Già come partito da testare alle amministrative e alle europee oppure come semplice cartello per rinviare la nascita della nuova formazione al dopo elezioni? Sono tutti interrogativi a cui, senza certezza sul sistema di voto, appare molto difficile dare risposta.