giovedì 15 gennaio 2009

l'Unità lettere 15.1.09
Lesbica in manicomio
Giusy Gabriele di Psichiatria democratica

In Croazia una lesbica è stata ricoverata in manicomio per volontà dei suoi genitori! La stessa situazione si sarebbe potuta verificare in Italia prima del 1978, anno di approvazione della legge 180 ed io dovrei sentirmi orgogliosa del livello di civiltà raggiunto nel nostro paese a seguito delle lotte di Basaglia e del movimento di psichiatria democratica ma invece sono estremamente preoccupata. Da una parte perché la destra al governo propone di nuovo forme di restaurazione contro la riforma psichiatrica. Le proposte di legge che si sono succedute in 40 anni sono cadute nel vuoto, tuttavia, fronteggiate da un movimento che ha saputo riorganizzarsi ogni volta che c’è stata la necessità. No, quello che mi dà vero e profondo dolore sono le tesi, come quella del Dott. Fagioli che trovano spazio anche all’interno di “pezzi della sinistra” che si definisce comunista. Abbiamo letto su Repubblica le sue dichiarazioni sull’omosessualità come malattia che “abbiamo l’obbligo di curare”, abbiamo letto su Left le sue tesi contro Basaglia, abbiamo appreso chiaramente come un pericolo serio il suo distinguere tra pazienti curabili ed incurabili. Le stesse tesi sono state espresse in una “canzonetta” che verrà presentata al Festival di Sanremo ed hanno già suscitato reazioni indignate della comunità gblt. Se mettiamo insieme queste tesi ecco che si prefigura un futuro manicomiale che lancia il nostro servizio sanitario verso l’incubo dell’omologazione a quello che succede in Croazia. Mentre in Spagna abbiamo assistito ad un riconoscimento dei diritti civili, in Italia politica, clericalismo, pezzi della cultura e dello spettacolo si rendono protagonisti di una vera e propria campagna di propaganda omofoba con la quale una, per fortuna piccola, parte della sinistra addirittura collude.

l'Unità 15.1.09
La strage delle donne
di Elena Dini


Delitti, ma anche stupri e botte sono in continuo aumento: 149 gli omicidi «passionali» nel 2007 e nei primi nove mesi del 2008 non va diversamente. Le vittime? Ex mogli, ex fidanzate, ex amanti
Le denunce aumentano, ma solo l’1 per cento dei colpevoli viene assicurato alla giustizia

100 centri Sono poco più di un centinaio su tutto il territorio nazionale, ma dove operano le denunce delle donne sono aumentate: i Centri antiviolenza sono una risorsa da sostenere e rafforzare, e per questo il Pd con la senatrice Vittoria Franco ha pronto un ddl.
Solo il 5% sul totale di 14 milioni di vittime sono le donne che riescono a rompere il silenzio. I Centri, ha spiegato, sono quasi tutti al Centro-Nord, al Sud sono pochi. E sono per lo più a carico del volontariato: associazioni di donne o singole persone che offrono gratuitamente il loro aiuto per sostenere chi ha subito violenza.
20 milioni di euro era il fondo stanziato dal governo Prodi. Ci sono Regioni, come la Toscana e la Liguria, che investono nei Centri e altre che invece si mostrano poco sensibili. Per questo serve un Fondo nazionale, con risorse certe. Nel ddl, oltre alle risorse, si chiede la definizione delle funzioni e delle finalità dei centri, il riconoscimento ai centri della piena autonomia di gestione, l'istituzione di un Comitato nazionale antiviolenza.

La punta dell’iceberg delle violenze compiute in Italia contro le donne è emersa nel febbraio 2007 quando l’Istat pubblicò una ricerca sconvolgente, durata quasi cinque anni, condotta su un campione di 25mila donne. «In particolare quella delle violenze in famiglia», dice Linda Laura Sabbadini, direttore centrale dell’Istat che ha coordinato quella ricerca, «è una realtà amara, che si scontra anche con la difficoltà da parte delle donne di riconoscere la violenza e considerarla un reato». E, a titolo personale, aggiunge: «le donne di tutte le estrazioni politiche dovrebbero unirsi, come già è avvenuto in passato quando la violenza passò da reato contro la morale a reato contro la persona, perché siano sviluppate campagne sistematiche e approvati provvedimenti di tutela. E si deve chiedere anche che ci sia una formazione adeguata del personale nei pronto soccorsi e nei commissariati. Se tutto questo non lo faranno le donne perché dovrebbero farlo altri al nostro posto?».

Provate a immaginare quanto spazio occupano 150 corpi stesi a terra. Se ci fosse l’obbiettivo di un tg sarebbe una carrellata a perdita d’occhio sulle bare allineate. Ma non c’è, non ci sarà mai lo shock di un telegiornale a documentare la strage delle donne in Italia: perché le morti, se non avvengono tutte insieme, «non fanno notizia», televisivamente parlando. E invece questa strage viene perpetrata goccia a goccia: una donna morta ammazzata ogni due giorni. Nel 2006 le donne uccise da mano maschile erano state 112, nel 2007 sono salite a 149, per il 2008 l’elaborazione dei dati non è ancora ultimata ma siamo in grado di darvi l’anticipazione di quanto è avvenuto fino al mese di settembre: gli omicidi sono stati già 110, quasi quanti due anni fa in un intero anno. Il dato finale, probabilmente, non sarà diverso da quello del 2007. A questo vanno aggiunti i tentati «femminicidi». Tra gennaio e settembre sono stati 212.
Elaborando i dati dell’anno che è appena concluso, si può dire che più di quattrocento uomini hanno desiderato uccidere una donna e in molti casi ci sono riusciti. Donne che in genere conoscevano bene: ex-mogli, ex-fidanzate, ex-amanti. E a queste cifre che registrano gli atti di violenza estrema, vanno aggiunti quelli che riassumono episodi che ne sono il preludio: le violenze e i maltrattamenti. Cioè le botte, le lesioni, le ustioni, gli stupri, la costrizione a fare sesso con terzi, le minacce, e le ingiurie. Quelli che vengono denunciati. Le denunce sono in aumento, anche se si sa che non sempre le donne le presentano, specie se le violenze avvengono in famiglia.
Cosa fanno le forze di polizia per aiutare le donne che hanno denunciato? Lo apprendiamo dal sito del Ministero dell’Interno. Nei casi di violenza domestica il 42,6% delle donne dichiara che hanno preso la denuncia, il 26,9% che hanno ammonito il colpevole, il 5,3% che il colpevole è stato arrestato. Ma poi solo nell’uno per cento dei casi è stato condannato dal magistrato.
Chi in pratica viene in aiuto alle donne che hanno subito violenze sono quei servizi specializzati ai quali viene avviato dalle forze dell’ordine lo 0,3% delle vittime. In Italia ce ne sono un centinaio, concentrati nel centro-nord. Il governo Prodi aveva destinato loro 20 milioni di euro, spariti nella nuova finanziaria: inevitabile quindi fare ricorso al volontariato, che ovviamente non consente di fornire continuità di assistenza.
Tutti i centri antiviolenza denunciano un aumento delle violenze, quasi sempre domestiche, segnalando tuttavia che potrebbe trattarsi di un aumento delle denunce, dovuto ad una crescente consapevolezza delle donne: cioè del fatto che molte si sono ormai convinte che le violenze in famiglia sono un reato e non un destino crudele. L’associazione Solidea che gestisce centri a Roma e provincia ha registrato un aumento dell’utenza del 51% negli ultimi quattro anni. L’avvocata Luigia Baroni, responsabile del centro antiviolenza del Comune di Roma, ha registrato 398 nuovi contatti nel 2006, 612 nel 2007, 648 nel 2008. Di donne italiane per il 65%, il restante di donne straniere: vittime al 45% di uomini italiani, per il resto di uomini dei quali non vogliono denunciare nome e origine..
Nel 2007, secondo i dati raccolti in tutto il territorio nazionale dalle forze di polizia 5.492 donne hanno subito maltrattamenti e fra queste c’erano 1321 straniere. Nei primi tre trimestri del 2008 le donne che hanno subìto percosse sono state 5721, quelle che sono state minacciate 28.709. Abbiamo visitato uno dei centri antiviolenza di Roma, in via di Villa Pamphili. Una grande casa luminosa e accogliente dove in questo momento abitano solo donne straniere. Non che manchino le italiane bisognose di aiuto, ma nell’ultimo periodo hanno tutte trovato alloggio presso famigliari o amici e al Centro vengono solo per ricevere assistenza legale e psicologica. «Le donne straniere sono molto più esposte alle violenze dei loro compagni, che siano immigrati o italiani conviventi», dice Emanuela Moroli, presidente di Differenza Donna che gestisce quattro centri antiviolenza a Roma e uno a Guidonia. «Sia gli uomini italiani che gli stranieri “dimenticano” infatti di mettere in regola le loro donne. Provvedono con attenzione a regolarizzare i propri figli, ma non si curano del permesso di soggiorno delle loro compagne, che sono così continuamente esposte al rischio di essere rimpatriate, senza i bambini naturalmente».

l'Unità 15.1.09
Partigiani uguali ai fascisti? Un'offesa
di Nicola Tranfaglia


Siamo di nuovo al punto di prima. Durante il quinquennio 2001-2006 che ha visto la seconda, lunga esperienza di Berlusconi alla guida del governo italiano abbiamo già assistito al tentativo di equiparare giuridicamente (dal punto di vista storico l’operazione è ancora più difficile) i combattenti della guerra partigiana, e i soldati, regolari e irregolari, della repubblica sociale italiana, gli alleati consapevoli del Terzo Reich. Quel tentativo fallì. Qualcuno direbbe: perché c’era ancora in Italia una opinione pubblica democratica o perché l’opera di berlusconizzazione del paese era ancora incompiuta? Non lo so. Fatto sta che quel parlamento alla fine aveva bloccato il progetto di legge per equiparare partigiani e repubblichini. Ora l’occasione si ripresenta e nel giugno scorso una carovana che vede in prima linea alcuni socialisti che hanno scelto la destra (come l’on. Caldoro e l’on. Barani) insieme con una truppa composta da deputati di An che sembrano in polemica aperta con le recenti dichiarazioni del loro leader, attuale presidente della Camera, Gianfranco Fini. Quest’ultimo infatti è ormai approdato all’idea che l’antifascismo è un requisito essenziale della democrazia repubblicana. La carovana anzidetta è tornata alla carica con il progetto numero 1360 che accentua l’assurdità del provvedimento della precedente legislatura. Nella nuova proposta legislativa si ipotizza la costituzione di un Ordine Tricolore presieduto dal Capo dello Stato che avrebbe al suo interno l’istituto nazionale della Resistenza e quello storico della Repubblica Sociale Italiana e prevede che combattenti siano considerati non solo i soldati e gli ufficiali delle quattro divisioni di fanteria della Rsi ma anche i componenti della Guardia Nazionale Repubblicana, delle Brigate Nere, delle Bande feroci come la Banda Carità e la Banda Koch che, nei venti mesi di guerra contro i partigiani e i civili italiani, oppositori dei nazisti, provocarono morti e lutti assai gravi nell’Italia occupata dalle truppe del Terzo Reich. Un’offesa terribile per i caduti nella guerra che liberò l’Italia dalla barbarie nazista e che vide cadere quasi duecentomila persone tra partigiani e cittadini del nostro paese. Di fronte a quello che ancora una volta, malgrado le parole di Fini, An, sostenuta da Berlusconi, vuol fare nel nostro parlamento c’è da sperare che il progetto non vada avanti. Un giurista di grande peso come Giuliano Vassalli, ex presidente della Corte Costituzionale, più volte ministro, ha dichiarato che non deve esserci «nessun riconoscimento ai repubblichini. Erano e restano nemici dello Stato». E ha ricordato: «Che cosa vogliono ancora? Hanno avuto tutto, l’amnistia di Togliatti, la legittimazione democratica immediata, l’Msi in parlamento, ora sono al potere. Eppure non esiste paese in Europa in cui i collaborazionisti dei nazisti sono stati premiati».

il manifesto 14.1.09
Liberazione auto sospesa niente edicola fino a domani
Il vicedirettore responsabile sarà Fania. Ferrero: «Via in pochi»


Il vicedirettore responsabile che affiancherà Dino Greco alla guida di Liberazione finalmente è stato trovato. Una scelta interna alla redazione: sarà Fulvio Fania, vaticanista del quotidiano. «Difenderò l'indipendenza del giornale - sono le sue prime parole a caldo - ho vissuto con sofferenza la querelle su Sansonetti e sono consapevole che è una scommessa difficile. Ma l'ho accettata - spiega - per salvare il quotidiano da una deriva pericolosa. Con la proprietà seguiremo passo passo tutte le questioni da risolvere per assicurare un buon futuro».
Ma per due giorni (oggi e domani), cioè fino a quando la nuova direzione non sarà insediata ufficialmente, il giornale non uscirà in edicola: il direttore sfiduciato, Piero Sansonetti, ha deciso infatti di ritirare la sua firma (in caso contrario, spiega, la redazione avrebbe continuato a scioperare). E senza la firma di un direttore responsabile (che deve essere un professionista, e Greco non lo è), il giornale per legge non può essere stampato e pubblicato. Di fronte all'ultima novità - la sospensione delle pubblicazioni per 48 ore - i «vendoliani» scissionisti sferrano l'ennesimo attacco al segretario di Rifondazione Paolo Ferrero: «Siamo oltre la farsa - commentano Ciccio Ferrara e Graziella Mascia - Nella fretta di dimissionare il prima possibile Piero Sansonetti, i vertici del Prc hanno sommato una tale quantità di pasticci e svarioni da determinare l'assenza del quotidiano dalle edicole per ben due giorni».
Una volta risolta la questione dei direttori, toccherà però anche a quella della proprietà della testata. Una decisione, secondo quanto detto da Ferrero all'assemblea dei giornalisti la settimana scorsa, sarà presa prima della fine del mese. «Entro 10-15 giorni», ha ripetuto ancora lunedì a margine della direzione del partito.
Non è ancora certo, dunque, l'arrivo dell'editore Luca Bonaccorsi legato a Massimo Fagioli, il guru dell'analisi collettiva. Il tesoriere, Sergio Boccadutri, si è riservato almeno altre 48 ore per rispondere all'offerta concorrente avanzata alcuni giorni fa da una rete di cooperative e medie imprese soprattutto romane.Una cordata di possibili acquirenti, vicini all'ala vendoliana romana, a cui il partito deve comunque dare una risposta.
Certo è che contro l'ipotesi di vendita del giornale, nella maggioranza di Rifondazione ci sono ancora molte resistenze, anche tra gli stessi fererriani, come dimostra l'astensione critica di due dirigenti come Russo Spena e Acerbo. Ma non si scommette sulle reali intezioni del segretario, che negli ultimi giorni oltre al direttore politico nominato dalla direzione ha comunque chiesto all'editore del settimanale Left, come per fare argine al fagiolismo maldigerito nel Prc, anche una figura di controllo delle pagine culturali del giornale attraverso la nomina da parte del partito di un caporedattore ad hoc.
Incidono non poco sulla possibile vendita le difficoltà di bilancio del partito. Anche un piano di risanamento «lacrime e sangue» che mantenga il quotidiano nelle mani del partito potrebbe non essere sufficiente. E di certo porterebbe a tagli draconiani nell'organico che non sarebbe facile far digerire per un quotidiano comunista.
Per ora il segretario si limita a rispondere a chi lo accusa di «irresponsabilità» a proposito della nomina dei direttori: «Abbiamo solo applicato le norme in vigore». E Ferrero torna a criticare con nettezza la scelta «sbagliata» della scissione che a suo avviso «darà vita all'ennesimo partitino succube del Pd». Una critica che non lo esime dal chiedede ai compagni in libera uscita dal riconsiderare la loro scelta accettando la gestione unitaria del partito avanzata fin dal congresso di luglio e sempre respinta. Ferrero insiste: a uscire da Rifondazione sarà solo «una parte del gruppo dirigente della minoranza».
Gli «scissionisti» intendono invece dimostrare di essere una parte importante del partito all'assemblea fissata per il 24 e 25 gennaio a Chianciano. Sul futuro Vendola ha fatto capire di preferire «tempi medi», con un doppio tesseramento che allontani la creatura che verrà dagli scogli dell'organizzazione e della composizione dei quadri dirigenti. Di certo la presentazione con liste autonome alle amministrative e alle europee è assicurata. E per ora tanto basta. Anche se sia dentro Sd che dentro i «vendoliani» stessi non tutti condividono il rinvio della nascita del nuovo partito all'autunno che verrà. Bertinotti ha fatto capire ampiamente di preferire comunque questa ipotesi, scommettendo sulla possibile deflagrazione del Pd o di suoi spezzoni dopo le prossime europee. Costruire ora il partito impedirebbe ad altri, dopo, di aderire.
Ma i «bertinottiani» contrari alla scissione non ci stanno. E chiedono invece che a quell'appuntamento di Chianciano sia invitata tutta la platea congressuale della «mozione 2», quella di Nichi Vendola, così da arrivare a una conta reale «tra i trecento compagni che votarono quel documento», dice Tommaso Sodano.

il manifesto 14.1.09
Rifondazioni. Voci di dentro e fuori
di Ma.Ba.


La discussione che si è aperta negli ultimi mesi dentro Rifondazione riguarda e interroga tutto ciò che resta della sinistra italiana dopo il naufragio di aprile. E' una crisi che nasce da lontano e che solo occasionalmente è esplosa su una questione così delicata come il rapporto tra un partito e il suo giornale.
Un dato è certo. Dopo mesi e mesi di immobilismo comunque vada è molto difficile che tra un anno, a gennaio dell'anno prossimo, il quadro politico sia identico a quello di oggi. Forse molti protagonisti non saranno gli stessi. Forse sì. Nelle elezioni di giugno e nelle vertenze di questi mesi sul lavoro, sull'intervento dello stato nell'economia, sulla guerra e sull'esigibilità concreta dei diritti civili e sociali, dal welfare alla sessualità, la sinistra gioca tutta se stessa. Il dibattito è aperto. Voci dall'inferno extraparlamentare, nutrite di dubbi e rancori spesso personali.
Ma è un dibattito che si apre e non si chiude con gli eventi di questi ultimi mesi. Lo richiede la crisi internazionale e la frantumazione della società italiana sotto i colpi del berlusconismo e del leghismo.
Abbiamo raccolto in queste pagine cinque interviste agili e brevi ad altrettanti dirigenti autorevoli di Rifondazione comunista. Una sorta di forum a distanza tra Maria Luisa Boccia, Alberto Burgio, Giovanni Russo Spena, Miliziade Caprili e Luigi Nieri. Cinque persone diverse con cinque punti di vista diversi. Sperando di fornire chiarimenti ed elementi utili non al posizionamento interno o alla polemica di giornata ma a un minimo di lessico politico su cui discutere comunemente.
Un'iniziativa estemporanea e sicuramente provvisoria, che prosegue anche sul nostro sito, www.ilmanifesto.it, in cui su ben due forum ci sono già decine e decine di interventi. Alcuni anche molto critici con i dirigenti passati e presenti della sinistra politica. Prese di posizione a volte anche dure verso questo giornale e il suo collettivo, strumento povero ma essenziale in una fase politica così complessa come questa.
Le raccogliamo come un contributo tra gli altri. Senza pretese di esaustività o completezza. Un ragionamento attorno a dubbi più che a certezze. Una prima cartografia del terremoto che abbiamo alle spalle e della terra più o meno sconosciuta che abbiamo di fronte.
Dove le crisi o le sconfitte non sono solo elementi di riflusso o ritirata ma anche postazioni da cui ripartire. Conservando e criticando ciò che è stato e ciò che deve essere. E' un dibattito che inizia dentro Rifondazione e che speriamo si allarghi altrove. Dentro e fuori i partiti.

l'articolo che segue cita Massimo Fagioli
il manifesto 14.1.09
Maria Luisa Boccia. Centralità al Prc e via le altre culture: un passo indietro
di Daniela Preziosi


Partecipe delle vicende di Rifondazione, per la quale è stata senatrice, ma a distanza in quanto indipendente e non iscritta, Maria Luisa Boccia è una femminista studiosa del femminismo e una politica che - spiega per esemplificare - non considera il comunismo parola «indicibile», perché «come molte femministe, ho rinominato il comunismo dal punto di vista differenza». È un'intellettuale di riferimento dell'associazione «per la sinistra» dove oggi traslocano quelli che lasciano il Prc.
I vendoliani denunciano il «commissariamento» di Liberazione e l'azzeramento nel partito del suo lavoro di apertura culturale. Lo pensa anche lei?
Rispetto il dibattito lacerante che sta vivendo il Prc. Ma certo il quotidiano ha rappresentato e immesso nel percorso di Rifondazione quello che l'ex direttore ha definito «una stranezza»: ha dato una centralità alle firme e ai temi della differenza, ai diversi femminismi, alle politiche sul corpo e a quelle del desiderio, aprendosi ai conflitti, ai movimenti, ai cambiamenti. Insomma a quello che Liberazione stessa ha chiamato «il cuore della politica». Fra l'altro, se non ci fosse stata questa apertura, io ed altre donne come me non avremmo mai incrociato questo partito.
Tutta questa «stranezza» trasloca nell'associazione della sinistra e non lascia niente nel Prc di Ferrero?
Vedremo. Certo è che ci sono due pilastri politici di questa maggioranza che mettono in discussione lla radice questo percorso. Il primo: dare priorità al partito, centrare tutto sul Prc ha tagliato le relazioni con le altre culture, quelle non comuniste ma - e lo sottolineo - non anticomuniste che attraversavano la strada del Prc. Rifondazione non è stata solo un partito, fin qui. Il secondo ha a che vedere con il giornale, che era un laboratorio politico autonomo. Cambiarne la natura ha a che vedere con un'idea ben diversa della cultura e dell'informazione. Quanto all'associazione «per la sinistra», al momento è solo un progetto aperto e in corso di definizione.
Liberazione ora rischia di avere un editore culturalmente connotato, vicino allo psichiatra romano Massimo Fagioli, a sua volta avvicinatosi al Prc proprio nell'era dell'apertura alle «culture diverse».
Quest'aspetto è surreale. La questione di come la sinistra, dalla fine degli anni 60 a oggi, non abbia acquisito la cultura psicoanalitica; di come non abbia saputo mettere insieme i soggetti in carne ed ossa con i soggetti collettivi è questione seria. Per questo mi rifiuto di parlare del professor Fagioli e di attribuirgli la centralità che in questi giorni i media gli hanno dato.

il manifesto 14.1.09
Russo Spena. Una sconfitta. Ma non saremo mai nemici
di Matteo Bartocci


«La scissione è una sconfitta per tutti». Giovanni Russo Spena, ex capogruppo in senato di Rifondazione, ex Dp come Paolo Ferrero, commenta amaramente l'esito dell'ultima direzione del Prc. «E' la sconfitta di chi ha tentato di tenere insieme la critica del comunismo reale e dello stalinismo con un orizzonte comunista inteso come movimento anti-capitalista non solo ideologico ma di trasformazione. E' evidente - avverte - che la scissione apre un rischio duplice».
Quale?
Di avere da una parte una rifondazione della sinistra come pura innovazione post-moderna, a rischio plebiscitario, in cui il comunismo è indicibile. E dall'altra una forza comunista generosa ma puramente identitaria. Per questo credo che sia necessario lavorare a fondo dentro Rifondazione comunista innanzitutto sul rapporto con movimenti e associazioni, privilegiando l'idea del partito come uno strumento capace di essere dentro la società. Di essere quello che chiamiamo 'partito sociale', capace di coniugare conflitto e mutualismo, lotte operaie e vertenze territoriali, vendita del pane e cooperazione dal basso. Un partito che senza cadere in un marxismo volgarizzato non abbandoni la ricerca e l'innovazione di questi anni. Vorrei insomma salvare la nostra parte migliore e buttare via il politicismo e l'omologazione, l'essere apparsi troppo simili agli altri nei comportamenti a partire dalle amministrazioni locali. Vorrei insomma un partito comunista di ispirazione sociale.
Rivendichi tutta l'attualità del comunismo?
Questo è l'elemento che ci ha diviso maggiormente al congresso e dopo. Nel momento in cui la destra sta riorganizzando la società attorno a valori securitari, familisti e razzisti, è un errore che la sinistra non si raccolga attorno a un punto di vista che per me è comunista. Ovviamente questo non esaurisce tutte le culture di alternativa ma certo è un'esperienza che non può un anatema, tanto più se è in grado di dialogare con le critiche allo sviluppo e al potere che il movimento altermondialista per primo ha mosso da vent'anni al liberismo e alla globalizzazione.
Cosa diresti ai compagni che lasciano il tuo partito?
Intanto non tutti se ne andranno. Se deve nascere un'altra forza politica spero che nasca senza distruzioni reciproche. Io temo che si muoveranno su un versante moderato e centrista, fuori dalle relazioni europee positive che Rifondazione ha costruito in questi anni con la Linke, il Synaspismos, Izquierda Unida, etc. Temo un partito incapace di radicalità in una società frantumata come quella italiana. Rifondazione comunista per me può ancora tenere insieme innovazione, conflitto sociale e trasformazione.
Non temi un isolamento?
Non credo che saremo soli e spero che tutto il partito faccia questa operazione di innovazione, senza nostalgie sviluppiste o identitarie. La riunione di lunedì è stata incredibile, grottesca, si discuteva di Jan Palach mentre vorrei si parlasse di decrescita, ambiente, nuovi diritti. Ora basta, e mi sembra che anche Vendola ne sia consapevole. Se questa nuova forza politica deve nascere la vedremo crescere sul campo e nella ricerca culturale. Non dimentichiamoci che prima o poi forse dovremo tornare a collaborare. Diciamo basta ai rancori, è passata 'a nuttata, ora discutiamo di politica e se così deve essere ognuno vada per la sua strada. Spero che per Fava e Vendola Rifondazione non sarà mai un nemico. Di certo io credo in un partito di tutte e di tutti.

il manifesto 14.1.09
Milziade Caprili. Resto, per ora. Il partito non è tutto da buttare
di Sara Menafra


Parlano le anime del Prc, quella comunista e quella che è già partita per andare oltre. Un filo di dialogo anche a distanza che, nonostante la scissione, non si spezza del tutto. Si ragiona della crisi della sinistra, che non risparmia nessuna parte, e sconsiglia a tutti scorciatoie
Milziade Caprili, ex senatore e oggi consigliere comunale a Viareggio è da sempre quel che si dice un «bertinottiano di ferro». Amico di Fausto, oltre che alleato. Stavolta pero le strade dei due si dividono. Bertinotti va, lui resta. Ameno per ora.
Come giudica il licenziamento di Piero Sansonetti?
Una vergogna. E lo dico tenendo a mente che Liberazione non mi è mai parsa un giornale perfetto. Per dire l'ultima, sabato quelli che come me sono contrari a lasciare Rifondazione si sono dati un primo appuntamento. E il giornale? Ci ha definiti «sommergibilisti». Dal quotidiano del tuo partito di aspetteresti un po' di più.
Messa così ha ragione Ferrero. Bisogna cambiare il direttore e metterne uno che rappresenti meglio il partito. No?
Il rapporto con il corpo del Prc non era certo migliore quando il giornale era diretto da autorevoli personalità del partito. Avrei accettato una discussione aperta, che tenesse conto dei problemi economici e di quelli politici, ma assolutamente non con il licenziamento di Sansonetti.
Ecco. Ma allora perché resta?
Intanto il mio baricentro è su Viareggio, dove sono consigliere comunale e presidente della Croce verde. Eppoi resto in Rifondazione, perché non credo che il nostro partito sia fatto solo di nostalgici del muro di Berlino. Ma è una riflessione aperta, che riguarda anche le forme della politica. Ad esempio, se sarà possibile, potrei pensare alla doppia tessera, una di Rifondazione e uno del movimento a sinistra che verrà fuori, tenendo conto che al momento lì fuori non c'è quasi nulla.
Insomma, tra un po' potrebbe ripensarci?
Se resto non è perché, come avete scritto voi, non mi hanno candidato alle politiche. E' chiaro che ci sono rimasto male, soprattutto per il modo, ma sono convinto che nel Prc ci sia spazio per una battaglia contro la linea politica del segretario. Lo penso ora, in futuro vedremo.
E il legame con Bertinotti? Lui ha detto che oggi Rifondazione è irriconoscibile.
Con Fausto c'è un legame politico e personale che resta invariato. Ha dato un contributo più che fondamentale alla costruzione di Rifondazione e ha ragione a dire che il partito di oggi è radicalmente diverso dal progetto che condividevamo. Non solo per il caso Sansonetti, ma per le politiche che Paolo Ferrero ha messo in cima alle proprie priorità. Con Bertinotti il legame resta, mi mancheranno più gli altri. Abbiamo condiviso un pezzo di vita.

il manifesto 14.1.09
Alberto Burgio. Una maggioranza composita è segno di collegialità
di Ma. Ba.


«Non brindo alle scissioni perché tutti siamo utili. Però nessuno si ritenga indispensabile». Per Alberto Burgio, intellettuale e dirigente dell'area «comunista» coordinata da Claudio Grassi, la crisi attuale della sinistra è figlia della «sconfitta storica del movimento operaio e della fine del Pci». Una crisi, spiega, che «bisogna sforzarsi di leggere in termini politici al di là delle meschinità e dei rancori personali».
In fondo però le crisi sono anche opportunità. Com'è noto, la nottola di Minerva si alza al calar della sera.
E' vero. Per me però l'errore capitale della sinistra italiana è stato ritenere che il lavoro salariato, subordinato, non fosse più il soggetto su cui fare leva per la trasformazione. La scomparsa della sinistra dal parlamento deriva da questo storico errore di analisi, che ha portato a uno sradicamento della sinistra dai luoghi veri del conflitto, della produzione e della riproduzione, che sono i veri potenziali di trasformazione. Per questo e non per feticismo sono comunista. Allontanarsi da qui ha portato la sinistra a collaborare alla vittoria del capitale, alla regressione oligarchica della democrazia e nei momenti più tristi perfino a fare la guerra.
Ma il partito è ancora uno strumento adeguato?
Vedo nel nuovo gruppo dirigente di Rifondazione la determinazione a tornare sul terreno del conflitto sociale e del lavoro. La scelta di Dino Greco alla guida di Liberazione si spiega così. Il Prc affida il suo giornale a un autorevole dirigente della sinistra sindacale, un comunista capace di apertura, sperimentazione e innovazione. Per me è segno che il partito vuole tornare a tessere il filo delle ragioni per cui è nato.
Le pare possibile discutere per ore di stalinismo e di muro di Berlino?
Questa è una mistificazione. Si è discusso dell'immagine del crollo del muro e dei suoi significati. La caduta del muro è un fatto storico, prodotto anche dalla pressione popolare dei tedeschi dell'Est in cerca di liberazione. Ma quell'icona poi ha legittimato una forma di dominio del mondo, è diventata il logo del pensiero unico.
Ma dopo vent'anni l' 89 è un momento storico finito. Siamo altrove. O no?
Sì ma intanto in questi vent'anni quel dominio ha devastato il mondo e l'ambiente con guerre e sfruttamento planetario. Fare di quell'immagine il simbolo della nostra impresa politica mi sembra sottoscrivere questa forma di dominio. Non c'è nessuna nostalgia del muro. Una forma così malata di discussione tra noi è il frutto della gestione di questi anni, in cui si è voluto dividere per poi comandare a piacimento.
E oggi? Siete quattro mozioni a sostenere la segreteria.
E' la prova che nonostante le differenze si può gestire collegialmente il partito. Noi abbiamo chiesto anche a Vendola di entrare in segreteria. Fino all'ultimo. Ma ha scelto di fare diversamente.

il manifesto 14.1.09
Luigi Nieri. Io me ne vado. Serve un nuovo progetto politico
di Ma. Ba.


«Diciamo la verità: tutte le nostre ultime discussioni interessano a noi e a pochi altri. Sono mesi che la sinistra non fa niente a parte discutere di sé. Che Rifondazione non sia ancora stata in grado di mobilitare su Gaza la dice lunga». Luigi Nieri, firmatario della mozione Vendola, è assessore al bilancio della regione Lazio, l'unica in cui «la Sinistra», come soggetto federato è una realtà da molto tempo.
La scissione è in atto. Tu uscirai dal partito?
Credo proprio che lascerò il Prc. E' un'appartenenza che mi pare sempre più stretta e inadeguata. Basta con le reticenze o le discussioni anacronistiche e sterili. E' necessaria una rivoluzione di merito e di metodo. Nel metodo vanno messi al centro l'ascolto, la chiarezza di linguaggio, i dubbi, la partecipazione, la trasparenza nelle scelte politiche. Perché in realtà stiamo tutti facendo delle cose fregandocene degli altri, di chi ancora crede in noi ma non ci vota e ci guarda in modo sempre più critico. E' necessario contrapporsi con forza al disegno liberista e teocratico della destra. Per questo credo in una sinistra ampia, capace di entusiasmare. Delle discussioni sui giornali o sul muro di Berlino non importa nulla a nessuno.
La tua posizione di amministratore immagino renda molto concreta l'esigenza quotidiane di dare risposte politiche reali.
Non è vero che la sinistra non può fare niente. Nel Lazio io credo che abbiamo fatto una finanziaria di sinistra. Ci abbiamo lavorato tanto, tutti insieme. E' l'unica regione in cui esiste un gruppo consiliare federato, che influenza il lavoro della giunta. Lo dico ai miei compagni di mozione, se invece di discutere per mesi su come organizzare la sinistra avessimo fatto cose concrete di sinistra non saremmo oggi in questa palude. Mentre noi discutiamo del nostro ombelico l'Italia brucia nel razzismo istituzionale.
Come vedi il partito che verrà?
Come un soggetto aperto e non rancoroso. Ma per quel che vale voglio essere chiaro: deve andare oltre gli attuali partiti. Lo dirò al seminario di Chianciano, la doppia tessera non mi convince. Dobbiamo assumerci le nostre responsabilità e fare in tempi rapidi un soggetto vero capace di unificare la sinistra.
Un altro partitino?
Spero di no. Serve più ambizione, dobbiamo pensare alla società civile vera, che ci aspetta, ci guarda, che incontriamo in piazza e al lavoro, che si dà da fare, che resiste. Se vogliamo dare il nostro contributo i tempi sono maturi. C'è bisogno oggi di un soggetto politico nuovo, che non sia la sommatoria o un cartello di partiti esistenti, che sia aperto, ampio, costruito dal basso e che sia un interlocutore affidabile che faccia dimenticare una sinistra che da mesi non fa niente.

mercoledì 14 gennaio 2009

il Riformista 14,1.09
Rifondazione. Scissione, ora Vendola perde i pezzi


«No, io resto. Faccio battaglia dentro Rifondazione». Quella che era una sporadica voce, dentro un Prc in cui la scissione è consumata (verrà ufficializzata il 24 e 25 gennaio), diventa sempre più consistente. Esponenti, ma anche militanti, che hanno sostenuto al congresso di Chianciano la mozione 2, quella di Vendola, decidono ora di non uscire dal partito: «Non rinunciamo all'obiettivo politico di costruire un nuovo soggetto unitario e plurale. Ma questo lavoro non deve essere il prodotto di qualche escamotage politicista, già fallito peraltro con la Sinistra Arcobaleno». Così prima il documento «Per continuare il cammino di Rifondazione per la sinistra», sottoscritto da pochi (tra questi Milziade Caprili, Rosy Rinaldi e Tommaso Sodano), poi ieri un nuovo appello con una vistosa crescita di adesioni. Anche di bertinottiani di ferro, come Salvatore Bonadonna. «Stiamo ottendendo un risultato inatteso», dichiara con enfasi Augusto Rocchi, ex deputato e attuale responsabile Economia del Prc, «ci arrivano approvazioni da tutta Italia».
Dati alla mano, interi gruppi dirigenti di Sardegna e Calabria e pezzi consistenti di Lombardia e Sicilia hanno già annunciato di rimanere nel Prc «per continuare la battaglia contro Ferrero». Nella stessa Puglia di Vendola risultano defezioni. E se nella direzione nazionale la stragrande maggioranza della mozione 2 abbandonerà il partito, nel Comitato politico nazionale, espressione delle realtà territoriali, su 112 vendoliani almeno una quarantina resteranno. Per la felicità (assurdo ma vero) del segretario che userà questa componente per non rimanere ostaggio della sua stessa maggioranza, la quale punta dritto all'unità comunista. A partire dal Pdci di Diliberto. Dal canto suo, la mozione 2 non dispera di aver perso pezzi, convinta di recuperarli dopo le europee: è diversa solo la strategia per arrivare alla nascita di una sinistra più plurale. Cosa che, a livello di cartello elettorale, potrebbe tornare in voga se il governo decidesse in extremis di varare una nuova legge elettorale con sbarramento.
Sul fronte Liberazione, ieri nomina a vicedirettore responsabile di Fulvio Fania, vaticanista del giornale e persona di «mediazione». Fania, e il direttore Dino Greco, saranno attivi da giovedì. Non prima: manca, dopo il rifiuto dell'ex Piero Sansonetti, la firma di un "professionista" per l'uscita del quotidiano. Inconvenienti che capitano solo in questa sinistra.

Corriere della Sera 14.1.09
«Bandiere bruciate? Più scossi dai bambini uccisi»
D'Alema: io indignato anche dai falò, gli italiani pensano alle vittime. Scintille con l'ambasciatore Meir
L'ex ministro degli Esteri sottolinea i grandi ascolti di Al Jazeera
Meir: paragone offensivo per i giornali italiani
di Maurizio Caprara


ROMA — «Io mi indigno anche per le bandiere bruciate, tuttavia non c'è il minimo dubbio che l'opinione pubblica italiana è molto più scossa per i bambini. Vorrei che lei non pensasse che l'opinione pubblica italiana è rappresentata da certi editoriali di giornali che rappresentano solo se stessi», ha risposto Massimo D'Alema quando Hamid Masoumi Nejad, corrispondente televisivo della

Islamic Republic Iran broadcasting, gli ha domandato se non credeva che in Italia ci si indignasse più per le bandiere israeliane messe a fuoco in certe manifestazioni che non per i bombardamenti di Israele su Gaza.
Da parte dell'ex ministro degli Esteri che nel 2006 visitò i quartieri bombardati di Beirut accompagnato da un dirigente di Hezbollah, nella risposta data ieri mattina davanti alla Stampa estera c'era la condanna dell'offesa allo Stato ebraico compiuta in recenti cortei («Nel mondo islamico non si dovrebbe incoraggiare quelli che bruciano», ha sottolineato), c'era la sua consueta botta ai giornali ritenuti non amici, c'era una sintesi del pensiero dalemiano in materia. «Non si bruciano le bandiere di nessuno », ha preferito dichiarare secco, nel pomeriggio, Walter Veltroni, il segretario del partito di D'Alema. E' chiaro che il punto di divergenza tra i due non può essere sulle fiamme alle bandiere, ma quello di ieri per il Partito democratico è stato un giorno nel quale impostazioni diverse sul Medio Oriente tra i due principali ex eredi di Botteghe Oscure si sono intraviste dalle scelte lessicali e non da scontri frontali. Nei toni, nei visi.
Veltroni, che contro la massiccia risposta militare israeliana ai ripetuti lanci di razzi di Hamas ha evitato di ricorrere alla piazza, ha radunato tra le mura di San Macuto dirigenti del suo partito, l'ambasciatore d'Israele Gideon Meir e il rappresentante dell'Autorità palestinese Sabri Ateyeh. Amico delle parti. D'Alema, pur in sala, aveva dominato già un altro lato della scena mediatica presentandosi alla Stampa estera, di fatto, come il miglior amico degli arabi e di Abu Mazen, senza spingere oltre l'usuale le critiche a Israele.
Lanciare razzi è stata «un'azione criminale» di Hamas, ha risposto D'Alema al corrispondente della radio israeliana Yosi Bar. Ma nel deplorare l'offensiva su Gaza ha aggiunto che «anche gli americani spesso fanno un uso sproporzionato della forza, dopodiché autocritica». Poi l'ex ministro ha circoscritto la sua tesi sulla necessità di dialogare con Hamas specificando che «nessuno chiede a Israele di negoziare un trattato di pace con Hamas » e che «con Hamas bisogna negoziare una tregua» su Gaza. Più tardi, in nome del realismo, D'Alema ha riallargato la tesi: «Discutemmo con israeliani che non riconoscevano il diritto dei palestinesi a uno Stato.. si può discutere anche con palestinesi che non riconoscono il diritto di Israele ad avere uno Stato.... non significa dare ragione».
Scelte di postura nella foto di gruppo del Pd, più che battaglia sulle decisioni di politica estera. Ma dopo che D'Alema, oltre ad attaccare giornali italiani, ha sottolineato i grandi ascolti di Al Jazeera per le cronache da Gaza, Meir parlato di «paragone offensivo». D'Alema ha sostenuto di non aver fatto paragoni. Botta e risposta non nuovo. Sempre con Israele, tuttavia.

Corriere della Sera 14.1.09
Fo: «Ha ragione Torniamo alla linea di Moro e Craxi»
di R. Zuc.


ROMA — Cita Nelson Mandela che dal suo carcere sudafricano parlava a Thomas Friedman di «apartheid» a proposito di Israele e Palestina.
Dario Fo, ma è davvero «apartheid»?
«Sì, apartheid culturale, civile ed economico. Quando si parla di risentimento palestinese non si pensa mai all'umiliazione che ha subìto quel popolo. Certo, è un risentimento che si esprime con un terrorismo, ma in misura blanda rispetto alla risposta messa in atto da Israele, anche se in Italia questo aspetto viene ignorato».
È quindi d'accordo con Massimo D'Alema quando sostiene che nel nostro Paese «è tabù criticare Israele» e parlare di «uso sproporzionato della forza»?
«Dico di più: c'è su questo argomento quasi un andamento ricattatorio. Si spara a zero contro chiunque osa avanzare un minimo dubbio sul comportamento morale di Gerusalemme».
L'ex ministro degli Esteri rimprovera Berlusconi per avere abbandonato la politica estera di «mediazione» che fu di Moro e Craxi.
«Ha ragione: bisognerebbe riprendere quella linea politica nei confronti del Medio Oriente. Ne sono convinto. E vanno lodati quei giovani che sabato scorso hanno manifestato a Milano a favore della Palestina: anche loro si sono inginocchiati per pregare come successe davanti al Duomo.
Ho molto apprezzato quel gesto».
D'Alema ha definito «sgradevole» la sovrapposizione della guerra a Gaza con le elezioni israeliane.
«È normale: in campagna elettorale è tutto lecito, persino una guerra. O altre assurdità. Basta pensare all'Italia: non è per le elezioni imminenti che Berlusconi, promettendo "italianità", ha ottenuto nella primavera scorsa la svendita di Alitalia?».
Verso l'inaugurazione La richiesta dell'associazione dei non credenti: «Via la religione dalla cerimonia, si viola la Costituzione»

Repubblica 14.1.09
Perché non possiamo rivalutare Salò
di Giorgio Bocca


La notizia è di ieri. Dopo il presidente emerito della Corte costituzionale Giuliano Vassalli - arrestato e torturato dai fascisti - e Armando Cossutta, anche due ex presidenti della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi e Oscar Luigi Scalfaro, bocciano il disegno di legge con il quale la maggioranza tenta di equiparare partigiani, militari e deportati ai repubblichini di Salò sotto un fantomatico simbolo definito "Ordine del Tricolore".
Ciampi e Scalfaro, in un messaggio inviato all´Anpi spiegano che la proposta del centrodestra è in contrasto con la verità e la realtà storica e dimentica che la Repubblica di Salò appoggiò con la sua azione la causa del nazismo, contro la quale combatterono le forze armate italiane.
Ritorna così ancora una volta, con una tenacia impressionante, la questione della parificazione fra gli ex combattenti di Salò e gli ex partigiani. E per l´ennesima volta cerchiamo di chiarire i termini della questione. La pacificazione nazionale fra i combattenti di tutte le guerre è un dato di fatto che risale ai primi giorni della Repubblica democratica.
L´ammissione al voto dei neofascisti del Movimento sociale italiano, il fatto che nel Parlamento italiano fossero presenti anche coloro che avevano combattuto per la Repubblica di Mussolini, alleata fino all´ultimo con la Germania nazista, chiudeva il discorso sulla pacificazione. Anche gli ex fascisti avevano il diritto di essere rappresentati.
Altra cosa è la parificazione che dovrebbe avvenire in un ordine dei combattenti, una sorta di partito al valore militare superiore ai partiti politici. Su questo il giudizio degli ex partigiani e dei democratici non può che essere di netto dissenso.
La pacificazione ha reso tutti i cittadini italiani eguali nella partecipazione politica e la prova è che ex fascisti sono presidenti della Camera, o sindaci di grandi città, e che nello spirito della pacificazione è stato quasi sempre dimenticato l´obbligo legale di proibire l´apologia del fascismo.
Ma pretendere di riunire in un ordine militare nazionale, un ordine della Repubblica democratica, combattenti per la libertà e combattenti per il nazifascismo pare una inutile provocazione, una prova che c´è un fascismo superstite. Un fascismo che, approfittando della situazione politica favorevole, vuole ritornare sulla scena italiana con tutti gli onori.

Repubblica 14.1.09
Salò come la Resistenza, no di Ciampi e Scalfaro
"Rispetto per il dolore, ma equiparare repubblichini e partigiani è un imbroglio"


L´ex premier torna in campo con un articolo per la rivista di un hospice

ROMA - La norma della discordia porta il numero 1360, è un disegno di legge in discussione in commissione Difesa della Camera ed equipara, nella sostanza, partigiani, deportati e militari ai repubblichini di Salò. O meglio, come si legge nel testo targato Pdl, prevede l´istituzione dell´Ordine del Tricolore e l´assegnazione di un vitalizio indistintamente ai partigiani e «ai combattenti che ritennero onorevole la scelta a difesa del regime ferito e languente e aderirono a Salo». Il caso è stato sollevato dall´Anpi, l´Associazione dei partigiani e ieri proprio al convegno organizzato per discutere del ddl anche due ex presidenti della Repubblica hanno manifestato tutto il loro stupore, se non l´indignazione per una proposta di quel genere.
La prima lettera porta la firma del presidente emerito Carlo Azeglio Ciampi, sostiene che «il giudizio storico sulla Repubblica di Salò non può dimenticare che essa appoggiò con la sua azione la causa del nazismo, contro la quale combatterono le forze armate italiane». Sulla stessa linea il suo predecessore al Quirinale, Oscar Luigi Scalfaro, secondo il quale la legge proposta dal centrodestra «parte da un´errata valutazione della verità storica non può che generare falsità e imbroglio. Il richiamo che ognuno di noi ha il dovere di fare è di rispettare le sofferenze di tutti, mai di confondere chi per la libertà ha combattuto e ha dato la vita, con chi si è schierato per la dittatura e il tedesco invasore, anche se soggettivamente in buonafede». Proposta «sbagliata, nessuna equiparazione è possibile», la boccia anche Walter Veltroni: «La storia non si può riscrivere. Nemmeno in un tempo come questo, in cui si vorrebbe che tutto fosse indistinto e per questo meno chiaro». Al convegno partecipano e si fanno sentire anche il presidente emerito della Corte Costituzionale Giuliano Vassalli e l´ex senatore Armando Cossutta. Per entrambi, quel ddl segnerebbe un «sovvertimento della storia».

Repubblica 14.1.09
Attacco a Alberto: "Ha firmato quelle norme"
Vaticano contro il re del Belgio "Embrioni, legge agghiacciante"


CITTÀ DEL VATICANO - E´ polemica tra la Chiesa cattolica e Alberto II di Belgio, re timorato di Dio ma colpevole - agli occhi dei vescovi belgi e del Vaticano - di aver promulgato nei giorni scorsi una legge che definisce l´essere umano in divenire, compresi embrioni e feti, come «materiale corporeo umano» disponibile per le applicazioni mediche o la ricerca scientifica. Si tratta di una normativa «agghiacciante», ha attaccato l´episcopato del Belgio in una nota che è stata rilanciata ieri dall´Osservatore Romano.
Nel comunicato ripreso dall´organo vaticano si lamenta l´amarezza per il comportamento di Alberto, che non ha rifiutato la sua firma alla nuova legge approvata dal Parlamento nello scorso dicembre. Ben diverso - si ricorda in Vaticano - l´atteggiamento di suo fratello, re Baldovino, il quale preferì abdicare per due giorni nel 1989 piuttosto che firmare la legge sull´aborto.
I vescovi belgi mettono sotto accusa in particolare l´articolo 2 comma 1 della legge belga che ammette l´ottenimento e l´utilizzazione a fini medici e scientifici di «tutto il materiale biologico umano, compresi tessuti, cellule, gameti, embrioni, feti, così come le sostanze che ne vengono estratte, qualunque sia il grado di trasformazione».
Il progetto di legge, passato con il «sì» definitivo della Camera (95 voti a favore, 34 astensioni e nessun «no»), fa del cattolico Belgio - ha sottolineato l´Osservatore Romano - uno dei pochi stati europei ad aver promulgato una normativa relativa alla ricerca sugli embrioni. Segue in questo la Gran Bretagna, che dal 2002 ha creato una «banca» per le cellule staminali di origine embrionale, e la Spagna che - ha ricordato ancora il giornale vaticano - permette l´uso di tutte le tecniche utili all´ottenimento di cellule embrionali umane a fini terapeutici.

Corriere della Sera 14.1.09
Obama, no agli atei: «Giurerò invocando Dio»
Il presidente eletto annuncia: pronuncerò la tradizionale frase sulla Bibbia di Lincoln
Intentata un'azione legale ma Barack, religioso, assicura che non rinuncerà all'invocazione: «Che Dio mi aiuti»
di Ennio Caretto


WASHINGTON — Il nome di Dio viene invocato molto spesso dallo stato americano. «In God we trust», Confidiamo in Dio, è il motto stampato sulle sue banconote. «One nation under God», Una nazione sotto Dio, figura nel Giuramento alla bandiera dal '54, l'era dell'anticomunismo. «God bless America », Dio benedica l'America, è la chiosa finale dei discorsi presidenziali. E alla sua inaugurazione, il nuovo presidente chiede «So help me God», Che Dio mi aiuti. Una tradizione, sostengono molti storici, iniziata da George Washington nel 1789 (è tuttavia dubbio) e osservata solo da alcuni suoi successori, ma divenuta prassi dal '33, con Franklin Roosevelt, il quale forse segretamente dubitava di riuscire a salvare il Paese dalla Grande depressione senza l'appoggio divino.
Le continue invocazioni a Dio hanno così disturbato gli atei americani — secondo cui sono incostituzionali — che un loro esponente di punta, il medico californiano Michael Newdow, ha citato a giudizio (a nome di 10 associazioni e 17 persone) i comitati organizzatori dell'inaugurazione di Obama, i due predicatori Joseph Lowery e Rick Warren, che terranno le preghiere, nonché il presidente della Corte suprema John Roberts, chiedendo che alla cerimonia non si pronunci la parola «Dio» e Obama non concluda il solenne giuramento — «Svolgerò fedelmente l'incarico di presidente, e farò del mio meglio per preservare proteggere e difendere la Costituzione » — col fatidico «So help me God».
È difficile che il tribunale federale sentenzi in tempo — la citazione è del 31 dicembre scorso — anzi è probabile che finisca per respingerla.
Ma Obama, che è religioso e giurerà sulla Bibbia di Lincoln, il presidente dell'abolizione della schiavitù, l'ha anticipato affermando che dirà «Dio mi aiuti». È un'invocazione che non intacca il principio della separazione Stato-Chiesa, hanno notato i portavoce, e che non viola la Costituzione, il cui primo articolo vieta al Congresso di stabilire una religione in America. Un atto di fede appropriato in un momento molto delicato per il Paese.
Newdow ha incassato. Ha spiegato di non avere citato Obama personalmente «perché come cittadino ha il diritto di osservare la sua religione », ma di sperare ancora che dica «So help me God» in privato. E ha aggiunto che se bocciato dal tribunale ricorrerà in appello, per ottenere che dopo le elezioni del 2012 Obama o il suo successore rinuncino al «Dio mi aiuti». Una missione impossibile? Newdow fallì già nel 2001 e nel 2005 all'insediamento di Bush alla Casa Bianca, epoca in cui i neocon si battevano perché l'America si definisse una repubblica cristiana. I credenti americani lo attaccarono. «Vuole che lo stato smentisca l'esistenza di Dio», ribatté Scott Walter della Fondazione della libertà di religione. «Ma i nostri valori si basano su di essa».

Corriere della Sera 14.1.09
Sanità La Mater Dei di Roma: «È medicina difensiva»
Nove neonati su dieci con il parto cesareo La clinica del record
I ginecologi: tra 10 anni così in tutta Italia
di Margherita De Bac


I medici: non c'è differenza di onorario tra cesareo e naturale, alla Mater Dei chiediamo 900 euro l'ora

Il Maggiore di Bologna: il timore di contenziosi fa crescere il fenomeno. Nel Lazio l'aumento di un punto all'anno

ROMA — Verrà il giorno in cui partorire per vie naturali sarà una vera eccezione. Quel giorno è dietro l'angolo. Malgrado il tentativo vano di arginarlo, il fiume dei cesarei è in piena. E il parto chirurgico ha il predominio quasi assoluto in molte cliniche italiane. Una delle strutture all'avanguardia, anche da questo punto di vista, è la Mater Dei, a Roma, quartiere Parioli, solo ricoveri a pagamento. Il rapporto dell'efficiente Agenzia per i servizi sanitari del Lazio (Asp) aggiornato al primo trimestre del 2008, la pone al secondo posto nella classifica delle nascite col bisturi. L'84,4% dei bambini sono venuti al mondo con questo sistema. Quasi 9 su 10. Di meglio sempre nello stesso periodo ha fatto solo Villa Europa, quartiere Eur, che ha raggiunto quota 86,2% prima di chiudere i battenti per ragioni legate alla proprietà. E' una tendenza che si sta affermando rapidamente in tutto il Paese, in alcune Regioni più che in altre, salvo realtà locali, nonostante ogni anno linee guida e piani sanitari si prefiggano di abbattere percentuali di cesarei superiori al resto d'Europa.
Enrico Zupi è uno dei nove ginecologi che lavorano alla Mater Dei: «Non c'è ragione di essere criminalizzati. E' un atteggiamento comprensibile. Noi medici veniamo denunciati per eventi e complicanze non classificabili come sbagli, che non creano danni. Applichiamo la medicina difensiva. E finché non depenalizzeranno l'errore medico, così sarà. Non siamo martiri. E se una donna è minimamente a rischio la spingiamo verso la chirurgia, se non è lei stessa a chiederlo come il più delle volte accade, specie quando si tratta di donne informate. E' una sua libera scelta che rispettiamo. L'incisione è minima, 3 giorni di ricovero, dolore contenuto, anestesia leggera».
La clinica dei Parioli, frequentata da clientela di classe sociale medio-alta, rientra nell'identikit delle strutture dove il cesareo gode di grande popolarità. Private, numero contenuto di parti, medici che si dividono tra attività pubblica in ospedale e privata. Zupi respinge il sospetto che dietro si nasconda l'interesse del ginecologo: «Non è vero che il taglio cesareo rende di più. Dal punto di vista dell'onorario non c'è nessuna differenza col vaginale. Il costo della sala operatoria? Da noi è di 900 euro all'ora ».
Tranne che in isolate realtà territoriali, dove il cesareo è tra 20 e 30%, si avverte un senso di resa tra gli operatori sanitari. Allarga le braccia Corrado Melega, ospedale Maggiore di Bologna: «Noi siamo al 29% in tutta la provincia ma la curva cresce malgrado gli sforzi. La pressione dell'opinione pubblica e il timore dei contenziosi agiscono da alimentatori. Non vorrei essere un cattivo profeta ma ho l'impressione che non ci sia più nulla da fare». Gian Carlo Di Renzo, direttore della clinica ostetrica di Perugia, azzarda la stessa previsione: «I parti naturali saranno una rarità. Ma se si dedica attenzione qualcosa può migliorare. Noi siamo scesi dal 34 al 32,5%. Il problema è che nessuno ha più voglia di seguire un lungo travaglio». Domenico Di Lallo, dell'Asp, commenta gli ultimi dati: «Nel Lazio l'aumento è di un punto all'anno. Non dobbiamo più illuderci. Tra 10 anni quasi tutte le donne partoriranno in sala operatoria».

Corriere della Sera 14.1.09
Risponde Sergio Romano
Todt, l'ingegnere di Hitler e la sua organizzazione


Spesso nelle testimonianze dei deportati e dei lavoratori coatti italiani durante la seconda guerra mondiale si fa riferimento alla famigerata «Organizzazione Todt». Ma che cosa era veramente e come funzionava questa impresa il cui fondatore fu predecessore di Albert Speer al ministero degli Armamenti e Approvvigionamenti della Germania nazista?
Mario Taliani, mtali@tin.it

Caro Taliani,
L'Organizzazione Todt face un largo uso del lavoro coatto ed ebbe per queste ragioni, soprattutto dopo l'8 settembre 1943, una cattiva reputazione. Ma la figura di Fritz Todt e il modo in cui realizzò il compito che gli era stato assegnato meritano qualche attenzione. I primi ad accorgersene furono gli Alleati. Sorpresi dalla straordinaria efficienza con cui i tecnici tedeschi rifornivano le forze armate e realizzavano le grandi opere necessarie al conflitto, vollero che Albert Speer venisse sottoposto a un lungo interrogatorio. Ne troverà i verbali in un libro dello storico inglese Richard Overy intitolato, per l'appunto, «Interrogatori» e pubblicato da Mondadori nel 2002.
Fritz Todt nacque a Pforzheim nel 1891, fece la Grande guerra in un reggimento di fanteria, si laureò in ingegneria civile, lavorò in una fabbrica, divenne nazista e conobbe Hitler a cui fece subito una eccellente impressione. Fu questa la ragione per cui, subito dopo la conquista del potere, fu nominato alla testa di un ufficio nuovo per la realizzazione della grande rete autostradale con cui il leader nazista si riprometteva di assorbire una parte della disoccupazione tedesca. Da allora Todt divenne progressivamente responsabile di tutto lo sforzo bellico del Reich: la linea Sigfrido, la rete stradale dei territori occupati, le linee ferroviarie, il Vallo Atlantico, le fortificazioni, i rifugi per i sottomarini e naturalmente, come ministro dell'Armamento, la produzione di armi e munizioni. Il segreto del suo successo fu l'abilità con cui seppe coinvolgere le grandi imprese, assicurare il loro coordinamento, suddividere i compiti, affidare a tecnici e dirigenti d'azienda l'esecuzione dei lavori. Quando dovette spiegare agli Alleati il funzionamento di questa «macchina », Speer riconobbe che Todt aveva adottato per il regime nazista il metodo messo a punto da un industriale ebreo, Walter Rathenau, per pianificare e dirigere l'economia tedesca durante la Prima guerra mondiale. Un collaboratore di Rathenau, sopravvissuto in un ufficio del ministero degli Armamenti, descrisse il funzionamento di questo sistema in una relazione che ispirò Todt e la sua organizzazione. Per un singolare paradosso l'ebreo Rathenau, divenuto dopo la guerra ministro degli Esteri della Repubblica di Weimar, trasmise ai suoi maggiori nemici una ricetta perfettamente adatta ai loro scopi.
Todt fu un uomo serio, schivo, molto stimato da Hitler ma restio a fare un uso personale del suo potere e poco amato dagli ambiziosi cortigiani che ronzavano intorno alla persona del Führer. Morì in un incidente aereo l'8 febbraio 1942 dopo un lungo incontro con Hitler nel quartiere generale di Rastenburg. Veniva da una ispezione in Ucraina nel corso della quale aveva assistito a fenomeni— la disorganizzazione dell'Intendenza e dei servizi sanitari, il basso morale delle truppe che lo avevano colpito e depresso. È molto probabile che abbia riferito le sue impressioni al Führer, ma su quell'ultimo colloquio non esiste documentazione. L'aereo in cui prese posto il mattino seguente esplose a 20 metri d'altezza, immediatamente dopo il decollo. Hitler sospettò un attentato e dette ordine che venisse istituita una commissione d'inchiesta. Ma sembra che l'aereo, come tutti quelli che svolgevano funzioni di corriere in prossimità del fronte, fosse dotato di un dispositivo per l'autodistruzione: una leva, collocata a fianco del pilota, che avrebbe provocato l'esplosione in pochi secondi. Albert Speer, successore di Todt, si limitò a ricordare nelle sue memorie che il predecessore, poco tempo prima, aveva depositato in una cassaforte una importante somma di denaro: era destinata a una sua fedele segretaria nell'eventualità della sua morte.

l'Unità 14.1.09
La squadra Wiesenthal
di Claudia Fusani


Franz, Luigi, Sandro, Alessandro: sono giovani tra i 30 e 40 anni. Chiamati dalla Procura militare di La Spezia, dal 2002 vanno a caccia di ufficiali nazisti responsabili degli eccidi compiuti in Italia nel 1944. In sei anni ne hanno scovati una quarantina. E hanno imparato la storia lavorando

Uno è stato recuperato che alzava sbarre al porto di La Spezia, Luigi Di Mari, guardia di Finanza. Il brigadiere Franz Stuppner guidava tranquillo la sua stazione dei carabinieri in Val Senales. Sandro Romano, anche lui dell’Arma, napoletano cresciuto in Germania, era al radiomobile di Bolzano. E così il maresciallo Alessandro Isgrò, pure lui mezzo siciliano e mezzo tedesco. Tutti, per un motivo o per l’altro perfettamente bilingue, la mattina del 15 dicembre 2002 si ritrovano in uno stanzone al piano terra della procura militare di La Spezia. Hanno tra i trenta e i quaranta anni. Li ha chiamati Marco De Paolis, pm della procura militare di La Spezia. Roma ha finalmente ordinato e distribuito tra le - allora - nove procure militari italiane i 695 fascicoli dell’armadio della vergogna, le indagini sulle stragi naziste compiute nel 1944 per lo più in Toscana e lungo la linea Gotica, il confine costruito con terrore e sangue e che andava dalla provincia di Massa sul Tirreno fino all’altezza di Rimini sull’Adriatico. A nord tedeschi e partigiani arroccati sulle montagne. A sud le truppe alleate. Improvvisamente, quella mattina del 15 dicembre, dopo quasi cinquant’anni di silenzio in nome della ragion di stato, quei fascicoli tornano a gridare e a pretendere di fare i conti con la verità e con la giustizia.
Franz, Luigi, Sandro, Alessandro nulla sanno di cosa raccontano quelle carte. Li ha convocati il colonnello Roberto D’Elia, il cacciatore del boia di Bolzano («Seifert è in carcere, ancora adesso, e ci resta, la giustizia arriva, prima o poi»), ha bisogno di una squadra che lavori a tempo pieno sui fascicoli. «Ricordo ancora – sorride Romano – che li guardai per dire ma voi siete pazzi. Era impossibile fare quelle indagini, ritrovare oggi il sottufficiale tedesco che nell’agosto del 1944 aveva scaricato a S.Anna un intero mitra su una bambina di due mesi…. Impossibile. Quella stanza era sommersa di polvere e immersa nella nebbia». La nebbia che si deposita quando si decide che un pezzo di storia va dimenticato.
Comincia così tra nebbie della storia e della memoria e polvere vera il primo giorno di lavoro del Pool multilingue di polizia giudiziaria militare addetto alle indagini sulle stragi naziste. Sono i nostri ‘piccoli’ Wiesenthal, cacciatori di ufficiali e sottufficiali nazisti. In sei anni ne hanno scovati una quarantina, qualcuno come Schiffmann, responsabile per la strage di S.Cesareo sul Panaro, è morto l’ultimo giorno del processo, per poche ore, a ottant’anni, ha mancato la sentenza che lo avrebbe condannato all’ergastolo.
Hanno tutti imparato la storia lavorando. «Non sapevamo nulla della Linea Gotica, delle stragi, di cosa è successo in quegli anni in quella parte d’Italia» raccontano oggi seduti intorno a un tavolo. La loro sede è a Bolzano, ma si dividono tra la procura militare di Verona e quella di Roma, nucleo ormai ridotto all’osso per uomini (quattro) e mezzi anziché essere valorizzato e protetto. «All’inizio eravamo scettici e anche distaccati, è roba vecchia, ci si diceva, saranno tutti morti, a chi interesserà mai. Poi però - aggiunge Stuppner – non siamo più riusciti a stare senza. È diventata come una droga, mesi e mesi di ricerche disperate, dalle otto del mattino fino a mezzanotte in ufficio a La Spezia e mesi e mesi in Germania, tra gli archivi di Berlino e quelli di Friburgo».
Tra settembre 1943 e il 1945 i tedeschi, indietreggiando lungo l’Italia che li aveva «traditi», uccisero migliaia e migliaia di persone, per lo più anziani, donne, bambini, parroci perché gli uomini era nei gruppi partigiani , almeno diecimila civili innocenti secondo i 695 fascicoli dell’armadio della vergogna. «Finchè ci sarà anche solo uno dei loro parenti che chiede di sapere chi ha ucciso» dice il colonnello D’Elia, «il nostro lavoro non deve finire». La verità storica pesa quanto quella giudiziaria. Scelte politiche e tagli alla Finanziaria permettendo.
«Indagini atipiche», Sandro Romano le chiama così. I nostri Cold case. Ogni indagine è cominciata con la lettura dei report dei Sib, le special investigation branch inglesi che risalivano l’Italia e ricostruivano appena possibile le stragi naziste. Luogo, data, numero dei morti, testimonianze sull’accaduto. Questo il materiale contenuto in ognuno dei fascicoli dell’armadio della vergogna che il pool ha cominciato a spulciare quella mattina del 15 dicembre 2002.
«Capiamo subito – racconta il colonnello D’Elia – che avevamo a che fare con dodicimila sadici pazzi, la famigerata Sedicesima divisione delle SS: case incendiate con all’interno persone vive; mitra scaricati su bambini di pochi mesi; gente sepolta viva e altri fatti saltare, da vivi, con cariche di esplosivo messe in tasca; altri impiccati con il filo spinato…». Le parole sono insufficienti per descrivere le foto d’epoca trovate nei fascicoli impolverati. Sono uomini grandi e grossi, ma molti di loro hanno perso il sonno in quelle carte.
Per procedere nell’indagine atipica occorre dare nome e cognome ai «dodicimila sadici» e dimostrare, sessant’anni dopo, che erano lì e in quel giorno. Costruire la prova. E qui bisogna dir grazie a quella arguzia e tenacia un po’ speciali che possono venir fuori mescolando un altoatesino con un napoletano. O un siciliano. «Diciamo che con molto impegno personale ci siamo aperti le porte del Paradiso, dal ministero della Giustizia tedesco alla procura generale, dalla Bka, la polizia federale, alla Lka, quella locale, altrimenti eravamo ancora ad aspettare di vedere una carta» sintetizza Romano. Il punto è che i tedeschi hanno archiviato ogni loro mossa. Bisogna solo trovare lo schedario giusto. La prima tappa è Friburgo, Kranchen buchlager, l’archivio militare che conserva tutte le mappe e i diari di guerra. Da qui si risale al Reparto in azione in quel luogo e in quella data, nomi, cognomi e gradi, e ai Rapporti giornalieri con il diario della giornata. La seconda tappa è Berlino, il Bundes archive, 180 milioni di atti conservati compreso l’elenco delle piastrine di ogni militare tedesco a partire dal 1939. «A quel punto confrontando – spiega Stuppner - fascicoli, libretti matricolari, ricoveri ospedalieri con feriti e morti, siamo arrivati all’elenco dei militari tedeschi coinvolti nelle stragi e ancora in vita». Romano ricorda soprattutto una cosa: «Uno degli archivi di Berlino era stata la sede delle SS, la storia tornava dove era cominciata. Abbiamo lavorato per quattro mesi in quelle celle gelide, i rapporti di Himmler, Goering, Hitler, abbiamo tenuto la realtà in mano, un puzzle da cinquantamila pezzi e alla fine abbiamo capito la vera storia capitata all’Italia».
Arriva la fase della ricerca degli indagati, atti di rogatoria condotti insieme all’autorità giudiziaria tedesca, in genere ottantenni pensionati in anonimi paesini tedeschi. All’emozione della storia tenuta tra le mani, subentra lo choc di incontrare persone affatto preoccupate dalla giustizia che li viene a cercare sessant’anni dopo, sicure di sé, della loro impunità, certi che la Germania ha già prescritto tutto, «protetti da una rete molto ideologizzata di mutua assistenza legale». Anziani gerarchi che rivendicano tutto e ridono in faccia agli investigatori italiani. «Uno interrogato in una stazione di polizia – ricorda Stuppner – mi disse urlando che lo stavo offendendo perché se non c’erano lui e le SS io adesso non sarei stato un poliziotto e il procuratore non sarebbe stato un magistrato. Lui ci aveva dato la libertà e noi lo accusavamo, sessant’anni dopo. Era fuori di sé». Un imputato austriaco per la strage di S. Anna di Stazzema si alzò in tribunale urlando: «Se la Germania mi chiama io vado anche ora». A Baden-Baden un ufficiale indagato e interrogato s’arrabbiò: «Io non sono un ex delle SS e lei (il brigadiere Romano ndr) non mi faccia domande stupide su cosa abbiamo fatto in quei giorni: abbiamo eseguito ordini». Il giudice tedesco lo ha punito con mille euro di multa per oltraggio a pubblico ufficiale. Facce e storie che si rincorrono nella memoria del pool con brividi diversi. «Un teste tedesco non voleva collaborare. Il figlio che era magistrato, volle essere presente all’interrogatorio e non sapeva nulla del passato militare del padre. Quando capì, supplicò il padre di parlare. Il vecchio tacque, comunque, evitando di diventare agli atti un traditore dei suoi commilitoni e un assassino per il figlio. Non scorderò mai quella faccia». Per non parlare di un altro indagato per la strage di Civitella che negava di essere coinvolto anche perché non aveva mai avuto il grado come risultava dai rapporti. Aveva 86 anni, era arrivato senza bastone e non aveva chiesto soste in dieci ore di interrogatorio. Alla fine Stuppner lo incastra con la domanda della pensione trovata in archivio da dove risultava il grado. Il pool capisce di aver fatto la cosa giusta accettando di andare a vedere in quella «nebbia» della storia, via via che incontra i parenti delle vittime. Lo scetticismo e la diffidenza iniziale di gente che per decenni era stata ignorata e che ora veniva sentita da giovani che nulla sapevano di loro, donne di 80 anni che mostrano ferite, ex bambini sopravvissuti perché nascosti da qualche parte che hanno visto le loro famiglie sterminate e che ricordano ogni dettaglio, persino le voci. «La memoria di certi ex bambini ha fatto venire i brividi a molti» racconta il colonnello D’Elia. «Abbiamo sofferto con loro» aggiunge Romano. Stuppner ricorda l’aula alla sentenza per la strage di S.Anna di Stazzema: «Silenzio, compostezza, nessun urlo, nessun odio. “Oggi siamo rinati” mi disse una persona. “Adesso posso morire in pace” disse un’altra». Una storia a parte andrebbe dedicata ai sacerdoti e ai parroci che si sono fatti uccidere anche solo per ritardare la morte di altri.
In nome di tutte queste persone e di tutti quelli che vogliono sapere e ricordare, il lavoro del pool non può finire. Decine di stragi sono state archiviate per pigrizia: anche se sono morti gli ufficiali nazisti c’è comunque la necessità di scrivere le cronache di quei giorni lungo la linea Gotica e di mettere a posto i pezzi del puzzle. Quante di queste stragi potevano essere evitate? «Abbiamo sentito come testimoni ex camicie nere, uomini ma anche donne che avevano relazioni con i tedeschi, persone che conducono una vita insospettabile e che ci hanno pregato di non rivelare niente a nessuno» racconta D’Elia.
Ieri a Roma è cominciato il processo a dieci gerarchi nazisti accusati di omicidio e violenze: in una settimana, tra il 19 e il 24 agosto 1944 hanno ucciso, sotto gli ordini del maggiore Reder e del tenente Fischer, più di 400 persone in una dozzina di paesini della Lunigiana. In aula ci sono solo i parenti delle vittime. Ma l’udienza è stata dichiarata aperta «in nome del popolo italiano». Della sua memoria.

l'Unità 14.1.09
Così la politica perseguitò Einstein e la relatività
di David Kaiser


Tutto relativo. La sua teoria veniva piegata agli interessi delle potenze, in Europa e in America
Nel mirino. Controllato dall’Fbi, «proibito» dai nazisti e poi «usato» durante la guerra fredda

Ecco come le esigenze della politica si attorcigliarono su uno dei più grandi scienziati di tutti i tempi, Einstein. Ce ne parla David Kaiser, del quale anticipiamo stralci della «lezione» che terrà al Festival della Scienza.

Abbiamo la tendenza a pensare che Albert Einstein fosse un solitario, un uomo che evitava il trambusto della vita di tutti i giorni preferendo la tranquilla contemplazione. A dispetto di questa immagine familiare ai più, Einstein si è occupato molto di politica durante tutto il corso della sua vita. Socialista e pacifista convinto, si è impegnato instancabilmente nel campo dei diritti civili, per il controllo civile dell’energia atomica e per correggere gli eccessi dell’anticomunismo. Di fatto fu attivo politicamente al punto che l’Fbi lo tenne sotto stretta sorveglianza per decenni redigendo un rapporto segreto di 2.000 pagine sulle sue attività politiche. Anche il più importante e duraturo contributo scientifico di Einstein - la teoria generale della relatività, vale a dire il modo in cui i fisici spiegano la gravità e il fondamento di quasi tutte le nostre teorie sul cosmo - è stato considerato alla stregua di un grande, austero tempio estraneo ai drammi politici fin troppo umani della storia moderna. Ma era davvero così? Come il suo autore, anche la teoria di Einstein era profondamente inscritta negli avvenimenti politici.
Einstein dedicò dieci anni di lavoro alla teoria prima di scoprire le equazioni che mettono la curvatura dello spazio e del tempo in relazione con la distribuzione della materia e dell’energia. Secondo la nuova concezione di Einstein, la gravità altro non era che geometria; con buona pace per Newton, Einstein dichiarò che non esisteva alcuna «forza» di gravità, ma esisteva solo la deformazione elastica dello spazio-tempo. La forma definitiva delle sue equazioni venne alla luce in una serie di pubblicazioni ravvicinate nel novembre del 1915 in piena prima guerra mondiale. La guerra esercitò un profondo effetto sul modo in cui gli scienziati vennero a conoscenza del lavoro di Einstein. Uno dei primi adepti fu il matematico russo Vsevolod Frederiks, che allo scoppio della guerra studiava a Gottinga. Poco dopo aver seguito una conferenza di Einstein sul suo nuovo lavoro, il matematico russo fu internato come prigioniero civile di guerra. Alla fine della guerra fu rilasciato ed estradato nella natia San Pietroburgo. Frederiks fu il primo scienziato russo a tenere corsi sulla teoria di Einstein e contribuì a formare una intera generazione di esperti in gravitazione. (...)
La guerra condizionò anche la diffusione della teoria di Einstein in Occidente. Alcuni degli amici più intimi e degli ex studenti di Einstein lavoravano a Leiden. Anche dopo lo scoppio della guerra Einsten affrontò diverse volte il lungo viaggio per arrivare a Leiden al solo scopo di discutere del suo lavoro - viaggi resi possibili dal fatto che l’Olanda era ancora un Paese neutrale. Ma la guerra aveva troncato tutti i contatti diretti tra gli scienziati in Gran Bretagna e in Germania. Gli scienziati britannici, come ad esempio Arthur Eddington, vennero a conoscenza del lavoro di Einstein solo tramite i colleghi di Einstein a Leiden. Uno di loro, Willem de Sitter, inviò a Eddington una copia delle carte di Einstein (c’era l’embargo sui giornali) e scrisse per Eddington e i suoi colleghi alcuni lunghissimi manuali in inglese. Il corso di fisica della relatività a distanza funzionò e con il tempo e un certo impegno Eddington divenne il più profondo conoscitore in Gran Bretagna della teoria della relatività.
GUERRA E SCIENZA
Anche in questo circostanza la guerra svolse un ruolo nella diffusione della teoria accelerandone invece che rallentandone la diffusione. Eddington, che era un quacchero, durante la guerra fu un tenace obiettore di coscienza. I suoi superiori insistettero sul governo affinché gli fosse permesso di dedicare il servizio civile obbligatorio alla preparazione di una spedizione per studiare una eclissi (...). I posti migliori per osservare la nuova eclissi erano lontani dai campi di battaglia europei e quindi Eddington riuscì ad evitare il destino che era toccato in sorte a Freundlich. Una equipe (guidata da Eddington) arrivò nella minuscola isola di Principe, al largo della costa occidentale dell’Africa, mentre l’altra osservò l’eclissi dal Brasile. Quasi esattamente un anno dopo l’armistizio che aveva messo fine alla prima guerra mondiale, Eddington annunciò dinanzi ad un folto pubblico riunito a Londra che le osservazioni sulla eclissi suffragavano la previsione di Einstein: la gravità aveva curvato la traiettoria della luce stellare.
Nel giro di 24 ore Einstein divenne una star internazionale. Il tripudio fu ancora più sensazionale in quanto una equipe scientifica britannica aveva verificato la teoria di uno scienziato tedesco in un momento in cui gli scienziati dei due Paesi non potevano ancora incontrarsi di persona alle conferenze internazionali. Einstein colse lo strano intreccio tra scienza e politica quando spiego ad un giornalista del Times di Londra: «In Germania oggi mi considerano uno “scienziato tedesco” e in Inghilterra un “ebreo svizzero”. Se domani dovessi diventare una bete noire (bestia nera, ndt) la realtà si rovescerebbe e diventerei un “ebreo svizzero” per i tedeschi e uno “scienziato tedesco” per gli inglesi».
arrivano i nazisti
La sfortunata situazione si verificò prima di quanto Einstein avesse immaginato. A partire dal 1920, i primi sostenitori del nazismo cominciarono ad organizzare in tutta la Germania imponenti manifestazioni anti-Einstein. A guidare questo movimento c’erano due Nobel tedeschi per la fisica che attaccarono il lavoro di Einstein giudicandolo anti-ariano nello spirito. Tutti i veri ariani - sostenevano - si erano resi conto della «forza» presente nelle loro ossa lavorando la terra. Nessuno sarebbe stato così rammollito da eliminare il concetto di forza come aveva fatto Einstein. I due scienziati attaccarono Einstein su due fronti: condannarono il lavoro di Einstein per il fatto di essere ripugnante per la sensibilità ariana e, al tempo stesso, perché il più famoso risultato di Einstein - la curvatura della traiettoria della luce stellare ad opera di un corpo di notevole massa come il sole - era stato rubato ad un vero ricercatore ariano ed era in sostanza frutto di un plagio.(...)
Nel 1933, subito dopo la loro ascesa al potere, i nazisti proibirono l’insegnamento della fisica di Einstein in tutto il Reich. L’interesse nei confronti della teoria di Einstein scemò in tutto il mondo, persino in luoghi molti lontani dall’influenza nazista. Intorno alla metà degli anni ’30 la maggior parte degli scienziati convennero sul fatto che alla maggior parte delle domande «semplici» era stata data risposta e che qualunque altra domanda si sarebbe rivela troppo difficile per avere risposta o troppo remota dal resto della fisica per meritare un approfondimento. Appena un decennio dopo che Einstein era stato accolto con grandi onori e che le pubblicazioni sulla sua teoria erano apparse a centinaia ogni anno, l’interesse crollò ai livelli precedenti la spedizione per l’osservazione dell’eclissi.
Dopo aver vivacchiato ai margini del mondo scientifico per una ventina d’anni, la teoria ricominciò a suscitare un modesto interesse da parte di pochi negli anni 50. A quell’epoca una seconda guerra mondiale aveva modificato la situazione della ricerca nel campo della fisica stabilendo nuovi rapporti tra i fisici e i vari finanziatori. Negli Stati Uniti un eccentrico milionario di nome Roger Babson creò una nuova fondazione per contribuire al progresso della ricerca sulla gravità. (...)
La seconda guerra mondiale consentì diversi altri sviluppi nello studio della teoria di Einstein. (...) Anche gli armamenti fecero la loro parte. Gli scienziati riciclarono idee e tecniche che facevano parte dei progetti della nuova bomba all’idrogeno degli anni 50 - armi nucleari molte volte più devastanti delle bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki alla fine della seconda guerra mondiale - per far compiere progressi all’astrofisica relativistica. (...)
In tutti questi modi la stupenda teoria di Einstein conobbe alti e bassi seguendo le maree della poltica. Nata in tempo di guerra, la teoria della relatività generale continuò ad essere influenzata da questioni di rilevanza mondiale: prima dai suoi detrattori nazisti e in seguito da una nuova generazione di ricercatori che operavano nel clima della guerra fredda.

Traduzione di Carlo Antonio Biscotto - http://web.mit.edu/dikaiser/www/

Repubblica 14.1.09
Quel che resta del futurismo
L'avanguardia che innervosì il '900
di Achille Bonito Oliva


Figli di quell´onda lunga sono anche Burri e Fontana Schifano e Warhol Bill Viola e Gehry
Una rivoluzione spesso appannata dai comportamenti degli stessi futuristi
Il manifesto fu pubblicato sulla "Gazzetta dell´Emilia" il 5 febbraio del 1909 e poi su "Le Figaro". Velocità e azione le parole d´ordine. Ma fra gli esiti ci fu anche il fascismo

Sicuramente tra tutte le Avanguardie il Futurismo è stato il movimento più nervoso del Novecento, un secolo nervoso per eccellenza. Si evince dal primo manifesto di Filippo Tommaso Marinetti, pubblicato il 5 febbraio 1909 sulla Gazzetta dell´Emilia, e apparso il 20 febbraio sulle pagine del quotidiano francese Le Figaro, che esplode come una violenta deflagrazione sullo sfondo di un´Italia contadina e analfabeta, ancora abbondantemente assopita tra scampoli e retaggi di una cultura tardo-romantica, ottocentesca. Velocità, dinamismo, azione, modernità, il mito della macchina e del progresso, insieme al disprezzo per la tradizione e l´accademismo, costituiscono i nuovi valori dello Sturm und drang, impeto e assalto, futurista: per il rinnovamento della società italiana e il superamento delle vecchie ideologie attraverso l´impiego massiccio e bulimico del manifesto, forma di militarizzazione della parola usata come proclama e dichiarazione di guerra contro il mondo passatista.
Accanto a Marinetti, vero e proprio deus ex machina del movimento, compaiono sulla scena Balla, Boccioni, Carrà, Severini, Russolo, che attribuiscono al movimento, concepito originariamente come letterario, una propria concreta fisionomia artistica. Tra il 1910 e il 1914 vedono la luce, solo per citare alcuni fondamentali scritti, il Manifesto dei pittori Futuristi, il Manifesto dei Musicisti Futuristi, Il Manifesto della Scultura Futurista e il Manifesto della Scultura Futurista. I proclami di Marinetti si susseguono con intensità crescente, fino a inondare, con la tipica verve linguistica e lo spirito pungente che caratterizza la formazione, ogni aspetto del vivere civile e ogni forma di espressione artistica: dal romanzo al teatro, dalla poesia alla danza, dalla fotografia all´architettura, dal cinema alla moda, dalla radio al design, dalla tipografia alla musica, dalla cucina alla politica, al concetto di donna e quello di amore, approdando, in un documento stilato a quattro mani da Balla e Depero, all´estrema ipotesi di una Ricostruzione futurista dell´Universo.
Nel tentativo di agguantare la vita e di trasformarla attraverso l´arte, il Futurismo si fa nervoso, "caffeina d´Europa", nei suoi manifesti sprizza insonnia, impazienza, irruenza, vitalismo, superomismo, conflittualità. Fino a cadere sciaguratamente nelle braccia del Regime, nell´impossibile tentativo dell´immaginazione al potere attraverso l´estetizzazione della politica e del quotidiano.
La rivoluzione linguistica del Futurismo spesso è stata appannata dagli stessi artisti per uno stile di vita e comportamenti politicamente scomodi e inaccettabili (l´adesione al Fascismo fino alla sua fine) e rimossa dalla critica fino agli anni sessanta.
I manifesti futuristi senza dubbio esprimono principalmente idealità di comportamento, indicate attraverso pubblici proclami e poi magari contraddetti nel quotidiano e nella propria vita privata.
Il superamento di ogni modica quantità, l´amore per il pericolo e l´azzardo, l´apologia della macchina e dell´industria, la pubblicazione del primo Manifesto su un quotidiano della città più cosmopolita d´Europa, ci segnalano una modernissima ansietà di comunicazione: oltrepassare il recinto del linguaggio e bucare l´immaginario collettivo di una società di massa magari disattenta.
È facile fare i conti con le Avanguardie storiche. Insonnia futurista contro sogno surrealista, vitalismo contro platonismo dell´astrazione, esplosione contro scomposizione cubista, nichilismo attivo contro anarchia dadaista, euforia contro lamento espressionista. D´altronde anche Antonio Gramsci si pose la domanda sull´onda anomala del Futurismo: «Marinetti rivoluzionario?» (Ordine Nuovo, 5 giugno 1921). Gramsci scriveva: «I futuristi hanno svolto questo compito nel campo della cultura borghese: hanno distrutto, senza preoccuparsi se le nuove creazioni, prodotte dalla loro attività, fossero nel complesso, una opera superiore a quella distrutta: hanno avuto fiducia in sé stessi, nella foga delle energie giovani, hanno avuto la concezione netta e chiara che l´epoca nostra, l´epoca della grande industria, della grande città operaia, della vita intensa e tumultuosa doveva avere nuove forme di arte, di filosofia, di costume, di linguaggio: hanno avuto questa concezione nettamente rivoluzionaria, assolutamente marxista».
Smentita tragicamente tale asserzione sul piano politico, la si può confermare invece su quello culturale e condividere la sentenza finale dell´articolo di Gramsci: «I futuristi, nel loro campo, nel campo della cultura, sono rivoluzionari».
Visto che è l´anniversario, a cento anni dalla sua nascita, chiediamoci: che cosa è rimasto del Futurismo, fino a dove è arrivato il suo tsunami? Sicuramente il Futurismo è stata un´onda lunga che ha investito sul piano della sperimentazione linguistica molte generazioni di artisti. Pensiamo al polimaterismo di Alberto Burri e di Robert Raushenberg, al continuum spazio-temporale del taglio di Fontana, alla pittura urbana di Stuart Davis, alla Pop Art americana, alla velocità pittorica di Schifano e al dandismo di massa di Warhol, all´eclatanza iconografica di Cattelan, alla multimedialità di Kentridge, ai video di Bill Viola, all´energia dei materiali nell´Arte povera con la sua discesa dalla parete e l´occupazione dello spazio quotidiano, ai linguaggi pittorici figurativi di Chia e a quelli astratti di Nicola De Maria nella Transavanguardia, alla musica concreta, elettronica e a quella di Cage, agli ologrammi di Bruce Nauman, all´happening e alle azioni di Fluxus, a Dan Flavin, a Frank Gehry. E che dire della pubblicità, dei videoclip di Michael Jackson, dei graffiti di Basquiat , ed infine della "nouvelle cousine" di Ferran Adrià che ha introdotto un´attenzione chimica nell´elaborazione di nuovi piatti?
Ma sicuramente l´ansietas della comunicazione è la grande eredità del Futurismo, interamente puntata sul mondo, al limite del fondamentalismo estetico e proclamata quasi sempre a volume alto, nell´impossibile tentativo di dare un presente immediato al nostro futuro.

Repubblica 14.1.09
Le riserve dell´artista russo sui futuristi
Kandinsky, l´arte è sacra
di Vassilij Kandinsky


Kandinsky a Franz Marc (Sui Futuristi) 1908.«La teoria è una cosa ma il �talento´ è cosa ben diversa. Nella musica il talento è normale, un dato certo: raramente l´artista li comprende entrambi; per esempio Schoenberg. Inoltre i "manifesti" completi ...sono disordine senza precedenti, che apparentemente può svilupparsi solo dalle teste degli italiani. Molto più concretamente, invece, i nostri manifesti risultano essere sempre organici e più costruttivi. Insomma, l´arte è oggettivamente una cosa sacra di cui non si può disporre in modo così superficiale. E i futuristi giocano pericolosamente con le idee più importanti che si affacciano oggi nel dominio dell´arte, prendendole un po´ qui e un po´ là. Tutto ciò senza ponderazione, senza riflessione. Sono così superficiali...».
A Franz Marc (Su van Gogh) 1913
«che dire sulla nuova arte? L´unica, nuova e interessante forma d´arte, veramente viva, è rappresentata dalle opere di un giovane olandese che qualche volta ho incontrato. Si tratta di un certo van Goghï».
A Herwarth Walden (Sui Futuristi e sulla linea)
«Le loro opere sono composizioni accademiche. Ciò si evince anche dalla disposizione schematica che troviamo nei musei. E ciò fa capire, anche, quanto poco i musei abbiano compreso dei futuristi. I musei concorreranno a confondere le idee. Questo schematismo, li pone in una erronea dimensione, cosa che nessun maestro può permettere... La linea ha da sempre rappresentato per me una domanda davvero difficile intorno al dominio dell´arte. Ha costituito momenti di dubbio, fatica. I miei occhi sono severi. La spensieratezza, la leggerezza e la fretta sono caratteristiche fondamentali per molti artisti oggi. In ragione di ciò credo, anzi sostengo fortemente che i futuristi abbiano rovinato ciò che in loro poteva esserci di buono».
Le lettere inedite sono tratte dal catalogo di "Illuminazioni" (Electa, a cura di Ester Coen), traduzione e cura di Francesca Bolino

Repubblica 14.1.09
Un testo raro di Piero Gobetti sul fondatore del movimento
"Marinetti? insulso"
di Piero Gobetti


Chi conosce Marinetti ha l´impressione di un uomo impotente a riflettere. Non può vivere che di rumori e di trovate insulse. La sua più grande scoperta artistica è il teatro di varietà, la sua religione il tattilismo. Ma toglietelo dal palcoscenico, sottraetelo agli artifici delle luci e trovare un debole, un minorato. Nulla di più penoso che un colloquio con Marinetti da solo a solo. Non ha niente da dirvi: i suoi silenzi danno un senso di disagio e di pietà.
Egli ha bisogno degli intona-rumori, della grancassa, di un codazzo di adulatori pacchiani e di servi zelanti che gli facciano da coro, che lo sollevino dalla sua povera malinconia, che lo aiutino ad esaltarsi. Ecco il segreto della sua banda: essa gli dà una garanzia di continuità della sua mistificazione.
Non è successo altrove che gli armati gregari sostituissero la fede assente? Corte e pretoriani, umanisti e camicie nere furono sempre consolatori e custodi dei regimi improvvisati con arte e difesi contro i pretendenti.
Così è del pari lo stile di Marinetti. I Manifesti, scritti in linguaggio cristiano, mostrano la vivacità dell´orso che balla, e più la tenace pedanteria di un professore tedesco. Sono insistenti, noiosi, divisi in capitoli e in paragrafi, scolastici come un catechismo, schematici come un trattato. Quando poi egli si abbandona all´onda del lirismo, allora le parole in libertà, le proposizioni asintattiche, ritraggono la sua anima vuota e sconnessa, le sue doti di osservatore semplicista, devoto al più grossolano impressionismo, incapace di una continuità lirica e di una personalità grammaticale. (...)
Quando l´arte è così vicina alla politica; quando gli intona-rumori diventano da un giorno all´altro squadristi; come non pensa il Duce ad assicurarsi da un pretendente? La rappresentazione non potrà mutarsi all´improvviso in comizio? Non bisogna dimenticare che Marinetti è rimasto anticlericale, antimonarchico. Non ci darà egli il superfascismo?
Brano tratto dall´"Opera Critica"

Repubblica 14.1.09
I limiti di un movimento che si propose come rivoluzionario
L'oscurantismo del nuovo
di Mario Perniola


È noto che il grande scrittore giapponese Mori Ogai tradusse in giapponese il Manifesto del Futurismo di Marinetti, uscito sul giornale francese Le Figaro il 20 febbraio 1909, poche settimane dopo la sua pubblicazione. Meno noto è invece che la sua versione adoperò caratteri d´origine cinese rari e già allora caduti in disuso. Più o meno inconsciamente, egli si attenne alla strategia di modernizzazione adottata dal Giappone nel 1868, secondo cui questa deve avvenire attraverso una conciliazione tra il nuovo e il vecchio, senza che i due termini opposti vengano mai a conflitto. Paradossalmente un testo estremamente iconoclastico e sovversivo, che anticipa lo stile spettacolare e violento della pubblicità e della comunicazione massmediatica attuale, era trasformato in qualcosa la cui comprensione richiedeva la conoscenza del passato.
Questo curioso episodio è per noi molto significativo perché ci induce a riflettere sulla china autodistruttiva e devastatrice presa dalla mentalità occidentale, quando ha cominciato a credere che il nuovo fosse per definizione migliore del vecchio. Tale convinzione, le cui origini affondano nel Barocco e nella sua esaltazione della meraviglia come precetto estetico primario, ha trovato il suo culmine nel Novecento, che appunto è stato il secolo futuristico per eccellenza. Nel momento in cui la maggior parte del mondo si trova dinanzi alla necessità di modernizzarsi per non essere ancora una volta colonizzato dall´Occidente, vale la pena di mettere in dubbio il pregiudizio futuristico, secondo il quale la novità, solo perché tale, è a priori superiore a ciò che è già conosciuto e sperimentato. Ora non si tratta in nessun modo di sposare il tradizionalismo e il passatismo, ma soltanto di chiedersi come la versione traviata della modernità e del progresso, sostenuta da Marinetti con «violenza travolgente e incendiaria» (secondo le parole del suo Manifesto) sia potuta diventare egemonica, relegando nelle anticaglie e nei vecchiumi non solo il sapere, ma perfino la coerenza e la logica.
Giova sottolineare che questo tralignamento non è affatto una conseguenza del pensiero moderno. Il Rinascimento è stato in tutte le sue manifestazioni un ritorno alla cultura antica e della sua concezione del mondo. Anche la Riforma si è configurata come un ritorno alle fonti della religiosità. Quanto alle Rivoluzioni politico-sociali per eccellenza, quella americana e quella francese, esse iniziarono come restaurazioni "dell´antico ordine di cose" contro i soprusi del governo coloniale inglese e contro il dispotismo della monarchia francese. Marx esortava a non considerare Hegel come un "cane morto" e la psicoanalisi è basata sui miti dell´antica Grecia. Perfino Guy Debord, che passa come uno dei più radicali ispiratori della contestazione studentesca del Sessantotto, è intriso di cultura classica e non è mai venuto meno nella sua vita come nei suoi scritti al "grande stile" degli antichi e dell´animatore della Fronda, de Retz.
Il futurismo è stato una forma di oscurantismo al massimo grado aggressivo, che ha contagiato per tutto il Novecento tutti i movimenti di massa e fuorviato non pochi leader politici. Oggi, la sua eredità mi sembra che si manifesti soprattutto nell´antipolitica del "Vaffanculo!", la quale costituisce un fenomeno molto differente dal populismo, dal qualunquismo e dal moltitudinismo: questa è connessa più con la bolla futuristica derivante dall´uso aberrante di Internet che con qualsiasi tipo di ideologia. Al neofuturismo degli "incazzati in pigiama" è ancora preferibile il "no future" del movimento Punk

Corriere della Sera 14.1.09
Storie Esce domani «Il lamento del prepuzio», che la critica americana ha avvicinato a Groucho Marx e Roth
Una risata per salvarci da Dio
Le irriverenti memorie di Shalom Auslander: scrivo su consiglio dello psichiatra
di Livia Manera


«Quand'ero bambino — racconta Shalom Auslander nel più irriverente memoir degli ultimi anni a cominciare dal titolo, Il lamento del prepuzio
— i miei genitori e i miei insegnanti mi raccontavano di un uomo che era molto forte. Mi dicevano che era capace di distruggere il mondo intero. Mi dicevano che era capace di sollevare le montagne. Mi dicevano che era capace di dividere le acque del mare. Era importante che tenessimo quell'uomo di buon umore. Quando obbedivamo ai suoi comandamenti, gli eravamo simpatici. Gli eravamo così simpatici che uccideva chiunque non ci amasse. Ma quando non obbedivamo ai suoi comandamenti, non gli eravamo simpatici. Ci odiava. Certi giorni ci odiava tanto da ucciderci; altri giorni lasciava che ci uccidessero altri. Noi chiamiamo questi giorni "giorni di festa". Purim è quando cercarono di ucciderci i persiani. Pesach è quando cercarono di ucciderci gli egiziani. Chanukah è quando cercarono di ucciderci i greci».
Così comincia Il lamento del prepuzio, da domani in libreria per Guanda (pp.
268, e 15,50, traduzione di Elettra Caporello), il libro più polemico e blasfemo sul rapporto tra gli uomini e Dio ad arrivare in libreria dopo Dio non è grande di Christopher Hitchens, solo molto più spiritoso, ancora più arrabbiato e soprattutto più tragico. Ed esattamente così, spiritoso, arrabbiato e tragico nella sua vulnerabilità, appare il trentaduenne Shalom Auslander di Monsey, Stato di New York: lo scrittore più «teologicamente abusato » d'America (che la critica ha avvicinato a Groucho Marx e Philip Roth), il figlio di una coppia di ebrei ortodossi così autoritari (padre falegname, madre casalinga) che alla domanda «Che cosa avrebbe fatto se non avesse scritto queste memorie?» — consigliate da uno psichiatra — risponde: «Sarei morto».
E dopo aver spiegato di aver dovuto troncare ogni rapporto con la famiglia, spiega: «Mi sarei ammazzato, senza ombra di dubbio. Dieci anni fa ci sono arrivato veramente vicino. La sola ragione per cui mi sono rivolto a uno psichiatra è che avevo una moglie che amavo, e ho pensato: glielo devo. Altrimenti, suicidarsi è la sola soluzione sensata quando hai la testa piena di cose che rendono ogni momento della tua vita insopportabilmente doloroso ». Salvo aggiungere con un sorriso malizioso: «È anche il più grande atto di ribellione contro un Dio che può controllare tutto tranne quel gesto. Per questo ti insegnano fin da piccolo che il suicidio è il peccato più grave di tutti ».
Prima di diventare una celebrità grazie alla radio e al «New Yorker» che hanno anticipato Il lamento del prepuzio
scatenando un polverone («Ho ricevuto centinaia di e-mail d'odio e di minacce. Fortuna che quando il libro è uscito e la gente lo ha letto, si è accorta che non l'ho scritto per sostenere che la religione ebraica è terrorizzante e abusiva, ma che così è stata insegnata a me»), Shalom Auslander scriveva pezzi comici per «Harper's» («l'umorismo è l'unica cosa che renda la vita sopportabile »), racconti (la raccolta Beware of God) e lavorava in pubblicità, nascosto con la moglie Orly nei boschi di Woodstock, il più lontano possibile dal suo ambiente d'origine, «dove era proibito mangiare carne di vitello insieme ai latticini. Per cui se uno aveva mangiato del vitello, gli era proibito mangiare latticini per sei ore; e se aveva mangiato latticini, non poteva mangiare vitello per tre ore. E a tutti era proibito mangiare maiale, almeno fino all'avvento del Messia, giorno in cui i malvagi sarebbero stati puniti, i morti sarebbero risorti e i maiali sarebbero diventati kosher».
Nell'attesa di tutto ciò, Shalom cresce cercando di schivare i pugni di suo padre e le polpette consolatorie di sua madre, studiando alla Yeshiva e introiettando insegnamenti minacciosi come «l'uomo pianifica, dicevano i miei genitori, e Dio ride», nella consapevolezza che per sua madre «guidare l'automobile di Shabbat è finire il lavoro che Hitler ha cominciato», che per un uomo come suo padre ogni nemico è un nazista. E che siccome in una sola eiaculazione muoiono cinquanta milioni di spermatozoi (come gli spiegano quando raggiunge la pubertà) ogni volta che Shalom si masturba «fanno circa nove olocausti, il che mi rendeva colpevole di genocidio dalle tre alle quattro volte al giorno».
Altre tentazioni peccaminose per un giovane ortodosso sono la pizza non kosher, i marshmallows e gli hamburger di McDonald. E Il lamento del prepuzio continua nel racconto di una perdizione adolescenziale fatta di orge di cibo non kosher, giornali pornografici e spinelli, fino al momento in cui l'autore s'innamora, si sposa e scopre che sta per diventare padre. «E a quel punto ho cominciato a pensare a me stesso come a Mosè che porta in salvo gli ebrei ma muore prima di arrivare alla Terra Promessa. E a dirmi: forse non mi libererò mai di questo Dio vendicativo che si è avvinghiato ai miei anni formativi, ma posso portare mio figlio a una Terra Promessa dove non c'è alcun Dio. Ed è questo il vero argomento del mio libro».
Un'ode all'agnosticismo, dunque. Peccato che malgrado non sia più osservante, Shalom Auslander sia rimasto «penosamente, straziatamente, incurabilmente, miserabilmente religioso », il che alla luce di quanto ha raccontato finora significa che vive nel terrore che Dio si vendichi di questo suo imperdonabile libro.
«Quindi ti prego, Dio — scrive nella pagina finale che di solito gli autori dedicano ai ringraziamenti — non uccidere mia moglie a causa di questo libro. Non uccidere mio figlio e non uccidere i miei cani. Se devi per forza uccidere qualcuno, uccidi Geoff Kloske alla Riverhead Books (il suo editore
ndr). Uccidi David Remnick del "New Yorker", e uccidi Carin Besser, che è qui in fondo al corridoio... e se voi uccidi anche Craig Markus (che ha disegnato la copertina ndr) ... ma non uccidere me. E non uccidere Orly. E non uccidere nostro figlio. Dopotutto è solo un libro!».

Aprile on line 14.1.09 17.06
Rifondazione, continua lo scontro
di Marzia Bonacci


Rifondazione, continua lo scontro Politica Il segretario Ferrero sostiene che la scissione vendoliana "si poteva evitare" se la minoranza avesse accettato l'esito del Congresso "che ha visto vincere il rilancio del Prc". Indica infine nell'esperienza del governo e della presidenza della Camera di Bertinotti i due grandi errori. Per il lider maximo invece la sinsitra si salva solo con un "big bang". Cominciano i primi esodi a livello locale degli scissionisti

Dice di aver evitato la scissione degli ex bertinottiani in tutti i modi, così come di aver offerto una possibilità, poi tradita, al direttore di Liberazione, destituito a inizio settimana e già rimpiazzato dal sindacalista bresciano della Cgil Dino Greco e dal giornalista Fulvio Fania. Il segretario del Prc Paolo Ferrero è tornato a parlare della situazione vissuta dal suo partito ai microfoni di Red-azione intervistato dal vicedirettore de L'Unità Pietro Spataro.
"Avevo chiesto a Sansonetti un giornale di tutti, ma lui è un ultra di Vendola": spiega così la decisione della sua segreteria di rimuovere il direttore del giornale comunista. Una decisione che trova poi giustificazione, come va ripetendo da tempo, anche nella condizione vissuta dalle casse del partito e della testata, di cui il primo è proprietario. Almeno per il momento, perché la trattativa per venderla all'editore fagiolino Bonaccorsi pur essendo ancora in ballo, si fa comunque sempre più concreta. "Liberazione vende poco e c'è un buco finanziario", ha infatti aggiunto il segretario.
Sull'esodo dei giordano-vendoliani -che si riuniranno il 24 a Chianciano per stabilire modi e tempi della loro uscita e che saranno in piazza ad Assisi per manifestare in sostegno della pace in Medioriente mentre il Prc ha aderito all'appuntamento di Roma-, Ferrero si è detto convinto che "si poteva evitare". Certo se solo si fosse rispettato, da parte degli ex bertinottiani, quanto stabilito dall'assise estiva del partito, che "ha visto vincere il rilancio del Prc" e non l'ipotesi di un suo superamento, a cui invece guardano i compagni della minoranza in uscita. Gli stessi che secondo Ferrero "stanno tentando di imporre, tramite forzature, quello che non è accaduto democraticamente al congresso". Con modalità che non gli piacciono e che riassume come "continua denigrazione e falsificazione per dipingere Rifondazione nella maniera peggiore possibile". Ovviamente la sua Rifondazione, quella che ha visto la prevalenza della mozione da lui animata insieme a Claudio Grassi.
Poi rivolge lo sguardo profeticamente al futuro, con la coscienza che la sfida che si è posto non è semplice. Potrebbe infatti "rimanere un generale senza truppa", cosicché alla fine sarebbe "come se il congresso l'avesse vinto Vendola". Quello che dunque l'attende, ammette, "è una battaglia difficile", soprattutto perché "se fallisce, fallirò io". La corsa in autonomia del Prc, il suo rivolgimento suo stesso per rilanciarsi, non è missione semplice. Ma Ferrero si dice comunque "abbastanza tranquillo". Dunque nessun passo indietro, nessuna revisione della linea politica.
E se guarda al futuro, non risparmia di analizzare il passato. E quando si affronta questo tema, dentro Rifondazione, non si può prescindere da chi ne è stato protagonista per oltre 14 anni. "Fausto ha fatto uno strano percorso", dice Ferrero, ma l'errore principale risiede "nelle mosse di Governo, con lui alla presidenza della Camera". Detto dall'unico ministro comunista nell'esecutivo Prodi, penseranno in molti, ha del discutibile. Altro errore di quella stagione, prosegue, è stato quello di aver fatto un programma di più di duecento pagine "dove di quello che chiedevamo noi non c'era traccia". Dunque il male originario fu "in quella esperienza di governo, non in Rifondazione". E la stagione del Prc inserito nella sfida a governare il paese chiama in causa anche l'altra componente politica di allora: il Pd. Lo stesso che oggi non può essere un interlocutore perché legarsi con esso "può portare alla fine di Rifondazione", ammonisce.
Poco dopo è Bertinotti ad intervenire al programma Faccia a Faccia di RadioTre intervistato da Paolo Franchi. L'ex leader massimo, ormai fuori dalla mischia comunista, ammette che "la sconfitta alle ultime elezioni era nell'aria" ed anche per questo "ho voluto metterci coraggiosamente la faccia". Ma è acqua passata, bisogna rivolgersi al futuro e soprattutto al presente. "Se vogliamo rinascere dobbiamo smetterla di guardare con ansia alle elezioni e dobbiamo impegnarci a una nuova progettualità". Cioè capire che "il centro della rinascita è nella società", attraverso la riscoperta di temi come retribuzioni, lavoro, disparità sociale, "che meritano di essere ispezionati politicamente". Da ex sindacalista, non a caso, indica come esempio quanto compiuto da Di Vittorio negli anni '50. E per redire più chiaro ciò che intende con rinascita usa una metafora, quella della nascita dell'Universo: la rifondazione della sinistra passa per un vero e proprio "big bang" che ponga fine a ciò che è stata fino ad ora: "iperrealista" e quindi "subalterna al pensiero dominante". Soprattutto perché di essa c'è un grande bisogno, in questo presente in cui "è finita una storia, quella drammatica e gigantesca del Novecento, ed è finita in Europa", spiega Bertinotti. Crolla un secolo e una tradizione politica, ma "non sono finite le ragioni della sinistra" tutt'al più di "questa sinistra", ammonisce.
Parole di speranza che mal si coniugano con la realtà delle ultime ore. Cominciano infatti ad avanzare le defezioni, con alcuni esponenti della minoranza che, a livello locale magari anche con incarichi istituzionali, scelgono di dimettersi per seguire sul piano nazionale l'esodo dal partito della propria area. Come accade per esempio nel Lazio dove l'assessore regionale al Bilancio Luigi Neri fa sapere che forse lascerà il Prc perché "c'è bisogno oggi di un soggetto politico nuovo", generato da una unità di forze della sinistra che risulta possibile, come dimostra il caso della Regione, "unica in cui esiste un gruppo consiliare federato". Un piccolo sconvolgimento come dimostra la reazione di alcuni esponenti locali, che fanno sapere come "nei municipi di Roma Rifondazione Comunista continua ad essere presente" perché "l'uscita dal partito di assessori nominati dai presidenti della Provincia e della Regione Lazio non esaurisce la presenza del partito nelle istituzioni locali", hanno detto in una nota il vice presidente del consiglio e l'assessore del municipio Roma XVI, Massimiliano Ortu e Valentina Steri, il presidente del consiglio del municipio Roma XVII Giovanni Barbera e il capogruppo del municipio Roma XIX Claudio Ortale.
E come dimostra anche la reazione dei fratelli (oggi meno coltelli) del Pdci. In Sardegna per loro ha parlato Elias Vacca, ex deputato ed esponente dell'Ufficio politico, che ha spinto Vendola a "spiegare a tutti gli elettori sardi, che andranno al voto tra qualche settimana, che dentro Rifondazione è in atto una scissione" e dunque "chi vuol votare per il Prc avrà l'incognita di non sapere se vota per un candidato comunista o per uno che seguirà Vendola nella scissione". Ragione per cui, conclude Vacca, "continuiamo a chiedere a Rifondazione l'unita' dei comunisti", ben sapendo della difficoltà del progetto, almeno finchè l'uscita non è compiuta, perché "da questo orecchio, almeno per il momento, non ci sentono visto che alcuni dei loro leader, proprio coloro che stanno andando via, continuano a declassare il comunismo a tendenza culturale".
Mentre in Emilia è il segretario provinciale Donato Vena ad esortare all'unità comunista annunciando che a marzo "effettueremo una verifica in tutti i comuni e dove l'accorso non sarà trovato partiremo in modo autonomo con le nostre liste". E se non fosse chiaro il messaggio, Vena ha anche specificato che "una prima richiesta la facciamo al Prc" ricordandogli come "non ha più senso tenere in piedi due partiti comunisti".