sabato 17 gennaio 2009

Repubblica 17.1.09
Il diritto calpestato
La rottura della legalità sul caso Eluana è netta: c´è una sentenza di cui il governo impedisce l´attuazione
di Stefano Rodotà


Questo povero paese è ormai prigioniero di continue rotture della legalità, che decompongono un tessuto civile sempre più debole, e violano gli stessi diritti fondamentali delle persone. Vittima sacrificale, una volta di più, è Eluana Englaro, alla quale la prepotenza governativa nega quel diritto di morire con dignità che le era stato definitivamente riconosciuto da limpidissime e rigorose decisioni della magistratura.
Prepotenza è la parola giusta, e lo conferma il sincero comunicato con il quale la clinica di Udine ha fatto sapere di non poter dare a Eluana Englaro l´assistenza necessaria per l´interruzione dei trattamenti che da diciassette anni la mantengono in uno stato vegetativo persistente. E´ il timore della revoca della convenzione, minacciata dal ministro della Salute, ad aver determinato la decisione della clinica, che dice francamente di non poter correre il rischio della perdita del posto di lavoro per centinaia di suoi dipendenti e di quanti collaborano con essa dall´esterno. Il ricatto dell´occupazione, mai forte come in questi tempi, dà forza ad una brutale imposizione politica.
Eluana Englaro è vittima di un accanimento ideologico che nega la sua umanità, incrina la fiducia con la quale i suoi familiari hanno sempre creduto nello Stato di diritto, non si preoccupa della stessa grammatica giuridica.
All´origine vi è quel nebuloso provvedimento del ministro Sacconi, «un atto di indirizzo» rivolto alle regioni senza sufficiente base giuridica, specchio fedele di una politica che si mette al servizio di insostenibili posizioni ideologiche.
La rottura della legalità è netta. Vi è una sentenza passata in giudicato di cui il governo impedisce l´attuazione. Il fatto già in sé grave, lo diviene ancora di più alla luce di un precedente: il tentativo delle Camere di bloccare l´esecuzione della sentenza, sollevando un conflitto di attribuzione tra il Parlamento e la magistratura respinto duramente dalla Corte costituzionale.
Dove aveva fallito il Parlamento, che pure aveva cercato un simulacro di rispettabilità giuridica, rischia l´aver successo un governo che impugna come una clava un puro potere di intimidazione.
Così è, perché gli argomenti giuridici alla base dell´atto di indirizzo del ministro sono praticamente inesistenti. Si fa riferimento a un parere del Comitato nazionale di bioetica privo di ogni valore giuridico vincolante e per di più approvato a maggioranza. Si invoca la convenzione dell´Onu sui diritti dei disabili che, da una parte, non è ancora pienamente operativa in Italia e, dall´altra, dice cose che non riguardano il caso di Eluana Englaro.
L´articolo 25 di quella convenzione infatti dice che non si possono interrompere i trattamenti di idratazione e alimentazione forzata, ma questo divieto riguarda solo il fatto che non si può imporre l´interruzione. Cosa ovvia, ma assolutamente diversa dal fatto che quei trattamenti possono sempre essere rifiutati, come ha riconosciuto la Cassazione nel caso di Eluana Englaro, dando attuazione ad un principio presente nella nostra Costituzione in vari documenti internazionali, che attribuiscono alla persona il potere di disporre liberamente della propria vita. E non si dica che la vita è un bene indisponibile. Ancora pochi giorni fa una donna ha rifiutato un´amputazione, ed è morta. «Contro la forza, la ragion non vale», dice un rassegnato proverbio.
Oggi dobbiamo concludere che non vale neppure il diritto dichiarato nelle sedi e nelle forme proprie. In Italia, come sta accadendo in Francia, si sta consolidando l´orientamento secondo il quale la sola legittimazione politica può cancellare ogni altro potere o garanzia. I familiari di Eluana dovranno continuare la loro civile lotta, e nei prossimi giorni il Tar dovrà pronunciarsi sulla legittimità della decisione della Regione Lombardia che ha vietato alla clinica di dare esecuzione alla sentenza della Cassazione.
Ma, di fronte ad una prepotenza che è tutta politica, bisogna chiedersi se da chi non condivide l´orientamento del governo, e ha precisi ruoli e responsabilità politiche, sia stato fatto tutto quello che era necessario per difendere diritto umanità civiltà. L´opposizione si è espressa solo attraverso prese di posizione personali, prigioniera solo di paure interne, visto che più di un´indagine ha dimostrato che l´opinione pubblica è nella maggioranza a favore dell´interruzione dei trattamenti, anche in significativi ambienti cattolici. Una opposizione silenziosa, che non comprende il senso della difesa dei diritti e della civiltà giuridica, ha poco futuro davanti a sé.

Repubblica 17.1.09
Stop agli ateo-bus "Slogan offensivi" esulta la Chiesa
di Michela Bompani e Raffaele Niri


Il sindaco di Genova: nuova data per il Gay Pride
La campagna respinta dalla concessionaria di pubblicità dei mezzi pubblici: ce lo impone la legge

GENOVA - L´Ateo-bus resta in rimessa: la concessionaria di pubblicità accoglie il pressante invito della Curia e per le strade di Genova non viaggeranno mezzi pubblici "provocatori". Nello stesso giorno l´amministrazione comunale della città decide di concedere la sponsorizzazione al Gay Pride nazionale anche se chiede agli organizzatori di spostare la data, già fissata in coincidenza del Corpus Domini. E, tra le motivazioni, il sindaco Marta Vincenzi spara una carta a sorpresa: «Non vorremmo dover imporre ai gay cattolici una scelta dirompente tra il Pride e la processione».
Giornata campale, tra sesso e fede, per il capoluogo ligure. Al mattino è Fabrizio Du Chene, amministratore delegato della IGP, concessionaria della pubblicità sui mezzi pubblici genovesi (e su quelli di tutta Italia) a chiudere il primo capitolo, quello degli ateo-bus ("La cattiva notizia è che Dio non esiste. Quella buona è che non ne hai bisogno"): «Ci sono due articoli del codice di autodisciplina che rendono impossibile la campagna: l´articolo 10 - la pubblicità non deve essere offensiva - e l´articolo 46 - le campagne sociali non devono ledere gli interessi di alcuno. Non si tratta di seguire, o meno, le indicazioni della Chiesa: noi ci muoviamo autonomamente e applichiamo sempre il nostro codice. Succede per la pornografia, succede anche in questo caso. E poi, francamente, mi pare che l´Unione atei abbia raggiunto il suo obiettivo. E senza spendere un euro». È un no definitivo? «La decisione è questa - risponde l´Igp - e costituisce anche un precedente: noi operiamo in tutta Italia, siamo soliti darci delle regole e rispettarle».
Tace il presidente della Cei (e arcivescovo di Genova) Angelo Bagnasco - in viaggio da Fatima - ma gongola monsignor Marco Granara, rettore del Santuario della Guardia: «Una minoranza di quaranta persone ha tenuto sveglia l´intera nazione su un tema che, in fondo, non è loro». L´Uaar, attraverso il suo segretario generale, Raffaele Carcano, ribatte: «Biancheria intima e villaggi vacanze sì, ma guai a chiedere uno spazio pubblicitario per dire che Dio non esiste. In questo paese non c´è spazio per dichiararsi atei, pena la censura».
Qualcosa, invece, potrebbe cambiare sul Gay Pride. Assicurato il patrocinio culturale del Comune alla manifestazione, il sindaco Marta Vincenzi ha chiesto agli organizzatori un incontro urgente, la prossima settimana. «I problemi, nel caso di una sovrapposizione con il Corpus Domini, sono notevoli - ragiona il sindaco - Esistono problemi logistici, esiste una questione di vigili urbani (non ne abbiamo abbastanza per tutelare entrambe le manifestazioni contemporaneamente) e non vorremmo provocare problemi di coscienza nei gay cattolici». A sorpresa i gay dimostrano una disponibilità totale, anche all´ipotesi di cambiare data: «Lo abbiamo detto dall´inizio, la nostra disponibilità a discutere di tutte le questioni organizzative (percorso, disponibilità delle piazze, supporto tecnico, la stessa data) è completa. Tutto il movimento LGBTQI (lesbiche, gay, bisessuali, transgender, queer, intersessuati) punta ad arrivare, quanto prima, a una decisione condivisa.
Per il sindaco la doppia dimostrazione che «Genova è una città aperta: l´Uaar ha ottenuto una straordinaria pubblicità, con gli organizzatori del Pride c´è un confronto aperto e alla luce del sole, nel rispetto di tutti».

Risponde Corrado Augias
Gent. Dr. Augias, su alcuni autobus di Londra sono apparse scritte pubblicitarie: annunciano che probabilmente Dio non esiste. Anche a Genova, per conto della «Associazione Atei, Agnostici e Razionalisti», gireranno autobus con la pubblicità della cattiva notizia che Dio non esiste e con la buona che non ne abbiamo bisogno. Sappiamo che la pubblicità non è solo l'anima del commercio, ma anche un mezzo per conquistare il potere, tuttavia mi sembra che questa pubblicità necessiti di ben altro della fiancata di un bus. Ho udito però (Tg di varie reti) che: «Anche nella ex-cattolicissima Spagna, a Barcellona, viaggiano bus con la stessa scritta». Perché ex-cattolicissima? Cosa è accaduto in Spagna perché i cattolici o una parte di essi non lo siano più? Freud colpisce talvolta a tradimento ed è per questo che esso ha avuto un successo relativo, ma le sembra che la presenza di un premier di orientamento non confessionale basti a mettere in crisi un sentimento religioso? Oppure quella definizione è solo la conferma che potere e religione cattolica sono da sempre a braccetto nella mente di tutti, dico tutti? L'ateismo non è praticamente esistito fino all'Illuminismo: è per tale origine che quell'uovo dei «pensatori liberi» (vede come suona diverso da «liberi pensatori»? Ohibò!), viene regolarmente trasformato in frittata dal Papa?
Giovanni Meschini giovanni.moschini4@tin.it

Quegli autobus, intanto, non gireranno per Genova. La richiesta degli atei di avere quello spazio pubblicitario è stata infatti respinta. Probabilmente ha avuto effetto la minaccia, nemmeno velata, contenuta nel comunicato della Curia di quella città: «In quanto al fatto che la pubblicità dovrebbe essere esposta sugli autobus, un bene per la comunità e per la città, è pensabile che coloro che dirigono l'azienda abbiano la capacità di valutare se sia davvero vantaggioso per loro accettarla». Parole che stupiscono. Avrei capito il rammarico, lo sdegno, il rifiuto. Ricorrere ad un'allusione che ricorda da vicino l'ambiguo linguaggio della mafia è indegno di ogni istituzione, massime se religiosa. Mi auguro, se ci sarà un prossimo comunicato, che sia più all'altezza. Un sindacato autonomo aveva perfino proposto che gli autisti facessero obiezione di coscienza.
Quelle scritte non mi entusiasmano, ma ci sono anche immagini pubblicitarie che a me paiono volgari o indecenti. Non è una buona ragione per chiederne l'abolizione se non viene violato il Codice penale. Che Dio esista o no è questione che ognuno dovrebbe risolvere nel chiuso della sua coscienza. Tuttavia, piacciano o no, quelle scritte rientrano nella libertà di espressione. Tanto più che lo slogan italiano a me sembra il più elegante tra quelli che si vedono a New York, Londra, Barcellona. Sui bus londinesi per esempio è scritto: "Dio non esiste, goditi la vita". Trovata di basso profilo che tra l'altro coinvolge la famosa questione se esista un'etica senza Dio. Ovviamente esiste, ma c'è chi dissente e ritiene che la minaccia divina aiuti a far comportare bene le persone. A Genova, con più humour, era previsto di scrivere: "La cattiva notizia è che Dio non c'è; la buona, che possiamo farne a meno".

Corriere della Sera 17.1.09
Il caso La concessionaria di pubblicità: offende la sensibilità religiosa
Genova ferma gli atei: basta spot sugli autobus
di Erika Dellacasa


GENOVA — I bus atei non circoleranno a Genova. Lo slogan «La brutta notizia è che Dio non esiste, la buona è che non ne hai bisogno», che l'Unione atei e agnostici voleva sulle fiancate di due autobus genovesi, è stato giudicato inaccettabile dalla Igp Decaux, la concessionaria della pubblicità dell'azienda del trasporto urbano (Amt). L'Unione atei e agnostici protesta, «impossibile dichiararsi atei in questo Paese», l'Amt annuncia la richiesta di chiarimenti: «Chiederemo alla concessionaria il motivo del rifiuto — dice il presidente Bruno Sessarego — a fronte del fatto che ci siamo dichiarati disponibili e il sindaco aveva espresso parere favorevole». Il sindaco Marta Vincenzi, «convinta che non ci sia scandalo e contenta di non aver sollecitato nessuna censura », aspetta a sua volta le spiegazioni dell'Igp, «anche se immagino che la società abbia seguito un criterio commerciale più che di merito». Dalla sede milanese dell'Igp l'ad Fabrizio Duchene spiega: «Il nostro rifiuto si basa sul codice di autoregolamentazione.
L'articolo 10 vieta messaggi commerciali che possano offendere la sensibilità religiosa, morale, civile o la dignità della persona. Questo messaggio non è commerciale ma rientra negli appelli sociali previsti all'articolo 46. Pensiamo che il divieto possa quindi estendersi a questo slogan». Conclusione: affermare che Dio non esiste è offensivo. «Potrebbe esserlo — precisa Duchene — per gli appartenenti alle grandi religioni monoteiste».
«Slogan offensivo? Va dimostrato », dice Sessarego. E gli atei dello Uaar rilanciano: «Allora con questo metro di giudizio, lo slogan "Dio esiste" urterebbe la nostra sensibilità, ma vorremmo proprio vedere la Igp rifiutarlo. O noi non contiamo? ». Il presidente dello Uaar, Raffaele Carcano, chiede che il Comune di Genova come azionista di riferimento dell'Amt, solleciti la revoca del contratto di concessionaria all'Igp. Intanto l'ufficio legale dello Uaar sta valutando «mosse per contestare la decisione». Lo Uaar potrebbe anche presentare uno slogan simile a quello utilizzato per i bus atei in Inghilterra e in Spagna: «Dio probabilmente non esiste, vivi con gioia». Quel «probabilmente» attenua l'affermazione ma anche la sua efficacia. «Se saranno presentate altre richieste e altri slogan siamo qui per esaminarli», ribatte Duchene. La Ipg ha la concessione delle pubblicità su autobus, metro, aeroporti in tutta Italia, copre oltre il 70% del mercato, nel suo pacchetto sono comprese Milano, Roma, Torino, Napoli. Il «no» alla campagna genovese è uno stop per tutti. Per Duchene, «il principio ha valore per tutte le altre città ». Lo Uaar ha raccolto in pochi giorni 13 mila euro a sostegno dei bus atei, ora dovrà pensare a come investirli.
Lo slogan
«La cattiva notizia è che Dio non esiste, quella buona è che non ne hai bisogno»: una simulazione al computer della campagna pensata dall'Unione atei e agnostici per i bus genovesi

Repubblica 17.1.09
Il tamburo di latta
Il libro che cambiò la Germania
di Vanna Vannuccini


A cinquant´anni dal romanzo di Günter Grass esce una nuova traduzione Fu un´opera che con le sue verità scomode la sua furia anarchica modificò lo sguardo dei tedeschi sul proprio passato

In una piazza di Danzica, su una panchina di bronzo, siede Oskar Matzerath, il nano che con il suo tamburo di latta bianco e rosso cinquant´anni fa cambiò la letteratura tedesca e lo sguardo dei tedeschi sul loro passato. Alla sua destra era seduto, con i suoi baffoni spioventi, la pipa e l´espressione aggrondata, anche il suo creatore e cittadino onorario di Danzica, Günter Grass. Ma lo scrittore si era ribellato a questo monumento mentre era ancora in vita � così come ferma chiunque lo lodi quando osa parlare di "bilancio" della sua vita letteraria: «Ho ancora alcuni progetti», avverte. E al sindaco di Danzica aveva suggerito di spendere meglio quei soldi per fare i bagni nelle case popolari che ancora ne sono prive invece che per un monumento di bronzo.
Paradossalmente, la sua città natale, oggi Gadnsk e non più Danzig, polacca e non più anche tedesca, che lui era stato costretto a lasciare dopo la guerra voluta da Hitler, è rimasta la sola a difenderlo incondizionatamente. Mentre i tedeschi non riescono ancora a perdonare al loro Tamburo di latta che per anni aveva tambureggiato in tutte le direzioni verità scomode, di aver detto ad alta voce solo in uno dei suoi ultimi libri, Sfogliando la cipolla, che a sedici anni, negli ultimi mesi di guerra, era andato volontario nelle Waffen SS (che peraltro, va precisato, erano, sia pure con un nome simile, altra cosa delle SS che hanno compiuto i crimini più orrendi in Europa durante la guerra). Del resto nessuno, in questi cinquant´anni, ha contribuito alla riconciliazione tra polacchi e tedeschi più dello scrittore tedesco casciubo che, lasciata Danzica, era poi diventato nella Germania occidentale per metà dei tedeschi la coscienza della nazione, e per l´altra metà un nestbeschmutzer, uno che sporca il proprio nido, la propria patria � oltre che un pornografo, uno scrittore osceno: laddove valevano per tutte le descrizioni in cui Oskar , ormai sedicenne ma creduto da tutti un bambino perché a tre anni aveva smesso di crescere, dopo averlo cosparso di polvere profumata lecca il corpo della giovane Maria, e la lingua si perde «laddove nessun guardiaboschi ha il suo distretto».
Bissau, Kaschubei, è oggi diventata Bysewo, periferia di Danzica. Grass cominciò a parlare già cinquant´anni fa «di ciò che era andato perduto». Il tamburo di latta � affermò � è un tentativo «di fissare un pezzo di patria perduta per sempre». Laddove patria, s´intende, è per lui sempre e solo Heimat, il luogo natìo, le strade dell´infanzia, e mai Vaterland, una parola che nessun tedesco dopo la guerra poteva più pronunciare. Grass non volle pronunciarla nemmeno nei giorni euforici dell´unificazione, e come sempre osò andare contro la corrente. Per lui la nazione tedesca restava la Kulturnation, quella nazione culturale che aveva sempre amato e coltivato mantenendo durante la Guerra Fredda i rapporti con gli scrittori dell´altra Germania a dispetto della Stasi; non la nazione politica che si era macchiata di crimini infami.
Il romanzo uscì nel 1959, ma già qualche mese prima il trentenne scrittore aveva letto il primo e il trentaquattresimo capitolo davanti al Gruppo 47, e subito si era capito che quel romanzo avrebbe cambiato la letteratura tedesca. Era la risposta a tutti coloro che si domandavano perché, dopo la Seconda Guerra mondiale, dopo le devastazioni e le lacerazioni che avevano segnato la storia di un popolo tra i più civilizzati della terra, non ci fosse ancora un grande romanzo che stesse alla pari con la tradizione letteraria tedesca. Il tamburo di latta (che oggi riesce con una nuova traduzione di Bruna Bianchi, Feltrinelli, pagg. 604, euro 15) fu la risposta, e di tutte le risposte venute dopo è rimasta anche dopo cinquant´anni la più importante.
Per i tedeschi fu come se qualcuno avesse spaccato all´improvviso un muro e l´aria fosse entrata in una stanza tenuta chiusa troppo a lungo. Questo romanzo burlesco sugli anni più bui della storia tedesca fu come uno specchio in cui i tedeschi si videro riflessi � uno specchio opaco abbastanza da permettere di percepire il passato come qualcosa di altro, di estraneo, e allo stesso tempo abbastanza chiaro da potervi riconoscere i propri tratti. Tratti che erano impregnati dalla vanità di tutto ciò che è terreno, dalla semplicità della vita contadina, dalla fuga dal mondo, da tutto ciò che gli studiosi hanno chiamato "il barocco" di Günter Grass. Il tamburo di latta fece saltare in aria tutto quello che era stato detto fino ad allora in lingua tedesca e con furia anarchica, forza barocca e straordinaria fantasia dette un´immagine epica del passato tedesco. Il solo paragone che si poté fare fu con il Simplizissimus di Grimmelshausen che con un sguardo apparentemente naïf descrive l´orrore della Guerra dei Trent´anni.
Fu il libro tedesco del dopoguerra. Un successo mondiale. Con un colpo solo Grass aveva dato risonanza alla Germania, che era sparita dal consesso dei paesi civili, una risonanza nella quale si affievolivano tutte quelle parole che erano rimaste fino ad allora nelle orecchie dei popoli europei dopo la Seconda Guerra mondiale.
La Germania è sempre rimasta il terreno di risonanza dove lo scrittore ha battuto il suo tamburo. Dieci anni dopo il Tamburo esce il Diario di una lumaca, il ricordo personale di una campagna elettorale combattuta a fianco di Willy Brandt, anche lui un nestbeschmutzer, un insozzatore del nido per buona parte dei tedeschi, per il suo anticonformismo e per essersi inginocchiato nel ghetto di Varsavia. Günter Grass sostenne attivamente Willy Brandt (in un momento in cui l´"impegno", in Germania, non era visto di buon occhio), più tardi lo criticò. Poi si riavvicinò al cancelliere condividendo la Ostpolitik che rese il muro un po´ più permeabile. Guardano a quegli anni si ha l´impressione che come scrittore a un certo momento (con Anni di cani) si sia trovato a un bivio: avvicinarsi all´avanguardia sperimentale europea ,o scegliere l´impegno politico anche come scrittore. E lui scelse la seconda strada.
Il Nobel che gli fu assegnato nel 1999 ebbe in Germania quasi l´effetto di una riconciliazione. Tanto era stato detestato da parte dei tedeschi. Il cancelliere Schroeder parlò di "oltraggi" che lo scrittore aveva dovuto subire. Lui è rimasto uguale a se stesso, anche dopo aver rivelato quella adesione alle Waffen SS a sedici anni: una figura pubblica di resistenza e di eroica caparbietà. Lo sua iconografia con la pipa e i baffi rivolti burberamente verso il basso ne sono ancora oggi la testimonianza.

Repubblica 17.1.09
Il labirinto dell'universo
Quel che resta ancora da decifrare
di Piergiorgio Odifreddi


Pubblichiamo un intervento di Piergiorgio Odifreddi che domani sarà al Festival delle Scienze per presentare il concerto "Helicopter", musiche di Karlhein Stockhausen
uale popolo, o quale cultura, non ha avuto la pretesa di spiegare l´intero universo? Ma quale popolo, o quale cultura, ha avuto gli strumenti per farlo? Gli antichi si sono dovuti accontentare della poesia, e agli albori del pensiero occidentale gli Ionici e gli Eleatici si cimentarono in svariati poemi invariabilmente intitolati Sulla natura, iniziando una tradizione che continuò coi fisici posteriori, da Empedocle e Anassagora a Democrito ed Epicuro, e culminò nel De rerum natura di Lucrezio.
Nonostante le loro grandiose visioni letterarie, indotte dai loro frammenti o dedotte dai loro canti, quei poemi lasciarono la natura delle cose velata come la ninfa Calipso, in attesa di essere svelata da strumenti più perspicaci delle parole. Dal telescopio, ad esempio, che esattamente quattrocento anni fa, nella primavera del 1609, Galileo puntò verso il cielo per ricavarne le visioni annunciate l´anno seguente nel Sidereus Nuncius. O dal microscopio, che fu invece Robert Hooke a usare in maniera analoga per ottenere visioni altrettanto sorprendenti del microcosmo, annunciate a loro volta nel 1665 dalla sua Micrografia.
Naturalmente, gli strumenti sono necessari per espandere i sensi oltre le loro limitatissime estensioni, e renderli più adeguati all´osservazione dell´universo in grande e in piccolo. Ma le osservazioni non sono sufficienti per descrivere, e meno che mai per spiegare, ciò che viene osservato: è necessario sostenerle ed esprimerle con un pensiero e un linguaggio adeguati, spesso di nuovo conio.
Un esempio superficiale sono appunto le parole «telescopio» e «microscopio», che suggeriscono direttamente la visione (skopein) lontana (tele) o in piccolo (micro) permessa da quegli strumenti: esse furono inventate da due membri dell´Accademia dei Lincei, rispettivamente Giovanni Demisiani nel 1611 e Johann Faber nel 1625, per sostituire gli inadeguati termini «cannone» (o «cannocchiale») e «occhiolino» usati da Galileo.
Un esempio profondo sono invece i concetti e i risultati della nuova matematica del Seicento, principalmente la geometria analitica di Cartesio e l´analisi infinitesimale di Leibniz e Newton, che permisero a quest´ultimo di organizzare le osservazioni e le intuizioni di Galileo e di Keplero in una coerente teoria meccanica, codificata nel 1687 nei monumentali Principi matematici della filosofia naturale: un´opera che, fin dal suo programmatico titolo, affida al linguaggio matematico il compito di descrivere il pensiero sulla natura.
L´idea non era nuova, perché già Pitagora aveva intuito il legame fondamentale tra natura e matematica. Ma per lui il rapporto era indiretto e veniva mediato dalla musica, i cui rapporti armonici potevano essere da un lato descritti da rapporti numerici, e dall´altro generati da rapporti fisici: nel senso, ad esempio, in cui un intervallo di ottava corrisponde al suono di due corde di lunghezza una doppia dell´altra, o di due martelli di peso uno doppio dell´altro. Le metafore fondamentali del pitagorismo si rifanno dunque alla musica, e cantano l´Armonia del Mondo o la Musica delle Sfere.
Fu Galileo a introdurre nel 1623, in una famosa pagina del Saggiatore, una metafora nuova e più consona allo spirito della nuova scienza: l´immagine, cioè, della matematica come linguaggio in cui è scritto «questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l´Universo)». Un´immagine, questa, che è singolarmente simmetrica, persino nella struttura tipografica, a quella altrettanto famosa di Borges nell´apertura del suo racconto La Biblioteca di Babele: «L´universo (che altri chiama la Biblioteca)».
Nei suoi quattro secoli di vita, la scienza moderna si è impegnata a fondo nella decifrazione del grande libro della Natura, armata degli strumenti tecnologici e matematici che le permettono di leggerlo e di comprenderlo. E ha raggiunto successi memorabili, coronati nell´Ottocento dall´elettromagnetismo di Maxwell e l´evoluzionismo di Darwin, e nel Novecento dalla relatività di Einstein, la meccanica quantistica di Heisenberg e Schrödinger, la quantoelettrodinamica di Feynman, Schwinger e Tomonaga, l´unificazione elettrodebole di Glashow, Salam e Weinberg, la quantocromodinamica di Gross e Wilczek, la scoperta della struttura del Dna di Watson e Crick, la decodifica del codice genetico di Nirenberg e la sequenziazione del genoma umano di Collins e Venter.
Anzi, le comprensioni globali e di dettaglio sono state così profonde, e le loro ricadute tecnologiche e culturali così diffuse, che la nostra può a buon diritto esser definita l´Era della Scienza. Semmai, viene da chiedersi che cosa rimanga ancora da decifrare e da capire, prima di poter chiudere il grande libro e riporlo nello scaffale. E la risposta potrebbe essere, in ordine decrescente di grandiosità: i tre grandi problemi dell´origine dell´Universo, della vita e della coscienza.
Non sorprendentemente, questi sono esattamente i tre momenti sui quali si concentra l´interesse degli spiriti religiosi, che si accontentano al riguardo dell´uniforme pseudospiegazione dell´intervento divino: «pseudo», perché in fondo postulare che Dio è la causa di qualcosa non è altro che un modo diverso di dire che non sappiamo quale ne sia la causa, e non aggiunge assolutamente nulla di preciso e utile alla sua conoscenza. Anche se, come notò Russell nell´Introduzione alla filosofia matematica, «postulare ciò che desideriamo ha molti vantaggi: gli stessi del furto nei confronti del lavoro onesto».
La scienza non si accontenta, dunque, e continua il suo onesto lavoro verso la soluzione di quei tre problemi, che appare sempre più a portata di mano. L´origine dell´Universo attende la formulazione definitiva della Teoria del Tutto, in grado di coniugare la cosmologia relativistica e l´atomismo quantistico, e il suo miglior candidato sembra essere la popolare teoria delle stringhe di Witten.
Sull´origine della vita non c´è una proposta che goda di un analogo consenso, ma l´esistenza di molte alternative dimostra che il problema è maturo per una soluzione. Tra l´altro, proprio lo scorso 8 gennaio Tracey Lincoln e Gerald Joyce hanno pubblicato su Science l´annuncio della scoperta di enzimi dell´Rna che si replicano autonomamente: un esempio di qualcosa che non è ancora vita, ma ne ha già alcune proprietà tipiche.
Quanto all´origine della coscienza, la relativa novità delle neuroscienze e dell´informatica lascia prevedere un cammino ancora lungo, ma già promettente. E tutti insieme questi sviluppi permettono agli scienziati di continuare a professare il motto del grande matematico David Hilbert, che sta inciso sulla sua tomba: Wir müssen wissen, Wir werden wissen, «Dobbiamo sapere, e sapremo».

Repubblica 17.1.09
Muti. "Io, nella città di Obama sul podio dell´orchestra migliore del mondo"
di Leonetta Bentivoglio


Ovazioni per la grande bacchetta italiana che ha debuttato come "direttore designato" della formazione americana Dal 2010 ne diventerà il direttore principale succedendo a nomi prestigiosi come Barenboim e Pierre Boulez
E il 7 febbraio dirigerà il concerto che riapre il San Carlo di Napoli

L´atmosfera era straordinaria. Appena sono salito sul podio mi ha accolto un´ovazione del pubblico. E alla fine, dopo qualche istante di silenzio, tutti gli spettatori si sono alzati in piedi per applaudire a lungo». Riccardo Muti parla da Chicago, dove ha diretto da poche ore un trionfale Requiem di Verdi, solisti Barbara Frittoli, Olga Borodina, Mario Zeffiri e Ildar Abdrazakov. È stato il suo primo concerto come "direttore designato". Si dice proprio così: Music Director Designated. Vuol dire che la nomina alla testa della migliore orchestra americana è già avvenuta, ma l´incarico effettivo scatta nel 2010. La città di Obama sta ancora dormendo quando Muti commenta al telefono l´inizio del suo nuovo percorso. Davanti alla sua finestra, racconta, l´abbagliante visione del lago ghiacciato spicca nelle tinte opache dell´alba. Fuori la temperatura raggiunge i venti gradi sotto zero.
«Ma il momento è caldo», dice. «Sono giorni intensi per Chicago, ricchi di vivacità e d´orgoglio. Tra poco Obama sarà presidente, i giornali ne parlano di continuo, il suo volto appare ovunque. In questa città dinamica, internazionale, messaggera di idee, simbolo di modernità architettonica (sta per inaugurarsi il museo d´arte moderna progettato da Renzo Piano) e molto identificata con la sua formidabile orchestra, si percepisce la fierezza di poter ricomporre, in futuro, una certa immagine dell´America aperta e multiculturale offuscata negli anni scorsi. Tra l´altro, da fonti molto vicine a Obama, appassionato di musica, e qualche tempo fa coinvolto dalla Chicago Symphony come voce recitante nel Lincoln Portrait di Aaron Copland, ho saputo che il presidente vuole creare negli Stati Uniti, dove finora non c´è mai stata, la posizione di ministro della cultura. Per dire quanto intende porre l´accento sul tema. In un paese dove la cultura è sempre stata in mano ai privati si procede in un´altra direzione, all´inverso di quanto accade in Italia».
Quali caratteristiche ha la sua nuova orchestra americana?
«Innanzitutto una tecnica prodigiosa, forse la migliore al mondo. Qui non ci sono da costruire travi o raddrizzare sostegni. Si parte subito da un livello altissimo, e si fa musica senza doversi preoccupare, come ho fatto con altre orchestre, di sistemare situazioni tecniche problematiche. Nata da uno stampo tedesco, la Chicago Symphony ha archi meravigliosi ed è famosa per i suoi ottoni. Ma se l´aspetto germanico permane nel tessuto poderoso, negli ultimi anni ha acquisito una flessibilità sempre maggiore, dimostrandosi capace di finezze e pianissimi impensabili in un´orchestra di tale potenza. Attualmente conta su Bernard Haitink come direttore principale e Pierre Boulez come direttore onorario. L´uno è l´Europa classica e romantica, l´altro è il musicista oggi più importante per apertura al contemporaneo. L´orchestra integra le due strade. Il mio arrivo reca un mondo musicale che viene anche dalla conoscenza approfondita dell´opera lirica. Una linfa nuova molto apprezzata dall´orchestra, che ha voluto con forza la mia nomina. Dopo la nostra tournée in Europa ho ricevuto da ogni singolo musicista lettere di ringraziamento per l´esperienza musicale vissuta assieme».
Sta già facendo programmi?
«Ho avuto un incontro col comitato esecutivo della Chicago Symphony, formato in gran parte dai finanziatori, durante il quale ho ribadito l´intenzione di portare l´orchestra non solo in giro per il mondo, ma in tutte le fasce di questa città multietnica. Penso a concerti decentrati, a gruppi da camera in vari luoghi, a lezioni nelle scuole e nelle carceri. E progetto commissioni a compositori americani e non. Sono convinto che la musica del futuro possa nascere dall´incontro di diverse razze ed etnie. Solo la preziosa miscela di culture musicali differenti riuscirebbe finalmente a farci uscire dalle pastoie di certa nuova musica cristallizzata nella ricerca di formule timbriche e ritmiche troppo complesse».
E l´Italia? Il 7 febbraio dirigerà a Napoli il concerto che festeggia la riapertura del San Carlo dopo i lavori di restauro.
«Ho visitato la sala rinnovata, è di bellezza folgorante. Da napoletano di nascita spero che questo concerto sia il segnale non solo della riapertura di uno splendido teatro, ma anche della ripresa di un cammino artistico. Mettere a posto i muri non basta».

Corriere della Sera 17.1.09
Il maestro italiano ha esordito come direttore della Symphony Orchestra. E la critica applaude
«In Usa vince la cultura, noi la perdiamo»
di Valerio Cappelli


Riccardo Muti a Chicago. «Alla fine del primo concerto, dopo lunghi secondi di silenzio, mi sono voltato e tutta la sala era in piedi». Tra le voci: Barbara Frittoli e Olga Borodina
Muti star a Chicago: i progetti di Obama, rivoluzionari anche nella musica
Tre serate esaurite da maggio. Il «Tribune»: «Insediamento trionfale, una di quelle serate che cambiano la vita»

ROMA — Dal 44º piano del grattacielo che lo ospita, Riccardo Muti vede il lago ghiacciato di Chicago (la temperatura è a meno venti), da cui si leva una tempesta di fumi. «Un paesaggio da Inferno dantesco, dalla mia finestra sembra il Dies Irae
di Verdi», racconta divertito al telefono. È il giorno dopo la Messa da Requiem verdiana, il concerto con cui comincia un capitolo nuovo della sua vita di musicista: il debutto come direttore musicale della Chicago Symphony Orchestra. Sui giornali c'è scritto: «Se siete in grado di trovare un biglietto, congratulazioni ». Le tre serate esaurite da maggio. «Alla fine, dopo lunghi secondi di silenzio, mi sono voltato e tutta la sala era in piedi». Le voci: Barbara Frittoli, Olga Borodina, Mario Zeffiri, Ildar Abdrazakov.
Il critico musicale del Chicago Tribune, John von Rhein, ha scritto di un Verdi «celestiale», «un'esperienza di quelle che cambiano la vita», «meravigliosa pulizia di suono». Concludendo con: «Muti ha avuto il suo insediamento trionfale. Adesso tocca a Obama».
Dopo l'addio alla Scala, ha creato un'orchestra di giovani, è tornato a Salisburgo, ha ripreso i tour coi Wiener, ha esordito all'Opera di Roma, «dove non vedo l'ora di tornare in marzo per Gluck». Ma qui si tratta di un impegno nel tempo, dal 2010 due mesi e mezzo a Chicago più tre settimane di tournée: «Verrò anche in Italia ».
Muti ha sentito una voce dal «board of directors» del presidente Obama, che si insedierà martedì: «Una delle sue idee è di creare un ministero della Cultura in America: in Europa è scontato ma qui, dove tutto è nelle mani dei privati, (che mettono i soldi ma non decidono la programmazione e lasciano libertà all'artista) è un fatto rivoluzionario. Nel momento in cui noi ci disoccupiamo della cultura, Obama se ne occupa, ritenendola fondamentale nel Paese dalle tante comunità etniche. La nuova musica sarà centrale nel processo di integrazione di razze diverse. E noi la abbandoniamo, come se la possedessimo per grazia divina; la cultura ci sta sfuggendo di mano ».
Che cosa rappresenta il Requiem verdiano nella sua carriera? «È quasi una lotta tra l'uomo e Dio, è molto diverso da tutte le pagine religiose austro- germaniche, le radici affondano nel nostro modo di esigere, più che chiedere, che Dio si prenda cura di noi, visto che la responsabilità della nostra presenza sul pianeta è dovuta a lui. L'uomo qui non prega passivamente ma combatte, il grido Libera Me Domine è quasi di ribellione, col finale in do maggiore che è inquietante pur essendo una tonalità luminosa, vedi la Jupiter di Mozart o il finale della Quinta di Beethoven. Qui c'è la genialità di Verdi, dà la sensazione di un punto interrogativo: Succederà? Sarò liberato da Te?».
Maestro, perché disse no alla New York Philharmonic? «Subito dopo Chicago, andrò proprio a dirigere quell'orchestra. Erano tempi diversi, allora ero felice di essere libero dedicandomi a quelle 4-5 orchestre vicine alla mia sensibilità (coi Wiener lavoro da 38 anni). Ci sono momenti in cui scatta una cosa, non l'ho fatto per altri motivi. I miei rapporti con la NYPhil sono splendidi».
Com'è l'America di Riccardo Muti? «Ne ho conosciute due. La prima volta presi la guida della Philadelphia Orchestra che avevo 39 anni, la vecchia America blasonata. Chicago è la città del futuro anche nelle sue forme architettoniche, come una Ferrari. Trovi comunità polacche, italiane, greche, messicane; la vitalità dell'Orchestra riflette quella della città che aspetta Obama (lui qui era senatore), lui fu voce recitante in un pezzo di Copland, Lincoln Portrait,
che io proposi a Philadelphia con la voce di Michael Jordan, il giocatore di basket. Chicago sta impazzendo, si identifica nel nuovo corso di speranza per riconquistare l'affetto di tutto il mondo, l'America vuol risollevarsi e essere riamata, e l'Orchestra, definita dalla prestigiosa rivista Gramophone di Londra la prima in Usa, è ambasciatrice di questa speranza. Nonostante i fumi del lago, qui sembra Primavera».

Corriere della Sera 17.1.09
Bruxelles contro l'Italia: pensa solo all'inglese. La replica: è indispensabile
La Ue e Gelmini, duello sulle lingue straniere
di Luigi Offeddu


BRUXELLES — L'Unione Europea si mostra sensibile alle proteste di genitori e insegnanti e critica la riforma Gelmini che prevede l'obbligo di studiare una sola lingua straniera. Il romeno Orban, commissario al Multilinguismo: «L'approccio della Ue è un altro: più lingue si insegnano e si parlano in ogni Paese, meglio è».

Bruxelles Centinaia di email di insegnanti e genitori per salvare le lezioni di francese, spagnolo e tedesco
La Ue critica l'Italia: a scuola non basta l'inglese
Il commissario per il multilinguismo e la riforma: vanno raddoppiati gli insegnamenti

BRUXELLES — Ne sono arrivate più di 400, in pochi giorni: email partite dall'Italia, un piccolo maremoto di protesta. Mittenti: in gran parte insegnanti, ma anche genitori. Destinatari: la Commissione europea, e soprattutto il commissario europeo al multilinguismo, Leonard Orban. La richiesta: salvare l'insegnamento alla scuola media del francese, dello spagnolo o del tedesco, cioè della «seconda lingua comunitaria » che dall'autunno diventerà facoltativa. Imputata, o presunta imputata: il ministro dell'Istruzione, Mariastella Gelmini. Che, a metà dicembre, stabilì: «a richiesta delle famiglie e compatibilmente con le disponibilità di organico e l'assenza di esubero dei docenti della seconda lingua comunitaria, è introdotto l'insegnamento potenziato dell'inglese per 5 ore settimanali complessive, utilizzando anche le ore d'insegnamento della seconda lingua comunitaria». Vale a dire: l'inglese potrà passare da 3 a 5 ore settimanali, e le 2 ore in più le cederà l'altra lingua.
«Ma questo aiuterà gli italiani a sentirsi più europei?», chiedono i messaggi giunti a Bruxelles. «No, è un regolamento anti-europeo». E ancora: «È noto il gran divario linguistico che ci divide dagli altri Paesi Ue, parliamo poco le lingue straniere. Ora le parleremo ancor meno! Altrove si investe sulla seconda lingua straniera, pensiamo che l'Italia dovrebbe fare lo stesso...».
E che cosa ne pensa il destinatario delle email, cioè l'ingegnere romeno Orban, commissario al Multilinguismo? «Conosco la linea italiana. E penso che non sia l'approccio migliore. L'approccio della Ue è un altro: più lingue si insegnano e si parlano in ogni Paese, meglio è. Lo dico con il massimo rispetto per lo Stato italiano, so bene che sono sue le competenze sul multilinguismo. E mi piacerebbe anche parlarne con il ministro Gelmini». Secondo Orban, «per l'Europa, niente è cambiato rispetto alla volontà politica espressa da tutti gli Stati nel 2002, a Barcellona, al vertice dei capi di Stato e di governo. Allora si disse: si insegneranno "almeno due lingue" oltre alla lingua madre». A Barcellona, per l'Italia, c'era Silvio Berlusconi, anche allora premier, e l'Istruzione era affidata a Letizia Moratti. Però non è stata solo l'Italia a cambiare strada, da allora. Anche in Gran Bretagna, la lingua straniera non è obbligatoria dai 14 anni in poi: «Ma studi fatti laggiù — rileva ancora Orban — parlano di seri problemi per quei giovani, sul mercato interno del lavoro: le aziende cercano chi parla più lingue perché comunica meglio e perché è più aperto, adattabile, ha più capacità interculturali. Sono sempre di più i Paesi Ue che applicano questo principio. E ormai contano il russo, il cinese, l'arabo. Immagini che ogni Paese decida di promuovere una sola lingua, che cosa accadrebbe? Che una lingua e una cultura importanti come quella italiana non avrebbero alcuna possibilità di essere conosciute fuori dall'Italia. Ma l'Europa, che è un attore globale e vuole competere nel mondo, certo non vuole questo, per nessuno ».

Corriere della Sera 17.1.09
La scuola non può «tagliare» la scienza
di Edoardo Boncinelli


Nel vortice della cattiva informazione imperante, soprattutto in campo tecnico-scientifico, e contro i proclami privi di fondamento di tutti i tipi è la scuola e solo la scuola che può giocare un ruolo determinante, ergendosi a baluardo contro l'ignoranza e offrendosi come autorevole guida e solido termine di riferimento. In tutti i campi, dalla storia alla biologia, dalla filosofia all'ecologia. Se vogliamo cittadini informati e capaci di riflettere dobbiamo avere scuole all'altezza del compito.
Dispiace quindi particolarmente che si ventili in questo periodo una drastica riduzione delle ore dedicate alla scienza nei Licei Scientifici, che sono quelli dove i ragazzi hanno più probabilità di familiarizzarsi con i successi e le problematiche del mondo scientifico moderno e contemporaneo. Si parla di passare dalle attuali 25 ore di moltissimi Licei Sperimentali a solo 15 ore o peggio. Le conoscenze scientifiche aumentano in continuazione, di giorno in giorno, e richiederebbero casomai sempre più tempo, non meno. Non è possibile trattare ad esempio le innumerevoli acquisizioni della biologia di oggi con un numero di ore corrispondenti a quelle che potevano essere necessarie trenta o quaranta anni fa. Lo stesso discorso vale per la chimica e la tecnologia dei materiali, per la geologia e la geografia astronomica, se non vogliamo parlare dell'astronomia e dell'astrofisica. Ma non è solo questione di orari.
Anche nel dettaglio di queste ore ci sono preoccupanti cambiamenti in vista. Potrebbero sparire ad esempio le distinzioni disciplinari, vale a dire la distinzione fra biologia, chimica, geologia, astronomia e via discorrendo a favore di una generica dicitura di Scienze. Si tratta di discipline scientifiche molto diverse con caratteristiche e specificazioni molto diverse, che richiedono orari e metodi (e laboratori!) molto diversi.
Ricompattarle sotto un'unica dicitura di Scienze equivarrebbe a porre tutte le discipline umanistiche sotto l'unica etichetta di Lettere. E forse ciò sarebbe ancora più ardito. Esiste infine la tendenza a eliminare i Licei Scientifici cosiddetti Sperimentali, i più seguiti e i più richiesti dagli studenti e dalle famiglie. E' solo attraverso l'articolazione dell'offerta e il tentativo di renderla sempre più adeguata all'esigenze del presente che si può pensare di riempire un vuoto culturale allarmante del nostro Paese, un Paese che non include la cultura scientifica nel più vasto capitolo della Cultura con la C maiuscola e che tende a riguardare con sufficienza, se non con diffidenza, ogni nuova acquisizione teorica e ogni nuova applicazione del sapere scientifico che si profili all'orizzonte. Si nota insomma una diffusa insoddisfazione negli insegnanti di materie scientifiche della Penisola, preoccupati di veder stagnare se non declinare paurosamente il patrimonio di innovazione didattica e metodologica accumulato in questi anni nel campo delle discipline scientifiche. Con conseguenze che non esiterei a definire nefaste.

Corriere della Sera 17.1.09
Nuova teoria sulla diffusione dell'uomo moderno dall'Africa
Più padri che mamme tra i nostri progenitori
I maschi in maggioranza durante le migrazioni
di Giordano Velati


Fra 50 mila e 70 mila anni fa,ungruppoditemerarirappresentanti dell'Homo sapiens sapiens lasciò l'Africa — culla del genere umano — per conquistare il mondo intero. Raggiunsero prima il Sudest asiatico, l'Europa, l'Asia e, infine, le Americhe. Oggi, a questa teoria, giudicata da sempre la più attendibile per spiegare la diffusione dell'uomo moderno, possiamo aggiungere qualcosa di più: quel primo gruppo di conquistatori era rappresentato quasi esclusivamente da maschi e, quindi, la stragrande maggioranza dei popoli del pianeta è figlia di molti papà e di pochissime mamme.
Alon Keinan, dell'Harvard School of Medicine (Usa), ha raggiunto questi risultati dopo aver analizzato il genoma di uomini contemporanei africani, europei e asiatici, e aver messo a confronto oltre 100 mila differenze del cromosoma sessuale X. Keinan ha in particolare considerato che, in una popolazione in cui la presenza maschile e femminile è equiparabile, la variabilità genetica dei cromosomi X è assai elevata: ciò dipende dal fatto che ogni donna possiede due cromosomi X, mentre gli uomini ne posseggono uno soltanto (oltre all'Y). Se però una popolazione è composta prevalentemente da individui di sesso maschile, il numero di cromosomi X cala drasticamente e con esso la variabilità genetica del cromosoma sessuale. Basandosi, dunque, su questo presupposto, lo scienziato americano ha scoperto che la variabilità genetica del cromosoma X è evidente soprattutto negli africani moderni, mentre è scarsa in tutti gli altri popoli. Da ciò ha quindi concluso che solo gli africani derivano da gruppi ancestrali caratterizzati da una percentuale maschile e femminile simile, mentre tutti gli altri provengono da un'unica popolazione costituta quasi esclusivamente da maschi.
In realtà, questa ricerca contraddice uno studio antropologico diffuso pochi mesi fa su
Plos Genetics, nel quale si diceva che tutti gli uomini discendono da un minor numero di maschi rispetto a quello delle femmine: «È la dimostrazione che, nonostante i progressi della scienza molecolare, si è ancora lontani dall'avere conclusioni e dati certi sul numero di antenati partiti dall'Africa per colonizzare gli altri continenti» spiega Donata Luiselli, evoluzionista dell'Università di Bologna. Ma cosa avrebbe spinto questi Homo sapiens sapiens a puntare gli occhi oltre i confini africani? Due le possibilità: motivi bellici o la necessità di individuare nuovi spazi dove cacciare e procreare. «Probabilmente è più verosimile la seconda ipotesi — spiega Marco Ferraguti, evoluzionista dell'Università di Milano —. Questo perché è difficile pensare che 60 mila anni fa potessero esserci dei validi presupposti per dichiarare guerra a qualcuno ».
Nella storia dell'evoluzione umana, comunque, non è stata questa l'unica volta che uno sparuto numero di rappresentanti dell'Homo sapiens sapiens s'è messo in marcia verso nuovi territori. Secondo un recente studio genetico, anche la colonizzazione delle Americhe sarebbe avvenuta — intorno ai 12 mila anni fa — attraverso una sola grande migrazione. I ricercatori, in questo caso, hanno analizzato 678 marker genetici in 29 nativi americani provenienti sia dal nord che dal centro e sud America, confrontandoli con le caratteristiche genetiche dei siberiani. I risultati dimostrano che la diversità genetica tra i nativi americani e gli asiatici aumenta all'aumentare della loro distanza d'insediamento dallo Stretto di Bering, circostanza che dimostrerebbe l'esistenza di un percorso di colonizzazione delle Americhe da nord a sud. In questo caso, però, non è stato possibile appurare se furono soprattutto degli esponenti di sesso maschile a muoversi verso Est.

Corriere della Sera 17.1.09
Ma non ci fu la guerra dei sessi
di Fiorenzo Facchini


I modelli con cui si cerca di ricostruire le migrazioni del passato in base alle differenze del Dna non possono essere generalizzati. Si può arrivare a conclusioni diverse a seconda della regione del Dna analizzata e del campione esaminato. Ciò spiegherebbe i risultati diversi ottenuti nello studio recente di Plos Genetics, a cui accenna Donata Luiselli. In ogni caso l'uscita dell'umanità moderna dall'Africa intorno a 50.000-70.000 anni fa, non deve essere pensata come un evento unico. Viene quindi da chiedersi se in tutti i momenti ci sia stata una prevalenza di migranti di sesso maschile. Può esserci anche stata qualche migrazione differenziale, cioè non bilanciata nel rapporto fra i sessi, ma non si può neppure escludere una selezione nel corso del tempo a carico di alcuni loci cromosomici in un sesso o nell'altro nei campioni esaminati. Quanto alle cause dell'uscita dall'Africa escluderei la bellicosità. La scarsa densità della popolazione e gli spazi a disposizione nei lunghi tempi del Paleolitico per le risorse erano tali da non richiedere guerre di conquista, come invece si ammette nell'espansione neolitica. Piuttosto viene da pensare a qualche fattore di ordine ambientale, come cambiamenti nel clima, che potrebbero avere spinto a migrare verso nuovi territori. Quanto al popolamento dell'America, che sarebbe avvenuto 12.000 anni fa in un'unica grande migrazione, il dato riportato è contraddetto da vari studi di carattere molecolare (come quello di Perego, Torroni e altri sul Dna mitocondriale di gennaio 2009 su Current Biology) e paleoantropologico che depongono per una maggiore antichità e per diverse ondate migratorie sempre dal Nord al Sud. Tali differenze possono essere attribuite o al campionamento o alla scelta dei marcatori esaminati. La ricostruzione del passato è difficile sul piano paleoantropologico, ma anche le analisi molecolari vanno prese con cautela e non possono essere generalizzate.
*Università di Bologna

Corriere della Sera 17.1.09
Protagonisti Nel bicentenario torna il mito dello statista che liberò gli schiavi e salvò l'Unione
Lincoln, il presidente lodato da Marx
Criticato negli anni '60, oggi è un modello per la «rinascita»
di Paolo Valentino


WASHINGTON — Per giurare da presidente, Barack Obama ha scelto la Bibbia che apparteneva a lui, vecchia di un secolo e mezzo, copertina di velluto e legatura in oro, normalmente custodita alla Biblioteca del Congresso. Il tema dell'inaugurazione del 44mo presidente è preso direttamente dal celebre discorso di Gettysburg: «A New Birth of Freedom», una nuova alba della libertà. Nei discorsi, nelle scelte dei ministri, nei luoghi, nell'intera iconografia della sua campagna, è sempre lui il riferimento ideale di Obama.
Alla National Portrait Gallery espongono le sue maschere scultoree e le fotografie più famose. All'American History Museum è stata appena aperta una mostra sulla sua vita «straordinaria»: c'è anche il cilindro che indossava la notte in cui venne assassinato. L'omicidio avvenne al Ford's Theatre, anche questo già restaurato e fra poco riaperto. E per gli appassionati della mondanità, l'American Art Museum dedica una sala al suo ballo inaugurale, dove si possono vedere anche inviti e menu originali. Mentre una raffica di nuovi saggi e biografie, fra cui quella monumentale di Michael Burlingame, che ha scoperto lettere inedite e articoli considerati perduti, scandisce l'inizio dell'anno del suo bicentenario.
Ma non è soltanto una celebrazione. L'America è di nuovo innamorata di Abraham Lincoln (1809-1865), il sedicesimo presidente, l'uomo dell'Illinois che emancipò gli schiavi, il redentore degli ideali americani che salvò l'Unione e cambiò la storia del mondo. «No Lincoln, no nation», ricorda con la solita verve Christopher Hitchens. È una riconsiderazione collettiva, che la drammatica situazione del Paese, di fronte alla prospettiva di una nuova Grande depressione, rende ancora più appassionata e urgente. È a Lincoln in altre parole che gli americani, primo fra tutti il nuovo presidente, sembrano nuovamente guardare per ritrovare ispirazione e visione.
Non sempre è stato così. Come mostra Harold Holzer nella sua Lincoln Anthology: 85 Writers on his Life and Legacy from 1860 until Now, il giudizio su Lincoln è stato sempre molto variegato e controverso. Negli anni Sessanta, per esempio, il «grande emancipatore» era stato ridimensionato sia da destra che da sinistra. La cultura liberal gli contestava che il suo vero obiettivo fosse stato preservare l'Unione, non già abolire la schiavitù: in una lettera del 1862, Lincoln non ne faceva mistero, spiegando che avrebbe tenuto insieme l'Unione anche «senza liberare un solo schiavo», ovvero «liberandoli tutti», o ancora «liberandone solo alcuni ». E quelli liberati li avrebbe volentieri incoraggiati a emigrare in Africa. A destra, a parte l'eterno risentimento sudista che fino al 1964 penalizzò il Partito repubblicano, il suo partito, negli ex Stati della Confederazione, un editoriale sulla
National Review di William Buckley lo descriveva come «essenzialmente negativo per il genio e la libertà del nostro Paese», considerandolo un centralista, nemico dei diritti degli Stati. Su questo giudizio forse pesava anche la lettera di congratulazioni che Karl Marx gli scrisse nel 1864, in occasione della sua rielezione, dove fra l'altro il padre del comunismo affermava ( sic) che «i lavoratori d'Europa sentono istintivamente che la bandiera a stelle e strisce porta il destino della loro classe».
Ma il bicentenario, l'ascesa alla presidenza di un altro uomo dell'Illinois, l'arrivo alla Casa Bianca del primo afroamericano, che porta al suo logico esito l'emancipazione iniziata nel 1862, lo spettro della depressione sono gli ingredienti che hanno contribuito alla riscoperta di Lincoln. Perché fu lui, nel momento in cui fallì il compromesso originario, che aveva ipocritamente conciliato la schiavitù con la più democratica Costituzione del mondo, a salvaguardare il più grande esperimento di autogoverno della storia, sia pure al prezzo di una sanguinosa Guerra civile.
Offre un canovaccio, il sedicesimo presidente, agli Stati Uniti di Obama? C'è stato molto dibattito, nelle settimane scorse, intorno al libro di Doris Kearns Goodwin, Team of Rivals: the Political Genius of Abraham Lincoln, pubblicato nel 2005, che racconta come nel suo primo gabinetto il «grande emancipatore» volle tutti gli ex avversari politici. Il neopresidente lo ha indicato come una delle sue letture preferite, fonte di ispirazione per la composizione del suo governo: la scelta di Hillary Clinton per il dipartimento di Stato e la conferma del repubblicano Gates al Pentagono rispondono a questa logica. «Ma quello era un costume del tempo. Il punto non sono gli avversari, quanto le personalità forti », osserva lo storico Eric Foner, della Columbia University, autore dell'antologia Our Lincoln: New Perspectives on Lincoln and His World. Secondo Foner, «il confronto con presidenti recenti ci dice che spesso essi hanno scelto come ministri degli yesman dei loro Stati, quindi non hanno mai dovuto misurarsi con punti di vista diversi e opposti». In questo senso, per Foner, Lincoln offre ancora un modello: «La squadra dei rivali può funzionare. Ma il compito è più difficile. La Guerra civile contribuì all'impressione di un governo di unità nazionale. Non so se la crisi economica farà altrettanto».
Secondo Andrew Delbanco, uno degli autori dell'antologia di Foner, nonostante i suoi traumi la Guerra civile, a differenza di altre guerre, non lasciò l'America in crisi e priva di una causa o di una visione. Lincoln cioè seppe trovare «un significato trascendente al massacro», in grado di parlare sia ai vincitori che agli sconfitti. Fu il miracolo di Gettysburg, dove in meno di due minuti Lincoln diventò un nuovo padre fondatore, definendo una nuova visione e una nuova missione.
Oggi le sfide sono diverse, ma non meno gravi. Eppure, secondo Harold Holzer, che in Lincoln President-Elect racconta la transizione presidenziale dell'inverno 1860-61, «come allora, la leadership può venire non tanto dall'esperienza, ma dalla serietà, dal senso del dovere, dall'umiltà e dalla comprensione degli altri».
Alla National Portrait Gallery, la celebre foto scattata da Alexander Gardner nel febbraio 1865, due mesi prima della morte di Lincoln, sembra anticiparne la fine. Proprio sopra la fronte, nel punto in cui la pallottola di John Wilkes Booth andò a conficcarsi, una crepa attraversa la lastra. Nella stampa, il negativo si era rotto. Ma per una volta, lo sguardo del vecchio Abe sembra addolcirsi in un mezzo sorriso. Forse è della promessa di quell'ottimismo, che hanno bisogno oggi l'America e il mondo.

Liberazione 17.1.09
Jamal Zahalka presidente del partito Balad
«Arabi fuori dalle elezioni. Questa è politica razzista»
di Francesca Marretta


Gerusalemme. Mentre a Gaza non si ferma l'offensiva israeliana, nello Stato ebraico procede la macchina elettorale, in vista del voto per le elezioni politiche il prossimo dieci febbraio. Lunedì scorso, il comitato elettorale della Knesset (il parlamento israeliano), su richiesta della coalizione di estrema destra, Ichud Leumi-Israel Beiteneu ed il partito centrista Itay Furman (ex Shinui), ha votato l'esclusione dei due partiti arabi di Israele Balad (Assemblea Nazionale Democratica della minoranza araba) e Tàal (Lista Araba Unita), dalle ormai imminenti elezioni. Le due formazioni arabe sono state accusate di non riconoscere Israele come Stato ebraico e sostenere la lotta armata. Contro il provvedimento si sono schierati solo il partito di sinistra Meretz, che ha votato contro ed il partito di sinistra a componente araba ed ebraica israeliana, Hadash (Fronte democratico per la pace e l'uguaglianza), che ha lasciato l'aula al momento del voto. La decisione di escludere i due partiti arabi, è stata presa dopo una acceso dibattito parlamentare, in cui sono volati pesanti insulti incrociati: «Ogni voto dato a Kadima è una pallottola nel petto di un bambino palestinese» ha inveito contro i colleghi deputati in aula il leader della Lau, Ahmed Tibi, accusando Israele di essere «un paese razzista». Tibi ha dichiarato nella stessa seduta: «Gli arabi sono abituati a questo tipo di lotte e ne verranno fuori vincitori». Il presidente di Balad, Jamal Zahalka, si è detto non sorpreso dalla decisione del comitato elettorale, dal momento «che si è votato per ragioni politiche in un'atmosfera di guerra». Nelle ultime settimane erano state sottoposte alla Knesset tre diverse richieste per impedire al partito Balad, che conta attualmente tre seggi in parlamento, di presentarsi alle prossime elezioni. Balad ha presentato ricorso in appello all'Alta Corte di Giustizia per rovesciare il verdetto della Commissione elettorale centrale del Parlamento israeliano. Il Tribunale si pronuncerà la prossima settimana. «Ma in questo clima di guerra, non c'è da aspettarsi nulla che riporti il paese al rispetto delle regole della democrazia», ha dichiarato a Liberazione Jamal Zahalka.
Che impatto avrebbe l'esclusione delle liste arabe dalla partecipazione alle elezioni?
«Questa decisione è stata presa da un comitato politico, il comitato elettorale centrale, che rappresenta tutte le forze presenti in Parlamento. Mettendo le componenti arabe nell'angolo credono di guadagnarsi a buon mercato il consenso di coloro che nel paese sono favorevoli a questa guerra, a spese dei palestinesi che vivono in Israele. Se l'Alta Corte dovesse avallare questo tentativo antidemocratico di tagliarci fuori dalle elezioni non esisterebbe più una rappresentanza in Parlamento della parte araba della popolazione di Israele. Noi vogliamo parteciapare democraticamente al voto, ma se ci sará impedito inviteremo al boicottaggio del voto tutta la parte araba del paese. Dal punto di vista legale l'Alta corte dovrebbe bocciare questa decisione della Commissione elettorale, ma io credo che nell'ombra di quesa guerra il clima sia poco propizio per la democrazia e i diritti delle minoranze».
Sostenete Hamas, nel cui statuto si invoca la distruzione di Israele, come dice la maggioranza dei parlamentari israeliani?
«Ci accusano di sostenere Hamas. La verità è che noi sosteniamo il popolo palestinese. Sosteniamo il diritto alla vita dei bambini palestinesi. Israele ne ha uccisi più di trecento in venti giorni di guerra. Noi pensiamo che Hamas faccia parte dell'arena politica palestinese. E sosteniamo che debba tornare all'unità con Fatah. Noi non vogliamo il dominio di Hamas a Gaza, ma che i palestinesi ritornino ad un assetto istituzionale comune. Non siamo sionisti, ma siamo figli di questo paese, siamo nati qui. La verità è che le accuse che ci vengono mosse sono uno dei tanti aspetti della profonda crisi che esiste in tra lo Stato di Israele e la componente araba della propria popolazione. Il Premier Olmert, Barak e il capo di Stato Maggiore della difesa per noi si sono resi responsabili di crimini di guerra».
Come guardate al modo in cui l'Anp sta gestendo la crisi?
«Non siamo affatto soddisfatti dell'atteggiamento dell'Anp. Potrebbe fare molto di più, assumere toni molto piu forti. Da quando è cominciata l'aggressione a Gaza la gente scende in piazza a gridare la propria rabbia e i servizi di sicurezza dell'Anp reprimono le manifestazioni».
Qual è il vostro orientamento sul ruolo dell'Egitto?
«L'Egitto è corresponsabile per l'isolamento di Gaza. Potrebbe aprire la frontiera di Rafah, ma non lo fa».
La decisione di escludere le liste arabe dalle elezioni trova consenso in Israele?
«La decisione presa dalla commissione in parlamente riflette decisamente quello che accade nella societá israeliana. Ma l'opinione pubblica israeliana dovrbbe capire che quello che accade oggi è che uno come Lieberman (leader di Israel Beiteneu, partito russofono di estrema destra, ndr.) un fascista, decide ciò che è consentito o meno nella vita politica del paese e capire davanti a che minaccia per la democrazia ci troviamo. Lieberman è il baromentro del razzismo nella societá israeliana. Quando si rafforza vuol dire che la societá è più intollerante».
Se l'Alta Corte avallerá la decisione della commissione elettorale, come vi organizzerete?
«Credo che ci sará un boicotaggio di massa delle elezioni da parte della comunitá palestinese. E a questo punto ci organizzeremo per avere un parlamento separato per i palestinesi in Israele».
Ma come potreste ottenerne il riconoscimento?
«Credo che possiamo intanto possiamo crearlo. Ne abbiamo il diritto. In quanto minoranza araba in Israele sceglieremo indipendentemente la nostra leadership. Non ci resta altra scelta dato che ci viene impedito in maniera antidemocratica, di partecipare democraticamente alle elezioni. Creeremo un parlamento arabo separato in Israele, in maniera indipendente e volontaria e ne chiederemo il riconoscimento al mondo arabo all'Europa e agli Stati Uniti».
Cosa accadrà tra popolazione araba di Israele e resto del paese se la destra vincerà le prossime elezioni?
«Vede, in Israele per vedere la differenza tra destra e sinistra bisogna munirsi di lente di ingrandimento. E Livni e Barak, per quello che abbiamo visto con questa guerra, hanno dimostrato di essere più crudeli della destra estrema».

il Riformista 17.1.09
Dominici. L'accusa del sindaco: «Paghiamo un deficit di direzione politica»
«Il Pd lavora per perdere Firenze»
di Tommaso Labate


Leonardo Domenici, sindaco di Firenze, è persona storicamente poco incline alle polemiche. Anche se, come lui stesso riconosce, «negli ultimi mesi mi hanno accusato di farne troppe, di interviste polemiche». Che si sappia, aggiunge, «sono costretto ad agire in questo modo, anche nei confronti del mio partito, per legittima difesa». E per tentare di prevenire l'irreparabile. «A Firenze è difficile, anzi impossibile, che il centrodestra vinca le elezioni. Ma attenzione - dice il sindaco al Riformista - è altamente probabile che il Pd voglia perderle, le elezioni. E la strada verso la possibile sconfitta, a mio avviso, è già tracciata».
Domenici, giorni fa lei ha minacciato di non ritirare la tessera del Pd. Oggi parla di un partito che si sta impegnando per perdere una delle sue roccaforti. Che succede?
Succede che ho deciso di dire cose su cui avrei preferito tacere. Sa cos'è successo a Firenze? Il mio partito ha convocato, in condizioni di semi-clandestinità, una specie di conferenza programmatica senza neanche invitarmi. Quando ho chiesto informazioni, sa cosa mi hanno risposto? Che mi avevano spedito l'invito via e-mail. Ho cercato sulla posta elettronica ma dell'invito non c'era traccia. Neanche il documento conclusivo mi hanno recapitato. Niente, l'ho dovuto rintracciare su internet. Si è dimesso il capogruppo in consiglio comunale e, neanche in quel caso, sono stato avvertito. Per non dire del segretario di federazione, che non c'è più.
Per le sue lamentele qualcuno potrebbe darle del «cacicco», lo sa?
Io so soltanto che ho fatto la mia parte perché il Pd, da queste parti, arrivasse al 48 per cento. Mi spiace dirlo ma ora nel nostro partito c'è un deficit di direzione politica. Tra l'altro, i luoghi di discussione che al Pd mancano me li devo inventare da solo.
In che senso?
Visto che non c'era un luogo per discuterne, il 2 gennaio ho scritto una lettera privata a Veltroni per comunicargli i problemi che ci sono a Firenze. Credo che la scelta, che io appoggio, di mandare qui Vannino Chiti risponda a quelle mie perplessità. Aggiungo che avevo anche avanzato dei nomi per il ruolo di commissario, persone che poi non hanno accattato.
E quali sono le sue «perplessità»?
L'elenco è lungo. Ma le pare normale che alle primarie di coalizione ci siano tre candidati del Pd, che tra l'altro conducono una campagna personalistica? Che segnale diamo alla gente? È come ammettere che il Pd, di fatto, non esiste. È come riconoscere che questo partito, nella migliore delle ipotesi, non è altro che la sommatoria delle precedenti esperienze. Affrontare le elezioni in questo modo non è giusto. Come non è giusto che, con la scusa del famoso «rinnovamento», si demoliscano esperienze come la mia, che governo questa città da ormai dieci anni.
«L'operazione rinnovamento», però, è partita da Roma...
Io credo che sia fuorviante affrontare i casi di Firenze, Genova, Napoli e dell'Abruzzo come se fossero una sola cosa. Allo stesso tempo devo rilevare che, in quella riunione, più d'uno ha ceduto la tentazione di addossare tutte le colpe ai partiti locali. Certo, lo so anch'io che le responsabilità non stanno da una parte sola, lo so anch'io che sul territorio c'è chi pensa di trarre beneficio da questa confusione. Ma voler segare il ramo su cui si sta seduti è stato un errore madornale.
Lei traccia il bilancio di un Pd in crisi nera. Cosa suggerisce?
Il Pd ha un problema di gruppo dirigente nazionale. Prenda i vertici del partito, i gruppi parlamentari e il governo ombra: parliamo di organismi troppo ripiegati su loro stessi e, contemporaneamente, poco incisivi. Credo che sia arrivato il momento di "aprire", di coinvolgere tutti, di rilanciare il nostro come un partito riformista di massa. Dopo le Europee ci sarà il congresso, certo. Ma iniziamo a muoverci da subito, sfruttiamo l'occasione della conferenza programmatica.
Nel frattempo, cosa farà con la sua tessera? Deciderà finalmente di prenderla?
Tra poche ore (sono le 15.45, ndr) riceverò la visita della segretaria del mio circolo, Oriella Ferrini. È da persone come lei, è «dal basso» che dobbiamo ripartire. Perché, mi creda, così com'è questo partito non funziona.

il Riformista 17.1.09
Due sindacalisti di Brescia tracciano una biografia del commissario anti-Sansonetti
Vi diciamo chi è il Dino di Liberazione
di Maurizio Zipponi e Osvaldo Squassina


Caro direttore, dopo la destituzione di Piero Sansonetti, Liberazione ha aperto con l'articolo di fondo del neo commissario politico Dino Greco, che sferra un attacco inusitato e privo di stile al direttore uscente e ai giornalisti del quotidiano. Sansonetti, nel suo ultimo articolo come direttore, aveva dichiarato il suo rispetto a chi lo avrebbe sostituito, pur rimarcando le scelte compiute nel corso del suo mandato.
Noi bresciani, che veniamo dall'esperienza del movimento operaio, siamo in genere persone riservate e restie a mettere in piazza i nostri problemi. Oggi, però, ci sentiamo liberi di raccontare alcuni fatti.
Dino Greco è stato segretario generale della Camera del Lavoro di Brescia per otto anni. In quel periodo si è scontrato regolarmente con i metalmeccanici (e non solo con loro) cercando di minare l'autonomia e l'indipendenza della categoria: prima nella gestione delle crisi aziendali - individuando con l'associazione industriali un'ipotesi procedurale (affossata dal dibattito interno della Cgil) che confliggeva anzitutto con quelle praticate dalla Fiom che avevano al centro la difesa intransigente dei posti di lavoro - poi opponendosi (e raccogliendo meno di un voto) con tutti i mezzi all'elezione dell'attuale segretaria generale dei metalmeccanici bresciani e infine, al temine del suo mandato, avanzando per la sua sostituzione una candidatura che è stata sonoramente battuta.
Non è mai riuscito a rappresentare gli operai, proponendo di volta in volta astruse analisi sociologiche, fino a definire "leghismo rosso" quelle esperienze di lotta e di mobilitazione che in questi anni hanno caratterizzato i lavoratori bresciani. Greco è stato indipendente, è vero, ma dai lavoratori.
Quello che sta accadendo oggi dà ragione a chi ha fatto del rapporto diretto con i luoghi di lavoro il fulcro del proprio agire: non è un caso se, nonostante tutto, la Fiom di Brescia riesce ancora a realizzare buoni accordi per migliorare il salario e contrastare i licenziamenti; non è un caso se i metalmeccanici bresciani, che hanno saputo difendersi, oggi hanno la forza per affrontare la grave crisi industriale che il nostro paese sta attraversando.
Da mesi Greco era in attesa di collocazione e quella di "commissario politico" di Liberazione è certamente un'occasione per ricominciare (tutti ne hanno diritto). Ci dispiace che l'amico e compagno Dino inizi un nuovo percorso pugnalando alle spalle una delle migliori e più libere figure giornalistiche della sinistra italiana.
Maurizio Zipponi
già segretario generale Fiom di Brescia, direzionale nazionale Prc
Osvaldo Squassina
già segretario generale Fiom di Brescia, consigliere Prc in Regione Lombardia

Liberazione 17.1.09
Se sei lesbica in Croazia finisci in manicomio.
Può accadere anche da noi...
di Giusy Gabriele Psichiatria Democratica


Cara "Liberazione", apprendo dall'"Unità" che in Croazia una lesbica è stata ricoverata in manicomio per volontà dei suoi genitori! La stessa situazione si sarebbe potuta verificare in Italia prima del 1978, anno di approvazione della legge 180.
Dovrei sentirmi orgogliosa del livello di civiltà raggiunto nel nostro paese a seguito delle lotte di Basaglia e del movimento di Psichiatria Democratica (che insieme agli intellettuali e agli operai raggiunse l'obiettivo di chiudere i manicomi negli anni '70) ma invece sono estremamente preoccupata. Di questo mio stato d'animo la spiegazione più ovvia è che la destra al governo del paese propone forme di restaurazione contro la riforma psichiatrica ed è certamente drammatico, anche se non ci può sorprendere.
In questi quasi 40 anni, i pazienti e gli operatori hanno subito tanti attacchi ma tutti sono stati rinviati al mittente. Le proposte di legge che si sono succedute a centinaia, alla fine, sono cadute nel vuoto fronteggiate da un movimento che ha saputo riorganizzarsi ogni volta che c'è stata la necessità. No, quello che mi dà vero e profondo dolore sono le tesi, come quella del dott. Fagioli che trovano spazio anche all'interno di "pezzi della sinistra" che si definisce comunista. Abbiamo letto su "Repubblica" le sue dichiarazioni sull'omosessualità come malattia che «abbiamo l'obbligo di curare», abbiamo letto su "Left" le sue tesi contro Basaglia, abbiamo appreso chiaramente come un pericolo serio il suo distinguere tra pazienti curabili ed incurabili. Se mettiamo insieme queste tesi ecco che si prefigura un futuro manicomiale che lancia il nostro servizio sanitario verso l'incubo dell'omologazione a quello che succede in Croazia.
Mentre a Bruxelles il Parlamento Europeo (anche per l'impegno di parlamentari di larga parte della sinistra) lavora alacremente per confermare, con una seconda risoluzione, il dovere degli Stati membri di garantire la salute mentale dei propri cittadini nel rispetto della dignità umana e della loro libertà da noi si lascia spazio sui giornali a tesi a dir poco sconcertanti… Le stesse tesi sono state espresse in una "canzonetta" che verrà presentata al Festival di Sanremo ed hanno già suscitato la reazione indignata della comunità gblt. Il rischio palese è quello di una discussione pubblica sulla omosessualità come malattia .
Mentre in Spagna abbiamo assistito ad un riconoscimento dei diritti civili, in Italia questa arretratezza è possibile perché politica, clericalismo, pezzi della cultura e dello spettacolo si rendono protagonisti di una vera e propria campagna di propaganda omofoba con la quale una, per fortuna piccola, parte della sinistra addirittura collude.
Se non fossero tesi oscurantiste da prendere maledettamente sul serio verrebbe da canticchiare, con Bennato, «sono solo canzonette, non metteteci alle strette…».

Corriere della Sera 17.1.09
Amerebbero il mondo virtuale
di Giulio Giorello


Erano, più o meno, gli stessi anni in cui con l'equivalenza di massa ed energia nonché con l'ipotesi dei «pacchetti» o «quanti» di luce fisici come Albert Einstein o Max Planck, magari con qualche «riluttanza», sgretolavano alcuni capisaldi della tradizionale concezione della natura, aprendo nuovi orizzonti alla ricerca teorica e anche a quella applicativa. L'immaginazione aveva però preceduto la tecnologia, ricorrendo a treni davvero «super-rapidi» o a navi spaziali che viaggiavano quasi alla velocità della luce : gli scenari ideali per i paradossi della relatività. I giovani leoni dell'arte, affascinati dalla lezione di Balla o di Boccioni, dovevano presto ritrovare un'aria di famiglia tra la loro pratica e la nuova scienza. Ovviamente, non si trattava tanto di una meccanica trasposizione di contenuti da un settore all'altro, quanto di un comune atteggiamento: l'insofferenza per le strutture ricevute che bloccano pensiero e azione, ma anche il piacere dell'innovazione. Arte e scienza «futuristiche» erano dunque differenti manifestazioni di un medesimo «spirito relativistico», per dirla con il matematico Bruno de Finetti, attento alle sottigliezze di scultura e pittura non meno che a quelle dello studio di numeri e figure. E il «vorticista» Ezra Pound (amico e ammiratore di Filippo Tommaso Marinetti) doveva insistere sulle affinità profonde tra le nuove espressioni poetiche e le astrazioni della matematica: quest'ultima, grazie alla propria generalità e al proprio rigore, conseguiva una più vasta efficacia applicativa, proprio come la parola del letterato consapevole e responsabile poteva resistere alla crisi della civiltà. Per Marinetti un'aerodinamica macchina da corsa era più «bella» della Vittoria di Samotracia; per Pound compiacersi delle prestazioni di una modernissima Ferrari era comunque meglio che praticare i culti degli antiche «divinità del sangue»!
Oggi il sogno dei futuristi può sembrarci non meno invecchiato delle forme espressive contro cui loro si erano ribellati: al più, materia di insegnamento nei manuali, un «genere letterario» che erano i primi a detestare. Moralisti e saggi di varia estrazione stanno riscoprendo le virtù della lentezza, condannando i vizi della velocità. Non esaltano le conquiste dell'ingegneria, ma le guardano con sospetto; diffidano del progresso scientifico e gli contrappongono arcaiche radici. Eppure, non si dovrebbe avere fretta nel liquidare il futurismo come una collezione di utopie defunte. Piuttosto, esso ha avuto fin troppo successo, anche inatteso: pensiamo alla rapidità nell'elaborazione dei dati da parte degli odierni computer e nella trasmissione dell'informazione. Forse, nemmeno Marinetti avrebbe sperato tanto. Dopo la Seconda guerra mondiale Einstein si dichiarò sconcertato dall'applicazione della sua teoria... alla costruzione degli ordigni atomici scagliati su Hiroshima e Nagasaki. La materia era veramente diventata energia, ma a che prezzo! Se oggi rinascessero, i padri del futurismo assisterebbero invece al trionfo del «virtuale» veloce: una vittoria più pacifica ma non meno destabilizzante.

Corriere della Sera 17.1.09
Le celebrazioni partono oggi al Mart di Rovereto: il dialogo con gli artisti russi e tedeschi
E Kandinsky finì nel vortice di Severini, Balla, Boccioni
di Rachele Ferrario


Volevano cambiare il mondo, unire l'arte alla vita in una meravigliosa utopia. Per rompere con la tradizione borghese e correre verso il nuovo. Avanguardia delle avanguardie, il Futurismo ha fatto scuola nell'Europa d'inizio '900. Il centenario ora ne rivaluta il valore internazionale con un'ampia scelta di mostre. Un anniversario che ha già fatto discutere e che riserverà sorprese e delusioni, ma avrà momenti celebrativi importanti. Proprio nel cuore dell'avanguardia cosmopolita di New York, la galleria 219 del fotografo Stieglitz, Severini nel '17 espone Danzatrice=elica=mare (1915), destinato a entrare nelle collezioni del Metropolitan. È l'opera simbolo con cui si aprono oggi le celebrazioni al Mart di Rovereto, la città di Depero, di cui si riapre la Casa d'Arte Futurista. Illuminazioni. Avanguardie a confronto: Italia- Germania-Russia è il primo appuntamento di Futurismo 100, il progetto curato da Ester Coen, cui seguiranno Astrazioni al Correr di Venezia — protagonisti Balla, Mondrian, Picabia — e Simultaneità a Palazzo Reale a Milano, su Boccioni scultore in dialogo con Archipenko, Brancusi, Pevsner. «Con il vortice del movimento e la luce dei colori, la danzatrice di Severini fa ruotare intorno a sé le altre tele — racconta la Coen —. Nella stessa sala a Rovereto sono Kandinsky, Feininger e Il Falciatore di Malevic, un'icona tra l'uomo bizantino e l'uomo meccanico. La novità è la relazione tra Boccioni, Balla e gli altri con le avanguardie russe e tedesche: cubofuturismo, espressionismo e der Sturm. Il paesaggio cubista di Chagall (1919) è di transizione, dichiara l'influenza dei futuristi; e poi Klee, Macke; Marc, Schwitters e il suo Ponte ferroviario ». Centoquaranta opere, da Soffici a Kirchner, da Prampolini a Picasso, presente con una Testa d'uomo. «Ogni stanza documenta un legame tra artisti spesso considerati estranei l'uno all'altro — dice la Coen —. Legame che traspare pure dalla corrispondenza: lettere inedite, quelle tra Severini e Stieglitz, il carteggio mai esposto nella sua interezza tra Kandinky — scettico sul futurismo — e Marc, che invece ne è entusiasta. E il resoconto del viaggio in Russia di Marinetti (1914), scritto dal critico Vladimir Lapsin, che dipana l'intreccio tra futuristi e una Goncharova o un Larionov ». A Milano, nella mostra su Marinetti alle Stelline, Luigi Sansone riunisce nuclei inediti di tavole parolibere, tra cui la più grande mai esposta, Bombardment d'Andrinople, dall'università di Los Angeles. Sempre a Milano, in attesa dell'esposizione su Boccioni scultore, Palazzo Reale dedica una rassegna alla storia del movimento. Trecentocinquanta opere restituiranno la lezione dei «predecessori» come Pellizza da Volpedo, l'influenza di Balla e Boccioni sul secondo futurismo e di quest'ultimo sulle generazioni di Fontana, Burri e Schifano. A Roma infine la mostra che arriva dal Centre Pompidou che ha suscitato qualche perplessità: «In effetti — spiega la Coen, commissario italiano della mostra — l'allestimento era un po' accademico, didascalico. L'esposizione romana sarà diversa ». Si potrà rivivere la storica vicenda alla Galerie Bernheim Jeune nel '12, quando il dinamismo e la velocità dei futuristi avevano acceso la curiosità dei parigini.

Corriere della Sera 17.1.09
I Futuristi. A cento anni dal manifesto lanciato da Marinetti, torna in primo piano il grande movimento d'avanguardia italiano che contagiò l'intera scena artistica europea

Corriere della Sera 17.1.09
Il poeta accusato di «tradimento» da italiani e francesi
La polemica con i cubisti. A rimetterci fu Apollinaire
di Francesca Bonazzoli


Sono stati i francesi, lo scorso ottobre, a dare inizio alle celebrazioni del Futurismo con la mostra «Le Futurisme à Paris. Une avant-garde explosive» che chiuderà alla fine del mese al Beaubourg.
Questo sprint sul traguardo ha offeso l'orgoglio di certi italiani che hanno addirittura parlato di «scippo» e di lettura sciovinista del Futurismo mentre la verità è che il curatore, Didier Ottinger, studioso di gran qualità, ha messo in un serrato e rigoroso confronto il primo Futurismo (i quadri esposti non vanno oltre il 1914) con il Cubismo, entrambi nati contemporaneamente a Parigi.
Ai loro esordi le due avanguardie si criticarono, annusarono e sorvegliarono a vicenda e quasi subito si arrivò a una koiné, un linguaggio comune internazionale, esemplificato dal quadro di Marcel Duchamp «Nudo che scende le scale» del 1912 e dalla creazione del termine Cubofuturismo coniato da Malevic, una formula di sintesi diffusasi rapidamente fra gli artisti, dall'Ungheria alla Russia, dall'Inghilterra alla Germania.
Insomma, sebbene Cubismo e Futurismo fossero ideologicamente e formalmente agli antipodi, la convivenza non poté non portare alla reciproca ibridazione ed è curioso che ancora oggi questa polemica sulla primazia dei francesi o degli italiani ricalchi la stessa che si consumò cento anni fa fra Marinetti e Apollinaire. Con in mezzo Picasso.
Il caso scoppiò su una «spiata» di Severini a Boccioni. In una lettera del 29 ottobre 1912 (resa nota da Renato Miracco), così scriveva: «Carissimo Boccioni... Incontrai Delaunay e Apollinaire, andammo a prendere l'aperitivo in un covo cubista... Apollinaire mi parlò di un suo libro sui cubisti che sta per uscire: egli distingue in cubisti fisici..., cubisti scientifici... e orphiques (quest'ultima classificazione te la dico in francese perché non so tradurla). Secondo Apollinaire les orphiques cercano elementi nuovi per esprimere realtà astratte e noi futuristi apparteniamo a questi ultimi. Comunicalo a Marinetti ».
Messo al corrente, nel marzo 1913 Marinetti scrisse dunque ad Apollinaire accusandolo di aver plagiato le idee futuriste. Boccioni si fece portavoce della protesta italiana attraverso un articolo sulla rivista Lacerba il 1 aprile 1913 dal titolo «I Futuristi plagiati in Francia» dove denunciava che «L'orphisme non è che una elegante mascheratura di principi fondamentali della pittura futurista».
Sollecitato dalle pressioni di Marinetti Apollinaire finì per rettificare il tiro e ne «L'antitradition futuriste-Manifeste Synthese», riconobbe al Futurismo il merito di aver dato avvio al rinnovamento dell'intera arte europea. Risultato: Apollinaire a questo punto divenne inviso ai francesi e fu allontanato dall'Intransigeant dove scriveva come critico d'arte, perché di simpatie troppo futuriste.
Le polemiche e le precisazioni per stabilire netti confini fra Cubismo e Futurismo proseguirono ancora per anni. Ne «Che cosa ci divide dal Cubismo», Boccioni precisava che il cubista era «un analizzatore della fissità, un impressionista intellettuale della forma pura. Così non si riuscirà mai a comporre una forma pura e Picasso per primo, arrestando la vita nell'oggetto, uccide l'emozione... inoltre il quadro cubista è impregnato di un'atmosfera da museo che gli viene da Cézanne e da un errato sentimentalismo di conciliazione tra rivoluzione e tradizione».
Eppure restava pur sempre qualcosa in comune: entrambi i movimenti avevano a cuore la simultaneità della visione, ma mentre il Cubismo è un'arte costruita geometricamente, una riflessione intellettuale sulla forma, il Futurismo è l'immersione nel flusso stesso del movimento. Da una parte il grigio e il marrone, dall'altra l'esplosione di rossi e gialli; da una lato la distanza, dall'altro l'emotività; la rappresentazione ieratica contro l'instabilità. I futuristi stessi erano dentro questa dicotomia e non a caso Carrà, il più vicino a Picasso, finì per scegliere il «ritorno all'ordine ».
La solita vecchia storia dell'odi et amo.

Corriere della Sera 17.1.09
All'alba dell'intellettuale organico
di Sergio Romano


Soltanto tre considerazioni. In primo luogo, questo non è un manifesto artistico. È un proclama politico, un invito ad agire e, nelle intenzioni dell'autore, un documento rivoluzionario. Non vuole creare una nuova arte ma una nuova vita. Appartiene allo stesso clima culturale in cui fiorirono quelle filosofie della prassi per le quali bisognava smetterla di pensare il mondo e cominciare piuttosto a cambiarlo. Non è sorprendente che a Mosca nel 1921 (lo racconta Gramsci), il commissario sovietico all'Istruzione Anatolij Lunarcharskij abbia definito Marinetti un intellettuale rivoluzionario.
Seconda considerazione. La missione — cambiare la vita — è affidata agli intellettuali e agli artisti. Il manifesto annuncia l'intellettuale impegnato e organico che ispira il leader, trascina le masse, annuncia il futuro e sacrifica se stesso, se necessario, sull'«altare dell'idea». In questo senso quasi tutti gli intellettuali italiani del Novecento, anche se pochi furono disposti a sacrificare la vita, sono stati futuristi e marinettiani. E sono stati doppiamente tali quelli che passarono senza battere ciglio dal fascismo al comunismo verso la fine della Seconda guerra mondiale.
Terza considerazione. Letto oggi il manifesto è drammaticamente invecchiato. Anziché apparirci audace e spregiudicato, ci sembra letterario, decadente, ripetitivo, goliardico. Un buon editor suggerirebbe all'autore di sopprimere qualche sostantivo e parecchi aggettivi. Ma è meglio lasciarlo così. Non vorrei che qualcuno ne fosse attratto e sedotto.

venerdì 16 gennaio 2009

***
il Riformista 16.1.09
Dino Greco a Liberazione
«Io, giornalista anarcosindacalista. con me niente più titoli a Luxuria»
di Mattia Salvatore


COLLOQUIO. Si è insediato ieri alla guida di Liberazione l'ex Fiom Dino Greco: «Non farò il commissario di partito, sono un libertario». Il primo editoriale? «Sulla centralità della contraddizione capitale-lavoro».

Il suo telefono è una hot-line. Tutti vogliono sapere del battesimo del fuoco. Della sua prima volta, a 57 anni, da direttore responsabile di Liberazione. Lui che è un sindacalista della Fiom, un volto noto della sinistra, ma sicuramente non un giornalista. «L'impatto è intenso», dice Dino Greco, passando dall'incontro con il cda a quello con tutta la redazione. Dopo tre giorni di sosta, dice, «il quotidiano deve immediatamente rimettersi in moto». Oggi il suo primo editoriale. Per spiegare che «non sono il commissario politico di nessuno, né il custode dell'ortodossia». Ruolo che, ricorda, non è consono alla sua storia e formazione culturale: «Non avrei mai accettato se fosse stato così». Nello stesso tempo, pur confermando la piena autonomia ed indipendenza di Liberazione dal Prc, ritiene «un cortocircuito logico e ingestibile» proporre, così come faceva l'ex direttore Piero Sansonetti, l'obiettivo dello scioglimento di Rifondazione: «È evidente che la dialettica e il confronto, anche ruvido, delle posizioni non può superare una soglia, oltre la quale c'è il dileggio e l'insulto del partito-editore».
Si definisce «un comunista libertario, un po' anarcosindacalista» che, in queste ore, sta cercando di ricostruire i cocci di una redazione che, a parte poche eccezioni, non l'ha accolto a braccia aperte e rimpiange Sansonetti. Punta a convincerli col suo progetto. Su questo, come scrive nell'editoriale, Greco ha le idee chiare. «Bisogna ripartire - sostiene - dalla contraddizione capitale-lavoro, che non è un arnese vetusto novecentesco, ma un elemento assolutamente centrale per la ricostruzione di radici di massa». Vuole portare il suo bagaglio "operaista" nella sua Liberazione con il successivo ritorno alla fabbrica e all'inchiesta vecchio stampo: «Il lavoro è stato espiantato dalla cultura della sinistra». Un quotidiano, insomma, sensibile ai conflitti «veri», il quale ha «per luogo di elezione il sociale» e «non la ribalta mediatica».
Una bacchettata al suo predecessore che nell'ultimo periodo ha sponsorizzato la partecipazione di Luxuria all'Isola dei Famosi e articoli del tipo «Vladimir come Obama». «Sul mio giornale questo cose non si ripeteranno - promette - la ribalta mediatica è solo una droga dispensatrice di illusioni e gratificazioni narcisistiche». Però il ritorno alla contraddizione capitale-lavoro, tiene a precisare, «sarà affiancato dall'innovazione»: le lotte al patriarcato e all'omofobia («Le faremo in una maniera più sobria e seria»), la pace e il disarmo, il contrasto al verminaio razzista «che ha ampiamente contaminato gli strati popolari». Poi la vertenza per terminare «l'ecatombe ecologica generata dal capitalismo»: «Proveremo - afferma - a favorire politiche che rimettano in discussione il modello di sviluppo, il senso e gli obiettivi della produzione sociale». Per realizzare il piano editoriale verranno coinvolti vari intellettuali e non ci saranno, assicura, «epurazioni e ostracismi» nella redazione, «cosa successa invece nel passato» (riferendosi a Sansonetti, ndr).
Oggi Liberazione vende 6mila copie e il timore che possano ulteriormente diminuire è forte. Per Greco il nuovo quotidiano deve subito «uscire da una logica di nicchia»: «La gente - spiega - deve recepirlo come uno strumento utile per la trasformazione. Per riorganizzare la democrazia. Coniugheremo nella pratica reale due aspetti che hanno viaggiato a volte contrapposti: l'uguaglianza e la libertà». In bocca al lupo.

Repubblica 16.1.09
Gaza, migliaia in fuga dalla guerra Ma ai funerali il dolore diventa sfida
L'urlo delle donne: Allah vendicaci
di Guido Rampoldi


Sparano sulle case, in apparenza per evitare il rischio di lasciarsi alle spalle potenziali nemici. Il risultato è l´aumento enorme di profughi che si spostano da un quartiere all´altro inseguiti dalla guerra. Davanti alla scuola di un´agenzia dell´Onu, l´Unrwa, trovo un grumo nero di donne appena scappate con i figli.
La cinquantenne energica che solleva le dita nel segno della vittoria è la vedova di un famoso sceicco di Hamas caduto in combattimento. La più giovane, l´unica con il viso scoperto, non ha dimenticato del tutto l´inglese appreso in Algeria, dove è vissuta fin quando lei e il marito si sono illusi che gli accordi di Olso avrebbero portato la pace in Palestina. Allora sono tornati a Gaza, ed ecco com´è finita: poco dopo l´alba i tank appostati a mezzo chilometro da Hain Naser, un sobborgo di periferia, «hanno cominciato a mitragliare il nostro casolare e quelli vicini». Poiché la famiglia aveva la fortuna di possedere una macchina è riuscita a scappare. Il marito ha lasciato la moglie e figli in città ed è tornato al fronte, in tempo per vedere la propria casa bruciare.
I tank erano sette, e i palestinesi che hanno tentato di fermarli, fossero miliziani di Hamas o proprietari di quei casolari, hanno avuto la peggio. Il furgone che porta indietro uno degli uccisi è imbandierato con gli stendardi di Hamas e il suo altoparlante semina per le strade vuote della periferia orientale un canto gutturale e melanconico. Trovo altri reduci dello scontro nell´ospedale di Gaza. Un miliziano di Hamas: «Non riusciamo a recuperare i morti e i feriti, sparano su chiunque, anche sulle ambulanze. Hanno perso la testa, forse per le voci su un cessate-il-fuooco imminente». Un abitante di Hain Naser: «Un uomo è morto dissanguato perché non permettevano di avvicinarsi. Hanno minato o dato fuoco alle case che si lasciavano dietro, e si sono trincerati nella sabbia». Ormai sono a due chilometri dal centro.
Ma se entrassero difficilmente riuscirebbero a snidare una guerriglia che combatte con circospezione, di notte, e all´alba si dissolve all´interno della popolazione. Gli uccisi delle ultime ore, i "martiri", sono sette, e verranno tumulati tutti insieme all´una del pomeriggio nel cimitero di Rafah. Le veglie funebri durano poche ore, e si svolgono in centro, sotto tende di plastica verde. Chiedo al padre di Youssef Mustafa al-Kurd come siano morti il figlio e l´amico Ahmed al-Bilbasi, anche lui ventunenne, ma ottengo risposte vaghe. Entrambi erano «in visita da amici», sostiene, quando il razzo li ha ammazzati.
Per una città di 150mila abitanti, i quattromila che partecipano ai funerali sono una folla imponente. In gran parte giovani, e forse combattenti; nessuna donna è ammessa alla cerimonia. La policromia delle sciarpe conferma che l´offensiva di Israele grossomodo ha riunito tutti i fratelli-coltelli palestinesi. Ci sono le kefieh a quadratini bianche e verdi, Hamas; bianche e nere, Fatah; bianche e rosse, il Fplp di Habbash.
Ma a guidare la marcia verso il cimitero saranno le bandiere di Hamas, seguite dalle bandiere nere della Jihad islamica. Al momento della preghiera un caccia israeliano sorvola i fedeli a non più di duecento metri dalle teste, con un boato trionfale, sarcastico: a suo modo, anche Israele è presente al funerale. Puntuale. Onnisciente. Ma l´imam che guida la preghiera non ha un´esitazione, e anche i fedeli ignorano intenzionalmente quella dimostrazione di potenza. Allah-u-Akbar, ripete l´imam. Dio è grande, più grande d´Israele.
Ora siamo sullo stradone che conduce al cimitero, confidando come tutti che la guerra risparmi le esequie e i partecipanti. Da un altoparlante una voce rimbomba: «Le nostre condoglianze e il nostro salute alle anime dei martiri volerà con i missili al Banna», i razzi di 10 centimetri di diametro che Hamas sparacchia sulle città israeliane. Le salme sono avvolte nelle bandiere verdi di Hamas e trasportate su barelle che procedono nel corteo a velocità discontinua: talvolta gli otto che portano a spalla il defunto partono con una sorta di corsa improvvisa e concitata, e l´accompagnano con strilli di rabbiosa esultanza. «Il martire è colui che ama Dio», si grida.
Chi dirige il corteo per mezzo dell´altoparlante invita i fedeli a dire chi è il loro dio: tutti alzano l´indice, per intendere Allah. E quel punto il funerale diventa una manifestazione politica. Volete abbandonare la resistenza? No. Volete riconoscere l´esistenza di Israele? No. Continuerete a lottare per liberare la Palestina? Sì.
Il cimitero è una distesa di tumuli di sabbia sui quali crescono piante grasse. L´imam che pronuncia l´orazione funebre assicura di aver ricevuto almeno cinquanta telefonate dallo Yemen, amici che ardono dal desiderio di combattere a Gaza. «Tutti gli arabi oggi vorrebbero essere qui in Terrasanta, per difendere la Palestina».
Eppure qui a Gaza finora non si è vista traccia dei milioni di volontari che Hezbollah dal Libano, gli ayatollah da Teheran e al Qaeda dai suoi rifugi invitavano ad accorrere. «Dio punisce i giudei e chi li aiuta», conclude l´imam. Il funerale è finito. Di nuovo il suono di Rafah è il rombo oscuro del cielo, il suono prodotto dagli andirivieni dell´aviazione israeliana. Nel pomeriggio quegli aerei uccideranno a Gaza il capo della polizia segreta di Hamas, Said Siam. E´ il maggior successo militare ottenuto finora da Israele, e quando apprendono la notizia alcuni giovani quadri di Hamas sono affranti. Ma il loro scoramento dura poco. Dieci minuti dopo, uno di loro mi racconta del miracolo di cui non mi ero reso conto. E´ accaduto al cimitero, al momento della tumulazione del ventiduenne Khaled Abid, militante di Hamas.
La famiglia aveva deciso di seppellirlo insieme al fratello Mahmud, ucciso sei anni fa in territorio israeliano, dunque martire, e perciò, se accettato come tale da Dio, risparmiato dalla corruzione della carne. Scavata la sabbia e sollevato il coperchio di cemento, gli astanti hanno constatato che non solo la salma non si era decomposta, ma addirittura nelle vene il sangue era caldo.
Una cultura che trasforma la sconfitta più definitiva, la morte, in una vittoria paradisiaca, è invincibile. O almeno, non può essere sconfitta con mezzi militari. Quanto più perde, tanto più vince. Quanto più viene decimata, tanto più si conferma nella certezza di essere la prediletta dal Signore. E Dio è più potente di Israele.
«Allah vendicherà la nostra moschea», dice lo sceicco Mansur abu Humaid, imam della moschea al-Abraar, nel centro di Rafah, distrutta l´altra notte da una bomba israeliana. Lo sceicco è un leader ideologico di Hamas. Israele gli ha distrutto la casa e ucciso un figlio. «Allah vendicherà i nostri bambini e le nostre donne». La moschea, racconta, era stata costruita con le offerte dei fedeli, settimana dopo settimana. La bomba l´ha colpita esattamente al centro, con una violenza tale da sbriciolare tutte le botteghe limitrofe e deformare un lampione a 50 metri, piegandolo in una specie di sinuoso inchino. Ieri una via-vai di carretti portava in salvo la merce delle botteghe distrutte; sulle rovine sventolavano le bandiere di Hamas e della Jihad e dal rudere si ergevano, intatte, le sagome impolverate di due grandi antenne paraboliche. Difficile intendere se le parabole siano il motivo per il quale Israele abbia colpito la moschea, e se un motivo "militare" vi sia. Impensabile, infatti, che i capi di Hamas si nascondessero in un tempio notoriamente collegato al loro partito.
Le bombe che cadono sul quartiere di Ibna parrebbero obbedire ad una razionalità meno dubbia. Ibna corre in parallelo alla linea di confine, e dalle cantine delle case partono decine di gallerie che sbucano o sbucavano in Egitto. L´aviazione israeliana ha ridotto in macerie decine di case e ammazzato una trentina di palestinesi.
Ibna adesso è vuota. Gli abitanti sono tutti in casa di amici o di parenti, finché anche quella zona non diventasse insicura. E l´Egitto, la salvezza, la via di fuga, è appena oltre il muro, a 300 metri dalle ultime case.

Repubblica 16.1.09
Dal G8 alla caccia ai romeni, in un libro la rabbia degli agenti nascosta nel web
Il blog dei poliziotti cattivi
Quello che i celerini non dicono in pubblico
di Carlo Bonini


Cosa hanno sedimentato Genova e il G8 nella pancia e nella testa dei reparti celere della polizia di Stato? Quali umori covano, oggi, le loro uniformi? Sette anni dopo la notte della Diaz, un libro, "Acab" (edito da Einaudi), va al fondo di una ferita mai rimarginata e alle radici dell´odio italiano. Il vicequestore Michelangelo Fournier (condannato per i fatti della Diaz), i celerini "Drago" e lo "Sciatto" sono i protagonisti di una storia vera che svela e documenta un universo rimasto sino ad oggi chiuso. A cominciare dalle sue voci.

Rabbia, odio, spirito di corpo. Carlo Bonini racconta in un libro i duri delle forze dell´ordine. A partire dalle loro discussioni segrete sul Web

Le violenze alla Diaz dopo il G8 di Genova? Non mi vergogno di nulla. Accanirsi con trenta manganellate su un manifestante inerme? Dopo ore di sassaiole, quando becchi uno che ti sta davanti è difficile picchiarlo solo un poco. Gli ultras? Dobbiamo fargli tanta paura che non devono pensare di poterci attaccare senza lasciarci le ossa. L´Italia non è uno stivale. È un anfibio di celerino

Viaggio nel blog riservato dei poliziotti tra orgoglio e sfoghi, rabbia e lunghe confessioni "Nessuna vergogna per i giorni del G8 di Genova e per gli errori di qualcuno di noi" Ma c´è anche chi avvisa: "Ragazzi, non siamo nel Cile di Pinochet, non ci pagano in pesos"
"Ricordo Bolzaneto: io c´ero e posso dire che non c´è niente da nascondere"
"I colleghi che si accanivano con i manganelli sul primo che passava hanno sbagliato?"

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«Cari colleghi, riteniamo giusto rammentare, per senso di responsabilità, che DoppiaVela è uno spazio per i poliziotti messo a disposizione dalla polizia di Stato. Le critiche, le lamentele, le segnalazioni di disservizi, anche se esternate in modo aspro ma corretto, fanno parte delle normali dinamiche di dialogo tra l´amministrazione centrale e i singoli dipendenti. Trovano dunque una sede naturale all´interno del portale che non può, però, garantire spazi che la normativa vigente attribuisce ad altri soggetti…».
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Ogni volta che entrava in quella benedetta chat intranet, Drago ne gustava la dimensione perversa. A cominciare da quel nome un po´ ingessato - DoppiaVela, la sigla della centrale operativa nelle comunicazioni radio - e dal post politicamente corretto che metteva sull´avviso i naviganti. Perché la verità era che lì dentro si poteva finalmente essere un po´ guardoni e un po´ scorpioni. Masturbarsi dietro un avatar, leggendo l´illeggibile o scrivendo l´inconfessabile. Divorarsi a vicenda - sì, proprio come scorpioni in bottiglia - soltanto per scoprirsi più soli nella propria rabbia.
Finita sulle prime pagine dei giornali con sei rotondi anni di ritardo, la «macelleria messicana» del dottor Fournier era stato un potente lassativo. Il forum era impazzito. Genova, troppo lontana e spaventosa per sembrare ancora vera, era diventata solo l´occasione per un outing collettivo. La prova, ammesso ce ne fosse bisogno, che il tempo era stato una pessima medicina. Che odio chiama odio.
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G. DA ROMA Ecco che spunta fuori un nostro bel funzionario, che da buon samaritano riaccende fiamme polemiche e propositi dinamitardi. Che, sicuramente, nelle prossime manifestazioni gli antiglobal metteranno in atto perché più autorizzati che mai. Ma quando la finiremo di fare sempre queste mere figure e inizieremo a tenere la bocca chiusa?
Per Aspera ad astra.
N. DA ANZIO Fournier poteva e doveva risparmiarsi la frase a effetto, «macelleria messicana». Adesso, per i colleghi ci sarà la solita Santa Inquisizione mediatico-politica.
Unus sed leo.
I. DA GENOVA Ma questo Fournier dov´era durante gli scontri? Ancora non l´ho capito. Era fra i manifestanti? Ha respirato lacrimogeni? O aveva una mascherina? Secondo me si è messo a cantare perché non gli hanno dato nessuna promozione.
P. DA BARI È ancora in polizia o ha chiesto di passare alla politica?
Sono pronto a mostrare il petto e non voglio essere bendato. Ma tu hai il coraggio di guardarmi negli occhi? E che cazzo, mostra ai più di essere uomo. Barcollo ma non mollo.
D. DA LA SPEZIA Colleghi, basta di parlare di questo soggetto. È penoso e noi lo stiamo aiutando nella sua viscida campagna elettorale.
A. DA CAGLIARI Genova, presente con orgoglio e senza nulla da nascondere. Posso testimoniare di Bolzaneto! Non si tratta di essere grandi e non è veramente falsa modestia… è solo servizio! Ero al VI reparto mobile di Genova.
L. DA SALUZZO Io c´ero. VI reparto mobile. Tanto orgoglio, tanta rabbia!
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(...)
C. DA ROMA Non capisco perché non vogliate parlare degli errori commessi. Qui si tratta di dire chiaramente:
I colleghi che gridavano Sieg Heil ci fanno vergognare, o no?
I colleghi che avrebbero minacciato di stupro le signorine antagoniste meritano la nostra esecrazione, o no?
I colleghi che si accanivano con trenta manganellate sul primo che passava senza sapere se era solo un povero illuso pacifista o un violento vero, hanno sbagliato, o no?
La collega che al telefono con il 118 di Genova, riferendosi alla Diaz, parla di «Uno a zero» dimostra di essere intelligente?
Su queste cose non ci può essere ambiguità!!!
L´esistenza è battaglia e sosta in terra straniera.
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E bravo il nostro C., pensò Drago. Stai a vedere che ora gli vanno addosso i padovani. Se ne stanno zitti da troppo tempo. Ma è più forte di loro. Se c´è da far vedere chi ce l´ha più duro, loro non sanno resistere. Rinfrescò la chat. Solo per vincere una scommessa troppo facile.
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E. DA PADOVA Caro C., rispondo alle tue domande:
"I colleghi che gridavano Sieg Heil ci fanno vergognare, o no?"
No. Non mi vergogno del fatto che in polizia ci siano dei coglioni. Non più del fatto che ci siano in Italia. Sono fiero di essere celerino e italiano, nonostante loro!
"I colleghi che avrebbero minacciato di stupro le signorine antagoniste meritano la nostra esecrazione, o no?"
No. Per questa domanda, oltre a valere la risposta sopra, concedimi anche il beneficio del dubbio. Chi prenderebbe seriamente un tentativo di violenza a una capra malata? Il popolo antagonista non brilla certo per l´attaccamento all´igiene! Non credo a quello che, sicuramente in malafede, sostengono questi personaggi!
"I colleghi che si accanivano con trenta manganellate sul primo che passava senza sapere se era solo un povero illuso pacifista o un violento vero, hanno sbagliato, o no?"
No. Pur essendo convinto assertore della totale inutilità di infierire su un manifestante inerme (questo è l´unico sbaglio, sprecare le forze su uno solo), sappi che è impossibile farsi rivelare dal manifestante durante la carica, se è un «povero illuso pacifista» o meno. È inoltre abbastanza difficile, dopo ore di sassaiole subite, magari con fratelli feriti anche gravemente, beccare uno dei personaggi che ti stanno avanti e picchiarli solo un pochettino. Quello che dico è che il povero illuso, visti gli stronzi che stavano con lui, poteva tornarsene a casa invece di manifestarci insieme! Se gli è andato bene fare da scudo per questi delinquenti, allora non si può lamentare di subirne le conseguenze! Che poi qualche collega si sia comportato come un qualsiasi essere umano sotto stress non mi sembra né incomprensibile né disdicevole. Sicuramente qualcuno avrà commesso sbagli. Sai quanti poliziotti c´erano a Genova? Di sicuro non mi vergogno per i loro errori!
"La collega che al telefono con il 118 di Genova, riferendosi alla Diaz, parla di «Uno a zero» dimostra di essere intelligente?"
No. Ma come si dice a Roma, ‘sti cazzi! Hanno messo a ferro e a fuoco una città, rischiando di farci fare una figura di merda a livello internazionale, provocando danni, feriti, spese enormi e si preoccupano della frase di una telefonista? Non mi vergogno per quello che ha detto. Mi vergogno perché oggi la madre di un teppista imbecille, dimostrando una mancanza di scrupoli e un cinismo degni di una Kapò, è riuscita a farsi eleggere senatrice della Repubblica; perché un partito italiano ha fatto intitolare un´aula all´imbecille!
Non voglio i soldi di questi politici. Non voglio i soldi da questo governo (e da un altro come questo). A difendermi ci penso da me, con l´aiuto di Dio e dei fratelli celerini, che mi stanno accanto e non mi tradiscono nel momento del bisogno.
Once in the Celere, always in the Celere.
C. DA ROMA Quindi, per te, avere al fianco un cretino non è un problema?
Lo dico serenamente: due che tengono e uno che mena non mi sembra da eroi. E poi ti rispondo da romano: ‘sti cazzi un par di palle. Tu non lavori nel Cile di Pinochet e non ti pagano con lo stipendio in pesos messicani (forse è di cattivo gusto visto il titolo del thread di discussione, «macelleria messicana», e me ne scuso con quanti si sentono feriti). Il giuramento che hai prestato parla di far rispettare le leggi, non di fartene di tue. In quanto al rischio della «figura», mi pare che l´abbiamo fatta e basta. E le responsabilità, lo dico da mesi, non sono di chi stava in strada, ma di chi ha permesso che si arrivasse a questo. Siamo stati mandati lì, sapendo quello che ci avrebbero fatto e sapendo come avremmo reagito. Ti piace questo? Ti piace essere una pedina e poi pagarti l´avvocato? Io questo vorrei evitare. Vorrei capire come si può evitare che un collega mandato a fare il proprio dovere si ritrovi indagato in due processi e, dopo la Maddalena, forse anche nel terzo. Scusate la lunghezza.
L´esistenza è battaglia e sosta in terra straniera.
P. DA BARI Scusate, il Sig. Dott. Funz. Uff. Fournier quando lo faranno santo?
Sono pronto a mostrare il petto e non voglio essere bendato. Ma tu hai il coraggio di guardarmi negli occhi? E che cazzo, mostra ai più di essere uomo. Barcollo ma non mollo.
E. DA FIUMICINO Io penso che questi degni eredi di quei cattivi maestri che dicevano in piazza «Uccidere uno sbirro non è reato» ci considererebbero picchiatori fascisti anche se andassimo in servizio di Op vestiti di rosa e con un mazzo di fiori in mano.
B. DA PADOVA Quando alcune centinaia di ultras o di autonomi sono schierati a cinquanta metri da te con spranghe, catene, bombe carta e coltelli, io ritengo opportuno fargli così tanto schifo e paura che non devono pensare di poterci attaccare senza lasciarci le ossa!
L´Italia non è uno stivale. È un anfibio di celerino.
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Repubblica 16.1.09
L'onda anomala chiamata odio
di Gabriele Romagnoli


Cosa hanno sedimentato Genova e il G8 nella pancia e nella testa dei reparti celere della polizia di Stato? Quali umori covano, oggi, le loro uniformi? Sette anni dopo la notte della Diaz, un libro di Carlo Bonini - "Acab", Einaudi editore - va al fondo di una ferita mai rimarginata e alle radici dell´odio italiano Il vicequestore Michelangelo Fournier (condannato per i fatti della Diaz), i celerini "Drago" e lo "Sciatto" sono i protagonisti di una storia vera che svela e documenta un universo rimasto sino ad oggi chiuso A cominciare dalle sue voci Come quelle del "blog" intranet del ministero dell´Interno aperta agli appartenenti dei reparti mobili e dedicata proprio ai fatti di Genova, di cui potete leggere in questa anticipazione di uno dei capitoli del libro

Se occorresse una password per aprire un libro, con "Acab" dovreste provare "odio". Non funziona? Allora tentate "tanfo". Sono le parole chiave del testo di Carlo Bonini che non è il riversamento di una serie di interviste registrate, ma piuttosto del rumore di fondo. Quello che pochi sanno ascoltare, quello che poi produce un´onda definita anomala solo perché non la si era vista arrivare. Si legge la cronaca più efferata, si prende atto delle dichiarazioni irragionevoli di questo o quell´onorevole, si osserva con disneyana sorpresa l´avvento al potere di un manipolo di gaglioffi senza qualità e ci si chiede: ma questi da dove sbucano? E, ancor più: che cosa, chi mi rappresentano? "Acab" è una delle risposte. Una delle tante verità che il club mediatico, perduto nell´autoreferenzialità, abbagliato dal riflesso dei lustrini, sviato al bivio tra la rappresentazione del mondo come dovrebbe essere e come invece è, non ha saputo cogliere per tempo.
C´è una frase di Harold Brodkey, contenuta nel suo diario terminale "Questo buio feroce" che potrebbe fare da premessa e antitesi a questo libro: «Il giornalismo migliore degli ultimi cinquant´anni è stato di sinistra; il che significa che la natura umana è stata ritratta come innocente, come decorosa dall´inizio alla fine di ogni storia». Ecco, "Acab" non commette questo errore. In "Acab" nessuno è innocente, la natura umana è indecorosa dall´inizio alla fine della storia.
Si comincia (dopo un prologo che fa in senso logico da epilogo) con la preparazione dei tre poliziotti protagonisti (il vicequestore Fournier e i celerini soprannominati Drago e Lo Sciatto) al G8 di Genova. La "macelleria messicana" che ne seguì appare un evento ineluttabile in quanto progettato. La dotazione dei "tonfa" ("un arnese duro come l´acciaio, dall´impugnatura a T, un´arma tradizionale delle arti marziali cinesi e giapponesi"), lo scontro, così poco "simulato" con i celerini napoletani: tutti preamboli a una storia che si voleva scrivere esattamente così. Uomini come Fournier, Drago e Lo sciatto furono la penna, più che il braccio. Poco conta il loro genuino disprezzo per "il popolo antagonista", il loro innato culto per il dispiegamento della forza come elemento puro e dirimente: restano un ingranaggio. E resta la domanda retorica di Drago: «A noi il culo chi ce lo parerà se le cose andranno storte?». La risposta è ovvia e constatata: nessuno.
Infatti anni dopo si ritrovano, dislocati e neutralizzati, alla vigilia di un´altra battaglia, questa sì imprevista. Roma-Cagliari si annunciava una partita come tante, una passeggiata di salute per pre-pensionati della celere. Senonché alla vigilia, in autogrill lontano, un tifoso laziale di nome Gabriele Sandri è stato ammazzato da un agente e lo stadio diventa l´epicentro di una guerra non dichiarata tra le tifoserie unite e la polizia. Tra la notte della "macelleria messicana" e quella della battaglia dell´Olimpico sono trascorsi 7 anni. E in quell´arco di tempo è cresciuto l´odio, è salito il tanfo. In un´Italia a lontana equidistanza dagli studi televisivi infestati da tuttologi e squinzie e dalle sale convegni analogamente popolate il rumore di fondo si è fatto assordante. "Acab" lo riporta, senza preoccuparsi è vero della struttura narrativa, ma badando a riprodurlo fedelmente. Il rumore di fondo è l´insofferenza del celerino che con inconsapevole ironia fa il verso a Pasolini e dice alla moglie «io so». Che cosa? «Quale ipocrita recita sta andando in scena». È il traffico di parole cariche di conseguenze sulla strada reale che i poliziotti si scambiano su quella virtuale della chat. È il motto "padroni a casa nostra" che parte dalle periferie di Roma, umiliate dall´arroganza dello straniero e dall´omicidio di Giovanna Reggiani. È l´accoglimento di quel motto da parte di chi dovrebbe avere come sola linea guida il rispetto della legge. È la mistica degli ultrà, ormai totalmente scorporata dal tifo e dalla squadra, che riunisce in un solo pantheon degli eroi Garibaldi, gli Arditi della prima guerra mondiale, i Franchi tiratori «che accoglievano gli invasori anglo-americani nell´unico modo possibile» e Carlo Giuliani. Sono forme contrapposte della deriva fascistoide quelle che si contrappongono nella finale notte di Roma, in un´oscurità più mentale che temporale. Ma qui siamo e di questo dobbiamo rendere conto, per non finire come quegli italiani, comprensibilmente esecrati da Fournier turista a New York, che se ne stanno, esuli in nota spese, nel loro loft a Tribeca e da lì commentano con il sopracciglio alzato quel che accade in un luogo a loro di fatto straniero. Qui siamo e con questo odio e tanfo dobbiamo fare i conti, prima che diventi più ancora che filo della cronaca, segno della storia.
Il prologo, dicevo, è nella logica un epilogo. Un paio di ultrà romanisti in autostrada viene aggredito da un convoglio di napoletani ancor più feroci. Li salva l´arrivo della polizia. C´è stato il G8 di Genova e c´è l´emergenza quotidiana. Ci sono mali tra cui scegliere, nessun santo a cui votarsi, ma qualche diavolo minore. Qualcuno potrà accusare Bonini di aver contratto una "sindrome di Stoccolma" verso i celerini. Chi pensa che "tutti i poliziotti siano bastardi" non legga questo libro, ma neppure chiami mai il 113.

Repubblica 16.1.09
Genova. "Pubblicità ingannevole gli slogan atei sui bus"


GENOVA - L´Autorità Garante della concorrenza e del mercato, dopo la segnalazione del senatore di An Giorgio Bornacin, ha aperto un fascicolo per presunta "pubblicità ingannevole" sulle affissioni di slogan atei previste a febbraio su due autobus di Genova, e organizzate dall´Unione degli atei, agnostici e razionalisti (Uaar). Intanto a Barcellona, dove la campagna è già in corso, è partita una controffensiva cattolica: sulla fiancata di un mezzo pubblico è apparsa la scritta "Dio esiste, goditi la vita in Cristo".

Repubblica 16.1.09
Morandi. La vera gloria della pittura
A Bologna la mostra di New York


Dentro le mura della sua città il grande maestro del Novecento ha svolto la sua vita d´artista Un percorso che oggi è possibile ripercorrere al MAMbo

BOLOGNA. Aureolata di gloria, giunge oggi in Italia la mostra "Giorgio Morandi 1890-1964", ospitata dal Museo d´Arte Moderna di Bologna dopo il passaggio in uno degli spazi maggiori del Metropolitan Museum di New York.
Il riscontro newyorkese è stato più che positivo. Oggi la mostra apre a Bologna (dal 22 gennaio, a cura di Maria Cristina Bandiera e Renato Miracco, catalogo Skira), con qualche sostanziale aggiustamento rispetto all´edizione americana: ed è la prima volta che una così vasta rassegna del maggiore pittore italiano del ventesimo secolo ha luogo nella sua città natale, dopo il 1990 e la grande "mostra del centenario" che si tenne proprio al museo civico cittadino.
Molto tempo è trascorso da allora; molti studi, e molte polemiche, sono nel frattempo occorsi. Relativi, i primi, soprattutto al rapporto con Francesco Arcangeli e con Cesare Brandi, i due studiosi, distanti per generazione e talenti, cui più intensamente Morandi fu legato (studi soprattutto confluiti, rispettivamente, nella edizione critica della controversa monografia di Arcangeli, di recente edita da Allemandi a cura di Luca Cesari, e del carteggio integrale intercorso fra Brandi e Morandi dal 1936 al 1963, pubblicato adesso da Gli Ori a cura di Marilena Pasquali). Le seconde, invece - le sempre aspre polemiche che riguardano, per strano contrappasso, una personalità così apparentemente lontana da esse come quella di Morandi - legate per lo più all´opportunità di collegare strettamente l´opera sua alla vicenda artistica della città, e alle collezioni del suo Museo civico, o invece di dare alla sua figura piena autonomia di voce.
Entro le mura della sua città, arroccata all´ombra delle sue torri medievali, a lungo tetragone alle suggestioni "moderne" che potessero venirle da fuori, Morandi ha svolto quasi intera la sua vita di pittore. Restano proverbiali i suoi silenzi, il suo scontroso isolarsi, la sua appartatezza, protetta sempre dalla cerchia affettuosa e devota che attorno a lui, e certo su sua sollecitazione, avevano costruito le sue tre sorelle. A mezzo fra realtà e mitologia, questa è l´immagine di Morandi che dura sino almeno alla morte. Un´immagine con cui infine il pittore stesso finì per consentire, e della quale in qualche senso può dirsi che egli si giovò: appoggiando su di essa la sua estraneità profonda dalle sorti di una pittura italiana sovente, in Europa, percepita come piccina.
La sua grandezza fu a mala pena intuita fra le due guerre; finché una sala personale alla Quadriennale romana del 1939 non lo portò all´attenzione di una critica e di un pubblico più ampi. Giunto alla soglia dei cinquant´anni, Morandi uscì solo allora da quella situazione di semi-clandestinità in cui era stata confinata sino ad allora la sua pittura, "intimista" ed "ermetica". A fronte di ciò, egli ebbe la forza di proseguire, quasi cieco di fronte a tante incomprensioni, la sua ricerca.
Gli anni Dieci erano stati per lui di vasto orientamento sulle principali fonti della pittura moderna: a muovere da Cézanne, e fino al primo cubismo di Picasso e di Braque. Sul finire del decennio, poi, l´adesione, di breve durata, alla metafisica, e a seguire all´esperienza di "Valori Plastici", pongono fine a un tempo in cui il pur appartato Morandi si compromette con i suoi coetanei e con le loro teorizzazioni. E già sul finire del 1920 alcune straordinarie nature morte fosche, assembrate d´oggetti e di luci sopite, dense di materia corrusca, dicono che una nuova stagione s´è aperta: e sarà quella, della lunga, definitiva maturità. In cui Morandi, ritrattosi da ogni legame e solidarietà con i suoi più prossimi colleghi, si dispone in traccia di una strada soltanto sua. La ripercorriamo oggi al MAMbo, con l´emozione che sempre essa assicura.

Repubblica 16.1.09
Shoah. Quando non ci saranno più testimoni
di David Bidussa


Il 27 gennaio sarà la Giornata della Memoria. Un libro di David Bidussa affronta la retorica ufficiale del genocidio ebraico e il ruolo della storia
Questa data non è il giorno della commemorazione dei morti, ma del ricordo per i vivi
Tutto è successo perché il sistema consentiva la non responsabilità individuale

Anticipiamo una parte del libro di "Dopo l´ultimo testimone" (Einaudi, pagg. 136, euro 10) da oggi in libreria

Quando rimarremo soli a raccontare l´orrore della Shoah, non basterà dire «Mai più!» né rifugiarsi tra le convenzioni della retorica. Serviranno gli strumenti della storia e la capacità di superare i riti consolatori. (...)
Nel Giorno della memoria non ci interroghiamo dunque sui sopravvissuti o sui testimoni diretti, ma su noi stessi, venuti dopo, e che da quell´evento siamo segnati, qualunque sia il nostro rapporto individuale e familiare con esso. Sia che siamo figli delle vittime, dei carnefici o di quella ampia fascia di zona grigia, di mondo degli spettatori, che si trova in mezzo. Insieme a noi, ci sono i testimoni culturali, ovvero gli autori della produzione storiografica, figurativa, letteraria, cinematografica, che accompagnano l´estrinsecazione delle testimonianze dei sopravvissuti.
In sostanza non c´è da attendere un domani, più o meno lontano, per chiedersi che cosa faremo dopo che l´ultimo testimone sarà scomparso. Quel passaggio si è già consumato. Del resto, a riprova, la notizia della morte � avvenuta il 17 giugno 2008 � di Henryk Mandelbaum, l´ultimo sopravvissuto in Polonia del «Sonderkommando» del campo di concentramento nazista di Auschwitz-Birkenau, non ha modificato il quadro emozionale, non ha segnato nella coscienza pubblica un «prima» e un «dopo».
Si è inaugurata l´età della postmemoria, una stagione che obbliga a confrontarsi con le domande che questa condizione pone rispetto alla conservazione di un certo passato e sugli strumenti che noi abbiamo per indagarlo, comprenderlo e rappresentarlo.
La nostra attualità è attraversata da diversi scenari che rischiano di trasformare quest´attenzione in una nuova eclissi.
Il primo riguarda i tempi della memoria. Il ricordo del genocidio ebraico ha avuto tempi lunghi prima di rendersi autonomo e «visibile» nella coscienza pubblica. Ha avuto un suo risveglio a partire dagli anni ´80, sull´onda anche della spettacolarizzazione dovuta a Holocaust (il serial televisivo che nel 1978, negli Stati Uniti come in Europa, ha inaugurato una nuova stagione nella percezione del genocidio ebraico). Da allora quel tema è stato al centro della discussione pubblica, anche «riscoprendo» le domande di chi a lungo e con pazienza aveva indagato intorno all´evento nell´indifferenza generale. L´esempio più evidente è proprio nell´opera unanimemente oggi riconosciuta come la più esaustiva, ovvero la monografia di Raul Hilberg, La distruzione degli ebrei d´Europa, composta in solitudine, ignorata negli anni ´50, pubblicata nel 1961 nell´indifferenza generale e infine «scoperta» nel 1985.
Tornerò più in dettaglio su Hilberg, ma è importante sottolineare come la ricerca storica talora viva di vita propria e non solo di spettacolarizzazione o di rapporto con le domande che la discussione pubblica suscita. Quelle domande riguardano lo spessore, la fisionomia, l´estensione e la tipologia della «zona grigia», una questione che resta in eredità a chi viene dopo e che, soprattutto, non ha il fascino né della celebrazione dell´eroe, né della consolazione della vittima. La storiografia quando ha un valore civile non consola, bensì pone domande, e probabilmente è anche per questo che nonostante tutti dichiarino di amare la storia, di provare per essa un interesse quasi morboso, poi tengono la storiografia a distanza. Ci sono opere che bruciano ancora per le domande che pongono e perché rispetto a esse l´insorgenza morale non serve. E in ogni caso non è solo una questione morale. È una problematica che coinvolge il sentimento politico e, più generalmente, la mentalità diffusa, specie nel caso italiano.
Infatti, intorno al concetto di zona grigia, soprattutto nel modo in cui si è radicata quest´immagine nel senso comune in Italia, è venuta costruendosi una filosofia politica. L´espressione «zona grigia», creata da Primo Levi e originariamente riferita a coloro che nell´esperienza del Lager rappresentano l´area dei privilegiati nella complessa sociologia e gerarchia degli schiavi, nella storiografia sulla Resistenza e sulla guerra civile ha avuto uno slittamento di significato ed è perciò venuta a designare quella parte di popolazione che passivamente non si è schierata con nessuna delle due parti in campo. Una condizione inizialmente vissuta con disagio e poi, lentamente, rivendicata con orgoglio (...)
Il secondo scenario riguarda la centralità delle vittime. Nel corso degli ultimi due decenni la dimensione della vittima ha assunto una nuova fisionomia. Se a lungo la questione degli sterminî è stata pensata in relazione al termine di trauma � e dunque il problema e l´attenzione rispondevano all´esigenza di individuare strategie volte al recupero o al reinserimento �, la dimensione della vittima tende ora a essere presentata come una condizione non mutabile. La vittima nella comunità entra in ragione della violenza che ha subito e dunque per questo trova spazio e rispetto. Ma lentamente quella condizione si estende e genera un nuovo diritto: nello spazio pubblico comincia ad affermarsi la convinzione che solo presentandosi come vittime si avrà diritto alla giustizia.
È un meccanismo che lentamente dimentica il presupposto da cui era partito, legato all´eccezionalità, alla condizione estrema del sopravvissuto, ed estende così all´infinito la realtà traumatica. Trasforma una condizione fisica, oggettiva, in una psicologica.
L´effetto è la ripresa del meccanismo vittimario, che non è solo appannaggio dei sopravvissuti, ma anche e sempre più di coloro che hanno una visione paranoica della realtà, ossessionati dall´idea di forze potenti che agiscono contro la propria gente. Un´affermazione del processo di produzione delle vittime che elimina la dimensione storica e fattuale del suo realizzarsi in termini di atti, conflitti, figure, circostanze (e dunque non indaga su chi siano i persecutori, non descrive le azioni dei carnefici, bensì destoricizza perché riconduce a sé tutta la vicenda) e spiega, ad esempio, perché paradossalmente la richiesta di riflessione sulle vittime, che pure esigerebbe una maggior produzione di analisi storica, chiami in causa altre piste di indagine � la psicologia, la psicoanalisi, la teologia � ma significativamente eviti la storia sociale e si guardi bene dall´affrontare la storia dei comportamenti.
Paradossalmente, solo portando al centro le figure dei carnefici o della macchina dello sterminio, quella domanda di storia ha avuto la possibilità di sostenersi.
Nello specifico è stato da una parte La banalità del male di Hannah Arendt ad aprire questa possibilità, proprio perché al centro del libro non erano poste le vittime ma la macchina distruttiva, e successivamente si è aggiunto il saggio di Christopher Browning, Uomini comuni, che ha consentito una nuova stagione di indagine culturale, storica e sociale sugli sterminî. In tutti e due i casi il cuore dell´indagine riguarda la sfera dei carnefici e degli esecutori, la macchina burocratica come luogo produttivo della storia. Un nuovo aspetto che chiama in causa la nostra quotidianità ma che, di nuovo, evitiamo di mettere al centro della nostra riflessione, sulle forme del consenso, o su come si produce la morte di massa nell´età della tecnica. Un evento che evoca il principio della cooperazione industriale. La fabbrica moderna è capace di produrre in serie milioni di esemplari dello stesso prodotto perché migliaia di individui nello stesso istante compiono un gesto, un atto sequenziale.
Questo processo è possibile perché pone a suo fondamento la cooperazione tra individui. Il genocidio ebraico, come ricorda lo storico Pierre Vidal-Naquet, è un evento possibile, e realizzabile, perché basato sullo stesso principio organizzativo: un sistema che consente la non responsabilità individuale nello sterminio.

Repubblica 16.1.09
La protesta da domenica, alle ore 12, coinvolgerà gli stabili di Napoli, Firenze, Torino e altre città italiane
Nei teatri una sirena contro la guerra


ROMA. Il suono di una sirena risuonerà nei teatri di Napoli, Torino, Firenze e altre città italiane per dire no al conflitto nella striscia di Gaza e in solidarietà alle popolazioni stremate dalla guerra. L´iniziativa partirà domenica da Napoli, dal Teatro Mercadante che per primo ha sollecitato gli altri teatri italiani a organizzare simili forme di protesta. Alle 12, nella sede del teatro stabile di Napoli, ci saranno una serie di postazioni dove attori, scrittori, registi e intellettuali "leggeranno" brani selezionati dai grandi testi sulla guerra di ogni epoca e luogo: il suono della sirena d´allarme - «la stessa che da venti giorni scandisce le ore di migliaia di esistenze» - interromperà e disturberà volutamente le letture.
«Abbiamo voluto fissare un appuntamento, vivo e aperto – hanno dichiarato Valeria Parrella, Lorenzo Pavolini e Francesco Saponaro, componenti del comitato artistico del Mercadante con l´adesione del direttore Andrea De Rosa - dove incontrare quanti, con noi, vogliano manifestare l´inquietudine per la nuova guerra in Medio Oriente, e esprimere solidarietà alle vittime e alle popolazioni innocenti di entrambi i fronti».
Immediate le adesioni all´appello: attori e intellettuali come Enzo Moscato, Renato Carpentieri, Pierpaolo Sepe, Cristina Donadio, Eleonora Puntillo, Oreste Zevola, Carlo Cerciello, Mario Gelardi, Mimmo Borrelli, Antonio Viganò. E poi i teatri : lo Stabile di Torino diretto da Mario Martone, quello della Toscana diretto da Federico Tiezzi, Emilia Romagna Teatro diretto da Pietro Valenti hanno subito detto di sì e anche loro adotteranno per qualche giorno l´espediente del suono della sirena in sostituzione del consueto segnale d´inizio spettacolo, «per ribadire il ruolo civile del Teatro».

Repubblica Firenze 16.1.09
Il medico di Eluana
Quando il corpo diventa una prigione
di Maria Cristina Carratù


A "Leggere per non dimenticare" Carlo Alberto Defanti l´esperto di bioetica
"Il punto dove inizia la morte è in realtà indefinibile Ma lo stesso si può dire della vita"

Che cos´è la morte? Di esprimersi con competenza su un tema oggi fin troppo, e, a sproposito, frequentato, è ormai consentito a pochi, fra i quali, a pieno titolo, Carlo Alberto Defanti, il neurologo noto per aver seguito Eluana Englaro, ma già notissimo in un campo, come quello della bioetica, di cui è stato uno dei pionieri in Italia. Già direttore dei reparti neurologici degli Ospedali riuniti di Bergamo e del Niguarda di Milano, fra i fondatori della Consulta di bioetica, oggi docente di Bioetica al San Raffaele di Milano, Defanti ha deciso di raccontare la sua esperienza in un libro che già dal titolo si presenta come compendio di interrogativi, ben più che di rigide tesi: «Soglie. Medicina e fine della vita» (oggi a "Leggere per non dimenticare", con l´autore e Adriano Prosperi, ore 17,30. Biblioteca delle Oblate, via dell´Oriuolo; a seguire «Il mondo di Sergio», di Mauro Paissan). Sebbene in realtà una tesi, al fondo, emerga: la morte è una convenzione. Sì, dice, Defanti: la soglia estrema dell´umano è, in realtà, indefinibile. Ma non si può forse dire lo stesso della vita, che della morte è la condizione? Restare nell´incertezza, però, se è consentito ai filosofi, non lo è alla medicina, che ha fini molto pratici come la necessità di stabilire quando una persona è morta per procedere, per esempio, a un espianto di organi. Da qui, dice il neurologo, la necessità di trovare della morte, di volta in volta, definizioni socialmente accettate. Utili per un´epoca più o meno lunga, ma, avverte Defanti, sostanzialmente transeunti. Da rispettare sempre pronti a modificarle. Non in quanto relativisti, bensì in nome di quella continua «correzione di rotta» che il rapporto con la morte, di per sé, impone alla vita.
Professor Defanti, il suo libro nasce dalla sua esperienza concreta di neurologo, membro di commissioni per l´accertamento della morte cerebrale. La sua posizione nasce cioè da una esperienza diretta di chi è chiamato al difficilissimo compito di decretare il superamento della fatidica soglia�
«Sì, cosa tecnicamente di routine, ma che mi ha spinto a riflettere a fondo su quella sfida contro-intuitiva all´immagine di una persona con il cuore che batte, da definire però "morta". Mi sono reso conto di come la definizione di "morte cerebrale", proposta nel �68 dalla scuola di Harvard e poi passata quasi ovunque nella legislazione internazionale, fosse non tanto il risultato di una scoperta scientifica, ma di una convenzione, che consentiva finalmente di mettere ordine in un settore fino ad allora del tutto incerto. Con l´avvento dell´era dei trapianti, dopo quello di Barnard nel �67, i chirurghi rischiavano infatti l´accusa di omicidio».
D´altra parte, come ricorda nel suo libro, la morte, che pure sembrerebbe qualcosa di assoluto, è sempre stata in realtà qualcosa di incerto e dubbio, vedi il timore delle morti apparenti o i gialli di Edgar Allan Poe.
«Sì, e continua ad esserlo, ma al contrario di un tempo, quando si trattava di limiti dei mezzi di accertamento, oggi i confini della morte saltano causa il nostro pesante intervento tecnico. La morte così è diventata un processo, fatto di tante soglie, una delle quali soltanto, però, va indicata come morte vera e propria».
Ma cos´è davvero la morte cerebrale, e come è possibile che una convenzione sia sufficiente a eliminare problemi etici, tanto che nemmeno la Chiesa si oppone agli espianti?
«La morte cerebrale si dà in presenza di danni gravissimi di tutto il cervello e in assenza di qualunque funzione vegetativa. Che non è, il caso di Eluana Englaro, completamente priva di coscienza, ai confini della morte cerebrale, ma ancora dotata di funzioni vegetative. E di fronte a cui il problema diventa quale sia il senso di una vita puramente biologica in persone che non sanno neppure di esistere. Il suo caso mostra che chi volesse uscire da questo stato, oggi, ha la strada sbarrata».

Repubblica Firenze 16.1.09
Se quello è un uomo
di Anna Benedetti


Rispetto a un passato da cui ci distanziano solo pochi decenni la soglia estrema degli umani è diventata sempre più oggetto di definizione stipulativa. Dai due libri proposti ho scelto le seguenti righe:

«Soglie, medicina e fine della vita» (pagg. 193-195)
La distinzione tra persona ed essere umano era meno rilevante un tempo, quando la fine della vita cancellava in modo pressoché simultaneo i diversi aspetti della persona, mentre diviene sempre più pregnante oggi, quando il progresso della tecnologia medica consente la dissociazione tra le diverse sfere dell´esistenza, come accade nello stato vegetativo permanente e nelle fasi avanzate dell´Alzheimer. In queste situazioni-limite, pur non essendoci dubbio che si ha a che fare con esseri umani, non sembra che vi siano più i criteri per un riconoscimento dei soggetti come persone, per lo meno quando si assuma che una delle caratteristiche delle persone sia la capacità di autocoscienza e/o di qualche forma di razionalità. (...) Il cambiamento di status da persona a non-più-persona è fondamentale per l´attuale discussione su quale sia la forma adeguata di assistenza a questi malati e se si debba in ogni caso proseguire o meno il trattamento di sostegno vitale. (...)

«Il mondo di Sergio» (pagg. 127-128)
Durante le sue crisi di violenza, Sergio è non solo distruttivo ma anche autodistruttivo. Picchia, con forza il capo contro le pareti o si butta sul pavimento, sbattendo la fronte con impeto. Questa l´interpretazione di Salvatore: "Inizialmente pensavo a un modo infantile per esprimere la propria collera, poi cominciai a convincermi, col passare degli anni, che fosse questo un modo di agire da "soggetto autistico", che spesso mostra insensibilità al dolore. Per ultimo mi sono persuaso che Sergio veniva pervaso da un desiderio di annullamento di se stesso e cercava di evadere da questo mondo, voleva scomparire, per sempre, nell´ombra del nulla.

Corriere della Sera 16.1.09
Testimoni Esce da Rizzoli il quaderno della diciottenne olandese scritto nel campo di concentramento e rimasto segreto per quasi sessant'anni
Diario di Helga, l'amore perduto in un lager
Le lettere al fidanzato dell'«altra Anna Frank»
di Helga Deen


Uccisa con la famiglia nel luglio '43
I testi che pubblichiamo in questa pagina sono tratti da Non dimenticarmi. Diario dal lager di un'adolescenza perduta, da oggi in libreria per Rizzoli (traduzione di Marika Viano, pp. 184, e
17). L'autrice, Helga Deen, ebrea olandese, aveva 18 anni quando dal campo di concentramento di Vught cominciò questo diario in forma di lettere al fidanzato, Kees van den Berg. I due ragazzi non si sarebbero più rivisti: Helga, deportata il primo giugno 1943, venne uccisa con la famiglia il 16 luglio.
Il diario, uscito fortunosamente dal campo di Vught è stato conservato da Kees e soltanto nel 2001, alla sua morte, il figlio Conrad lo ha ritrovato e consegnato all'archivio di Tilburg.

Sabato 12 giugno 1943
Oggi sono passati 2 mesi e mi sento così profondamente infelice. Per tutto questo tempo sono stata allegra e forte, anche se sono successe tantissime cose incresciose, talmente tante che non si possono appuntare tutte. Abbiamo dormito troppo poco e io sono così terribilmente stanca che a volte tutto si accumula. Forse sono una grande egoista, ma tutti i giorni arrivano dei pacchetti e Greet, la ragazza accanto a me, riceve sempre qualcosa dai suoi conoscenti. A Gerda stasera è arrivata una salsiccia, ma una così bella. Qualche volta vorrei ricevere qualcosa da voi, non perché ho fame, ma perché me lo mandate voi. Anche se tutti, ma proprio tutti, sono gentili con me, io mi sento così sola. Ogni giorno vediamo la libertà al di là del filo spinato. C'è anche un sentierino, contornato di arbusti e betulle, che finisce molto in lontananza in un campo di grano. Spesso vagheggio che tu lo trovi e che io possa vederti comparire alla sera. Uffa, non si può mai star da soli, tutto intorno è un continuo litigare e sbraitare. Tu stesso lo avrai esperimentato a Haaren. A volte è come se dovessi rimanere qui per sempre, ma comunque è impossibile.
Adesso lavoro all'ospedale, faccio le pulizie. Se la svignano tutti, tranne Greet e io. Credo che noi siamo troppo ammodo, perché se c'è del lavoro da fare, generalmente siamo le uniche a rimanere incastrate. Naturalmente ce la prendiamo con tutto comodo, ma è normale se la notte si dorme troppo poco! Il giusto mezzo qui non esiste. Da una parte hai le bestie da soma e gli operosi e dall'altra i fannulloni. E se a volte ti ritrovi in mezzo a donne ebree tedesche, che impartiscono ordini, anche i peggiori sembrano migliori, basta solo che uno sia gentile e cortese e non ti ringhi contro, ma ti offra un pezzo di pane e una tazza di tè. Oggi la roba da mangiare era acida; sicuramente a causa del caldo. Signore, mi sento di nuovo un po' meglio, ora che ho scritto un pochino mi torna il buonumore. Lo farò più spesso comunque. Non è che oggi pensi di più a me?

Martedì 15 giugno 1943
Sembra un'eternità e quanto durerà ancora. M. era qui, avrebbe dovuto portare qualcosa. Non l'ha fatto. Dio, non vedo né un principio né una fine, sembra resterò qui in eterno. Oggi tutto è nero e tetro, non un solo puntino di luce. Ho pianto fino a poco fa, ora scrivo: scrivere mi dà sempre sollievo e mi ridona fiducia. Appello, fra poco continuo.
È già pomeriggio. Forse vado subito a passeggiare per un poco con mia madre. È stata una giornata così terribile. Stamattina ero rimasta coricata, perché non mi sentivo bene. Agognavo un po' di pace, ma qui essere malati è la cosa peggiore che ti possa capitare. Non c'è pace, tutto il giorno è un bisticcio continuo, la «plebaglia» si insulta, sbraita, i vecchi contro i giovani e viceversa. Sono tutti tremendamente asociali qui. Ognuno pensa a se stesso, nessuno capisce niente; molti, generalmente i ragazzi, non si rendono neanche conto della situazione, pensano di essere qui per divertirsi. Nonostante le continue richieste educate degli altri, continuano a cantare, schiamazzare e ridere fino alla sera tardi. Non hanno rispetto per nessuno, né malati, né anziani. Prendono addirittura in giro una ragazza che era una suora. Anche se hai una fede incrollabile, sono offese che fanno male, pur sapendo da quale pulpito arrivano. E io stessa sono andata da loro, volevo parlargli: ma mi hanno solo deriso. Non capiscono niente, e non vogliono proprio capire. Attraverso un pezzetto di finestra ho visto tramontare il sole, oro fuso dietro a luccicanti foglie di betulla. Un silenzioso fuoco sacro. Com'è possibile tutto questo? Da una parte quella bellezza sacra, tranquilla, e me stessa e dall'altra questa atrocità rivoltante. Voltavo le spalle all'uno, mentre non potevo raggiungere l'altro e mi sentivo così sola. Greet piangeva, anche per il disgusto, per l'indescrivibile dolore che tutto questo causa. Dio mio, perché deve esistere una cosa del genere, perché le persone devono rendersi l'un l'altra la vita così difficile? Questi sono quelli che si chiamano primitivi istinti di sopravvivenza. È qualcosa di terribile, ma io non credo che me ne lascerò mai trascinare, perché mi disgusta.
Qui corre voce che domenica ci sarà un altro convoglio. Si vive nella miseria più totale. Neanche i sogni ti appartengono più. E allora ti tormenta dentro la miseria più tetra: tremenda, frastornante, urlante, ossessionante. Oppure sogni il cibo, le leccornie più diverse. Stamattina nel mio sogno, mi hanno messo davanti tante fette di pane con marmellate di ogni tipo, ma erano irraggiungibili, e pensare che non ho neppure veramente fame. La tensione costante e tutto il resto logorano i tuoi nervi e chi non ha una volontà di ferro finisce a pezzi. Ma io la volontà ce l'ho e resisterò. E poi c'è anche quello che ho visto ieri sera, anche se non potevo raggiungerlo. Finché lo tengo costantemente di mira, il pericolo di soccombere e venire sopraffatta non è così grande, credo. E se nonostante la mia volontà dovessi soccombere, allora vuol dire che doveva andare così. Forse questa è la prova del fuoco oppure è il volere di Dio, a cui devo conformarmi, rassegnarmi. Comunque tienimi stretta, la notte fammi riposare sul palmo della tua mano, come un tempo la tua principessina e allontana i brutti sogni. Dammi pace, pace e forza.

Corriere della Sera 16.1.09
L'ultimo volume della «Storia» affronta gli italiani viventi Si privilegia la specificità teoretica a un generale sapere teorico
La filosofia oggi: autobiografia di 59 protagonisti
Spazio a epistemologia e logica, meno all'estetica I curatori: «Presenti i migliori centri di ricerca»
di Pierluigi Panza


Quanti sono i filosofi in Italia? Chi è oggi un filosofo? Cosa fa oggi un filosofo in Italia? Dario Antiseri e Silvano Tagliagambe, con la collaborazione di Vincenzo Cicero, hanno provato a censirli nel XIV, ultimo e nuovissimo volume della Storia della Filosofia di Reale e Antiseri (Bompiani) in edicola con il Corriere della Sera. Con perizia e coraggio, dando alle stampe lo strumento più completo sull'argomento, anche nel confronto con altri testi come Filosofi italiani contemporanei di Bruno Maiorca (Dedalo) o l'analogo volume dell'editrice Cleup curato da Micheli e Scilironi. I nostri hanno censito ben 59 filosofi, che vengono presentati in ordine alfabetico e con un profilo redatto, nella quasi totalità dei casi, dallo stesso pensatore.
Censire e analizzare la contemporaneità si presta inevitabilmente a problemi di metodo, dal quale derivano le scelte di presenti ed esclusi. Vediamo alcuni di questi aspetti.
Quasi tutti i censiti sono docenti universitari, e ciò suggerisce una doppia riflessione: il filosofo, oggi, in Italia, per vivere non può che insegnare. Ma anche oggi in Italia viene ritenuto «filosofo» solo chi, per cooptazione, appartiene a un raggruppamento disciplinare dell'area filosofica di un'università; e ciò è autoreferenziale. La figura del «libero pensatore », dell'intellettuale sul modello francese e dell'erudito colto di stile settecentesco (alla Algarotti) sembrerebbe «non appartenere» alla comunità dei «filosofi». Di conseguenza, pur apprezzando l'attenzione data ai «centri di ricerca nel mondo e alle scuole di più ampio e riconosciuto prestigio» verso la quale si sono orientati i curatori (come scrivono) e, ovviamente, senza suggerire di includere in un'enciclopedia il variegato universo dell'«opinionismo» prêt-à-porter, il censimento compiuto dà l'idea che la comunità dei pensatori italiani sia un po' lontana dalla realtà socio-politica, nonostante l'encomiabile sforzo di includere esperienze di pensiero nate in ambiti diversi. E questo per due motivi: la comunità tende a riconoscere solo a se stessa una «patente» di filosoficità, ma d'altro canto l'Italia non è nemmeno un Paese che favorisca lo sviluppo di riflessioni teoriche in ambiti diversi dall'accademia...
Detto questo, vale la pena di sollevare ancora due prioritari quesiti di «specificità» per un volume di «filosofi contemporanei». Il primo è questo: in un orizzonte degli studi nel quale la riflessione teorica sulle diverse discipline che si insegnano trova spazio marginale, è o non è il caso di includere le elaborazioni teoriche sulle singole discipline nell'ambito filosofico, non riducendo quest'ultimo a una sua «specificità» escludente, bensì estendendolo all'elaborazione teorica sui saperi (il filosofo inteso come «teorico» come nel Cinque- Sei-Settecento)? In questo secondo caso si potrebbero includere come «filosofi» anche i pensatori di teoria della medicina, genetica, bioetica, i teorici delle arti e delle comunicazioni, i teorici di antropologia… Questa enciclopedia adotta più il primo del secondo criterio, con qualche eccezione: quelle del linguista Tullio De Mauro e del politologo Giovanni Sartori, che sono collocabili in una prospettiva di «teorici» non dello specifico filosofico.
Il secondo quesito è questo: l'attività di storico delle idee e della cultura va inclusa (come nel caso di questa enciclopedia, con Cesare Vasoli, Giovanni Reale, Paolo Rossi, Vittorio Mathieu, Tullio Gregory) nello specifico filosofico o dovrebbe appartenere all'ambito storiografico e ai suoi metodi? Così come fare lo storico non vuol dire fare la Storia, al pari alcuno potrebbe obiettare che ordinare le idee di altri (che sono le fonti di uno storico del pensiero) non è fare Filosofia. Credo sia un bene l'inclusione.
Abbandonando questi ineludibili problemi di metodo (altri ce ne sarebbero, come quello della riducibilità ad un individuo di una elaborazione nata in un ambito complessivo come un centro di ricerca), il dato di maggior rilievo del censimento presentato è l'attenzione data all'Epistemologia, alla Logica e alla Filosofia della Scienza (da Mauro Ceruti a Giulio Giorello, sono molti i nomi), filoni di riflessione che, come affermano i curatori, «sono in rapida crescita».
Proprio la scelta di porre attenzione ai centri di ricerca e agli esponenti di raggruppamenti disciplinari strettamente filosofici, l'enciclopedia lascia altri filoni meno in primo piano, come quelli dell'Ermeneutica (fondamentale nel '900 con Gadamer) e dell'Estetica. Credo che Pier Aldo Rovatti e anche Umberto Galimberti (forse sono pesate le ultime polemiche) avrebbero potuto trovare qui posto e, per l'Estetica, Mario Perniola, Franco Rella e Stefano Zecchi. L'essere, alcuni di questi pensatori, diventati noti opinionisti — al centro anche di qualche polemica — non va ritenuto elemento dirimente (così come non lo è lo svolgere attività politica o istituzionale come nei casi di Marcello Pera e Massimo Cacciari), perché non va dimenticato il lavoro filosofico precedentemente svolto dagli stessi. Il 98enne Gillo Dorfles resta così, con Sergio Givone, l'estetologo più in vista nell'enciclopedia (per quanto in lui non vi sia, come egli scrive, «alcun impianto speculativo»), ove non si vogliano includere in questo settore di studi Umberto Eco (che però è un semiologo strutturalista e uno storico del pensiero medioevale) e Gianni Vattimo, che però è un teoreta di estrazione ermeneutica.
Di contro, i curatori, accanto a pensatori più noti (Emanuele Severino, Carlo Sini, Salvatore Natoli, Salvatore Veca...) hanno recuperato anche figure meno conosciute con percorsi particolari, come la husserliana Roberta De Monticelli e il teologo Giovanni Ferretti o teorici di opposte direzioni politiche quali Armando Plebe e Mario Tronti. Ampia attenzione è stata data agli studiosi del pensiero di Wittgenstein come Aldo Giorgio Gargani e Diego Marconi e, un po' sorprendentemente, a uno studioso di William James come Giuseppe Riconda.
Ampio merito va ai curatori per lo sforzo e ai filosofi per la difficoltà connessa all'autopresentazione. Che

Corriere della Sera 16.1.09
E Platone inventò la Repubblica: trattato sull'educazione dell'uomo
Reale: «La politica non c'entra». Vegetti: «Popper sbaglia a criticarla»
di Armando Torno


Poche opere hanno influenzato il pensiero e la storia dell'uomo quanto la Repubblica di Platone. Dopo due millenni e quattro secoli è ancora un libro discusso, chiosato, un testo con il quale ci si confronta senza requie. Per tal motivo è naturale cominciare una collana di opere filosofiche significative con questo monumento platonico (nel nostro caso è stata utilizzata la traduzione integrale di Roberto Radice, rivista da Giovanni Reale). E per analoghi motivi abbiamo pensato di riportare alcune considerazioni dello stesso Reale e di Mario Vegetti.
Reale è studioso di antica data del filosofo greco. A lui ha dedicato numerosi saggi (il suo Per una nuova interpretazione di Platone, edito da Vita & Pensiero, è arrivato alla ventunesima edizione), è curatore della raccolta completa delle sue opere (Bompiani, 11 edizioni) e per questo primo volume, nato con l'iniziativa del Corriere della Sera,
ha scritto appositamente un'introduzione di oltre 130 pagine e di un altro centinaio di apparati. Vegetti ha coordinato il più vasto commento mai tentato sulla Repubblica (è stato pubblicato dall'editore Bibliopolis di Napoli in sette volumi, l'ultimo dei quali è uscito lo scorso anno) e, oltre a numerosi studi, ha curato una traduzione con il testo a fronte dell'opera platonica per la Bur, alla quale ha premesso un'introduzione di circa 200 pagine. Insomma, due italiani che figurano tra i massimi esperti del sommo ateniese, riconosciuti in ambito internazionale.
«Il titolo Repubblica — ricorda Reale — trae in inganno il lettore di oggi, giacché non è un'opera di politica in senso moderno ma riguarda la formazione spirituale dell'uomo. Rousseau lo definiva il più bel trattato sull'educazione che sia stato scritto». E precisa: «Se viene letto in questo senso, si rivela come il libro più rivoluzionario del mondo antico». In altri termini, la Repubblica «consacrava la nuova cultura, opposta alla tradizionale basata sulla poesia da Omero ai tragici; sostituiva in modo definitivo il predominante pensare per immagini con il modo basato sui concetti e sulle idee». Reale insiste su questo punto: «L'opera non si interessa tanto della funzione, struttura e dinamica delle varie forme di poteri dello Stato, piuttosto si occupa della formazione delle anime degli uomini: del resto, è qui che si realizza il vero Stato. Quando Platone esamina le costituzioni corrotte, altro non offre che la descrizione delle patologie dell'anima».
Ma, per riprendere la visione rivoluzionaria, diremo che essa si manifesta «in modo particolare — sottolinea Reale — nella affermazione dell'identità dell'uomo e della donna, con la conseguente dichiarazione che la donna può e deve fare (quando ne ha le qualità) tutto ciò che svolge l'uomo, senza limitazioni». Il nostro interlocutore si concede un sorriso e prosegue: «Ancora alla fine dell'Ottocento, Theodor Gomperz, pur riconoscendo che il progresso storico ha seguito le indicazioni del filosofo greco, scriveva che "l'ideale di Platone circa la donna non ha che scarse probabilità di una piena realizzazione"». Oggi, invece, nell'epoca che vede il gentil sesso nelle gerarchie militari o ai vertici degli Stati, «si sta realizzando pienamente ciò che Platone aveva asserito ventiquattro secoli fa».
Inoltre è il caso di aggiungere — lo aveva notato Werner Jaeger, uno dei massimi filologi e studiosi del pensiero antico del secolo scorso — che Platone nella Repubblica
inventa il termine «teologia», e senza di lui — prosegue Reale — «non esisterebbe nemmeno l'idea cristiana di conversione, giacché la metafora nasce dal mito della caverna, secondo il quale il filosofo che riesce a liberarsi dalle catene si con-verte alla luce ». Accenna al fatto che molti studiosi si sono accorti che nella Repubblica «si incontrano spunti di idee che la psicoanalisi ha portato in primo piano, come l'affermazione che nei sogni si rivela il nostro inconscio ». Reale conclude: «Una delle idee più forti e impressionanti di questo libro è la seguente: non è il demone che sceglie e assoggetta a sé l'uomo, ma all'opposto è l'uomo stesso che, nascendo, sceglie il proprio demone, ossia come vuole essere e vivere. Hillman ha addirittura ripreso questa idea a fondamento de Il codice dell'anima ».
«L'impressione principale che si ha con la Repubblica — ci confida invece Vegetti — è quella di un'enorme complessità e diventa onestamente difficile ridurre il testo a una serie di formule. È un problema insolubile ». Gli ricordiamo che Leibniz aveva appunto creduto che molte questioni del pensiero si sarebbero risolte se l'umanità fosse riuscita a ridurre Platone in un sistema. Replica: «Al contrario di quel che sognava Leibniz, non c'è la filosofia di Platone ma il modo di fare filosofia secondo Platone ». E prosegue: «Credo che nella Repubblica non vada sottovalutato lo spessore autonomo dei personaggi del dialogo. Non c'è soltanto Socrate, vi sono anche Glaucone e Trasimaco che rappresentano interi strati culturali con i quali Platone si misura e si confronta. È un grande teatro filosofico in cui nulla è superfluo e dove tutti hanno un senso». Vegetti, inoltre, ricorda che «quest'opera ha esercitato continuamente un enorme fascino, anche perverso». Precisa: «Credo che la ragione vada cercata nel permanente bisogno di utopia, non nel senso di Paese di Cuccagna, ma in quello di grande immaginazione politica. Da questo punto di vista, è un testo fondante. Abbiamo avuto tante utopie, ma questa è l'unica che si presenti con un apparato teorico robusto, insomma non è un libro dei sogni. Vi troviamo un'antropologia, una logica, una psicologia; grazie ad essa si fonda un'utopia con ragioni teoriche e concrete».
Per Vegetti, inoltre, «non si può attualizzare e non è corretto appropriarsi della Repubblica.
La critica di Popper, che è assurda, la allontana opportunamente da noi: non è utilizzabile dai liberali, dai socialisti, dai democratici o da altri». E sottolinea: «È un libro da leggere, assolutamente. Ci permette di guardare la politica da lontano, senza quelle prospettive parrocchiali che caratterizzano il nostro tempo. La critica alla democrazia, del resto, è quella di un aristocratico che contiene elementi di riflessione ancora indispensabili». Infine, si concede un cenno al grande commento uscito da Bibliopolis, frutto di una sterminata ricerca con la sua équipe: «La Repubblica è stata per tanti anni una palestra di collaborazione e un eccellente esempio di lavoro con i tempi veri, quelli che il pensiero richiede. In tal caso, Platone ci ha aiutato a non avere stima degli spot e dei ritmi che la televisione ha imposto».

il Riformista 16.1.09
Democrat. Equilibrismi sul fine vita
di Alessandro Calvi


La conta che Ignazio Marino aveva chiesto con una intervista al Riformista ancora non c'è stata. Né, a sentire Veltroni, ci sarà. «Sui temi etici - ha detto ieri sera - la linea del partito non può essere presa a maggioranza, ci deve essere la riserva della libertà di coscienza». Poi, ha spiegato che il partito sul testamento biologico ha trovato una soluzione «positiva». Parlava ai militanti di Ponte Milvio a Roma, Veltroni, e si riferiva alla riunione dei gruppi parlamentari che si era da poco conclusa a Palazzo Madama senza però che una posizione, alla fine, fosse stata davvero trovata. Senatori e deputati democrat si rivedranno, infatti, martedì prossimo e, forse, allora sarà chiaro cosa il partito deciderà su nutrizione, idratazione e vincolatività del testamento biologico per i medici. Sono ancora questi, infatti, i nodi da sciogliere.
C'erano D'Alema, la Finocchiaro, Bersani, Fassino, Franceschini, Marino, ieri. E c'era la pattuglia dei radicali. Mancavano Veltroni, Rutelli e Fioroni; forse non a caso. Si è discusso di un documento letto da Marina Sereni, la proposta conclusiva del Gruppo dei 6, al lavoro per uscire dall'impasse nel quale si dibatte il Pd. Più d'uno, però, avrebbe fatto notare che quella proposta non era stata concordata e che ancora ci sarebbe molto da lavorare di lima. Comunque sia, il compromesso potrebbe essere raggiunto considerando nutrizione e idratazione trattamenti di supporto garantiti a tutti salvo a chi avesse disposto diversamente. Un capolavoro di equilibrismo tra le posizioni dei laici e quelle dei cattolici del Pd.
Il punto, però, è che alla fine tutti potrebbero essere scontenti. I teodem - e Paola Binetti lo ha chiaramente detto - difficilmente voterebbero un testo che contempla il rifiuto della nutrizione. Ma anche tra i laici ci sono perplessità perché con l'obiezione di coscienza - che sembra un punto ormai acquisito per il Pd - i medici potrebbero rifiutarsi di applicare il testamento biologico. Nutrizione e idratazione diventerebbero, dunque, a quel punto obbligatori per tutti, salvo incontrare un medico non obiettore. Una roulette, a meno di non voler obbligare ogni struttura sanitaria a garantire la presenza di medici non obiettori in ogni turno.
E intanto Raffaele Calabrò - Pdl, relatore in commissione Sanità - ha annunciato che il 27 presenterà il testo base al quale sta ancora lavorando. Se il Pd intende giocare la partita, almeno con gli emendamenti, non ha più molto tempo.

il Riformista 16.1.09
Fillon ha perso la testa per il teschio di Cartesio
di Luca Sebastiani


RELIQUIA. Il primo ministro francese fa di tutto per portare nel suo feudo elettorale il cranio del filosofo. Un'ossessione con risvolti politici. Poco razionali.
René Descartes su una vecchia banconota francese

Parigi. François Fillon lo vuole proprio. Quello che non è chiaro, è per farsene cosa. Per evocare l'essenza del vivere e del morire? O forse per raccogliere pubblici benefici dall'ostensione della reliquia? Tra le tempeste economiche e i sussulti sociali che stanno squassando la Francia, un po' Amleto, un po' frate Cipolla, il primo ministro francese sembra avere un'unica idea fissa: portarsi a casa niente meno che il teschio di René Descartes, Cartesio.
Nonostante possa apparire una boutade, Fillon aveva confidato al suo consigliere culturale una missione di studio al fine di esplorare le possibilità per spostare il cranio del celebre filosofo nel suo dipartimento, la Sarthe. Il suo feudo elettorale. Stabilita l'infattibilità dello spostamento, ha dovuto rinunciare. Ma ha scritto ai suoi elettori che non si darà per vinto.
La sua non è infatti un'infatuazione estemporanea. Il premier, cartesiano d'osservanza, sa bene che le passioni vanno tenute a bada con l'esercizio costante della Volontà. Altrimenti si farebbe la figura dei personaggi di Moliére, trasportati da manie sfuggite al controllo della Ragione. No, Fillon è uomo di metodo. Già nel '96 aveva evocato il suo desiderio di riportare Descartes a casa.
In realtà il luogo che dovrebbe realizzare il sogno del premier non è nient'altro che la Prytanée di Flèche, il liceo dove Cartesio studiò appena qualche anno. Ma insomma, dice Fillon, che ci fa ora il suo prezioso teschio al Museo dell'Uomo di Parigi? Chiuso chissà dove ed esposto in discutibile copia tra la riproduzione di un cranio d'homo di Cromagnon e una del calciatore Liliam Thuram.
Certo è che molti si chiedono: perché portarlo fin là? In fin dei conti le spoglie «decollate» del filosofo matematico sono conservate nella chiesa di Saint Germain des Prés, a Parigi. Magari, dicono, si potrebbe pensare di ricomporne le parti. È vero, Descartes distingueva res cogintans e res extensa sminuendo la seconda, ma mai si sarebbe sognato che la testa pensante fosse scorporata dal corpo senziente. E poi ricomponendo lo scheletro si darebbe finalmente un taglio alle picaresche avventure delle spoglie mortali dell'immortale filosofo, spostate di qua e di là, tra una Rivoluzione e l'altra. Il cranio invece è passato per una decina di proprietari. L'ultimo dei quali nel 1821 lo aveva comprato per 37 franchi rispondendo ad un annuncio su una gazzetta. Senza contare che, oltre a quello in questione, ci sono almeno altri cinque teschi che rivendicano legittimo riconoscimento.
Ma tant'è. Fillon lo vuole ugualmente. Più che per abbandonarsi a meditazioni filosofiche, forse per esibirlo agli elettori. Come nel Decamerone di Boccaccio la piuma dell'agnol Gabriello serviva a frate Cipolla per solleticare la credulità del popolo e raccogliere elemosina, così la reliquia di Descartes servirebbe da pubblica dimostrazione che il premier è attento al comando del Paese. Se ne ricordino gli elettori.


al Direttore del Dipartimento di Fisica della “Sapienza”,
a tutti i ricercatori del dipartimento
e a tutti i ricercatori italiani

di interrompere ogni collaborazione con tutte le istituzioni di ricerca israeliane, pubbliche o private, e in generale con tutte le istituzioni di ricerca legate economicamente o politicamente all’industria bellica, per sostenere la pressione sociale internazionale che richiede la fine degli attacchi dello stato di Israele ai territori palestinesi.
Chiede, inoltre, alla comunità scientifica e alle istituzioni di ricerca israeliane di pronunciarsi contro le operazioni belliche in corso e le politiche di guerra del Governo israeliano.
L’attuale situazione del conflitto è solo il tragico compimento di anni di politiche di isolamento della società palestinese. L’attacco totale alla vita del popolo palestinese passa anche dalla chiusura di diverse università palestinesi e dall’impedimento pratico allo svolgersi di una normale vita accademica ottenuto tramite le politiche del controllo. Tutto questo è accaduto senza che nessuna istituzione accademica israeliana si sia mai pronunciata a riguardo. Per questo chiediamo ai ricercatori israeliani non solo di prendere parola, ma di mettere in pratica azioni dirette che inceppino il meccanismo bellico.

La totale integrazione della ricerca scientifica con il mercato tecnologico ed in particolare con l’industria bellica e del controllo è tale che nessuna pretesa neutralità della scienza può ormai essere credibilmente sostenuta da nessun ente o istituzione di ricerca, né da nessun singolo ricercatore, allo scopo di scaricare le proprie responsabilità.
Sappiamo bene che l’attuale organizzazione del lavoro di ricerca e del mercato globale dei saperi toglie ogni potere ai singoli ricercatori e ai singoli gruppi di ricerca sui propri risultati, rendendo occulti e a volte del tutto inesistenti i reali centri di gestione, ma questa situazione anziché essere una scusante, non fa che generalizzare le responsabilità. Pensiamo infatti che ad oggi nessun ricercatore può affermare con certezza che il proprio lavoro di ricerca non abbia implicazioni belliche e con l’industria e le politiche del controllo.
Più di due mesi di mobilitazione vissuti da protagonisti ci hanno però insegnato che la presa di parola diretta è il primo passo verso la riappropriazione di quanto ci è stato sottratto.
Per questo riteniamo che le istituzioni di ricerca israeliane possono e devono agire per la sospensione del conflitto e delle politiche di guerra.
Per questo riteniamo che sospendere ogni collaborazione con le istituzioni di ricerca israeliane rappresenti un importante strumento di pressione nei confronti del Governo Israeliano affinché fermi l’assassinio di centinaia di civili palestinesi, non la soluzione alle contraddizioni interne alla produzione scientifica. E che sia inoltre una necessaria assunzione di responsabilità. Il primo passo verso l’apertura di un ampio dibattito pubblico sulla funzione sociale della scienza ormai irrinunciabile e decisamente urgente, che metta a critica l’attuale organizzazione del lavoro di ricerca e in generale le sue relazioni con il sistema produttivo ed il mercato.

Assemblea degli studenti e delle studentesse di Fisica in mobilitazione.

Presidio/conferenza stampa venerdì 16 gennaio ore 9:30 davanti al dipartimento di Fisica di Roma “La Sapienza” (V.E.F.)
(per eventuali adesioni: smilitazziamolaricerca@gmail.com)

Liberazione 16.1.09
Per Liberazione
di Dino Greco


Mi accingo con salutare preoccupazione a dirigere questo giornale. Lo farò con tutto lo scrupolo, la passione, la dedizione che sono dovuti. A maggior ragione di fronte alle difficoltà politiche, economiche, ambientali dentro cui si consuma il passaggio di responsabilità.
Per chiarezza verso i lettori e per il rispetto nei confronti di quanti hanno fortemente contrastato questo esito, voglio subito rendere esplicito ciò che penso. Non ha alcun fondamento il timore che il giornale si trasformi in una sorta di instrumentum regni del partito, gestito con furore censorio da un commissario, custode dell'ortodossia. Se questo fosse stato mai il criterio che ha ispirato la proposta, la scelta del sottoscritto non avrebbe potuto essere più inadatta. Non è questo che mi è stato chiesto e non è certo con questo spirito che ho accettato. Una cosa non potrà aver luogo: che il giornale persegua con metodo lo scioglimento del suo editore perché con tutta evidenza questo genererebbe un cortocircuito letale. Una cosa è la dialettica, la polemica ruvida; una cosa è la difesa della libertà di espressione di cui si nutre ogni vitale processo creativo, un'altra è l'attacco frontale alla stessa ragione di esistenza del partito, dipinto come un'accolita di nostalgici adoratori di icone ideologiche, orfani di pensiero critico, «orticello avvizzito» che fa strame del «grande sogno di Rifondazione Cominista».
C'è una pessima abitudine, a sinistra: quella di indicare in coloro che ti sono più prossimi i colpevoli di ogni disastro e, contemporaneamente, di assolvere se stessi da ogni responsabilità ritenendosi in ogni stagione depositari esclusivi del giusto e del bene.
Dubito che questa compulsiva propensione a forgiare la caricatura dell'altro per infilzarne meglio il fantoccio abbia mai prodotto alcunché di positivo. Essa ha semmai alimentato smarrimento, senso di frustrazione, abbandono. La prima cosa da fare è interrompere la circolazione dei veleni, finirla con la reiterazione di una querelle introflessa, del tutto priva di produttività politica. Per invece seguire, sostenere, offrire visibilità ai luoghi, alle esperienze di lotta sociale, alle pratiche di riorganizzazione della democrazia dal basso.
C'è un tema di fondo, da prendere di petto: è la sciagurata rimozione del lavoro dalla stessa cultura della sinistra, vale a dire del terreno dove si gioca, si vince o si perde la battaglia decisiva. Una sinistra che non ricostruisca lì le proprie radici dà per persa la questione di una rappresentanza politica del lavoro e la sostituisce con un confuso, proteiforme opinionismo che ha per luogo di elezione la ribalta mediatica, droga dispensatrice di illusioni e di gratificazioni narcisistiche. Quando subisci la seduzione di queste sirene puoi chiamarti (oppure no) comunista, ma è certo che di quella ispirazione rimane solo una messa cantata.
Smarrita ogni capacità di lettura dei processi, si finisce per approdare ad un confuso eclettismo, dove tutto si compone e si scompone a piacere, dove ogni piano della realtà è disordinatamente sovrapposto all'altro: "modernamente" ci occupiamo di tutto, senza capire (e senza cambiare) niente. Occorre stare dentro le contraddizioni sociali, comprenderne le dinamiche, la materialità. Farlo con competenza, attraverso un sistematico lavoro di inchiesta, per immersione. E rimettere radici nel territorio, spazio pubblico di potenziale saldatura fra le lotte del lavoro e quelle per i diritti di cittadinanza, fra sindacale e sociale, fra economico e politico. O lo facciamo - e su queste rinvigorite gambe costruiamo una pratica ed una proposta - oppure saranno Berlusconi e la Confindustria a dettare le vie d'uscita dalla crisi, in alto a destra, vale a dire con più ingiustizia e con un definitivo tracollo democratico.
Inoltre, ci occuperemo dell'ecatombe ecologica generata dal modo di produzione capitalistico, per costruire una critica del modello di sviluppo: metteremo a tema "il come e il quanto produrre", quale senso restituire al lavoro sociale. Ci mobiliteremo senza soste contro la guerra, per la pace, per il disimpegno dell'Italia dalle missioni militari, per una politica di disarmo e di riconversione dell'industria bellica. Ci batteremo su altri due fronti: contro l'omofobia e il patriarcato, la forma più antica e perdurante di oppressione, quella di genere, e contro ogni discriminazione. Da quella legata alle propensioni sessuali, al verminaio razzista che ha contaminato in profondità gli strati popolari trovando a sinistra un debolissimo contrasto. Uguaglianza e libertà, indissolubilmente legate, formeranno l'ispirazione della nostra ricerca e del nostro lavoro.
E' questo un programma politico? Si, è un programma politico. E' compito di un giornale farsene carico? Di questo giornale lo è. Si esaurisce qui ogni campo di ingaggio, proposta, impegno culturale? No. Questo non è tutto, ma ne è il centro. Oggi Liberazione vende circa 6.000 copie al giorno. Proprio poche. Non è certo solo per responsabilità proprie, ma è chiaro che - a dispetto dell'impegno di chi lo produce - l'impatto del giornale sulla società è del tutto modesto. Ed è piuttosto difficile sostenere che alla residualità del gradimento sociale corrisponda un grande lievito culturale e politico. Capita talvolta che quando il divario fra le ambizioni e la realtà è grande si provi a colmarlo con un diluvio di parole. Ma è un'operazione consolatoria e lascia il tempo che trova.
Dobbiamo uscire dalla nicchia in cui ristagnamo e fare un giornale che entri in risonanza con la nostra gente, un giornale di cui i lavoratori, le lavoratrici, gli sfruttati, i poveri, le persone umiliate dalla discriminazione e dalla sopraffazione avvertano l'utilità e in cui possano trovare una sponda sicura per uscire dalla solitudine e per organizzare il proprio riscatto.

Liberazione 16.1.09
Obama, il fascino che ammalia la sinistra
di Mario Tronti


Allora, compagni. Come tutti avete potuto vedere, il mondo, a far data dal 4 novembre, è cambiato. Il cielo è sempre più blu, la terra sorride aperta finalmente all'audacia della speranza, le nostre notti non sono più cupe, rivisitati come siamo dal sogno americano. Il messia è tornato, come aveva promesso, cammina non sulle acque, ma sull'etere, narrazione di parabola in parabolica, questa volta per messaggini. Vi ricordate l'11 settembre? Nulla sarà come prima. Tutto è stato come prima. Questo è un 11 settembre rovesciato. Di nuovo, «siamo tutti americani». E non cambierà niente. Niente di quello che ci interessa cambiare.
Avete capito che sto gettando acqua sul fuoco, non per spegnerlo, ma almeno per circoscriverlo. Poi, speriamo sempre che la scintilla infiammi la prateria. Non ci saranno dunque conseguenze? Altroché se ce ne saranno! La soluzione questa volta è stata trovata quasi all'altezza del problema. Quasi: perché la crisi di fase capitalistica è più grave, più tosta, dell'invenzione di immagine, della risorsa simbolica, che si è messa in campo. Ma comunque, questa conta, e come se conta! Lo vediamo in queste ore, in questi giorni. Gli Usa di ieri, frastornati, disorientati, depressi, sono «rinati», come i ridicoli cristiani delle loro sette. Il fatto macroscopico, quello su cui dobbiamo prendere a ragionare, quello dentro cui dobbiamo mettere anche il successo Obama, è la chiusura del ciclo neoliberista, il crollo della finanziarizzazione selvaggia del capitale, la rivincita dell'economia reale, che si fa di nuovo viva come crisi della produzione materiale, con tutte le paure, le incertezze, i bisogni di voltare pagina, che essa porta con sé. E' questo che ha reso possibile, perché necessaria, la vittoria della parola change. Non la spinta dal basso di una partecipazione popolare, con i suoi appassionati volontari, espressione spontanea della vitalità di una meravigliosa democrazia. Questa c'è stata, ma come un'onda provocata, raccolta e orientata verso un volto nuovo di «personalità democratica», che abbiamo già altre volte descritto come corrispettivo aggiornato della adorniana «personalità autoritaria». Attenzione. Qui l'accento batte non sugli aggettivi, democratica e autoritaria, ma sul sostantivo, personalità. C'è un problema preciso, teorico e storico: perché la democrazia, al pari del totalitarismo, ha bisogno, per funzionare, dell'idea e della pratica della personalità? Perché si fa il vuoto nelle istituzioni, e nelle organizzazioni, per riempirle poi con un volto? Problema. E un'altra cosa, meno astratta, più empirica. Da dove sono uscite le enormi risorse finanziarie di Obama, che hanno fatto apparire indigente nientemeno che la famiglia Clinton? In che percentuale sono state esse il frutto della mobilitazione dei neri, delle donne, dei giovani? E quali e quante le altre fonti?
La mia idea è netta, e la esprimo in modo netto, perché se ne possa lucidamente discutere: Obama ha vinto, perché a un certo punto l'establishment ha scelto Obama. A un certo punto: all'inizio, solo pezzi di esso si erano esposti, i più avvertiti, di fronte al disastro finale di Bush, poi, con l'esplosione della crisi vera, il grosso non ha avuto più dubbi. E il personaggio è volato nei sondaggi, anch'essi non certo spontanei. In democrazia, vince chi riesce a farsi presentare come il prossimo vincitore. Abilità e forza comunicativa aiutando. Il cambio è niente altro che un cambio di leadership, nel tentativo di riacchiappare un'egemonia che scappa. E siccome si tratta di un'egemonia-mondo, ci vuole un global leader. Poteva assolvere a questa funzione il vecchio soldato MacCain? Evidentemente, no. Guardate lo spostamento dell'opinione pubblica mondiale, di destra, di sinistra e di centro, prima e dopo le elezioni americane. Impressionante. Anche qui è un'onda. Per resistere, bisogna come Ulisse farsi legare al palo della nave, visto che non possiamo non vedere e non udire.
La verità è che gli americani sono oggi veramente in tutto debitori dei cinesi. Hanno infatti applicato alla lettera il motto di Deng: non importa se il gatto è bianco o nero, importante è che acchiappi il topo. Miei cari, i topi siamo destinati ad essere noi. Bisogna togliersi dalla testa che il partito democratico sia la sinistra e il partito repubblicano la destra americane. Non sono nemmeno il centrosinistra e il centrodestra, come vorrebbero i nostri ulivisti mondiali. Il bipartitismo perfetto e la perfetta alternanza di governo funzionano soltanto quando ci sono due partiti centrali di sistema. Sì, due diversi bacini di consenso, distribuiti socialmente e territorialmente, due blocchi di interessi tradizionali, molto mobili e trasversali, anche due scale di valori e di diritti, ma il tutto orientato sempre all'uno della grande nazione «eccezionalista». Impallidiscono i nostri nazionalismi europei di fronte a quello americano. Solo che quello non si chiama così. È Impero del Bene, religione democratica universalmente salvifica.
Chi più che un predicatore nero può oggi raccogliere le bandiere che i maledetti neocons hanno lasciato cadere nella polvere della guerra infinita? Se Malcom X diventa Obama, è perché il calderone di fusione ha funzionato alla perfezione. Nessun pericolo. Anzi, una formidabile opportunità. L'America è un luogo dove tutto è possibile: che un nero entri alla Casa Bianca e che diventi quindi un bianco qualunque. La novità c'è. Non è questo il punto. Ma l'arte di disporci dinanzi al nuovo in modo non subalterno, non l'abbiamo forse imparata? Il nuovo non ha un valore in sé, va misurato sulla nostra condizione presente, se siamo in grado di assumerlo e governarlo e piegarlo. Per quanto detto sopra, nei confronti di un cambio di leadership nel bipartitismo americano, io non faccio una scelta strategica, ma tattica. Chi mi conviene che vinca, chi mi lascia più spazio di movimento, chi mi consegna migliore capacità di manovra? Era opportuno uscire dalla grande crisi con Roosevelt, perché così le lotte operaie potevano imporre il compromesso keynesiano. Era giusto allearsi con gli Usa per sconfiggere militarmente il nazifascismo. Si poteva essere kennediani, se avevi alle spalle la forza del Pci e la potenza dell'Urss: non c'era pericolo allora di metterti nell'onda progressista, semplicemente subendola. Anzi ti serviva per innovare nel tuo campo. Il discorso è sempre quello: l'iniziativa di cambiamento del tuo avversario, o sei in grado di utilizzarla, o altrimenti ne rimani vittima. Perché mi sento di dire che non possiamo dirci oggi obamiani? Semplicemente perché siamo deboli. Non c'è in campo nessuna forza alternativa. Questo sarebbe stato il momento di una grande iniziativa del socialismo europeo. Non possiamo dare la supplenza al profeta del nuovo vecchio mondo. Così riconsegni la pratica egemonica, magari passando dall'unilateralismo al multipolarismo, a chi la stava giustamente perdendo. Il modo corretto di porre la questione, parlando politicamente, nel senso specifico del termine, è secondo me il seguente: Obama è adesso la figura nuova che assume il nostro avversario. Va ricollocata e rideclinata una proposta alternativa di organizzazione e di lotta sulla base di questa novità. Si apre un periodo di maggiori difficoltà. Era facile essere contro Bush, sarà difficile essere contro Obama. Si chiudono spazi per le esperienze di movimento, l'unica forma di soggettività emersa negli ultimi anni, non a caso a livello global, sul terreno dei partiti, nazionali, l'intendenza europea seguirà, l'Atlantico si farà più stretto. La luna di miele finirà, ma prima durerà. Tra l'altro, il giovanotto (!) è sveglio, è pragmatico, è cinico, è pigliatutto, ha perfino un pizzico di carisma, è intelligente perché si è circondato di persone mediamente intelligenti. Una machiavelliana presa di potere, perfetta. In questo, chapeau! agli Stati Uniti d'America, gli unici in grado di far ancora tesoro del detto, mitteleuropeo: là dove c'è il massimo pericolo, lì c'è ciò che salva. Aprite il discorso della vittoria. L'incipit: giovani e vecchi, ricchi e poveri, democratici e repubblicani, neri, bianchi, ispanici, asiatici, nativi d'America, gay, eterosessuali, disabili e non disabili. «Siamo e sempre saremo gli Stati Uniti d'America». Che dobbiamo fare? Applaudire, alzare le braccia in segno di saluto, piangere di commozione?
Confesso. Sono ormai arrivato - il tono di questo testo lo documenta - al limite massimo di sopportazione per questo modo impolitico, apolitico, antipolitico di parlare di politica. Una parentesi. Se ho ben capito come vanno le cose del mondo, e a questo punto di lunga età mi pare proprio che sì, ecco: chiunque dice «ricchi e poveri» è mio nemico. Questo è un criterio del politico, una verità teorica assoluta, un punto di orientamento pratico, che consiglio di coltivare in sé come una pietra preziosa. Chiusa parentesi. E vengo invece a un punto di problema, su cui ho qualche incertezza, perché sento che qui c'è un a partire da me, dal mio modo di esistenza, che potrebbe deviare e far sbagliare il giudizio. E chiedo anche qui un contributo di discussione, e magari una capacità avversa di dissuasione. Insomma. Chi sono queste masse? Parlo delle folle di Chicago e di tutta la lunga intensa campagna obamiana. Ma anche di quelle del Circo Massimo, se sono, anche questo è da discutere, più o meno le stesse. Le guardo con curiosità e diffidenza. A me paiono foglie mosse dal vento delle parole e delle immagini, singoli individui collettivamente incantati dal suono del linguaggio, indifferenti, per non dire ostili, alle idee, agli argomenti, alle analisi. Piazze virtuali, un popolo da second life, che non esprime qualcosa, ma vuole essere espresso da qualcuno. Si potrebbe dire che non è una cosa nuovissima. Il Novecento ha visto fenomeni analoghi. Ma, secondo me, c'è una differenza. La nazionalizzazione delle masse, come la socializzazione delle masse, si fondava su idee forti. Ci si riconosceva in una dottrina, si assumeva e si portava un'ideologia. Il culto del capo era l'appartenenza a un campo, l'assunzione di un progetto. Così la massa si faceva soggetto. E poi la razza, o la classe, erano fattori oggettivi. Qui, oggi, non c'è nulla di tutto questo. C'è solo la fascinazione per una narrazione. Obama non rappresenta i neri, rappresenta tutti. Veltroni non rappresenta i lavoratori, rappresenta i cittadini. E dunque queste piazze sono piene di un niente. È un problema serio, forse il più serio. Penso che accanto all'osservatorio sulle élites, dovremmo ragionare intorno a un osservatorio sulle masse. Come riportare dentro questo politico virtuale il principio di realtà?
Da soli, soggettivamente, non ce la facciamo. Ci vuole una scossa sismica di alta intensità, di quelle che fanno saltare i pennini del sismografo. Dire, parlare, della sinistra, piccola o grande che sia, risulta, di fronte alla dimensione del problema, una chiacchiera da bar sul commissario tecnico della nazionale. Ci può aiutare solo la realtà stessa, sempre più ricca, rispetto a noi, di risorse imprevedibili, da scrutare e da utilizzare. Ma quale realtà, o quale pezzo di essa ci conviene che emerga? Qui, il discorso si fa duro, pronunciabile in parte, indicibile per intero. Io, se mai ne ho avuti, a questo punto non ho dubbi: meglio la crisi che lo sviluppo, meglio il conflitto che l'accordo, meglio la divisione aspra del mondo che la sua irenica unità. Sto parlando, realisticamente, del terreno più favorevole a che sorga una soggettività collettiva alternativa. Che non verrà da sola, senza un intervento politico dall'alto, a suggerire e a organizzare.

Stralcio dall'introduzione di Mario Tronti al volume collettivo "Passaggio Obama. L'America, l'Europa, la Sinistra. Una discussione al CRS provocata da Mario Tronti" (Ediesse, pp. 128, euro 9) in uscita a febbraio. I saggi raccolti sono a firma di Rita di Leo, Ida Dominijanni, Mattia Diletti, Luisa Valeriani, Stefano Rizzo e Roberto Ciccarelli. Il libro sarà presentato oggi (Roma, via IV Novembre 119/a, Sala della Pace)

Liberazione 16.1.09
«Non sarà un mito ma ha ridato speranza a neri e lavoratori»
di Vittorio Bonanni


Obama un mito, oppure niente altro che un'operazione simbolica? Il dibattito sulle elezioni che lo scorso anno hanno clamorosamente portato alla presidenza degli Stati Uniti un discendente degli africani deportati oltreoceano è il tema del libro Passaggio Obama , del quale pubblichiamo qui a fianco l'introduzione di Mario Tronti, che tenta di gettare acqua sul fuoco dell'entusiasmo di tanta parte della sinistra italiana ed europea. Alessandro Portelli, scrittore e docente di letteratura angloamericana, non si vuole unire al coro dei fans ad oltranza ma non condivide del tutto le considerazioni dell'autore di Operai e capitale .
Insomma, stiamo assistendo ad un semplice cambio della guardia alla Casa Bianca oppure ha ragione chi spera che il mondo cambi dopo quello storico appuntamento elettorale?
Tronti la mette proprio nei termini «il sistema ha inventato Obama per salvarsi». Io non penso questo e non penso che necessariamente il mito di Obama sia interamente costruito. Devi avere, come minimo, un contesto che sta aspettando qualche cosa. E non sono d'accordo neanche sul centrare il discorso, come fa lui, solo sulla politica dell'offerta. Io penso invece che ci fosse una domanda e un bisogno di credere in qualche cosa e in qualcuno. E Barak Obama si è presentato con delle credenziali di credibilità. Dall'altro Tronti dice giustamente che la sostanza dei rapporti di classe non cambia con Obama. Ma è anche vero che nessuno si aspettava e si aspetta da lui qualcosa del genere. Al contrario ci attendiamo diversi gradi di riformismo. E in questa direzione è probabile che qualcosa lui voglia e riesca a fare. Se poi la mettiamo che il riformismo esalta il sistema capitalistico come dato cognitivo, certamente è così, ma gli americani non hanno certo votato per il comunismo. Aspettarsi da Obama qualcosa di diverso da quello che lui vuole e intende fare e da quello che chi l'ha eletto si aspetta che faccia certamente sarebbe un errore. In questo senso da noi c'è un investimento di tipo messianico forse superiore anche a quello che c'è negli Stati Uniti per l'uso che ne ha fatto soprattutto il Partito democratico, che ogni volta inventa un nuovo idolo americano.
Nel libro della Ediesse emergono però anche altri pareri. Per esempio la valorizzazione del cambiamento sul piano simbolico.
E infatti Ida Dominijanni ed altri, in modi diversi, sostengono ci sia stato un grande cambiamento proprio su quel piano lì. E questo io lo condivido anche se, per quanto cruciale ed importante sia il piano simbolico, non basta se poi non si trasforma in qualcosa di concreto. Però aggiungerei che il piano simbolico è anche un cambiamento di atteggiamento, per cui si è passati da un governo fatto attraverso la paura, come è stato nell'epoca Bush, ad un governo che emana l'idea della possibilità. Questo significa mettere in moto degli atteggiamenti e delle modalità nella società che possono produrre dei cambiamenti. Sul piano delle politiche concrete vedo, per esempio, l'economista Paul Krugman dire che non basta quello che lui ha in mente di fare; e lo stesso sostiene la sociologa e attivista americana Barbara Ehrenreich. Probabilmente gli strumenti con cui lui si prepara e con cui lui può affrontare una crisi di queste dimensioni sono inadeguati rispetto a questa crisi.
Aspettarsi da Obama di più di quello che lui soggettivamente ed oggettivamente può offrirci significa poi esporre tutta la situazione ad un senso di fallimento. Insomma più terremo moderate le aspettative e più apprezzeremo quello che lui riuscirà a fare.
Resta il rischio, come sottolinea Tronti, di una subalternità ad Obama, nella misura in cui la sinistra europea nel suo complesso è incapace di elaborare una sua risposta alla crisi.
Questo a me pare anche abbastanza plausibile. D'altra parte è un problema che riguarda noi e non lui. Aggiungerei a questo proposito un'altra osservazione dello storico militante statunitense Howard Zinn: «Io dieci minuti per andare a votare li trovo, ma in realtà quello che mi interessa è quello che noi riusciamo a mettere in campo sul piano sociale». Voleva dire che quello che Obama riuscirà o non riuscirà a fare dipende sostanzialmente da noi. Un'aspettativa miracolistica comporta sostanzialmente l'idea che tutto dipenderà da lui. «Io ascolterò» ha detto Obama tra le tante cose civili che ha sostenuto. Insomma molte delle cose che lui farà o non farà dipenderà anche dai messaggi che gli manderemo noi come società, sia in termini di pressione che di sostegno.
Obama come Veltroni, dice Tronti. Entrambi, secondo lui, rappresentano non più la razza o la classe ma un popolo indistinto privo di una sua soggettività.
Di una società alternativa, antagonista e dialogante parla anche Zinn. Però in questo caso vanno fatte alcune precisazioni: Obama non rappresenta i neri e i lavoratori. Ma i primi praticamente non votavano precedentemente. E prima non c'era qualcuno che li rappresentava e adesso non c'è più. Solo ora sono andati in massa a votare perchè c'era lui. E per quanto riguarda i lavoratori hanno votato vent'anni per i repubblicani. Obama è riuscito a mobilitare il mondo dei neri e a spostare in buona misura il voto di una componente importante della classe operaia. Senza fare il discorso che magari noi vorremmo, però su alcune rivendicazioni molto precise che ha fatto il movimento sindacale degli Stati Uniti lui ha preso delle posizioni molto chiare. Venendo all'accostamento con Veltroni, considero Obama un politico di ben altra levatura rispetto al leader del Partito democratico. Ieri a Farenheit c'era Nadia Urbinati che diceva: «Lui è un radicale per identità, in quanto nero ed intellettuale, e un moderato, nel senso buono della parola, in politica». E quindi è riuscito a creare un fronte maggioritario. Però questo fronte maggioritario se non altro ci riporta ad una dimensione di un minimo di civiltà, dopo che c'è stata la barbarie al governo degli Stati Uniti. Ci riporta ad una correttezza dopo che c'è stato il peggiore conflitto di interessi che l'Occidente abbia mai conosciuto. Berlusconi ha le televisioni ma loro, non dimentichiamolo, avevano il petrolio e le armi. Ci riporta insomma ad una dimensione di normalità aperta, con delle possibilità in cui forse noi, se abbiamo qualcosa da dire, possiamo anche dialogare.

Liberazione 16.1.09
Continuare il cammino di Rifondazione per la Sinistra


Siamo compagne e compagni che nel Congresso di Rifondazione Comunista hanno sostenuto la mozione Rifondazione per la Sinistra e siamo tuttora convinti che le ragioni di fondo di quella battaglia politica siano più che mai valide. Lo confermano, peraltro, le grandi novità che sono intervenute dal Congresso ad oggi: la più grave e profonda crisi dello sviluppo capitalistico dal '29, il dispiegarsi nel nostro paese di un movimento di enorme portata per ampiezza e unitarietà dei soggetti coinvolti (precari, studenti, insegnanti, genitori) contro l'attacco ai diritti del lavoro ed alla scuola e università pubbliche e la ripresa di un protagonismo di lotta dei lavoratori e delle lavoratrici anche attraverso le scelte operate dalla Cgil e dal sindacalismo di base, che hanno visto nella importante partecipazione allo sciopero generale del 12 dicembre una tappa straordinaria.
Questi fatti richiedono che il nostro Partito operi un salto di qualità della sua azione e della sua proposta politica. Le stesse caratteristiche di questi movimenti, a partire dalla rimarcata volontà di autonomia, se non addirittura di indipendenza, dalle forze politiche e dalla capacità di opposizione e di progettualità propositiva, ci pongono nuovi interrogativi e sollecitano una riflessione urgente circa le modalità e le forme organizzate della politica. Allo stesso tempo non si può ignorare il fallimento del progetto politico che ha portato alla nascita del Partito Democratico e l'esplodere di una nuova questione morale, figlia di quella concezione della politica ridotta ad amministrazione dell'esistente. Questo dato ci pone dunque un problema inedito: come favorire la ridislocazione di forze che pure in quel progetto si erano riconosciute e renderle partecipi del processo di ricostruzione di una Sinistra del XXI secolo.
L'attuale maggioranza che dirige il Partito e la linea scaturita dal Congresso di Chianciano e riaffermata dalla relazione del segretario all'ultimo Cpn non esprimono una proposta politica all'altezza di questo compito. Anzi, vi è un serio rischio di una vera e propria deriva minoritaria, come evidenziano tra l'altro i continui attacchi, da parte di settori della maggioranza, a tutti quegli elementi di innovazione politico/culturale che hanno caratterizzato il percorso della Rifondazione Comunista negli ultimi anni. Per questo riteniamo importante costruire e sviluppare una forte iniziativa politica sia nel Partito che nella società per contribuire all'avvio di un processo costituente della sinistra. Per questi stessi motivi siamo contrari ad ogni ulteriore divisione della sinistra o di troppo generici processi unitari. Un processo di ricostruzione della Sinistra e di un suo progetto autonomo e alternativo di società è il compito dei comunisti e delle comuniste in questa fase storica e questo non può avere né i tempi delle prossime elezioni amministrative ed europee né l'indeterminatezza dell'agire politico.
Un progetto autonomo di società significa anche non essere subalterni ad una visione che vede solo nel ruolo di Governo, che caso mai sta nelle scelte tattiche come quello delle alleanze, il terreno della ridefinizione di una sinistra non minoritaria. La costruzione di un nuovo soggetto politico, unitario e plurale della Sinistra sarà lo sbocco di un lavoro che deve ripartire dal cuore della crisi della sinistra, cioè dal suo reinsediamento sociale e territoriale e dalla sua risintonizzazione con i bisogni e i sogni delle persone, e non certo il prodotto di qualche escamotage politicista e centralista, che peraltro era già fallito con la Sinistra Arcobaleno. Si tratta di costruire nel vivo dei movimenti sociali e di una dura lotta di opposizione alle politiche delle destre questo processo intrecciandolo con una nuova idea di sviluppo per l'umanità che superi radicalmente la vecchia idea che il "socialismo" competeva con il capitalismo nella capacità di determinare una maggior crescita quantitativa.
Questo compito non lo possono assolvere in solitudine i Comunisti e le Comuniste, poiché si tratta di rielaborare ed intrecciare i nodi che a partire dal conflitto capitale/lavoro sappiano generare un progetto di società che costruisca una nuova qualità della vita, una nuova dimensione delle libertà e dei diritti, un nuovo rapporto con la natura e tra i generi. Con questo documento vogliamo dunque contribuire a questo dibattito ed a far sì che le differenze non portino a disperdere il patrimonio comune ma a trovare nuove forme per continuare insieme. Ecco perché in coerenza con la battaglia congressuale proseguiamo il nostro impegno politico in e da Rifondazione Comunista.
Prime adesioni: Rosa Rinaldi direzione; Damiano Guagliardi assessore regionale Calabria, direzione; Augusto Rocchi direzione; Fernando Aiello assessore provinciale Cosenza, Cpn; Antonietta Bottini Cng; Angelo Broccolo segretario federazione Cosenza, Cpn; Milziade Caprile Cpn; Luca Cassano capogruppo Comune Torino, Cpn; Nino De Gaetano capogruppo Consiglio regionale Calabria, Cpn; Antonio D'Alessandro Cpn; Ezio Locatelli segretario federazione Bergamo, Cpn; Silvia Martorana Cpn; Narilede Provera Cpn; Rosario Rappa Cpn; Sara Rocutto Cpn; Gianluca Schiavon vicepresidente Cng; Tommaso Sodano Cpn; Rocco Tassone Cpn; Raffaele Tecce Cpn; Sandro Valentini Cpn; Matteo Baffa Cpf Venezia; Iglis Bellavista assessore provinciale Forlì-Cesena; Ernesto Cairoli Cpf Milano; Roberto Croce segreteria federazione Palermo; Marco Colini direttivo circolo San Basilio Roma; Antonio Di Ninno presidente Cpf Avellino; Stefano Falcinelli Cpf Perugia; Mariangela Federico presidente Cfg Palermo; Franco Gallerano Cpf Roma; Samantha Giacometti Cpf Torino; Ilio Gindonati Cfg Prato; Monia Giovannetti assessore provinciale Forlì-Cesena; Alessio Laschia Cpf Prato; Francesco Lucat segretario regionale Valle d'Aosta; Piero Manni consigliere regionale Puglia, Lecce; Espedito Marletta sindaco di Acerra (Na); Cesare Martina circolo Barona, Milano; Antonio Marotta capogruppo Provincia, Cpf Palermo; Marina Melappioni Cpf Ancona; Luciano Muhlbauer consigliere regionale Lombardia, Milano; Franco Musumeci segretaria federazione Salerno; Giuseppe Ortisi consigliere provinciale Trapani; Paolo Orru segretario circolo San Paolo Torino; Andrea Padovani coordinatore regionale Giovani Comunisti Valle D'Aosta; Giovanni Pensabene Cpf Asti; Giovanni Petriccioli Cpf La Spezia; Elves Ricci segretario circolo Copparo Ferrara; Roberto Romito presidente Cpf Asti; Sandro Ronchieri vice sindaco Montagnoso, tesoriere federazione Massa Carrara; Guido Rosato Cpf Venezia; Giuseppe Sessa Cpf Salerno; Stefano Simone Cpf Venezia; Antonella Tagliaferri segreteria federazione Palermo; Stefano Tondolo Bologna; Ettore Tozzi segretario circolo Zanica Bergamo; Bernardo Tuccillo assessore provinciale Napoli; Piero Valleise Cpr Valle D'Aosta; Franco Veneziano presidente Cpf Cosenza; Valentina Villabuona segreteria federazione Trapani; Pierluigi Zicaro Romanelli coordinatore federale Giovani Comunisti, Cpf Cosenza
Per adesioni: rifondasinistra@gmail.com