domenica 18 gennaio 2009

l'Unità 18.1.09
Intervista a Nawal El Saadawi
«Uccidere Gaza è un crimine contro l’umanità»
di Umberto De Giovannangeli


La scrittrice egiziana: «Il mondo deve imporre sanzioni allo Stato ebraico per il massacro. Le vittime civili non sono danni collaterali»

Sono indignata. Sconvolta. Furiosa. Hanno bombardato ospedali, scuole dell’Onu, colpito centri della Croce Rossa, ambulanze... Le loro bombe hanno ucciso centinaia di bambini, ferito e terrorizzato altre migliaia. Cosa altro deve accadere a Gaza perché il mondo cosiddetto libero, civile, democratico, si rivolti e agisca per porre fine ai crimini di guerra e contro l’umanità che Israele sta perpetrando contro una popolazione già pesantemente provata da mesi di assedio? Quale altro scempio di vite umane deve realizzarsi perché si applichino sanzioni contro uno Stato che agisce al di fuori e contro il diritto umanitario internazionale e la stessa Convenzione di Ginevra?».
L’indignazione. È il sentimento che tiene assieme le amare considerazioni di Nawal El Saadawi, l’autrice egiziana femminista più conosciuta e premiata. I suoi scritti sono tradotti in più di trenta lingue in tutto il mondo. Per le sue battaglie in difesa dei diritti delle donne e per la democrazia nel mondo araba, la scrittrice egiziana, 78 anni, compare su una lista di condannati a morte emanata da alcune organizzazioni integraliste.
«La mia idea di società - dice - è agli antipodi rispetto a quanto professato da gruppi fondamentalisti come Hamas, ma questo nulla toglie alla gravità inaudita di ciò che Israele sta facendo a Gaza. Israele sta punendo una popolazione per aver votato Hamas. Lo ha fatto prima affamandola con l’embargo e ora riducendo Gaza ad un ammasso di macerie».
Ciò che resta di Gaza. Così l’Unità ha titolato l’altro ieri la sua prima pagina, mostrando una umanità sofferente muoversi come fantasmi tra le macerie.
«Ciò che resta di Gaza. Io aggiungerei ciò che resta della coscienza di quel mondo che si vuole libero, democratico, rispettoso della dignità della persona. Ciò che resta di fronte al massacro di civili ordito da Israele a Gaza. Ciò che resta della credibilità di una comunità internazionale che non ha un sussulto di dignità imponendo a Israele la fine delle azioni criminali nella Striscia. Per molto meno in altre situazioni si sono imposte sanzioni a Stati che avevano violato la legalità internazionale. Con Israele no. Israele sembra godere di una sorta di impunità permanente. Siamo alla replica di quella odiosa politica dei due pesi e due misure che ha portato tanta acqua al mulino dei gruppi fondamentalisti nel mondo arabo. Ho perso ormai il conto delle risoluzioni Onu che Israele ha violato, senza mai, dico mai, subirne conseguenze».
Israele rivendica il suo diritto alla difesa.
«Un massacro di civili, le centinaia di bambini uccisi, e altre migliaia feriti o traumatizzati, una città ridotta a un cumulo di macerie, questo scempio di vite umane può dirsi esercizio di difesa? Il solo pensarlo è aberrante. Quei bambini uccisi, feriti, traumatizzati non sono un danno collaterale a un legittimo esercizio di difesa. Quei bambini sono l’essenza della guerra condotta da Israele a Gaza. Agendo in questo modo, peraltro, Israele accresce l’odio verso di sé nel mondo arabo, e non solo in esso. I corpi senza vita dei bambini palestinesi sono il manifesto per il reclutamento di un esercito di shahid (martiri) manovrato da personaggi, come Osama Bin Laden, che hanno sempre disprezzato la causa palestinese. L’arroganza della forza militare si ritorcerà contro Israele».
Come giudica l’atteggiamento tenuto dai leader arabi di fronte a questa drammatica crisi?
«Intriso di retorica e ambiguità. Come sempre. Ognuno gioca la sua partita sulla pelle dei palestinesi».
Il presidente eletto degli Usa, Barack Obama, ha promesso di porre la questione israelo-palestinese al primo punto della sua agenda internazionale.
«Ho fiducia in Obama. Lui parla di Muri da abbattere, di speranze da realizzare. Parta da Gaza per dimostrare che l’America ha davvero deciso di voltar pagina».

Liberazione 18.1.09
Marc Garlasco analista di Human Rights Whatch
«Armi vietate nella Striscia
Ci vuole un'inchiesta»
di Francesca Marretta


Gerusalemme. Marc Garlasco, analista militare dell'organizzazione internazionale per i diritti umani con sede in America ed Europa, Human Rights Whatch (Hrw) , si trova in Israele per indagare sulla legalitá dell'uso delle armi impiegate a Gaza. Ogni giorno si sposta dalla base dell'organizzazione al settimo piano di un palazzo in via Betzelel a Gerusalemme Ovest, all'autostrada 232, punto di osservazione al confine con Gaza dei bombardamenti israeliani.

Conferma che a Gaza sono usate armi al fosforo bianco?
Siamo assolutamente convinti che Israele le stia usando. Ho osservato personalmente i bombardamenti a due chilometri dal confine con Gaza per una settimana. Avevo chiara la visuale su Jabalya e le zone del nord. E ho visto usare dozzine di bombe al fosforo tirate con l'artiglieria. Il fosforo bianco ha una firma visiva unica e singolare. Si presenta sotto forma di una specie di medusa, con una grande testa bianca e tentacoli che vengono giù. Mi sono anche consultato con amici nell'esercito americano, che mi hanno confermato in base alle mie descrizioni, che non poteva essere altro che fosforo. A parte tutto da Gaza ci arrivano i numeri di serie delle parti di artiglieria rimasti sul terreno. Sono tracciabili: Made in Usa, abbiano anno e luogo di produzione, e abbiamo trovato ulteriori conferme.

L'uso di armi al fosforo in zone densamente popolare rende Israele responsabile di crimini di guerra?
L'uso di fosforo bianco in una realtá come quella di Gaza è certamente illegale, ma per parlare di crimini di guerra, dal punto di vista tecnico, deve essere provata l'intenzionalitá di colpire civili. Possiamo certamente parlare di violazione della Convenzione di Ginevra. Ma non possiamo fare ricerche sul campo perché il governo israeliano ci nega l'ingresso a Gaza. Io sono certo che sia usato il fosforo bianco, ma occorre produrre una documentazione che dimostri chi, dove, come e quando è stato colpito da questo tipo di armi. Che ci dica se il fosforo è stato usato per illuminare o per colpire. Questo lo possiamo accertare solo sul campo.

Quali sono le conseguenze dell'uso del fosforo sulle persone?
I medici di Gaza ci riferiscono di bruciature provocate da agenti chimici esattamente compatibili con quelle da fosforo bianco. Non sono un medico, ma le conseguenze a lungo termine dipendono dall'inalazione del fumo che provoca danni permanenti ai polmoni.

E quelle per l'ambiente in un posto come Gaza?
Dipende a che livello il fosforo si impregna nel terreno. Ma su qualunque superficie impattata si sviluppano incendi che non si spengono finché tutto il carburante si consuma. Poi rimane una specie di plastica rappresa. Per ogni colpo di artiglieria ci sono centosedici proiettli al fosforo.

Crede possibile che qualcuno finisca sul banco degli imputati per uso di armi illegali a Gaza?
Quando si parla di accertamento e pene per le responsabilità in guerra, in particolare per i militari, la casistica, è molto scarsa. In parte perché esistono scappatoie a livello di diritto internazionale, ma sopratutto per questioni politiche. Tuttavia alcuni risultati sono stati raggiunti. Ad esempio nel caso di operazioni militari condotte a Gaza in passato, come l'"operazione arcobaleno", alcuni dei comandanti ora hanno paura di andare all'estero per timore di essere arrestati su mandato di organismi internazionali.

Ma non sono i politici i responsabili, in ultima istanza?
Si, ma c'è anche la responsabilità di chi si trova in posizioni di comando negli eserciti. I militari sono responsabili di come vengono usate le armi.

Possono rifiutarsi di usare certi tipi di armi?
Certo. Rientra nei loro diritti. Ma nella realtá un rifiuto del genere gli rovina la carriera. La questione è stabilire se per un militare è più importante la carriera o rifiutarsi di commettere atti illeciti.

Ha parlato con responsabili dell'esercito israeliano sull'uso di queste armi?
Abbiamo avanzato numerose richieste al governo israeliano, ma finora non abbiamo avuto risposta positiva.

E come si giustificano di fronte ad un esperto in materia?
Cercano di creare una cortina di fumo. Non negano di usare il fosforo, sottolineano solo che tutte le armi che utilizzano sono legali. In ultima istanza incolpano di tutto Hamas. Io rispondo che il fatto che una parte víola il diritto internazionale non autorizza l'altra a fare altrettanto.

Sono state usate altre armi illegali oltre quelle al fosforo a Gaza?
Certo. Perché il problema riguarda anche come vengono usate quelle considerate legali. A Gaza sono state usate armi particolari, come le Gbu39 impiegate per distruggere i tunnel sotterranei: bombe piccole che penetrano nel terreno. Inoltre c'è il problema dell'uso dell'artiglieria in un'area così densamente popolata come quella di Gaza City. Si tratta di una flagrante violazione della Convenzione di Ginevra. Come dimostrano le cifre sui morti è impossibile evitare di colpire i civili.

Avete chiesto un'inchiesta internazionale per accertare responsabilità.
Si. Chiediamo che un organismo internazionale lavori a Gaza per accertare le violazioni di cui si sono rese responsabili le due parti in conflitto. Non è possibile che un'inchiesta sia svolta dagli Israeliani, né da Hamas. Stiamo lavorando sulla pressione combinata di Onu, Hrw e altre organizzazioni internazionali. Anche del Comitato internazionale della Croce rossa da dietro le quinte.

Crede che l'insediamento di Obama possa favorire un'inchiesta di questo tipo?
Non ho fiducia, ma ho speranza che possa accadere.

Repubblica 18.1.09
La clinica convenzionata Città di Udine ha comunicato venerdì scorso che non potrà effettuare l´intervento richiesto dalla famiglia Englaro e autorizzato dalla Cassazione, per porre fine alla vita vegetativa di Eluana a diciotto anni di distanza dal suo inizio. La suddetta clinica era disposta ad eseguire ciò che la famiglia voleva e che la magistratura aveva autorizzato, ma ne è stata impedita dall´intervento del ministro Sacconi il quale ha minacciato di far cessare i rimborsi dovuti alla clinica per le degenze dei suoi clienti, costringendola quindi a sospendere la sua attività.
La decisione d´un ministro ha cioè la forza di impedire che una sentenza abbia corso. Si tratta d´un fatto di estrema gravità politica e costituzionale, di un precedente che mette a rischio la divisione dei poteri e la natura stessa della democrazia. Poiché si invoca da molte parti una riforma della giustizia condivisa con l´opposizione, a nostro giudizio si è ora creata una questione preliminare: non si può procedere ad alcuna riforma condivisa se non viene immediatamente sanata una ferita così profonda. Se la volontà politica di un ministro o anche di un intero governo può impedire l´esecuzione di una sentenza definitiva vuol dire che lo Stato di diritto non esiste più e quindi non esiste più un ordine giudiziario indipendente.
Non c´è altro da aggiungere per commentare una sopraffazione così palese e una violazione così patente dell´ordinamento costituzionale.

Repubblica 18.1.09
Cercando la radice araba del Messico
Lettera dal Messico
di Tahar Ben Jelloun


Diario di viaggio dello scrittore nordafricano nel Paese delle tre culture: quella amerindia, quella spagnola e quella meticcia. O meglio cinque, perché la Spagna sbarcò in America centrale anche con i suoi ebrei e suoi arabi musulmani. Da Campeche a Cuernavaca fino alla smisurata capitale, una nazione divisa tra il richiamo della modernità yankee e la venerazione per le sue intricate radici

Quando sono arrivato a Campeche, città 1295 chilometri a sud di Città del Messico, mi è sembrato di entrare in un romanzo del grande autore messicano Juan Rulfo (1918-1986). «Veder salire e scendere l´orizzonte con il vento che fa muovere le spighe e la sera increspata da una pioggia turbinosa. Il colore della terra, l´odore dell´erba medica e del pane. Un villaggio che odora di miele diffuso�», scrive in Pedro Paramo. Salvo che non c´era pioggia e l´erba era secca. Ma c´erano miele e pane di riso.
Questa città, che fu uno dei maggiori centri della civiltà maya, con le sue piramidi, le mura e le leggende, è la metafora di un Paese diviso tra l´attrazione per la modernità all´americana e la venerazione delle sue radici indie, spagnole, nere e arabe. Quelle origini sono lì presenti, visibili, nell´architettura, nello stile di vita, nei gesti e nei comportamenti della popolazione. Una simile ibridazione culturale nel tempo e nello spazio è una bella traccia delle civiltà che vi si sono alternate.
Campeche sembra paralizzata in un´epoca lontana, verso gli anni Cinquanta o anche prima. Le case sono modeste, le vie strette, i marciapiedi alti per evitare di camminare nell´acqua quando ci sono delle inondazioni, cosa che succede raramente. La gente è piccola di statura, con i lineamenti marcati, lo sguardo brunito, il sorriso vero. Contrariamente alla capitale, qui non si vive in alto; le case hanno terrazzi e non superano i due piani. Il mare è lì, ma la città gli volta le spalle. Forse è per questo che non se ne sentono gli odori, gli effluvi.
Infatti c´è un importante progetto per un porto turistico, campi da golf, grandi alberghi e tutto ciò che si fa dappertutto per attirare i turisti ricchi. Campeche non vuole più restare in disparte. Vuole vendersi e mostrarsi. Per giustificare questa trasformazione del paesaggio, i sostenitori dell´iniziativa dicono: «Quattromila anni fa non c´era un mercato dei valori, eppure i Maya sapevano dove investire». Campeche mira all´industria del turismo puntando sui valori di mercato. Non so che cosa ne pensino gli abitanti, che sembrano vivere su un pianeta dove il mondo li ha dimenticati, dove il tempo passa senza che nessun profeta si fermi. I prodotti cinesi hanno già invaso la piazza. La povertà attira la Cina. Per fortuna l´artigianato locale resiste ed è di buona qualità.
All´albergo, incantevole, insieme alla chiave mi danno un flacone di un prodotto contro le zanzare. Dico che non vedo zanzare. Sono effettivamente invisibili e la loro puntura è dolorosa e brucia. Si chiamano "chaquistes". Abituato alle zanzare mediterranee che arrivano accompagnate dalla musica, cantando attorno all´orecchio prima di pungere, lì nessun rumore mi ha informato; ho passato un bel pezzo a cercarle per la camera. Zanzare virtuali o semplicemente così piccole che a occhio nudo non si vedono.
Le mura della città, molto spesse, sembrano conservare la memoria di questo popolo, depositata nelle fessure e nelle screpolature della pietra. È il mormorio dei Maya e il ricordo dell´occupazione spagnola. Un ricordo mitigato. Nel 2010 il Messico celebra il bicentenario dell´indipendenza. Il vento cambia il colore delle cose. La gente ha qualcosa di mediterraneo senza saperlo. Ma io l´ho visto nel loro modo di essere e di accogliere gli stranieri.
Cuernavaca è vicina a Città del Messico, a un centinaio di chilometri. In pieno centro c´è una chiesa del Sedicesimo secolo. Le pareti immense sono nere di muffa. Si direbbe un luogo di culto abbandonato. Siamo in un film di Sergio Leone. Mancano solo il vento e la palla di sterpi secchi che rotola come per avvertire che il dramma è imminente. Ma in questa città c´è il centro storico Coyoacan e la più importante fabbrica di mosaici dell´America latina. Anche qui c´è il miele, la buona cucina con l´inevitabile peperoncino che ti strappa la lingua e che un sorso di tequila allevia appena. Una caratteristica apprezzabile ovunque è la disponibilità dei ristoratori. Ti servono a qualunque ora e in più sono di grande gentilezza, un aspetto affascinante per chi arriva da certe capitali europee dove il cliente non è né re né servitore, ma una preda da spennare e maltrattare.
Città del Messico è una megalopoli di venti milioni di abitanti. Il pensiero di attraversarla fa paura. Apparentemente, lo Stato ha ridotto il tasso d´inquinamento rispetto a una ventina di anni fa, quando facevo fatica a respirare. Detto questo, c´è un traffico assurdo e conviene accontentarsi di circolare in uno spazio limitato e non cercare di presentarsi a un appuntamento all´altro capo della città. Non ci arrivereste, a meno che mettiate in preventivo qualche ora di auto. Non so perché ma in questa capitale non ho visto biciclette né moto, mentre sarebbe un buon modo per lottare contro gli imbottigliamenti. I messicani non corrono su due ruote. È così e nessuno se lo spiega.
Questo vasto Paese manca di spazio, e lo dimostra il fatto che lo Stato non riesce a spostare l´aeroporto, che si trova quasi nel centro della città, tant´è che le piste d´atterraggio sono fiancheggiate da edifici. Gli aerei passano sopra la città in continuazione, come gli elicotteri. Questo spiega gli incidenti avvenuti negli ultimi anni, l´ultimo dei quali è costato la vita al giovane ministro dell´Interno e a parte del suo staff. Hanno detto che non è stato un incidente. Qualcuno pensava che potesse trattarsi di un colpo dei narcotrafficanti, contro i quali lo Stato ha deciso di condurre una guerra senza tregua.
Qui non si parla molto di politica, ma si osserva con ironia quanto accade nel Paese di Chávez. Nondimeno, l´ex presidente Echeverría, Segretario di Stato all´epoca della rivolta studentesca del 1968 in Plaça de Las Tres Culturas a Tlatelolco, dove una repressione selvaggia causò la morte di centinaia di contestatori, ora siede al banco degli imputati (Octavio Paz, allora ambasciatore a Parigi, si era dimesso dalla carica per protesta contro il massacro). Quarant´anni dopo, le ferite sono ancora nelle memorie. Le tre culture sono la cultura amerindia, quella spagnola e la cultura meticcia. Hanno trascurato quella araba, benché la Spagna del dopo Inquisizione fosse sbarcata anche con i suoi ebrei e i suoi musulmani.
Questo Paese, confinante con gli Stati Uniti, non sfugge alla crisi e alle sue angosce. Se ne parla e non si sa quello che succederà. Il cittadino - una grande classe media - continua a lavorare come se quanto avviene nel mondo gli fosse estraneo. Uomo pacifico, il messicano ama la derisione a cominciare dalla sdrammatizzazione della morte. Una vecchia tradizione ereditata degli amerindi, i cui antenati hanno avuto molto a che fare con la morte, vuole che la si rappresenti in vesti comiche e ridicole. Lo testimonia il Museo delle Arti popolari, dove gli scheletri ballano il tango o la rumba, prendono la tintarella, si sposano e portano a spasso i figlioletti in un paradiso verdeggiante.
Gli uomini messicani non si baciano: si mettono petto contro petto e si danno pacche sulla schiena. Le donne si baciano su una sola guancia. Sono piccoli dettagli che definiscono i gesti e i modi del vivere insieme. I complimenti si prodigano sistematicamente; la parola che ho sentito più spesso per dire che qualcuno è buono, meraviglioso, è stata «rico» (ricco)! Ma non nel senso finanziario. Essere rico significa essere molto gentili, umani, calorosi. A una donna non si dirà «guapa», la parola spagnola che significa bella, bensì «hermosa», che significa graziosa. Nei negozi, le commesse ti dicono «saremo sempre qui per servirla». Quando si viene da Parigi, queste piccole attenzioni fanno piacere.
Ai messicani dispiace che l´Europa dia del loro Paese un´immagine oscura, con omicidi in serie, aggressioni a mano armata, rapimenti eccetera. Le Figaro del 16 dicembre 2008 titolava in seconda pagina su sei colonne: «Ciudad Juarez, la città più mortale del mondo». Il giornalista spiega che «da quando il presidente Felipe Calderón ha dichiarato guerra ai narcotrafficanti, gli omicidi sono esplosi. La città sul confine con gli Stati Uniti batte tutti i record di violenza». Da quando gli Stati Uniti hanno assegnato un aiuto di 1,4 miliardi di dollari nell´arco di tre anni per finanziare questa lotta, in un anno la violenza è aumentata del 117 per cento (5376 omicidi in tutto il Paese).
I messicani dicono: «Ma quello succede lontano dalla capitale; sono criminali che si ammazzano tra loro�». È vero, ma le misure di sicurezza personale si sono generalizzate, un po´ come in Brasile. La paura del rapimento è oggettiva. Mi hanno sconsigliato di prendere un taxi a caso, bisogna passare per una centrale o una stazione dove sia presente un agente di controllo. A parte questo, la vita scorre con una certa dolcezza, le strade sono piene di gente giorno e notte, nei bar e nei ristoranti ci sono cantanti e musicisti vecchio stile. Per cinque euro vi interpretano la canzone che volete. Romantico. La violenza è lontana. I giovani che uccidono per mille pesos (sessantanove euro) sono a Ciudad Juarez!
Il Messico vede tutto in grande: le librerie sono immense, e così i musei. Presto il Paese avrà la sua mascotte: un cagnolino chiamato Xico disegnato da Cristina Pineda, un´artista tra le più apprezzate del Messico. Trentasei anni, è un vulcano di idee. Artista e donna d´affari, cerca di ispirarsi alla tradizione degli antenati maya per disegnare vestiti e oggetti della vita moderna. Così, di fronte alla chiesa del Sedicesimo secolo di Cuernavaca, un cane di mosaico alto due metri veglierà sulla città e sullo spirito d´innovazione di un Messico che vuole contrassegnare la propria presenza nel mondo con un´immagine diversa dalla violenza. Il fatto che l´ospite principale del Salone del libro di Parigi che si svolgerà nel marzo 2009 sia la letteratura messicana è un bel riconoscimento della grande cultura di questo Paese, illustrata tanto dall´immenso talento di Juan Rulfo, che da quello di Carlos Fuentes, o del premio Nobel Octavio Paz, che evocando le bougainvillee di Città del Messico parla di una «tracciata dal sole / purpurea calligrafia della passione».
Traduzione di Elda Volterrani

Corriere della Sera 18.1.09
Il nuovo direttore di «Liberazione»
Greco, accuse Fiom. Lui: altri i miei biografi


ROMA — Lo attaccano duramente con una lettera a doppia firma, pubblicata in prima pagina dal Riformista.
Perché per i due esponenti di Rifondazione comunista, Maurizio Zipponi e Osvaldo Squassina, il nuovo direttore di
Liberazione, Dino Greco ( nella foto), negli otto anni in cui è stato segretario generale della Camera del Lavoro di Brescia, «non è mai riuscito a rappresentare gli operai», schierandosi più volte contro la Cgil locale.
E lui risponde per le rime: «Meritano solo una battuta di Woody Allen, quando dice che accapigliarsi con i cretini è sempre sbagliato perché c'è il rischio di confondere il bersaglio. E, comunque, ho ben altri biografi che Zipponi e Squassina».

Repubblica 18.1.09
L'infaticabile laboratorio della memoria
di Vera Schiavazzi


«Marco, vieni, c´è Primo Levi al telefono…». Marco Viglino aveva diciannove anni e si stava preparando alla maturità in un liceo cattolico privato quando una sera dell´aprile 1978 arrivò, a sorpresa, la telefonata dello scrittore dalla quale è nata l´intervista inedita che Repubblica propone qui accanto. Trent´anni dopo, l´autore di quella intervista è diventato magistrato, mentre a Torino è nato il centro di studi che dovrà raccogliere e catalogare il grande lascito di appunti e lettere dello scrittore. Un lavoro affidato alla direzione dello storico Fabio Levi che procede silenziosamente, con quello stesso stile schivo e riservato che caratterizzò la vita dello scrittore e - dopo la sua morte l´11 aprile del 1987 - quella dei suoi eredi, la vedova e i figli. Ma nelle scuole di Torino e del mondo l´opera di Levi assume oggi, mentre ci si prepara alle iniziative per il Giorno della Memoria, un nuovo significato.
È alla letteratura, infatti, ma anche al cinema, alla musica, al teatro che si affida il ricordo della Shoah, ora che i testimoni in grado di parlarne diventano sempre più rari. Il 26 gennaio a Torino Ernesto Ferrero, scrittore e direttore della Fiera del Libro, ne parlerà alla giornata di studi promossa dalla comunità ebraica, con un intervento dedicato proprio allo scrittore torinese: «Primo Levi sapeva benissimo che la memoria da sola non basta, perché la memoria a suo modo è una scrittura, anzi, una ri-scrittura continua che si allontana ogni volta dal ricordo originale. La memoria è un materiale tra i tanti, e come è spiegato magistralmente ne I sommersi e i salvati, va sottoposta a un vaglio stringente, a verifiche, controprove documentarie. Solo così, facendone oggetto di un´attività di laboratorio rigorosa e continua, può essere utilea unavera antropologia della banalità del male».
Anche per questo l´intervista inedita ritrovata da Viglino ha un valore speciale, soprattutto per chi ha avuto la fortuna di raccoglierla. «La lettura di Se questo è un uomo mi aveva sconvolto - racconta Viglino, oggi giudice al Tribunale di sorveglianza di Torino -. Così, avevo dedicato a Levi la tesina che ognuno doveva preparare per l´esame finale. Ma una zia, a mia insaputa, ne fece una copia e la diede a una vicina di casa lontana parente dello scrittore. Quel compito da liceale arrivò fino a lui, gli piacque e mi telefonò. Ancora oggi, trent´anni dopo, mi commuovo pensando a quella semplicità, uno scrittore famoso che chiama un ragazzo sconosciuto».
Al telefono, Levi chiede a Viglino: «C´è qualcosa che posso fare per te? Qualcosa che ti farebbe piacere?», e l´altro non esita: «Vorrei incontrarla». «Mi invitò per il giorno dopo nella sua casa di corso Re Umberto (è l´appartamento alla Crocetta, dove Levi visse fino al giorno della morte, ndr), alle nove di sera. Mi fece accomodare sul vecchio sofà del suo studio, una piccola stanza piena di libri. Ero emozionato, febbricitante, quasi non osavo chiedergli di poter usare il registratore, ma per fortuna trovai il coraggio� Ora la sua voce - che era bellissima - è ancora lì, in una cassetta C90 da un´ora e mezza che non ho mai riascoltato dopo il lavoro fatto per scrivere l´intervista: ho paura che il nastro sia diventato fragile e possa rompersi. Passammo insieme tutta la serata, molte cose sul nastro non sono rimaste...». «Per trent´anni - conclude Viglino - quelle pagine scritte a macchina sono rimaste nel cassetto della mia scrivania di casa, non le ho mostrate quasi a nessuno perché ne ero geloso, ogni tanto andavo a rileggerle. Ma forse sono stato egoista, ed è venuto il momento di condividerle».

Repubblica 18.1.09
"Io, scampato al lager per poterlo raccontare"
Intervista inedita di Primo Levi
di Marco Viglino


"Volevo sopravvivere anche e soprattutto per testimoniare ciò che avevo visto". Comincia così, trent´anni fa, il lungo colloquio tra Primo Levi e uno studente che si preparava alla maturità con una tesina sullo scrittore. Nel flusso dei ricordi, anche la storia, mai scritta, del gesto di umanità di un kapò comunista verso un medico ebreo

Mi ha colpito il suo desiderio di rendere testimonianza sulla tragica esperienza nel lager: quando è nato questo desiderio? «Questo desiderio, del resto comune a molti, mi è nato nel lager. Volevamo sopravvivere anche e soprattutto per raccontare ciò che avevamo visto: questo era un discorso comune, nei pochi momenti di tregua che ci erano concessi. Del resto è un desiderio umano: lei non troverà mai un reduce che non racconti. (No, mi correggo, ve ne sono alcuni che non raccontano; ve ne sono alcuni che sono stati feriti talmente a fondo che hanno censurato il loro passato, l´hanno sepolto per non sentirselo più addosso). In primo luogo c´è il bisogno di scaricarsi, di buttare fuori quello che si ha dentro. Poi ci sono anche altri motivi... c´è forse anche il desiderio di farsi valere, di far sapere che siamo sopravvissuti a certe prove, che siamo stati più fortunati, o più abili, o più forti».

Il punto di contatto tra i primi libri e quelli di fantascienza, mi pare possa essere la sua «indignazione», che prima è rivolta al lager e poi verso certe storture della civiltà. È giusto?
«Sì, è giusto: è una domanda che mi fanno in molti e a cui veramente non sono il più autorizzato a rispondere, perché non è detto che chi scriva sappia sempre bene "perché" scrive. Io ho due radici: una è il senso del lager e l´altra è il senso della chimica con le sue dimensioni. Avevo in mente di scrivere qualcosa sulla storia naturale ancora prima di entrare nel lager: già da studente sentivo un desiderio del genere (non come progetto chiaro e distinto, ma come vaga aspirazione) e trovavo un terreno fertile nel mio mestiere di chimico. Perciò - dopo aver terminato Se questo è un uomo e La tregua - non è che io abbia "scritto" gli altri due libri: ho raccolto alcune idee e anche alcuni racconti che avevo già scritto prima. Per esempio, il primo racconto delle Storie naturali, quello del vecchio medico che raccoglie essenze, l´ho scritto prima di Se questo è un uomo. E... probabilmente sì, benché il tema sia diverso, anche gli altri scritti risentono dell´esperienza del lager, in una forma molto indiretta, in una forma di delusione profonda, di un ritirarsi dalla vita».
Tra i personaggi che si incontrano nei suoi libri, Lei mostra particolare simpatia e indulgenza verso alcuni che incarnano una certa "furbizia" o arte di arrangiarsi, come Cesare o il Greco.
«Anzitutto questi personaggi agiscono in un contesto tutto particolare, che è quello della fine della guerra: ora, su questo fondale, direi che si può essere abbastanza indulgenti. Non ammetterei, oggi, un Greco; lo eviterei, mi terrei lontano da lui, ma in quel momento lo sentivo quasi un maestro. Egli soleva dire: la guerra è sempre. E poi ancora mi diceva: "Vedi le scarpe belle che io ho: è perché sono andato a rubarle nei magazzini dei russi. Tu sei uno sciocco, non sei andato a cercarle". Io rispondevo che pensavo che la guerra fosse finita e che i russi avrebbero provveduto. "La guerra è sempre", mi ripeteva, e, allora, io ero d´accordo con lui. Oggi sarei più severo nei suoi riguardi, così anche nei riguardi di Cesare: ma la furbizia di Cesare era così solare, così aperta, così ingenua in fondo e così innocua che mi sta bene ancora adesso. Non sarei un censore tanto severo da escluderla, in quella forma: furbizia così "italiana", sempre mescolata con bonomia. Cesare ingrassava i pesci con l´acqua, poi però, davanti ai bambini affamati della donna russa, glieli regala. Questo fa parte di un´arte di vivere che è vecchia come il mondo e davanti alla quale non si può essere troppo severi».
Quella carica di ribellione che sta alla radice dei primi due libri si è attenuata con gli anni oppure no?
«Io contesto "quella carica di ribellione": di indignazione sì; di ribellione purtroppo no perché non c´era modo, almeno per chi era al mio livello. Ribellioni in senso tecnico ve ne sono state, in alcuni lager: l´episodio che ho raccontato di quell´impiccato che muore gridando "io sono l´ultimo!" si ricollega a una ribellione che c´era stata in un altro campo: i prigionieri avevano fatto saltare i forni crematori pochi giorni prima e costui, di cui non conosco neppure il nome, era implicato nella faccenda, probabilmente aveva procurato dell´esplosivo. Riprendendo, l´indignazione sì persiste, ma diciamo che si è ramificata. Sarebbe stupido oggi continuare a vedere il nemico solo lì, solo il nazista, anche se a mio parere è ancora il principale. Però il mondo di oggi è molto più articolato che non quello di una volta. Non erano bei tempi quelli in cui io ero giovane, però avevano il grande vantaggio che erano netti; l´alternativa amico/nemico era molto netta e la scelta non era difficile. Oggi lo è molto di più. Perciò anche l´indignazione persiste, ma è... erga omnes. Verso molti, non più verso "quelli"».
Nella famosa lettera al suo editore tedesco, lei dice che non può capire i tedeschi e quindi non si sente di giudicarli.
«No, ho detto che non li capisco, ma li giudico sì».
E come, allora?
«Li giudico male: sì, anche i tedeschi di oggi. Non tutti, naturalmente; io ho molti amici tedeschi, anche per il fatto che parlo la loro lingua, e mi interessano, e mi rifiuto di giudicarli in blocco. Però devo dire che, statisticamente, sono un paese pericoloso. Sono un pericolo intanto perché sono divisi in due e questo essi non lo accettano: pochi fra i tedeschi accettano questa divisione. E poi hanno delle virtù che diventano pericolose: questa loro straordinaria passione per la disciplina (che a noi manca - ed è male - ma loro ne hanno troppa!) per cui sono pronti ad accodarsi a chiunque comandi, mi fa paura».
Com´è che allora, sempre in quella lettera, lei dice che i tedeschi, oltre ad essere pericolo, sono speranza per l´Europa?
«Ecco... la lettera io l´ho scritta molti anni fa, nel �60, sulla corda dell´entusiasmo che avevo provato io per il fatto che un editore tedesco aveva accettato di pubblicare la mia testimonianza, e anche a seguito di vari contatti che avevo avuto allora con i giovani tedeschi degli anni Sessanta. E mi era sembrato che la Germania fosse veramente un´altra. Sembrava una roccaforte della democrazia, allora: oggi un po´ meno, anzi molto meno».
Come reagiva vedendo i compagni di sventura andare ogni giorno alla morte a causa della selezione: lo prendeva, alla fine, come un dato di fatto, o questo le procurava ogni volta lo stesso dolore e lo stesso disgusto?
«Ci si incontrava, al mattino, all´appello e quando ne mancava uno, era considerato di cattivo gusto andare a fondo, un po´ come capita oggi quando uno muore di cancro: non se ne parla volentieri. Era una forma di accettazione, in sostanza, per cui l´atteggiamento verso il compagno morto in selezione non era molto diverso da quello verso uno morto di morte naturale. Quel mio amico Alberto, di cui ho parlato a lungo, era in campo con il padre: era un ragazzo molto intelligente e insieme parlavamo sovente di queste cose, senza inibizioni e senza cedere a questa tendenza di negare la verità. Pure, quando il padre fu scelto per la selezione, Alberto disse di essere sicuro che suo padre non era mandato nelle "camere" bensì veniva trasferito con altri prigionieri in un altro campo di convalescenza. E io ero stupito e impressionato nel constatare come il mio amico si fosse prontamente costruito un riparo, per celarsi una realtà altrimenti intollerabile».
Data la mortalità elevatissima, pensa che la sua sopravvivenza sia dovuta a fortuna o ad altri fattori?
«Io penso che, in primo luogo, molto abbia giocato la fortuna. Inoltre non sono stato mai ammalato: mi sono ammalato più tardi, in modo provvidenziale. Ed ecco come avvenne. Io, lavorando in fabbrica, rubavo al laboratorio ciò che mi poteva servire per la sussistenza e puntualmente dividevo il bottino con Alberto; c´era infatti un patto tra di noi, per cui dividevamo fraternamente ogni colpo buono (ecco qui l´arte di arrangiarsi!). Un giorno che avevo rubato del tè in laboratorio, andai con Alberto a venderlo all´ospedale, dove ne avevano bisogno per gli ammalati. Ci pagarono con una gamella di zuppa, quasi gelata e già un po´ intaccata. Probabilmente era stata toccata da un malato di scarlattina: io presi la scarlattina, fui mandato in ospedale e sopravvissi; Alberto che aveva avuto la malattia da bambino, non ne fu contagiato e morì in campo. Altro fattore fondamentale per me è stato quell´operaio, Lorenzo, di Fossano, che mi ha portato per molti mesi quanto bastava per integrare le calorie mancanti. Egli, che pure non era un prigioniero, è tornato molto più disperato di me: era un uomo molto mite e molto pio, rozzo e insieme religioso, e era terrificato di quanto aveva visto, spaventato, ferito. È tornato in Italia da solo, a piedi, e non ha voluto più vivere. Ha incominciato a bere e, a me che lo andavo a trovare spesso, diceva molto freddamente che non desiderava più vivere, che ne aveva viste abbastanza. Morì tubercoloso; e infelice».
Qualche episodio insolito che ricorda e che non è stato detto nei suoi libri.
«C´era con noi un medico ebreo osservante. Lei sa che la religione ebraica prevede dei digiuni molto rigorosi: in quei giorni non si mangia niente e neppure si lavora. Questo medico alla sera - dopo il lavoro - disse al capo-baracca che la zuppa non la voleva, perché era giorno di digiuno e lui non la poteva mangiare. Il capo-baracca era un comunista tedesco, abbastanza indurito dal suo mestiere (aveva dieci anni di lager alle spalle), però, colpito dalla forza morale del prigioniero, gli conservò la zuppa fino a quando quest´ultimo non terminò il suo digiuno. Questo atto di umanità mi aveva molto impressionato».
Può stabilire un rapporto tra lei e gli altri scrittori di religione ebraica (Ginzburg, Bassani)?
«Un rapporto complesso c´è, evidentemente. L´ambiente di Natalia Ginzburg è il mio stesso ambiente; abbiamo parenti in comune; lei è nata Levi e suo fratello era il nostro medico. L´ambiente della borghesia ebraica torinese è quello in cui sono nato e cresciuto. Quello di Bassani è diverso; sia Bassani che i suoi personaggi appartengono ad un´altra borghesia ebraica, quella di Ferrara, che io conosco abbastanza poco. E che non mi piace tanto, perché erano una classe abbastanza consapevole dei propri privilegi, abbastanza esclusiva (vedi il famoso muro di cinta) e riservata e chiusa».
Per quale motivo la Ginzburg le ha rifiutato il manoscritto?
«Premetto che non le serbo rancore (ma forse sì, per un certo periodo gliene ho serbato). Ho pensato a tante cose: forse era satura di manoscritti - fare il lettore in una casa editrice è un brutto mestiere; si è costretti a falciare... poi... è un fatto che, pur conoscendola bene, non abbiamo mai chiarito».
Ha ancora dei contatti con i compagni del lager?
«Enick l´ho perso di vista completamente. Ho ritrovato invece quel Pikolo, quello del canto di Ulisse; con lui ci vediamo sovente; viene a fare le vacanze in Italia e fa il farmacista in un piccolo paese vicino a Strasburgo. È uno di quelli che hanno rimosso tutto: si è imborghesito completamente e non ama parlare di queste cose. Sono stato a trovarlo, l´ultima volta, con la Televisione italiana; gli ho chiesto di riceverci e mi ha risposto: te sì, ma le telecamere no. Poi però ha accettato anche loro, ma non volentieri».
Che pensa dei giovani d´oggi?
«La differenza fondamentale tra la nostra giovinezza e la giovinezza attuale è nella speranza di un futuro migliore, che noi avevamo in modo clamoroso e che ci sosteneva anche negli anni peggiori, anche nel lager: la meta c´era e era costruire un mondo nuovo di uguali diritti, dove la violenza era abolita o relegata in un angolo, costruire il Paese per riportarlo a livello europeo. Invece, i giovani d´oggi, mi pare abbiamo molte meno speranze. In generale vedo che tendono a scopi immediati, e questo forse è anche abbastanza giusto, in quanto non distinguono un altro futuro. Mi pare, paradossalmente, che sia stata più facile la nostra giovinezza, perché oggi sono troppi i mostri all´orizzonte: c´è il problema della violenza, il problema energetico, dell´inquinamento; il mondo è diviso in blocchi, c´è una totale incapacità di prevedere l´avvenire e nessuno osa fare previsioni sensate di qui a due anni. C´è sempre il problema atomico. Trovo che sono pochi i giovani che pensano di fare o studiare in qualche modo per un loro preciso futuro. È il senso del tramonto dei valori, per cui bisogna godere e bruciare tutto subito».
Come mai ha lasciato passare tanto tempo, quindici anni, da Se questo è un uomo alla seconda opera?
«Se questo è un uomo, edito nel �47 presso De Silva, uscì in duemilacinquecento copie: avevo delle buone recensioni, ma ho avuto cinquemila lettori (un libro lo leggono due persone in media). Dopodiché... non ho avuto più incentivo a scrivere; mi pareva di avere fatto il mio dovere di testimone, di essermi scaricato delle mie tensioni e non sentivo il bisogno di scrivere altro. Solo dopo molti anni mi ha ripreso questo desiderio, perché si è ricominciato a parlare della Seconda guerra mondiale, e dei lager in specie, in modo diverso, in senso storico appunto. Verso il �60, o forse prima, si tenne un ciclo di conferenze sul tema e io mi sono ritrovato protagonista: molti allora mi hanno incoraggiato a raccontare anche la seconda parte della mia esperienza, cioè il ritorno dalla Russia. Ripresi la penna anche per un altro motivo: era cessata la Guerra fredda e ora potevo raccontare la verità completa, umana. Prima era impossibile parlare della Russia: o se ne parlava come dell´inferno o come del paradiso. E io non me la sentivo, in un ambiente così, di scrivere un libro-verità come La tregua. Solo dopo la distensione è diventato possibile scrivere di queste cose in un linguaggio non retorico».
Perché è nato Malabaila?
«Perché sarebbe stato scandaloso a quel tempo: non avrei potuto, io, lo scrittore di Se questo è un uomo venire fuori a quei tempi con aneddoti, storie fantastiche. Proposi allora questo pseudonimo all´editore, il quale accettò con entusiasmo, pensando forse di farne un "caso letterario": poi il caso non ci fu, ed io ripresi il mio nome».

Corriere della Sera 18.1.09
Le voci dalla memoria
Le iniziative per il 27 gennaio, Giornata del Ricordo della Shoah
di Gian Guido Vecchi


Furono novemila gli ebrei italiani deportati nei campi di concentramento, quasi tutti ad Auschwitz-Birkenau. Per 15 anni lo storico Marcello Pezzetti è andato alla ricerca degli ultimi sopravvissuti e li ha convinti a ridestare nella loro mente le immagini di un viaggio agghiacciante: 105 testimonianze in presa diretta, delle quali ha lasciato intatto il sapore dialettale della gente comune e perfino alcuni accenti ironici paradossali. Ne è venuto fuori un libro, edito da Einaudi, unico nel suo genere che rende ancor più sconvolgente la realtà dell'Olocausto. Eccone alcuni stralci.

Marcello Pezzetti s'accende una sigaretta e mostra la scatola dei cerini, «non uso accendini né altro, porto sempre con me questi, e sa perché? Per Martino Godelli. Lui lavorava alla Rampa di Auschwitz-Birkenau, dove si fermavano i vagoni e avveniva la selezione verso il gas e i crematori: la Shoah è là». Sfoglia rapidamente le pagine, «ecco cosa dice Godelli: "Sapevo quando era un trasporto italiano, perché vedevo i cerini per terra. I cerini ce li hanno solo gli italiani, non esistono in nessun'altra parte del mondo. Allora mi allontanavo...”».
Bisogna vederlo, Marcello Pezzetti, mentre alza lo sguardo dal libro cui ha dedicato quindici anni e centocinque interviste, «Il libro della Shoah italiana», le lacrime agli occhi. È forse il massimo esperto al mondo di Auschwitz, storico del centro di documentazione ebraica contemporanea di Milano (Cdec), tra l'altro insegna al Master di Roma Tre e allo Yad Vashem, è stato consulente di Spielberg e Benigni, è direttore del museo della Shoah che si sta costituendo a Roma, è autore con Liliana Picciotto del film «Memoria», nel '99 ha scoperto la prima camera a gas nazista dove sorgeva una villetta di contadini polacchi. Sa tutto. Ma ora dice: «Non lo immaginavo neanche. Per me non è stato facile. Anche adesso è insopportabile. Racconto Auschwitz attraverso i loro occhi. Ed è peggio di quanto si possa credere. Molto peggio».
Nessun libro di storia, in nessun Paese, ha mai raccontato la Shoah così. E nessun romanzo. Lo stesso Primo Levi stava ad Auschwitz III e non vide mai Birkenau, il cuore della Shoah: Birkenau, «il bosco delle betulle», il campo di sterminio dove morirono un milione e 300 mila persone, di cui 1 milione e 100 mila ebrei. Il primo convoglio dall'Italia vi giunse il 23 ottobre '43 da Roma, dopo la retata del 16 ottobre: su 1.020, tornarono 16 uomini e una donna. Dei 45 mila ebrei italiani ne vennero deportati un quinto, circa novemila, quasi tutti qui. E ora questo libro raccoglie le voci degli ultimi centocinque sopravvissuti, rintracciati per quindici anni in giro per il mondo, sessanta donne e quarantacinque uomini intervistati e filmati. Nel frattempo molti sono morti. Gran parte di loro non aveva mai raccontato. «Questo è un pezzo d'Italia. La gente non se ne rende ancora conto. Per questo non ho messo filtri: i romani parlano in romanesco, i triestini in triestino... Per la prima volta ci sono anche gli ebrei italiani di Rodi».
Una narrazione collettiva che si fa epos. Le testimonianze sono state scomposte e raccolte per argomenti: il mondo «prima», la vita quotidiana, il rapporto col fascismo uguale a quello degli altri italiani, e poi le leggi razziali, l'occupazione, Fossoli e la deportazione, Auschwitz e gli altri campi di sterminio, il ritorno, il dolore muto e i sensi di colpa. «Non c'è il lieto fine. Non c'è». Ogni capitolo ha una brevissima scheda storica, poche righe. Poi la parola passa alle vittime. Voci che non offrono risposte facili. C'è la Chiesa indifferente e la Chiesa che aiuta. Gli italiani che salvano e i delatori, con nomi e cognomi. La «spontanea umanità di un popolo d'antica civiltà», come scriveva Hannah Arendt, e le miserie del nostro Paese. Soprattutto c'è il racconto polifonico dall'interno di Birkenau. Cose mai lette: come le parole di Mengele sulla Rampa, l'inganno osceno del «campo di riposo» per i «vecchi» («dai 40, 45 anni»), quelli con l'aria malata, le donne con i bambini o incinte, «o anche così, senza nessun motivo »: tutti nelle camere a gas. E poi i Krematorium, gli «esperimenti» medici, il Kinderblock dei bimbi, l'orrore quotidiano del campo. «Questo te la fa vivere, la storia. Tu la vivi, la storia. È pazzesco ma è così». È un libro che toglie il sonno e dal quale non ci si può staccare. Un libro che va letto. Anche se si piange. Anche se talvolta, incredibilmente, si ride fra le lacrime per lo spirito dei sopravvissuti. In questa pagina riportiamo alcune voci, una goccia del mare.
Ma tra i tanti c'è una persona di cui parlare: il più piccolo ebreo deportato dall'Italia, figlio di Marcella Perugia, che nacque al Collegio militare di Roma il 17 ottobre 1943, all'indomani del rastrellamento del ghetto e il giorno prima della partenza. Forse non arrivò neppure a Birkenau. Forse entrò nella camera a gas con la mamma. È rimasto senza nome. Il libro è dedicato a lui.
LE ORIGINI
«Siamo romani, di generazione in generazione. Io sono nato a Panico, cioè a dire a Vicolo delle Vacche. Era niente di meno che la casa appresso dove abitava papa Pio XII. Io, la generazione mia, abbiamo una discendenza di duemila anni... sono duemila anni che sono ebreo, e romano!» (Leone Di Veroli)
«Mio padre era medico e mio nonno era un giurista che proviene da Parenzo. Io frequentavo solamente ebrei di un ceto borghese, ma piuttosto alto». (Ottaviano Danelon)
(A Rodi) «Eravamo sei sorelle e un fratello. Parlavamo lo spagnolo, perché noi deriviamo dall'Inquisizione della Spagna». (Rosa Levi)
«Credevo soltanto in Dio fortemente, ma istruzione nun c'ho avuta. Se ci voleva cinque, dieci lire al giorno per mangiare, come potevo studiare l'istruzione? Mio padre era religioso, che il sabato nun lavorava pure, perché è peccato lavorare il sabato. Lavoravo io». (Raimondo Di Neris)
(A Biella) «Pensa, non avevi i regali di natale, a natale!» (Luciana Nissim)
(A Trieste) «Andavamo in tempio, ma no jerimo tanto inteligenti quela volta. L'ebraico no me 'ndava in testa: ciapà tante bachetàde, mama mia! Non me 'ndava e non me 'ndava, che Dio me pardoni! (Rachele Mustacchi)
«Premetto: nella via dove ero io ci adoravano; a scuola, invece, dicevano che noi avevamo ammazzato Gesù Cristo». (Romeo Salmoni)
I RAPPORTI COL FASCISMO E LE LEGGI RAZZIALI
«Ero in un collegio nazionale a Tivoli. Fui avanguardista, avevo anche i gradi, smontavamo e montavamo il fucile, la mitragliera, facevamo i campi Dux e che altro... ero un fanatico del passo romano, di quella camicia nera! Nacqui e vissi in regime». (Eugenio Sermoneta)
«Io fui tolto dalla scuola Metastasio di Roma. E così è stato e così fu, come diceva il faraone. Tanta amarezza, perché nun esiste che l'altri andavano a scuola e io no». (Giacomo Moscato)
«Mi ricordo il discorso di Trieste di Mussolini, ero sotto il palco, dove c'è guardia del corpo, tutti neri, e subito davanti era la milizia universitaria. In quel momento uno dietro dice: «Butì fora Levi!» E questo qui chi era? Un carissimo amico! Quando ho inteso, ho detto: «Basta, qui siamo finiti!». (Italo Dino Levi)
I CATTOLICI
«C'avevo du' sorelle. Dopo il 16 ottobre le hanno portate al convento di San Pancrazio, a Monteverde. Le hanno vestite da monaca e si son salvate». (Raimondo Di Neris)
«Aspettavamo che succedesse qualche cosa, perché eravamo sotto il naso del Vaticano e il gruppo era composto di donne e bambini, perché i omini, chi s'era dato ai partigiani, chi s'era nascosto. Essendo tutte donne e bambini, aspettavamo la voce del Vaticano». (Settimia Spizzichino)
IL VIAGGIO
«Entrati nel vagone, abbiamo dato il posto vicino alle pareti alla gente anziana, perché potessero sedersi appoggiando la schiena; noi invece, i più giovani, ci siamo messi in mezzo. Di notte, ricordo che volevo andare da mia madre e non ci sono mai riuscita, perché per terra eran tutto corpi che cominciavano a gridare». (Elena Kugler)
«L'aria era irrespirabile, perché queste persone vecchie, fra cui una signora amputata, non riuscivano ad arrivare fino al buco per defecare, quindi c'erano escrementi dappertutto. Le feci... bisognava raccoglierle e portarle con un pezzo di legno in questo buco, ma rimaneva impregnato e quindi era una cosa paurosa». (Alessandro Kroo)
«Non direi che ci fosse la possibilità di scappare. Loro avevan detto: "Se qualcuno scappa, passeremo per le armi tutto il vagone!" Quindi c'era un controllo reciproco». (Luciana Nissim)
L'ARRIVO
«Siamo arivati 'a matina presso a Birkenau. Se vedevano migliaia in fila che andaveno, cantaveno canzoni che io nun capivo, andavano a lavorà ne le fabbriche. Poi se sentivano le urla dei cani e quando si sono aperti i vagoni... qualcuno cascava per tera, donne anziane, vecchi. Spartivano i bambini da le madri, il fratello dai fratelli, venivan divisi tutti. e noi ci presenro a bastonate e bisognava seguire il gruppo fino a l'entrata del campo». (Mario Spizzichino)

Corriere della Sera 18.1.09
I giovani La nuova didattica voluta dalla Regione. Oltre 250 i progetti. E un volume ricostruisce la mappa dei deportati
In Toscana l'antirazzismo è ora materia scolastica
di Marco Gasperetti


Materia nuova. Vecchio nemico da combattere. Con un pensiero forte: studiare il razzismo, come la matematica, l'italiano e la storia. Nelle scuole toscane la «nuova didattica» partirà quest'anno grazie a un progetto della Regione Toscana presentato in estate al meeting antirazzista di San Rossore nel triste anniversario delle leggi razziali promulgate a Pisa settanta anni fa. Non solo teoria e chiacchiere, ma prassi e soldi (5 milioni di euro), un piano pragmatico, insomma, per un'offerta formativa che può coprire il 20% dell'orario scolastico. Psicopedagogia dell'antirazzismo. «Con l'obiettivo di far crescere insieme conoscenze ed esperienze culturali diverse — spiega il presidente della Regione, Claudio Martini — e cancellare per sempre odiosi luoghi comuni ». Analisi del Dna alla mano, oggi gli scienziati sono uniti nell'affermare che la razza umana è unica, senza differenze. «È grazie anche a loro che nelle nostre scuole si insegnerà la non differenza razziale e si smentirà chi afferma il contrario — spiega Martini —. E poi si parlerà di dialogo e convivenza comune e della società multietnica. Che non è qualcosa di ineluttabile da subire, ma una grande risorsa. Anche per il nostro paese».
L'insegnamento nelle scuole non è un'iniziativa isolata. Su razzismo, xenofobia e intolleranza, la Toscana lavora da anni e quest'anno sono più di 250 le iniziative culturali ed educative in cantiere. Con uno sguardo al passato e alla memoria. E a quella strada ferrata che da Firenze porta ad Auschwitz. Da sei anni il «treno della memoria » accompagna ogni anno centinaia di studenti nel campo di sterminio nazista. E da sei anni i ragazzi raccontano di aver imparato da quel viaggio più di mille lezioni. Ha scritto Francesca, 16 anni: «In quel campo, tra le baracche e il filo spinato, la mia anima di adolescente è stata trafitta. Per sempre. Mai più, vi prego, mai più».
Si riparte il 25 gennaio. Stazione di Santa Maria Novella: 500 studenti, 100 insegnanti. Visite ai campi di Auschwitz-Birkenau, concerti nella sinagoga Tempel di Cracovia, incontri con i deportati. E poi l'evento più emozionante davanti al Memoriale, dove ogni studente pronuncerà il nome di una vittima del campo. «Non è solo un rito o una celebrazione — dice l'assessore all'Istruzione, Gianfranco Simoncini —. Il treno è una staffetta della memoria. Oggi ci sono questi ragazzi, domani ce ne saranno altri, tutti saranno uniti dallo stesso ricordo, dalle emozioni intense». Educazione del fare e del partecipare.
C'è anche una terza via alla lotta al razzismo: quella storica. Enzo Collotti, professore emerito di storia contemporanea all'Università di Firenze, tra i massimi esperti internazionali di nazismo, fascismo e Resistenza, ha realizzato con la Regione un lavoro sulla persecuzione e la deportazione degli ebrei dalla Toscana. Callotti è entrato negli archivi di Stato e ha pubblicato un'opera che non ha eguali. I suoi libri sono lì, pronti a essere consultati, oggi e per sempre. Un monumento all'antirazzismo, un inno alla tolleranza.

Liberazione 18.1.09
Contro la scissione riformiamo il partito
risponde Paolo Ferrero


Caro Paolo, ti scrivo da compagno non iscritto al Prc (tranne alcuni sporadici anni). Non iscritto e non attivo anche perché coloro che erano nelle stanze dei bottoni vedevano di malocchio chi si affacciava non appartenendo a nessuna corrente e quindi potenzialmente pericoloso. Mi fu detto parecchi anni fa da un dirigente locale del Prc (…) che l'importante era che io parlassi alla gente. Di fronte alla mia esigenza di essere organizzato, si rimandava tutto a un generico appoggio. L'importante era che non si disturbasse la casta e che essa si autoproducesse nei canali istituzionali. Quanta differenza dalle mie esperienze negli anni 70 quando un pur semplice simpatizzante era seguito e curato perché poteva diventare un potenziale quadro. Quindi un partito (per fortuna non in tutte le esperienze locali) che si identificava sempre più nelle ribalte televisive e in primarie varie adagiandosi sempre più in una visione istituzionale e mediatica.
Il tracollo elettorale è stato l'esito anche di questo: uno scollamento tra il partito e la sua gente (…). Non mi spaventa la scissione, se ciò costituisse un superamento di una confusione e un'impasse quale quella che regna oggi e che appare all'esterno. Al lavoro quindi e venite a trovare i tanti compagni dispersi e che non si rassegnano, lasciate andare al loro destino i parolai e i carrieristi. Un saluto fraterno.
Rino 1956 via e-mail

Caro Rino, mi pare utile rispondere alla tua lettera perché credo che il sentimento che tu esprimi sia comune a molti compagni e compagne. Pur comprendendolo, lo condivido solo in parte e vorrei quindi proporti un ragionamento diverso: in primo luogo io credo che la scissione sia un fatto grave e vada contrastata. Non solo perché si separano percorsi di compagni e compagne che hanno lavorato insieme per anni; non solo perché indebolisce il partito privandolo di militanti e risorse, ma anche perché indebolisce ulteriormente e rende meno credibile la sinistra nel suo complesso. Che si faccia una scissione e si dia vita ad un altro partito in nome dell'unità della sinistra è una tale contraddizione che non solo rende poco credibili coloro che la scissione la fanno, ma anche coloro che la subiscono. Una scissione in nome dell'unità rappresenta una divaricazione così enorme tra le parole e i fatti che rende meno credibile tutta la sinistra. Inoltre questa scissione prefigura uno spostamento di una parte di Rifondazione Comunista in una posizione di subalternità al Pd, cosa che di nuovo indebolisce la sinistra. Che a Torino, i consiglieri provinciali usciti da Rifondazione e i consiglieri regionali di Sinistra democratica e quello fuoriuscito dal Pdci abbiano immediatamente abbandonati il fronte No Tav, non ci renderà più forti né più credibili nella battaglia dei prossimi mesi. Che i consiglieri usciti a Firenze dal Prc, passino dall'opposizione alla maggioranza e si mettano la mordacchia sulla vicenda Fondiaria, non ci aiuta. Che in Calabria o a Napoli si entri a far parte di una giunta da cui invece dovremmo stare fuori, a me non fa piacere, perché rappresenta solo uno spostamento a destra di una parte della sinistra. Io penso quindi che questa scissione annunciata sia dannosa per tutti e che proprio in nome della forza e dell'autonomia della sinistra occorra operare per evitarla e - se non è possibile - per contenerla.
In secondo luogo, penso che non si possa ridurre il nodo della scissione ad un problema di parolai o carrieristi. Un partito che ha subito già cinque scissioni non può liquidare il problema solo con la condanna di chi se ne va. E' evidente che la scissione, annunciata per i prossimi giorni, nasce dall'incapacità di una parte del gruppo dirigente della mozione due di accettare le più elementari regole della democrazia: non è stato accettato l'esito democratico del congresso di Chianciano. Mi è altrettanto chiaro che tutte le scissioni "da destra" da Rifondazione abbiano visto una adesione alla scissione molto più alta tra coloro che hanno incarichi istituzionali che non tra i militanti. Tutto questo mi è chiaro, ma non possiamo fermarci a questa constatazione; se le scissioni si succedono a ripetizione ci deve essere un problema strutturale, qualcosa che non funziona nella nostra cultura politica e nella nostra modalità di stare insieme. Mentre combattiamo la scissione dobbiamo quindi scavare più a fondo. A me pare che vi siano quattro problemi principali. In primo luogo Rifondazione non ha mai risolto in modo decente il rapporto tra democrazia e costruzione dei gruppi dirigenti. Abbiamo oscillato tra l'accordo consociativo all'interno dei gruppi dirigenti, con la promozione per cooptazione, e la democrazia utilizzata con una logica da «chi vince prende tutto». In questo modo o l'accordo di vertice del gruppo dirigente (magari all'interno della stessa maggioranza) si proiettava a cascata sul partito impedendo una dialettica reale, oppure l'esercizio della democrazia si traduceva in una sorta di «guai ai vinti». Io penso che su questo dobbiamo praticare una vera discontinuità che a mio parere si colloca nella scelta strategica a favore della democrazia, da ampliare, ma che si deve accompagnare con la scelta strategica della gestione unitaria del partito. In altri termini deve essere chiaro che i congressi, le votazioni, le scelte, devono servire a decidere la linea del partito ma non devono diventare una modalità di selezione dei dirigenti che regolarmente metta ai margini una buona fetta degli stessi. Noi dobbiamo essere in grado di funzionare in modo democratico ma evitare che l'esercizio della democrazia diventi il regolare e periodico massacro del gruppo dirigente. Per questo penso che sia necessario, oggi, rilanciare la gestione unitaria del partito; perché il congresso è servito a decidere la linea ma è necessario che tutti i compagni e le compagne che scelgono di stare in Rifondazione, al di là della specifica posizione politica, siano valorizzati pienamente nelle loro capacità. Accanto a questa innovazione - che propongo di praticare con radicalità e da subito - ritengo sia necessario applicare con nettezza il nuovo regolamento che riduce gli stipendi dei dirigenti e dei rappresentanti istituzionali e propongo di pensare ad una maggiore nettezza nell'applicazione delle rotazioni, in particolare per gli incarichi istituzionali. Dobbiamo ricostruire il senso di appartenenza ad una comunità, sia dentro il gruppo dirigente che nel rapporto tra compagni e compagne "di base" e dirigenti. Si tratta di scegliere una cultura politica neo puritana, che ricostruisca il senso profondo di fare politica come processo collettivo e non come status. Dobbiamo imparare dalla crisi che stiamo attraversando per costruire il partito come spazio pubblico, democratico, egualitario. Non è facile ma nel percorso della rifondazione questo salto di qualità è necessario.
Da ultimo un punto politico che considero decisivo: dalla nostra crisi potremo uscire solo se non ci avviteremo nel dibattito e nella polemica interna ma se sapremo dislocare la nostra iniziativa politica nella società, nel tentativo di dare una risposta da sinistra alla crisi economica e sociale in cui siamo entrati. Questa crisi cambierà tutto, è una "crisi costituente", che ci obbliga ad una "guerra di movimento"; dalla capacità di giocare in modi non minoritari e politicisti questa partita, dipende la possibilità di rilanciare la rifondazione comunista come proposta di liberazione nel terzo millennio.

sabato 17 gennaio 2009

Repubblica 17.1.09
Il diritto calpestato
La rottura della legalità sul caso Eluana è netta: c´è una sentenza di cui il governo impedisce l´attuazione
di Stefano Rodotà


Questo povero paese è ormai prigioniero di continue rotture della legalità, che decompongono un tessuto civile sempre più debole, e violano gli stessi diritti fondamentali delle persone. Vittima sacrificale, una volta di più, è Eluana Englaro, alla quale la prepotenza governativa nega quel diritto di morire con dignità che le era stato definitivamente riconosciuto da limpidissime e rigorose decisioni della magistratura.
Prepotenza è la parola giusta, e lo conferma il sincero comunicato con il quale la clinica di Udine ha fatto sapere di non poter dare a Eluana Englaro l´assistenza necessaria per l´interruzione dei trattamenti che da diciassette anni la mantengono in uno stato vegetativo persistente. E´ il timore della revoca della convenzione, minacciata dal ministro della Salute, ad aver determinato la decisione della clinica, che dice francamente di non poter correre il rischio della perdita del posto di lavoro per centinaia di suoi dipendenti e di quanti collaborano con essa dall´esterno. Il ricatto dell´occupazione, mai forte come in questi tempi, dà forza ad una brutale imposizione politica.
Eluana Englaro è vittima di un accanimento ideologico che nega la sua umanità, incrina la fiducia con la quale i suoi familiari hanno sempre creduto nello Stato di diritto, non si preoccupa della stessa grammatica giuridica.
All´origine vi è quel nebuloso provvedimento del ministro Sacconi, «un atto di indirizzo» rivolto alle regioni senza sufficiente base giuridica, specchio fedele di una politica che si mette al servizio di insostenibili posizioni ideologiche.
La rottura della legalità è netta. Vi è una sentenza passata in giudicato di cui il governo impedisce l´attuazione. Il fatto già in sé grave, lo diviene ancora di più alla luce di un precedente: il tentativo delle Camere di bloccare l´esecuzione della sentenza, sollevando un conflitto di attribuzione tra il Parlamento e la magistratura respinto duramente dalla Corte costituzionale.
Dove aveva fallito il Parlamento, che pure aveva cercato un simulacro di rispettabilità giuridica, rischia l´aver successo un governo che impugna come una clava un puro potere di intimidazione.
Così è, perché gli argomenti giuridici alla base dell´atto di indirizzo del ministro sono praticamente inesistenti. Si fa riferimento a un parere del Comitato nazionale di bioetica privo di ogni valore giuridico vincolante e per di più approvato a maggioranza. Si invoca la convenzione dell´Onu sui diritti dei disabili che, da una parte, non è ancora pienamente operativa in Italia e, dall´altra, dice cose che non riguardano il caso di Eluana Englaro.
L´articolo 25 di quella convenzione infatti dice che non si possono interrompere i trattamenti di idratazione e alimentazione forzata, ma questo divieto riguarda solo il fatto che non si può imporre l´interruzione. Cosa ovvia, ma assolutamente diversa dal fatto che quei trattamenti possono sempre essere rifiutati, come ha riconosciuto la Cassazione nel caso di Eluana Englaro, dando attuazione ad un principio presente nella nostra Costituzione in vari documenti internazionali, che attribuiscono alla persona il potere di disporre liberamente della propria vita. E non si dica che la vita è un bene indisponibile. Ancora pochi giorni fa una donna ha rifiutato un´amputazione, ed è morta. «Contro la forza, la ragion non vale», dice un rassegnato proverbio.
Oggi dobbiamo concludere che non vale neppure il diritto dichiarato nelle sedi e nelle forme proprie. In Italia, come sta accadendo in Francia, si sta consolidando l´orientamento secondo il quale la sola legittimazione politica può cancellare ogni altro potere o garanzia. I familiari di Eluana dovranno continuare la loro civile lotta, e nei prossimi giorni il Tar dovrà pronunciarsi sulla legittimità della decisione della Regione Lombardia che ha vietato alla clinica di dare esecuzione alla sentenza della Cassazione.
Ma, di fronte ad una prepotenza che è tutta politica, bisogna chiedersi se da chi non condivide l´orientamento del governo, e ha precisi ruoli e responsabilità politiche, sia stato fatto tutto quello che era necessario per difendere diritto umanità civiltà. L´opposizione si è espressa solo attraverso prese di posizione personali, prigioniera solo di paure interne, visto che più di un´indagine ha dimostrato che l´opinione pubblica è nella maggioranza a favore dell´interruzione dei trattamenti, anche in significativi ambienti cattolici. Una opposizione silenziosa, che non comprende il senso della difesa dei diritti e della civiltà giuridica, ha poco futuro davanti a sé.

Repubblica 17.1.09
Stop agli ateo-bus "Slogan offensivi" esulta la Chiesa
di Michela Bompani e Raffaele Niri


Il sindaco di Genova: nuova data per il Gay Pride
La campagna respinta dalla concessionaria di pubblicità dei mezzi pubblici: ce lo impone la legge

GENOVA - L´Ateo-bus resta in rimessa: la concessionaria di pubblicità accoglie il pressante invito della Curia e per le strade di Genova non viaggeranno mezzi pubblici "provocatori". Nello stesso giorno l´amministrazione comunale della città decide di concedere la sponsorizzazione al Gay Pride nazionale anche se chiede agli organizzatori di spostare la data, già fissata in coincidenza del Corpus Domini. E, tra le motivazioni, il sindaco Marta Vincenzi spara una carta a sorpresa: «Non vorremmo dover imporre ai gay cattolici una scelta dirompente tra il Pride e la processione».
Giornata campale, tra sesso e fede, per il capoluogo ligure. Al mattino è Fabrizio Du Chene, amministratore delegato della IGP, concessionaria della pubblicità sui mezzi pubblici genovesi (e su quelli di tutta Italia) a chiudere il primo capitolo, quello degli ateo-bus ("La cattiva notizia è che Dio non esiste. Quella buona è che non ne hai bisogno"): «Ci sono due articoli del codice di autodisciplina che rendono impossibile la campagna: l´articolo 10 - la pubblicità non deve essere offensiva - e l´articolo 46 - le campagne sociali non devono ledere gli interessi di alcuno. Non si tratta di seguire, o meno, le indicazioni della Chiesa: noi ci muoviamo autonomamente e applichiamo sempre il nostro codice. Succede per la pornografia, succede anche in questo caso. E poi, francamente, mi pare che l´Unione atei abbia raggiunto il suo obiettivo. E senza spendere un euro». È un no definitivo? «La decisione è questa - risponde l´Igp - e costituisce anche un precedente: noi operiamo in tutta Italia, siamo soliti darci delle regole e rispettarle».
Tace il presidente della Cei (e arcivescovo di Genova) Angelo Bagnasco - in viaggio da Fatima - ma gongola monsignor Marco Granara, rettore del Santuario della Guardia: «Una minoranza di quaranta persone ha tenuto sveglia l´intera nazione su un tema che, in fondo, non è loro». L´Uaar, attraverso il suo segretario generale, Raffaele Carcano, ribatte: «Biancheria intima e villaggi vacanze sì, ma guai a chiedere uno spazio pubblicitario per dire che Dio non esiste. In questo paese non c´è spazio per dichiararsi atei, pena la censura».
Qualcosa, invece, potrebbe cambiare sul Gay Pride. Assicurato il patrocinio culturale del Comune alla manifestazione, il sindaco Marta Vincenzi ha chiesto agli organizzatori un incontro urgente, la prossima settimana. «I problemi, nel caso di una sovrapposizione con il Corpus Domini, sono notevoli - ragiona il sindaco - Esistono problemi logistici, esiste una questione di vigili urbani (non ne abbiamo abbastanza per tutelare entrambe le manifestazioni contemporaneamente) e non vorremmo provocare problemi di coscienza nei gay cattolici». A sorpresa i gay dimostrano una disponibilità totale, anche all´ipotesi di cambiare data: «Lo abbiamo detto dall´inizio, la nostra disponibilità a discutere di tutte le questioni organizzative (percorso, disponibilità delle piazze, supporto tecnico, la stessa data) è completa. Tutto il movimento LGBTQI (lesbiche, gay, bisessuali, transgender, queer, intersessuati) punta ad arrivare, quanto prima, a una decisione condivisa.
Per il sindaco la doppia dimostrazione che «Genova è una città aperta: l´Uaar ha ottenuto una straordinaria pubblicità, con gli organizzatori del Pride c´è un confronto aperto e alla luce del sole, nel rispetto di tutti».

Risponde Corrado Augias
Gent. Dr. Augias, su alcuni autobus di Londra sono apparse scritte pubblicitarie: annunciano che probabilmente Dio non esiste. Anche a Genova, per conto della «Associazione Atei, Agnostici e Razionalisti», gireranno autobus con la pubblicità della cattiva notizia che Dio non esiste e con la buona che non ne abbiamo bisogno. Sappiamo che la pubblicità non è solo l'anima del commercio, ma anche un mezzo per conquistare il potere, tuttavia mi sembra che questa pubblicità necessiti di ben altro della fiancata di un bus. Ho udito però (Tg di varie reti) che: «Anche nella ex-cattolicissima Spagna, a Barcellona, viaggiano bus con la stessa scritta». Perché ex-cattolicissima? Cosa è accaduto in Spagna perché i cattolici o una parte di essi non lo siano più? Freud colpisce talvolta a tradimento ed è per questo che esso ha avuto un successo relativo, ma le sembra che la presenza di un premier di orientamento non confessionale basti a mettere in crisi un sentimento religioso? Oppure quella definizione è solo la conferma che potere e religione cattolica sono da sempre a braccetto nella mente di tutti, dico tutti? L'ateismo non è praticamente esistito fino all'Illuminismo: è per tale origine che quell'uovo dei «pensatori liberi» (vede come suona diverso da «liberi pensatori»? Ohibò!), viene regolarmente trasformato in frittata dal Papa?
Giovanni Meschini giovanni.moschini4@tin.it

Quegli autobus, intanto, non gireranno per Genova. La richiesta degli atei di avere quello spazio pubblicitario è stata infatti respinta. Probabilmente ha avuto effetto la minaccia, nemmeno velata, contenuta nel comunicato della Curia di quella città: «In quanto al fatto che la pubblicità dovrebbe essere esposta sugli autobus, un bene per la comunità e per la città, è pensabile che coloro che dirigono l'azienda abbiano la capacità di valutare se sia davvero vantaggioso per loro accettarla». Parole che stupiscono. Avrei capito il rammarico, lo sdegno, il rifiuto. Ricorrere ad un'allusione che ricorda da vicino l'ambiguo linguaggio della mafia è indegno di ogni istituzione, massime se religiosa. Mi auguro, se ci sarà un prossimo comunicato, che sia più all'altezza. Un sindacato autonomo aveva perfino proposto che gli autisti facessero obiezione di coscienza.
Quelle scritte non mi entusiasmano, ma ci sono anche immagini pubblicitarie che a me paiono volgari o indecenti. Non è una buona ragione per chiederne l'abolizione se non viene violato il Codice penale. Che Dio esista o no è questione che ognuno dovrebbe risolvere nel chiuso della sua coscienza. Tuttavia, piacciano o no, quelle scritte rientrano nella libertà di espressione. Tanto più che lo slogan italiano a me sembra il più elegante tra quelli che si vedono a New York, Londra, Barcellona. Sui bus londinesi per esempio è scritto: "Dio non esiste, goditi la vita". Trovata di basso profilo che tra l'altro coinvolge la famosa questione se esista un'etica senza Dio. Ovviamente esiste, ma c'è chi dissente e ritiene che la minaccia divina aiuti a far comportare bene le persone. A Genova, con più humour, era previsto di scrivere: "La cattiva notizia è che Dio non c'è; la buona, che possiamo farne a meno".

Corriere della Sera 17.1.09
Il caso La concessionaria di pubblicità: offende la sensibilità religiosa
Genova ferma gli atei: basta spot sugli autobus
di Erika Dellacasa


GENOVA — I bus atei non circoleranno a Genova. Lo slogan «La brutta notizia è che Dio non esiste, la buona è che non ne hai bisogno», che l'Unione atei e agnostici voleva sulle fiancate di due autobus genovesi, è stato giudicato inaccettabile dalla Igp Decaux, la concessionaria della pubblicità dell'azienda del trasporto urbano (Amt). L'Unione atei e agnostici protesta, «impossibile dichiararsi atei in questo Paese», l'Amt annuncia la richiesta di chiarimenti: «Chiederemo alla concessionaria il motivo del rifiuto — dice il presidente Bruno Sessarego — a fronte del fatto che ci siamo dichiarati disponibili e il sindaco aveva espresso parere favorevole». Il sindaco Marta Vincenzi, «convinta che non ci sia scandalo e contenta di non aver sollecitato nessuna censura », aspetta a sua volta le spiegazioni dell'Igp, «anche se immagino che la società abbia seguito un criterio commerciale più che di merito». Dalla sede milanese dell'Igp l'ad Fabrizio Duchene spiega: «Il nostro rifiuto si basa sul codice di autoregolamentazione.
L'articolo 10 vieta messaggi commerciali che possano offendere la sensibilità religiosa, morale, civile o la dignità della persona. Questo messaggio non è commerciale ma rientra negli appelli sociali previsti all'articolo 46. Pensiamo che il divieto possa quindi estendersi a questo slogan». Conclusione: affermare che Dio non esiste è offensivo. «Potrebbe esserlo — precisa Duchene — per gli appartenenti alle grandi religioni monoteiste».
«Slogan offensivo? Va dimostrato », dice Sessarego. E gli atei dello Uaar rilanciano: «Allora con questo metro di giudizio, lo slogan "Dio esiste" urterebbe la nostra sensibilità, ma vorremmo proprio vedere la Igp rifiutarlo. O noi non contiamo? ». Il presidente dello Uaar, Raffaele Carcano, chiede che il Comune di Genova come azionista di riferimento dell'Amt, solleciti la revoca del contratto di concessionaria all'Igp. Intanto l'ufficio legale dello Uaar sta valutando «mosse per contestare la decisione». Lo Uaar potrebbe anche presentare uno slogan simile a quello utilizzato per i bus atei in Inghilterra e in Spagna: «Dio probabilmente non esiste, vivi con gioia». Quel «probabilmente» attenua l'affermazione ma anche la sua efficacia. «Se saranno presentate altre richieste e altri slogan siamo qui per esaminarli», ribatte Duchene. La Ipg ha la concessione delle pubblicità su autobus, metro, aeroporti in tutta Italia, copre oltre il 70% del mercato, nel suo pacchetto sono comprese Milano, Roma, Torino, Napoli. Il «no» alla campagna genovese è uno stop per tutti. Per Duchene, «il principio ha valore per tutte le altre città ». Lo Uaar ha raccolto in pochi giorni 13 mila euro a sostegno dei bus atei, ora dovrà pensare a come investirli.
Lo slogan
«La cattiva notizia è che Dio non esiste, quella buona è che non ne hai bisogno»: una simulazione al computer della campagna pensata dall'Unione atei e agnostici per i bus genovesi

Repubblica 17.1.09
Il tamburo di latta
Il libro che cambiò la Germania
di Vanna Vannuccini


A cinquant´anni dal romanzo di Günter Grass esce una nuova traduzione Fu un´opera che con le sue verità scomode la sua furia anarchica modificò lo sguardo dei tedeschi sul proprio passato

In una piazza di Danzica, su una panchina di bronzo, siede Oskar Matzerath, il nano che con il suo tamburo di latta bianco e rosso cinquant´anni fa cambiò la letteratura tedesca e lo sguardo dei tedeschi sul loro passato. Alla sua destra era seduto, con i suoi baffoni spioventi, la pipa e l´espressione aggrondata, anche il suo creatore e cittadino onorario di Danzica, Günter Grass. Ma lo scrittore si era ribellato a questo monumento mentre era ancora in vita � così come ferma chiunque lo lodi quando osa parlare di "bilancio" della sua vita letteraria: «Ho ancora alcuni progetti», avverte. E al sindaco di Danzica aveva suggerito di spendere meglio quei soldi per fare i bagni nelle case popolari che ancora ne sono prive invece che per un monumento di bronzo.
Paradossalmente, la sua città natale, oggi Gadnsk e non più Danzig, polacca e non più anche tedesca, che lui era stato costretto a lasciare dopo la guerra voluta da Hitler, è rimasta la sola a difenderlo incondizionatamente. Mentre i tedeschi non riescono ancora a perdonare al loro Tamburo di latta che per anni aveva tambureggiato in tutte le direzioni verità scomode, di aver detto ad alta voce solo in uno dei suoi ultimi libri, Sfogliando la cipolla, che a sedici anni, negli ultimi mesi di guerra, era andato volontario nelle Waffen SS (che peraltro, va precisato, erano, sia pure con un nome simile, altra cosa delle SS che hanno compiuto i crimini più orrendi in Europa durante la guerra). Del resto nessuno, in questi cinquant´anni, ha contribuito alla riconciliazione tra polacchi e tedeschi più dello scrittore tedesco casciubo che, lasciata Danzica, era poi diventato nella Germania occidentale per metà dei tedeschi la coscienza della nazione, e per l´altra metà un nestbeschmutzer, uno che sporca il proprio nido, la propria patria � oltre che un pornografo, uno scrittore osceno: laddove valevano per tutte le descrizioni in cui Oskar , ormai sedicenne ma creduto da tutti un bambino perché a tre anni aveva smesso di crescere, dopo averlo cosparso di polvere profumata lecca il corpo della giovane Maria, e la lingua si perde «laddove nessun guardiaboschi ha il suo distretto».
Bissau, Kaschubei, è oggi diventata Bysewo, periferia di Danzica. Grass cominciò a parlare già cinquant´anni fa «di ciò che era andato perduto». Il tamburo di latta � affermò � è un tentativo «di fissare un pezzo di patria perduta per sempre». Laddove patria, s´intende, è per lui sempre e solo Heimat, il luogo natìo, le strade dell´infanzia, e mai Vaterland, una parola che nessun tedesco dopo la guerra poteva più pronunciare. Grass non volle pronunciarla nemmeno nei giorni euforici dell´unificazione, e come sempre osò andare contro la corrente. Per lui la nazione tedesca restava la Kulturnation, quella nazione culturale che aveva sempre amato e coltivato mantenendo durante la Guerra Fredda i rapporti con gli scrittori dell´altra Germania a dispetto della Stasi; non la nazione politica che si era macchiata di crimini infami.
Il romanzo uscì nel 1959, ma già qualche mese prima il trentenne scrittore aveva letto il primo e il trentaquattresimo capitolo davanti al Gruppo 47, e subito si era capito che quel romanzo avrebbe cambiato la letteratura tedesca. Era la risposta a tutti coloro che si domandavano perché, dopo la Seconda Guerra mondiale, dopo le devastazioni e le lacerazioni che avevano segnato la storia di un popolo tra i più civilizzati della terra, non ci fosse ancora un grande romanzo che stesse alla pari con la tradizione letteraria tedesca. Il tamburo di latta (che oggi riesce con una nuova traduzione di Bruna Bianchi, Feltrinelli, pagg. 604, euro 15) fu la risposta, e di tutte le risposte venute dopo è rimasta anche dopo cinquant´anni la più importante.
Per i tedeschi fu come se qualcuno avesse spaccato all´improvviso un muro e l´aria fosse entrata in una stanza tenuta chiusa troppo a lungo. Questo romanzo burlesco sugli anni più bui della storia tedesca fu come uno specchio in cui i tedeschi si videro riflessi � uno specchio opaco abbastanza da permettere di percepire il passato come qualcosa di altro, di estraneo, e allo stesso tempo abbastanza chiaro da potervi riconoscere i propri tratti. Tratti che erano impregnati dalla vanità di tutto ciò che è terreno, dalla semplicità della vita contadina, dalla fuga dal mondo, da tutto ciò che gli studiosi hanno chiamato "il barocco" di Günter Grass. Il tamburo di latta fece saltare in aria tutto quello che era stato detto fino ad allora in lingua tedesca e con furia anarchica, forza barocca e straordinaria fantasia dette un´immagine epica del passato tedesco. Il solo paragone che si poté fare fu con il Simplizissimus di Grimmelshausen che con un sguardo apparentemente naïf descrive l´orrore della Guerra dei Trent´anni.
Fu il libro tedesco del dopoguerra. Un successo mondiale. Con un colpo solo Grass aveva dato risonanza alla Germania, che era sparita dal consesso dei paesi civili, una risonanza nella quale si affievolivano tutte quelle parole che erano rimaste fino ad allora nelle orecchie dei popoli europei dopo la Seconda Guerra mondiale.
La Germania è sempre rimasta il terreno di risonanza dove lo scrittore ha battuto il suo tamburo. Dieci anni dopo il Tamburo esce il Diario di una lumaca, il ricordo personale di una campagna elettorale combattuta a fianco di Willy Brandt, anche lui un nestbeschmutzer, un insozzatore del nido per buona parte dei tedeschi, per il suo anticonformismo e per essersi inginocchiato nel ghetto di Varsavia. Günter Grass sostenne attivamente Willy Brandt (in un momento in cui l´"impegno", in Germania, non era visto di buon occhio), più tardi lo criticò. Poi si riavvicinò al cancelliere condividendo la Ostpolitik che rese il muro un po´ più permeabile. Guardano a quegli anni si ha l´impressione che come scrittore a un certo momento (con Anni di cani) si sia trovato a un bivio: avvicinarsi all´avanguardia sperimentale europea ,o scegliere l´impegno politico anche come scrittore. E lui scelse la seconda strada.
Il Nobel che gli fu assegnato nel 1999 ebbe in Germania quasi l´effetto di una riconciliazione. Tanto era stato detestato da parte dei tedeschi. Il cancelliere Schroeder parlò di "oltraggi" che lo scrittore aveva dovuto subire. Lui è rimasto uguale a se stesso, anche dopo aver rivelato quella adesione alle Waffen SS a sedici anni: una figura pubblica di resistenza e di eroica caparbietà. Lo sua iconografia con la pipa e i baffi rivolti burberamente verso il basso ne sono ancora oggi la testimonianza.

Repubblica 17.1.09
Il labirinto dell'universo
Quel che resta ancora da decifrare
di Piergiorgio Odifreddi


Pubblichiamo un intervento di Piergiorgio Odifreddi che domani sarà al Festival delle Scienze per presentare il concerto "Helicopter", musiche di Karlhein Stockhausen
uale popolo, o quale cultura, non ha avuto la pretesa di spiegare l´intero universo? Ma quale popolo, o quale cultura, ha avuto gli strumenti per farlo? Gli antichi si sono dovuti accontentare della poesia, e agli albori del pensiero occidentale gli Ionici e gli Eleatici si cimentarono in svariati poemi invariabilmente intitolati Sulla natura, iniziando una tradizione che continuò coi fisici posteriori, da Empedocle e Anassagora a Democrito ed Epicuro, e culminò nel De rerum natura di Lucrezio.
Nonostante le loro grandiose visioni letterarie, indotte dai loro frammenti o dedotte dai loro canti, quei poemi lasciarono la natura delle cose velata come la ninfa Calipso, in attesa di essere svelata da strumenti più perspicaci delle parole. Dal telescopio, ad esempio, che esattamente quattrocento anni fa, nella primavera del 1609, Galileo puntò verso il cielo per ricavarne le visioni annunciate l´anno seguente nel Sidereus Nuncius. O dal microscopio, che fu invece Robert Hooke a usare in maniera analoga per ottenere visioni altrettanto sorprendenti del microcosmo, annunciate a loro volta nel 1665 dalla sua Micrografia.
Naturalmente, gli strumenti sono necessari per espandere i sensi oltre le loro limitatissime estensioni, e renderli più adeguati all´osservazione dell´universo in grande e in piccolo. Ma le osservazioni non sono sufficienti per descrivere, e meno che mai per spiegare, ciò che viene osservato: è necessario sostenerle ed esprimerle con un pensiero e un linguaggio adeguati, spesso di nuovo conio.
Un esempio superficiale sono appunto le parole «telescopio» e «microscopio», che suggeriscono direttamente la visione (skopein) lontana (tele) o in piccolo (micro) permessa da quegli strumenti: esse furono inventate da due membri dell´Accademia dei Lincei, rispettivamente Giovanni Demisiani nel 1611 e Johann Faber nel 1625, per sostituire gli inadeguati termini «cannone» (o «cannocchiale») e «occhiolino» usati da Galileo.
Un esempio profondo sono invece i concetti e i risultati della nuova matematica del Seicento, principalmente la geometria analitica di Cartesio e l´analisi infinitesimale di Leibniz e Newton, che permisero a quest´ultimo di organizzare le osservazioni e le intuizioni di Galileo e di Keplero in una coerente teoria meccanica, codificata nel 1687 nei monumentali Principi matematici della filosofia naturale: un´opera che, fin dal suo programmatico titolo, affida al linguaggio matematico il compito di descrivere il pensiero sulla natura.
L´idea non era nuova, perché già Pitagora aveva intuito il legame fondamentale tra natura e matematica. Ma per lui il rapporto era indiretto e veniva mediato dalla musica, i cui rapporti armonici potevano essere da un lato descritti da rapporti numerici, e dall´altro generati da rapporti fisici: nel senso, ad esempio, in cui un intervallo di ottava corrisponde al suono di due corde di lunghezza una doppia dell´altra, o di due martelli di peso uno doppio dell´altro. Le metafore fondamentali del pitagorismo si rifanno dunque alla musica, e cantano l´Armonia del Mondo o la Musica delle Sfere.
Fu Galileo a introdurre nel 1623, in una famosa pagina del Saggiatore, una metafora nuova e più consona allo spirito della nuova scienza: l´immagine, cioè, della matematica come linguaggio in cui è scritto «questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l´Universo)». Un´immagine, questa, che è singolarmente simmetrica, persino nella struttura tipografica, a quella altrettanto famosa di Borges nell´apertura del suo racconto La Biblioteca di Babele: «L´universo (che altri chiama la Biblioteca)».
Nei suoi quattro secoli di vita, la scienza moderna si è impegnata a fondo nella decifrazione del grande libro della Natura, armata degli strumenti tecnologici e matematici che le permettono di leggerlo e di comprenderlo. E ha raggiunto successi memorabili, coronati nell´Ottocento dall´elettromagnetismo di Maxwell e l´evoluzionismo di Darwin, e nel Novecento dalla relatività di Einstein, la meccanica quantistica di Heisenberg e Schrödinger, la quantoelettrodinamica di Feynman, Schwinger e Tomonaga, l´unificazione elettrodebole di Glashow, Salam e Weinberg, la quantocromodinamica di Gross e Wilczek, la scoperta della struttura del Dna di Watson e Crick, la decodifica del codice genetico di Nirenberg e la sequenziazione del genoma umano di Collins e Venter.
Anzi, le comprensioni globali e di dettaglio sono state così profonde, e le loro ricadute tecnologiche e culturali così diffuse, che la nostra può a buon diritto esser definita l´Era della Scienza. Semmai, viene da chiedersi che cosa rimanga ancora da decifrare e da capire, prima di poter chiudere il grande libro e riporlo nello scaffale. E la risposta potrebbe essere, in ordine decrescente di grandiosità: i tre grandi problemi dell´origine dell´Universo, della vita e della coscienza.
Non sorprendentemente, questi sono esattamente i tre momenti sui quali si concentra l´interesse degli spiriti religiosi, che si accontentano al riguardo dell´uniforme pseudospiegazione dell´intervento divino: «pseudo», perché in fondo postulare che Dio è la causa di qualcosa non è altro che un modo diverso di dire che non sappiamo quale ne sia la causa, e non aggiunge assolutamente nulla di preciso e utile alla sua conoscenza. Anche se, come notò Russell nell´Introduzione alla filosofia matematica, «postulare ciò che desideriamo ha molti vantaggi: gli stessi del furto nei confronti del lavoro onesto».
La scienza non si accontenta, dunque, e continua il suo onesto lavoro verso la soluzione di quei tre problemi, che appare sempre più a portata di mano. L´origine dell´Universo attende la formulazione definitiva della Teoria del Tutto, in grado di coniugare la cosmologia relativistica e l´atomismo quantistico, e il suo miglior candidato sembra essere la popolare teoria delle stringhe di Witten.
Sull´origine della vita non c´è una proposta che goda di un analogo consenso, ma l´esistenza di molte alternative dimostra che il problema è maturo per una soluzione. Tra l´altro, proprio lo scorso 8 gennaio Tracey Lincoln e Gerald Joyce hanno pubblicato su Science l´annuncio della scoperta di enzimi dell´Rna che si replicano autonomamente: un esempio di qualcosa che non è ancora vita, ma ne ha già alcune proprietà tipiche.
Quanto all´origine della coscienza, la relativa novità delle neuroscienze e dell´informatica lascia prevedere un cammino ancora lungo, ma già promettente. E tutti insieme questi sviluppi permettono agli scienziati di continuare a professare il motto del grande matematico David Hilbert, che sta inciso sulla sua tomba: Wir müssen wissen, Wir werden wissen, «Dobbiamo sapere, e sapremo».

Repubblica 17.1.09
Muti. "Io, nella città di Obama sul podio dell´orchestra migliore del mondo"
di Leonetta Bentivoglio


Ovazioni per la grande bacchetta italiana che ha debuttato come "direttore designato" della formazione americana Dal 2010 ne diventerà il direttore principale succedendo a nomi prestigiosi come Barenboim e Pierre Boulez
E il 7 febbraio dirigerà il concerto che riapre il San Carlo di Napoli

L´atmosfera era straordinaria. Appena sono salito sul podio mi ha accolto un´ovazione del pubblico. E alla fine, dopo qualche istante di silenzio, tutti gli spettatori si sono alzati in piedi per applaudire a lungo». Riccardo Muti parla da Chicago, dove ha diretto da poche ore un trionfale Requiem di Verdi, solisti Barbara Frittoli, Olga Borodina, Mario Zeffiri e Ildar Abdrazakov. È stato il suo primo concerto come "direttore designato". Si dice proprio così: Music Director Designated. Vuol dire che la nomina alla testa della migliore orchestra americana è già avvenuta, ma l´incarico effettivo scatta nel 2010. La città di Obama sta ancora dormendo quando Muti commenta al telefono l´inizio del suo nuovo percorso. Davanti alla sua finestra, racconta, l´abbagliante visione del lago ghiacciato spicca nelle tinte opache dell´alba. Fuori la temperatura raggiunge i venti gradi sotto zero.
«Ma il momento è caldo», dice. «Sono giorni intensi per Chicago, ricchi di vivacità e d´orgoglio. Tra poco Obama sarà presidente, i giornali ne parlano di continuo, il suo volto appare ovunque. In questa città dinamica, internazionale, messaggera di idee, simbolo di modernità architettonica (sta per inaugurarsi il museo d´arte moderna progettato da Renzo Piano) e molto identificata con la sua formidabile orchestra, si percepisce la fierezza di poter ricomporre, in futuro, una certa immagine dell´America aperta e multiculturale offuscata negli anni scorsi. Tra l´altro, da fonti molto vicine a Obama, appassionato di musica, e qualche tempo fa coinvolto dalla Chicago Symphony come voce recitante nel Lincoln Portrait di Aaron Copland, ho saputo che il presidente vuole creare negli Stati Uniti, dove finora non c´è mai stata, la posizione di ministro della cultura. Per dire quanto intende porre l´accento sul tema. In un paese dove la cultura è sempre stata in mano ai privati si procede in un´altra direzione, all´inverso di quanto accade in Italia».
Quali caratteristiche ha la sua nuova orchestra americana?
«Innanzitutto una tecnica prodigiosa, forse la migliore al mondo. Qui non ci sono da costruire travi o raddrizzare sostegni. Si parte subito da un livello altissimo, e si fa musica senza doversi preoccupare, come ho fatto con altre orchestre, di sistemare situazioni tecniche problematiche. Nata da uno stampo tedesco, la Chicago Symphony ha archi meravigliosi ed è famosa per i suoi ottoni. Ma se l´aspetto germanico permane nel tessuto poderoso, negli ultimi anni ha acquisito una flessibilità sempre maggiore, dimostrandosi capace di finezze e pianissimi impensabili in un´orchestra di tale potenza. Attualmente conta su Bernard Haitink come direttore principale e Pierre Boulez come direttore onorario. L´uno è l´Europa classica e romantica, l´altro è il musicista oggi più importante per apertura al contemporaneo. L´orchestra integra le due strade. Il mio arrivo reca un mondo musicale che viene anche dalla conoscenza approfondita dell´opera lirica. Una linfa nuova molto apprezzata dall´orchestra, che ha voluto con forza la mia nomina. Dopo la nostra tournée in Europa ho ricevuto da ogni singolo musicista lettere di ringraziamento per l´esperienza musicale vissuta assieme».
Sta già facendo programmi?
«Ho avuto un incontro col comitato esecutivo della Chicago Symphony, formato in gran parte dai finanziatori, durante il quale ho ribadito l´intenzione di portare l´orchestra non solo in giro per il mondo, ma in tutte le fasce di questa città multietnica. Penso a concerti decentrati, a gruppi da camera in vari luoghi, a lezioni nelle scuole e nelle carceri. E progetto commissioni a compositori americani e non. Sono convinto che la musica del futuro possa nascere dall´incontro di diverse razze ed etnie. Solo la preziosa miscela di culture musicali differenti riuscirebbe finalmente a farci uscire dalle pastoie di certa nuova musica cristallizzata nella ricerca di formule timbriche e ritmiche troppo complesse».
E l´Italia? Il 7 febbraio dirigerà a Napoli il concerto che festeggia la riapertura del San Carlo dopo i lavori di restauro.
«Ho visitato la sala rinnovata, è di bellezza folgorante. Da napoletano di nascita spero che questo concerto sia il segnale non solo della riapertura di uno splendido teatro, ma anche della ripresa di un cammino artistico. Mettere a posto i muri non basta».

Corriere della Sera 17.1.09
Il maestro italiano ha esordito come direttore della Symphony Orchestra. E la critica applaude
«In Usa vince la cultura, noi la perdiamo»
di Valerio Cappelli


Riccardo Muti a Chicago. «Alla fine del primo concerto, dopo lunghi secondi di silenzio, mi sono voltato e tutta la sala era in piedi». Tra le voci: Barbara Frittoli e Olga Borodina
Muti star a Chicago: i progetti di Obama, rivoluzionari anche nella musica
Tre serate esaurite da maggio. Il «Tribune»: «Insediamento trionfale, una di quelle serate che cambiano la vita»

ROMA — Dal 44º piano del grattacielo che lo ospita, Riccardo Muti vede il lago ghiacciato di Chicago (la temperatura è a meno venti), da cui si leva una tempesta di fumi. «Un paesaggio da Inferno dantesco, dalla mia finestra sembra il Dies Irae
di Verdi», racconta divertito al telefono. È il giorno dopo la Messa da Requiem verdiana, il concerto con cui comincia un capitolo nuovo della sua vita di musicista: il debutto come direttore musicale della Chicago Symphony Orchestra. Sui giornali c'è scritto: «Se siete in grado di trovare un biglietto, congratulazioni ». Le tre serate esaurite da maggio. «Alla fine, dopo lunghi secondi di silenzio, mi sono voltato e tutta la sala era in piedi». Le voci: Barbara Frittoli, Olga Borodina, Mario Zeffiri, Ildar Abdrazakov.
Il critico musicale del Chicago Tribune, John von Rhein, ha scritto di un Verdi «celestiale», «un'esperienza di quelle che cambiano la vita», «meravigliosa pulizia di suono». Concludendo con: «Muti ha avuto il suo insediamento trionfale. Adesso tocca a Obama».
Dopo l'addio alla Scala, ha creato un'orchestra di giovani, è tornato a Salisburgo, ha ripreso i tour coi Wiener, ha esordito all'Opera di Roma, «dove non vedo l'ora di tornare in marzo per Gluck». Ma qui si tratta di un impegno nel tempo, dal 2010 due mesi e mezzo a Chicago più tre settimane di tournée: «Verrò anche in Italia ».
Muti ha sentito una voce dal «board of directors» del presidente Obama, che si insedierà martedì: «Una delle sue idee è di creare un ministero della Cultura in America: in Europa è scontato ma qui, dove tutto è nelle mani dei privati, (che mettono i soldi ma non decidono la programmazione e lasciano libertà all'artista) è un fatto rivoluzionario. Nel momento in cui noi ci disoccupiamo della cultura, Obama se ne occupa, ritenendola fondamentale nel Paese dalle tante comunità etniche. La nuova musica sarà centrale nel processo di integrazione di razze diverse. E noi la abbandoniamo, come se la possedessimo per grazia divina; la cultura ci sta sfuggendo di mano ».
Che cosa rappresenta il Requiem verdiano nella sua carriera? «È quasi una lotta tra l'uomo e Dio, è molto diverso da tutte le pagine religiose austro- germaniche, le radici affondano nel nostro modo di esigere, più che chiedere, che Dio si prenda cura di noi, visto che la responsabilità della nostra presenza sul pianeta è dovuta a lui. L'uomo qui non prega passivamente ma combatte, il grido Libera Me Domine è quasi di ribellione, col finale in do maggiore che è inquietante pur essendo una tonalità luminosa, vedi la Jupiter di Mozart o il finale della Quinta di Beethoven. Qui c'è la genialità di Verdi, dà la sensazione di un punto interrogativo: Succederà? Sarò liberato da Te?».
Maestro, perché disse no alla New York Philharmonic? «Subito dopo Chicago, andrò proprio a dirigere quell'orchestra. Erano tempi diversi, allora ero felice di essere libero dedicandomi a quelle 4-5 orchestre vicine alla mia sensibilità (coi Wiener lavoro da 38 anni). Ci sono momenti in cui scatta una cosa, non l'ho fatto per altri motivi. I miei rapporti con la NYPhil sono splendidi».
Com'è l'America di Riccardo Muti? «Ne ho conosciute due. La prima volta presi la guida della Philadelphia Orchestra che avevo 39 anni, la vecchia America blasonata. Chicago è la città del futuro anche nelle sue forme architettoniche, come una Ferrari. Trovi comunità polacche, italiane, greche, messicane; la vitalità dell'Orchestra riflette quella della città che aspetta Obama (lui qui era senatore), lui fu voce recitante in un pezzo di Copland, Lincoln Portrait,
che io proposi a Philadelphia con la voce di Michael Jordan, il giocatore di basket. Chicago sta impazzendo, si identifica nel nuovo corso di speranza per riconquistare l'affetto di tutto il mondo, l'America vuol risollevarsi e essere riamata, e l'Orchestra, definita dalla prestigiosa rivista Gramophone di Londra la prima in Usa, è ambasciatrice di questa speranza. Nonostante i fumi del lago, qui sembra Primavera».

Corriere della Sera 17.1.09
Bruxelles contro l'Italia: pensa solo all'inglese. La replica: è indispensabile
La Ue e Gelmini, duello sulle lingue straniere
di Luigi Offeddu


BRUXELLES — L'Unione Europea si mostra sensibile alle proteste di genitori e insegnanti e critica la riforma Gelmini che prevede l'obbligo di studiare una sola lingua straniera. Il romeno Orban, commissario al Multilinguismo: «L'approccio della Ue è un altro: più lingue si insegnano e si parlano in ogni Paese, meglio è».

Bruxelles Centinaia di email di insegnanti e genitori per salvare le lezioni di francese, spagnolo e tedesco
La Ue critica l'Italia: a scuola non basta l'inglese
Il commissario per il multilinguismo e la riforma: vanno raddoppiati gli insegnamenti

BRUXELLES — Ne sono arrivate più di 400, in pochi giorni: email partite dall'Italia, un piccolo maremoto di protesta. Mittenti: in gran parte insegnanti, ma anche genitori. Destinatari: la Commissione europea, e soprattutto il commissario europeo al multilinguismo, Leonard Orban. La richiesta: salvare l'insegnamento alla scuola media del francese, dello spagnolo o del tedesco, cioè della «seconda lingua comunitaria » che dall'autunno diventerà facoltativa. Imputata, o presunta imputata: il ministro dell'Istruzione, Mariastella Gelmini. Che, a metà dicembre, stabilì: «a richiesta delle famiglie e compatibilmente con le disponibilità di organico e l'assenza di esubero dei docenti della seconda lingua comunitaria, è introdotto l'insegnamento potenziato dell'inglese per 5 ore settimanali complessive, utilizzando anche le ore d'insegnamento della seconda lingua comunitaria». Vale a dire: l'inglese potrà passare da 3 a 5 ore settimanali, e le 2 ore in più le cederà l'altra lingua.
«Ma questo aiuterà gli italiani a sentirsi più europei?», chiedono i messaggi giunti a Bruxelles. «No, è un regolamento anti-europeo». E ancora: «È noto il gran divario linguistico che ci divide dagli altri Paesi Ue, parliamo poco le lingue straniere. Ora le parleremo ancor meno! Altrove si investe sulla seconda lingua straniera, pensiamo che l'Italia dovrebbe fare lo stesso...».
E che cosa ne pensa il destinatario delle email, cioè l'ingegnere romeno Orban, commissario al Multilinguismo? «Conosco la linea italiana. E penso che non sia l'approccio migliore. L'approccio della Ue è un altro: più lingue si insegnano e si parlano in ogni Paese, meglio è. Lo dico con il massimo rispetto per lo Stato italiano, so bene che sono sue le competenze sul multilinguismo. E mi piacerebbe anche parlarne con il ministro Gelmini». Secondo Orban, «per l'Europa, niente è cambiato rispetto alla volontà politica espressa da tutti gli Stati nel 2002, a Barcellona, al vertice dei capi di Stato e di governo. Allora si disse: si insegneranno "almeno due lingue" oltre alla lingua madre». A Barcellona, per l'Italia, c'era Silvio Berlusconi, anche allora premier, e l'Istruzione era affidata a Letizia Moratti. Però non è stata solo l'Italia a cambiare strada, da allora. Anche in Gran Bretagna, la lingua straniera non è obbligatoria dai 14 anni in poi: «Ma studi fatti laggiù — rileva ancora Orban — parlano di seri problemi per quei giovani, sul mercato interno del lavoro: le aziende cercano chi parla più lingue perché comunica meglio e perché è più aperto, adattabile, ha più capacità interculturali. Sono sempre di più i Paesi Ue che applicano questo principio. E ormai contano il russo, il cinese, l'arabo. Immagini che ogni Paese decida di promuovere una sola lingua, che cosa accadrebbe? Che una lingua e una cultura importanti come quella italiana non avrebbero alcuna possibilità di essere conosciute fuori dall'Italia. Ma l'Europa, che è un attore globale e vuole competere nel mondo, certo non vuole questo, per nessuno ».

Corriere della Sera 17.1.09
La scuola non può «tagliare» la scienza
di Edoardo Boncinelli


Nel vortice della cattiva informazione imperante, soprattutto in campo tecnico-scientifico, e contro i proclami privi di fondamento di tutti i tipi è la scuola e solo la scuola che può giocare un ruolo determinante, ergendosi a baluardo contro l'ignoranza e offrendosi come autorevole guida e solido termine di riferimento. In tutti i campi, dalla storia alla biologia, dalla filosofia all'ecologia. Se vogliamo cittadini informati e capaci di riflettere dobbiamo avere scuole all'altezza del compito.
Dispiace quindi particolarmente che si ventili in questo periodo una drastica riduzione delle ore dedicate alla scienza nei Licei Scientifici, che sono quelli dove i ragazzi hanno più probabilità di familiarizzarsi con i successi e le problematiche del mondo scientifico moderno e contemporaneo. Si parla di passare dalle attuali 25 ore di moltissimi Licei Sperimentali a solo 15 ore o peggio. Le conoscenze scientifiche aumentano in continuazione, di giorno in giorno, e richiederebbero casomai sempre più tempo, non meno. Non è possibile trattare ad esempio le innumerevoli acquisizioni della biologia di oggi con un numero di ore corrispondenti a quelle che potevano essere necessarie trenta o quaranta anni fa. Lo stesso discorso vale per la chimica e la tecnologia dei materiali, per la geologia e la geografia astronomica, se non vogliamo parlare dell'astronomia e dell'astrofisica. Ma non è solo questione di orari.
Anche nel dettaglio di queste ore ci sono preoccupanti cambiamenti in vista. Potrebbero sparire ad esempio le distinzioni disciplinari, vale a dire la distinzione fra biologia, chimica, geologia, astronomia e via discorrendo a favore di una generica dicitura di Scienze. Si tratta di discipline scientifiche molto diverse con caratteristiche e specificazioni molto diverse, che richiedono orari e metodi (e laboratori!) molto diversi.
Ricompattarle sotto un'unica dicitura di Scienze equivarrebbe a porre tutte le discipline umanistiche sotto l'unica etichetta di Lettere. E forse ciò sarebbe ancora più ardito. Esiste infine la tendenza a eliminare i Licei Scientifici cosiddetti Sperimentali, i più seguiti e i più richiesti dagli studenti e dalle famiglie. E' solo attraverso l'articolazione dell'offerta e il tentativo di renderla sempre più adeguata all'esigenze del presente che si può pensare di riempire un vuoto culturale allarmante del nostro Paese, un Paese che non include la cultura scientifica nel più vasto capitolo della Cultura con la C maiuscola e che tende a riguardare con sufficienza, se non con diffidenza, ogni nuova acquisizione teorica e ogni nuova applicazione del sapere scientifico che si profili all'orizzonte. Si nota insomma una diffusa insoddisfazione negli insegnanti di materie scientifiche della Penisola, preoccupati di veder stagnare se non declinare paurosamente il patrimonio di innovazione didattica e metodologica accumulato in questi anni nel campo delle discipline scientifiche. Con conseguenze che non esiterei a definire nefaste.

Corriere della Sera 17.1.09
Nuova teoria sulla diffusione dell'uomo moderno dall'Africa
Più padri che mamme tra i nostri progenitori
I maschi in maggioranza durante le migrazioni
di Giordano Velati


Fra 50 mila e 70 mila anni fa,ungruppoditemerarirappresentanti dell'Homo sapiens sapiens lasciò l'Africa — culla del genere umano — per conquistare il mondo intero. Raggiunsero prima il Sudest asiatico, l'Europa, l'Asia e, infine, le Americhe. Oggi, a questa teoria, giudicata da sempre la più attendibile per spiegare la diffusione dell'uomo moderno, possiamo aggiungere qualcosa di più: quel primo gruppo di conquistatori era rappresentato quasi esclusivamente da maschi e, quindi, la stragrande maggioranza dei popoli del pianeta è figlia di molti papà e di pochissime mamme.
Alon Keinan, dell'Harvard School of Medicine (Usa), ha raggiunto questi risultati dopo aver analizzato il genoma di uomini contemporanei africani, europei e asiatici, e aver messo a confronto oltre 100 mila differenze del cromosoma sessuale X. Keinan ha in particolare considerato che, in una popolazione in cui la presenza maschile e femminile è equiparabile, la variabilità genetica dei cromosomi X è assai elevata: ciò dipende dal fatto che ogni donna possiede due cromosomi X, mentre gli uomini ne posseggono uno soltanto (oltre all'Y). Se però una popolazione è composta prevalentemente da individui di sesso maschile, il numero di cromosomi X cala drasticamente e con esso la variabilità genetica del cromosoma sessuale. Basandosi, dunque, su questo presupposto, lo scienziato americano ha scoperto che la variabilità genetica del cromosoma X è evidente soprattutto negli africani moderni, mentre è scarsa in tutti gli altri popoli. Da ciò ha quindi concluso che solo gli africani derivano da gruppi ancestrali caratterizzati da una percentuale maschile e femminile simile, mentre tutti gli altri provengono da un'unica popolazione costituta quasi esclusivamente da maschi.
In realtà, questa ricerca contraddice uno studio antropologico diffuso pochi mesi fa su
Plos Genetics, nel quale si diceva che tutti gli uomini discendono da un minor numero di maschi rispetto a quello delle femmine: «È la dimostrazione che, nonostante i progressi della scienza molecolare, si è ancora lontani dall'avere conclusioni e dati certi sul numero di antenati partiti dall'Africa per colonizzare gli altri continenti» spiega Donata Luiselli, evoluzionista dell'Università di Bologna. Ma cosa avrebbe spinto questi Homo sapiens sapiens a puntare gli occhi oltre i confini africani? Due le possibilità: motivi bellici o la necessità di individuare nuovi spazi dove cacciare e procreare. «Probabilmente è più verosimile la seconda ipotesi — spiega Marco Ferraguti, evoluzionista dell'Università di Milano —. Questo perché è difficile pensare che 60 mila anni fa potessero esserci dei validi presupposti per dichiarare guerra a qualcuno ».
Nella storia dell'evoluzione umana, comunque, non è stata questa l'unica volta che uno sparuto numero di rappresentanti dell'Homo sapiens sapiens s'è messo in marcia verso nuovi territori. Secondo un recente studio genetico, anche la colonizzazione delle Americhe sarebbe avvenuta — intorno ai 12 mila anni fa — attraverso una sola grande migrazione. I ricercatori, in questo caso, hanno analizzato 678 marker genetici in 29 nativi americani provenienti sia dal nord che dal centro e sud America, confrontandoli con le caratteristiche genetiche dei siberiani. I risultati dimostrano che la diversità genetica tra i nativi americani e gli asiatici aumenta all'aumentare della loro distanza d'insediamento dallo Stretto di Bering, circostanza che dimostrerebbe l'esistenza di un percorso di colonizzazione delle Americhe da nord a sud. In questo caso, però, non è stato possibile appurare se furono soprattutto degli esponenti di sesso maschile a muoversi verso Est.

Corriere della Sera 17.1.09
Ma non ci fu la guerra dei sessi
di Fiorenzo Facchini


I modelli con cui si cerca di ricostruire le migrazioni del passato in base alle differenze del Dna non possono essere generalizzati. Si può arrivare a conclusioni diverse a seconda della regione del Dna analizzata e del campione esaminato. Ciò spiegherebbe i risultati diversi ottenuti nello studio recente di Plos Genetics, a cui accenna Donata Luiselli. In ogni caso l'uscita dell'umanità moderna dall'Africa intorno a 50.000-70.000 anni fa, non deve essere pensata come un evento unico. Viene quindi da chiedersi se in tutti i momenti ci sia stata una prevalenza di migranti di sesso maschile. Può esserci anche stata qualche migrazione differenziale, cioè non bilanciata nel rapporto fra i sessi, ma non si può neppure escludere una selezione nel corso del tempo a carico di alcuni loci cromosomici in un sesso o nell'altro nei campioni esaminati. Quanto alle cause dell'uscita dall'Africa escluderei la bellicosità. La scarsa densità della popolazione e gli spazi a disposizione nei lunghi tempi del Paleolitico per le risorse erano tali da non richiedere guerre di conquista, come invece si ammette nell'espansione neolitica. Piuttosto viene da pensare a qualche fattore di ordine ambientale, come cambiamenti nel clima, che potrebbero avere spinto a migrare verso nuovi territori. Quanto al popolamento dell'America, che sarebbe avvenuto 12.000 anni fa in un'unica grande migrazione, il dato riportato è contraddetto da vari studi di carattere molecolare (come quello di Perego, Torroni e altri sul Dna mitocondriale di gennaio 2009 su Current Biology) e paleoantropologico che depongono per una maggiore antichità e per diverse ondate migratorie sempre dal Nord al Sud. Tali differenze possono essere attribuite o al campionamento o alla scelta dei marcatori esaminati. La ricostruzione del passato è difficile sul piano paleoantropologico, ma anche le analisi molecolari vanno prese con cautela e non possono essere generalizzate.
*Università di Bologna

Corriere della Sera 17.1.09
Protagonisti Nel bicentenario torna il mito dello statista che liberò gli schiavi e salvò l'Unione
Lincoln, il presidente lodato da Marx
Criticato negli anni '60, oggi è un modello per la «rinascita»
di Paolo Valentino


WASHINGTON — Per giurare da presidente, Barack Obama ha scelto la Bibbia che apparteneva a lui, vecchia di un secolo e mezzo, copertina di velluto e legatura in oro, normalmente custodita alla Biblioteca del Congresso. Il tema dell'inaugurazione del 44mo presidente è preso direttamente dal celebre discorso di Gettysburg: «A New Birth of Freedom», una nuova alba della libertà. Nei discorsi, nelle scelte dei ministri, nei luoghi, nell'intera iconografia della sua campagna, è sempre lui il riferimento ideale di Obama.
Alla National Portrait Gallery espongono le sue maschere scultoree e le fotografie più famose. All'American History Museum è stata appena aperta una mostra sulla sua vita «straordinaria»: c'è anche il cilindro che indossava la notte in cui venne assassinato. L'omicidio avvenne al Ford's Theatre, anche questo già restaurato e fra poco riaperto. E per gli appassionati della mondanità, l'American Art Museum dedica una sala al suo ballo inaugurale, dove si possono vedere anche inviti e menu originali. Mentre una raffica di nuovi saggi e biografie, fra cui quella monumentale di Michael Burlingame, che ha scoperto lettere inedite e articoli considerati perduti, scandisce l'inizio dell'anno del suo bicentenario.
Ma non è soltanto una celebrazione. L'America è di nuovo innamorata di Abraham Lincoln (1809-1865), il sedicesimo presidente, l'uomo dell'Illinois che emancipò gli schiavi, il redentore degli ideali americani che salvò l'Unione e cambiò la storia del mondo. «No Lincoln, no nation», ricorda con la solita verve Christopher Hitchens. È una riconsiderazione collettiva, che la drammatica situazione del Paese, di fronte alla prospettiva di una nuova Grande depressione, rende ancora più appassionata e urgente. È a Lincoln in altre parole che gli americani, primo fra tutti il nuovo presidente, sembrano nuovamente guardare per ritrovare ispirazione e visione.
Non sempre è stato così. Come mostra Harold Holzer nella sua Lincoln Anthology: 85 Writers on his Life and Legacy from 1860 until Now, il giudizio su Lincoln è stato sempre molto variegato e controverso. Negli anni Sessanta, per esempio, il «grande emancipatore» era stato ridimensionato sia da destra che da sinistra. La cultura liberal gli contestava che il suo vero obiettivo fosse stato preservare l'Unione, non già abolire la schiavitù: in una lettera del 1862, Lincoln non ne faceva mistero, spiegando che avrebbe tenuto insieme l'Unione anche «senza liberare un solo schiavo», ovvero «liberandoli tutti», o ancora «liberandone solo alcuni ». E quelli liberati li avrebbe volentieri incoraggiati a emigrare in Africa. A destra, a parte l'eterno risentimento sudista che fino al 1964 penalizzò il Partito repubblicano, il suo partito, negli ex Stati della Confederazione, un editoriale sulla
National Review di William Buckley lo descriveva come «essenzialmente negativo per il genio e la libertà del nostro Paese», considerandolo un centralista, nemico dei diritti degli Stati. Su questo giudizio forse pesava anche la lettera di congratulazioni che Karl Marx gli scrisse nel 1864, in occasione della sua rielezione, dove fra l'altro il padre del comunismo affermava ( sic) che «i lavoratori d'Europa sentono istintivamente che la bandiera a stelle e strisce porta il destino della loro classe».
Ma il bicentenario, l'ascesa alla presidenza di un altro uomo dell'Illinois, l'arrivo alla Casa Bianca del primo afroamericano, che porta al suo logico esito l'emancipazione iniziata nel 1862, lo spettro della depressione sono gli ingredienti che hanno contribuito alla riscoperta di Lincoln. Perché fu lui, nel momento in cui fallì il compromesso originario, che aveva ipocritamente conciliato la schiavitù con la più democratica Costituzione del mondo, a salvaguardare il più grande esperimento di autogoverno della storia, sia pure al prezzo di una sanguinosa Guerra civile.
Offre un canovaccio, il sedicesimo presidente, agli Stati Uniti di Obama? C'è stato molto dibattito, nelle settimane scorse, intorno al libro di Doris Kearns Goodwin, Team of Rivals: the Political Genius of Abraham Lincoln, pubblicato nel 2005, che racconta come nel suo primo gabinetto il «grande emancipatore» volle tutti gli ex avversari politici. Il neopresidente lo ha indicato come una delle sue letture preferite, fonte di ispirazione per la composizione del suo governo: la scelta di Hillary Clinton per il dipartimento di Stato e la conferma del repubblicano Gates al Pentagono rispondono a questa logica. «Ma quello era un costume del tempo. Il punto non sono gli avversari, quanto le personalità forti », osserva lo storico Eric Foner, della Columbia University, autore dell'antologia Our Lincoln: New Perspectives on Lincoln and His World. Secondo Foner, «il confronto con presidenti recenti ci dice che spesso essi hanno scelto come ministri degli yesman dei loro Stati, quindi non hanno mai dovuto misurarsi con punti di vista diversi e opposti». In questo senso, per Foner, Lincoln offre ancora un modello: «La squadra dei rivali può funzionare. Ma il compito è più difficile. La Guerra civile contribuì all'impressione di un governo di unità nazionale. Non so se la crisi economica farà altrettanto».
Secondo Andrew Delbanco, uno degli autori dell'antologia di Foner, nonostante i suoi traumi la Guerra civile, a differenza di altre guerre, non lasciò l'America in crisi e priva di una causa o di una visione. Lincoln cioè seppe trovare «un significato trascendente al massacro», in grado di parlare sia ai vincitori che agli sconfitti. Fu il miracolo di Gettysburg, dove in meno di due minuti Lincoln diventò un nuovo padre fondatore, definendo una nuova visione e una nuova missione.
Oggi le sfide sono diverse, ma non meno gravi. Eppure, secondo Harold Holzer, che in Lincoln President-Elect racconta la transizione presidenziale dell'inverno 1860-61, «come allora, la leadership può venire non tanto dall'esperienza, ma dalla serietà, dal senso del dovere, dall'umiltà e dalla comprensione degli altri».
Alla National Portrait Gallery, la celebre foto scattata da Alexander Gardner nel febbraio 1865, due mesi prima della morte di Lincoln, sembra anticiparne la fine. Proprio sopra la fronte, nel punto in cui la pallottola di John Wilkes Booth andò a conficcarsi, una crepa attraversa la lastra. Nella stampa, il negativo si era rotto. Ma per una volta, lo sguardo del vecchio Abe sembra addolcirsi in un mezzo sorriso. Forse è della promessa di quell'ottimismo, che hanno bisogno oggi l'America e il mondo.

Liberazione 17.1.09
Jamal Zahalka presidente del partito Balad
«Arabi fuori dalle elezioni. Questa è politica razzista»
di Francesca Marretta


Gerusalemme. Mentre a Gaza non si ferma l'offensiva israeliana, nello Stato ebraico procede la macchina elettorale, in vista del voto per le elezioni politiche il prossimo dieci febbraio. Lunedì scorso, il comitato elettorale della Knesset (il parlamento israeliano), su richiesta della coalizione di estrema destra, Ichud Leumi-Israel Beiteneu ed il partito centrista Itay Furman (ex Shinui), ha votato l'esclusione dei due partiti arabi di Israele Balad (Assemblea Nazionale Democratica della minoranza araba) e Tàal (Lista Araba Unita), dalle ormai imminenti elezioni. Le due formazioni arabe sono state accusate di non riconoscere Israele come Stato ebraico e sostenere la lotta armata. Contro il provvedimento si sono schierati solo il partito di sinistra Meretz, che ha votato contro ed il partito di sinistra a componente araba ed ebraica israeliana, Hadash (Fronte democratico per la pace e l'uguaglianza), che ha lasciato l'aula al momento del voto. La decisione di escludere i due partiti arabi, è stata presa dopo una acceso dibattito parlamentare, in cui sono volati pesanti insulti incrociati: «Ogni voto dato a Kadima è una pallottola nel petto di un bambino palestinese» ha inveito contro i colleghi deputati in aula il leader della Lau, Ahmed Tibi, accusando Israele di essere «un paese razzista». Tibi ha dichiarato nella stessa seduta: «Gli arabi sono abituati a questo tipo di lotte e ne verranno fuori vincitori». Il presidente di Balad, Jamal Zahalka, si è detto non sorpreso dalla decisione del comitato elettorale, dal momento «che si è votato per ragioni politiche in un'atmosfera di guerra». Nelle ultime settimane erano state sottoposte alla Knesset tre diverse richieste per impedire al partito Balad, che conta attualmente tre seggi in parlamento, di presentarsi alle prossime elezioni. Balad ha presentato ricorso in appello all'Alta Corte di Giustizia per rovesciare il verdetto della Commissione elettorale centrale del Parlamento israeliano. Il Tribunale si pronuncerà la prossima settimana. «Ma in questo clima di guerra, non c'è da aspettarsi nulla che riporti il paese al rispetto delle regole della democrazia», ha dichiarato a Liberazione Jamal Zahalka.
Che impatto avrebbe l'esclusione delle liste arabe dalla partecipazione alle elezioni?
«Questa decisione è stata presa da un comitato politico, il comitato elettorale centrale, che rappresenta tutte le forze presenti in Parlamento. Mettendo le componenti arabe nell'angolo credono di guadagnarsi a buon mercato il consenso di coloro che nel paese sono favorevoli a questa guerra, a spese dei palestinesi che vivono in Israele. Se l'Alta Corte dovesse avallare questo tentativo antidemocratico di tagliarci fuori dalle elezioni non esisterebbe più una rappresentanza in Parlamento della parte araba della popolazione di Israele. Noi vogliamo parteciapare democraticamente al voto, ma se ci sará impedito inviteremo al boicottaggio del voto tutta la parte araba del paese. Dal punto di vista legale l'Alta corte dovrebbe bocciare questa decisione della Commissione elettorale, ma io credo che nell'ombra di quesa guerra il clima sia poco propizio per la democrazia e i diritti delle minoranze».
Sostenete Hamas, nel cui statuto si invoca la distruzione di Israele, come dice la maggioranza dei parlamentari israeliani?
«Ci accusano di sostenere Hamas. La verità è che noi sosteniamo il popolo palestinese. Sosteniamo il diritto alla vita dei bambini palestinesi. Israele ne ha uccisi più di trecento in venti giorni di guerra. Noi pensiamo che Hamas faccia parte dell'arena politica palestinese. E sosteniamo che debba tornare all'unità con Fatah. Noi non vogliamo il dominio di Hamas a Gaza, ma che i palestinesi ritornino ad un assetto istituzionale comune. Non siamo sionisti, ma siamo figli di questo paese, siamo nati qui. La verità è che le accuse che ci vengono mosse sono uno dei tanti aspetti della profonda crisi che esiste in tra lo Stato di Israele e la componente araba della propria popolazione. Il Premier Olmert, Barak e il capo di Stato Maggiore della difesa per noi si sono resi responsabili di crimini di guerra».
Come guardate al modo in cui l'Anp sta gestendo la crisi?
«Non siamo affatto soddisfatti dell'atteggiamento dell'Anp. Potrebbe fare molto di più, assumere toni molto piu forti. Da quando è cominciata l'aggressione a Gaza la gente scende in piazza a gridare la propria rabbia e i servizi di sicurezza dell'Anp reprimono le manifestazioni».
Qual è il vostro orientamento sul ruolo dell'Egitto?
«L'Egitto è corresponsabile per l'isolamento di Gaza. Potrebbe aprire la frontiera di Rafah, ma non lo fa».
La decisione di escludere le liste arabe dalle elezioni trova consenso in Israele?
«La decisione presa dalla commissione in parlamente riflette decisamente quello che accade nella societá israeliana. Ma l'opinione pubblica israeliana dovrbbe capire che quello che accade oggi è che uno come Lieberman (leader di Israel Beiteneu, partito russofono di estrema destra, ndr.) un fascista, decide ciò che è consentito o meno nella vita politica del paese e capire davanti a che minaccia per la democrazia ci troviamo. Lieberman è il baromentro del razzismo nella societá israeliana. Quando si rafforza vuol dire che la societá è più intollerante».
Se l'Alta Corte avallerá la decisione della commissione elettorale, come vi organizzerete?
«Credo che ci sará un boicotaggio di massa delle elezioni da parte della comunitá palestinese. E a questo punto ci organizzeremo per avere un parlamento separato per i palestinesi in Israele».
Ma come potreste ottenerne il riconoscimento?
«Credo che possiamo intanto possiamo crearlo. Ne abbiamo il diritto. In quanto minoranza araba in Israele sceglieremo indipendentemente la nostra leadership. Non ci resta altra scelta dato che ci viene impedito in maniera antidemocratica, di partecipare democraticamente alle elezioni. Creeremo un parlamento arabo separato in Israele, in maniera indipendente e volontaria e ne chiederemo il riconoscimento al mondo arabo all'Europa e agli Stati Uniti».
Cosa accadrà tra popolazione araba di Israele e resto del paese se la destra vincerà le prossime elezioni?
«Vede, in Israele per vedere la differenza tra destra e sinistra bisogna munirsi di lente di ingrandimento. E Livni e Barak, per quello che abbiamo visto con questa guerra, hanno dimostrato di essere più crudeli della destra estrema».

il Riformista 17.1.09
Dominici. L'accusa del sindaco: «Paghiamo un deficit di direzione politica»
«Il Pd lavora per perdere Firenze»
di Tommaso Labate


Leonardo Domenici, sindaco di Firenze, è persona storicamente poco incline alle polemiche. Anche se, come lui stesso riconosce, «negli ultimi mesi mi hanno accusato di farne troppe, di interviste polemiche». Che si sappia, aggiunge, «sono costretto ad agire in questo modo, anche nei confronti del mio partito, per legittima difesa». E per tentare di prevenire l'irreparabile. «A Firenze è difficile, anzi impossibile, che il centrodestra vinca le elezioni. Ma attenzione - dice il sindaco al Riformista - è altamente probabile che il Pd voglia perderle, le elezioni. E la strada verso la possibile sconfitta, a mio avviso, è già tracciata».
Domenici, giorni fa lei ha minacciato di non ritirare la tessera del Pd. Oggi parla di un partito che si sta impegnando per perdere una delle sue roccaforti. Che succede?
Succede che ho deciso di dire cose su cui avrei preferito tacere. Sa cos'è successo a Firenze? Il mio partito ha convocato, in condizioni di semi-clandestinità, una specie di conferenza programmatica senza neanche invitarmi. Quando ho chiesto informazioni, sa cosa mi hanno risposto? Che mi avevano spedito l'invito via e-mail. Ho cercato sulla posta elettronica ma dell'invito non c'era traccia. Neanche il documento conclusivo mi hanno recapitato. Niente, l'ho dovuto rintracciare su internet. Si è dimesso il capogruppo in consiglio comunale e, neanche in quel caso, sono stato avvertito. Per non dire del segretario di federazione, che non c'è più.
Per le sue lamentele qualcuno potrebbe darle del «cacicco», lo sa?
Io so soltanto che ho fatto la mia parte perché il Pd, da queste parti, arrivasse al 48 per cento. Mi spiace dirlo ma ora nel nostro partito c'è un deficit di direzione politica. Tra l'altro, i luoghi di discussione che al Pd mancano me li devo inventare da solo.
In che senso?
Visto che non c'era un luogo per discuterne, il 2 gennaio ho scritto una lettera privata a Veltroni per comunicargli i problemi che ci sono a Firenze. Credo che la scelta, che io appoggio, di mandare qui Vannino Chiti risponda a quelle mie perplessità. Aggiungo che avevo anche avanzato dei nomi per il ruolo di commissario, persone che poi non hanno accattato.
E quali sono le sue «perplessità»?
L'elenco è lungo. Ma le pare normale che alle primarie di coalizione ci siano tre candidati del Pd, che tra l'altro conducono una campagna personalistica? Che segnale diamo alla gente? È come ammettere che il Pd, di fatto, non esiste. È come riconoscere che questo partito, nella migliore delle ipotesi, non è altro che la sommatoria delle precedenti esperienze. Affrontare le elezioni in questo modo non è giusto. Come non è giusto che, con la scusa del famoso «rinnovamento», si demoliscano esperienze come la mia, che governo questa città da ormai dieci anni.
«L'operazione rinnovamento», però, è partita da Roma...
Io credo che sia fuorviante affrontare i casi di Firenze, Genova, Napoli e dell'Abruzzo come se fossero una sola cosa. Allo stesso tempo devo rilevare che, in quella riunione, più d'uno ha ceduto la tentazione di addossare tutte le colpe ai partiti locali. Certo, lo so anch'io che le responsabilità non stanno da una parte sola, lo so anch'io che sul territorio c'è chi pensa di trarre beneficio da questa confusione. Ma voler segare il ramo su cui si sta seduti è stato un errore madornale.
Lei traccia il bilancio di un Pd in crisi nera. Cosa suggerisce?
Il Pd ha un problema di gruppo dirigente nazionale. Prenda i vertici del partito, i gruppi parlamentari e il governo ombra: parliamo di organismi troppo ripiegati su loro stessi e, contemporaneamente, poco incisivi. Credo che sia arrivato il momento di "aprire", di coinvolgere tutti, di rilanciare il nostro come un partito riformista di massa. Dopo le Europee ci sarà il congresso, certo. Ma iniziamo a muoverci da subito, sfruttiamo l'occasione della conferenza programmatica.
Nel frattempo, cosa farà con la sua tessera? Deciderà finalmente di prenderla?
Tra poche ore (sono le 15.45, ndr) riceverò la visita della segretaria del mio circolo, Oriella Ferrini. È da persone come lei, è «dal basso» che dobbiamo ripartire. Perché, mi creda, così com'è questo partito non funziona.

il Riformista 17.1.09
Due sindacalisti di Brescia tracciano una biografia del commissario anti-Sansonetti
Vi diciamo chi è il Dino di Liberazione
di Maurizio Zipponi e Osvaldo Squassina


Caro direttore, dopo la destituzione di Piero Sansonetti, Liberazione ha aperto con l'articolo di fondo del neo commissario politico Dino Greco, che sferra un attacco inusitato e privo di stile al direttore uscente e ai giornalisti del quotidiano. Sansonetti, nel suo ultimo articolo come direttore, aveva dichiarato il suo rispetto a chi lo avrebbe sostituito, pur rimarcando le scelte compiute nel corso del suo mandato.
Noi bresciani, che veniamo dall'esperienza del movimento operaio, siamo in genere persone riservate e restie a mettere in piazza i nostri problemi. Oggi, però, ci sentiamo liberi di raccontare alcuni fatti.
Dino Greco è stato segretario generale della Camera del Lavoro di Brescia per otto anni. In quel periodo si è scontrato regolarmente con i metalmeccanici (e non solo con loro) cercando di minare l'autonomia e l'indipendenza della categoria: prima nella gestione delle crisi aziendali - individuando con l'associazione industriali un'ipotesi procedurale (affossata dal dibattito interno della Cgil) che confliggeva anzitutto con quelle praticate dalla Fiom che avevano al centro la difesa intransigente dei posti di lavoro - poi opponendosi (e raccogliendo meno di un voto) con tutti i mezzi all'elezione dell'attuale segretaria generale dei metalmeccanici bresciani e infine, al temine del suo mandato, avanzando per la sua sostituzione una candidatura che è stata sonoramente battuta.
Non è mai riuscito a rappresentare gli operai, proponendo di volta in volta astruse analisi sociologiche, fino a definire "leghismo rosso" quelle esperienze di lotta e di mobilitazione che in questi anni hanno caratterizzato i lavoratori bresciani. Greco è stato indipendente, è vero, ma dai lavoratori.
Quello che sta accadendo oggi dà ragione a chi ha fatto del rapporto diretto con i luoghi di lavoro il fulcro del proprio agire: non è un caso se, nonostante tutto, la Fiom di Brescia riesce ancora a realizzare buoni accordi per migliorare il salario e contrastare i licenziamenti; non è un caso se i metalmeccanici bresciani, che hanno saputo difendersi, oggi hanno la forza per affrontare la grave crisi industriale che il nostro paese sta attraversando.
Da mesi Greco era in attesa di collocazione e quella di "commissario politico" di Liberazione è certamente un'occasione per ricominciare (tutti ne hanno diritto). Ci dispiace che l'amico e compagno Dino inizi un nuovo percorso pugnalando alle spalle una delle migliori e più libere figure giornalistiche della sinistra italiana.
Maurizio Zipponi
già segretario generale Fiom di Brescia, direzionale nazionale Prc
Osvaldo Squassina
già segretario generale Fiom di Brescia, consigliere Prc in Regione Lombardia

Liberazione 17.1.09
Se sei lesbica in Croazia finisci in manicomio.
Può accadere anche da noi...
di Giusy Gabriele Psichiatria Democratica


Cara "Liberazione", apprendo dall'"Unità" che in Croazia una lesbica è stata ricoverata in manicomio per volontà dei suoi genitori! La stessa situazione si sarebbe potuta verificare in Italia prima del 1978, anno di approvazione della legge 180.
Dovrei sentirmi orgogliosa del livello di civiltà raggiunto nel nostro paese a seguito delle lotte di Basaglia e del movimento di Psichiatria Democratica (che insieme agli intellettuali e agli operai raggiunse l'obiettivo di chiudere i manicomi negli anni '70) ma invece sono estremamente preoccupata. Di questo mio stato d'animo la spiegazione più ovvia è che la destra al governo del paese propone forme di restaurazione contro la riforma psichiatrica ed è certamente drammatico, anche se non ci può sorprendere.
In questi quasi 40 anni, i pazienti e gli operatori hanno subito tanti attacchi ma tutti sono stati rinviati al mittente. Le proposte di legge che si sono succedute a centinaia, alla fine, sono cadute nel vuoto fronteggiate da un movimento che ha saputo riorganizzarsi ogni volta che c'è stata la necessità. No, quello che mi dà vero e profondo dolore sono le tesi, come quella del dott. Fagioli che trovano spazio anche all'interno di "pezzi della sinistra" che si definisce comunista. Abbiamo letto su "Repubblica" le sue dichiarazioni sull'omosessualità come malattia che «abbiamo l'obbligo di curare», abbiamo letto su "Left" le sue tesi contro Basaglia, abbiamo appreso chiaramente come un pericolo serio il suo distinguere tra pazienti curabili ed incurabili. Se mettiamo insieme queste tesi ecco che si prefigura un futuro manicomiale che lancia il nostro servizio sanitario verso l'incubo dell'omologazione a quello che succede in Croazia.
Mentre a Bruxelles il Parlamento Europeo (anche per l'impegno di parlamentari di larga parte della sinistra) lavora alacremente per confermare, con una seconda risoluzione, il dovere degli Stati membri di garantire la salute mentale dei propri cittadini nel rispetto della dignità umana e della loro libertà da noi si lascia spazio sui giornali a tesi a dir poco sconcertanti… Le stesse tesi sono state espresse in una "canzonetta" che verrà presentata al Festival di Sanremo ed hanno già suscitato la reazione indignata della comunità gblt. Il rischio palese è quello di una discussione pubblica sulla omosessualità come malattia .
Mentre in Spagna abbiamo assistito ad un riconoscimento dei diritti civili, in Italia questa arretratezza è possibile perché politica, clericalismo, pezzi della cultura e dello spettacolo si rendono protagonisti di una vera e propria campagna di propaganda omofoba con la quale una, per fortuna piccola, parte della sinistra addirittura collude.
Se non fossero tesi oscurantiste da prendere maledettamente sul serio verrebbe da canticchiare, con Bennato, «sono solo canzonette, non metteteci alle strette…».

Corriere della Sera 17.1.09
Amerebbero il mondo virtuale
di Giulio Giorello


Erano, più o meno, gli stessi anni in cui con l'equivalenza di massa ed energia nonché con l'ipotesi dei «pacchetti» o «quanti» di luce fisici come Albert Einstein o Max Planck, magari con qualche «riluttanza», sgretolavano alcuni capisaldi della tradizionale concezione della natura, aprendo nuovi orizzonti alla ricerca teorica e anche a quella applicativa. L'immaginazione aveva però preceduto la tecnologia, ricorrendo a treni davvero «super-rapidi» o a navi spaziali che viaggiavano quasi alla velocità della luce : gli scenari ideali per i paradossi della relatività. I giovani leoni dell'arte, affascinati dalla lezione di Balla o di Boccioni, dovevano presto ritrovare un'aria di famiglia tra la loro pratica e la nuova scienza. Ovviamente, non si trattava tanto di una meccanica trasposizione di contenuti da un settore all'altro, quanto di un comune atteggiamento: l'insofferenza per le strutture ricevute che bloccano pensiero e azione, ma anche il piacere dell'innovazione. Arte e scienza «futuristiche» erano dunque differenti manifestazioni di un medesimo «spirito relativistico», per dirla con il matematico Bruno de Finetti, attento alle sottigliezze di scultura e pittura non meno che a quelle dello studio di numeri e figure. E il «vorticista» Ezra Pound (amico e ammiratore di Filippo Tommaso Marinetti) doveva insistere sulle affinità profonde tra le nuove espressioni poetiche e le astrazioni della matematica: quest'ultima, grazie alla propria generalità e al proprio rigore, conseguiva una più vasta efficacia applicativa, proprio come la parola del letterato consapevole e responsabile poteva resistere alla crisi della civiltà. Per Marinetti un'aerodinamica macchina da corsa era più «bella» della Vittoria di Samotracia; per Pound compiacersi delle prestazioni di una modernissima Ferrari era comunque meglio che praticare i culti degli antiche «divinità del sangue»!
Oggi il sogno dei futuristi può sembrarci non meno invecchiato delle forme espressive contro cui loro si erano ribellati: al più, materia di insegnamento nei manuali, un «genere letterario» che erano i primi a detestare. Moralisti e saggi di varia estrazione stanno riscoprendo le virtù della lentezza, condannando i vizi della velocità. Non esaltano le conquiste dell'ingegneria, ma le guardano con sospetto; diffidano del progresso scientifico e gli contrappongono arcaiche radici. Eppure, non si dovrebbe avere fretta nel liquidare il futurismo come una collezione di utopie defunte. Piuttosto, esso ha avuto fin troppo successo, anche inatteso: pensiamo alla rapidità nell'elaborazione dei dati da parte degli odierni computer e nella trasmissione dell'informazione. Forse, nemmeno Marinetti avrebbe sperato tanto. Dopo la Seconda guerra mondiale Einstein si dichiarò sconcertato dall'applicazione della sua teoria... alla costruzione degli ordigni atomici scagliati su Hiroshima e Nagasaki. La materia era veramente diventata energia, ma a che prezzo! Se oggi rinascessero, i padri del futurismo assisterebbero invece al trionfo del «virtuale» veloce: una vittoria più pacifica ma non meno destabilizzante.

Corriere della Sera 17.1.09
Le celebrazioni partono oggi al Mart di Rovereto: il dialogo con gli artisti russi e tedeschi
E Kandinsky finì nel vortice di Severini, Balla, Boccioni
di Rachele Ferrario


Volevano cambiare il mondo, unire l'arte alla vita in una meravigliosa utopia. Per rompere con la tradizione borghese e correre verso il nuovo. Avanguardia delle avanguardie, il Futurismo ha fatto scuola nell'Europa d'inizio '900. Il centenario ora ne rivaluta il valore internazionale con un'ampia scelta di mostre. Un anniversario che ha già fatto discutere e che riserverà sorprese e delusioni, ma avrà momenti celebrativi importanti. Proprio nel cuore dell'avanguardia cosmopolita di New York, la galleria 219 del fotografo Stieglitz, Severini nel '17 espone Danzatrice=elica=mare (1915), destinato a entrare nelle collezioni del Metropolitan. È l'opera simbolo con cui si aprono oggi le celebrazioni al Mart di Rovereto, la città di Depero, di cui si riapre la Casa d'Arte Futurista. Illuminazioni. Avanguardie a confronto: Italia- Germania-Russia è il primo appuntamento di Futurismo 100, il progetto curato da Ester Coen, cui seguiranno Astrazioni al Correr di Venezia — protagonisti Balla, Mondrian, Picabia — e Simultaneità a Palazzo Reale a Milano, su Boccioni scultore in dialogo con Archipenko, Brancusi, Pevsner. «Con il vortice del movimento e la luce dei colori, la danzatrice di Severini fa ruotare intorno a sé le altre tele — racconta la Coen —. Nella stessa sala a Rovereto sono Kandinsky, Feininger e Il Falciatore di Malevic, un'icona tra l'uomo bizantino e l'uomo meccanico. La novità è la relazione tra Boccioni, Balla e gli altri con le avanguardie russe e tedesche: cubofuturismo, espressionismo e der Sturm. Il paesaggio cubista di Chagall (1919) è di transizione, dichiara l'influenza dei futuristi; e poi Klee, Macke; Marc, Schwitters e il suo Ponte ferroviario ». Centoquaranta opere, da Soffici a Kirchner, da Prampolini a Picasso, presente con una Testa d'uomo. «Ogni stanza documenta un legame tra artisti spesso considerati estranei l'uno all'altro — dice la Coen —. Legame che traspare pure dalla corrispondenza: lettere inedite, quelle tra Severini e Stieglitz, il carteggio mai esposto nella sua interezza tra Kandinky — scettico sul futurismo — e Marc, che invece ne è entusiasta. E il resoconto del viaggio in Russia di Marinetti (1914), scritto dal critico Vladimir Lapsin, che dipana l'intreccio tra futuristi e una Goncharova o un Larionov ». A Milano, nella mostra su Marinetti alle Stelline, Luigi Sansone riunisce nuclei inediti di tavole parolibere, tra cui la più grande mai esposta, Bombardment d'Andrinople, dall'università di Los Angeles. Sempre a Milano, in attesa dell'esposizione su Boccioni scultore, Palazzo Reale dedica una rassegna alla storia del movimento. Trecentocinquanta opere restituiranno la lezione dei «predecessori» come Pellizza da Volpedo, l'influenza di Balla e Boccioni sul secondo futurismo e di quest'ultimo sulle generazioni di Fontana, Burri e Schifano. A Roma infine la mostra che arriva dal Centre Pompidou che ha suscitato qualche perplessità: «In effetti — spiega la Coen, commissario italiano della mostra — l'allestimento era un po' accademico, didascalico. L'esposizione romana sarà diversa ». Si potrà rivivere la storica vicenda alla Galerie Bernheim Jeune nel '12, quando il dinamismo e la velocità dei futuristi avevano acceso la curiosità dei parigini.

Corriere della Sera 17.1.09
I Futuristi. A cento anni dal manifesto lanciato da Marinetti, torna in primo piano il grande movimento d'avanguardia italiano che contagiò l'intera scena artistica europea

Corriere della Sera 17.1.09
Il poeta accusato di «tradimento» da italiani e francesi
La polemica con i cubisti. A rimetterci fu Apollinaire
di Francesca Bonazzoli


Sono stati i francesi, lo scorso ottobre, a dare inizio alle celebrazioni del Futurismo con la mostra «Le Futurisme à Paris. Une avant-garde explosive» che chiuderà alla fine del mese al Beaubourg.
Questo sprint sul traguardo ha offeso l'orgoglio di certi italiani che hanno addirittura parlato di «scippo» e di lettura sciovinista del Futurismo mentre la verità è che il curatore, Didier Ottinger, studioso di gran qualità, ha messo in un serrato e rigoroso confronto il primo Futurismo (i quadri esposti non vanno oltre il 1914) con il Cubismo, entrambi nati contemporaneamente a Parigi.
Ai loro esordi le due avanguardie si criticarono, annusarono e sorvegliarono a vicenda e quasi subito si arrivò a una koiné, un linguaggio comune internazionale, esemplificato dal quadro di Marcel Duchamp «Nudo che scende le scale» del 1912 e dalla creazione del termine Cubofuturismo coniato da Malevic, una formula di sintesi diffusasi rapidamente fra gli artisti, dall'Ungheria alla Russia, dall'Inghilterra alla Germania.
Insomma, sebbene Cubismo e Futurismo fossero ideologicamente e formalmente agli antipodi, la convivenza non poté non portare alla reciproca ibridazione ed è curioso che ancora oggi questa polemica sulla primazia dei francesi o degli italiani ricalchi la stessa che si consumò cento anni fa fra Marinetti e Apollinaire. Con in mezzo Picasso.
Il caso scoppiò su una «spiata» di Severini a Boccioni. In una lettera del 29 ottobre 1912 (resa nota da Renato Miracco), così scriveva: «Carissimo Boccioni... Incontrai Delaunay e Apollinaire, andammo a prendere l'aperitivo in un covo cubista... Apollinaire mi parlò di un suo libro sui cubisti che sta per uscire: egli distingue in cubisti fisici..., cubisti scientifici... e orphiques (quest'ultima classificazione te la dico in francese perché non so tradurla). Secondo Apollinaire les orphiques cercano elementi nuovi per esprimere realtà astratte e noi futuristi apparteniamo a questi ultimi. Comunicalo a Marinetti ».
Messo al corrente, nel marzo 1913 Marinetti scrisse dunque ad Apollinaire accusandolo di aver plagiato le idee futuriste. Boccioni si fece portavoce della protesta italiana attraverso un articolo sulla rivista Lacerba il 1 aprile 1913 dal titolo «I Futuristi plagiati in Francia» dove denunciava che «L'orphisme non è che una elegante mascheratura di principi fondamentali della pittura futurista».
Sollecitato dalle pressioni di Marinetti Apollinaire finì per rettificare il tiro e ne «L'antitradition futuriste-Manifeste Synthese», riconobbe al Futurismo il merito di aver dato avvio al rinnovamento dell'intera arte europea. Risultato: Apollinaire a questo punto divenne inviso ai francesi e fu allontanato dall'Intransigeant dove scriveva come critico d'arte, perché di simpatie troppo futuriste.
Le polemiche e le precisazioni per stabilire netti confini fra Cubismo e Futurismo proseguirono ancora per anni. Ne «Che cosa ci divide dal Cubismo», Boccioni precisava che il cubista era «un analizzatore della fissità, un impressionista intellettuale della forma pura. Così non si riuscirà mai a comporre una forma pura e Picasso per primo, arrestando la vita nell'oggetto, uccide l'emozione... inoltre il quadro cubista è impregnato di un'atmosfera da museo che gli viene da Cézanne e da un errato sentimentalismo di conciliazione tra rivoluzione e tradizione».
Eppure restava pur sempre qualcosa in comune: entrambi i movimenti avevano a cuore la simultaneità della visione, ma mentre il Cubismo è un'arte costruita geometricamente, una riflessione intellettuale sulla forma, il Futurismo è l'immersione nel flusso stesso del movimento. Da una parte il grigio e il marrone, dall'altra l'esplosione di rossi e gialli; da una lato la distanza, dall'altro l'emotività; la rappresentazione ieratica contro l'instabilità. I futuristi stessi erano dentro questa dicotomia e non a caso Carrà, il più vicino a Picasso, finì per scegliere il «ritorno all'ordine ».
La solita vecchia storia dell'odi et amo.

Corriere della Sera 17.1.09
All'alba dell'intellettuale organico
di Sergio Romano


Soltanto tre considerazioni. In primo luogo, questo non è un manifesto artistico. È un proclama politico, un invito ad agire e, nelle intenzioni dell'autore, un documento rivoluzionario. Non vuole creare una nuova arte ma una nuova vita. Appartiene allo stesso clima culturale in cui fiorirono quelle filosofie della prassi per le quali bisognava smetterla di pensare il mondo e cominciare piuttosto a cambiarlo. Non è sorprendente che a Mosca nel 1921 (lo racconta Gramsci), il commissario sovietico all'Istruzione Anatolij Lunarcharskij abbia definito Marinetti un intellettuale rivoluzionario.
Seconda considerazione. La missione — cambiare la vita — è affidata agli intellettuali e agli artisti. Il manifesto annuncia l'intellettuale impegnato e organico che ispira il leader, trascina le masse, annuncia il futuro e sacrifica se stesso, se necessario, sull'«altare dell'idea». In questo senso quasi tutti gli intellettuali italiani del Novecento, anche se pochi furono disposti a sacrificare la vita, sono stati futuristi e marinettiani. E sono stati doppiamente tali quelli che passarono senza battere ciglio dal fascismo al comunismo verso la fine della Seconda guerra mondiale.
Terza considerazione. Letto oggi il manifesto è drammaticamente invecchiato. Anziché apparirci audace e spregiudicato, ci sembra letterario, decadente, ripetitivo, goliardico. Un buon editor suggerirebbe all'autore di sopprimere qualche sostantivo e parecchi aggettivi. Ma è meglio lasciarlo così. Non vorrei che qualcuno ne fosse attratto e sedotto.