martedì 20 gennaio 2009

Repubblica 20.1.09
Oggi finisce il razzismo
di Vittorio Zucconi


Finisce oggi, nel mezzogiorno di una Washington tanto gelida fuori quando calorosa dentro, la storia ufficiale del razzismo negli Stati Uniti. Finisce, con Barack Hussein Obama, la presunzione della automatica superiorità morale, religiosa e culturale europea sugli altri popoli del mondo in forza del colore della pelle.
Quando Barack Obama farà appello nel suo discorso di insediamento all’unità e all´unicità del popolo americano, battendo sul tasto della «responsabilità comune» e non del vittimismo o del revanscismo da militante «black», un capitolo della storia umana sarà stato definitivamente chiuso, ben oltre i calcoli politicanti della «bipartisanship» e dei voti. Ma la fine del razzismo pubblico e formale che nel 1654 stabilì in Virginia che gli africani erano «oggetti di proprietà del padrone», comporterà anche la fine del razzismo privato? Non rischia, Obama, oltre il successo personale già acquisito, di giocare e perdere per tutte le minoranze, gli immigrati, i migranti, i «non bianchi» del mondo, una partita troppo ambiziosa e difficile, in questo momento di catastrofi imminenti, convincendo i poveri di spirito che, ecco, vedete, «un negro» non è all´altezza?
Se dobbiamo dare ascolto ai sondaggi di queste ore, la risposta è «no», Obama ha già vinto la partita del razzismo. Sei americani su dieci - in proporzione inversa a un anno fa - rispondono alle inchieste demografiche dicendo che per loro ormai la «razza» non ha più importanza. Che giudicano una persona dal contenuto del carattere e non dal colore della pelle, secondo la visione di Martin Luther King celebrato ieri nella festa nazionale caduta con perfetto calendario.
Il numero di coloro che giudicano la questione razziale come un «big problem», come un nodo ancora non sciolto si è dimezzato dal 1996 e soltanto un cittadino su quattro dice di pensare ancora in termini di «bianco e nero». Persino Obama è ormai visto come un «africano» soltanto da una minuscola minoranza di duri a morire, tra bianchi come tra neri.
Barack Obama è stato insieme la causa e l´effetto di questa pace razziale che dai gradini del Campidoglio soffia oggi su una nazione che negli anni �90, secondo i rapporti dello Fbi, vedeva una resurrezione sotterranea del Ku Klux Klan.
In attesa che cada anche il tabù anti femminile, da tutti i collegi elettorali del Paese si segnala una corsa opportunistica dei partiti al candidato di colore, anche da parte dei repubblicani presi in contropiede dal cambio di stagione, per sfruttare il vento di Washington. Il «nero» muove e vince. Persino il senatore scelto per riempire temporaneamente il seggio dell´Illinois lasciato libero da Obama, una nullità politica, è stato, dopo gemiti e proteste, accettato dall´augusto corpo del Senato, perché è nero. Neppure il quel Senato dove pure 99 su 100 membri sono bianchi, osa oggi alzare le vele contro il vento di Obama.
I sondaggi notano che la paura dell´«uomo nero» e le resistenza all´eguaglianza sopravvivono fra gli ultra sessantenni mentre tra gli «under 30», maschi come femmine, è trascurabile. Una generazione passata da scuole e università integrate, da sport giocati insieme, da fidanzamenti, matrimoni e amori misti, di «modelli» afro americani di successo in ogni professione, hanno intaccato i pregiudizi, lasciando in piedi soltanto i giudizi legittimi di condanna, individuali e non collettivi. Per un sindaco di Detroit, nero, deposto per manifesta corruzione, c´è un governatore dell´Illinois, il bianco Blagojevich, incriminato per corruzione. Nessuna razza o regione ha il monopolio del malgoverno, dell´incompetenza, della corruzione.
Ma proprio questa apoteosi così carica di passione movimentista, di autocompiacimento, di emozioni buone, presenta il rischio delle attese eccessive e dei riflussi negativi. Sappiamo ora che Barack Obama è stato eletto nonostante sia nero, forse addirittura perché è nero, dunque nell´aspetto fisico incarnava la voglia bruciante di cambiamento e di novità, dopo la lunga agonia della presidente Bush. La razza, come scrive ora il Washington Post, da barriera si è trasformata in trampolino e gli sforzi degli ultimi repubblicani aggrappati alla caricatura dell´afroamericano pericoloso, inesperto, addirittura «socialistico», come diceva l´avversaria, signora Sarah Palin, sono falliti. Il rischio non è forse quello di riportare indietro l´orologio del razzismo se lui dovesse, come è perfettamente possibile, fallire?
Di nuovo, la risposta è no, perché questo personaggio insieme enormemente carismatico ed eccezionalmente abile ha capito ed esorcizzato subito il rischio. Obama infatti non si è mai presentato, e non vede se stesso, come il «primo presidente nero» d´America e non ha voluto vincere come tale. Si vede e si offre come un presidente che ha la pelle scura, come altri possono avere gli occhi azzurri, i capelli castani o le efelidi. Non sente e non vende la propria etnicità come elemento caratterizzante, a differenza dei leader tradizionali della comunità di colore, ma come una forza, un uomo ponte per colmare meglio il fossato umano e politico con l´altra sponda. Avendo evitato la tentazione della «racial politics», la politica della razza e avendo scommesso su una nazione pronta a superare i reciproci ghetti, se dovesse fallire come presidente, sarebbe fallito come leader, non come «uomo nero» o giallo o diverso. In attesa dei giudizi della cronaca, dopo quello già dato dalla storia con l´insediamento, questa è la novità banalmente rivoluzionaria che il vento di Obama porta oggi sul resto del mondo. Giudicatemi per quello che faccio, non per quello che sono.

Repubblica 20.1.09
Israele parli anche con chi vuole distruggerci
di David Grossman


Come le volpi del racconto biblico di Sansone, legate per la coda a un´unica torcia in fiamme, così noi e i palestinesi ci trasciniamo l´un l´altro, malgrado la disparità delle nostre forze. E anche quando tentiamo di staccarci non facciamo che attizzare il fuoco di chi è legato a noi � il nostro doppio, la nostra tragedia � e il fuoco che brucia noi stessi. Per questo, in mezzo all´esaltazione nazionalista che travolge oggi Israele, non guasterebbe ricordare che anche quest´ultima operazione a Gaza, in fin dei conti, non è che una tappa lungo un cammino di violenza e di odio in cui talvolta si vince e talaltra si perde ma che, in ultimo, ci condurrà alla rovina.
Assieme al senso di soddisfazione per il riscatto dello smacco subito da Israele nella seconda guerra del Libano faremmo meglio ad ascoltare la voce che ci dice che il successo di Tsahal su Hamas non è la prova decisiva che lo Stato ebraico ha avuto ragione a scatenare una simile offensiva militare, e di certo non giustifica il modo in cui ha agito nel corso di questa offensiva. Tale successo prova unicamente che Israele è molto più forte di Hamas e che, all´occasione, può mostrarsi, a modo suo, inflessibile e brutale.
Allo stesso modo il successo dell´operazione non ha risolto le cause che l´hanno scatenata. Israele tiene ancora sotto controllo la maggior parte del territorio palestinese e non si dichiara pronto a rinunciare all´occupazione e alle colonie. Hamas continua a rifiutare di riconoscere l´esistenza dello Stato ebraico e, così facendo, ostacola una reale possibilità di dialogo. L´offensiva di Gaza non ha permesso di compiere nessun passo verso un vero superamento di questi ostacoli. Al contrario: i morti e la devastazione causati da Israele ci garantiscono che un´altra generazione di palestinesi crescerà nell´odio e nella sete di vendetta. Il fanatismo di Hamas, responsabile di aver valutato male il rapporto di forza con Tsahal, sarà esacerbato dalla sconfitta, intaserà i canali del dialogo e comprometterà la sua capacità di servire i veri interessi palestinesi.
Ma quando l´operazione sarà conclusa e le dimensioni della tragedia saranno sotto gli occhi di tutti (al punto che, forse, per un breve istante, anche i sofisticati meccanismi di autogiustificazione e di rimozione in atto oggi in Israele verranno accantonati), allora anche la coscienza israeliana apprenderà una lezione. Forse capiremo finalmente che nel nostro comportamento c´è qualcosa di profondamente sbagliato, di immorale, di poco saggio, che rinfocola la fiamma che, di volta in volta, ci consuma.
È naturale che i palestinesi non possano essere sollevati dalla responsabilità dei loro errori, dei loro crimini. Un atteggiamento simile da parte nostra sottintenderebbe un disprezzo e un senso di superiorità nei loro confronti, come se non fossero adulti coscienti delle proprie azioni e dei propri sbagli. È indubbio che la popolazione di Gaza sia stata "strozzata" da Israele ma aveva a sua disposizione molte vie per protestare e manifestare il suo disagio oltre a quella di lanciare migliaia di razzi su civili innocenti. Questo non va dimenticato. Non possiamo perdonare i palestinesi, trattarli con clemenza come se fosse logico che, nei momenti di difficoltà, il loro unico modo di reagire, quasi automatico, sia il ricorso alla violenza.
Ma anche quando i palestinesi si comportano con cieca aggressività - con attentati suicidi e lanci di Qassam - Israele rimane molto più forte di loro e ha ancora la possibilità di influenzare enormemente il livello di violenza nella regione, di minimizzarlo, di cercare di annullarlo. La recente offensiva non mostra però che qualcuno dei nostri vertici politici abbia consapevolmente, e responsabilmente, afferrato questo punto critico.
Arriverà il giorno in cui cercheremo di curare le ferite che abbiamo procurato oggi. Ma quel giorno arriverà davvero se non capiremo che la forza militare non può essere lo strumento con cui spianare la nostra strada dinanzi al popolo arabo? Arriverà se non assimileremo il significato della responsabilità che gli articolati legami e i rapporti che avevamo in passato, e che avremo in futuro, con i palestinesi della Cisgiordania, della striscia di Gaza, della Galilea, ci impongono?
Quando il variopinto fumo dei proclami di vittoria dei politici si dissolverà, quando finalmente comprenderemo il divario tra i risultati ottenuti e ciò che ci serve veramente per condurre un´esistenza normale in questa regione, quando ammetteremo che un intero Stato si è smaniosamente autoipnotizzato perché aveva un estremo bisogno di credere che Gaza avrebbe curato la ferita del Libano, forse pareggeremo i conti con chi, di volta in volta, incita l´opinione pubblica israeliana all´arroganza e al compiacimento nell´uso delle armi. Chi ci insegna, da anni, a disprezzare la fede nella pace, nella speranza di un cambiamento nei rapporti con gli arabi. Chi ci convince che gli arabi capiscono solo il linguaggio della forza ed è quindi quello che dobbiamo usare con loro. E siccome lo abbiamo fatto per così tanti anni, abbiamo dimenticato che ci sono altre lingue che si possono parlare con gli esseri umani, persino con nemici giurati come Hamas. Lingue che noi israeliani conosciamo altrettanto bene di quella parlata dagli aerei da combattimento e dai carri armati.
Parlare con i palestinesi. Questa deve essere la conclusione di quest´ultimo round di violenza. Parlare anche con chi non riconosce il nostro diritto di vivere qui. Anziché ignorare Hamas faremmo bene a sfruttare la realtà che si è creata per intavolare subito un dialogo, per raggiungere un accordo con tutto il popolo palestinese. Parlare per capire che la realtà non è soltanto quella dei racconti a tenuta stagna che noi e i palestinesi ripetiamo a noi stessi da generazioni. Racconti nei quali siamo imprigionati e di cui una parte non indifferente è costituita da fantasie, da desideri, da incubi. Parlare per creare, in questa realtà opaca e sorda, un´alternativa, che, nel turbine della guerra, non trova quasi posto né speranza, e neppure chi creda in essa: la possibilità di esprimerci.
Parlare come strategia calcolata. Intavolare un dialogo, impuntarsi per mantenerlo, anche a costo di sbattere la testa contro un muro, anche se, sulle prime, questa sembra un´opzione disperata. A lungo andare questa ostinazione potrebbe contribuire alla nostra sicurezza molto più di centinaia di aerei che sganciano bombe sulle città e sui loro abitanti. Parlare con la consapevolezza, nata dalla visione delle recenti immagini, che la distruzione che possiamo procurarci a vicenda, ogni popolo a modo suo, è talmente vasta, corrosiva, insensata, che se dovessimo arrenderci alla sua logica alla fine ne verremmo annientati.
Parlare, perché ciò che è avvenuto nelle ultime settimane nella striscia di Gaza ci pone davanti a uno specchio nel quale si riflette un volto per il quale, se lo guardassimo dall´esterno o se fosse quello di un altro popolo, proveremmo orrore. Capiremmo che la nostra vittoria non è una vera vittoria, che la guerra di Gaza non ha curato la ferita che avevamo disperatamente bisogno di medicare. Al contrario, ha rivelato ancor più i nostri errori di rotta, tragici e ripetuti, e la profondità della trappola in cui siamo imprigionati.
Traduzione di A. Shomroni

Repubblica 20.1.09
Vittime civili. Il prezzo assurdo delle guerre
di Antonio Cassese


I vecchi divieti del diritto internazionale umanitario sono inservibili e obsoleti: gli spietati scontri attuali sono tra belligeranti diseguali, dove non si esita a trucidare i propri figli

La novità degli ultimi anni è che le battaglie non sono più tra forze armate omogenee: da una parte ci sono eserciti moderni e dall´altra uomini che possono compiere solo atti di guerriglia

Dalla Bosnia all´Afghanistan, dall´Iraq a Gaza i conflitti di oggi si incrudeliscono sulle popolazioni. Il ruolo delle organizzazioni internazionali nella difesa dei diritti umani

Quel che sta succedendo a Gaza strazia il cuore a ogni persona, quale che sia il suo orientamento politico o ideologico. Le stragi di civili sono il tragico punto di approdo di una lunga evoluzione delle guerre moderne e ci devono spingere a trovare un modo di porre un freno al massacro di innocenti.
Fino alla Seconda Guerra Mondiale le guerre erano sostanzialmente scontri tra eserciti regolari. Tutti i belligeranti dovevano osservare il principio della distinzione tra militari e civili, con l´obbligo di rispettare i civili che non prendessero parte alle ostilità. Certo, il principio veniva spesso violato, ma era pur sempre nell´interesse di ciascun belligerante conformarsi a esso, concentrandosi sulla distruzione dei combattenti nemici: perché uccidere civili nemici, con il rischio che l´avversario facesse altrettanto mediante rappresaglie?
A partire dalle guerre anticoloniali e altre guerre di liberazione nazionale i conflitti armati sono diventati quasi tutti asimmetrici: da una parte vi è un esercito con cannoni, carri armati, aerei, elicotteri e missili, e dunque con forze armate che possono in un baleno devastare interi territori nemici e hanno il controllo completo dell´aria; dall´altra uomini privi di uniforme, muniti solo di armi leggere, di bazooka e lanciamissili portatili, che dunque possono solo compiere atti di guerriglia. I guerriglieri si nascondono tra la popolazione civile, usano i civili come scudi, celano le loro munizioni in abitazioni private e, posti di fronte a eserciti poderosi e con una superiorità soverchiante, tendono a colpire il nemico nel suo "ventre molle": i civili. Certo, così facendo essi mettono anche a gravissimo repentaglio i propri civili. E, attaccando i civili nemici, commettono una violazione flagrante dei principi tradizionali e fondamentali del diritto internazionale umanitario. Ma, dicono i guerriglieri, non si può lottare diversamente: una formica, se affronta un elefante, non può combattere ad armi pari. Anche gli Stati che hanno eserciti moderni e agguerritissimi si trovano di fronte a un drammatico dilemma: distruggere i guerriglieri nemici sapendo che così si farà anche strage di civili, o rimanere inerti davanti ai lanci di missili indiscriminati o agli attacchi improvvisi ai propri civili?
È evidente che i caratteri intrinseci delle guerre moderne hanno reso inservibili e obsoleti i vecchi divieti del diritto internazionale umanitario. E perciò aveva un po´ ragione l´autorevole magistrato che giorni fa, incontrandomi, mi ha chiesto con tono canzonatorio: «Ma allora, dove è andato a finire il diritto internazionale a Gaza?». Tutti gli importanti trattati internazionali stipulati dal 1868 al 2008 a Ginevra, all´Aja e a New York non riescono più a frenare la violenza, perché le guerre attuali sono completamente diverse da quelle di una volta: sono scontri spietati tra belligeranti profondamente diseguali, che hanno in comune solo il fanatismo e l´intolleranza e, nell´odio per il nemico, non esitano a far trucidare i propri bambini, i vecchi e le donne e ad ammazzare quelli dell´avversario. Insomma, le guerre moderne sono un ritorno alla barbarie più feroce.
Cosa fare, dunque? Si è visto che l´indignazione dell´opinione pubblica, la pressione dei politici, le esortazioni delle alte autorità morali e religiose servono a poco. Dobbiamo dunque auspicare che vengano elaborate nuove regole internazionali? Sarebbe ingenuo farlo. I diplomatici e i giuristi impiegherebbero anni a mettersi d´accordo, e comunque le potenze militari interessate si sottrarrebbero facilmente ai nuovi divieti. Né è realistico pensare di colpire penalmente i colpevoli di stragi di vittime inermi. I guerriglieri che attaccano i civili nemici vengono considerati eroi dalla propria popolazione. Gli Stati o i governi belligeranti tendono a non processare i propri uomini, sia perché i comportamenti di questi ultimi si conformano spesso a pratiche diffuse, volute o tollerate dalle autorità, sia perché eventuali processi potrebbero nuocere al morale di truppe già esposte a gravi pericoli ed estenuate dalla lotta anti-guerriglia. I tribunali penali internazionali quasi sempre non hanno competenza in materia. Nel caso di Gaza, l´Onu non ha la forza di imporre processi contro i colpevoli.
Se i leader politici del mondo fossero ragionevoli si dovrebbero rendere conto di una cosa chiarissima: gli attuali conflitti armati, civili o internazionali, hanno spinto la disumanità al punto limite. Bisognerebbe dunque fare quel che si è fatto con le armi nucleari: siccome il loro uso comporterebbe la possibile distruzione del pianeta, sono state messe da parte; a esse oramai si applica, rovesciato, il detto di Napoleone sulle baionette («Con le baionette si può fare di tutto tranne che sedervisi sopra»); ora delle armi nucleari non si può far nulla tranne che sedervisi sopra. Nello stesso modo, bisognerebbe mettere in cantina ogni soluzione militare dei conflitti economici, politici e ideologici moderni e mettere in opera sempre ed esclusivamente, anche per i conflitti più aspri e incancreniti, soluzioni politiche. Alla violenza delle armi bisognerebbe sostituire il negoziato: come diceva Camus, "le parole" devono spazzar via "le pallottole". Ciò richiederebbe saggezza politica, molto sagacia e desiderio di capire le ragioni dell´avversario. Ci vorrebbero tanti Mandela, che purtroppo non esistono.
Si devono allora battere altre strade, assai modeste, puntando sull´azione morale di organizzazioni non governative quali il Comitato internazionale della Croce Rossa e altri enti umanitari. Questi enti hanno già acquisito grandi meriti nello sforzo di "umanizzare" la guerra. Essi potrebbero elaborare autorevoli "direttive generali" che in qualche modo chiariscano quel che attualmente è vago o ambiguo nelle regole internazionali; in particolare, specificando il comportamento dei belligeranti su due punti importanti: quali precauzioni prendere quando si sferra un attacco che può causare molte vittime tra i civili; e come stabilire se i "danni collaterali" sono sproporzionati. Si dovrebbe soprattutto creare meccanismi istituzionali di "monitoring", sia per prevenire violazioni sia per accertare ex post se l´uccisione di civili inermi è stata manifestamente ingiustificata. In caso affermativo, occorrerebbe almeno risarcire il danno. Se un belligerante distrugge la casa di un privato e gli uccide i figli, compie un atto intollerabile per il quale dovrebbe essere condannato; se ciò non è possibile, almeno gli risarcisca il gravissimo danno morale e materiale: così potrà in qualche modo lenire la sua tragedia. Tutte queste attività dovrebbero essere svolte sotto il controllo del Comitato internazionale della Croce Rossa o dell´Onu.
Certo, si tratterebbe di opzioni che non risolverebbero il problema alla radice. Vista però la complessità dei problemi e considerato che siamo fatti così male (siamo fatti da un legno storto, diceva Kant), questi pannicelli caldi sarebbero meglio che niente.

Repubblica 20.1.09
Chi è il nemico nella guerra asimmetrica
La barbarie strategica
di Fabio Mini


Con i nuovi eserciti e le nuove armi i danni collaterali dovrebbero tendere a zero. E con i nuovi avversari non ci sono strutture militari e produttive da distruggere. Ci sono solo case, chiese, moschee e persone, donne e bambini

I danni collaterali sono per definizione quelli causati ai civili quando si tenta di colpire gli obiettivi militari. Sono danni previsti o imprevisti, frutto dell´imprecisione delle armi o di errore. Durante la guerra del Kosovo il portavoce della Nato utilizzò il termine in maniera estensiva e assolutoria anche quando l´attacco contro strutture civili era intenzionale. Veniva così derubricato un evento che poteva essere un crimine di guerra e le vittime diventavano responsabili di trovarsi nel posto e nel momento sbagliati. Il caso ha fatto scuola e oggi la gente si è abituata all´inevitabilità delle vittime civili durante ogni tipo di conflitto, compreso quello tra guardie e ladri.
Dal punto di vista militare è il segno della regressione della guerra tra avversari asimmetrici: regressione di umanità e di strategia. La prima diventa ancora più grave perché sostenuta dalla seconda che spesso viene spacciata per "evoluzione". La realtà è che le vittime civili, in barba a tutte le norme del diritto internazionale, dei codici militari e dei costumi di guerra, sono tornate ad essere il vero obiettivo delle guerre. Si è tornati alla distruzione "strutturale" adottata nella seconda guerra mondiale con i bombardamenti a tappeto e in Vietnam con il napalm. Questa guerra sembrava finita quando si è voluto distinguere fra forze combattenti e non combattenti, quando l´etica ha richiamato le norme di protezione dei civili e quando lo stesso interesse consigliava di limitare i danni perché, come disse Liddell Hart, «il nemico di oggi è il cliente di domani e l´alleato del futuro».
Questa guerra sembrava finita per sempre quando dalla distruzione nucleare si è passati al precision strike, l´attacco di precisione, che rappresenta la rivoluzione strategica e tecnologica più importante e costosa dell´ultimo mezzo secolo. Di tutto questo si è persa traccia e memoria e gli imbonitori che indulgono nella giustificazione militare dei danni collaterali sono analfabeti di ritorno. Con i nuovi eserciti e le nuove armi i danni collaterali dovrebbero tendere a zero e con i nuovi avversari, arcaici e disperati, non ci sono strutture militari e produttive da distruggere per piegare la volontà di resistenza. Ci sono solo case, chiese, moschee e persone, donne, bambini. Tutte cose facili da colpire e allora la vera sfida strategica non sta nel come distruggere, ma nel come non coinvolgere gli innocenti.
In Cecenia, Afghanistan, Libano e, oggi, a Gaza la strategia deliberata di colpire i civili per far mancare il sostegno della popolazione agli insorti, ribelli e cosiddetti terroristi è un´altra regressione. Riporta alla guerra controrivoluzionaria, che invece ha fatto sempre vincere i ribelli, e alle nefandezze delle occupazioni coloniali. Anche le giustificazioni e il mascheramento di queste regressioni con strumenti di propaganda sono dejà vu. Sono cambiati i nomi e alcuni strumenti, ma gli effetti sono sempre gli stessi. La guerra psicologica che tenta di dimostrare che i civili non sono i nostri obiettivi ma le vittime dell´avversario che li usa come scudo non è cambiata da millenni, per questo il nemico è sempre stato "scellerato". Si usano gli stessi messaggi anche se al posto di proclami e infiltrati si utilizzano volantini, radio, televisioni, ambasciatori e lobby politiche. Ieri, la popolazione priva di sistema d´allarme, sapeva dell´imminente attacco dal rumore dei bombardieri. Pochi minuti per scappare. Oggi si telefona alle vittime, ma questo, come allora, non aiuta chi è intrappolato come un sorcio e non può andare altrove. Appare solo cinico.
L´ultima novità della guerra psicologica è che non si rivolge più all´avversario, ma alle proprie truppe e, soprattutto, all´opinione pubblica interna e internazionale. Quest´arma di manipolazione delle masse e di distruzione delle intelligenze è diretta verso le proprie forze e i propri alleati e ogni soldato sa che nulla è più pericoloso del cominciare a credere alla propria propaganda. Gli eserciti più potenti del mondo non sanno riconoscere e affrontare le nuove forme di guerra asimmetrica. Non sanno penetrare, discriminare, selezionare e operare chirurgicamente. Non sanno gestire il proprio eccesso di potenza e hanno perso la coscienza dell´inutilità e della illegalità delle distruzioni civili. Non si rendono conto che questo serve solo a imbarbarire la guerra: un lusso che i terroristi possono permettersi. Noi no.

Repubblica 20.1.09
Da sempre muoiono più civili che soldati
Tutti i morti del Novecento
di Giorgio Rochat


Malattie e carestie. Spesso sono le cosiddette cause "indirette" a provocare il maggior numero di morti: scarsità di rifornimenti alimentari, carestie, malattie, epidemie. A partire dalla Prima guerra mondiale le perdite si contano a decine di milioni

Nel corso dei secoli, la maggior parte delle guerre hanno provocato più morti tra i civili che tra i militari, senza grandi differenze tra civiltà e regimi. Violenze dei soldati sui civili, città prese d´assalto con il massacro degli abitanti (quando non era possibile venderli come schiavi). Soprattutto vittime indirette, le devastazioni sistematiche dei terreni coltivati portavano fame, malattie e morte. Nella storia europea un triste primato va alle guerre di religione, dalle crociate medievali contro gli eretici alle guerre di sterminio tra cattolici e protestanti del Cinque-Seicento. E poi le ricorrenti grandi rivolte contadine, che iniziavano con il massacro dei padroni e finivano con una repressione sanguinosa. Altri tempi, vale la pena di ricordare che fino a metà Ottocento i soldati caduti in battaglia erano meno di quelli morti per malattia, fame o stenti, ancora nella guerra civile statunitense 1861-1865.
La prima guerra mondiale 1914-1918 è il primo grande conflitto in cui la popolazione civile non viene coinvolta direttamente, per lo meno nell´Europa centro-occidentale. Lo straordinario numero di morti, 10 milioni (cifra approssimativa, come tutte le seguenti), è composto praticamente tutto da militari: 1.800.000 tedeschi, 1.350.000 francesi, 1.300.000 austro-ungheresi, 750 mila inglesi. Cifre incomplete per l´esercito russo, tra 1.700.000 e 2.500.000 caduti, e per gli stati balcanici, dove è difficile dividere le perdite militari e civili. Nel totale di 10 milioni non sono compresi il massacro degli armeni condotto dai turchi e i milioni di morti della successiva guerra civile di Russia. Per restare al caso italiano, contiamo 650 mila militari caduti su circa 4.200.000 che andarono al fronte, di cui 400 mila morti per ferite, 100 mila per malattie contratte in trincea, 100 mila in prigionia (in gran parte perché il governo rifiutò l´invio di viveri ai 600 mila prigionieri), 50 mila dopo il 1918 per ferite e malattie di guerra.
Fin qui i militari. E i civili? Le perdite dirette sono ridotte, gli abitanti della zona del fronte vennero trasferiti d´autorità all´interno del paese; rimane qualche centinaio di morti per i bombardamenti dell´aviazione austriaca sulle città italiane. Le perdite indirette sono però grandi e dimenticate. La guerra colpiva i civili con la crisi dei rifornimenti alimentari, i trasferimenti forzati citati e i 600 mila profughi dal Veneto invaso dopo Caporetto, il peggioramento delle condizioni di lavoro nelle fabbriche, infine la priorità che le strutture sanitarie davano alla cura dei soldati. Di conseguenza si ebbe un forte aumento di malattie che parevano sotto controllo, come la malaria (6 milioni di casi) e la tubercolosi (2 milioni di casi), la pellagra, il morbillo, la difterite. Le statistiche sanitarie valutano in 546 mila i casi di morti civili in più del normale negli anni di guerra. Inoltre nell´inverno 1918-1919 la "spagnola", un´epidemia di cui ancora oggi sappiamo poco, fece milioni di morti in Europa, 600 mila in Italia. Gli studi lasciano un margine di dubbio, ma le perdite provocate dalla guerra tra i civili sono superiori a quelle dei soldati.
Per la seconda guerra mondiale le cifre impazziscono, 50 milioni di morti di cui poco meno di 20 milioni di militari, si può capire che siano sempre cifre approssimative. Soltanto gli Stati Uniti non furono raggiunti dalla guerra, i loro 300 mila caduti sono tutti soldati. Invece i 26 milioni di morti dell´Unione sovietica sono da ripartire grosso modo in tre parti, i soldati caduti in combattimento o in prigionia, le perdite civili causate direttamente dalla guerra (500 mila morti nell´assedio di Leningrado) e quelle indirette della popolazione negli anni in cui tutto era sacrificato allo sforzo bellico. Guerre e politiche di sterminio che si sovrappongono, quasi 6 milioni di ebrei vittime della follia nazista (anche un terzo di milione di zingari), i lager di morte per gli antifascisti, i massacri tedeschi in Russia e nei Balcani (da 50 a 100 civili uccisi per un morto tedesco). E poi le vittime dei bombardamenti aerei, 60 mila inglesi e mezzo milione di tedeschi. Cifre terribili e pur superate dai 14 milioni di morti dell´invasione giapponese della Cina.
Per l´Italia, l´inchiesta promossa dal ministro Scelba a partire dalle anagrafi comunali attesta fino all´8 settembre 1943 200 mila soldati caduti nelle guerre fasciste e 25 mila civili, quasi tutti vittime dei bombardamenti anglo-americani. È più difficile suddividere i 220 mila morti dal settembre 1943 al 1945, forse 85 mila militari morti in combattimento o in prigionia, 40 mila partigiani, 7300 ebrei e 24 mila antifascisti nei lager tedeschi di morte, 40 mila vittime dei bombardamenti aerei e 10 mila delle rappresaglie nazifasciste, 15 mila fascisti morti in combattimento o fucilati al 25 aprile 1945. Conti approssimativi, che non tengono conto delle vittime indirette della guerra, sicuramente molte centinaia di migliaia.

il Riformista 20.1.09
Stella, il Grande Bidello
di Fabrizio d'Esposito


Vivesse ancora Edmondo De Amicis, sarebbe costretto a cambiare titolo al suo bestseller. Da Cuore a Occhio. Tutto merito di una Stella di nome Gelmini che fa il ministro dell'Istruzione e che adesso per fronteggiare l'eterno fenomeno del bullismo scolastico vuole mettere le telecamere in classe. Come se le scuole fossero un carcere o una curva di ultras irriducibili. Teppisti, non studenti. Il Grande Maestro, anche se la massoneria non c'entra nulla. Fantozzi direbbe: una boiata pazzesca. Perché ci sono ragioni serie e meno serie per dire che stavolta la ministra Gelmini sbaglia di grosso.
Eppoi un governo che vuole limitare le intercettazioni telefoniche ma al tempo stesso trasformare le aule in un deprimente reality school è un governo schizofrenico.
Contro il Grande Orecchio ma a favore del Grande Occhio. Forse anche per questo motivo la luna di miele tra il centrodestra e il paese sta finendo, con il calo evidente dei consensi nei sondaggi degli ultimi giorni. A dire il vero, proprio la ministra Gelmini è stata indicata, insieme con il collega Brunetta, come un traino demoscopico dell'esecutivo. Ma fino a quando, di questo passo?
Le telecamere a scuola sono innanzitutto una violazione dell'intimità tra professore e alunni. Un vincolo sacrale che sotto lo sguardo vigile di una centrale tv si muterebbe in esibizionismo, se non in un allenamento precoce per il casting del Grande Fratello. Non solo. C'è un'altra verità con cui fare i conti: i bulli sono una minoranza. Lo ricordò in modo saggio il predecessore di Gelmini, Beppe Fioroni del centrosinistra. I bulli a scuola ci sono sempre stati. A renderli più spacconi e violenti sono stati i videofonini e Internet ed è lecito allora chiedersi se le telecamere non possano paradossalmente trasformarsi in un clamoroso boomerang. Non mancherebbero, poi, momenti di grande imbarazzo: come farebbe un professore a spiegare la nefasta profezia di un classico come "1984" di Orwell mentre viene ripreso dalle telecamere? Certo, si potrebbero alleggerire le lezioni con l'introduzione di un'annunciatrice che scandisce le materie di ora in ora: magari in questo modo si riciclerebbero gli insegnanti tagliati dall'ultima riforma sulla scuola.
Ma la dittatura televisiva cui Gelmini vorrebbe sottoporre la scuola è indice anche della scarsa concezione liberale che alligna in molti ambienti della maggioranza. Uno Stato che controlla e che punisce con l'aiuto del Grande Fratello assomiglia in modo inquietante a uno Stato etico. A quando le telecamere nelle mense scolastiche per sorvegliare i bimbi obesi oppure nelle palestre per verificare il numero di flessioni eseguite?
La scuola sottoposta all'esame del video è una scuola triste, che nega se stessa. I bulli vanno controllati da insegnanti autorevoli e motivati, non da un occhio tecnologico. La sensazione è che questo governo insegua gli annunci per fare scalpore. Anche perché la scuola italiana non è ancora quella giungla americana della lavagna raccontata da Evan Hunter alias Ed McBain nel "Seme della violenza". E gli insegnanti saranno pure frustrati e mal pagati ma non sono ancora un misto di «spazzini e poliziotti».
Le telecamere a scuola vogliono dire che la lezione di Truman Show non ha insegnato nulla. Il Grande Fratello modifica la vita delle persone, in peggio. E le classi non sono banche, carceri o stadi. Nella sua ansia di fare e di cambiare il ministro Gelmini sta dipingendo un quadro fin troppo fosco della scuola italiana, con il rischio di aizzare ancora di più i suoi tanti contestatori dell'Onda. Sulle telecamere sarebbe meglio, molto meglio fare marcia indietro. Mettendo insieme i tasselli del mosaico gelminiano viene fuori una sorta di mostro che va dal grembiule al Grande Occhio. Ma col tempo il pugno duro logora chi lo mostra.
Mariastella Gelmini ha un'aria perennemente severa, aggravata dalla rigida montatura dei suoi occhiali colorati (si dice che ne abbia un centinaio), e su questo sta costruendo la sua immagine di maestrina cattiva che Tinto Brass ha definito molto «stuzzicante» da quel punto di vista lì. E questo ha moltiplicato l'inventiva e i pruriti delle sue due strepitose imitatrici in tv, Caterina Guzzanti e Paola Cortellesi. In un modo o nell'altro è la ministra più mediatica del governo Berlusconi. E questa, forse, potrebbe essere la vera ragione dell'ultima trovata nella crociata anti-bulli. Mariastella, ormai, ha l'ossessione delle telecamere. Sorrida, però, ogni tanto. E sul Grande Bidello ci ripensi.

Repubblica Firenze 20.1.09
Martini non ha risposto pubblicamente all'invito di Cioni
Eluana in Toscana scettico Defanti
di Michele Bocci


«Al momento non nutro alcuna speranza sulla possibilità di portare Eluana in Toscana». Il neurologo Carlo Alberto Defanti, che segue la donna in stato vegetativo da 17 anni, è scettico sulla possibilità che la richiesta dell´assessore alla salute di Firenze Graziano Cioni al presidente della Regione Claudio Martini possa portare ad una apertura nei confronti della famiglia Englaro. Del resto Martini non ha risposto pubblicamente al suo invito. Restano valide le parole che disse quando Riccardo Nencini, presidente del consiglio regionale, fece un´uscita simile a quella di Cioni. «Si tratta di una vicenda privata - disse circa un mese fa - Rispetto alla quale la politica deve fare un passo indietro». Beppino Englaro sta aspettando il risultato di un ricorso al Tar della Lombardia e non avrebbe individuato un altro posto dove portare a morire la figlia. «Ci vuole molta discrezione, visto quello che è successo in Friuli», commenta Defanti. Prende posizione la sezione di Pisa della Consulta di bioetica. «Auspichiamo che almeno dalla Regione Toscana parta una iniziativa che consenta di uscire dalla condizione di mortificazione in cui è stata costretta la legalità. La tradizione che vede questa regione sensibilissima al tema dei diritti di libertà e autodeterminazione non può più far finta di non vedere». Opposta Scienza e vita di Firenze, che attacca Cioni. «Gli ospedali sono fatti per assicurare le cure ai malati, non per farli morire».

Il Tempo 18.1.09
Rifondazione ormai afflitta da «disturbi comportamentali»
Bertinotti che rompe con il suo psicanalista, Rina Gagliardi che è sconvolta
di Silvia Santarelli


Torna in mente quel libro Tutte le famiglie sono disturbate di Douglas Coupland (l'autore di Generazione X) che parlava di disturbi comportamentali che si sviluppano all'interno della famiglia. Sta succedendo lo stesso dentro Rifondazione comunista? Una famiglia che si disintegra a causa dell'accumulo di incomprensioni e rancori? In effetti, solo qualche elemento di psicanalisi può spiegare perché i figli (l'attuale classe dirigente del Prc) dell'amatissimo padre (l'ex presidente della Camera, Fausto Bertinotti) sono arrivati ad odiarsi tanto, e perché la scissione che si sta consumando in questi giorni della minoranza guidata da Nichi Vendola, scattata in seguito all'allontanamento del direttore Sansonetti dalla guida di Liberazione, abbia assunto toni tanto personali e drammatici. È un «fratelli coltelli» senza la minima ironia. Sansonetti che dà dell'omofobo al suo segretario, che conosce e frequenta da anni. Questi, Ferrero, che parla solo con le cifre: «Meno 40% delle vendite, un giornale che perde tanto non può che cambiare gestione», neanche fosse uno di quegli industriali del Nord con cui da sindacalista si è scontrato per anni. Maurizio Zipponi che attacca il neodirettore di Liberazione Dino Greco, sindacalista come lui, bresciano come lui: «È uno che non ha mai vinto una battaglia sindacale, mai. Saranno contenti quelli di Brescia che se ne sono liberati». Gennaro Migliore che è il più triste: perde un partito, un futuro - per anni è stato l'erede al trono designato da Bertinotti - e il suo ex migliore amico, Luca Bonaccorsi, il quale ha mollato lui e il vecchio Fausto, portandosi appresso lo psicanalista Fagioli, tutto per lo schiribizzo di diventare il prossimo editore di Liberazione.
E, comunque, non è ancora finita. Da qui al 24 gennaio, giorno in cui è convocata a Chianciano l'assemblea dagli scissionisti, liti e rese dei conti vanno avanti. Anche perché molti di quelli che hanno votato la mozione Vendola all'ultimo congresso, non vogliono saperne di lasciare il Prc. Tra i dirigenti, Augusto Rocchi, ex parlamentare, bertinottiano della prima ora; Milziade Caprile, ex vicepresidente del Senato; Rosa Rinaldi, ex sottosegretario al ministero del lavoro e ora membro della direzione; e Tommaso Sodano, ex presidente della commissione ambiente del Senato. Non lasciano il Prc perché non vogliono dar vita a un'ennesima formazione che è solo «un escamotage politicista e centralista, che assomiglia troppo alla fallita Sinistra Arcobaleno». In tutto sarebbero un terzo dei vendoliani quelli che vogliano restare. Pezzi di Sicilia, Sardegna, di Veneto. A Roma, la mitica sezione di San Lorenzo, dove pure Vendola aveva ottenuto più del 50%, ha deciso a maggioranza di rimanere nel partito. A volerlo più di tutti è il segretario, Giuseppe D'Agata, che bertinotttiano lo è non solo di fede, ma anche per lavoro, essendo uno dei collaboratori dell'ex presidente della Camera.
A proposito, il Maestro, il punto di riferimento di tutti, il vecchio leader, il papà amato e ripudiato, insomma, Bertinotti, che fa? A parte dire che «la sinistra ha bisogno di un big bang», e che il partito gli sembra «irriconoscibile», non molto. Di certo, si sa che non aderirà formalmente né al nuovo soggetto, né alla vecchia Rifondazione.
La confusione è massima, ma le Europee sono vicine. Se la legge elettorale non cambia, e rimane il proporzionale puro, il Prc di Ferrero dovrebbe allearsi con il Pdci e Sinistra Critica, ovvero Turigliatto e c. Mentre gli scissionisti dovrebbero andare con Sinistra Democratica e i Verdi, aspettando che anche il Pd si disintegri e che tutto si rimetta in moto. Se, invece, arriva lo sbarramento al 4%, non è da escludere che la scissione si ricomponga. Per un paio di deputati a Strasburgo, si rimangeranno accuse e insulti? Si vedrà. Per ora, le scommesse sono aperte solo sul futuro di Sansonetti. I ferrariani di Liberazione, che non l'hanno mai amato, invitano a scegliere tra: una rubrica dal perfido Paolo Mieli; una su Panorama offerta da Berlusconi in nome del servizio reso (di spappolare ulteriormente la sinistra) e della comune fede milanista; o sul Riformista, dal compagno di tante comparsate tv Antonio Polito.

Vendola: «l diritto dei bambini ad avere una loro sessualità, ad avere rapporti tra loro, o con gli adulti»
Repubblica 19.5.85
Il gay della Fgci
intervista a Nichi Vendola di Stefano Malatesta


ROMA - Nichi Vendola ha 26 anni, è pugliese. Qualche giorno fa è stato eletto membro della segreteria nazionale della Fgci, la Federazione giovanile comunista. Ha un viso gradevole. In testa calza un berretto blu con visiera, da studente svedese. Intorno al collo è annodata una sciarpa di lana bianca. Porta al lobo sinistro un orecchino d' oro. Nichi Vendola è un gay, il primo attivista omosessuale entrato a far parte della dirigenza comunista. Dice senza asprezza polemica: "Sono sicuro che parlerai dell' orecchino d' oro. Ho già dato un' intervista in cui raccontavo un po' di cose, fatti personali e politici. Dopo ho avuto dei timori, credevo che ci fossero reazioni a Roma, nel partito. Invece i compagni sono stati benevoli. Mi hanno però avvertito: stai attento a non farti ingabbiare nel clichè, il gay alle Botteghe Oscure, eccetera. Prima c' erano i funzionari infagottati nei doppipetti grigi tagliati male, con le cravatte stonate in raso. Adesso l' omosessuale con l' orecchino. Al congresso giovanile avevo un magnifico, luminescente papillon sopra una camicia a righe. Dì, vuoi che ti stringa la mano sotto il tavolo?". Rispondo che il passaggio sotto le forche del commento becero è obbligato: cosa si vuole aspettare, finezze anglosassoni? L' umorismo in Italia, e anche altrove, è spesso di genere caserma, dovrebbe esserci abituato. Però mica posso far finta di essere venuto per le sue preclare virtù politiche di cui tutta l' Italia parla. Sono venuto perchè Vendola è il primo dirigente comunista gay dichiarato. Nel 1948 il Pci non ha espulso Pier Paolo Pasolini per indegnità morale? "Sono passati esattamente 37 anni. Sai cosa ho detto al congresso giovanile? Per noi comunisti non si tratta di difendere la grande dignità e i valori dell' omosessualità, ma di acquisire la diversità come elemento di ricchezza per chi vuole ancora trasformare il mondo. E' stato il passo più applaudito nel mio intervento". Mi ricordo di un altro intervento, più volte citato, fatto da Enrico Berlinguer quando era segretario della Fgci, su Maria Goretti: la additava ad esempio per le future generazioni dei comunisti. "Era il dopoguerra. I comunisti venivano descritti come bestie. L' accusa di essere intellettual-frocio-comunista, senza molta distinzione tra i termini, ugualmente vituperati, è stata merce corrente fino a non troppo tempo fa. Da parte del Pci si tentava di difendersi, di proporre dei modelli di moralità sotto quell' alluvione di vituperi. Il difetto stava nel prendere in prestito i modelli dalla cultura cattolico borghese". Ma c' era anche molta grettezza moralistica e bacchettona all' interno del partito. Chi conviveva con una ragazza veniva convocato e avvertito con l' usuale frase: "Compagno, è ora che regoli la tua posizione". E Togliatti ebbe dei problemi quando iniziò la sua relazione con Nilde Jotti. Secchia non scherzava. "Lo stesso Secchia, una volta caduto in disgrazia, fu accusato, non tanto larvatamente, di essere un finocchio, accusa infamante e degradante. Ma erano tempi diversi, il partito continuava a vivere in stato di allarme, non ci si potevano concedere lassismi personali con il nemico o con la sindrome del nemico alle porte. Però Pasolini, tra il ' 60 e il ' 70, già poteva scrivere liberamente anche di omosessualità su "Vie Nuove"". Pasolini era uno scrittore celebre, un poeta, "un' artista". Anche Visconti non venne mai attaccato: Togliatti ne ha fatto sempre grandi elogi. Ma era un' eccezione. L' aristocratico decadente se lo poteva permettere, proprio perchè aristocratico e decadente. L' operaio in fabbrica no. Diciamo la verità: i compagni lo avrebbero preso a calci nel sedere. "Su Visconti posso essere d' accordo. Ma lui non faceva professione di omosessualità, come non la fa Zeffirelli. In questo senso non sono "scandalosi". Invece Pasolini era provocatorio, almeno per quegli anni e il fatto che scrivesse su "Vie Nuove" è significativo. Però è vero che l' omosessuale in fabbrica, tra i compagni, non aveva vita allegra. Mio padre, comunista da sempre, un uomo magnifico, dolce, andava a fare le spedizioni per picchiare "i froci". Una volta mi ha detto: se ti ammazzassi, noi tutti potremmo riacquistare una dignità. Mi ha molto amato, ma per lui, come per tanti altri, gli omosessuali erano solo i turpi individui che adescavano i bambini nei giardinetti. Ma di queste cose non ne voglio più parlare". Non ho l' intenzione di continuare ad insistere su certi ritardi e manchevolezze del Pci. Ma qui, come in altre occasione, l' azione dei radicali mi sembra sia stata decisiva. Gli altri hanno seguito, anche con riluttanza: tutto questo non gli interessava, soprattutto non faceva parte della loro cultura. "I radicali hanno avuto dei meriti, creando movimenti, flussi, attraverso un' ottica garantista. Ma con qualche casella o piccolo spazio in più di libertà non cambi le regole del gioco, che sono rimaste quasi le stesse. Il "Fuori" voleva creare la cittadella gay, dove gli omosessuali si potessero sentir protetti. I comunisti sono sempre stati contro l' ideologia del ghetto: in ritardo, magari, però decisi a risolvere le questioni, non solo a presentarle, che è molto più facile. D' altronde basta andarsi a rileggere le centinaia di lettere che arrivavamo all' "Unità" e a "Rinascita"" durante gli anni 70: un dibattito libero". Mi dicono però che alti dirigenti del partito non siano stati particolarmente soddisfatti dell' elezione di un omosessuale nella segreteria della Fgci: Chiaromonte ad esempio. "Francamente nel Pci non ho mai avuto problemi, come li ho avuti in famiglia. Credo che oggi comunista significhi anche rispetto dell' altro, essere condannati ad una contaminazione attraverso il rapporto umano: un rischio che bisogna accettare. Lo sguardo inquietante di un altro uomo può farti crollare il tuo castello di certezze, ma è inutile e stupido fuggire. Sono i liberali che hanno sguardi paralleli, che non s' incrociano mai: l' idea del rapporto come due monologhi. Questa è mummificazione dell' esistente. Libertà comunista è dinamismo, è contaminazione, con le nostre coscienze e i nostri corpi, è buttarsi nella mischia. Io l' ho fatto, sono diventato coscientemente omosessuale, per poi recuperare l' eterosessualità, per poi trovar la sessualità, senza aggettivi. Vorrei che ci capissimo, non sto parlando di membri e di apparati genitali, altrimenti torniamo alla caserma". Io credo di capire, ma non so quanti siano in grado di farlo nel Pci, non parlo della Fgci... "Giovanni Berlinguer è uno che capisce: aperto, vivace. Anche Natta ci aiuta. Abbiamo avuto un dibattito con lui molto libero. Ripete sempre che bisogna andare fino in fondo, che bisogna parlare, confessarci di più - non dal prete con la cotta - togliersi di dosso tutti i residui di intolleranza. Gli altri non so, sono arrivato da pochi giorni a Roma. Certo l' età conta, ognuno forma la propria cultura in un momento storico preciso. Non è facile affrontare un tema come quello della pedofilia ad esempio, cioè del diritto dei bambini ad avere una loro sessualità, ad avere rapporti tra loro, o con gli adulti - tema ancora più scabroso - e trattarne con chi la sessualità l' ha vista sempre in funzione della famiglia e dalla procreazione. Le donne, da questo punto di vista, sono notevolmente più sensibili. Ma il Pci non è un organismo matriarcale".

da Wikipedia:
Mario Mieli (da cui prende nome il Circolo di cultura omosessuale di Roma)


Mario Mieli (1952-1983) è considerato uno dei fondatori del movimento omosessuale/ transgender in Italia.
“Fu uno dei primi a contestare le categorie di genere vestendosi sempre al femminile; coprofago senza vergogna, utilizzò anche immagini e ruoli per portare avanti la propria battaglia dei diritti individuali inalienabili.”
A lui è dedicato il Circolo di cultura omosessuale di Roma, fondato nell’anno del suo suicidio.
“L'assunto di fondo del pensiero di Mario Mieli consiste nel ritenere che ogni persona è potenzialmente bisessuale se non fosse condizionata, fin dall'infanzia, da un certo tipo di società che (attraverso quella che Mieli chiamava "educastrazione"), costringe a considerare l'eterosessualità come "normalità" e tutto il resto come perversione. ...
Mieli abbracciò immediatamente il marxismo, cercando di rimodularlo sulle istanze della lotta di liberazione ed emancipazione omosessuale.
Tim Dean, psicoanalista dell’Università di Buffalo, il quale ha redatto l'appendice dell'edizione Feltrinelli del libro di Mieli, Elementi di critica omosessuale, afferma: «Nel processo politico di ristrutturazione della società (...) Mieli non esita a includere nel suo elenco di esperienze redentive la pedofilia, la necrofilia e la coprofagia» e «ridefinisce drasticamente il comunismo descrivendolo come riscoperta dei corpi (...) In questa comunicazione alla Bataille di forme materiali, la corporeità umana entra liberamente in relazioni egualitarie multiple con tutti gli esseri della terra, inclusi "i bambini e i nuovi arrivati di ogni tipo, corpi defunti, animali, piante, cose" annullando "democraticamente" ogni differenza non solo tra gli esseri umani ma anche tra le specie».
A questa rivoluzione sociale sono di ostacolo determinati elementi, ritenuti da Mieli come «pregiudizi di certa canaglia reazionaria» che, trasmessi con l’educazione, hanno la colpa di «trasformare troppo precocemente il bambino in adulto eterosessuale».
I bambini, secondo quello che sembra il pensiero di Mieli, possono però "liberarsi" e trovare la realizzazione della loro "perversità poliforme" grazie agli adulti consapevoli di quanto sopra asserito: «Noi checche rivoluzionarie sappiamo vedere nel bambino non tanto l'Edipo, o il futuro Edipo, bensì l’essere umano potenzialmente libero. Noi, sì, possiamo amare i bambini. Possiamo desiderarli eroticamente rispondendo alla loro voglia di Eros, possiamo cogliere a viso e a braccia aperte la sensualità inebriante che profondono, possiamo fare l’amore con loro. Per questo la pederastia è tanto duramente condannata: essa rivolge messaggi amorosi al bambino che la società invece, tramite la famiglia, traumatizza, educastra, nega, calando sul suo erotismo la griglia edipica».
Mario Mieli si rifaceva alle teorie di Freud sulla sessualità infantile. Il padre della psicoanalisi sosteneva che l'orientamento sessuale poteva prendere qualsiasi "direzione".
Conseguentemente eterosessualità ed omosessualità sarebbero varianti possibili (l'OMS, l'Organizzazione Mondiale della Sanità, considera l'omosessualità come "una variante naturale della sessualità umana").
Anche e soprattutto in questo senso Mario Mieli invoca l'amore per i bambini."

il grassetto è di Fabio Della Pergola

lunedì 19 gennaio 2009

Corriere della Sera 19.1.09
Germania, catastrofe per i socialdemocratici
I liberali di Guido Westerwelle e i Verdi di Cem Özdemir ottengono il 16 e il 14% dei voti: un balzo di oltre il 6%
di Danilo Taino


BERLINO — La Cdu del cancelliere Angela Merkel ha vinto con il 37,6% le elezioni anticipate nell'importante Land dell'Assia, in cui si trova la capitale finanziaria Francoforte. Secondo gli exit poll i cristiano-democratici hanno travolto i socialdemocratici (Spd) crollati dal 36,7 al 23,8%. Il segretario Andrea Ypsilanti si è dimessa: si tratta di una sconfitta storica per i socialdemocratici, il cui rappresentante, Frank-Walter Steinmeier, sfiderà la Merkel alle elezioni federali di settembre.

Il test Il partito della Merkel vince e si allea con i liberali, che raddoppiano i voti. Si dimette la Ypsilanti. Stabile la Linke
Crollo Spd in Assia. E la Germania cambia
Socialdemocratici travolti. Il successo della Cdu apre il «super-anno» elettorale

BERLINO — Il super-anno elettorale della Germania si apre con una catastrofe per la Spd. Nelle elezioni per il governo dell'Assia, l'importante Land in cui sta la capitale finanziaria Francoforte, i socialdemocratici hanno perso, secondo gli exit poll, quasi il 13% dei voti che avevano conquistato un anno fa. I cristiano- democratici (Cdu) della cancelliera Angela Merkel si confermano il primo partito e ricevono una spinta notevole in vista delle elezioni nazionali, tra otto mesi. Soprattutto, i liberali di Guido Westerwelle e i Verdi di Cen Özdemir ottengono rispettivamente il 16 e il 14% dei voti: per ambedue i partiti si tratta di un balzo di oltre il 6%. Con il 5,4% la Linke di Oskar Lafontaine supera di poco lo sbarramento elettorale del 5%.
Il risultato è influenzato da caratteristiche locali e non può essere proiettato a livello nazionale. Ma per Frau Merkel è una vittoria notevole avere guadagnato oltre il 37% dei consensi in una fase di crisi economica grave. Per la Spd del ministro degli Esteri Frank-Walter Steinmeier — che a fine settembre sfiderà la cancelliera nelle elezioni federali — e del capo-partito Franz Müntefering è una sconfitta storica: il 23,8% è il peggior risultato ottenuto in Assia dal dopoguerra e dimostra che la coppia alla guida del partito non è riuscita a recuperare la perdita di consensi iniziata da mesi. Ora, il numero uno della Cdu locale, Roland Koch potrà formare un governo con i liberali dell'Fdp. La numero uno della Spd, Andrea Ypsilanti, si è invece dimessa dal vertice del partito.
Un anno fa, in Assia si erano tenute elezioni che avevano visto il sostanziale pareggio tra Cdu e Spd. I socialdemocratici, guidati dalla signora Ypsilanti, avevano tentato di fare un governo con i Verdi appoggiato dall'esterno dalla Linke, con la quale però in campagna elettorale avevano promesso che non si sarebbero mai alleati. Da quel momento, la questione Assia è diventata un test sulla credibilità dei socialdemocratici a livello nazionale: alla fine la Spd non riusciva nemmeno a formare il governo rosso-verde-rosso. Il guaio, per la Spd, è che il voto dell'Assia darà il segno a un anno denso di elezioni, in Germania, nel quale la Cdu e la Spd — al governo alleate nella Grande Coalizione — si sfideranno più volte. A maggio ci sarà l'elezione indiretta del presidente federale: cristiano- democratici e socialdemocratici hanno candidati diversi e la sfida potrebbe essere vinta dalla Spd solo con i voti della Linke. A giugno ci saranno le europee. A fine agosto si voterà in altri tre Länder, Sassonia, Turingia e Saar: nelle ultime due, la Spd potrebbe sperare di formare un governo ma solo se si alleasse al partito di Lafontaine. Cosa che le viene sempre difficile fare perché il 27 settembre ci saranno le elezioni nazionali e, se gli elettori sospettassero un'alleanza Spd-Linke, darebbero la vittoria a Frau Merkel. La cancelliera, invece, ha di che festeggiare per il voto di ieri. L'ottimo risultato dei liberali dà forza alla sua strategia che, dopo le elezioni federali, punta a chiudere l'esperienza della Grosse Koalition e a formare un governo con l'Fdp. A questo punto, per lei, si tratta di mantenere il momento vincente.
Danilo Taino In onda Il leader regionale della Cdu, Roland Koch, al trucco prima di un'intervista televisiva: il suo partito si conferma primo in Assia (Afp)

Corriere della Sera 19.1.09
Lo scenario. Allarme alleanze La sinistra è ora in un vicolo cieco
di D. Ta.


Voglia di riforme
Il partito che più ha guadagnato voti è la Fdp, che si presenta su una piattaforma di riforme economiche pro-mercato

BERLINO — Un po' per abilità, un po' per fortuna, ieri Angela Merkel ha innescato la marcia veloce al veicolo che forse la porterà a vincere le elezioni federali tedesche, il prossimo 27 gennaio. Per capacità, perché negli ultimi mesi ha tenuto i nervi saldi di fronte alla crisi economica più grave della storia della Germania post-bellica. Per buona sorte, perché gli avversari politici (anche se partner di governo) socialdemocratici sono in confusione strategica e tattica e in Assia hanno fatto di tutto per farla trionfare. Il 2009 sarà un anno determinante per la Germania. La cancelliera ha messo il Paese su un percorso diverso, in qualche caso opposto, a quello di quasi tutti gli altri partner occidentali (Italia esclusa) per quanto riguarda la risposta da dare alla crisi finanziaria e alla recessione mondiale.
Si è caricata le spalle di critiche feroci perché ha scelto di non rispondere alle difficoltà del momento spendendo denaro pubblico per progetti di razionalità dubbia, come molti altri hanno invece fatto. I cittadini tedeschi, che amano la stabilità finanziaria sopra ogni cosa, hanno deciso di non punirla, almeno finora. Se la sua intuizione si dimostrerà giusta, i suoi nervi saldi varranno di più di ogni pacchetto spettacolare di aiuti finanziari all'economia. Le elezioni di ieri — in cui la Cdu ha vinto e la Spd del suo avversario elettorale Frank-Walter Steinmeier è crollata — per ora dicono che il Paese è con lei. Straordinario, poi, che in piena crisi il partito che più ha guadagnato voti sia la Fdp, i liberali di Guido Westerwelle che si presentano ai tedeschi su una piattaforma di riforme economiche pro mercato, per nulla fondata sulla dottrina dello spendere-spendere i denari dello Stato. Se la tendenza di ieri si consolidasse, la Germania potrebbe avere, dopo le elezioni di settembre, un governo nazionale riformista come forse mai ha avuto, anche quando l'Fdp era al potere, sempre assieme all'Unione Cdu-Csu, nei gabinetti Kohl tra il 1982 e il 1998. I socialdemocratici — che nel governo di Grosse Koalition sono stati leali con la cancelliera ma soffrono di non poterla attaccare in quanto partner di maggioranza — da ieri sono di fronte alla certezza di una crisi politica e di alleanze.
Dovranno trovare una strategia. Un'alleanza con i Verdi, però, non li porterà al governo, i numeri non basterebbero; e la Linke di Oskar Lafontaine farebbe loro perdere la caratteristica di partito di centro. Un vicolo cieco: a questo punto sperano in un risultato delle elezioni federali che costringa a una nuova Grande Coalizione, fatto che in campagna elettorale potrebbe però essere la loro più grande debolezza.
La Germania è a una svolta.

Repubblica 19.1.09
L’avanguardia che non c’è più
Le élite nella società liquido-moderna
L’analisi del sociologo: è tramontata l’epoca della differenza tra cultura "alta" e "bassa"
di Zygmunt Bauman


I movimenti del ´900 avevano una missione: far aprire gli occhi su nuovi mondi
Per i "trend-setter" possono convivere l’iPod e il rugby accanto al balletto e il gotico vittoriano

Anticipiamo parte dell´articolo di che apre il prossimo numero del "Terzo Occhio" tutto dedicato al Novecento e al mito della modernità, col Futurismo in primo piano
I concetti di "being in a vanguard" (in inglese) o "en avant-garde" (in francese), coniati originariamente nel linguaggio e dalla pratica militare, e in seguito trapiantati, come metafora, in altri settori della vita, significano più di un mero "essere avanti" in prima linea, avanzati più lontano di quanto gli altri riescano a essere; implicano tracciare una nuova via, rendere transitabile una strada, prendere una testa di ponte che lo aprirebbe alla circolazione; in breve, suggeriscono di mostrare, di aprire e di liberare la strada affinché gli altri entrino e vadano avanti. Tutti questi suggerimenti e queste implicazioni si basano su un presupposto a volte esplicito a volte tacito: che ci siano alcuni "altri" (se lo sappiano già oppure se finora non ci avessero mai pensato) che dovrebbero essere desiderosi ed entusiasti di seguire, non appena l´avanguardia abbia terminato il suo lavoro preparatorio di ricognizione. (...)
Oltre al presupposto di preparare/liberare/mostrare il percorso, il concetto dell´"avanguardia" comporta la visione di un movimento in avanti - di progresso. Per queste due ragioni, i futuristi, gli impressionisti, i cubisti, i fauvisti, i surrealisti, i dadaisti, gli espressionisti astratti o no, e numerosi altri movimenti artistici degli eccitanti tempi inclini al futuristico, erano pienamente nei loro diritti quando hanno preso in prestito l´idea di avanguardia per descrivere la loro posizione e dichiarare i loro intenti. Per le stesse due ragioni, tuttavia, attribuire o adottare la metafora dell´"avanguardia" per descrivere o auto-definire delle novità artistiche ai nostri tempi, potrebbe solo voler dire rubare i meriti di qualcun altro, nella speranza che nel frattempo i ladri si approprino dei bei ricordi della gloria passata.
I movimenti avanguardisti di un tempo (più precisamente, dell´inizio e della metà del XX secolo - i periodi precedenti il passaggio dallo stato "solido" a quello "liquido") si consideravano al contempo plenipotenziari e veicoli, ma soprattutto unità avanzata del progresso con una missione cruciale da compiere: aiutare i loro simili a uscire dal rivestimento d´acciaio della tradizione stantia, esausta e sempre più sterile nel quale erano stati rinchiusi, e aprire i loro occhi su nuovi modi, finora inesplorati e ancora rifuggiti, non solo di comprendere l´arte, ma anche di stare nel mondo. (...)
E l´avanguardia credeva, come avrebbero dovuto credere quando il culto del progresso era ancora la religione ascendente e la fede nelle ferree leggi della storia non era ancora quasi mai stata interrogata, di avere la storia dalla sua parte. La storia andava avanti e indietro, e così facevano le arti, le truppe avanzate della cultura umana. Le vele della storia stavano aspettando che spirasse il vento dagli studi e dai laboratori d´arte. Più forte è questo vento, più veloce andrà la storia...
Niente di ciò che è stato detto sopra riguardo alle arti resta ancora vero nella nostra società liquido-moderna di consumatori.
Stephen Fry, un attore britannico popolarissimo sempre sul palcoscenico, al cinema e in televisione, rinomato per la sua arguzia e il suo talento di narratore, modello vivente dello stile di vita che gli aspiranti membri dell´élite artistico-culturale vorrebbero tanto abbracciare, è un ospite molto desiderato in qualsiasi salotto intellettuale londinese e in qualsiasi party che ambisca al rango di "favola della città", e un indirizzo molto ambito nella rubrica di qualsiasi network con una ragionevole pretesa di prestigio e di rilievo; in breve, una persona dall´enorme influenza sulle menti di qualsiasi cosa possa essere definita l´attuale "élite culturale". Nel cercare di spiegare il fenomenale successo del sito web Facebook, l´ottimo giornale British Sunday notava che "la folla" dei suoi utenti, insolitamente per i siti di social network, «includeva tantissimi tipi famosi» e suggeriva che ciò accadesse perché «in che altro modo potresti chiedere a Stephen Fry di diventare tuo amico?».
Stephen Fry, una celebrità rispettata da chiunque voglia essere qualcuno nel mondo degli intenditori delle ultime mode culturali, ha sentito la necessità di spiegare e giustificare ai lettori del Guardian perché sia accettabile per una persona come lui, acclamata come modello delle più raffinate e sublimi credenziali culturali, infilarsi una volta a settimana i panni di "fissato", dedicando la sua rubrica all´ultimo gingillo elettronico: congegni che si ritiene appartengano alla cultura "popolare" (in passato, in tempi felicemente ignari del "politicamente corretto", conosciuto come "cultura di massa") piuttosto che al suo superiore/detrattore alto o intellettuale (le denominazioni "alto" e "intellettuale" non sono più utilizzate nell´attuale gergo del politically correct, tranne che come insulto, con derisione e tra virgolette). Fry comincia la sua dichiarazione con una confessione: «I dispositivi digitali scuotono il mio mondo. Questo potrebbe essere considerato da alcuni come una tragica ammissione. Non il balletto, l´opera, il mondo naturale, Stephen? Non la letteratura, il teatro o la politica mondiale?». E si affretta a prevenire le potenziali accuse: «Beh, la gente può andare matta per tutte le cose digitali e ancora leggere i libri, può andare all´opera e guardare una partita di cricket e richiedere i biglietti dei Led Zeppelin senza andare in frantumi (...). Ti piace la cucina tailandese? E che c´è che non va con quella italiana? Ehi, calma. Mi piacciono entrambi. Sì. Si può fare. Mi possono piacere il rugby e i musical di Stephen Sondeim; l´alto gotico-vittoriano e le installazioni di Damien Hirst. Herb Alpert e Tijuana Brass e i pezzi per pianoforte di Hindemith; gli inni inglesi e Richard Dawkins; le prime edizioni di Norman Douglas e l´iPod; il biliardo, le freccette e il balletto (...). (Una) passione per gli aggeggi non mi rende restio alla carta, alla pelle e al legno, ai Natali vecchio stile, ai film di Preston Sturges e le passeggiate in campagna».
Alcuni limiti sono ancora rispettati, e oltrepassarli è da incauti. In toto, comunque, questa pubblica confessione e dichiarazione supplica di essere letta come una decisa sfida al concetto di Pierre Bourdineau di "distinzione", come principale posta in gioco nella battaglia delle arti, concetto che ha governato e ottimizzato la nostra concezione delle arti e più generalmente della "cultura" durante gli ultimi tre decenni.
Stephen Fry ha la reputazione di essere un trend-setter, ma è anche il più attendibile portavoce (e la personificazione vivente) delle mode; ci si può fidare del fatto che parla non solo a nome suo, ma anche a nome dei centinaia di migliaia di militanti e dei milioni di aspiranti membri dell´"élite culturale" - persone che conoscono la differenza tra comme il faut e comme il ne faut pas, e che sono le prime a notare il momento in cui quella differenza diventa diversa da ciò che era un momento prima. E non ha sbagliato neanche questa volta. Secondo uno studio scritto da Andy McSmith e pubblicato nell´edizione on-line dell´Independent, autorevoli accademici riuniti nella più autorevole università - Oxford - hanno proclamato che «l´élite culturale non esiste». A questo punto McSmith, cercando un titolo adeguatamente pungente e stimolate, non ha comunque trovato quello adatto: ciò che John Goldthorpe, uno dei più rispettati ricercatori di scienze sociali di Oxford, e la sua équipe di 13 ricercatori hanno dedotto dai dati raccolti nel Regno Unito, in Cile, in Ungheria, in Israele, nei Paesi Bassi e negli Stati Uniti, è che non si possono più trovare persone superiori che si distinguano da altre, a loro inferiori, andando all´opera e ammirando qualsiasi cosa sia stata attualmente marchiata come "arti alte", mentre arricciano il naso con «qualsiasi cosa di volgare quanto i brani pop o la televisione generalista». Il leopardo dell´élite culturale è molto vivo e graffiante, ha solo cambiato le sue macchie, che possono essere chiamate - da quando Richard A. Petersen della Vanderbilt University ha coniato nel 1992 la parola "onnivoracità" - opera e brani pop, "arti alte" e televisione generalista; un pezzetto da qui, un pezzetto da là; ora questo, ora quello. Come si è recentemente espresso Petersen: «Assistiamo a un cambiamento nella politica della classe elitaria, da quegli intellettuali che disdegnano snobisticamente tutta la cultura popolare bassa, plebea o di massa, a quegli intellettuali che consumano in modo onnivoro una vasta gamma di forme d´arte popolari oltre che intellettuali». (...)
La cultura liquido-moderna non ha "persone" da "coltivare", piuttosto dei clienti da sedurre. E diversamente dal suo predecessore "solido-moderno", non desidera più fare in modo, alla fine ma il prima possibile, di terminare il lavoro. Il suo lavoro consiste ora nel rendere la propria sopravvivenza permanente, rendendo temporali tutti gli aspetti della vita dei suoi vecchi pupilli, ora rinati come clienti.

Repubblica 19.1.09
Caravaggio. Tenebre luci erotismo
In occasione dei 200 anni della pinacoteca di Brera
di Antonio Pinelli


La prima delle iniziative per festeggiare il bicentario raccoglie quattro importanti opere del maestro: scene sacre ma anche omosessualità e invito a godere dei sensi

L´Accademia di Belle Arti di Brera fu fondata nel 1776 e fin dall´origine volle dotarsi a fini didattici di una raccolta di opere d´arte. Avviata dal suo primo segretario Carlo Bianconi, tale collezione fu incrementata a dismisura dal suo successore Giuseppe Bossi, che a partire dal 1801 riorganizzò profondamente l´istituto milanese, infondendovi la sua impronta di pittore politicamente impegnato a sviluppare la funzione civile e morale delle arti. In questo contesto, segnato dalla scelta di Milano come capitale del Regno d´Italia napoleonico, il 15 agosto 1809, giorno del compleanno di Bonaparte, fu inaugurata la Pinacoteca di Brera, che a partire da questa data si emancipò dal suo scopo originario di palestra didattica per giovani artisti divenendo un museo pubblico a tutti gli effetti.
All´atto della sua nascita le sale erano solo quattro, anche se in esse erano già stipati ben 139 dipinti. Ma sull´esempio del Louvre, che si era andato arricchendo delle opere razziate e requisite in Italia e nei Paesi Bassi dalle truppe napoleoniche, anche le raccolte di Brera nel giro di pochi anni conobbero un incremento spettacolare, grazie all´infaticabile azione di Bossi e dei suoi emissari al seguito dell´Armée d´Italie, che in ossequio ai criteri enciclopedici allora vigenti, pianificarono innumerevoli requisizioni in Veneto, Emilia-Romagna e Marche allo scopo di colmare le lacune più gravi.
Sempre in quest´ottica si forzò la quadreria arcivescovile di Milano a cedere dipinti e disegni di ambito leonardesco e raffaellesco, si stipularono accordi con il Louvre per ricevere in scambio quadri in rappresentanza delle Scuole fiamminghe e olandesi, né si mancò di procedere ad una pianificata campagna di distacco di affreschi da chiese milanesi e lombarde, con conseguente acquisizione di importanti dipinti murali dei maggiori esponenti del Rinascimento lombardo.
Da allora ad oggi, pur decelerando, il ritmo di crescita delle raccolte non si è mai interrotto, grazie ad una politica di donazioni e acquisti mirati. Tra questi ultimi, basterà ricordare due casi famosi: quello del Cristo morto di Mantegna, comprato agli eredi di Giuseppe Bossi nel 1824, e quello della Cena in Emmaus di Caravaggio, che fu acquistata dall´Associazione degli Amici di Brera nel 1939, con il determinante contributo dell´ex Soprintendente Ettore Modigliani, che riuscì a portare a termine l´operazione nonostante fosse stato estromesso dalla carica a seguito delle ignominiose leggi razziali fasciste.
Per festeggiare il bicentenario della sua nascita, Brera si presenta in questi giorni al pubblico in veste rinnovata, con parecchie sale ritinteggiate e riallestite con dipinti disposti in doppio registro per esporre una parte delle opere custodite nei depositi. Ma non manca un denso programma di mostre a tema, che hanno la duplice accortezza di essere di dimensioni contenute, per non interferire con il normale percorso di visita, e di scalarsi lungo l´arco di dodici mesi, in modo da invitare il pubblico a tornare più volte in Pinacoteca e a riattivare quel rapporto di consuetudine tra cittadinanza e museo, che si è andato affievolendo un po´ ovunque in questi ultimi decenni dominati dall´assordante richiamo dei «grandi eventi».
Ad aprire l´anno di celebrazioni ecco ora questa prima mostra, ubicata nella sala XV, che consiste in solo quattro quadri - ma che quadri! (Caravaggio ospita Caravaggio, a cura di M. Gregori e A. Pacia, fino al 29 marzo). Nel solco delle mostre-dossier del Louvre e «In focus» della National Gallery londinese, la minirassegna nasce attorno ad un capolavoro appartenente alle raccolte di Brera, la Cena in Emmaus di Caravaggio, acquistata nel 1939 dalla collezione romana del principe Patrizi. Ad essa, grazie al prestito di tre prestigiosi musei, sono stati affiancati l´altra versione autografa dello stesso tema, appartenente alla National Gallery di Londra, e due capolavori giovanili del grande artista lombardo: il Ragazzo con canestro di frutta della Galleria Borghese di Roma e il Concerto di giovani del Metropolitan Museum di New York.
La tela della Borghese è una delle prime eseguite da Caravaggio appena giunto a Roma nel 1593, quando entrò per qualche mese nella bottega dell´allora celeberrimo Cavalier d´Arpino, distinguendosi per la produzione di quadri con mezze figure di giovani modelli (tra cui se stesso), in pose allusivamente omoerotiche, accompagnati da brani di natura morta sbalorditivi per verosimiglianza naturalistica. Come nel caso del lussureggiante canestro di frutta che il protagonista di questa tela sembra offrire a noi spettatori, con un esplicito invito al godimento dei sensi cui si affianca un richiamo alla fugacità del piacere (i bachi in certi frutti troppo maturi, foglie già sul punto di appassire). Il dipinto fa parte di quel consistente gruppo di tele di cui riuscì ad impadronirsi nel 1607 il «cardinal nepote» Scipione Borghese, famelico collezionista di opere di Caravaggio, facendo prima incarcerare il Cavalier d´Arpino per possesso illegale di archibugi, per poi consentirne il rilascio in cambio di un ghiotto sequestro di quadri di sua proprietà.
Il Concerto di New York fu invece realizzato intorno al 1695, quando il pittore era entrato al servizio del cardinal Del Monte, colto rappresentante della Corte medicea presso quella papale. Anch´esso partecipa del clima omoerotico delle prime tele, cui si aggiunge il tema della musica, anch´esso particolarmente caro al cardinale.
Pur avendo sofferto parecchio, è un quadro cui non mancano brani di sontuoso splendore, ma è importante anche perché fu quasi certamente il primo in cui l´artista sperimentò una composizione a più figure, mostrando ancora qualche impaccio nella concatenazione spaziale ed emotiva dell´episodio.
Quanto al confronto ravvicinato tra le due versioni della Cena in Emmaus, esso non fa che confermare la stupefacente rapidità dell´evoluzione stilistica dell´artista: i dipinti infatti sono separati da solo cinque anni - il primo, quello di Londra fu realizzato per Ciriaco Mattei a Roma nel 1601, mentre quello di Brera fu quasi certamente eseguito nell´ultimo scorcio del 1606 a Zagarolo o a Palestrina, quando Caravaggio dovette fuggire da Roma dopo aver ucciso Ranuccio Tomassoni per un banale litigio mentre assisteva al gioco della pallacorda.
Il primo dipinto è un abbagliante saggio di vigoroso realismo, tutto giocato sulla nitida incisività ottica della resa delle figure e delle nature morte, sull´efficacia retorica dell´illusività prospettica e di una gestualità perentoria: il gesto benedicente di un Gesù giovane e sbarbato, a giustificazione del mancato riconoscimento da parte degli Apostoli, il cesto di frutta in bilico sulla tavola, Pietro che, alludendo alla croce, spalanca le braccia come a misurare la distanza che ci separa dallo sfondo e il suo compagno di spalle, che nel sollevarsi dalla sedia sembra invadere lo spazio di noi spettatori fino a «bucare» illusoriamente con il gomito dalla manica strappata l´invisibile barriera della superficie dipinta. La seconda versione è invece più concentrata e sommessa. I gesti e gli scorci sono meno enfatici: prevalgono i toni lividi e terrosi, la tenebra avvolge la scena e la luce, sapientemente calibrata, scava i volti assorti ed intenti, creando un´atmosfera trepidante e meditativa, velata di malinconia.

Repubblica 19.1.09
L’esposizione a Roma. Le imprese e il mito di Cesare
di Giuseppe M. Della Fina


Può il progetto di una biografia trasformarsi in un´esposizione? E la scommessa affrontata dai curatori della mostra Giulio Cesare. L´uomo, le imprese, il mito allestita a Roma negli spazi del Chiostro del Bramante (sino al 3 maggio 2009). Essi hanno voluto ripercorrere le vicende della vita di uno dei protagonisti principali della storia romana, ricostruire il ruolo da lui avuto nei decenni convulsi che videro la destrutturazione degli assetti repubblicani e gettare uno sguardo sulla sua epoca, in particolare, sulla produzione artistica e artigianale del tempo.
Non solo, hanno cercato di dare conto della multiforme personalità di Giulio Cesare: uomo politico spregiudicato e, al contempo, di grandi visioni; comandante militare di eccezionale valore; scrittore di vaglia notevole. Infine hanno tentato di ripercorrere il suo mito a partire all´età medievale sino ai giorni nostri con la segnalazione della presenza di Giulio Cesare nei videogiochi.
L´esperimento è riuscito? Sostanzialmente sì, anche se il rinvio al catalogo della mostra curato da Giovanni Gentili e pubblicato da Silvana Editoriale appare necessario. Soprattutto la lettura della prima parte di esso - dove sono presentati 14 interessanti saggi - diviene indispensabile per comprendere a pieno la mostra. E´ Giuseppe Zecchini ad offrirci una possibile lettura della esperienza umana e politica di Giulio Cesare; è Giovanni Brizzi a proporci una ricostruzione della sua formazione militare: dagli studi giovanili sui trattati bellici all´esperienza diretta di combattimento; è Luciano Canfora ad analizzarne criticamente la produzione letteraria: dai componimenti della giovinezza - la raccolta di poesie Lodi di Ercole e la tragedia Edipo - tolti dalla circolazione dal figlio adottivo ed erede Augusto, sino alle opere celebrate della maturità che contribuirono a creare il suo mito come condottiero. Sono Paolo Liverani e Paul Zanker ha restituirci gli interventi sugli assetti urbanistici di Roma e a mostrarci i tempi e i modi di una strategia di propaganda arrivata alla divinizzazione.
Tornando al percorso espositivo, va segnalata la ricca serie dei ritratti esposti iniziando da quelli dello stesso Giulio Cesare; colpisce, in particolare, il cosiddetto Cesare Chiaramonti proveniente dai Musei Vaticani che rimane impresso per i tratti fortemente marcati e idealizzati. Poi i ritratti di protagonisti del tempo quali, ad esempio, Cleopatra o Giuba I. Quindi vanno evidenziate le monete e le gemme considerate correttamente come strumenti privilegiati della propaganda: l´immagine del reggitore dello Stato presentata a tutti.
Infine - siamo nella sezione della fortuna - l´olio su tela di incerta assegnazione, ma già attribuito a Rubens, con la scena della consegna della testa di Pompeo a Giulio Cesare, o le tele che raffigurano le Idi di Marzo, o ancora il quadro ottocentesco di H. P. Motte con la resa di Vercingetorige che impressionò favorevolmente lo scrittore Guy de Maupassant.

Repubblica 19.1.09
Forlì. Canova, L'ideale classico tra scultura e pittura
Musei di San Domenico. Dal 25 gennaio.


Non tutti sanno che per la città lo scultore creò tre opere: una versione della Ebe , realizzata tra il 1816-17, la Danzatrice col dito al mento del 1814, destinata al banchiere Domenico Manzoni e andata dispersa, la Stele funeraria del suo committente, conservata nella chiesa della Santissima Trinità. Una mostra-evento ripercorre ora attraverso centosessanta capolavori l'attività di Canova, ponendo per la prima volta a confronto le sue opere con i modelli antichi, a cui si è ispirato, come la straordinaria Danzatrice di Tivoli , e con i dipinti di artisti del suo tempo, come Hayez. L'esposizione, curata da Antonio Paolucci, Fernando Mazzocca e Sergej Androsov, propone alcuni confronti esemplari con Raffaello e Tiziano e altri capolavori che furono fonte d'ispirazione per molti artisti neoclassici.

Repubblica 19.1.09
Bologna. Giorgio Morandi 1890-1964
Mambo. Dal 22 gennaio.


Viene oggi riproposta nella città natale del maestro la retrospettiva allestita con grande successo al Metropolitan di New York. L'esposizione, che raccoglie oltre cento capolavori, riporta a Bologna molti dipinti oggi conservati nei musei stranieri o provenienti dalle collezioni di amici e studiosi del pittore, Longhi, Brandi, Vitali, Soby, Ragghianti, Venturi e Rewald. La rassegna documenta l'evoluzione della sua attività, a partire dalla ricerca metafisica fino alle ultime ricerche, dando al contempo significativa testimonianza delle sue tecniche e della sua metodologia di lavoro, dalla pittura all'incisione, dal disegno all'acquerello. La mostra, curata da Maria Cristina Bandera e Renato Miracco, si inserisce in un percorso morandiano che include il Museo Morandi di Palazzo Accursio e l'abitazione dell'artista in via Fondazza. Casa Morandi, ancora in restauro, riaprirà i battenti in primavera.

Corriere della Sera 19.1.09
Romanzi Angela Scarparo indaga nevrosi e ossessioni di oggi
Donne instabili e uomini inetti, l'impossibilità di incontrarsi
di Andrea Garibaldi


C'è una scena, verso l'epilogo. Elisa aspetta l'uomo che l'ha lasciata, un avvocato, sotto l'ufficio. Ha in mano una rosa, per lui. Lui rifiuta («Ne ho già tante io di queste... »). Mentre lui fugge per le scale, Elisa gli schiaccia la rosa sulla schiena.
Angela Scarparo scrive sceneggiature per il cinema, ha alle spalle tre romanzi e si è laureata in legge con una tesi su Franco Basaglia. In questo L'arte di comandare gli uomini (Manni, pp. 209, e 15) ci porta nei pensieri di Elisa, che non è riuscita a diventare pittrice, che non ce l'ha fatta a fare l'avvocata, che non è capace nemmeno a fare il palo per un furto. Inseguendo Elisa, si tende a volerle bene, ma subito si prova rabbia. È buona, è tenera, ma troppo impegnata su se stessa, non esce mai davvero fuori, non trova e non ottiene solidarietà.
Si sente bella. Un attimo dopo, si vede brutta, vede le sue rughe negli occhi di chi ha davanti. Vaga per Roma, vaga per Milano, infagottata in abiti grandi, macchiati. Piccola Charlot. Combatte soprattutto con gli uomini. Ruggero, che l'ha lasciata, che ha paura dell'anormalità di Elisa, di finire, con lei, trascinato giù, in qualche gorgo dove non saprebbe sopravvivere. Ulderico, un debole: la vorrebbe, non la vorrebbe, alla fine meglio non ficcarsi nei guai, restare con le proprie sofferenze. Lo zio Renato, meschino, si è impossessato dell'eredità delle nipoti. Valerio, il più rozzo, ma il più delicato, l'unico che le porge il braccio, ogni tanto. Solo che Elisa lo respinge. Maltratta chi tenta di avvicinarla, cerca chi, con cattiveria, la scansa.
Così, la storia di Elisa è quella di una disperazione che non ha esiti, sull'altalena della depressione e delle temporanee esaltazioni. Finisce su una panchina del ponte che, a Roma, da Testaccio porta a Trastevere. Finisce davanti a un cinema, rifiutando, ancora, un uomo che avrebbe potuto essere gentile, un poeta, figuriamoci! finisce vestita di un'orrenda tuta a fiori, ma con le scarpe di Ferragamo. Non è una tragedia, si va avanti...

domenica 18 gennaio 2009

l'Unità 18.1.09
Intervista a Nawal El Saadawi
«Uccidere Gaza è un crimine contro l’umanità»
di Umberto De Giovannangeli


La scrittrice egiziana: «Il mondo deve imporre sanzioni allo Stato ebraico per il massacro. Le vittime civili non sono danni collaterali»

Sono indignata. Sconvolta. Furiosa. Hanno bombardato ospedali, scuole dell’Onu, colpito centri della Croce Rossa, ambulanze... Le loro bombe hanno ucciso centinaia di bambini, ferito e terrorizzato altre migliaia. Cosa altro deve accadere a Gaza perché il mondo cosiddetto libero, civile, democratico, si rivolti e agisca per porre fine ai crimini di guerra e contro l’umanità che Israele sta perpetrando contro una popolazione già pesantemente provata da mesi di assedio? Quale altro scempio di vite umane deve realizzarsi perché si applichino sanzioni contro uno Stato che agisce al di fuori e contro il diritto umanitario internazionale e la stessa Convenzione di Ginevra?».
L’indignazione. È il sentimento che tiene assieme le amare considerazioni di Nawal El Saadawi, l’autrice egiziana femminista più conosciuta e premiata. I suoi scritti sono tradotti in più di trenta lingue in tutto il mondo. Per le sue battaglie in difesa dei diritti delle donne e per la democrazia nel mondo araba, la scrittrice egiziana, 78 anni, compare su una lista di condannati a morte emanata da alcune organizzazioni integraliste.
«La mia idea di società - dice - è agli antipodi rispetto a quanto professato da gruppi fondamentalisti come Hamas, ma questo nulla toglie alla gravità inaudita di ciò che Israele sta facendo a Gaza. Israele sta punendo una popolazione per aver votato Hamas. Lo ha fatto prima affamandola con l’embargo e ora riducendo Gaza ad un ammasso di macerie».
Ciò che resta di Gaza. Così l’Unità ha titolato l’altro ieri la sua prima pagina, mostrando una umanità sofferente muoversi come fantasmi tra le macerie.
«Ciò che resta di Gaza. Io aggiungerei ciò che resta della coscienza di quel mondo che si vuole libero, democratico, rispettoso della dignità della persona. Ciò che resta di fronte al massacro di civili ordito da Israele a Gaza. Ciò che resta della credibilità di una comunità internazionale che non ha un sussulto di dignità imponendo a Israele la fine delle azioni criminali nella Striscia. Per molto meno in altre situazioni si sono imposte sanzioni a Stati che avevano violato la legalità internazionale. Con Israele no. Israele sembra godere di una sorta di impunità permanente. Siamo alla replica di quella odiosa politica dei due pesi e due misure che ha portato tanta acqua al mulino dei gruppi fondamentalisti nel mondo arabo. Ho perso ormai il conto delle risoluzioni Onu che Israele ha violato, senza mai, dico mai, subirne conseguenze».
Israele rivendica il suo diritto alla difesa.
«Un massacro di civili, le centinaia di bambini uccisi, e altre migliaia feriti o traumatizzati, una città ridotta a un cumulo di macerie, questo scempio di vite umane può dirsi esercizio di difesa? Il solo pensarlo è aberrante. Quei bambini uccisi, feriti, traumatizzati non sono un danno collaterale a un legittimo esercizio di difesa. Quei bambini sono l’essenza della guerra condotta da Israele a Gaza. Agendo in questo modo, peraltro, Israele accresce l’odio verso di sé nel mondo arabo, e non solo in esso. I corpi senza vita dei bambini palestinesi sono il manifesto per il reclutamento di un esercito di shahid (martiri) manovrato da personaggi, come Osama Bin Laden, che hanno sempre disprezzato la causa palestinese. L’arroganza della forza militare si ritorcerà contro Israele».
Come giudica l’atteggiamento tenuto dai leader arabi di fronte a questa drammatica crisi?
«Intriso di retorica e ambiguità. Come sempre. Ognuno gioca la sua partita sulla pelle dei palestinesi».
Il presidente eletto degli Usa, Barack Obama, ha promesso di porre la questione israelo-palestinese al primo punto della sua agenda internazionale.
«Ho fiducia in Obama. Lui parla di Muri da abbattere, di speranze da realizzare. Parta da Gaza per dimostrare che l’America ha davvero deciso di voltar pagina».

Liberazione 18.1.09
Marc Garlasco analista di Human Rights Whatch
«Armi vietate nella Striscia
Ci vuole un'inchiesta»
di Francesca Marretta


Gerusalemme. Marc Garlasco, analista militare dell'organizzazione internazionale per i diritti umani con sede in America ed Europa, Human Rights Whatch (Hrw) , si trova in Israele per indagare sulla legalitá dell'uso delle armi impiegate a Gaza. Ogni giorno si sposta dalla base dell'organizzazione al settimo piano di un palazzo in via Betzelel a Gerusalemme Ovest, all'autostrada 232, punto di osservazione al confine con Gaza dei bombardamenti israeliani.

Conferma che a Gaza sono usate armi al fosforo bianco?
Siamo assolutamente convinti che Israele le stia usando. Ho osservato personalmente i bombardamenti a due chilometri dal confine con Gaza per una settimana. Avevo chiara la visuale su Jabalya e le zone del nord. E ho visto usare dozzine di bombe al fosforo tirate con l'artiglieria. Il fosforo bianco ha una firma visiva unica e singolare. Si presenta sotto forma di una specie di medusa, con una grande testa bianca e tentacoli che vengono giù. Mi sono anche consultato con amici nell'esercito americano, che mi hanno confermato in base alle mie descrizioni, che non poteva essere altro che fosforo. A parte tutto da Gaza ci arrivano i numeri di serie delle parti di artiglieria rimasti sul terreno. Sono tracciabili: Made in Usa, abbiano anno e luogo di produzione, e abbiamo trovato ulteriori conferme.

L'uso di armi al fosforo in zone densamente popolare rende Israele responsabile di crimini di guerra?
L'uso di fosforo bianco in una realtá come quella di Gaza è certamente illegale, ma per parlare di crimini di guerra, dal punto di vista tecnico, deve essere provata l'intenzionalitá di colpire civili. Possiamo certamente parlare di violazione della Convenzione di Ginevra. Ma non possiamo fare ricerche sul campo perché il governo israeliano ci nega l'ingresso a Gaza. Io sono certo che sia usato il fosforo bianco, ma occorre produrre una documentazione che dimostri chi, dove, come e quando è stato colpito da questo tipo di armi. Che ci dica se il fosforo è stato usato per illuminare o per colpire. Questo lo possiamo accertare solo sul campo.

Quali sono le conseguenze dell'uso del fosforo sulle persone?
I medici di Gaza ci riferiscono di bruciature provocate da agenti chimici esattamente compatibili con quelle da fosforo bianco. Non sono un medico, ma le conseguenze a lungo termine dipendono dall'inalazione del fumo che provoca danni permanenti ai polmoni.

E quelle per l'ambiente in un posto come Gaza?
Dipende a che livello il fosforo si impregna nel terreno. Ma su qualunque superficie impattata si sviluppano incendi che non si spengono finché tutto il carburante si consuma. Poi rimane una specie di plastica rappresa. Per ogni colpo di artiglieria ci sono centosedici proiettli al fosforo.

Crede possibile che qualcuno finisca sul banco degli imputati per uso di armi illegali a Gaza?
Quando si parla di accertamento e pene per le responsabilità in guerra, in particolare per i militari, la casistica, è molto scarsa. In parte perché esistono scappatoie a livello di diritto internazionale, ma sopratutto per questioni politiche. Tuttavia alcuni risultati sono stati raggiunti. Ad esempio nel caso di operazioni militari condotte a Gaza in passato, come l'"operazione arcobaleno", alcuni dei comandanti ora hanno paura di andare all'estero per timore di essere arrestati su mandato di organismi internazionali.

Ma non sono i politici i responsabili, in ultima istanza?
Si, ma c'è anche la responsabilità di chi si trova in posizioni di comando negli eserciti. I militari sono responsabili di come vengono usate le armi.

Possono rifiutarsi di usare certi tipi di armi?
Certo. Rientra nei loro diritti. Ma nella realtá un rifiuto del genere gli rovina la carriera. La questione è stabilire se per un militare è più importante la carriera o rifiutarsi di commettere atti illeciti.

Ha parlato con responsabili dell'esercito israeliano sull'uso di queste armi?
Abbiamo avanzato numerose richieste al governo israeliano, ma finora non abbiamo avuto risposta positiva.

E come si giustificano di fronte ad un esperto in materia?
Cercano di creare una cortina di fumo. Non negano di usare il fosforo, sottolineano solo che tutte le armi che utilizzano sono legali. In ultima istanza incolpano di tutto Hamas. Io rispondo che il fatto che una parte víola il diritto internazionale non autorizza l'altra a fare altrettanto.

Sono state usate altre armi illegali oltre quelle al fosforo a Gaza?
Certo. Perché il problema riguarda anche come vengono usate quelle considerate legali. A Gaza sono state usate armi particolari, come le Gbu39 impiegate per distruggere i tunnel sotterranei: bombe piccole che penetrano nel terreno. Inoltre c'è il problema dell'uso dell'artiglieria in un'area così densamente popolata come quella di Gaza City. Si tratta di una flagrante violazione della Convenzione di Ginevra. Come dimostrano le cifre sui morti è impossibile evitare di colpire i civili.

Avete chiesto un'inchiesta internazionale per accertare responsabilità.
Si. Chiediamo che un organismo internazionale lavori a Gaza per accertare le violazioni di cui si sono rese responsabili le due parti in conflitto. Non è possibile che un'inchiesta sia svolta dagli Israeliani, né da Hamas. Stiamo lavorando sulla pressione combinata di Onu, Hrw e altre organizzazioni internazionali. Anche del Comitato internazionale della Croce rossa da dietro le quinte.

Crede che l'insediamento di Obama possa favorire un'inchiesta di questo tipo?
Non ho fiducia, ma ho speranza che possa accadere.

Repubblica 18.1.09
La clinica convenzionata Città di Udine ha comunicato venerdì scorso che non potrà effettuare l´intervento richiesto dalla famiglia Englaro e autorizzato dalla Cassazione, per porre fine alla vita vegetativa di Eluana a diciotto anni di distanza dal suo inizio. La suddetta clinica era disposta ad eseguire ciò che la famiglia voleva e che la magistratura aveva autorizzato, ma ne è stata impedita dall´intervento del ministro Sacconi il quale ha minacciato di far cessare i rimborsi dovuti alla clinica per le degenze dei suoi clienti, costringendola quindi a sospendere la sua attività.
La decisione d´un ministro ha cioè la forza di impedire che una sentenza abbia corso. Si tratta d´un fatto di estrema gravità politica e costituzionale, di un precedente che mette a rischio la divisione dei poteri e la natura stessa della democrazia. Poiché si invoca da molte parti una riforma della giustizia condivisa con l´opposizione, a nostro giudizio si è ora creata una questione preliminare: non si può procedere ad alcuna riforma condivisa se non viene immediatamente sanata una ferita così profonda. Se la volontà politica di un ministro o anche di un intero governo può impedire l´esecuzione di una sentenza definitiva vuol dire che lo Stato di diritto non esiste più e quindi non esiste più un ordine giudiziario indipendente.
Non c´è altro da aggiungere per commentare una sopraffazione così palese e una violazione così patente dell´ordinamento costituzionale.

Repubblica 18.1.09
Cercando la radice araba del Messico
Lettera dal Messico
di Tahar Ben Jelloun


Diario di viaggio dello scrittore nordafricano nel Paese delle tre culture: quella amerindia, quella spagnola e quella meticcia. O meglio cinque, perché la Spagna sbarcò in America centrale anche con i suoi ebrei e suoi arabi musulmani. Da Campeche a Cuernavaca fino alla smisurata capitale, una nazione divisa tra il richiamo della modernità yankee e la venerazione per le sue intricate radici

Quando sono arrivato a Campeche, città 1295 chilometri a sud di Città del Messico, mi è sembrato di entrare in un romanzo del grande autore messicano Juan Rulfo (1918-1986). «Veder salire e scendere l´orizzonte con il vento che fa muovere le spighe e la sera increspata da una pioggia turbinosa. Il colore della terra, l´odore dell´erba medica e del pane. Un villaggio che odora di miele diffuso�», scrive in Pedro Paramo. Salvo che non c´era pioggia e l´erba era secca. Ma c´erano miele e pane di riso.
Questa città, che fu uno dei maggiori centri della civiltà maya, con le sue piramidi, le mura e le leggende, è la metafora di un Paese diviso tra l´attrazione per la modernità all´americana e la venerazione delle sue radici indie, spagnole, nere e arabe. Quelle origini sono lì presenti, visibili, nell´architettura, nello stile di vita, nei gesti e nei comportamenti della popolazione. Una simile ibridazione culturale nel tempo e nello spazio è una bella traccia delle civiltà che vi si sono alternate.
Campeche sembra paralizzata in un´epoca lontana, verso gli anni Cinquanta o anche prima. Le case sono modeste, le vie strette, i marciapiedi alti per evitare di camminare nell´acqua quando ci sono delle inondazioni, cosa che succede raramente. La gente è piccola di statura, con i lineamenti marcati, lo sguardo brunito, il sorriso vero. Contrariamente alla capitale, qui non si vive in alto; le case hanno terrazzi e non superano i due piani. Il mare è lì, ma la città gli volta le spalle. Forse è per questo che non se ne sentono gli odori, gli effluvi.
Infatti c´è un importante progetto per un porto turistico, campi da golf, grandi alberghi e tutto ciò che si fa dappertutto per attirare i turisti ricchi. Campeche non vuole più restare in disparte. Vuole vendersi e mostrarsi. Per giustificare questa trasformazione del paesaggio, i sostenitori dell´iniziativa dicono: «Quattromila anni fa non c´era un mercato dei valori, eppure i Maya sapevano dove investire». Campeche mira all´industria del turismo puntando sui valori di mercato. Non so che cosa ne pensino gli abitanti, che sembrano vivere su un pianeta dove il mondo li ha dimenticati, dove il tempo passa senza che nessun profeta si fermi. I prodotti cinesi hanno già invaso la piazza. La povertà attira la Cina. Per fortuna l´artigianato locale resiste ed è di buona qualità.
All´albergo, incantevole, insieme alla chiave mi danno un flacone di un prodotto contro le zanzare. Dico che non vedo zanzare. Sono effettivamente invisibili e la loro puntura è dolorosa e brucia. Si chiamano "chaquistes". Abituato alle zanzare mediterranee che arrivano accompagnate dalla musica, cantando attorno all´orecchio prima di pungere, lì nessun rumore mi ha informato; ho passato un bel pezzo a cercarle per la camera. Zanzare virtuali o semplicemente così piccole che a occhio nudo non si vedono.
Le mura della città, molto spesse, sembrano conservare la memoria di questo popolo, depositata nelle fessure e nelle screpolature della pietra. È il mormorio dei Maya e il ricordo dell´occupazione spagnola. Un ricordo mitigato. Nel 2010 il Messico celebra il bicentenario dell´indipendenza. Il vento cambia il colore delle cose. La gente ha qualcosa di mediterraneo senza saperlo. Ma io l´ho visto nel loro modo di essere e di accogliere gli stranieri.
Cuernavaca è vicina a Città del Messico, a un centinaio di chilometri. In pieno centro c´è una chiesa del Sedicesimo secolo. Le pareti immense sono nere di muffa. Si direbbe un luogo di culto abbandonato. Siamo in un film di Sergio Leone. Mancano solo il vento e la palla di sterpi secchi che rotola come per avvertire che il dramma è imminente. Ma in questa città c´è il centro storico Coyoacan e la più importante fabbrica di mosaici dell´America latina. Anche qui c´è il miele, la buona cucina con l´inevitabile peperoncino che ti strappa la lingua e che un sorso di tequila allevia appena. Una caratteristica apprezzabile ovunque è la disponibilità dei ristoratori. Ti servono a qualunque ora e in più sono di grande gentilezza, un aspetto affascinante per chi arriva da certe capitali europee dove il cliente non è né re né servitore, ma una preda da spennare e maltrattare.
Città del Messico è una megalopoli di venti milioni di abitanti. Il pensiero di attraversarla fa paura. Apparentemente, lo Stato ha ridotto il tasso d´inquinamento rispetto a una ventina di anni fa, quando facevo fatica a respirare. Detto questo, c´è un traffico assurdo e conviene accontentarsi di circolare in uno spazio limitato e non cercare di presentarsi a un appuntamento all´altro capo della città. Non ci arrivereste, a meno che mettiate in preventivo qualche ora di auto. Non so perché ma in questa capitale non ho visto biciclette né moto, mentre sarebbe un buon modo per lottare contro gli imbottigliamenti. I messicani non corrono su due ruote. È così e nessuno se lo spiega.
Questo vasto Paese manca di spazio, e lo dimostra il fatto che lo Stato non riesce a spostare l´aeroporto, che si trova quasi nel centro della città, tant´è che le piste d´atterraggio sono fiancheggiate da edifici. Gli aerei passano sopra la città in continuazione, come gli elicotteri. Questo spiega gli incidenti avvenuti negli ultimi anni, l´ultimo dei quali è costato la vita al giovane ministro dell´Interno e a parte del suo staff. Hanno detto che non è stato un incidente. Qualcuno pensava che potesse trattarsi di un colpo dei narcotrafficanti, contro i quali lo Stato ha deciso di condurre una guerra senza tregua.
Qui non si parla molto di politica, ma si osserva con ironia quanto accade nel Paese di Chávez. Nondimeno, l´ex presidente Echeverría, Segretario di Stato all´epoca della rivolta studentesca del 1968 in Plaça de Las Tres Culturas a Tlatelolco, dove una repressione selvaggia causò la morte di centinaia di contestatori, ora siede al banco degli imputati (Octavio Paz, allora ambasciatore a Parigi, si era dimesso dalla carica per protesta contro il massacro). Quarant´anni dopo, le ferite sono ancora nelle memorie. Le tre culture sono la cultura amerindia, quella spagnola e la cultura meticcia. Hanno trascurato quella araba, benché la Spagna del dopo Inquisizione fosse sbarcata anche con i suoi ebrei e i suoi musulmani.
Questo Paese, confinante con gli Stati Uniti, non sfugge alla crisi e alle sue angosce. Se ne parla e non si sa quello che succederà. Il cittadino - una grande classe media - continua a lavorare come se quanto avviene nel mondo gli fosse estraneo. Uomo pacifico, il messicano ama la derisione a cominciare dalla sdrammatizzazione della morte. Una vecchia tradizione ereditata degli amerindi, i cui antenati hanno avuto molto a che fare con la morte, vuole che la si rappresenti in vesti comiche e ridicole. Lo testimonia il Museo delle Arti popolari, dove gli scheletri ballano il tango o la rumba, prendono la tintarella, si sposano e portano a spasso i figlioletti in un paradiso verdeggiante.
Gli uomini messicani non si baciano: si mettono petto contro petto e si danno pacche sulla schiena. Le donne si baciano su una sola guancia. Sono piccoli dettagli che definiscono i gesti e i modi del vivere insieme. I complimenti si prodigano sistematicamente; la parola che ho sentito più spesso per dire che qualcuno è buono, meraviglioso, è stata «rico» (ricco)! Ma non nel senso finanziario. Essere rico significa essere molto gentili, umani, calorosi. A una donna non si dirà «guapa», la parola spagnola che significa bella, bensì «hermosa», che significa graziosa. Nei negozi, le commesse ti dicono «saremo sempre qui per servirla». Quando si viene da Parigi, queste piccole attenzioni fanno piacere.
Ai messicani dispiace che l´Europa dia del loro Paese un´immagine oscura, con omicidi in serie, aggressioni a mano armata, rapimenti eccetera. Le Figaro del 16 dicembre 2008 titolava in seconda pagina su sei colonne: «Ciudad Juarez, la città più mortale del mondo». Il giornalista spiega che «da quando il presidente Felipe Calderón ha dichiarato guerra ai narcotrafficanti, gli omicidi sono esplosi. La città sul confine con gli Stati Uniti batte tutti i record di violenza». Da quando gli Stati Uniti hanno assegnato un aiuto di 1,4 miliardi di dollari nell´arco di tre anni per finanziare questa lotta, in un anno la violenza è aumentata del 117 per cento (5376 omicidi in tutto il Paese).
I messicani dicono: «Ma quello succede lontano dalla capitale; sono criminali che si ammazzano tra loro�». È vero, ma le misure di sicurezza personale si sono generalizzate, un po´ come in Brasile. La paura del rapimento è oggettiva. Mi hanno sconsigliato di prendere un taxi a caso, bisogna passare per una centrale o una stazione dove sia presente un agente di controllo. A parte questo, la vita scorre con una certa dolcezza, le strade sono piene di gente giorno e notte, nei bar e nei ristoranti ci sono cantanti e musicisti vecchio stile. Per cinque euro vi interpretano la canzone che volete. Romantico. La violenza è lontana. I giovani che uccidono per mille pesos (sessantanove euro) sono a Ciudad Juarez!
Il Messico vede tutto in grande: le librerie sono immense, e così i musei. Presto il Paese avrà la sua mascotte: un cagnolino chiamato Xico disegnato da Cristina Pineda, un´artista tra le più apprezzate del Messico. Trentasei anni, è un vulcano di idee. Artista e donna d´affari, cerca di ispirarsi alla tradizione degli antenati maya per disegnare vestiti e oggetti della vita moderna. Così, di fronte alla chiesa del Sedicesimo secolo di Cuernavaca, un cane di mosaico alto due metri veglierà sulla città e sullo spirito d´innovazione di un Messico che vuole contrassegnare la propria presenza nel mondo con un´immagine diversa dalla violenza. Il fatto che l´ospite principale del Salone del libro di Parigi che si svolgerà nel marzo 2009 sia la letteratura messicana è un bel riconoscimento della grande cultura di questo Paese, illustrata tanto dall´immenso talento di Juan Rulfo, che da quello di Carlos Fuentes, o del premio Nobel Octavio Paz, che evocando le bougainvillee di Città del Messico parla di una «tracciata dal sole / purpurea calligrafia della passione».
Traduzione di Elda Volterrani

Corriere della Sera 18.1.09
Il nuovo direttore di «Liberazione»
Greco, accuse Fiom. Lui: altri i miei biografi


ROMA — Lo attaccano duramente con una lettera a doppia firma, pubblicata in prima pagina dal Riformista.
Perché per i due esponenti di Rifondazione comunista, Maurizio Zipponi e Osvaldo Squassina, il nuovo direttore di
Liberazione, Dino Greco ( nella foto), negli otto anni in cui è stato segretario generale della Camera del Lavoro di Brescia, «non è mai riuscito a rappresentare gli operai», schierandosi più volte contro la Cgil locale.
E lui risponde per le rime: «Meritano solo una battuta di Woody Allen, quando dice che accapigliarsi con i cretini è sempre sbagliato perché c'è il rischio di confondere il bersaglio. E, comunque, ho ben altri biografi che Zipponi e Squassina».

Repubblica 18.1.09
L'infaticabile laboratorio della memoria
di Vera Schiavazzi


«Marco, vieni, c´è Primo Levi al telefono…». Marco Viglino aveva diciannove anni e si stava preparando alla maturità in un liceo cattolico privato quando una sera dell´aprile 1978 arrivò, a sorpresa, la telefonata dello scrittore dalla quale è nata l´intervista inedita che Repubblica propone qui accanto. Trent´anni dopo, l´autore di quella intervista è diventato magistrato, mentre a Torino è nato il centro di studi che dovrà raccogliere e catalogare il grande lascito di appunti e lettere dello scrittore. Un lavoro affidato alla direzione dello storico Fabio Levi che procede silenziosamente, con quello stesso stile schivo e riservato che caratterizzò la vita dello scrittore e - dopo la sua morte l´11 aprile del 1987 - quella dei suoi eredi, la vedova e i figli. Ma nelle scuole di Torino e del mondo l´opera di Levi assume oggi, mentre ci si prepara alle iniziative per il Giorno della Memoria, un nuovo significato.
È alla letteratura, infatti, ma anche al cinema, alla musica, al teatro che si affida il ricordo della Shoah, ora che i testimoni in grado di parlarne diventano sempre più rari. Il 26 gennaio a Torino Ernesto Ferrero, scrittore e direttore della Fiera del Libro, ne parlerà alla giornata di studi promossa dalla comunità ebraica, con un intervento dedicato proprio allo scrittore torinese: «Primo Levi sapeva benissimo che la memoria da sola non basta, perché la memoria a suo modo è una scrittura, anzi, una ri-scrittura continua che si allontana ogni volta dal ricordo originale. La memoria è un materiale tra i tanti, e come è spiegato magistralmente ne I sommersi e i salvati, va sottoposta a un vaglio stringente, a verifiche, controprove documentarie. Solo così, facendone oggetto di un´attività di laboratorio rigorosa e continua, può essere utilea unavera antropologia della banalità del male».
Anche per questo l´intervista inedita ritrovata da Viglino ha un valore speciale, soprattutto per chi ha avuto la fortuna di raccoglierla. «La lettura di Se questo è un uomo mi aveva sconvolto - racconta Viglino, oggi giudice al Tribunale di sorveglianza di Torino -. Così, avevo dedicato a Levi la tesina che ognuno doveva preparare per l´esame finale. Ma una zia, a mia insaputa, ne fece una copia e la diede a una vicina di casa lontana parente dello scrittore. Quel compito da liceale arrivò fino a lui, gli piacque e mi telefonò. Ancora oggi, trent´anni dopo, mi commuovo pensando a quella semplicità, uno scrittore famoso che chiama un ragazzo sconosciuto».
Al telefono, Levi chiede a Viglino: «C´è qualcosa che posso fare per te? Qualcosa che ti farebbe piacere?», e l´altro non esita: «Vorrei incontrarla». «Mi invitò per il giorno dopo nella sua casa di corso Re Umberto (è l´appartamento alla Crocetta, dove Levi visse fino al giorno della morte, ndr), alle nove di sera. Mi fece accomodare sul vecchio sofà del suo studio, una piccola stanza piena di libri. Ero emozionato, febbricitante, quasi non osavo chiedergli di poter usare il registratore, ma per fortuna trovai il coraggio� Ora la sua voce - che era bellissima - è ancora lì, in una cassetta C90 da un´ora e mezza che non ho mai riascoltato dopo il lavoro fatto per scrivere l´intervista: ho paura che il nastro sia diventato fragile e possa rompersi. Passammo insieme tutta la serata, molte cose sul nastro non sono rimaste...». «Per trent´anni - conclude Viglino - quelle pagine scritte a macchina sono rimaste nel cassetto della mia scrivania di casa, non le ho mostrate quasi a nessuno perché ne ero geloso, ogni tanto andavo a rileggerle. Ma forse sono stato egoista, ed è venuto il momento di condividerle».

Repubblica 18.1.09
"Io, scampato al lager per poterlo raccontare"
Intervista inedita di Primo Levi
di Marco Viglino


"Volevo sopravvivere anche e soprattutto per testimoniare ciò che avevo visto". Comincia così, trent´anni fa, il lungo colloquio tra Primo Levi e uno studente che si preparava alla maturità con una tesina sullo scrittore. Nel flusso dei ricordi, anche la storia, mai scritta, del gesto di umanità di un kapò comunista verso un medico ebreo

Mi ha colpito il suo desiderio di rendere testimonianza sulla tragica esperienza nel lager: quando è nato questo desiderio? «Questo desiderio, del resto comune a molti, mi è nato nel lager. Volevamo sopravvivere anche e soprattutto per raccontare ciò che avevamo visto: questo era un discorso comune, nei pochi momenti di tregua che ci erano concessi. Del resto è un desiderio umano: lei non troverà mai un reduce che non racconti. (No, mi correggo, ve ne sono alcuni che non raccontano; ve ne sono alcuni che sono stati feriti talmente a fondo che hanno censurato il loro passato, l´hanno sepolto per non sentirselo più addosso). In primo luogo c´è il bisogno di scaricarsi, di buttare fuori quello che si ha dentro. Poi ci sono anche altri motivi... c´è forse anche il desiderio di farsi valere, di far sapere che siamo sopravvissuti a certe prove, che siamo stati più fortunati, o più abili, o più forti».

Il punto di contatto tra i primi libri e quelli di fantascienza, mi pare possa essere la sua «indignazione», che prima è rivolta al lager e poi verso certe storture della civiltà. È giusto?
«Sì, è giusto: è una domanda che mi fanno in molti e a cui veramente non sono il più autorizzato a rispondere, perché non è detto che chi scriva sappia sempre bene "perché" scrive. Io ho due radici: una è il senso del lager e l´altra è il senso della chimica con le sue dimensioni. Avevo in mente di scrivere qualcosa sulla storia naturale ancora prima di entrare nel lager: già da studente sentivo un desiderio del genere (non come progetto chiaro e distinto, ma come vaga aspirazione) e trovavo un terreno fertile nel mio mestiere di chimico. Perciò - dopo aver terminato Se questo è un uomo e La tregua - non è che io abbia "scritto" gli altri due libri: ho raccolto alcune idee e anche alcuni racconti che avevo già scritto prima. Per esempio, il primo racconto delle Storie naturali, quello del vecchio medico che raccoglie essenze, l´ho scritto prima di Se questo è un uomo. E... probabilmente sì, benché il tema sia diverso, anche gli altri scritti risentono dell´esperienza del lager, in una forma molto indiretta, in una forma di delusione profonda, di un ritirarsi dalla vita».
Tra i personaggi che si incontrano nei suoi libri, Lei mostra particolare simpatia e indulgenza verso alcuni che incarnano una certa "furbizia" o arte di arrangiarsi, come Cesare o il Greco.
«Anzitutto questi personaggi agiscono in un contesto tutto particolare, che è quello della fine della guerra: ora, su questo fondale, direi che si può essere abbastanza indulgenti. Non ammetterei, oggi, un Greco; lo eviterei, mi terrei lontano da lui, ma in quel momento lo sentivo quasi un maestro. Egli soleva dire: la guerra è sempre. E poi ancora mi diceva: "Vedi le scarpe belle che io ho: è perché sono andato a rubarle nei magazzini dei russi. Tu sei uno sciocco, non sei andato a cercarle". Io rispondevo che pensavo che la guerra fosse finita e che i russi avrebbero provveduto. "La guerra è sempre", mi ripeteva, e, allora, io ero d´accordo con lui. Oggi sarei più severo nei suoi riguardi, così anche nei riguardi di Cesare: ma la furbizia di Cesare era così solare, così aperta, così ingenua in fondo e così innocua che mi sta bene ancora adesso. Non sarei un censore tanto severo da escluderla, in quella forma: furbizia così "italiana", sempre mescolata con bonomia. Cesare ingrassava i pesci con l´acqua, poi però, davanti ai bambini affamati della donna russa, glieli regala. Questo fa parte di un´arte di vivere che è vecchia come il mondo e davanti alla quale non si può essere troppo severi».
Quella carica di ribellione che sta alla radice dei primi due libri si è attenuata con gli anni oppure no?
«Io contesto "quella carica di ribellione": di indignazione sì; di ribellione purtroppo no perché non c´era modo, almeno per chi era al mio livello. Ribellioni in senso tecnico ve ne sono state, in alcuni lager: l´episodio che ho raccontato di quell´impiccato che muore gridando "io sono l´ultimo!" si ricollega a una ribellione che c´era stata in un altro campo: i prigionieri avevano fatto saltare i forni crematori pochi giorni prima e costui, di cui non conosco neppure il nome, era implicato nella faccenda, probabilmente aveva procurato dell´esplosivo. Riprendendo, l´indignazione sì persiste, ma diciamo che si è ramificata. Sarebbe stupido oggi continuare a vedere il nemico solo lì, solo il nazista, anche se a mio parere è ancora il principale. Però il mondo di oggi è molto più articolato che non quello di una volta. Non erano bei tempi quelli in cui io ero giovane, però avevano il grande vantaggio che erano netti; l´alternativa amico/nemico era molto netta e la scelta non era difficile. Oggi lo è molto di più. Perciò anche l´indignazione persiste, ma è... erga omnes. Verso molti, non più verso "quelli"».
Nella famosa lettera al suo editore tedesco, lei dice che non può capire i tedeschi e quindi non si sente di giudicarli.
«No, ho detto che non li capisco, ma li giudico sì».
E come, allora?
«Li giudico male: sì, anche i tedeschi di oggi. Non tutti, naturalmente; io ho molti amici tedeschi, anche per il fatto che parlo la loro lingua, e mi interessano, e mi rifiuto di giudicarli in blocco. Però devo dire che, statisticamente, sono un paese pericoloso. Sono un pericolo intanto perché sono divisi in due e questo essi non lo accettano: pochi fra i tedeschi accettano questa divisione. E poi hanno delle virtù che diventano pericolose: questa loro straordinaria passione per la disciplina (che a noi manca - ed è male - ma loro ne hanno troppa!) per cui sono pronti ad accodarsi a chiunque comandi, mi fa paura».
Com´è che allora, sempre in quella lettera, lei dice che i tedeschi, oltre ad essere pericolo, sono speranza per l´Europa?
«Ecco... la lettera io l´ho scritta molti anni fa, nel �60, sulla corda dell´entusiasmo che avevo provato io per il fatto che un editore tedesco aveva accettato di pubblicare la mia testimonianza, e anche a seguito di vari contatti che avevo avuto allora con i giovani tedeschi degli anni Sessanta. E mi era sembrato che la Germania fosse veramente un´altra. Sembrava una roccaforte della democrazia, allora: oggi un po´ meno, anzi molto meno».
Come reagiva vedendo i compagni di sventura andare ogni giorno alla morte a causa della selezione: lo prendeva, alla fine, come un dato di fatto, o questo le procurava ogni volta lo stesso dolore e lo stesso disgusto?
«Ci si incontrava, al mattino, all´appello e quando ne mancava uno, era considerato di cattivo gusto andare a fondo, un po´ come capita oggi quando uno muore di cancro: non se ne parla volentieri. Era una forma di accettazione, in sostanza, per cui l´atteggiamento verso il compagno morto in selezione non era molto diverso da quello verso uno morto di morte naturale. Quel mio amico Alberto, di cui ho parlato a lungo, era in campo con il padre: era un ragazzo molto intelligente e insieme parlavamo sovente di queste cose, senza inibizioni e senza cedere a questa tendenza di negare la verità. Pure, quando il padre fu scelto per la selezione, Alberto disse di essere sicuro che suo padre non era mandato nelle "camere" bensì veniva trasferito con altri prigionieri in un altro campo di convalescenza. E io ero stupito e impressionato nel constatare come il mio amico si fosse prontamente costruito un riparo, per celarsi una realtà altrimenti intollerabile».
Data la mortalità elevatissima, pensa che la sua sopravvivenza sia dovuta a fortuna o ad altri fattori?
«Io penso che, in primo luogo, molto abbia giocato la fortuna. Inoltre non sono stato mai ammalato: mi sono ammalato più tardi, in modo provvidenziale. Ed ecco come avvenne. Io, lavorando in fabbrica, rubavo al laboratorio ciò che mi poteva servire per la sussistenza e puntualmente dividevo il bottino con Alberto; c´era infatti un patto tra di noi, per cui dividevamo fraternamente ogni colpo buono (ecco qui l´arte di arrangiarsi!). Un giorno che avevo rubato del tè in laboratorio, andai con Alberto a venderlo all´ospedale, dove ne avevano bisogno per gli ammalati. Ci pagarono con una gamella di zuppa, quasi gelata e già un po´ intaccata. Probabilmente era stata toccata da un malato di scarlattina: io presi la scarlattina, fui mandato in ospedale e sopravvissi; Alberto che aveva avuto la malattia da bambino, non ne fu contagiato e morì in campo. Altro fattore fondamentale per me è stato quell´operaio, Lorenzo, di Fossano, che mi ha portato per molti mesi quanto bastava per integrare le calorie mancanti. Egli, che pure non era un prigioniero, è tornato molto più disperato di me: era un uomo molto mite e molto pio, rozzo e insieme religioso, e era terrificato di quanto aveva visto, spaventato, ferito. È tornato in Italia da solo, a piedi, e non ha voluto più vivere. Ha incominciato a bere e, a me che lo andavo a trovare spesso, diceva molto freddamente che non desiderava più vivere, che ne aveva viste abbastanza. Morì tubercoloso; e infelice».
Qualche episodio insolito che ricorda e che non è stato detto nei suoi libri.
«C´era con noi un medico ebreo osservante. Lei sa che la religione ebraica prevede dei digiuni molto rigorosi: in quei giorni non si mangia niente e neppure si lavora. Questo medico alla sera - dopo il lavoro - disse al capo-baracca che la zuppa non la voleva, perché era giorno di digiuno e lui non la poteva mangiare. Il capo-baracca era un comunista tedesco, abbastanza indurito dal suo mestiere (aveva dieci anni di lager alle spalle), però, colpito dalla forza morale del prigioniero, gli conservò la zuppa fino a quando quest´ultimo non terminò il suo digiuno. Questo atto di umanità mi aveva molto impressionato».
Può stabilire un rapporto tra lei e gli altri scrittori di religione ebraica (Ginzburg, Bassani)?
«Un rapporto complesso c´è, evidentemente. L´ambiente di Natalia Ginzburg è il mio stesso ambiente; abbiamo parenti in comune; lei è nata Levi e suo fratello era il nostro medico. L´ambiente della borghesia ebraica torinese è quello in cui sono nato e cresciuto. Quello di Bassani è diverso; sia Bassani che i suoi personaggi appartengono ad un´altra borghesia ebraica, quella di Ferrara, che io conosco abbastanza poco. E che non mi piace tanto, perché erano una classe abbastanza consapevole dei propri privilegi, abbastanza esclusiva (vedi il famoso muro di cinta) e riservata e chiusa».
Per quale motivo la Ginzburg le ha rifiutato il manoscritto?
«Premetto che non le serbo rancore (ma forse sì, per un certo periodo gliene ho serbato). Ho pensato a tante cose: forse era satura di manoscritti - fare il lettore in una casa editrice è un brutto mestiere; si è costretti a falciare... poi... è un fatto che, pur conoscendola bene, non abbiamo mai chiarito».
Ha ancora dei contatti con i compagni del lager?
«Enick l´ho perso di vista completamente. Ho ritrovato invece quel Pikolo, quello del canto di Ulisse; con lui ci vediamo sovente; viene a fare le vacanze in Italia e fa il farmacista in un piccolo paese vicino a Strasburgo. È uno di quelli che hanno rimosso tutto: si è imborghesito completamente e non ama parlare di queste cose. Sono stato a trovarlo, l´ultima volta, con la Televisione italiana; gli ho chiesto di riceverci e mi ha risposto: te sì, ma le telecamere no. Poi però ha accettato anche loro, ma non volentieri».
Che pensa dei giovani d´oggi?
«La differenza fondamentale tra la nostra giovinezza e la giovinezza attuale è nella speranza di un futuro migliore, che noi avevamo in modo clamoroso e che ci sosteneva anche negli anni peggiori, anche nel lager: la meta c´era e era costruire un mondo nuovo di uguali diritti, dove la violenza era abolita o relegata in un angolo, costruire il Paese per riportarlo a livello europeo. Invece, i giovani d´oggi, mi pare abbiamo molte meno speranze. In generale vedo che tendono a scopi immediati, e questo forse è anche abbastanza giusto, in quanto non distinguono un altro futuro. Mi pare, paradossalmente, che sia stata più facile la nostra giovinezza, perché oggi sono troppi i mostri all´orizzonte: c´è il problema della violenza, il problema energetico, dell´inquinamento; il mondo è diviso in blocchi, c´è una totale incapacità di prevedere l´avvenire e nessuno osa fare previsioni sensate di qui a due anni. C´è sempre il problema atomico. Trovo che sono pochi i giovani che pensano di fare o studiare in qualche modo per un loro preciso futuro. È il senso del tramonto dei valori, per cui bisogna godere e bruciare tutto subito».
Come mai ha lasciato passare tanto tempo, quindici anni, da Se questo è un uomo alla seconda opera?
«Se questo è un uomo, edito nel �47 presso De Silva, uscì in duemilacinquecento copie: avevo delle buone recensioni, ma ho avuto cinquemila lettori (un libro lo leggono due persone in media). Dopodiché... non ho avuto più incentivo a scrivere; mi pareva di avere fatto il mio dovere di testimone, di essermi scaricato delle mie tensioni e non sentivo il bisogno di scrivere altro. Solo dopo molti anni mi ha ripreso questo desiderio, perché si è ricominciato a parlare della Seconda guerra mondiale, e dei lager in specie, in modo diverso, in senso storico appunto. Verso il �60, o forse prima, si tenne un ciclo di conferenze sul tema e io mi sono ritrovato protagonista: molti allora mi hanno incoraggiato a raccontare anche la seconda parte della mia esperienza, cioè il ritorno dalla Russia. Ripresi la penna anche per un altro motivo: era cessata la Guerra fredda e ora potevo raccontare la verità completa, umana. Prima era impossibile parlare della Russia: o se ne parlava come dell´inferno o come del paradiso. E io non me la sentivo, in un ambiente così, di scrivere un libro-verità come La tregua. Solo dopo la distensione è diventato possibile scrivere di queste cose in un linguaggio non retorico».
Perché è nato Malabaila?
«Perché sarebbe stato scandaloso a quel tempo: non avrei potuto, io, lo scrittore di Se questo è un uomo venire fuori a quei tempi con aneddoti, storie fantastiche. Proposi allora questo pseudonimo all´editore, il quale accettò con entusiasmo, pensando forse di farne un "caso letterario": poi il caso non ci fu, ed io ripresi il mio nome».

Corriere della Sera 18.1.09
Le voci dalla memoria
Le iniziative per il 27 gennaio, Giornata del Ricordo della Shoah
di Gian Guido Vecchi


Furono novemila gli ebrei italiani deportati nei campi di concentramento, quasi tutti ad Auschwitz-Birkenau. Per 15 anni lo storico Marcello Pezzetti è andato alla ricerca degli ultimi sopravvissuti e li ha convinti a ridestare nella loro mente le immagini di un viaggio agghiacciante: 105 testimonianze in presa diretta, delle quali ha lasciato intatto il sapore dialettale della gente comune e perfino alcuni accenti ironici paradossali. Ne è venuto fuori un libro, edito da Einaudi, unico nel suo genere che rende ancor più sconvolgente la realtà dell'Olocausto. Eccone alcuni stralci.

Marcello Pezzetti s'accende una sigaretta e mostra la scatola dei cerini, «non uso accendini né altro, porto sempre con me questi, e sa perché? Per Martino Godelli. Lui lavorava alla Rampa di Auschwitz-Birkenau, dove si fermavano i vagoni e avveniva la selezione verso il gas e i crematori: la Shoah è là». Sfoglia rapidamente le pagine, «ecco cosa dice Godelli: "Sapevo quando era un trasporto italiano, perché vedevo i cerini per terra. I cerini ce li hanno solo gli italiani, non esistono in nessun'altra parte del mondo. Allora mi allontanavo...”».
Bisogna vederlo, Marcello Pezzetti, mentre alza lo sguardo dal libro cui ha dedicato quindici anni e centocinque interviste, «Il libro della Shoah italiana», le lacrime agli occhi. È forse il massimo esperto al mondo di Auschwitz, storico del centro di documentazione ebraica contemporanea di Milano (Cdec), tra l'altro insegna al Master di Roma Tre e allo Yad Vashem, è stato consulente di Spielberg e Benigni, è direttore del museo della Shoah che si sta costituendo a Roma, è autore con Liliana Picciotto del film «Memoria», nel '99 ha scoperto la prima camera a gas nazista dove sorgeva una villetta di contadini polacchi. Sa tutto. Ma ora dice: «Non lo immaginavo neanche. Per me non è stato facile. Anche adesso è insopportabile. Racconto Auschwitz attraverso i loro occhi. Ed è peggio di quanto si possa credere. Molto peggio».
Nessun libro di storia, in nessun Paese, ha mai raccontato la Shoah così. E nessun romanzo. Lo stesso Primo Levi stava ad Auschwitz III e non vide mai Birkenau, il cuore della Shoah: Birkenau, «il bosco delle betulle», il campo di sterminio dove morirono un milione e 300 mila persone, di cui 1 milione e 100 mila ebrei. Il primo convoglio dall'Italia vi giunse il 23 ottobre '43 da Roma, dopo la retata del 16 ottobre: su 1.020, tornarono 16 uomini e una donna. Dei 45 mila ebrei italiani ne vennero deportati un quinto, circa novemila, quasi tutti qui. E ora questo libro raccoglie le voci degli ultimi centocinque sopravvissuti, rintracciati per quindici anni in giro per il mondo, sessanta donne e quarantacinque uomini intervistati e filmati. Nel frattempo molti sono morti. Gran parte di loro non aveva mai raccontato. «Questo è un pezzo d'Italia. La gente non se ne rende ancora conto. Per questo non ho messo filtri: i romani parlano in romanesco, i triestini in triestino... Per la prima volta ci sono anche gli ebrei italiani di Rodi».
Una narrazione collettiva che si fa epos. Le testimonianze sono state scomposte e raccolte per argomenti: il mondo «prima», la vita quotidiana, il rapporto col fascismo uguale a quello degli altri italiani, e poi le leggi razziali, l'occupazione, Fossoli e la deportazione, Auschwitz e gli altri campi di sterminio, il ritorno, il dolore muto e i sensi di colpa. «Non c'è il lieto fine. Non c'è». Ogni capitolo ha una brevissima scheda storica, poche righe. Poi la parola passa alle vittime. Voci che non offrono risposte facili. C'è la Chiesa indifferente e la Chiesa che aiuta. Gli italiani che salvano e i delatori, con nomi e cognomi. La «spontanea umanità di un popolo d'antica civiltà», come scriveva Hannah Arendt, e le miserie del nostro Paese. Soprattutto c'è il racconto polifonico dall'interno di Birkenau. Cose mai lette: come le parole di Mengele sulla Rampa, l'inganno osceno del «campo di riposo» per i «vecchi» («dai 40, 45 anni»), quelli con l'aria malata, le donne con i bambini o incinte, «o anche così, senza nessun motivo »: tutti nelle camere a gas. E poi i Krematorium, gli «esperimenti» medici, il Kinderblock dei bimbi, l'orrore quotidiano del campo. «Questo te la fa vivere, la storia. Tu la vivi, la storia. È pazzesco ma è così». È un libro che toglie il sonno e dal quale non ci si può staccare. Un libro che va letto. Anche se si piange. Anche se talvolta, incredibilmente, si ride fra le lacrime per lo spirito dei sopravvissuti. In questa pagina riportiamo alcune voci, una goccia del mare.
Ma tra i tanti c'è una persona di cui parlare: il più piccolo ebreo deportato dall'Italia, figlio di Marcella Perugia, che nacque al Collegio militare di Roma il 17 ottobre 1943, all'indomani del rastrellamento del ghetto e il giorno prima della partenza. Forse non arrivò neppure a Birkenau. Forse entrò nella camera a gas con la mamma. È rimasto senza nome. Il libro è dedicato a lui.
LE ORIGINI
«Siamo romani, di generazione in generazione. Io sono nato a Panico, cioè a dire a Vicolo delle Vacche. Era niente di meno che la casa appresso dove abitava papa Pio XII. Io, la generazione mia, abbiamo una discendenza di duemila anni... sono duemila anni che sono ebreo, e romano!» (Leone Di Veroli)
«Mio padre era medico e mio nonno era un giurista che proviene da Parenzo. Io frequentavo solamente ebrei di un ceto borghese, ma piuttosto alto». (Ottaviano Danelon)
(A Rodi) «Eravamo sei sorelle e un fratello. Parlavamo lo spagnolo, perché noi deriviamo dall'Inquisizione della Spagna». (Rosa Levi)
«Credevo soltanto in Dio fortemente, ma istruzione nun c'ho avuta. Se ci voleva cinque, dieci lire al giorno per mangiare, come potevo studiare l'istruzione? Mio padre era religioso, che il sabato nun lavorava pure, perché è peccato lavorare il sabato. Lavoravo io». (Raimondo Di Neris)
(A Biella) «Pensa, non avevi i regali di natale, a natale!» (Luciana Nissim)
(A Trieste) «Andavamo in tempio, ma no jerimo tanto inteligenti quela volta. L'ebraico no me 'ndava in testa: ciapà tante bachetàde, mama mia! Non me 'ndava e non me 'ndava, che Dio me pardoni! (Rachele Mustacchi)
«Premetto: nella via dove ero io ci adoravano; a scuola, invece, dicevano che noi avevamo ammazzato Gesù Cristo». (Romeo Salmoni)
I RAPPORTI COL FASCISMO E LE LEGGI RAZZIALI
«Ero in un collegio nazionale a Tivoli. Fui avanguardista, avevo anche i gradi, smontavamo e montavamo il fucile, la mitragliera, facevamo i campi Dux e che altro... ero un fanatico del passo romano, di quella camicia nera! Nacqui e vissi in regime». (Eugenio Sermoneta)
«Io fui tolto dalla scuola Metastasio di Roma. E così è stato e così fu, come diceva il faraone. Tanta amarezza, perché nun esiste che l'altri andavano a scuola e io no». (Giacomo Moscato)
«Mi ricordo il discorso di Trieste di Mussolini, ero sotto il palco, dove c'è guardia del corpo, tutti neri, e subito davanti era la milizia universitaria. In quel momento uno dietro dice: «Butì fora Levi!» E questo qui chi era? Un carissimo amico! Quando ho inteso, ho detto: «Basta, qui siamo finiti!». (Italo Dino Levi)
I CATTOLICI
«C'avevo du' sorelle. Dopo il 16 ottobre le hanno portate al convento di San Pancrazio, a Monteverde. Le hanno vestite da monaca e si son salvate». (Raimondo Di Neris)
«Aspettavamo che succedesse qualche cosa, perché eravamo sotto il naso del Vaticano e il gruppo era composto di donne e bambini, perché i omini, chi s'era dato ai partigiani, chi s'era nascosto. Essendo tutte donne e bambini, aspettavamo la voce del Vaticano». (Settimia Spizzichino)
IL VIAGGIO
«Entrati nel vagone, abbiamo dato il posto vicino alle pareti alla gente anziana, perché potessero sedersi appoggiando la schiena; noi invece, i più giovani, ci siamo messi in mezzo. Di notte, ricordo che volevo andare da mia madre e non ci sono mai riuscita, perché per terra eran tutto corpi che cominciavano a gridare». (Elena Kugler)
«L'aria era irrespirabile, perché queste persone vecchie, fra cui una signora amputata, non riuscivano ad arrivare fino al buco per defecare, quindi c'erano escrementi dappertutto. Le feci... bisognava raccoglierle e portarle con un pezzo di legno in questo buco, ma rimaneva impregnato e quindi era una cosa paurosa». (Alessandro Kroo)
«Non direi che ci fosse la possibilità di scappare. Loro avevan detto: "Se qualcuno scappa, passeremo per le armi tutto il vagone!" Quindi c'era un controllo reciproco». (Luciana Nissim)
L'ARRIVO
«Siamo arivati 'a matina presso a Birkenau. Se vedevano migliaia in fila che andaveno, cantaveno canzoni che io nun capivo, andavano a lavorà ne le fabbriche. Poi se sentivano le urla dei cani e quando si sono aperti i vagoni... qualcuno cascava per tera, donne anziane, vecchi. Spartivano i bambini da le madri, il fratello dai fratelli, venivan divisi tutti. e noi ci presenro a bastonate e bisognava seguire il gruppo fino a l'entrata del campo». (Mario Spizzichino)

Corriere della Sera 18.1.09
I giovani La nuova didattica voluta dalla Regione. Oltre 250 i progetti. E un volume ricostruisce la mappa dei deportati
In Toscana l'antirazzismo è ora materia scolastica
di Marco Gasperetti


Materia nuova. Vecchio nemico da combattere. Con un pensiero forte: studiare il razzismo, come la matematica, l'italiano e la storia. Nelle scuole toscane la «nuova didattica» partirà quest'anno grazie a un progetto della Regione Toscana presentato in estate al meeting antirazzista di San Rossore nel triste anniversario delle leggi razziali promulgate a Pisa settanta anni fa. Non solo teoria e chiacchiere, ma prassi e soldi (5 milioni di euro), un piano pragmatico, insomma, per un'offerta formativa che può coprire il 20% dell'orario scolastico. Psicopedagogia dell'antirazzismo. «Con l'obiettivo di far crescere insieme conoscenze ed esperienze culturali diverse — spiega il presidente della Regione, Claudio Martini — e cancellare per sempre odiosi luoghi comuni ». Analisi del Dna alla mano, oggi gli scienziati sono uniti nell'affermare che la razza umana è unica, senza differenze. «È grazie anche a loro che nelle nostre scuole si insegnerà la non differenza razziale e si smentirà chi afferma il contrario — spiega Martini —. E poi si parlerà di dialogo e convivenza comune e della società multietnica. Che non è qualcosa di ineluttabile da subire, ma una grande risorsa. Anche per il nostro paese».
L'insegnamento nelle scuole non è un'iniziativa isolata. Su razzismo, xenofobia e intolleranza, la Toscana lavora da anni e quest'anno sono più di 250 le iniziative culturali ed educative in cantiere. Con uno sguardo al passato e alla memoria. E a quella strada ferrata che da Firenze porta ad Auschwitz. Da sei anni il «treno della memoria » accompagna ogni anno centinaia di studenti nel campo di sterminio nazista. E da sei anni i ragazzi raccontano di aver imparato da quel viaggio più di mille lezioni. Ha scritto Francesca, 16 anni: «In quel campo, tra le baracche e il filo spinato, la mia anima di adolescente è stata trafitta. Per sempre. Mai più, vi prego, mai più».
Si riparte il 25 gennaio. Stazione di Santa Maria Novella: 500 studenti, 100 insegnanti. Visite ai campi di Auschwitz-Birkenau, concerti nella sinagoga Tempel di Cracovia, incontri con i deportati. E poi l'evento più emozionante davanti al Memoriale, dove ogni studente pronuncerà il nome di una vittima del campo. «Non è solo un rito o una celebrazione — dice l'assessore all'Istruzione, Gianfranco Simoncini —. Il treno è una staffetta della memoria. Oggi ci sono questi ragazzi, domani ce ne saranno altri, tutti saranno uniti dallo stesso ricordo, dalle emozioni intense». Educazione del fare e del partecipare.
C'è anche una terza via alla lotta al razzismo: quella storica. Enzo Collotti, professore emerito di storia contemporanea all'Università di Firenze, tra i massimi esperti internazionali di nazismo, fascismo e Resistenza, ha realizzato con la Regione un lavoro sulla persecuzione e la deportazione degli ebrei dalla Toscana. Callotti è entrato negli archivi di Stato e ha pubblicato un'opera che non ha eguali. I suoi libri sono lì, pronti a essere consultati, oggi e per sempre. Un monumento all'antirazzismo, un inno alla tolleranza.

Liberazione 18.1.09
Contro la scissione riformiamo il partito
risponde Paolo Ferrero


Caro Paolo, ti scrivo da compagno non iscritto al Prc (tranne alcuni sporadici anni). Non iscritto e non attivo anche perché coloro che erano nelle stanze dei bottoni vedevano di malocchio chi si affacciava non appartenendo a nessuna corrente e quindi potenzialmente pericoloso. Mi fu detto parecchi anni fa da un dirigente locale del Prc (…) che l'importante era che io parlassi alla gente. Di fronte alla mia esigenza di essere organizzato, si rimandava tutto a un generico appoggio. L'importante era che non si disturbasse la casta e che essa si autoproducesse nei canali istituzionali. Quanta differenza dalle mie esperienze negli anni 70 quando un pur semplice simpatizzante era seguito e curato perché poteva diventare un potenziale quadro. Quindi un partito (per fortuna non in tutte le esperienze locali) che si identificava sempre più nelle ribalte televisive e in primarie varie adagiandosi sempre più in una visione istituzionale e mediatica.
Il tracollo elettorale è stato l'esito anche di questo: uno scollamento tra il partito e la sua gente (…). Non mi spaventa la scissione, se ciò costituisse un superamento di una confusione e un'impasse quale quella che regna oggi e che appare all'esterno. Al lavoro quindi e venite a trovare i tanti compagni dispersi e che non si rassegnano, lasciate andare al loro destino i parolai e i carrieristi. Un saluto fraterno.
Rino 1956 via e-mail

Caro Rino, mi pare utile rispondere alla tua lettera perché credo che il sentimento che tu esprimi sia comune a molti compagni e compagne. Pur comprendendolo, lo condivido solo in parte e vorrei quindi proporti un ragionamento diverso: in primo luogo io credo che la scissione sia un fatto grave e vada contrastata. Non solo perché si separano percorsi di compagni e compagne che hanno lavorato insieme per anni; non solo perché indebolisce il partito privandolo di militanti e risorse, ma anche perché indebolisce ulteriormente e rende meno credibile la sinistra nel suo complesso. Che si faccia una scissione e si dia vita ad un altro partito in nome dell'unità della sinistra è una tale contraddizione che non solo rende poco credibili coloro che la scissione la fanno, ma anche coloro che la subiscono. Una scissione in nome dell'unità rappresenta una divaricazione così enorme tra le parole e i fatti che rende meno credibile tutta la sinistra. Inoltre questa scissione prefigura uno spostamento di una parte di Rifondazione Comunista in una posizione di subalternità al Pd, cosa che di nuovo indebolisce la sinistra. Che a Torino, i consiglieri provinciali usciti da Rifondazione e i consiglieri regionali di Sinistra democratica e quello fuoriuscito dal Pdci abbiano immediatamente abbandonati il fronte No Tav, non ci renderà più forti né più credibili nella battaglia dei prossimi mesi. Che i consiglieri usciti a Firenze dal Prc, passino dall'opposizione alla maggioranza e si mettano la mordacchia sulla vicenda Fondiaria, non ci aiuta. Che in Calabria o a Napoli si entri a far parte di una giunta da cui invece dovremmo stare fuori, a me non fa piacere, perché rappresenta solo uno spostamento a destra di una parte della sinistra. Io penso quindi che questa scissione annunciata sia dannosa per tutti e che proprio in nome della forza e dell'autonomia della sinistra occorra operare per evitarla e - se non è possibile - per contenerla.
In secondo luogo, penso che non si possa ridurre il nodo della scissione ad un problema di parolai o carrieristi. Un partito che ha subito già cinque scissioni non può liquidare il problema solo con la condanna di chi se ne va. E' evidente che la scissione, annunciata per i prossimi giorni, nasce dall'incapacità di una parte del gruppo dirigente della mozione due di accettare le più elementari regole della democrazia: non è stato accettato l'esito democratico del congresso di Chianciano. Mi è altrettanto chiaro che tutte le scissioni "da destra" da Rifondazione abbiano visto una adesione alla scissione molto più alta tra coloro che hanno incarichi istituzionali che non tra i militanti. Tutto questo mi è chiaro, ma non possiamo fermarci a questa constatazione; se le scissioni si succedono a ripetizione ci deve essere un problema strutturale, qualcosa che non funziona nella nostra cultura politica e nella nostra modalità di stare insieme. Mentre combattiamo la scissione dobbiamo quindi scavare più a fondo. A me pare che vi siano quattro problemi principali. In primo luogo Rifondazione non ha mai risolto in modo decente il rapporto tra democrazia e costruzione dei gruppi dirigenti. Abbiamo oscillato tra l'accordo consociativo all'interno dei gruppi dirigenti, con la promozione per cooptazione, e la democrazia utilizzata con una logica da «chi vince prende tutto». In questo modo o l'accordo di vertice del gruppo dirigente (magari all'interno della stessa maggioranza) si proiettava a cascata sul partito impedendo una dialettica reale, oppure l'esercizio della democrazia si traduceva in una sorta di «guai ai vinti». Io penso che su questo dobbiamo praticare una vera discontinuità che a mio parere si colloca nella scelta strategica a favore della democrazia, da ampliare, ma che si deve accompagnare con la scelta strategica della gestione unitaria del partito. In altri termini deve essere chiaro che i congressi, le votazioni, le scelte, devono servire a decidere la linea del partito ma non devono diventare una modalità di selezione dei dirigenti che regolarmente metta ai margini una buona fetta degli stessi. Noi dobbiamo essere in grado di funzionare in modo democratico ma evitare che l'esercizio della democrazia diventi il regolare e periodico massacro del gruppo dirigente. Per questo penso che sia necessario, oggi, rilanciare la gestione unitaria del partito; perché il congresso è servito a decidere la linea ma è necessario che tutti i compagni e le compagne che scelgono di stare in Rifondazione, al di là della specifica posizione politica, siano valorizzati pienamente nelle loro capacità. Accanto a questa innovazione - che propongo di praticare con radicalità e da subito - ritengo sia necessario applicare con nettezza il nuovo regolamento che riduce gli stipendi dei dirigenti e dei rappresentanti istituzionali e propongo di pensare ad una maggiore nettezza nell'applicazione delle rotazioni, in particolare per gli incarichi istituzionali. Dobbiamo ricostruire il senso di appartenenza ad una comunità, sia dentro il gruppo dirigente che nel rapporto tra compagni e compagne "di base" e dirigenti. Si tratta di scegliere una cultura politica neo puritana, che ricostruisca il senso profondo di fare politica come processo collettivo e non come status. Dobbiamo imparare dalla crisi che stiamo attraversando per costruire il partito come spazio pubblico, democratico, egualitario. Non è facile ma nel percorso della rifondazione questo salto di qualità è necessario.
Da ultimo un punto politico che considero decisivo: dalla nostra crisi potremo uscire solo se non ci avviteremo nel dibattito e nella polemica interna ma se sapremo dislocare la nostra iniziativa politica nella società, nel tentativo di dare una risposta da sinistra alla crisi economica e sociale in cui siamo entrati. Questa crisi cambierà tutto, è una "crisi costituente", che ci obbliga ad una "guerra di movimento"; dalla capacità di giocare in modi non minoritari e politicisti questa partita, dipende la possibilità di rilanciare la rifondazione comunista come proposta di liberazione nel terzo millennio.