mercoledì 21 gennaio 2009

Repubblica 21.1.09
Il dio di Barack
di Alexander Stille


Questa elezione mescola elementi della cultura della celebrità con forme nuove di democrazia e sentimenti profondi, quasi religiosi
Il nuovo presidente è diventato come un test delle macchie di Rorschach universale: ognuno ci vede quello che vuole vedere

L´inaugurazione di Barack Obama, oltre a molte altre pietre miliari (il primo presidente nero della storia americana) segna anche un evento rivoluzionario nella storia dei media mondiali. Grazie alla Rete, che è entrata nelle vite quotidiane di milioni di persone in tutto il mondo solo negli ultimi anni, e grazie alla centralità assoluta degli Stati Uniti in questo particolare momento, essendo l´unica superpotenza di un mondo fortemente globalizzato, l´elezione e l´inaugurazione di Obama sono diventate un evento mondiale come nessun´altra elezione americana era mai stata prima d´ora.
Bisogna tornare forse al giubileo della regina Vittoria, il cinquantesimo anniversario del suo regno, quando la Gran Bretagna regnava su metà del pianeta in una sorta di globalizzazione ante litteram, per trovare una cerimonia politica nazionale che ha avuto un seguito tanto ampio. I sovrani di tutta Europa, undici primi ministri coloniali e numerosi maharaja indiani parteciparono a quell´evento, che fu seguito dalla neonata stampa quotidiana, di ogni parte del mondo.
Ma l´elezione di Obama naturalmente è qualcosa di diverso, che mescola elementi della cultura contemporanea della celebrità con forme nuove e innovative di democrazia partecipativa e sentimenti profondi, emotivi, potremmo dire quasi religiosi. «Un incantesimo che aprirà una nuova America» recitava oggi il titolo del quotidiano britannico The Guardian. Molti non americani dicevano, un po´ per scherzo, durante la campagna elettorale, che anche gli altri paesi dovevano avere la loro quota di voti elettorali nelle elezioni americane, considerando l´impatto del paese sugli affari mondiali.
I giovani francesi, tedeschi e italiani hanno seguito la candidatura di Obama e hanno esultato per le sue vittorie come se alle elezioni nazionali avesse vinto il loro partito. Io guardo costantemente le pagine Facebook di italiani - giovani e vecchi - con obamerie varie, simboli e messaggi, come se lui fosse uno "di casa". In un esempio di transfert estremo, la leader dei socialisti francesi, Ségolène Royal, avrebbe detto che la sua campagna aveva «ispirato» Obama e che lui aveva copiato le sue tattiche, suscitando una certa dose di ilarità e ridicolo in Francia. «Evidentemente c´è stato un problema di traduzione e Obama ha frainteso i suoi insegnamenti, perché lui ha vinto», ha commentato un lettore sul sito di Le Monde. Un editorialista del Times londinese ha scritto: «Domenica sera ho sognato Barack Obama. Milioni di persone lo sognano».
Obama è diventato una specie di test delle macchie di Rorschach universale, dove ognuno vede quello che vuole vedere. Al tempo stesso, assistere alla curiosa coreografia dell´inaugurazione di Obama - per molti non americani è la prima volta - potrebbe produrre uno shock. Il giuramento sulla bibbia di Lincoln, i riferimenti a Dio, la lunga preghiera che ha preceduto il discorso del neopresidente, lo sfrontato patriottismo e il sentimento sublime di una finalità nazionale specificamente americana sembrano qualcosa di profondamente estraneo per molti europei. Oltre a esporre elementi familiari del suo programma, Obama ha fatto riferimenti specifici alla grandezza dell´America, a Dio e ai padri fondatori.
Quello a cui stanno assistendo è una tradizione retorica peculiare ma importantissima, appropriatamente definita la «religione civile dell´America». Secoli di guerre di religione hanno bandito Dio dal discorso pubblico in gran parte dell´Europa, e il flagello del fascismo ha reso il nazionalismo qualcosa di molto controverso sul vecchio continente: per questo la liturgia civica americana sembra qualcosa di arcaico ed estraneo. (Un articolo su queste pagine, appena qualche giorno fa, sottolineava l´assenza della religione civile in Italia.)
Più di quarant´anni fa, il sociologo americano Robert Bellah scrisse un saggio fondamentale intitolato La religione civile in America, partendo dai numerosi riferimenti a Dio e a un fine superiore presenti nel discorso inaugurale di John Kennedy.
Kennedy iniziò con queste altisonanti parole: «Oggi non assistiamo alla vittoria di un partito, ma alla celebrazione della libertà, che simboleggia una fine, oltre che un inizio, che esprime il rinnovamento, oltre che il cambiamento. Eppure le stesse convinzioni rivoluzionarie per cui i nostri antenati hanno combattuto sono ancora in forse in tutto il mondo, la convinzione che i diritti dell´uomo non vengono dalla generosità dello Stato ma dalla mano di Dio».
Essendo situate generalmente all´inizio e alla fine del discorso, queste pennellate religiose potrebbero essere liquidate come specchietti per le allodole, ammiccamenti agli elettori religiosi bisognosi di rassicurazione. Invece, Bellah sosteneva che rivestivano un ruolo centrale nel discorso di Kennedy e nel linguaggio politico americano fin dai tempi della Dichiarazione di indipendenza di Jefferson: «Noi consideriamo manifeste tali verità, e cioè che tutti gli uomini sono stati creati uguali, che sono stati dotati dal Creatore di determinati diritti inalienabili, che tra questi diritti c´è la vita, la libertà e la ricerca della felicità».
Abramo Lincoln, il presidente preferito da Obama, era intriso del linguaggio di Jefferson e di quello della Bibbia quando creava la retorica pregnante della guerra civile americana, che fornì il carburante emotivo per la guerra, per salvare l´unione, abolire la schiavitù, ma anche promuovere la riconciliazione nazionale dopo la fine del conflitto. «Con malizia verso nessuno, con carità verso tutti», disse Lincoln nel suo secondo discorso inaugurale. Martin Luther King usò il linguaggio jeffersoniano e la cadenza biblica per radunare milioni di persone in difesa della causa dei diritti civili.
Naturalmente, come riconosce Bellah, la religione civile dell´America non sempre è stata usata a fin di bene. È stata usata come giustificazione per il Manifest Destiny [la "missione" degli Stati Uniti di espandersi nel continente americano], la guerra contro il Messico e per la negazione dei diritti civili e politici degli indiani. Ovviamente, George Bush ha usato una sua forma di religione civile con i suoi discorsi sull´«asse del male» e la sua affermazione che la libertà era un diritto divino che l´America aveva il dovere di diffondere in tutto il mondo.
Ma considerando la profonda forza emotiva di questo linguaggio, e alla sua capacità di fissare le priorità nazionali - la guerra alla povertà, la corsa alla Luna, i diritti civili - Obama è sempre stato estremamente abile nell´attingere al filone jeffersonian-lincolnian-kennedian-martinlutherkinghiano di questa tradizione. Il nuovo presidente cerca di sfruttare la forza di questa tradizione per contrastare la versione più nazionalistica usata da Bush, e per metterla al servizio del suo nuovo e diversissimo programma.
(Traduzione di Fabio Galimberti)

Repubblica 21.1.09
"Se me lo chiedono accoglierò Eluana"
Dal Piemonte l’apertura di Bresso. Englaro: ha capito. Il cardinale Poletto: eutanasia
di Marco Trabucco


TORINO - La Regione Piemonte è disposta ad accogliere Eluana Englaro. La sfida al ministro Sacconi arriva da Torino e dalla presidente Mercedes Bresso: «Non ci è stato chiesto niente e non ci offriamo, non si deve creare una terribile asta tra regioni - spiega - però se qualcuno lo chiederà non ci saranno problemi perché riteniamo che si debba rispettare la legge. La ospiteremo in una struttura pubblica perché quelle private sono sotto lo scacco del ministro».
A Bresso ha subito risposto il padre di Eluana, Beppino Englaro: «Non posso che ringraziarla e rivolgerle tutto il mio apprezzamento. Non abbiamo ancora avuto contatti, ma dalle sue parole mi rendo conto che ha colto perfettamente la natura del nostro dramma. Mi indica la soluzione senza farne questioni politiche o morali e credo che da un presidente di regione non ci si possa aspettare di più. Noi naturalmente prendiamo in considerazione e valutiamo questa disponibilità».
Si vedrà adesso se sarà in Piemonte la prossima destinazione di Eluana (in coma da 17 anni e per cui il padre, da dieci, chiede l´interruzione dell´alimentazione artificiale) anche se quella arrivata da Torino non è l´unica offerta di accoglienza. Dopo il diktat del 16 dicembre del ministro del Welfare Maurizio Sacconi, che in un atto di indirizzo alle Regioni aveva precisato di ritenere «illegale» lo stop all´alimentazione artificiale nelle strutture del Servizio sanitario nazionale e la conseguente rinuncia della clinica Città di Udine ad accogliere Eluana per timore di «ritorsioni» ministeriali, l´offerta di Bresso riapre le polemiche sul caso. Prima fra tutte quella dell´arcivescovo di Torino, il cardinal Severino Poletto, che spiega: «Se Eluana venisse accolta in una qualunque struttura sanitaria piemontese al fine di toglierle l´alimentazione e l´idratazione, sarebbe un chiaro caso di eutanasia». E di eutanasia parlano anche i parlamentari cattolici del Pd Luigi Bobba e Marco Calgaro, che invitano i medici piemontesi all´obiezione di coscienza, mentre l´ex ministro della Sanità Rosi Bindi bacchetta Bresso, «Poteva anche non parlare», ma ricorda pure la necessità di una legge sul testamento biologico: «Il problema è che manca una norma per affrontare questi temi. E poi, comunque la si pensi sul caso Englaro, il ministro non ha il potere per intervenire». Nel centrodestra si levano a difesa di Sacconi le voci del sottosegretario agli Interni Alfredo Mantovano, che parla di «inquietanti contraddizioni nella parole di Bresso» e quella dell´ex governatore piemontese, ora senatore del Pdl, Enzo Ghigo: «Considero scandaloso che su una situazione così delicata ci sia una rincorsa delle Regioni rosse a trasgredire agli indirizzi del ministro». Inneggia invece a Bresso il medico radicale torinese Silvio Viale che annuncia: «Io sono disponibile».
Nell´attesa di sapere dove Beppino Englaro sceglierà di portare sua figlia, oggi davanti al Tar di Milano si gioca un´altra partita importante: la curatrice speciale di Eluana, Franca Alessio, e l´avvocato Vittorio Angiolini cercheranno di far riconoscere come «atto dovuto» la sospensione dell´alimentazione artificiale. Vogliono cioè dimostrare che la Formigoni e i suoi hanno sbagliato a non applicare una sentenza della magistratura.

Repubblica 21.1.09
Le ragioni del governatore piemontese: previsto il sostegno della sanità pubblica
"Calpestati i diritti d´un padre l´etica laica impone rispetto"
intervista di m. trab.


Viviamo in un Paese in cui non si rispetta una sentenza di Cassazione e tutto diventa materia di lotta politica

TORINO - Presidente Bresso perché ha deciso di scendere in campo nel caso Englaro?
«Perché ritengo che la tragica storia di Eluana sia diventata ormai una questione non più sopportabile in un paese civile: e lo sia dal punto di vista giuridico come da quello umano».
Lei è favorevole all´eutanasia?
«Io non sono credente, è un fatto noto. È giusto però essere preoccupati: perché non si deve nemmeno concepire l´idea che sia possibile uccidere le persone solo perché non servono più. Ho avuto recentemente un´esperienza che mi ha toccato da vicino. E sono la prima a non poter dare risposte certe sul come e quando si debba smettere di nutrire o di dar da bere a un malato in coma. Su quando si debba staccare la spina, insomma. Sono risposte che spettano alla scienza».
Allora perché ha fatto questa offerta al papà di Eluana?
«Perché qui c´è stato prima di tutto un lungo iter giudiziario, c´è una decisione del Tribunale che ha valutato ogni implicazione. Una lunga battaglia giuridica alla fine della quale sono stati calpestati i diritti di un padre che, dopo aver sofferto per diciassette anni, si vede adesso sballottato da una istituzione all´altra. E da una interdizione all´altra. Non è ammissibile».
E dall´altro lato cosa c´è?
«C´è che ciascuno è libero di avere un´opinione etica religiosa su qualsiasi argomento, ma esiste pur sempre un´etica civile e laica, cui mi ispiro e alla quale cerco di attenermi. Un´etica che impone il rispetto delle persone. Fermo restando che tocca alla famiglia decidere».
Non crede che se fosse stato già introdotto nel nostro ordinamento il testamento biologico gran parte di queste polemiche non ci sarebbero più?
«Viviamo in un paese in cui non si rispetta più neppure una sentenza della Corte di Cassazione e tutto diventa materia di lotta politica, anche i dibattiti sulle grandi questioni etiche. Perciò è del tutto evidente che occorra l´approvazione di una legge sul testamento biologico, anche se mi sembra molto difficile che possa arrivare con questo Governo e questo Parlamento».
Beppino Englaro l´ha ringraziata. Cosa gli risponde?
«Le sue parole rivelano il profondo aspetto umano di questa storia. È nostro dovere stargli vicino».

Repubblica 21.1.09
Testamento biologico, il Pd si spacca e non vota
di Giovanna Casadio


Accordo senza conta su una "posizione prevalente" espressa in quindici punti. Marino: ci serviva un sì o un no, il resto è del diavolo
Partito strattonato fra teodem e laici Conflitto su alimentazione e idratazione

ROMA - Non è mai stata facile la discussione sulla bioetica nel Pd; ora lo è ancora meno, poiché crescono i sospetti di spaccature più per ragioni di resa dei conti interna che di merito. Il merito è il testamento biologico, su cui si è tenuta ieri l´assemblea di tutti i parlamentari democratici. Strattonato dai teodem, i cattolici integralisti, da un lato, e dai Radicali e dai laici oltranzisti dall´altro, il partito ha deciso di rinviare la conta. Quindi non si è votato sulla questione che divide, ovvero se l´alimentazione e l´idratazione artificiale possano essere rifiutate nella dichiarazione anticipata di trattamento. Fare chiarezza su questo punto è la cosa più importante, perché impedirebbe altri "casi Eluana". Un non-voto scandaloso per i Radicali, Emma Bonino in testa, per i quali si è trattato di una «soluzione pilatesca». E votare avrebbero voluto Gianni Cuperlo e Barbara Pollastrini, l´ex ministro delle Pari Opportunità, che è andata all´attacco: «O si fa una buona legge o è meglio nessuna legge».
Sul fronte cattolico i teodem si irrigidiscono. Paola Binetti più di tutti: «Interrompere idratazione e nutrizione significa di fatto introdurre l´eutanasia per sete e per fame», e dichiara di essere pronta a sottoscrivere la proposta di legge di Rocco Buttiglione, il leader dell´Udc che fu "bocciato" come commissario Ue per le sue posizioni arretrate sui diritti civili e i gay. Un annuncio di strappo dal Pd? Lei replica: «Fioroni mi ha detto di essere d´accordo con noi», e ringrazia Rosy Bindi. È la Bindi a cercare di trovare il bandolo della matassa e ad appoggiare la mediazione raggiunta con il "documento Sereni": quindici punti (si possono leggere su www.marinasereni.it) che indicano «la posizione prevalente» del Pd sul testamento biologico, senza bisogno di decidere subito a maggioranza. Sereni, che ha coordinato il gruppo di lavoro sul tema, ripete: «Vogliamo fare o no una legge giusta e umana? Allora nessuno pianti bandierine, ma teniamo insieme libertà di scelta e tutela della vita». Binetti insiste: «L´orientamento del Pd è minoritario nel paese».
Bindi s´inalbera con i Radicali: «Non è lesa maestà non votare, ci si assume ugualmente le proprie responsabilità. Cerchiamo di dare una lezione di laicità e di buona politica». Assist raccolto da Dario Franceschini e perciò nessuna conta. Ma anche Ignazio Marino, autore del primo ddl sul testamento biologico del Pd, è duro sul non-voto e cita il Vangelo di Marco: «Al Pd serviva un sì o un no, tutto il resto è del diavolo». Confronto teso e appassionato, tuttavia. Umberto Veronesi racconta le esperienze della sua vita di oncologo. I Democratici non possono permettersi di giocare di rimessa, attendendo cioè che sia il centrodestra a dettare legge su una questione che tocca profondamente l´opinione pubblica scossa dal drammatico rimpallo sul diritto di Eluana a morire con dignità. E il Pd si divide anche sull´offerta di Mercedes Bresso di accogliere in un ospedale piemontese Eluana. Marco Calgaro è tra i più critici.

il Riformista 21.1.09
Non c'è accordo in vista del dibattito parlamentare sul testamento biologico
E nel Pd si litiga sulla legge. «Siamo ostaggio dei teodem»
di Tommaso Labate


RETROSCENA. Alla riunione dei parlamentari democrat gli ex Ppi fanno sponda a Binetti e si decide di non votare nulla. Furibondi Marino e l'ala laica. Franceschini: «Non è su questi temi che si costruisce l'identità del partito».

Moltiplicando «una sponda dei popolari ai teodem» a «un asse tra i radicali ed ex ds» il prodotto non cambia: sui temi etici le fratture interne al Pd rimangono quelle di sempre. Con una differenza, una sola, rispetto al passato: stavolta, per la precisione sul «testamento biologico», i parlamentari del Pd evitano la conta. E, di conseguenza, lo scontro.
Succede alla riunione di ieri, convocata per decidere la linea del partito sull'atteggiamento da tenere quando inizieranno i passaggi parlamentari sul dossier etico. Nel vertice, però, si decide di non votare. E, quindi, di non decidere. È Dario Franceschini a fermare la giostra: «Non è su questi temi che si costruisce l'identità del Pd». Ma la giostra, finita la riunione, ricomincia a girare. «La posizione del Pd è minoritaria nel paese. Sono sorpresa dal desiderio di minimizzare le differenze. Ho sentito della Finocchiaro che parla di un accordo raggiunto al 99%...», incalza la teodem Binetti. «Il Pd è ricattato dai teodem», risponde la radicale (eletta col Pd) Coscioni. Ignazio Marino, medico di fama internazionale, è furibondo coi suoi colleghi e sceglie una citazione evangelica: «Serviva un voto: un sì o un no, tutto il resto è del diavolo». E Marina Sereni, che era stata incaricata di redigere un testo di mediazione (poi fallita), scuote la testa: «Il Pd sarà utile solo se contribuirà a una legge umana, non se ognuno continuerà ad agitare la propria bandiera». Parole al vento. Con buona pace di chi, come il deputato Di Giovan Paolo (area Franceschini), insiste nel dire che il Pd ha individuato «una soluzione che evita atteggiamenti estremistici» e, quindi, «alta».
Questo, però, è successo alla fine della riunione. Cos'è accaduto, invece, all'interno? Umberto Veronesi ha provato a dirlo in tutti i modi: «Per la mia esperienza di medico - ha scandito l'oncologo - posso citare i casi dei Testimoni di Geova e di molti anziani cattolici. Una cosa dobbiamo averla chiara tutti: il rispetto della volontà e dell'autonomia della persona è decisivo». Emma Bonino e Barbara Pollastrini l'hanno detto praticamente all'unisono: «Questa nostra discussione - è stato l'appello di entrambe le ex ministre - deve sfociare in un punto d'arrivo. Non possiamo restare in mezzo al guado come sempre». Ignazio Marino quasi si spazientisce: «Se c'è un consiglio di amministrazione si vota. Gli azionisti del Pd sono gli elettori e hanno diritto di sapere quanto si impegna il Pd su questo tema».
È un braccio di ferro. Il "solito" braccio di ferro. Ma questa volta gli eredi della tradizione del cattolicesimo popolare - da Bindi a Castagnetti, passando per Fioroni - stanno coi teodem. «Interrompere idratazione e nutrizione come volete fare voi significa di fatto introdurre l'eutanasia per fame e sete. Noi siamo contrari», spiega agli ex ds Paola Binetti. Che evoca scenari simili a quelli che nel 2004 produssero la legge 40 («Io sono d'accordo con Buttiglione, ho firmato la sua proposta di legge») e incassa la sponda dei popolari: «Sono grata a Rosy Bindi. Quanto a Fioroni, mi ha detto che è d'accordo con noi». La Bindi, da parte sua, dice: «Il Pd presenterà una proposta di legge tenendo conto dell'orientamento prevalente e lasciando ai singoli la libertà di votare secondo coscienza». Orientamento prevalente? «È importante che su temi come questo un partito non sia costretto a votare a maggioranza», sostiene l'ex leader del Ppi Pierluigi Castagnetti. «Non c'è mediazione che tenga tra chi dice che la vita gli appartiene e chi, come me, persa che si deve fare tutto il possibile per garantirla», è la sintesi più efficace. Per la cronaca la firma il popolare Lino Duilio.
Il documento di mediazione fallisce. Tutto si infrange sulla linea del vertice. «Non è su questi temi che si costruisce l'identità del Pd», mette a verbale Franceschini. «Una posizione pilatesca», lo accusano i Radicali, dando voce a molti ex ds. «Se una posizione non è come la vogliono i radicali, allora è pilatesca. Se è così, allora, pilatesca sia», risponde il vicesegretario. La vita del Pd va avanti. Tra un documento teodem, in cui si sottolinea che «resta il rischio eutanasia». E la controrisposta degli ulivisti, che propongono che la figura di un fiduciario entri nella legge sul testamento biologico. Ma quale legge?

Repubblica Lettere 21.1.09
La nutrizione artificiale di un paziente incosciente
di Alberto Artom


Pietra Ligure (Sv)
Mi ha colpito molto la lettera dell'On. Binetti (sull'alimentazione artificiale del 17 gennaio). Sono un Medico Ospedaliero, quotidianamente a contatto con i pazienti e le loro sofferenze e quindi sensibile a questi temi. Mi pare opportuno precisare allora, al di là della sicura buona fede dell'On. Binetti, che: 1) la Società Italiana di Nutrizione Artificiale, alla luce delle conoscenze scientifiche afferma che la nutrizione artificiale non è né una terapia etiologica, né una terapia sintomatica, né una terapia palliativa: cioè qualcosa che non è terapia. Non è quindi un sostegno alle tesi dell'On. Binetti, direi anzi il contrario.
2) non è affatto provato, infatti, che pazienti non coscienti soffrano fame e sete; pare al contrario provato che la sospensione di liquidi e nutrienti non provochi alcuna sofferenza.
3) è invece dimostrato che la particolare modalità di nutrizione artificiale, il sondino nasogastrico, provoca sofferenza (pur se solo a livello sottocorticale).
Da tutto ciò si può ragionevolmente dedurre che spesso la nutrizione artificiale rappresenta un accanimento terapeutico (o per meglio dire: non-terapeutico), talora causa di ulteriori sofferenze.

l’Unità 21.1.09
Eluana e la riforma della giustizia
di Tania Groppi


I drammatici aspetti umani ed etici del caso Englaro rischiano di far passare sotto silenzio un aspetto inquietante che serpeggia attraverso l’intera vicenda, ovvero l’ennesimo attentato allo Stato di diritto da parte del governo e della sua maggioranza. Si tratta di un atteggiamento senza precedenti, la cui gravità non può essere passata sotto silenzio.
Ricapitoliamo. Attraverso un complesso iter processuale, un cittadino, un padre, è riuscito ad affermare il diritto della figlia, in coma irreversibile, alla interruzione dei trattamenti che la mantengono artificialmente in vita. Vari giudici, a partire dalla Corte d’Appello di Milano, per arrivare alla Corte di Cassazione, sono stati chiamati a intervenire, a più riprese, su una materia difficile e controversa, che il legislatore non ha mai avuto il coraggio di disciplinare. Ma anche se il legislatore tace, il giudice non può tacere: la posizione che l’ordinamento gli affida gli impone comunque di rispondere a chi gli chieda la garanzia di un proprio diritto costituzionale.
Ecco, di fronte a precise decisioni giudiziarie la reazione del governo e della sua maggioranza è stata prima quella di negarne la legittimità, poi di impedirne l’esecuzione.
Come non ricordare che la maggioranza parlamentare si è appellata nel cuore dell’estate alla Corte Costituzionale, chiedendole di dichiarare che la Cassazione si era incostituzionalmente sostituita al Parlamento, e risultandone chiaramente smentita?
Da qui in poi la situazione è diventata addirittura surreale con il governo impegnato in prima persona ad impedire l’esecuzione della sentenza, attraverso un fantomatico “atto di indirizzo” di un ministro (Sacconi) sprovvisto di qualsiasi base legislativa, che ha definitivamente trasformato il caso Englaro in una battaglia per lo Stato di diritto.
Una simile intrusione del potere esecutivo nella sfera del potere giudiziario rappresenta una negazione del principio della separazione dei poteri e senz’altro potrebbe essere censurata dalla Corte Costituzionale se la Corte d’Appello di Milano promuovesse un conflitto di attribuzione.
Ma c’è di più. Essa è un sintomo (l’ennesimo) della radicale incomprensione, da parte di questa maggioranza, per la forma di Stato in cui viviamo, quella della democrazia costituzionale, basata sulla sottoposizione del potere politico e dei suoi atti alle regole e ai principi giuridici.
E deve essere anche un campanello d’allarme (l’ennesimo) per coloro che fossero attratti dalle sirene delle “larghe intese” sulla riforma della giustizia: quale riforma possa scaturire da una maggioranza che nega i fondamenti essenziali dello Stato di diritto è, purtroppo, facilmente immaginabile.

Repubblica 21.1.09
Se la religione si mischia con la politica
risponde Corrado Augias


Caro Augias, si intensificano gli inviti agli «arabi italiani» a ricordare che i loro diritti di cittadinanza, spesso calpestati, si basano tuttavia sull'ordinamento democratico, e che questo si fonda sulla separazione tra politica e religione. Il che è il contrario di quanto sostenuto e praticato da molti musulmani che si identificano, prima di ogni altra cosa, nel comune riconoscimento della supremazia politica del Corano, cioè della Fede, su qualsiasi altra considerazione. In questo senso si è espresso Eugenio Scalfari nel suo editoriale ma anche Gad Lerner nel suo intervento di domenica su questo giornale, nello stesso senso possiamo interpretare il monito del presidente Fini a predicare in italiano nelle moschee. Mi chiedo però se inviti del genere prima ancora che agli arabi italiani non andrebbero rivolti ai cittadini italiani tout-court. A me sembra che se in Italia la politica viene tenuta in ostaggio, strumentalmente, dai cattolici, distribuiti a destra come a sinistra, non si possa fare molta strada in comune con chi ha altri riferimenti religiosi. Del resto con quale credibilità possiamo chiedere ai musulmani di separare la fede dalla politica se un nostro ministro in nome della fede si oppone all'applicazione della Legge sancita dalla Costituzione?
Andrea Bonucci andrea.bonucci@libero.it

N ella lunga storia dell'Italia, e più in generale dell'Europa, non s'erano mai viste folle di fedeli pregare in pubblico che non fossero cattolici (i raduni, le processioni, le messe all'aperto) o cristiani 'riformati' di varie confessioni, anche se con più sobrietà. Centinaia di musulmani che si prostrano fronte a terra in direzione della Mecca (Sud-Est), sono una novità senza precedenti dovuta al fenomeno di una migrazione che è anch'essa senza precedenti e infatti considerata epocale. Un individuo o un gruppo di individui che prega, quale che sia il suo Dio, è uno spettacolo in genere positivo, in alcuni casi commovente. Lo è però meno se la preghiera mescola allo slancio spirituale la politica, in certi casi addirittura una precisa rivendicazione politica. Caratteristica del mondo islamico è che la separazione tra Fede e Politica non è mai stata fatta. Mentre in Europa si veniva lentamente affermando un principio di 'cittadinanza' a prescindere dalla religione infine consacrato con la rivoluzione francese, il mondo islamico non riesce ancora oggi a distinguere il cielo dalla terra, il reato dal peccato. Gli ambienti integralisti cattolici dovrebbero considerare il rischio di una posizione come la loro. Proprio perché sono tra quelli che temono maggiormente l'invasione islamica, non dovrebbe sfuggirgli che mescolando a loro volta religione e politica potrebbe innescare rivendicazioni analoghe non appena i musulmani avessero raggiunto una forza numerica sufficiente a reclamarle. Non è un paradosso affermare che proprio una laicità correttamente intesa sarebbe anche per i cattolici la migliore garanzia.

Repubblica 21.1.09
L’agonia dei partiti
di Nadia Urbinati


Quella che si sta consumando sotto i nostri occhi è la crisi della democrazia parlamentare. La crisi di quella originale e unica forma di democrazia che i moderni hanno con fatica e anche tragiche interruzioni costruito mettendo insieme istituzioni e meccanismi politici che non sono di per sé democratici: le elezioni, la rappresentanza, la costituzione, le carte dei diritti, la divisione dei poteri. A questi strumenti istituzionali si sono aggiunti i partiti politici, istituzioni ibride che vivono e crescono fuori dello Stato pur consentendo alle istituzioni dello Stato di funzionare e, soprattutto, di essere rappresentative. I partiti sono forse l´aspetto più moderno e anche più controverso del governo dei moderni.
Identificati fin dal Settecento con le fazioni, come a sottolineare la loro tendenza a subordinare il bene comune a interessi di parte, i partiti hanno tradizionalmente destato diffidenza e ostilità. Non è un caso se i padri fondatori del parlamentarismo liberale ottocentesco, del quale ci parlava Carlo Galli su queste pagine, idealizzassero un parlamento composto di personalità rappresentative perché ottime e capaci, ma non di rappresentanti politici. E´ nota la durissima critica di J. S. Mill al partito politico (benché egli poi preconizzasse l´articolazione della politica nazionale in un campo conservatore e un campo progressista, anticipando suo malgrado la divisione ideologica tra destra e sinistra); la sua convinzione che occorresse un sistema elettorale capace di selezionare i migliori, proprio perché tali, non perché espressioni di interessi di parte. Rielaborando da Edmund Burke, Mill pensava che i migliori sapessero che cosa fosse il bene generale senza bisogno di piegarsi alle pressioni dei cittadini. Non stupisca questa diffidenza verso i partiti: i parlamenti liberali ottocenteschi erano eletti da una piccolissima minoranza di elettori simili e anzi identici negli interessi, al punto di potersi permettere il lusso di pensare di usare il parlamento come un simposio platonico, dove solo le buone ragioni, il libero scambio delle idee e l´indipendenza di giudizio avrebbero dovuto operare. Il mito del parlamento come luogo di discussione disinteressata e oggettiva tra individui eccellenti è figlio di un sistema politico non democratico.
Il parlamento liberale ottocentesco non ha pressoché nulla a che fare con il parlamento democratico. E la ragione principale sta nel fatto che contrariamente a questo, esso poteva sopravvivere senza i partiti (proprio perché espressione di un corpo elettorale socialmente e culturalmente omogeneo). Ma quando il suffragio cessò di essere un privilegio di pochi e diventò un diritto egualmente distribuito tra tutti, le differenze sociali e di opinione si resero immediatamente visibili e spesso non superabili con la libera discussione razionale. Il parlamento cominciò a popolarsi di "avvocati" di interessi spesso contrapposti, a volte nobili (per il suffragio femminile o per la conquista dei diritti sociali) a volte meno nobili (a favore di interessi corporativi) a volte terribili (a favore di ideologie totalitarie). La fine del parlamentarismo liberale si è consumata al principio del Novecento, allorché appunto i partiti dimostrarono di essere loro, non gli individui rappresentativi idealizzati da Mill, i dominatori dell´agone politico, dentro e fuori il parlamento. La democrazia parlamentare fu l´esito del difficile ma necessario accomodamento dei partiti alla politica costituzionale e dei diritti.
Pensatori politici autorevoli si scagliarono contro i partiti nel nome dell´unità plebiscitaria del corpo politico (come fu il caso di Carl Schmitt), oppure li accettarono pragmaticamente ma con la prospettiva di vederli liberi da ideologie o identità ideali forti e quindi disposti a fare compromessi e mutare di posizione (come fu il caso di Hans Kelsen e, per una parte della sua militanza intellettuale, di Norberto Bobbio). Dunque, anche quando se ne comprese l´importanza o ci si arrese alla loro utilità pratica, i partiti non vennero per questo emancipati dalla pessima reputazione che li aveva per secoli dannati e rimasero, ha scritto di recente Nancy Rosenblum, "orfani di teoria", sopportati ma mai ritenuti una forma nobile di politica.
Pochi compresero appieno la loro centralità nella democrazia parlamentate. Tra questi Lelio Basso (uno dei nostri rari pensatori democratici) il quale si impegnò con tenacia a mostrare come, quando il sovrano democratico perde lo scettro (perché non vota più le leggi direttamente) deve poter contare su forme di partecipazione che, benché informali e non esenti da rischi oligarchici, sappiano incidere sulle istituzioni: proponendo leggi, organizzando l´opposizione, esercitando il controllo sui parlamentari, tendendo viva la presenza simbolica dei cittadini. Per contro, la crisi della democrazia parlamentare è un riflesso di quella dei partiti.
E´ questa la crisi nella quale versa oggi la nostra democrazia. Senza partiti: o perché quelli che governano sono proprietà o emanazione di un potentato economico; o perché quelli che sono all´opposizione si stanno sbriciolando nei mille rivoli dei notabiliati, lacerati da lotte intestine di carrieristi e oligarchie. In nessuno dei due casi possono svolgere quella funzione di sorveglianza e rappresentanza preconizzata da Basso. Nel primo caso perché il partito è qui un fatto essenzialmente proprietario, quindi un´anomalia vera e propria che spiega, tra le altre cose, la ragione per la quale l´esecutivo ha acquistato tanto prevaricante potere in Italia (e perché il capo del governo può togliere voce al parlamento e rendere la sua maggioranza un megafono senza autonoma personalità).
Nel secondo caso (che riguarda il partito di opposizione) perché il partito soffre di una debolezza di identità ideale e di autorevolezza politica con la conseguenza di svilire la partecipazione e la stessa vita parlamentare, di alimentare anziché arginare i diffusi sentimenti anti-politici.
Senza i partiti, il parlamento democratico cessa di essere rappresentativo della società e i parlamentari diventano rappresentanti di se stessi e di gruppi di amici e clienti, mentre viene meno ogni forma di controllo sugli eletti (la deprecata disciplina di partito è stata una forma tutt´altro che perversa di realizzare il mandato politico contenendo il potere degli eletti � la sua scomparsa spiega il caso Villari o i casi regionali che ben conosciamo). I nemici dei partiti sono tanto coloro che invocano il partito del capo (plebiscitarismo) tanto coloro che idealizzano parlamenti senza partiti. In entrambi i casi è il parlamento democratico (la democrazia rappresentativa) a perdere di autorità e di valore, a languire per l´aria mefitica provocata da partiti che non sono più tali.

l’Unità 21.1.09
«Mio padre Guido Rossa e la sua lotta solitaria contro i terroristi in fabbrica»
di Maria Zegarelli


Vede quella stanza lassù, al secondo piano? Quella mattina stavo là, avevo sedici anni. Secondo anno di istituto magistrale. I miei compagni erano tutti in strada, pensavo ci fosse una delle solite assemblee, ce n’erano di continuo allora. Io andai in classe. Venne la mia insegnante di inglese, mi poggiò una mano sulla spalla e mi disse “devi andare a casa, tuo padre ha avuto un incidente”. Non capivo perché dovesse accompagnarmi la madre di una mia amica. “Conosco la strada”, risposi. Lei mi fece salire in macchina e fece il tragitto più lungo». Un giro tortuoso per non passare lungo via Fracchia.
Era il 24 gennaio 1979 e il cielo di Genova era nuvoloso, «proprio come oggi», spiega Sabina Rossa,deputata Pd, figlia di Guido, sindacalista Italsider prima gambizzato e poi finito con un colpo al cuore dalle Brigate rosse. Il primo operaio ucciso dai terroristi. Lo aspettarono sotto casa, lui se ne accorse, salì in macchina di corsa, tentò di proteggersi, non servì a nulla. «Uscii per andare a scuola, passai accanto alla macchina di mio padre, ma non la vidi, non vidi il suo corpo riverso sul volante. Ancora oggi quello rimane il mio cruccio più grande. Se ne accorse lo spazzino». Sabina sceglie di parlare mentre cammina per le strade della città. Tre ore per tracciare un percorso che soltanto alla fine si svela per quello che è stato: il percorso della sua vita, da quel giorno di 30 anni fa. Via Fracchia è sulle alture di Genova. La casa in cui è cresciuta sta al civico 4: è tutto come allora, la facciata rosa, il cortile. Sua madre, Maria Silvia, vive ancora lì. «Quando arrivai vidi poliziotti, carabinieri, tanta gente. Mia madre si avvicinò, disse “hanno ammazzato tuo padre”».
«Aveva denunciato alla vigilanza dell’Italsider i suoi sospetti su un operaio che diffondeva volantini dei terroristi. Erano in molti ad avere sospetti su Francesco Berardi, “il postino delle br”, ma alla fine soltanto mio padre firmò la denuncia. Il perché all’inizio non riuscivo a capirlo. Poi, dopo molti anni, riaprendo quel capitolo doloroso della mia vita, ho imparato a conoscerlo di più: sapeva che le Br cercavano fiancheggiatori tra gli operai, volevano creare colonne nelle fabbriche. Aveva capito chi era che diffondeva materiale all’Italsider e si era assunto la responsabilità di parlarne con la vigilanza. Oggi so per certo che in molti sapevano dell’attività del postino, ma nessuno volle esporsi e quando mio padre ne parlò, chiamarono i carabinieri e gli fecero firmare una deposizione mettendo nero su bianco. Poi, chissà come mai il nome di Guido Rossa finì su tutti i giornali, si buttò in pasto alle Br. Non gli fu mai data una scorta, si offrirono i suoi compagni, ma lui rifiutò perché sapeva che avrebbe messo a rischio altre vite. Eppure gli inquirenti sapevano della colonna “inviolata”genovese». Dieci morti e decine di feriti in pochi anni.
Oggi al posto dell’istituto magistrale c’è una scuola materna. Cento metri più avanti c’è il liceo artistico «Grazia Deledda». «Come ce l’ho fatta? Rimuovendo tutto. Mi ha aiutato lo sport. Pregai mia madre di iscrivermi ad un corso di paracadutismo». Anche Guido Rossa era un paracadutista, «forse mi ha trasmesso lui questa passione». Lo sport, l’Isef, la laurea in Scienze motorie, «mi hanno portato qui, al Deledda, dove ho iniziato a insegnare». Mostra «Guido Rossa, mio padre», il libro che ha scritto con Giovanni Fasanella: «Questa è una sua foto, ritratto durante una scalata in Valle Stretta. Amava la montagna, ogni fine settimana partiva. Poi, quando iniziò la sua attività di sindacalista cambiò tutto». Rossa era convinto che il peggior difetto degli alpinisti fosse la perdita di contatto con la vita reale. « Ricordo il giorno del suo funerale: piazza dei Ferrari era piena all’inverosimile di tute blu. Rimasi tutto il tempo su un furgoncino, vedevo quella gente, le lacrime, i pugni alzati e gli slogan contro le Br. Guido Rossa con la sua morte aveva segnato un punto di svolta: la classe operaia da quel momento in poi condannò definitivamente la lotta armata, il Pci prese una posizione netta. Fu l’inizio della fine per le Br. Per mia madre e per me, dopo il grande affetto iniziale da parte di tutti, arrivò il vuoto, la difficoltà di vivere con quel poco che avevamo».
Ecco Spianata Castelletto, Genova alta, vista da togliere il fiato, il porto antico, la Lanterna, i grattacieli. «È un posto che amo molto». Gira il libro tra le mani. «Ho deciso di scriverlo quando è nata mia figlia Eleonora. Dovevo raccontargli chi era il nonno, ma per farlo dovevo accettare la realtà». La rimozione andata avanti per anni. Poi, la ribellione. Salvifica. Il primo passo è stato quello di chiamare al telefono Vincenzo Guagliardo, il brigatista che faceva parte del commando che colpì Rossa. Fu lui a sparargli alle gambe. È un ergastolano in semilibertà. Il terzo membro del commando, Lorenzo Carpi, è ancora latitante. «L’ho fatto perché volevo sapere da lui come erano andate le cose. Se era vero che lo volevano solo gambizzare e andò così per sbaglio o fu un omicidio premeditato. Quando l’ho incontrato in una cooperativa di Melegnano, ho capito che oggi è una persona diversa. Mi ha detto che l’ordine era di gambizzare mio padre, che Riccardo Dura, poi ucciso durante un blitz nel covo di via Fracchia, lo colpì al cuore di sua iniziativa». Dopo quell’incontro è andata dal magistrato. «Ho chiesto che concedesse la libertà a Guagliardo e il perdono non c’entra nulla con questa storia. È un fatto di giustizia. C’è una norma, che io non condivido, in cui si stabilisce che, dopo 26 anni di detenzione, se si instaura un contatto tra il condannato e le vittime e si accerta un ravvedimento, il giudice può accordare la libertà. Guagliardo non ha mai pubblicizzato il nostro incontro perché non voleva usarlo strumentalmente. Allora ho detto io al giudice che quel ravvedimento c’era stato». Bionda, corpo esile, carattere d’acciaio. Li ha voluti incontrare tutti i protagonisti di quei giorni: i compagni dell’Italsider, i responsabili della Vigilanza, il magistrato che indagò sull’omicidio, Renato Curcio, quelli che si sono dissociati, quelli che non si sono mai pentiti, le loro compagne di vita. E i compagni di partito. «È stato uno di loro, Lovrano Bisso, a raccontarmi che mio padre faceva parte di una sorta di “Intelligence” del Pci ed era stato incaricato di individuare gli “infiltrati” nelle fabbriche».
Piazza Piccapietra dista poche decine di metri dal tribunale. C’è l’unico monumento della città a Guido Rossa. Nudo, con il dito puntato verso un colpevole. Tre assi verticali: i mesi che trascorsero tra la sua denuncia e la sua esecuzione. 24 ottobre-24 gennaio. «È stata realizzata con il finanziamento degli operai dell’Italsider», racconta Sabina. Si concede una pausa, riprende. «Guido è stato l’unico della sua famiglia a militare in un partito, suo padre era un minatore torinese. Quando mi hanno chiesto nel ’96 di candidarmi con i Ds ho capito che valeva la pena provare. Mi sono sempre occupata dei problemi legati al territorio, lo sviluppo, il porto. Ma è successo qualcosa: hanno iniziato a invitarmi in maniera incessante scuole e associazioni, chiedendomi di parlare di mio padre. C’è una nuova generazione che chiede il conto di quello che è successo. Se questo paese non costruisce una memoria collettiva su quegli anni terribili non riuscirà mai a scrivere per intero quella storia». Cita Mario Calabresi, il figlio di Luigi. «Il ricordo dà un volto alle vittime». E aiuta tutti gli altri «anche quelli che vengono dopo a capire».

Liberazione 21.1.09
Ottantotto anni fa nasceva a Livorno il partito Comunista d'Italia, sezione dell'internazionale comunista
di Paolo Ferrero


Ottantotto anni fa nasceva a Livorno il partito Comunista d'Italia, sezione dell'internazionale comunista. Dopo la sconfitta del biennio rosso e del movimento di occupazione delle fabbriche, l'incapacità del partito Socialista di dirigere positivamente il movimento di massa veniva sancito da questa rottura. Il movimento operaio italiano non nasceva in quel passaggio, ma lì si decise una svolta, si decise il cambiamento del nome: da lì in poi, anche in Italia, i rivoluzionari si sarebbero chiamati comunisti. Il cambio del nome nacque dalla necessità di distinguersi dai partiti socialisti. Questi erano stati travolti; prima dall'incapacità di tenere una posizione autonoma dalle varie borghesie nazionali nella gigantesca carneficina che fu la prima guerra mondiale; poi dall'incapacità a definire uno sbocco rivoluzionario alla crisi post bellica. I partiti socialisti si erano rivelati una guida fallimentare per i lavoratori e così, i rivoluzionari, dopo la vittoria in Russia, decisero di segnare nettamente la differenza, addirittura con il cambio del nome.
Quaranta anni fa Jan Palach si dava fuoco in piazza Venceslao a Praga per protestare contro l'invasione sovietica della Cecoslovacchia. Quell'invasione, che seguiva di 12 anni l'invasione dell'Ungheria, metteva la parola fine alla primavera di Praga. Chiudeva brutalmente il più importante tentativo di autoriforma avvenuto nei paesi a socialismo reale. I sistemi politici nati con la rivoluzione russa evidenziavano in modo drammatico di essere entrati in contraddizione totale con le aspirazioni che li avevano generati. La speranza di trasformazione sociale che il comunismo aveva portato al punto più alto nel mondo moderno, con una rivoluzione che aveva sovvertito completamente l'ordine sociale, veniva annichilita sotto i cingoli dei carri armati.
Per questo il nostro partito oggi si chiama Partito della Rifondazione Comunista. Perché ci sentiamo in piena sintonia con quei rivoluzionari che assaltarono il Palazzo d'inverno e che diedero vita al Partito Comunista d'Italia e perché siamo consapevoli che i sogni e le speranze di quei rivoluzionari sono stati negati, calpestati ed offesi a Praga, a Budapest come a Berlino nel 1953. Rifondazione Comunista, due termini che si sostengono e si qualificano a vicenda. L'uno senza l'altro perdono di significato, non possono esprimere il senso del nostro progetto, sono muti. Rifondazione Comunista non è solo il nome del partito ma il nostro progetto strategico: rendere attuale il comunismo attraverso il suo processo di rifondazione, che matura e cresce interagendo con le soggettività antagoniste.
Da qui ripartiamo oggi. Nella consapevolezza che negli ultimi tempi il progetto della rifondazione comunista è stato pesantemente attaccato e messo in discussione da chi ha proposto di abbandonare ogni riferimento al Comunismo. La rifondazione senza il comunismo non è l'approdo naturale della nostra storia ma la negazione radicale della nostra ragione di esistenza. La rifondazione senza il comunismo è la pura riedizione dell'occhettismo, cioè l'innovazione senza principi e la perdita di ogni autonomia politica.
Ricordiamo quindi oggi quel lontano 21 gennaio 1921, nella piena consonanza di ideali e di propositi, per proporre il rilancio del progetto della rifondazione comunista. Questo non avviene nel vuoto pneumatico, non avviene nel cielo delle ideologie; avviene nel bel mezzo di una gravissima crisi economica che mostra, una volta di più, il volto distruttivo del capitalismo. Quella in cui siamo entrati è una crisi pesantissima, che durerà a lungo e che cambierà profondamente il nostro modo di vivere. E' una crisi "costituente" in cui si intrecciano crisi economica, crisi sociale e crisi della politica. Il parallelo storico che salta agli occhi è quello con la Germania della repubblica di Weimar, in cui identità sociali e politiche consolidate si sfaldarono e il disagio e le paure sociali vennero egemonizzate dalla barbarie razzista.
Ricostruire una speranza. Ricostruire un efficace conflitto di classe, forme di solidarietà e di mutualismo, evitare le guerre tra i poveri. Far vivere nel conflitto la lotta per le libertà e per l'eguaglianza. Prospettare una uscita da sinistra da questa crisi, in termini di intervento pubblico per la ristrutturazione ambientale e sociale dell'economia e di redistribuzione del reddito e del potere. Queste sono le sfide a cui dobbiamo saper rispondere nella costruzione dell'opposizione. Non si tratta di proseguire come ieri. Rifondazione Comunista non si salva conservandola ma spendendola nella capacità di dare una risposta alla crisi, sommando spirito unitario e determinazione, nella forte sintonia che ci lega alle esperienze latinoamericane. Il Partito Comunista Italiano seppe costruire il suo ruolo e la sua ragion d'essere politica nella lotta partigiana, nell'abbattimento del regime fascista e nella costruzione della democrazia in Italia. Noi oggi vogliamo rilanciare il nostro progetto di rifondazione comunista nella capacità di dare una risposta, in basso a sinistra, a questa crisi.

Liberazione 21.1.09
Un esordio burrascoso sotto i colpi del Tribunale fascista
di Nicola Tranfaglia


Era la mattina del 21 gennaio 1921 nasceva a Livorno, scindendosi dal partito socialista, il "Partito comunista" sezione italiana della Terza Internazionale comunista.
Da quel giorno sono passati ormai 88 anni, ma questo anniversario ha luogo - è bene ricordarlo - a quasi vent'anni dalla fine dell'Unione Sovietica e dalla presenza ormai residuale di partiti e regimi comunisti, se si esclude il caso della Cina in cui convivono da trent'anni un capitalismo più o meno di Stato e il partito comunista.
Dal punto di vista storico, che è quello che interessa in questa ricorrenza, vecchie e nuove generazioni, il partito comunista nasce in Italia quando la crisi postbellica ha già segnato fasi decisive dell'ascesa del movimento fascista fondato due anni prima da Benito Mussolini a Milano ed è ormai presente con migliaia di iscritti nel centro-nord della penisola con alcune minori presenze anche nel Mezzogiorno e nelle isole.
La molla per la fondazione è stata, senza alcun dubbio, la rivoluzione bolscevica in Russia che sta per vincere la guerra civile contro i bianchi e ha fondato nel 1919 una Federazione Internazionale dei partiti comunisti, cui aderirono nei mesi successivi 64 partiti in cinquanta paesi. Ma il partito socialista italiano, all'interno del quale erano stati i comunisti, vede nel 1922 uscire anche la componente riformista di Filippo Turati e Claudio Treves che costituisce il Partito Socialista Unitario mentre resta alla sua guida Serrati, leader dei massimalisti, che rappresenta una strategia diversa da quella delle frazioni comuniste di Antonio Gramsci a Torino e di Amedeo Bordiga, leader indiscusso del primo Pdci, a Napoli.
C'è da parte del nuovo partito, e in particolare di Bordiga, una indubbia sottovalutazione del pericolo fascista che, un anno dopo la fondazione del Pdci, raggiunge il potere e mette fuori legge partiti, sindacati e giornali a cominciare proprio dai comunisti italiani. Gramsci diventa segretario nel giugno-luglio 1924 di fronte alla persistente contrarietà di Bordiga e dei suoi seguaci al "fronte unico" deciso dalla Terza Internazionale e riesce a portare nel partito una parte dei massimalisti (i cosiddetti "terzini") espulsi dal Partito socialista.
Gramsci fonda, il 12 febbraio 1924, il quotidiano L'Unità che resterà, nella storia del partito, l'organo giornalistico ufficiale che si propone di dialogare con le masse vicine alla nuova formazione politica. Nell'aprile 1924, in un clima di aperta violenza alimentato dai fascisti a cui i socialisti non reagiscono, il Pdci ottiene 268 mila voti e 19 deputati tra i quali Gramsci, eletto nel Veneto. Nella crisi scoppiata per il rapimento e l'uccisione del deputato socialista Giacomo Matteotti nel giugno 1924 i comunisti si uniscono all'Aventino proclamato dal liberale Giovanni Amendola ma in ottobre ritornano in parlamento dopo che lo stesso Gramsci ha definito l'Aventino come "un semifascismo che vuole addolcire, riformandola, la dittatura fascista." I comunisti non si rendono conto, come i partiti aventiniani, della grande forza che ha Mussolini, sostenuto dal re, dal Vaticano e dagli industriali, e parlano in astratto di coinvolgere le masse popolari ma si dedicano di fatto soprattutto al dibattito interno nel partito, che resta assai acceso e assistono, senza poter far molto, al discorso del 3 gennaio 1925 e, ancora di più, alla realizzazione della dittatura vera e propria con le leggi eccezionali dell'autunno-inverno 1926.
Nel terzo congresso a Lione, nel gennaio 1926, si completa la conquista del partito da parte di Gramsci e del gruppo torinese e l'emarginazione dei bordighiani, in rotta con la Terza Internazionale e ha inizio quasi un ventennio di lotta clandestina in Italia e in Europa, fruendo dell'appoggio indispensabile del Partito comunista sovietico. Ma Gramsci, già alla fine del 1926, viene arrestato e condannato,
come Terracini a venti anni di carcere, dal Tribunale Speciale e passa il resto della sua esistenza prima nel carcere di Turi poi in una clinica a Gaeta, cessando di vivere improvvisamente nell'aprile 1937. Lascia le sue Lettere dal carcere e soprattutto i Quaderni del carcere , un patrimonio di grande importanza per la storia del partito comunista, anche se sarà decisiva la mediazione del suo successore Palmiro Togliatti divenuto, dopo la sua morte, il segretario del Pdci in esilio e poi in Italia alla liberazione dal fascismo.
Nell'ottobre 1926, prima di essere arrestato, Gramsci invia una lettera all'Ufficio politico del partito comunista russo mostrando di essere angosciato dalle divisioni che caratterizzano la vita del partito fratello e temendo che quelle divisioni possano portare alla fine del ruolo dirigente nel proletariato internazionale. Due anni dopo, nel 1928, l'Internazionale Comunista modifica radicalmente la strategia del fronte unico ed elabora quella della "classe contro classe" invitando gli altri partiti comunisti a muovere contro la socialdemocrazia considerata strenuo baluardo del capitalismo.
Ma l'accettazione della parola d'ordine porta all'espulsione di Tasca che nel 1929 si era pronunciato con durezza contro le posizioni dell'Internazionale Comunista.
Gli anni successivi sono anni difficili per il partito clandestino che ha alcuni centri nel Nord ma è quasi assente nel Mezzogiorno e nelle isole di fronte a un attacco molto duro della polizia segreta fascista, l'Ovra e del Tribunale Speciale. I comunisti saranno i maggiori oppositori del regime, quelli che pagheranno il prezzo più alto: su 4671 condannati dal Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, istituito nel 1926, 4030 furono i comunisti condannati a complessivi 23.000 anni di carcere (insomma, su 5600 imputati del Tribunale Speciale l'80 per cento era composto da comunisti).
In carcere Gramsci abbozzava le proprie intuizioni sulla funzione degli intellettuali e sull'importanza che, per la rottura del blocco agrario e la realizzazione dell'alleanza tra operai del Nord e contadini del Sud si determinasse al loro interno una "tendenza di sinistra, nel significato moderno della parola, cioè orientata verso il proletariato rivoluzionario."
Soltanto nel 1934-35, dopo le conseguenze terribili per operai e contadini in tutta l'Europa, e particolarmente in Italia, della grande crisi del 1929 e l'avvento di Hitler al potere, l'Internazionale Comunista mutò ancora orientamento e si orientò verso una politica delle alleanze che sarebbe sfociata in Francia e in Spagna nella politica dei fronti popolari.
Ma intanto la guerra premeva e nel 1939 i fascismi, guidati dalla Germania nazionalsocialista di Adolf Hitler, avrebbero scatenato il nuovo conflitto mondiale.

Liberazione 21.1.09
Il craxismo fu un passaggio decisivo nell'attacco all'idea comunista
Chi ha ucciso Livorno? Craxi proudhoniano
di Giuseppe Prestipino


La storia dell'opposizione politico-sociale in Italia percorre almeno quattro fasi. La prima fu forse in varia misura caratterizzata da un ribellismo sociale principalmente contadino e/o meridionale, ancorché in alcune regioni e città si diffondessero le diverse correnti socialiste, il movimento cooperativo e, dopo la Rivoluzione di ottobre, gli esperimenti consiliari di autogestione nelle fabbriche e la stampa alternativa a quella socialista, come prime avvisaglie della scissione di Livorno. La seconda fu la fase dell'opposizione politica clandestina, comunista ma anche socialista e liberaldemocratica, contro il fascismo. La terza fu, dopo la caduta del fascismo, la fase della "democrazia organizzata" in un partito comunista di massa, capace di educare anche le plebi alla graduale conquista di "fortezze e casematte" combattendo la (gramsciana) "guerra di posizione". A Livorno era nato il Pcd'i. L'autentico atto di nascita del Pci non è tanto nella Resistenza o nella "svolta di Salerno", quanto nelle lotte per i decreti Gullo e soprattutto nella Costituzione repubblicana, che vede decisivamente impegnati tre "ordinovisti" torinesi: uno dei tre, Gramsci, presente-assente (presente come ispiratore) e gli altri due protagonisti di primo piano nell'elaborazione della Carta (Togliatti) e nel presiedere i lavori dei costituenti (Terracini).
La quarta è la fase di una nuova ribellione quasi-anarchica, ma non più di plebi rurali o urbane, perché i suoi attori sono principalmente gruppi di piccoli intellettuali (diciamo "piccoli" per differenziarli dai "grandi intellettuali", mediatori coscienti del consenso a sostegno di industriali e agrari, scrutati dalle analisi gramsciane). In quest'ultima fase, studenti e mondo della scuola scuotono dapprima il sistema, in specie nel '68-69 e sotto i cartelli inneggianti alla vittoria vietnamita, contribuendo così alla rinnovata elaborazione teorica di Panzieri e di altri, alla conquista di nuovi spazi democratici e culturali-formativi anche a beneficio della classe operaia, a sua volta in forte movimento (tuttavia organizzato o non soltanto spontaneo). Ma, ben presto, alcuni appartenenti a quella generazione scelgono di assecondare, per un loro tornaconto personale, il disegno di restaurazione in atto ad opera del capitale e diventano giornalisti di destra o funzionari di azienda o infine consiglieri del principe nell'ultimo reame neoliberista. Altri scelgono la strada illusoria e rovinosa della lotta armata. Altri ancora, con il loro radicalismo anarchico o libertario e con la loro ingenua polemica contro la forma-partito (non soltanto novecentesca), si prestano senza volerlo al ben più accorto e insidioso giuoco delle destre "democratiche" ultra-conservatrici. Quest'ultima è la tipologia che caratterizza specialmente il periodo attuale. E' evidente che le diverse tipologie possono talvolta convivere o intrecciarsi tra loro. Un passaggio esemplare ritroviamo nel craxismo, ideologia anti-comunista che, sul terreno "teorico" rivaluta l'anarchismo precoce di Proudhon, sul terreno politico strizza l'occhio ai gruppi armati e ai sequestratori di Moro (non propriamente per sensibilità umanitaria) e sul terreno economico porta all'apice, senza pudori, la commistione tra politica e affari, spianando il terreno (senza volerlo) alla stagione di "mani pulite". La voce di Enrico Berlinguer sulla diversità comunista, sulla questione morale come dovere politico e sull'austerità come sinonimo di critica politica all'incipiente consumismo di massa, quella voce resta inascoltata.
Sul versante teorico il trapasso, specialmente in Italia, dal partito comunista al democraticismo e alle tendenze neo-libertarie fa seguito alle polemiche contro lo storicismo. Il canone teorico-politico del Pci, almeno a partire dalle "Tesi di Lione", è storicistico anche nel senso di realistico: non si può ignorare la realtà storica sul tronco della quale ciascun partito innesta la propria lotta. Togliatti cerca una via italiana per un salto diverso, non più esplosivo come nel 1917, dalla tradizione all'innovazione. Lo storicismo gramsciano è antitetico ad altri storicismi, in specie a quello crociano, la cifra del quale è la discontinuità nella continuità, laddove per Gramsci è la continuità nella discontinuità. E' la differenza, appunto, tra dialettica conservatrice e dialettica innovatrice, una differenza non percepita da coloro che deplorano, nel Pci, un presunto storicismo della continuità, proprio poiché essi stessi, invece, ravvisano un'inesistente "continuità" tra Croce e Gramsci. Dagli anni '70 in poi non soltanto il Pci si allontana da Gramsci, ma una malcelata fragilità accomuna anche i suoi intellettuali più prestigiosi. I non frequenti tentativi di fare teoria trapelano tra le righe dell'esegesi marxiana, non si avventurano in una distinzione, se si vuole più "scolastica", tra le "revisioni" teoriche e le reintepretazioni filologicamente rigorose dei testi marxiani.
E oggi i "superatori" del comunismo hanno basi teoriche? Poche e deboli. Le proposte di Toni Negri e di Marcello Cini, come dimostra Raul Mordenti, fraintendono Marx e assolutizzano la sostituzione del lavoro fisico con quello immateriale, enfatizzato in maniera non dialettica e debitrice di un pensiero occidentale che ricalca il vecchio dualismo tra anima e corpo. Si legga invece l'ultimo libro di André Tosel, Un monde en abîme? Essai sul la mondialisation capitaliste (Editions Kimé, Paris, 2008). La novità di quest'ultima mondializzazione capitalistica consiste nell'aver unificato non soltanto il mercato delle merci e delle comunicazioni, in specie delle comunicazioni tra le borse (ciò che in varia misura è già accaduto in passato), ma anche e soprattutto il mercato del lavoro "materiale", che ieri aveva i suoi luoghi di elezione in ambiti nazionali e diviene oggi «sottomissione mondiale del lavoro»: il capitale importa e esporta mano d'opera o "eserciti di riserva" da un paese all'altro, mettendo in atto una strategia complessa in forza della quale la frammentazione dei lavori procede di pari passo con il nuovo mercato unificato del lavoro. I vari razzismi, etnicismi, comunitarismi sono le stratificazioni del lavoro, anche in ciascuno Stato, a scopo di divisione e reciproca ostilità tra i lavoratori, specie se di diversa nazionalità, e per una rinnovata solidarietà verticale neo-corporativa tra lavoratori e datori di lavoro in una pluralità di livelli gerarchici che fa rivivere, dentro l'iper-moderno, le società premoderne. Compito di ciascuno Stato nazionale è di «assicurare la gestione differenziata della forza lavoro» e di pilotare, scrive Tosel, «la deregolazione come forma nuova della regolazione, non come il suo contrario», cercando di occupare una posizione più alta nella competizione delle sue imprese transnazionali sul mercato mondiale. «Il Presidente della Repubblica concepisce il proprio ruolo come quello di un capo-commesso viaggiatore».
Non soltanto in Francia. Il futuro Presidente della Repubblica italiana "fondata sul lavoro" è un imprenditore viaggiante in prima persona (specialmente, sull'etere).

Liberazione 21.1.09
21 gennaio 1921. Intervista a Luciana Castellina
«Da quella spaccatura nacque una grande forza democratica»
di Vittorio Bonanni


Luciana Castellina è stata un'esponente di spicco del Partito comunista italiano. Una dirigente di primo piano e un'intellettuale eterodossa, radiata nel 1969 dal Pci per la presa di posizione del gruppo de il Manifesto , del quale faceva parte, sui paesi dell'allora Patto di Varsavia e in particolare sulla Primavera di Praga. A lei abbiamo chiesto di commentare i fatti che portarono il 21 gennaio del 1921 alla nascita del Partito comunista in Italia: i dissidi interni alla Seconda internazionale di fronte alla Grande guerra, con il voto favorevole al conflitto del partito socialdemocratico tedesco; il movimento rivoluzionario russo, all'interno del quale prevalsero i bolscevichi con la conseguente nascita in Europa e nel mondo di vari partiti comunisti; e per finire l'incapacità dei socialisti italiani di distinguersi dal resto del movimento socialista.

Luciana, tutti avvenimenti che dopo tanti anni si tenta di interpretare con una chiave di lettura diversa. Si dice che la scissione di Livorno doveva essere evitata, che si doveva agire diversamente, senza contare che si è fatta strada una valutazione del tutto negativa della rivoluzione d'Ottobre. Che cosa ne pensi?
Innanzitutto credo che le ragioni di quella spaccatura all'interno del Partito socialista c'erano ed erano molto forti. Non dimentichiamo che c'era stata anche l'ondata sciovinista che aveva coinvolto i socialisti, dai quali non a caso arrivò Mussolini. Ci fu un'ala che addirittura si aggregò al fascismo. Per carità non fu affatto questa la storia del Partito socialista ma porsi l'interrogativo "si poteva evitare, non si poteva evitare" è sbagliato intanto perché la storia non si fa mai con i se ed è meglio dire che cosa è realmente accaduto.

Per esempio che il Pci da allora è rimasto il primo partito della sinistra italiana...
infatti ci sarà pure stata qualche ragione per la quale il Partito comunista è diventato la forza politica di gran lunga maggioritaria del movimento operaio italiano e il nerbo della Resistenza e dell'antifascismo. Certo ci sono stati anche i socialisti. E allora, in quel frangente, c'era da chiedersi il perché di quella divisione tanto più che io stessa ho vissuto quella fase, nell'immediato dopoguerra, con il patto per l'unità d'azione tra socialisti e comunisti. Ho militato nelle organizzazioni comuni e fino al '48 c'era il Fronte popolare, che sembrava il risultato di un processo che poteva portare alla riunificazione. Questo poi non è avvenuto e, come dicevamo, il Pci è diventata la forza più importante della sinistra italiana. Poi tanti errori si dovevano e si potevano evitare, li conosciamo tutti ed è inutile rifare qui l'elenco. Ma io credo che alla fine si possa ben dire che l'esistenza di quel partito nato a Livorno sia stato un elemento determinante nella costruzione della democrazia in Italia. Il modo con cui ha inciso trasformando la società italiana è insomma una buona ragione per dire che valeva ben la pena che fosse nato quel partito.

Come dicevamo la nascita del Pci, come degli altri partiti comunisti, fu determinato anche e soprattutto dalla Rivoluzione d'Ottobre. Che cosa possiamo dire oggi?
Quello è stato uno dei tanti momenti della storia in cui non era molto possibile scegliere. La Rivoluzione d'Ottobre ha avuto anche le conseguenze brutali che conosciamo ma se non ci fosse stata la storia sarebbe stata diversa ma anche molto peggiore.

Oggi chi è stato protagonista di quella storia è in difficoltà. C'è chi vuole mantenere in vita un partito comunista, chi pensa ad altro, chi vuole superare le divisioni di allora ma avendo di fronte uno scenario assolutamente altro. Che cosa ne pensi?
Certamente oggi non è pensabile la ricostituzione di un partito comunista fidandosi soltanto di ciò che quella parola ha significato nella storia. Intendiamoci bene la storia e la memoria sono sempre importantissime. Nessun futuro si costruisce se non si ha un passato e quindi anche un patrimonio di esperienza storica che c'è dietro e guai se lo dovessimo cancellare o liquidare. Altra cosa è dire però che possa essere riprodotto tale e quale.

Repubblica 21.1.09
L’antisemita che vive in mezzo a noi
di Paolo Rumiz


Svastiche sui muri delle sinagoghe, cori allo stadio, insulti nei blog La mappa dell´intolleranza in Italia tra vecchi rancori e nuovi pregiudizi "Hanno il potere, devono smetterla di fare sempre le vittime" E nelle comunità ora i nervi sono scoperti
Così gli stereotipi e i risentimenti si infiltrano anche tra gli insospettabili
Il direttore del museo della Shoah: invidie e paure vanno in emulsione
L´esperto di Medio Oriente avvisa: il conflitto non crea ostilità, ma la porta a galla
Skinhead e ultras, estremisti di destra e sinistra: l´onda cresce e dilaga sul web

Vento, pioggia, finestrini appannati. I giornali dei passeggeri mostrano svastiche e stelle di Davide: non più icone contrapposte, ma unite in una spaventosa equazione. Israele è nazismo, Bestia dell´Apocalisse. L´ebreo è il carceriere dei nuovi lager, sterminatore degli innocenti. Le foto delle proteste pro-Palestina colgono striscioni con slogan inauditi; come se Gaza avesse abbattuto i confini dell´indicibile, rotto un argine che si porta dietro parole che nessuno finora aveva osato pronunciare.
Linea Trieste-Mestre-Milano, un treno di pendolari e studenti. Un proiettile di pensieri, sentimenti e paure in corsa nella nebbia della Padania. L´Italia si interroga. Cosa è diventato oggi l´antisemitismo? Cosa cambia nel pensiero medio con la guerra di Gaza? Come si coniuga il vecchio odio europeo con l´anatema anti-sionista del mondo arabo filtrato con l´immigrazione? Per capire basta sparare ad alta voce il proprio sconforto per Gaza. Una risposta dalle poltrone accanto arriva sempre. Il tema è a fior di pelle.
«Loro hanno dimenticato Auschwitz, non noi». Parla un uomo ben vestito con borsa ventiquattrore, salito a Portogruaro. «Sono stufo del giorno della memoria - aggiunge - è solo una loro schifosa ipocrisia per garantirsi impunità sulle nefandezze peggiori. Hanno tutto, comandano tutto. Non se ne può più». È sdegnato, stressato, parla ad alta voce, non ha freni inibitori. "Noi" e "loro": contrapposizione assoluta. E identificazione totale fra israeliani ed ebrei.
Piove a dirotto, a Padova c´è ressa di studenti. Nel mucchio, una pia donna sui settanta che non sta mai zitta, impartisce petulanti lezioni di vita. Banalità come: «moglie e buoi dei paesi tuoi». Qualcuno ridacchia. La provoco su Gaza e quella si fa un rapido segno di croce. «Loro hanno crocefisso Nostro Signore� Non c´era da aspettarsi altro�». Poi sussurra con voce costernata, quasi dolce «Preghiamo per quei bambini», e si chiude in raccoglimento. Nessuno replica, e nel vagone scende un imbarazzato silenzio.
Desenzano, tuona, il convoglio entra nel monsone, diventa un bivacco. Due studenti prendono le parti di Israele, chiedono perché tanto sdegno per Gaza mentre si tace su Cecenia e Afghanistan, ma li zittisce un grassone salito a Verona. «Col potere che hanno, devono smettere di fare le vittime». Ostenta "la Padania" bene aperta sul tavolinetto, così gli chiedo se è solidale con i palestinesi. Risposta prevedibile: «Stessa gentaglia. Da passarci sopra con la ruspa. Le macerie e loro». Arabi, ebrei, zingari, clandestini, immondizia dell´umanità. Il pregiudizio antiebraico e quello antimusulmano diventano facce della stessa medaglia.
È l´interezza del Vicino Oriente che sfugge, come se l´Italia cristiana avesse smarrito il rapporto con ambedue i fratelli del Libro. Ora è chiaro. Il pregiudizio esce allo scoperto, riprende coraggio. Lo stereotipo del perfido ebreo si aggancia a formule nuove, si ibrida, cambia volto, si infiltra tra insospettabili, nobilita l´odio come lotta antirazzista, addossa a Israele la colpa del rapporto fallito fra cristiani e Islam. Si sdogana a sinistra, si camuffa dietro la contestazione contro Israele o il volto di bambini uccisi. Si nutre di risentimenti, alimenta retropensieri, abbatte tabù. Diventa magma, micidiale latenza.
Come fotografare un fantasma? Soprattutto, come stare in equilibrio fra il dovere civile di essere allarmisti e il timore di stravedere, svegliando il can che dorme? Arrivo a Milano e in via Cellini un ebreo Hassid col cappellone nero subito mi raffredda: «Ammesso che ci sia, che senso ha parlarne? È il Signore che manda queste cose». Ma quando se ne va, noto lo sguardo duro di alcuni "gentili" che passano. «È un momentaccio» confessa l´ebreo "Lubavitsch" Ariel Haddad, pure lui barbone e completo regolamentare. «Pochi hanno voglia di parlare, il clima è pessimo. Temiamo il contagio dalla Francia».
Nelle comunità i nervi sono scoperti, si sa che Gaza è il pretesto umanitario ideale per sdoganare pregiudizi. «Un Papa che rivaluta la preghiera del Venerdì Santo, dove si recita che gli ebrei sono da portare sulla strada della vera fede, non è cosa senza influenza» s´arrabbia Marcello Pezzetti, direttore del museo della Shoah di Roma. Loris Rosenholz: «In situazioni come queste, frustrazioni invidie e paure vanno in emulsione come in un frullatore, specie se c´è un segnale dall´alto». Mi scrivono da Israele: «C´è voglia matta di sputtanare gli ebrei, un desiderio liberatorio, così il patibolo di Cristo non fa più paura».
Al centro di documentazione ebraica - Cdec - si muovono con i piedi di piombo, sanno che «critiche comprensibilissime» verso Israele non vanno confuse con l´antigiudaismo. Ma mai hanno visto una vigilia così tesa del giorno della memoria. L´effetto inibitorio di Auschwitz non ha più la forza di una volta. Per la prima volta le comunità non hanno proposto nulla, paralizzate del clima. Giorni fa una donna s´è presentata agli organizzatori per protestare contro la cupola del nuovo museo della Shoah di Roma, che faceva pensare a una moschea e dunque implicava il pericolo che gli arabi s´offendessero. Persino la scritta "Shoah" non andava bene, perché "attirava terrorismo".
«L´Italia non è la Francia» mi dice subito Adriana Goldstaub dell´Archivio del Pregiudizio. Non c´è la rabbia delle banlieues e non ci sono sei milioni di maghrebini. Ma le barriere del politicamente corretto sono saltate da tempo, a livello verbale, nei confronti di Rom ed extracomunitari, e ora lo sproloquio dilaga fatalmente con gli ebrei. Dietro non c´è solo Gaza: c´è la crisi economica che suscita rancori e dietrologie, come negli anni Trenta. La gente parla apertamente, ora anche la sinistra estrema sfonda la barriera dell´ultimo tabù.
L´esperto di Medio Oriente David Meghnagi: il conflitto non crea ostilità, ma la porta a galla. Svela un fiume carsico che si rinforza di umori nuovi. Cita dati agghiaccianti: il 34 per cento degli italiani pensa che gli ebrei debbano smettere di parlare di Shoah, e quasi altrettanti credono che nel Paese gli ebrei siano milioni, mentre sono appena 30 mila. «Ora si colpisce l´ebreo in quanto Israele. La vittima della Shoah, santificata come nazione morta, è demonizzata dalle stesse persone come nazione viva. E l´antisemitismo, presentandosi come variante della lotta al razzismo, consente il ricupero di un´innocenza perduta».
L´onda lunga cresce. Da dove sondarla? Tra gli skinhead del Veneto? Nei centri sociali di Milano? Nelle tane dell´estrema destra del Varesotto? Nelle frange estreme della sinistra a Torino? Nei covi di Forza Nuova? Non ci sono statistiche aggiornate, la scienza e la cultura sono inermi di fronte a un fenomeno nuovo. E poi oggi, mi avvertono, non esiste più un luogo. La nuova frontiera è virtuale, corre su Internet, in un labirinto di siti gonfi di negazionismo, antisionismo o giudeofobia, varianti della stessa ossessione. Siti di destra e sinistra estreme, islamisti, iper-cattolici o cospirativi.
Un organo ansiogeno saluta l´ingresso nel portale del catto-integralista "Holywar", un funebre monumento all´antisemitismo nazista. C´è di tutto: l´omicidio rituale dei bambini che spiega la strage di Gaza; la stella di Davide con il "666", il numero della Bestia. Il solo stato nazista al mondo? Israele. L´Italia? Una colonia israeliana. Crisi economica? Provoca tagli su tutto ma non sulle missioni dei soldati «che vanno ad ammazzare per conto di Sion». Dappertutto, micidiali disegni satirici gettonatissimi su altri siti.
Il mondo arabo, incluse nazioni moderate come la Germania, mette in rete raffiche di vignette che renderebbero felice Goebbels, accompagnate da dissertazioni per cui esisterebbe un disegno segreto di Dio per portare a termine il disegno di Hitler. C´è il "diavolo sionista" sdentato e bavoso, oppure un fumo puzzolente che sale da Israele e ammorba i cieli disegnando una stella a sei punte. Trasferito sui siti di casa nostra, l´odio europeo torna al mittente, arricchito di pregiudizio arabo.
Ma ecco "Effedieffe", ipercattolico, legato a una casa editrice che vende libri antigiudaici o negazionisti "on line". Cose come "I fanatici dell´Apocalisse", già alla terza edizione; o "I segreti della dottrina rabbinica" dedicato alle «bestemmie del Talmud contro i cristiani». Testi banditi fino a poco fa, che ora hanno conquistato lettori e gli scaffali delle librerie "normali".
È qui che il vecchio e il nuovo antisemitismo si ibridano. L´ebreo è colui che uccide i bambini altrui, ne beve il sangue per fare il pane, domina il mondo attraverso occulte macchinazioni finanziarie. È il potere demo-pluto-massonico, la congiura, il complotto. Ha il naso adunco, le mani come artigli. È il carnefice di Gesù, l´infedele per cui pregare il venerdì santo, nel giorno del sangue versato.
«Sionismo = pulizia etnica = Quarto Reich»; «Ebrei = massoni»; «nuove SS = soldati sionisti». Le tesi antisemite escono dal ghetto. Parole come: «Israele filtra il moscerino e ingoia il cammello: di sabato non accende una sigaretta ma accende i motori degli F16». La Chiesa? Su Israele è «afasica» perché «ha smesso di dire che gli ebrei hanno ucciso il Dio figlio», quindi «non trova la voce per gridare che si ammazzano innocenti».
Sui siti della sinistra si arriva all´equazione finale: «Israele = stato fascista». E ancora: «Da Kabul a Gaza, viva la resistenza dei popoli». Gaza non è «un fatto umanitario ma di solidarietà politica e di classe». Da qui il corollario: «Basta con la propaganda filo-sionista dei media e col sostegno a Israele del governo Berlusconi».
Ma per capire non bastano queste nicchie estreme. L´Onda la catturi nell´ineffabile, là dove il veleno diventa chiacchiera da bar, discorso d´autobus. Frasi buttate là, che vanno ben oltre le curve degli stadi e le grida «ebreo» degli ultras. A Roma trovo Stefania Buccioli, che cura i temi della memoria nelle scuole di Roma. Un lavoro bestiale contro i luoghi comuni senza matrice politica. «Nei bar, discoteche o palestre, i giovani della destra estrema e quelli dei centri sociali costruiscono una miscela esplosiva che diventa rabbia contro il mondo».
In un locale di piazza Bainsizza, tre tecnici televisivi discutono ad alta voce su Gaza e concludono che «Se a Hitler avessero lasciato finire il lavoro, oggi non ci troveremmo in questa situazione». Risate, ghigni, la gente al bancone non protesta. In un Paese dove sui giornali è di moda la caccia agli immigrati e un premier può tranquillamente definire Barack Obama "abbronzato" e il fascismo una bazzeccola, può succedere anche di questo.
C´è un collasso del linguaggio, lo registri sui blog, su media anche rispettabili. Ecco cosa scrivono ad Andrea Tornelli del "Giornale": non ci sono menzogne antisemite, ma solo menzogne filosemite «come i sei milioni nelle camere a gas». Oppure: «Quanti sacerdoti, frati e suore rischiarono la vita per salvare ebrei… E loro? Schifosissimi ingrati». E infine: «Bravo Tornielli! Presto ti vedremo con la kippà in testa e la bocca a cul-di-gallina a deplorare l´olocausto».
Matteo Bordone, pseudonimo ebraico "Yankele" scrive di Palestina sul sito "Freddynietzsche. com". Risposta: «Gli ebrei avrebbero dovuto estinguersi con l´avvento del cristianesimo… che ci siano ancora a fare danni è un amaro scherzo della storia». Ida Magli, graffiante opinionista del "Giornale", sul sito "ItalianiLiberi" spiega come gli ebrei dell´alta finanza abbiano distrutto l´Occidente attraverso la loro visione del mondo: il primato dell´economia come unico valore.
Difficile mantenere la rotta nella tempesta. Difficile soprattutto non farsi catturare dalla logica del "muro-contro-muro". Rosella Gabriel, ebrea milanese: «Non è solo l´antisemitismo che preoccupa, ma anche certo filosemitismo. Quello di chi ammira gli ebrei solo per i loro muscoli o la loro forza finanziaria». E Valerio Fiandra, di Trieste: «Si può stare dalla parte di Israele usando parole antisemite e si può stare dalla parte dei Palestinesi senza essere affatto antisemiti. Una delle tragedie della guerra è anche la mancata comprensione di queste differenze».

Repubblica 21.1.09
Parigi, il capo degli studenti ebrei: 70 violenze in 23 giorni, è inquietante
"Troppa rabbia verso di noi non è solo scontro con l’Islam"
di Giampiero Martinotti


PARIGI. I fatti sono gravi e la Francia attraversa un momento di tensione, ma Raphael Haddad, presidente dell´Unione degli studenti ebrei di Francia, vuole evitare che il conflitto politico si trasformi in un contezioso etnico-religioso: «Rifiuto di stigmatizzare la comunità musulmana», dice.
Signor Haddad, quanti sono stati finora gli atti antisemiti Oltralpe?
«Sono stati settanta in ventitré giorni. Per darle un punto di riferimento, è un ritmo più intenso di quello registrato nei momenti più neri del 2001, all´epoca della seconda Intifada. In quei mesi ci fu un aumento delle violenze denunciato da tutti. Oggi attraversiamo un periodo inquietante».
Non si tratta, con qualche eccezione, di fatti minori?
«Spero che lo siano, ma devo constatare una cosa: ci sono stati atti antisemiti un po´ dappertutto, ma non fiammate di violenza come da noi, dove conteggiamo tre o quattro atti violenti ogni giorno. E talvolta molto violenti: un´auto lanciata contro l´ingresso di una sinagoga a Tolosa, due ragazzi ebrei picchiati alle porte della capitale da trenta persone che gridavano "la Palestina vincerà". Ma io dico che il conflitto mediorientale è un conflitto politico, non etnico o religioso. Riguarda palestinesi e israeliani, non ebrei e musulmani o ebrei e arabi. E non c´è nessun motivo perché ci siano ripercussioni in Francia».
Perché proprio qui, allora?
«La causa, purtroppo, la conosciamo. È la persistenza dei pregiudizi, l´amalgama del tipo: tutti gli ebrei sono israeliani, tutti gli israeliani sono nemici. E questo giustifica il fatto di prendersela con i propri vicini ebrei. Tutto ciò rivela una pessima immagine della Francia quanto alla capacità dei suoi abitanti di saper vivere insieme armoniosamente».
I ghetti di periferia, dove la disoccupazione è altissima, sono abitati essenzialmente da cittadini di origine musulmana: non c´è anche una dimensione sociale del fenomeno?
«Sì, ma la crisi è dappertutto, le tensioni solo da noi. Non credo si possa ridurre tutto a questo elemento. E al tempo stesso non credo si debba stigmatizzare la comunità musulmana. C´è un problema di antisemitismo: chiunque siano gli autori di questi gesti non voglio reagire in funzione della loro religione. Non si può spiegare la natura di un atto con l´origine o la religione di un aggressore. Bisogna essere coscienti che il conflitto in Medio Oriente è un problema che riguarda tutti i cittadini, i responsabili politici. Rifiuto il tentativo di trasformare il conflitto mediorientale in uno scontro fra comunità, la tentazione di farne un problema fra ebrei e musulmani francesi».
Stampa e tv hanno svolto un ruolo, hanno aggravato le tensioni?
«È sempre facile dare la colpa ai mass media. La stampa parla di problemi che esistono. L´unica cosa che posso dirle è che alcune reti, come Al Jazeera, hanno mandato in onda servizi in cui si esercitava una retorica abietta. Ed è vero che questo può contribuire a scaldare gli animi, perlomeno in certe frange della popolazione».

martedì 20 gennaio 2009

Repubblica 20.1.09
Oggi finisce il razzismo
di Vittorio Zucconi


Finisce oggi, nel mezzogiorno di una Washington tanto gelida fuori quando calorosa dentro, la storia ufficiale del razzismo negli Stati Uniti. Finisce, con Barack Hussein Obama, la presunzione della automatica superiorità morale, religiosa e culturale europea sugli altri popoli del mondo in forza del colore della pelle.
Quando Barack Obama farà appello nel suo discorso di insediamento all’unità e all´unicità del popolo americano, battendo sul tasto della «responsabilità comune» e non del vittimismo o del revanscismo da militante «black», un capitolo della storia umana sarà stato definitivamente chiuso, ben oltre i calcoli politicanti della «bipartisanship» e dei voti. Ma la fine del razzismo pubblico e formale che nel 1654 stabilì in Virginia che gli africani erano «oggetti di proprietà del padrone», comporterà anche la fine del razzismo privato? Non rischia, Obama, oltre il successo personale già acquisito, di giocare e perdere per tutte le minoranze, gli immigrati, i migranti, i «non bianchi» del mondo, una partita troppo ambiziosa e difficile, in questo momento di catastrofi imminenti, convincendo i poveri di spirito che, ecco, vedete, «un negro» non è all´altezza?
Se dobbiamo dare ascolto ai sondaggi di queste ore, la risposta è «no», Obama ha già vinto la partita del razzismo. Sei americani su dieci - in proporzione inversa a un anno fa - rispondono alle inchieste demografiche dicendo che per loro ormai la «razza» non ha più importanza. Che giudicano una persona dal contenuto del carattere e non dal colore della pelle, secondo la visione di Martin Luther King celebrato ieri nella festa nazionale caduta con perfetto calendario.
Il numero di coloro che giudicano la questione razziale come un «big problem», come un nodo ancora non sciolto si è dimezzato dal 1996 e soltanto un cittadino su quattro dice di pensare ancora in termini di «bianco e nero». Persino Obama è ormai visto come un «africano» soltanto da una minuscola minoranza di duri a morire, tra bianchi come tra neri.
Barack Obama è stato insieme la causa e l´effetto di questa pace razziale che dai gradini del Campidoglio soffia oggi su una nazione che negli anni �90, secondo i rapporti dello Fbi, vedeva una resurrezione sotterranea del Ku Klux Klan.
In attesa che cada anche il tabù anti femminile, da tutti i collegi elettorali del Paese si segnala una corsa opportunistica dei partiti al candidato di colore, anche da parte dei repubblicani presi in contropiede dal cambio di stagione, per sfruttare il vento di Washington. Il «nero» muove e vince. Persino il senatore scelto per riempire temporaneamente il seggio dell´Illinois lasciato libero da Obama, una nullità politica, è stato, dopo gemiti e proteste, accettato dall´augusto corpo del Senato, perché è nero. Neppure il quel Senato dove pure 99 su 100 membri sono bianchi, osa oggi alzare le vele contro il vento di Obama.
I sondaggi notano che la paura dell´«uomo nero» e le resistenza all´eguaglianza sopravvivono fra gli ultra sessantenni mentre tra gli «under 30», maschi come femmine, è trascurabile. Una generazione passata da scuole e università integrate, da sport giocati insieme, da fidanzamenti, matrimoni e amori misti, di «modelli» afro americani di successo in ogni professione, hanno intaccato i pregiudizi, lasciando in piedi soltanto i giudizi legittimi di condanna, individuali e non collettivi. Per un sindaco di Detroit, nero, deposto per manifesta corruzione, c´è un governatore dell´Illinois, il bianco Blagojevich, incriminato per corruzione. Nessuna razza o regione ha il monopolio del malgoverno, dell´incompetenza, della corruzione.
Ma proprio questa apoteosi così carica di passione movimentista, di autocompiacimento, di emozioni buone, presenta il rischio delle attese eccessive e dei riflussi negativi. Sappiamo ora che Barack Obama è stato eletto nonostante sia nero, forse addirittura perché è nero, dunque nell´aspetto fisico incarnava la voglia bruciante di cambiamento e di novità, dopo la lunga agonia della presidente Bush. La razza, come scrive ora il Washington Post, da barriera si è trasformata in trampolino e gli sforzi degli ultimi repubblicani aggrappati alla caricatura dell´afroamericano pericoloso, inesperto, addirittura «socialistico», come diceva l´avversaria, signora Sarah Palin, sono falliti. Il rischio non è forse quello di riportare indietro l´orologio del razzismo se lui dovesse, come è perfettamente possibile, fallire?
Di nuovo, la risposta è no, perché questo personaggio insieme enormemente carismatico ed eccezionalmente abile ha capito ed esorcizzato subito il rischio. Obama infatti non si è mai presentato, e non vede se stesso, come il «primo presidente nero» d´America e non ha voluto vincere come tale. Si vede e si offre come un presidente che ha la pelle scura, come altri possono avere gli occhi azzurri, i capelli castani o le efelidi. Non sente e non vende la propria etnicità come elemento caratterizzante, a differenza dei leader tradizionali della comunità di colore, ma come una forza, un uomo ponte per colmare meglio il fossato umano e politico con l´altra sponda. Avendo evitato la tentazione della «racial politics», la politica della razza e avendo scommesso su una nazione pronta a superare i reciproci ghetti, se dovesse fallire come presidente, sarebbe fallito come leader, non come «uomo nero» o giallo o diverso. In attesa dei giudizi della cronaca, dopo quello già dato dalla storia con l´insediamento, questa è la novità banalmente rivoluzionaria che il vento di Obama porta oggi sul resto del mondo. Giudicatemi per quello che faccio, non per quello che sono.

Repubblica 20.1.09
Israele parli anche con chi vuole distruggerci
di David Grossman


Come le volpi del racconto biblico di Sansone, legate per la coda a un´unica torcia in fiamme, così noi e i palestinesi ci trasciniamo l´un l´altro, malgrado la disparità delle nostre forze. E anche quando tentiamo di staccarci non facciamo che attizzare il fuoco di chi è legato a noi � il nostro doppio, la nostra tragedia � e il fuoco che brucia noi stessi. Per questo, in mezzo all´esaltazione nazionalista che travolge oggi Israele, non guasterebbe ricordare che anche quest´ultima operazione a Gaza, in fin dei conti, non è che una tappa lungo un cammino di violenza e di odio in cui talvolta si vince e talaltra si perde ma che, in ultimo, ci condurrà alla rovina.
Assieme al senso di soddisfazione per il riscatto dello smacco subito da Israele nella seconda guerra del Libano faremmo meglio ad ascoltare la voce che ci dice che il successo di Tsahal su Hamas non è la prova decisiva che lo Stato ebraico ha avuto ragione a scatenare una simile offensiva militare, e di certo non giustifica il modo in cui ha agito nel corso di questa offensiva. Tale successo prova unicamente che Israele è molto più forte di Hamas e che, all´occasione, può mostrarsi, a modo suo, inflessibile e brutale.
Allo stesso modo il successo dell´operazione non ha risolto le cause che l´hanno scatenata. Israele tiene ancora sotto controllo la maggior parte del territorio palestinese e non si dichiara pronto a rinunciare all´occupazione e alle colonie. Hamas continua a rifiutare di riconoscere l´esistenza dello Stato ebraico e, così facendo, ostacola una reale possibilità di dialogo. L´offensiva di Gaza non ha permesso di compiere nessun passo verso un vero superamento di questi ostacoli. Al contrario: i morti e la devastazione causati da Israele ci garantiscono che un´altra generazione di palestinesi crescerà nell´odio e nella sete di vendetta. Il fanatismo di Hamas, responsabile di aver valutato male il rapporto di forza con Tsahal, sarà esacerbato dalla sconfitta, intaserà i canali del dialogo e comprometterà la sua capacità di servire i veri interessi palestinesi.
Ma quando l´operazione sarà conclusa e le dimensioni della tragedia saranno sotto gli occhi di tutti (al punto che, forse, per un breve istante, anche i sofisticati meccanismi di autogiustificazione e di rimozione in atto oggi in Israele verranno accantonati), allora anche la coscienza israeliana apprenderà una lezione. Forse capiremo finalmente che nel nostro comportamento c´è qualcosa di profondamente sbagliato, di immorale, di poco saggio, che rinfocola la fiamma che, di volta in volta, ci consuma.
È naturale che i palestinesi non possano essere sollevati dalla responsabilità dei loro errori, dei loro crimini. Un atteggiamento simile da parte nostra sottintenderebbe un disprezzo e un senso di superiorità nei loro confronti, come se non fossero adulti coscienti delle proprie azioni e dei propri sbagli. È indubbio che la popolazione di Gaza sia stata "strozzata" da Israele ma aveva a sua disposizione molte vie per protestare e manifestare il suo disagio oltre a quella di lanciare migliaia di razzi su civili innocenti. Questo non va dimenticato. Non possiamo perdonare i palestinesi, trattarli con clemenza come se fosse logico che, nei momenti di difficoltà, il loro unico modo di reagire, quasi automatico, sia il ricorso alla violenza.
Ma anche quando i palestinesi si comportano con cieca aggressività - con attentati suicidi e lanci di Qassam - Israele rimane molto più forte di loro e ha ancora la possibilità di influenzare enormemente il livello di violenza nella regione, di minimizzarlo, di cercare di annullarlo. La recente offensiva non mostra però che qualcuno dei nostri vertici politici abbia consapevolmente, e responsabilmente, afferrato questo punto critico.
Arriverà il giorno in cui cercheremo di curare le ferite che abbiamo procurato oggi. Ma quel giorno arriverà davvero se non capiremo che la forza militare non può essere lo strumento con cui spianare la nostra strada dinanzi al popolo arabo? Arriverà se non assimileremo il significato della responsabilità che gli articolati legami e i rapporti che avevamo in passato, e che avremo in futuro, con i palestinesi della Cisgiordania, della striscia di Gaza, della Galilea, ci impongono?
Quando il variopinto fumo dei proclami di vittoria dei politici si dissolverà, quando finalmente comprenderemo il divario tra i risultati ottenuti e ciò che ci serve veramente per condurre un´esistenza normale in questa regione, quando ammetteremo che un intero Stato si è smaniosamente autoipnotizzato perché aveva un estremo bisogno di credere che Gaza avrebbe curato la ferita del Libano, forse pareggeremo i conti con chi, di volta in volta, incita l´opinione pubblica israeliana all´arroganza e al compiacimento nell´uso delle armi. Chi ci insegna, da anni, a disprezzare la fede nella pace, nella speranza di un cambiamento nei rapporti con gli arabi. Chi ci convince che gli arabi capiscono solo il linguaggio della forza ed è quindi quello che dobbiamo usare con loro. E siccome lo abbiamo fatto per così tanti anni, abbiamo dimenticato che ci sono altre lingue che si possono parlare con gli esseri umani, persino con nemici giurati come Hamas. Lingue che noi israeliani conosciamo altrettanto bene di quella parlata dagli aerei da combattimento e dai carri armati.
Parlare con i palestinesi. Questa deve essere la conclusione di quest´ultimo round di violenza. Parlare anche con chi non riconosce il nostro diritto di vivere qui. Anziché ignorare Hamas faremmo bene a sfruttare la realtà che si è creata per intavolare subito un dialogo, per raggiungere un accordo con tutto il popolo palestinese. Parlare per capire che la realtà non è soltanto quella dei racconti a tenuta stagna che noi e i palestinesi ripetiamo a noi stessi da generazioni. Racconti nei quali siamo imprigionati e di cui una parte non indifferente è costituita da fantasie, da desideri, da incubi. Parlare per creare, in questa realtà opaca e sorda, un´alternativa, che, nel turbine della guerra, non trova quasi posto né speranza, e neppure chi creda in essa: la possibilità di esprimerci.
Parlare come strategia calcolata. Intavolare un dialogo, impuntarsi per mantenerlo, anche a costo di sbattere la testa contro un muro, anche se, sulle prime, questa sembra un´opzione disperata. A lungo andare questa ostinazione potrebbe contribuire alla nostra sicurezza molto più di centinaia di aerei che sganciano bombe sulle città e sui loro abitanti. Parlare con la consapevolezza, nata dalla visione delle recenti immagini, che la distruzione che possiamo procurarci a vicenda, ogni popolo a modo suo, è talmente vasta, corrosiva, insensata, che se dovessimo arrenderci alla sua logica alla fine ne verremmo annientati.
Parlare, perché ciò che è avvenuto nelle ultime settimane nella striscia di Gaza ci pone davanti a uno specchio nel quale si riflette un volto per il quale, se lo guardassimo dall´esterno o se fosse quello di un altro popolo, proveremmo orrore. Capiremmo che la nostra vittoria non è una vera vittoria, che la guerra di Gaza non ha curato la ferita che avevamo disperatamente bisogno di medicare. Al contrario, ha rivelato ancor più i nostri errori di rotta, tragici e ripetuti, e la profondità della trappola in cui siamo imprigionati.
Traduzione di A. Shomroni

Repubblica 20.1.09
Vittime civili. Il prezzo assurdo delle guerre
di Antonio Cassese


I vecchi divieti del diritto internazionale umanitario sono inservibili e obsoleti: gli spietati scontri attuali sono tra belligeranti diseguali, dove non si esita a trucidare i propri figli

La novità degli ultimi anni è che le battaglie non sono più tra forze armate omogenee: da una parte ci sono eserciti moderni e dall´altra uomini che possono compiere solo atti di guerriglia

Dalla Bosnia all´Afghanistan, dall´Iraq a Gaza i conflitti di oggi si incrudeliscono sulle popolazioni. Il ruolo delle organizzazioni internazionali nella difesa dei diritti umani

Quel che sta succedendo a Gaza strazia il cuore a ogni persona, quale che sia il suo orientamento politico o ideologico. Le stragi di civili sono il tragico punto di approdo di una lunga evoluzione delle guerre moderne e ci devono spingere a trovare un modo di porre un freno al massacro di innocenti.
Fino alla Seconda Guerra Mondiale le guerre erano sostanzialmente scontri tra eserciti regolari. Tutti i belligeranti dovevano osservare il principio della distinzione tra militari e civili, con l´obbligo di rispettare i civili che non prendessero parte alle ostilità. Certo, il principio veniva spesso violato, ma era pur sempre nell´interesse di ciascun belligerante conformarsi a esso, concentrandosi sulla distruzione dei combattenti nemici: perché uccidere civili nemici, con il rischio che l´avversario facesse altrettanto mediante rappresaglie?
A partire dalle guerre anticoloniali e altre guerre di liberazione nazionale i conflitti armati sono diventati quasi tutti asimmetrici: da una parte vi è un esercito con cannoni, carri armati, aerei, elicotteri e missili, e dunque con forze armate che possono in un baleno devastare interi territori nemici e hanno il controllo completo dell´aria; dall´altra uomini privi di uniforme, muniti solo di armi leggere, di bazooka e lanciamissili portatili, che dunque possono solo compiere atti di guerriglia. I guerriglieri si nascondono tra la popolazione civile, usano i civili come scudi, celano le loro munizioni in abitazioni private e, posti di fronte a eserciti poderosi e con una superiorità soverchiante, tendono a colpire il nemico nel suo "ventre molle": i civili. Certo, così facendo essi mettono anche a gravissimo repentaglio i propri civili. E, attaccando i civili nemici, commettono una violazione flagrante dei principi tradizionali e fondamentali del diritto internazionale umanitario. Ma, dicono i guerriglieri, non si può lottare diversamente: una formica, se affronta un elefante, non può combattere ad armi pari. Anche gli Stati che hanno eserciti moderni e agguerritissimi si trovano di fronte a un drammatico dilemma: distruggere i guerriglieri nemici sapendo che così si farà anche strage di civili, o rimanere inerti davanti ai lanci di missili indiscriminati o agli attacchi improvvisi ai propri civili?
È evidente che i caratteri intrinseci delle guerre moderne hanno reso inservibili e obsoleti i vecchi divieti del diritto internazionale umanitario. E perciò aveva un po´ ragione l´autorevole magistrato che giorni fa, incontrandomi, mi ha chiesto con tono canzonatorio: «Ma allora, dove è andato a finire il diritto internazionale a Gaza?». Tutti gli importanti trattati internazionali stipulati dal 1868 al 2008 a Ginevra, all´Aja e a New York non riescono più a frenare la violenza, perché le guerre attuali sono completamente diverse da quelle di una volta: sono scontri spietati tra belligeranti profondamente diseguali, che hanno in comune solo il fanatismo e l´intolleranza e, nell´odio per il nemico, non esitano a far trucidare i propri bambini, i vecchi e le donne e ad ammazzare quelli dell´avversario. Insomma, le guerre moderne sono un ritorno alla barbarie più feroce.
Cosa fare, dunque? Si è visto che l´indignazione dell´opinione pubblica, la pressione dei politici, le esortazioni delle alte autorità morali e religiose servono a poco. Dobbiamo dunque auspicare che vengano elaborate nuove regole internazionali? Sarebbe ingenuo farlo. I diplomatici e i giuristi impiegherebbero anni a mettersi d´accordo, e comunque le potenze militari interessate si sottrarrebbero facilmente ai nuovi divieti. Né è realistico pensare di colpire penalmente i colpevoli di stragi di vittime inermi. I guerriglieri che attaccano i civili nemici vengono considerati eroi dalla propria popolazione. Gli Stati o i governi belligeranti tendono a non processare i propri uomini, sia perché i comportamenti di questi ultimi si conformano spesso a pratiche diffuse, volute o tollerate dalle autorità, sia perché eventuali processi potrebbero nuocere al morale di truppe già esposte a gravi pericoli ed estenuate dalla lotta anti-guerriglia. I tribunali penali internazionali quasi sempre non hanno competenza in materia. Nel caso di Gaza, l´Onu non ha la forza di imporre processi contro i colpevoli.
Se i leader politici del mondo fossero ragionevoli si dovrebbero rendere conto di una cosa chiarissima: gli attuali conflitti armati, civili o internazionali, hanno spinto la disumanità al punto limite. Bisognerebbe dunque fare quel che si è fatto con le armi nucleari: siccome il loro uso comporterebbe la possibile distruzione del pianeta, sono state messe da parte; a esse oramai si applica, rovesciato, il detto di Napoleone sulle baionette («Con le baionette si può fare di tutto tranne che sedervisi sopra»); ora delle armi nucleari non si può far nulla tranne che sedervisi sopra. Nello stesso modo, bisognerebbe mettere in cantina ogni soluzione militare dei conflitti economici, politici e ideologici moderni e mettere in opera sempre ed esclusivamente, anche per i conflitti più aspri e incancreniti, soluzioni politiche. Alla violenza delle armi bisognerebbe sostituire il negoziato: come diceva Camus, "le parole" devono spazzar via "le pallottole". Ciò richiederebbe saggezza politica, molto sagacia e desiderio di capire le ragioni dell´avversario. Ci vorrebbero tanti Mandela, che purtroppo non esistono.
Si devono allora battere altre strade, assai modeste, puntando sull´azione morale di organizzazioni non governative quali il Comitato internazionale della Croce Rossa e altri enti umanitari. Questi enti hanno già acquisito grandi meriti nello sforzo di "umanizzare" la guerra. Essi potrebbero elaborare autorevoli "direttive generali" che in qualche modo chiariscano quel che attualmente è vago o ambiguo nelle regole internazionali; in particolare, specificando il comportamento dei belligeranti su due punti importanti: quali precauzioni prendere quando si sferra un attacco che può causare molte vittime tra i civili; e come stabilire se i "danni collaterali" sono sproporzionati. Si dovrebbe soprattutto creare meccanismi istituzionali di "monitoring", sia per prevenire violazioni sia per accertare ex post se l´uccisione di civili inermi è stata manifestamente ingiustificata. In caso affermativo, occorrerebbe almeno risarcire il danno. Se un belligerante distrugge la casa di un privato e gli uccide i figli, compie un atto intollerabile per il quale dovrebbe essere condannato; se ciò non è possibile, almeno gli risarcisca il gravissimo danno morale e materiale: così potrà in qualche modo lenire la sua tragedia. Tutte queste attività dovrebbero essere svolte sotto il controllo del Comitato internazionale della Croce Rossa o dell´Onu.
Certo, si tratterebbe di opzioni che non risolverebbero il problema alla radice. Vista però la complessità dei problemi e considerato che siamo fatti così male (siamo fatti da un legno storto, diceva Kant), questi pannicelli caldi sarebbero meglio che niente.

Repubblica 20.1.09
Chi è il nemico nella guerra asimmetrica
La barbarie strategica
di Fabio Mini


Con i nuovi eserciti e le nuove armi i danni collaterali dovrebbero tendere a zero. E con i nuovi avversari non ci sono strutture militari e produttive da distruggere. Ci sono solo case, chiese, moschee e persone, donne e bambini

I danni collaterali sono per definizione quelli causati ai civili quando si tenta di colpire gli obiettivi militari. Sono danni previsti o imprevisti, frutto dell´imprecisione delle armi o di errore. Durante la guerra del Kosovo il portavoce della Nato utilizzò il termine in maniera estensiva e assolutoria anche quando l´attacco contro strutture civili era intenzionale. Veniva così derubricato un evento che poteva essere un crimine di guerra e le vittime diventavano responsabili di trovarsi nel posto e nel momento sbagliati. Il caso ha fatto scuola e oggi la gente si è abituata all´inevitabilità delle vittime civili durante ogni tipo di conflitto, compreso quello tra guardie e ladri.
Dal punto di vista militare è il segno della regressione della guerra tra avversari asimmetrici: regressione di umanità e di strategia. La prima diventa ancora più grave perché sostenuta dalla seconda che spesso viene spacciata per "evoluzione". La realtà è che le vittime civili, in barba a tutte le norme del diritto internazionale, dei codici militari e dei costumi di guerra, sono tornate ad essere il vero obiettivo delle guerre. Si è tornati alla distruzione "strutturale" adottata nella seconda guerra mondiale con i bombardamenti a tappeto e in Vietnam con il napalm. Questa guerra sembrava finita quando si è voluto distinguere fra forze combattenti e non combattenti, quando l´etica ha richiamato le norme di protezione dei civili e quando lo stesso interesse consigliava di limitare i danni perché, come disse Liddell Hart, «il nemico di oggi è il cliente di domani e l´alleato del futuro».
Questa guerra sembrava finita per sempre quando dalla distruzione nucleare si è passati al precision strike, l´attacco di precisione, che rappresenta la rivoluzione strategica e tecnologica più importante e costosa dell´ultimo mezzo secolo. Di tutto questo si è persa traccia e memoria e gli imbonitori che indulgono nella giustificazione militare dei danni collaterali sono analfabeti di ritorno. Con i nuovi eserciti e le nuove armi i danni collaterali dovrebbero tendere a zero e con i nuovi avversari, arcaici e disperati, non ci sono strutture militari e produttive da distruggere per piegare la volontà di resistenza. Ci sono solo case, chiese, moschee e persone, donne, bambini. Tutte cose facili da colpire e allora la vera sfida strategica non sta nel come distruggere, ma nel come non coinvolgere gli innocenti.
In Cecenia, Afghanistan, Libano e, oggi, a Gaza la strategia deliberata di colpire i civili per far mancare il sostegno della popolazione agli insorti, ribelli e cosiddetti terroristi è un´altra regressione. Riporta alla guerra controrivoluzionaria, che invece ha fatto sempre vincere i ribelli, e alle nefandezze delle occupazioni coloniali. Anche le giustificazioni e il mascheramento di queste regressioni con strumenti di propaganda sono dejà vu. Sono cambiati i nomi e alcuni strumenti, ma gli effetti sono sempre gli stessi. La guerra psicologica che tenta di dimostrare che i civili non sono i nostri obiettivi ma le vittime dell´avversario che li usa come scudo non è cambiata da millenni, per questo il nemico è sempre stato "scellerato". Si usano gli stessi messaggi anche se al posto di proclami e infiltrati si utilizzano volantini, radio, televisioni, ambasciatori e lobby politiche. Ieri, la popolazione priva di sistema d´allarme, sapeva dell´imminente attacco dal rumore dei bombardieri. Pochi minuti per scappare. Oggi si telefona alle vittime, ma questo, come allora, non aiuta chi è intrappolato come un sorcio e non può andare altrove. Appare solo cinico.
L´ultima novità della guerra psicologica è che non si rivolge più all´avversario, ma alle proprie truppe e, soprattutto, all´opinione pubblica interna e internazionale. Quest´arma di manipolazione delle masse e di distruzione delle intelligenze è diretta verso le proprie forze e i propri alleati e ogni soldato sa che nulla è più pericoloso del cominciare a credere alla propria propaganda. Gli eserciti più potenti del mondo non sanno riconoscere e affrontare le nuove forme di guerra asimmetrica. Non sanno penetrare, discriminare, selezionare e operare chirurgicamente. Non sanno gestire il proprio eccesso di potenza e hanno perso la coscienza dell´inutilità e della illegalità delle distruzioni civili. Non si rendono conto che questo serve solo a imbarbarire la guerra: un lusso che i terroristi possono permettersi. Noi no.

Repubblica 20.1.09
Da sempre muoiono più civili che soldati
Tutti i morti del Novecento
di Giorgio Rochat


Malattie e carestie. Spesso sono le cosiddette cause "indirette" a provocare il maggior numero di morti: scarsità di rifornimenti alimentari, carestie, malattie, epidemie. A partire dalla Prima guerra mondiale le perdite si contano a decine di milioni

Nel corso dei secoli, la maggior parte delle guerre hanno provocato più morti tra i civili che tra i militari, senza grandi differenze tra civiltà e regimi. Violenze dei soldati sui civili, città prese d´assalto con il massacro degli abitanti (quando non era possibile venderli come schiavi). Soprattutto vittime indirette, le devastazioni sistematiche dei terreni coltivati portavano fame, malattie e morte. Nella storia europea un triste primato va alle guerre di religione, dalle crociate medievali contro gli eretici alle guerre di sterminio tra cattolici e protestanti del Cinque-Seicento. E poi le ricorrenti grandi rivolte contadine, che iniziavano con il massacro dei padroni e finivano con una repressione sanguinosa. Altri tempi, vale la pena di ricordare che fino a metà Ottocento i soldati caduti in battaglia erano meno di quelli morti per malattia, fame o stenti, ancora nella guerra civile statunitense 1861-1865.
La prima guerra mondiale 1914-1918 è il primo grande conflitto in cui la popolazione civile non viene coinvolta direttamente, per lo meno nell´Europa centro-occidentale. Lo straordinario numero di morti, 10 milioni (cifra approssimativa, come tutte le seguenti), è composto praticamente tutto da militari: 1.800.000 tedeschi, 1.350.000 francesi, 1.300.000 austro-ungheresi, 750 mila inglesi. Cifre incomplete per l´esercito russo, tra 1.700.000 e 2.500.000 caduti, e per gli stati balcanici, dove è difficile dividere le perdite militari e civili. Nel totale di 10 milioni non sono compresi il massacro degli armeni condotto dai turchi e i milioni di morti della successiva guerra civile di Russia. Per restare al caso italiano, contiamo 650 mila militari caduti su circa 4.200.000 che andarono al fronte, di cui 400 mila morti per ferite, 100 mila per malattie contratte in trincea, 100 mila in prigionia (in gran parte perché il governo rifiutò l´invio di viveri ai 600 mila prigionieri), 50 mila dopo il 1918 per ferite e malattie di guerra.
Fin qui i militari. E i civili? Le perdite dirette sono ridotte, gli abitanti della zona del fronte vennero trasferiti d´autorità all´interno del paese; rimane qualche centinaio di morti per i bombardamenti dell´aviazione austriaca sulle città italiane. Le perdite indirette sono però grandi e dimenticate. La guerra colpiva i civili con la crisi dei rifornimenti alimentari, i trasferimenti forzati citati e i 600 mila profughi dal Veneto invaso dopo Caporetto, il peggioramento delle condizioni di lavoro nelle fabbriche, infine la priorità che le strutture sanitarie davano alla cura dei soldati. Di conseguenza si ebbe un forte aumento di malattie che parevano sotto controllo, come la malaria (6 milioni di casi) e la tubercolosi (2 milioni di casi), la pellagra, il morbillo, la difterite. Le statistiche sanitarie valutano in 546 mila i casi di morti civili in più del normale negli anni di guerra. Inoltre nell´inverno 1918-1919 la "spagnola", un´epidemia di cui ancora oggi sappiamo poco, fece milioni di morti in Europa, 600 mila in Italia. Gli studi lasciano un margine di dubbio, ma le perdite provocate dalla guerra tra i civili sono superiori a quelle dei soldati.
Per la seconda guerra mondiale le cifre impazziscono, 50 milioni di morti di cui poco meno di 20 milioni di militari, si può capire che siano sempre cifre approssimative. Soltanto gli Stati Uniti non furono raggiunti dalla guerra, i loro 300 mila caduti sono tutti soldati. Invece i 26 milioni di morti dell´Unione sovietica sono da ripartire grosso modo in tre parti, i soldati caduti in combattimento o in prigionia, le perdite civili causate direttamente dalla guerra (500 mila morti nell´assedio di Leningrado) e quelle indirette della popolazione negli anni in cui tutto era sacrificato allo sforzo bellico. Guerre e politiche di sterminio che si sovrappongono, quasi 6 milioni di ebrei vittime della follia nazista (anche un terzo di milione di zingari), i lager di morte per gli antifascisti, i massacri tedeschi in Russia e nei Balcani (da 50 a 100 civili uccisi per un morto tedesco). E poi le vittime dei bombardamenti aerei, 60 mila inglesi e mezzo milione di tedeschi. Cifre terribili e pur superate dai 14 milioni di morti dell´invasione giapponese della Cina.
Per l´Italia, l´inchiesta promossa dal ministro Scelba a partire dalle anagrafi comunali attesta fino all´8 settembre 1943 200 mila soldati caduti nelle guerre fasciste e 25 mila civili, quasi tutti vittime dei bombardamenti anglo-americani. È più difficile suddividere i 220 mila morti dal settembre 1943 al 1945, forse 85 mila militari morti in combattimento o in prigionia, 40 mila partigiani, 7300 ebrei e 24 mila antifascisti nei lager tedeschi di morte, 40 mila vittime dei bombardamenti aerei e 10 mila delle rappresaglie nazifasciste, 15 mila fascisti morti in combattimento o fucilati al 25 aprile 1945. Conti approssimativi, che non tengono conto delle vittime indirette della guerra, sicuramente molte centinaia di migliaia.

il Riformista 20.1.09
Stella, il Grande Bidello
di Fabrizio d'Esposito


Vivesse ancora Edmondo De Amicis, sarebbe costretto a cambiare titolo al suo bestseller. Da Cuore a Occhio. Tutto merito di una Stella di nome Gelmini che fa il ministro dell'Istruzione e che adesso per fronteggiare l'eterno fenomeno del bullismo scolastico vuole mettere le telecamere in classe. Come se le scuole fossero un carcere o una curva di ultras irriducibili. Teppisti, non studenti. Il Grande Maestro, anche se la massoneria non c'entra nulla. Fantozzi direbbe: una boiata pazzesca. Perché ci sono ragioni serie e meno serie per dire che stavolta la ministra Gelmini sbaglia di grosso.
Eppoi un governo che vuole limitare le intercettazioni telefoniche ma al tempo stesso trasformare le aule in un deprimente reality school è un governo schizofrenico.
Contro il Grande Orecchio ma a favore del Grande Occhio. Forse anche per questo motivo la luna di miele tra il centrodestra e il paese sta finendo, con il calo evidente dei consensi nei sondaggi degli ultimi giorni. A dire il vero, proprio la ministra Gelmini è stata indicata, insieme con il collega Brunetta, come un traino demoscopico dell'esecutivo. Ma fino a quando, di questo passo?
Le telecamere a scuola sono innanzitutto una violazione dell'intimità tra professore e alunni. Un vincolo sacrale che sotto lo sguardo vigile di una centrale tv si muterebbe in esibizionismo, se non in un allenamento precoce per il casting del Grande Fratello. Non solo. C'è un'altra verità con cui fare i conti: i bulli sono una minoranza. Lo ricordò in modo saggio il predecessore di Gelmini, Beppe Fioroni del centrosinistra. I bulli a scuola ci sono sempre stati. A renderli più spacconi e violenti sono stati i videofonini e Internet ed è lecito allora chiedersi se le telecamere non possano paradossalmente trasformarsi in un clamoroso boomerang. Non mancherebbero, poi, momenti di grande imbarazzo: come farebbe un professore a spiegare la nefasta profezia di un classico come "1984" di Orwell mentre viene ripreso dalle telecamere? Certo, si potrebbero alleggerire le lezioni con l'introduzione di un'annunciatrice che scandisce le materie di ora in ora: magari in questo modo si riciclerebbero gli insegnanti tagliati dall'ultima riforma sulla scuola.
Ma la dittatura televisiva cui Gelmini vorrebbe sottoporre la scuola è indice anche della scarsa concezione liberale che alligna in molti ambienti della maggioranza. Uno Stato che controlla e che punisce con l'aiuto del Grande Fratello assomiglia in modo inquietante a uno Stato etico. A quando le telecamere nelle mense scolastiche per sorvegliare i bimbi obesi oppure nelle palestre per verificare il numero di flessioni eseguite?
La scuola sottoposta all'esame del video è una scuola triste, che nega se stessa. I bulli vanno controllati da insegnanti autorevoli e motivati, non da un occhio tecnologico. La sensazione è che questo governo insegua gli annunci per fare scalpore. Anche perché la scuola italiana non è ancora quella giungla americana della lavagna raccontata da Evan Hunter alias Ed McBain nel "Seme della violenza". E gli insegnanti saranno pure frustrati e mal pagati ma non sono ancora un misto di «spazzini e poliziotti».
Le telecamere a scuola vogliono dire che la lezione di Truman Show non ha insegnato nulla. Il Grande Fratello modifica la vita delle persone, in peggio. E le classi non sono banche, carceri o stadi. Nella sua ansia di fare e di cambiare il ministro Gelmini sta dipingendo un quadro fin troppo fosco della scuola italiana, con il rischio di aizzare ancora di più i suoi tanti contestatori dell'Onda. Sulle telecamere sarebbe meglio, molto meglio fare marcia indietro. Mettendo insieme i tasselli del mosaico gelminiano viene fuori una sorta di mostro che va dal grembiule al Grande Occhio. Ma col tempo il pugno duro logora chi lo mostra.
Mariastella Gelmini ha un'aria perennemente severa, aggravata dalla rigida montatura dei suoi occhiali colorati (si dice che ne abbia un centinaio), e su questo sta costruendo la sua immagine di maestrina cattiva che Tinto Brass ha definito molto «stuzzicante» da quel punto di vista lì. E questo ha moltiplicato l'inventiva e i pruriti delle sue due strepitose imitatrici in tv, Caterina Guzzanti e Paola Cortellesi. In un modo o nell'altro è la ministra più mediatica del governo Berlusconi. E questa, forse, potrebbe essere la vera ragione dell'ultima trovata nella crociata anti-bulli. Mariastella, ormai, ha l'ossessione delle telecamere. Sorrida, però, ogni tanto. E sul Grande Bidello ci ripensi.

Repubblica Firenze 20.1.09
Martini non ha risposto pubblicamente all'invito di Cioni
Eluana in Toscana scettico Defanti
di Michele Bocci


«Al momento non nutro alcuna speranza sulla possibilità di portare Eluana in Toscana». Il neurologo Carlo Alberto Defanti, che segue la donna in stato vegetativo da 17 anni, è scettico sulla possibilità che la richiesta dell´assessore alla salute di Firenze Graziano Cioni al presidente della Regione Claudio Martini possa portare ad una apertura nei confronti della famiglia Englaro. Del resto Martini non ha risposto pubblicamente al suo invito. Restano valide le parole che disse quando Riccardo Nencini, presidente del consiglio regionale, fece un´uscita simile a quella di Cioni. «Si tratta di una vicenda privata - disse circa un mese fa - Rispetto alla quale la politica deve fare un passo indietro». Beppino Englaro sta aspettando il risultato di un ricorso al Tar della Lombardia e non avrebbe individuato un altro posto dove portare a morire la figlia. «Ci vuole molta discrezione, visto quello che è successo in Friuli», commenta Defanti. Prende posizione la sezione di Pisa della Consulta di bioetica. «Auspichiamo che almeno dalla Regione Toscana parta una iniziativa che consenta di uscire dalla condizione di mortificazione in cui è stata costretta la legalità. La tradizione che vede questa regione sensibilissima al tema dei diritti di libertà e autodeterminazione non può più far finta di non vedere». Opposta Scienza e vita di Firenze, che attacca Cioni. «Gli ospedali sono fatti per assicurare le cure ai malati, non per farli morire».

Il Tempo 18.1.09
Rifondazione ormai afflitta da «disturbi comportamentali»
Bertinotti che rompe con il suo psicanalista, Rina Gagliardi che è sconvolta
di Silvia Santarelli


Torna in mente quel libro Tutte le famiglie sono disturbate di Douglas Coupland (l'autore di Generazione X) che parlava di disturbi comportamentali che si sviluppano all'interno della famiglia. Sta succedendo lo stesso dentro Rifondazione comunista? Una famiglia che si disintegra a causa dell'accumulo di incomprensioni e rancori? In effetti, solo qualche elemento di psicanalisi può spiegare perché i figli (l'attuale classe dirigente del Prc) dell'amatissimo padre (l'ex presidente della Camera, Fausto Bertinotti) sono arrivati ad odiarsi tanto, e perché la scissione che si sta consumando in questi giorni della minoranza guidata da Nichi Vendola, scattata in seguito all'allontanamento del direttore Sansonetti dalla guida di Liberazione, abbia assunto toni tanto personali e drammatici. È un «fratelli coltelli» senza la minima ironia. Sansonetti che dà dell'omofobo al suo segretario, che conosce e frequenta da anni. Questi, Ferrero, che parla solo con le cifre: «Meno 40% delle vendite, un giornale che perde tanto non può che cambiare gestione», neanche fosse uno di quegli industriali del Nord con cui da sindacalista si è scontrato per anni. Maurizio Zipponi che attacca il neodirettore di Liberazione Dino Greco, sindacalista come lui, bresciano come lui: «È uno che non ha mai vinto una battaglia sindacale, mai. Saranno contenti quelli di Brescia che se ne sono liberati». Gennaro Migliore che è il più triste: perde un partito, un futuro - per anni è stato l'erede al trono designato da Bertinotti - e il suo ex migliore amico, Luca Bonaccorsi, il quale ha mollato lui e il vecchio Fausto, portandosi appresso lo psicanalista Fagioli, tutto per lo schiribizzo di diventare il prossimo editore di Liberazione.
E, comunque, non è ancora finita. Da qui al 24 gennaio, giorno in cui è convocata a Chianciano l'assemblea dagli scissionisti, liti e rese dei conti vanno avanti. Anche perché molti di quelli che hanno votato la mozione Vendola all'ultimo congresso, non vogliono saperne di lasciare il Prc. Tra i dirigenti, Augusto Rocchi, ex parlamentare, bertinottiano della prima ora; Milziade Caprile, ex vicepresidente del Senato; Rosa Rinaldi, ex sottosegretario al ministero del lavoro e ora membro della direzione; e Tommaso Sodano, ex presidente della commissione ambiente del Senato. Non lasciano il Prc perché non vogliono dar vita a un'ennesima formazione che è solo «un escamotage politicista e centralista, che assomiglia troppo alla fallita Sinistra Arcobaleno». In tutto sarebbero un terzo dei vendoliani quelli che vogliano restare. Pezzi di Sicilia, Sardegna, di Veneto. A Roma, la mitica sezione di San Lorenzo, dove pure Vendola aveva ottenuto più del 50%, ha deciso a maggioranza di rimanere nel partito. A volerlo più di tutti è il segretario, Giuseppe D'Agata, che bertinotttiano lo è non solo di fede, ma anche per lavoro, essendo uno dei collaboratori dell'ex presidente della Camera.
A proposito, il Maestro, il punto di riferimento di tutti, il vecchio leader, il papà amato e ripudiato, insomma, Bertinotti, che fa? A parte dire che «la sinistra ha bisogno di un big bang», e che il partito gli sembra «irriconoscibile», non molto. Di certo, si sa che non aderirà formalmente né al nuovo soggetto, né alla vecchia Rifondazione.
La confusione è massima, ma le Europee sono vicine. Se la legge elettorale non cambia, e rimane il proporzionale puro, il Prc di Ferrero dovrebbe allearsi con il Pdci e Sinistra Critica, ovvero Turigliatto e c. Mentre gli scissionisti dovrebbero andare con Sinistra Democratica e i Verdi, aspettando che anche il Pd si disintegri e che tutto si rimetta in moto. Se, invece, arriva lo sbarramento al 4%, non è da escludere che la scissione si ricomponga. Per un paio di deputati a Strasburgo, si rimangeranno accuse e insulti? Si vedrà. Per ora, le scommesse sono aperte solo sul futuro di Sansonetti. I ferrariani di Liberazione, che non l'hanno mai amato, invitano a scegliere tra: una rubrica dal perfido Paolo Mieli; una su Panorama offerta da Berlusconi in nome del servizio reso (di spappolare ulteriormente la sinistra) e della comune fede milanista; o sul Riformista, dal compagno di tante comparsate tv Antonio Polito.

Vendola: «l diritto dei bambini ad avere una loro sessualità, ad avere rapporti tra loro, o con gli adulti»
Repubblica 19.5.85
Il gay della Fgci
intervista a Nichi Vendola di Stefano Malatesta


ROMA - Nichi Vendola ha 26 anni, è pugliese. Qualche giorno fa è stato eletto membro della segreteria nazionale della Fgci, la Federazione giovanile comunista. Ha un viso gradevole. In testa calza un berretto blu con visiera, da studente svedese. Intorno al collo è annodata una sciarpa di lana bianca. Porta al lobo sinistro un orecchino d' oro. Nichi Vendola è un gay, il primo attivista omosessuale entrato a far parte della dirigenza comunista. Dice senza asprezza polemica: "Sono sicuro che parlerai dell' orecchino d' oro. Ho già dato un' intervista in cui raccontavo un po' di cose, fatti personali e politici. Dopo ho avuto dei timori, credevo che ci fossero reazioni a Roma, nel partito. Invece i compagni sono stati benevoli. Mi hanno però avvertito: stai attento a non farti ingabbiare nel clichè, il gay alle Botteghe Oscure, eccetera. Prima c' erano i funzionari infagottati nei doppipetti grigi tagliati male, con le cravatte stonate in raso. Adesso l' omosessuale con l' orecchino. Al congresso giovanile avevo un magnifico, luminescente papillon sopra una camicia a righe. Dì, vuoi che ti stringa la mano sotto il tavolo?". Rispondo che il passaggio sotto le forche del commento becero è obbligato: cosa si vuole aspettare, finezze anglosassoni? L' umorismo in Italia, e anche altrove, è spesso di genere caserma, dovrebbe esserci abituato. Però mica posso far finta di essere venuto per le sue preclare virtù politiche di cui tutta l' Italia parla. Sono venuto perchè Vendola è il primo dirigente comunista gay dichiarato. Nel 1948 il Pci non ha espulso Pier Paolo Pasolini per indegnità morale? "Sono passati esattamente 37 anni. Sai cosa ho detto al congresso giovanile? Per noi comunisti non si tratta di difendere la grande dignità e i valori dell' omosessualità, ma di acquisire la diversità come elemento di ricchezza per chi vuole ancora trasformare il mondo. E' stato il passo più applaudito nel mio intervento". Mi ricordo di un altro intervento, più volte citato, fatto da Enrico Berlinguer quando era segretario della Fgci, su Maria Goretti: la additava ad esempio per le future generazioni dei comunisti. "Era il dopoguerra. I comunisti venivano descritti come bestie. L' accusa di essere intellettual-frocio-comunista, senza molta distinzione tra i termini, ugualmente vituperati, è stata merce corrente fino a non troppo tempo fa. Da parte del Pci si tentava di difendersi, di proporre dei modelli di moralità sotto quell' alluvione di vituperi. Il difetto stava nel prendere in prestito i modelli dalla cultura cattolico borghese". Ma c' era anche molta grettezza moralistica e bacchettona all' interno del partito. Chi conviveva con una ragazza veniva convocato e avvertito con l' usuale frase: "Compagno, è ora che regoli la tua posizione". E Togliatti ebbe dei problemi quando iniziò la sua relazione con Nilde Jotti. Secchia non scherzava. "Lo stesso Secchia, una volta caduto in disgrazia, fu accusato, non tanto larvatamente, di essere un finocchio, accusa infamante e degradante. Ma erano tempi diversi, il partito continuava a vivere in stato di allarme, non ci si potevano concedere lassismi personali con il nemico o con la sindrome del nemico alle porte. Però Pasolini, tra il ' 60 e il ' 70, già poteva scrivere liberamente anche di omosessualità su "Vie Nuove"". Pasolini era uno scrittore celebre, un poeta, "un' artista". Anche Visconti non venne mai attaccato: Togliatti ne ha fatto sempre grandi elogi. Ma era un' eccezione. L' aristocratico decadente se lo poteva permettere, proprio perchè aristocratico e decadente. L' operaio in fabbrica no. Diciamo la verità: i compagni lo avrebbero preso a calci nel sedere. "Su Visconti posso essere d' accordo. Ma lui non faceva professione di omosessualità, come non la fa Zeffirelli. In questo senso non sono "scandalosi". Invece Pasolini era provocatorio, almeno per quegli anni e il fatto che scrivesse su "Vie Nuove" è significativo. Però è vero che l' omosessuale in fabbrica, tra i compagni, non aveva vita allegra. Mio padre, comunista da sempre, un uomo magnifico, dolce, andava a fare le spedizioni per picchiare "i froci". Una volta mi ha detto: se ti ammazzassi, noi tutti potremmo riacquistare una dignità. Mi ha molto amato, ma per lui, come per tanti altri, gli omosessuali erano solo i turpi individui che adescavano i bambini nei giardinetti. Ma di queste cose non ne voglio più parlare". Non ho l' intenzione di continuare ad insistere su certi ritardi e manchevolezze del Pci. Ma qui, come in altre occasione, l' azione dei radicali mi sembra sia stata decisiva. Gli altri hanno seguito, anche con riluttanza: tutto questo non gli interessava, soprattutto non faceva parte della loro cultura. "I radicali hanno avuto dei meriti, creando movimenti, flussi, attraverso un' ottica garantista. Ma con qualche casella o piccolo spazio in più di libertà non cambi le regole del gioco, che sono rimaste quasi le stesse. Il "Fuori" voleva creare la cittadella gay, dove gli omosessuali si potessero sentir protetti. I comunisti sono sempre stati contro l' ideologia del ghetto: in ritardo, magari, però decisi a risolvere le questioni, non solo a presentarle, che è molto più facile. D' altronde basta andarsi a rileggere le centinaia di lettere che arrivavamo all' "Unità" e a "Rinascita"" durante gli anni 70: un dibattito libero". Mi dicono però che alti dirigenti del partito non siano stati particolarmente soddisfatti dell' elezione di un omosessuale nella segreteria della Fgci: Chiaromonte ad esempio. "Francamente nel Pci non ho mai avuto problemi, come li ho avuti in famiglia. Credo che oggi comunista significhi anche rispetto dell' altro, essere condannati ad una contaminazione attraverso il rapporto umano: un rischio che bisogna accettare. Lo sguardo inquietante di un altro uomo può farti crollare il tuo castello di certezze, ma è inutile e stupido fuggire. Sono i liberali che hanno sguardi paralleli, che non s' incrociano mai: l' idea del rapporto come due monologhi. Questa è mummificazione dell' esistente. Libertà comunista è dinamismo, è contaminazione, con le nostre coscienze e i nostri corpi, è buttarsi nella mischia. Io l' ho fatto, sono diventato coscientemente omosessuale, per poi recuperare l' eterosessualità, per poi trovar la sessualità, senza aggettivi. Vorrei che ci capissimo, non sto parlando di membri e di apparati genitali, altrimenti torniamo alla caserma". Io credo di capire, ma non so quanti siano in grado di farlo nel Pci, non parlo della Fgci... "Giovanni Berlinguer è uno che capisce: aperto, vivace. Anche Natta ci aiuta. Abbiamo avuto un dibattito con lui molto libero. Ripete sempre che bisogna andare fino in fondo, che bisogna parlare, confessarci di più - non dal prete con la cotta - togliersi di dosso tutti i residui di intolleranza. Gli altri non so, sono arrivato da pochi giorni a Roma. Certo l' età conta, ognuno forma la propria cultura in un momento storico preciso. Non è facile affrontare un tema come quello della pedofilia ad esempio, cioè del diritto dei bambini ad avere una loro sessualità, ad avere rapporti tra loro, o con gli adulti - tema ancora più scabroso - e trattarne con chi la sessualità l' ha vista sempre in funzione della famiglia e dalla procreazione. Le donne, da questo punto di vista, sono notevolmente più sensibili. Ma il Pci non è un organismo matriarcale".

da Wikipedia:
Mario Mieli (da cui prende nome il Circolo di cultura omosessuale di Roma)


Mario Mieli (1952-1983) è considerato uno dei fondatori del movimento omosessuale/ transgender in Italia.
“Fu uno dei primi a contestare le categorie di genere vestendosi sempre al femminile; coprofago senza vergogna, utilizzò anche immagini e ruoli per portare avanti la propria battaglia dei diritti individuali inalienabili.”
A lui è dedicato il Circolo di cultura omosessuale di Roma, fondato nell’anno del suo suicidio.
“L'assunto di fondo del pensiero di Mario Mieli consiste nel ritenere che ogni persona è potenzialmente bisessuale se non fosse condizionata, fin dall'infanzia, da un certo tipo di società che (attraverso quella che Mieli chiamava "educastrazione"), costringe a considerare l'eterosessualità come "normalità" e tutto il resto come perversione. ...
Mieli abbracciò immediatamente il marxismo, cercando di rimodularlo sulle istanze della lotta di liberazione ed emancipazione omosessuale.
Tim Dean, psicoanalista dell’Università di Buffalo, il quale ha redatto l'appendice dell'edizione Feltrinelli del libro di Mieli, Elementi di critica omosessuale, afferma: «Nel processo politico di ristrutturazione della società (...) Mieli non esita a includere nel suo elenco di esperienze redentive la pedofilia, la necrofilia e la coprofagia» e «ridefinisce drasticamente il comunismo descrivendolo come riscoperta dei corpi (...) In questa comunicazione alla Bataille di forme materiali, la corporeità umana entra liberamente in relazioni egualitarie multiple con tutti gli esseri della terra, inclusi "i bambini e i nuovi arrivati di ogni tipo, corpi defunti, animali, piante, cose" annullando "democraticamente" ogni differenza non solo tra gli esseri umani ma anche tra le specie».
A questa rivoluzione sociale sono di ostacolo determinati elementi, ritenuti da Mieli come «pregiudizi di certa canaglia reazionaria» che, trasmessi con l’educazione, hanno la colpa di «trasformare troppo precocemente il bambino in adulto eterosessuale».
I bambini, secondo quello che sembra il pensiero di Mieli, possono però "liberarsi" e trovare la realizzazione della loro "perversità poliforme" grazie agli adulti consapevoli di quanto sopra asserito: «Noi checche rivoluzionarie sappiamo vedere nel bambino non tanto l'Edipo, o il futuro Edipo, bensì l’essere umano potenzialmente libero. Noi, sì, possiamo amare i bambini. Possiamo desiderarli eroticamente rispondendo alla loro voglia di Eros, possiamo cogliere a viso e a braccia aperte la sensualità inebriante che profondono, possiamo fare l’amore con loro. Per questo la pederastia è tanto duramente condannata: essa rivolge messaggi amorosi al bambino che la società invece, tramite la famiglia, traumatizza, educastra, nega, calando sul suo erotismo la griglia edipica».
Mario Mieli si rifaceva alle teorie di Freud sulla sessualità infantile. Il padre della psicoanalisi sosteneva che l'orientamento sessuale poteva prendere qualsiasi "direzione".
Conseguentemente eterosessualità ed omosessualità sarebbero varianti possibili (l'OMS, l'Organizzazione Mondiale della Sanità, considera l'omosessualità come "una variante naturale della sessualità umana").
Anche e soprattutto in questo senso Mario Mieli invoca l'amore per i bambini."

il grassetto è di Fabio Della Pergola