giovedì 22 gennaio 2009

Repubblica 22.1.09
"La Germania è ancora divisa"
Parla il premio Nobel, a 20 anni dalla caduta del muro: "È fallita l’unificazione"
di Christoph Diekmann Christof Siemes


"Da parte dei tedeschi occidentali si è fatto poco per confrontarsi con le storie di quei 17 milioni di persone vissute sotto la dittatura"
"Sono un patriota della Costituzione, così come la intende Habermas. Il modo in cui essa è stata considerata è un fallimento"

«Gli ospiti non erano nella predisposizione di festeggiare», scrive Günter Grass nel suo diario dopo una visita a un ristorante di Berlino il 3 ottobre 1990. Qual è il suo bilancio della riunificazione?
«Uno dei miei timori fu allora che l´unificazione e che Berlino come capitale portassero a uno Stato molto centralizzato. Questo non è accaduto, grazie a Dio. Ma tutto il resto ha superato le mie visioni pessimistiche. Il modo in cui certe persone sono arrivate in Parlamento risponde a logiche criminali delle quali oggi conosciamo soltanto la punta dell´iceberg. Allora non avrei potuto immaginare neppure, che vent´anni più tardi la disuguaglianza sarebbe stata ancora tale o che l´emigrazione avrebbe condotto al totale spopolamento di alcune regioni. Da parte tedesco-occidentale è stato fatto troppo poco per confrontarsi con le storie di quei 17 milioni di persone che per quarant´anni si erano trovate costrette a vivere sotto una dittatura. Tutti si sono messi dalla parte dei vincitori, vedendo l´unificazione come un mero allargamento dell´ambito economico e si sono convinti che i problemi sarebbero stati risolti grazie al denaro. La grande crisi della finanza che stiamo vivendo oggi, quella del capitalismo di rapina, allora si stava già delineando. Stiamo raschiando il fondo della scodella di minestra preparata allora.
Cosa ha significato per lei e il crollo del Muro?
«Ho trovato il superamento della divisione una cosa eccezionale. Tanto più che lo consideravo non come una divisione della Germania, bensì come una divisione dell´Europa».
C´era chi allora sosteneva che la divisione della Germania dovesse essere accettata come penitenza per la colpa tedesca.
«Io non l´ho mai pensato. Sono sempre stato contrario e lo sono ancora alle divisioni, ma anche a questo tipo di unificazione. Ancora oggi l´unificazione non si è realizzata, deve essere completata, esiste solo sulla carta».
L´unificazione le suscitò già allora dei dubbi?
«No! Tutti i miei scritti precedenti andavano in quella direzione. Certamente ero convinto che ci sarebbe voluto più tempo per abbattere il Muro. Tuttavia, ho sempre sostenuto che potevano dividerci quanto volessero - economicamente, politicamente, militarmente � ma la Germania sarebbe rimasta unita dalla sua cultura. Questo è stato il piccolo piedistallo dal quale ho proposto le mie argomentazioni».
Qual era la procedura più corretta per rendere giustizia ai 17 milioni di persone della Germania dell´Est?
«Le bozze per una Costituzione esistevano già. L´articolo 146 prevedeva che, nel caso di unificazione, la nuova Costituzione avrebbe dovuto essere sottoposta all´approvazione degli elettori. Si sarebbe permesso ai tedeschi dell´Est di dare il contributo della loro esperienza. Questa bozza a Bonn non è nemmeno stata presa in considerazione».
Ma la politica non stava inseguendo gli eventi in totale affanno? Ciò che lei indica forse non poteva essere messo in pratica.
«Che cosa vuol dire "non poteva"?! Non fu fatto nemmeno il tentativo! Il motto era: fate come noi e diventerete ricchi. Furono fatte soltanto molte promesse».
Il suo proporsi a difesa dei tedeschi dell´Est � lei che era una voce importante per l´opinione pubblica della Germania occidentale - fu visto come qualcosa di assolutamente eccezionale.
«L´ho ritenuta la mia possibilità, perché tanti avevano perso la capacità di esprimersi. Nella spazzatura non era finita soltanto l´economia della Germania dell´Est, ma anche la sua letteratura e la sua pittura. Christa Wolf, che qualche anno prima, ad Ovest era osannata ancora come una delle più importanti scrittrici della Rdt, di colpo divenne un nulla».
Come in tutti i suoi libri, anche nel suo diario le simpatie vanno a coloro che sono stati travolti dalla storia. Questo modo di vedere non è troppo parziale?
«La storia di chi fa storia emerge in genere da sola, anche rispetto alle falsificazioni. Queste possono essere corrette, facendo parlare le voci che non emergono. Tra l´altro, questo è da sempre il compito della letteratura. Cosa sapremmo della guerra dei Trent´anni se ci fossero stati tramandati soltanto i fatti nudi e crudi, le vittorie e le sconfitte, senza un Grimmelshausen che descrivesse la quotidianità di quella guerra?».
L´ha sorpresa il senso di appartenenza nazionale di molti tedeschi dell´Est?
«Mi ha sorpreso che lo slogan "noi siamo il popolo" diventasse "noi siamo un popolo", accompagnato dalla bandiera di guerra dei radicali di destra. A quanto pare, c´è un potenziale, che era stato tenuto nascosto con rigide misure nella Rdt, che poi è esploso.
Nonostante tutte le difficoltà, la popolazione finora non ha ceduto.
«Le persone possono desiderare delle cose solo quando sono proposte concretamente. È un fallimento del giornalismo il non aver indagato abbastanza sul come certe cose sono state fatte».
Forse quei tedeschi sono soddisfatti della situazione, come lo sono stati per vent´anni.
«Vi è un tipo di resistenza molto negativo: il disinteresse verso la politica. La scarsa partecipazione alle elezioni ne è una prova, come lo è l´orientamento verso destra».
Non dubita qualche volta della logica, quando vede che sono proprio le persone giovani quelle che si orientano verso destra?
«Dato che non sono mai stato un grande ottimista, le possibilità che io sia molto deluso sono relativamente scarse. Una cosa mi inquieta più dei radicali di destra ed è la crisi del nostro sistema democratico. Vi hanno contribuito le folli misure di sicurezza del ministro degli Interni, un fanatico combattente della sicurezza totale, così come ha pesato anche l´attività delle potenti lobby, che si sono infiltrate nei ministeri e aiutano a scrivere le leggi: ciò è anticostituzionale!».
Già nella prima parte del diario, lei spiega che queste annotazioni erano un suo "obbligo". Chi le ha imposto quest´obbligo?
«È il cittadino Grass a sentirsi obbligato. Appartengo a una generazione che si è formata ancora con il nazionalsocialismo. Nel dopoguerra ho dovuto maturare un processo di apprendimento che continua ancora oggi. Da questo deriva una responsabilità. Voglio proporle un esempio di questi giorni: un importante imprenditore, il quinto uomo più ricco della Germania, si getta sotto un treno. Nel discorso del primo ministro si parla di un caso disgraziato. No, non si tratta di un caso disgraziato. Si tratta di uomo che ha voluto sfuggire alle proprie responsabilità: aveva 100.000 dipendenti, che aveva trascinato nella disgrazia con le sue speculazioni».
Lei dice che la sua visione pessimistica è stata talvolta superata dalla realtà. Non è forse orgoglioso della sua abilità profetica?
«Naturalmente no. Non si gioisce nel vedere che le previsioni peggiori, le cose prevedibili, sono addirittura superate dalla realtà!».
Però non le piace questo suo ruolo di pessimista sulle sorti del Paese. Qual è secondo lei il suo ruolo?
«Sono un patriota della Costituzione, così come lo intende Habermas. Per me, la grande delusione è stato il modo con cui la Costituzione è stata considerata nel processo di unificazione».
Cosa si augura dalla pubblicazione del suo diario oggi, vent´anni più tardi?
«Voglio sputare nella minestra dei comizianti della domenica. Dubito tuttavia che se ne accorgano. I comizi della domenica sono scritti anticipatamente».
Copyright Die Zeit-la Repubblica. Traduzione di Guiomar Parada

Corriere della Sera 22.1.09
Il sit-in Uno studente urla: sei un fascista. Identificato. Il presidente della Camera: tutto previsto
Sapienza, Fini contestato. Il rettore: ora denuncio


ROMA — «L'ex alunno Gianfranco Fini che qui da noi si laureò in Pedagogia con 110 e lode » (a ricordarlo è il professor Fulco Lanchester nella presentazione) arriva ieri pomeriggio all'università La Sapienza, vestito grigio e cravatta rossa, per una
lectio magistralis su «Parlamenti nazionali e istituzioni europee ». Corsi e ricorsi: già nel novembre 2003 fu invitato dall'ateneo romano a parlare della Costituzione Ue, incontro annullato
in extremis per evitare un'annunciata contestazione studentesca.
Stavolta Fini arriva. Ma il copione non cambia: ad aspettarlo c'è l'Onda. La legge Gelmini non è stata ancora digerita, 200 studenti sulle scale dell'Aula Magna, fumogeni, striscioni eloquenti: «Non abbiamo Fiducia nelle vostre riforme», «Fiducia, Fini non giustifica i mezzi». E poi: «No alla legge Fini sulle droghe», «Stop al massacro di Gaza».
Ci sono più poliziotti che studenti. Uno riesce a saltare le transenne e raggiunge Fini all'ingresso del Rettorato. Gli grida «fascista!» due volte da vicino. Lo studente viene identificato. Più tardi, tenuta la sua lectio,
il presidente della Camera dirà solo: «Ampiamente prevista e ampiamente scontata la scarsa partecipazione dei manifestanti », aggiungendo di non sentirsi «per niente» infastidito. Al cospetto di docenti e professori, invece, Fini critica i media («Domani sui giornali ci sarà solo la contestazione») e bacchetta gli europarlamentari italiani «poco presenti e incisivi» a Strasburgo.
Il rettore, Luigi Frati, attacca l'Onda: «Erano quattro gatti, lo 0,1 per mille degli studenti. Ora basta, il primo che blocca un'aula lo denuncerò, perché è un reato ». I rapporti tra lui e il movimento studentesco sono ormai tesissimi, ancor più dopo l'uscita del sindaco Alemanno («La Sapienza è in ostaggio di 300 piccoli criminali»). Così, ecco ieri altri striscioni: «Frati e baroni, Fini e buffoni», «Voi quattro immuni, noi 300 criminali». In serata, poi, l'Onda è costretta a incassare ancora: i docenti di Fisica della Sapienza respingono all'unanimità («Irricevibile») la proposta degli studenti di boicottare a causa della guerra a Gaza gli istituti di ricerca israeliani («Una stupidaggine», secondo il rettore Frati).
A Fini, intanto, arrivano messaggi bipartisan di solidarietà. In primis, dal ministro dell'Università, Mariastella Gelmini: «L'università è il luogo del dialogo. Contestazione inaccettabile ». Solidarietà anche dal Pd («No agli insulti»). Duro il ministro della Difesa, Ignazio La Russa («Intervenga la Questura»). Silvana Mura, deputata idv, parla di «reazioni scomposte» della maggioranza. Ironico Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione: «Libero fischio in libero Stato, dov'è lo scandalo?».
Fabrizio Caccia Urla e striscioni Un momento della contestazione alla Sapienza

Corriere della Sera 22.1.09
Ravenna, lite sul compagno Bulow. Il Pdl: un sanguinario
La cerimonia per Boldrini An locale assente. Gasparri: ferite ancora aperte. Casini: il no dell'Udc? Soltanto un malinteso
di Francesco Alberti


Quelli di "Bulow" avevano combattuto bene... In totale "Bulow" poteva contare su circa 800 uomini. Una parte di questi meriteranno sino in fondo due aggettivi: eroici e spietati.
Giampaolo Pansa, Il sangue dei vinti

RAVENNA — «Eroe partigiano». «No, partigiano assassino». Siamo ancora fermi qui, a Ravenna: a sessant'anni fa. Parli di Arrigo Boldrini, il mitico Bulow della Resistenza comunista, ricoperto di medaglie dagli americani e di onori dal Pci di Togliatti, ed è come salire sulla macchina del tempo e sprofondare nella solita Italia: rossi contro neri, muro contro muro, sordi contro sordi. Sabato prossimo sarà un anno da quando Boldrini, plurisenatore, plurideputato, membro dell'Assemblea costituente, una sorta di Maradona per l'Anpi, ha lasciato questa terra. In piazza Del Popolo, per ricordarlo, arriveranno Veltroni, il Pd, i sindacati, Rifondazione, i dipietristi e un rosario di sigle. Ma quelli del centrodestra, no. Non sono stati invitati, ma se anche lo fossero stati, non ci sarebbero andati. Così come hanno fatto un bel po' di gazzarra all'inaugurazione in dicembre di un busto di Bulow nel palazzo comunale di Ravenna. Per non parlare poi delle urla scandalizzate che si alzarono mesi addietro, sempre dal Pdl, alla notizia che il sindaco pd Fabrizio Matteucci aveva l'intenzione (poi rientrata) di intitolare una piazza al capo partigiano.
Memoria condivisa? Rappacificazione? Con buona pace di Napolitano, Violante, Fini e di tutti coloro che, dalle più prestigiose tribune, non perdono occasione per lanciare vigorosi appelli alle italiche coscienze, qui a Ravenna, e non è colpa del Sangiovese, i veleni del dopoguerra sono duri da smaltire. Avrà probabilmente ragione Maurizio Gasparri, presidente dei senatori pdl, che predica pazienza, pazienza storica, «perché in certe realtà locali, e la Romagna è una di queste, le ferite di quegli anni sono state così laceranti da richiedere ben più di 60 anni per rimarginarsi, forse ci vorrà qualche secolo». O l'altro capogruppo di An, Italo Bocchino, che rilancia le ragioni della memoria condivisa, ma che poi riconosce che «in certe situazioni manca la cultura del confronto». Certo fa impressione la siderale distanza tra i due fronti. «Eroe, monumento della Resistenza, uno dei padri della democrazia» per il sindaco Matteucci, l'intero Pd, la sinistra e laici sparsi. «Figura molto controversa, che voleva sostituire una dittatura con un'altra e autore di sanguinosi eccessi » per i capi locali del Pdl, la cui foga anti-Boldrini ha il suo ideologo nello storico Gianfranco Stella, uno che tanto per il sottile non va, che ha accusato Bulow di essere «il boia dell'eccidio di Codevigo» (1945, 120 morti accertati), che ha duellato a colpi di querele con l'Anpi e sui cui lavori Giampaolo Pansa ha ricostruito nel suo discusso «Sangue dei vinti» episodi tutt'altro che edificanti per la causa partigiana, poi riportati nel capitolo «Quelli di Bulow».
Tale è la centrifuga delle polemiche da aver coinvolto perfino la truppa dell'Udc, ex democristiani, gente mite, che si fa fatica a tacciare di fascismo più o meno strisciante. A differenza del Pdl, i casiniani locali erano stati invitati alla manifestazione di sabato prossimo. Ma hanno preferito opporre un cortese e fermo «no, grazie », sostenendo che «la figura di Boldrini, più che unire, tende a dividere» e comunque censurando il Dna della manifestazione, ritenuta «eccessivamente propagandistica». Posizione, ci mancherebbe, più che legittima. Ma che fa a pugni con il pensiero del grande capo dell'Udc, Pier Ferdinando Casini: «Purtroppo sabato sono impegnato — afferma —, ma non ho alcuna esitazione nel dire che partecipo simbolicamente alla manifestazione di Ravenna nel ricordo di un uomo, Arrigo Boldrini, che ha combattuto nel nome dell'antifascismo, uno dei valori costituenti della nostra Repubblica. Spero che la decisione dell'Udc locale sia frutto di malintesi e che tutto si possa chiarire». Sicuramente non entro sabato. «La sinistra può cambiare mille abiti, ma resta comunque stalinista, non ce la fanno ad ammettere che di nefandezze ne sono state fatte a destra come a sinistra» ringhia il leader locale di FI, Eugenio Costa. «Ricordare Bulow — tuona l'Anpi — significa opporsi a chi tenta di smantellare la Costituzione e la Resistenza, equiparando i partigiani ai repubblichini ». Questa è la foto. D'epoca.

Corriere della Sera 22.1.09
Prelievo sui resti. Al lavoro astronomi, genetisti e oftalmologi
Un test del Dna per svelare i misteri di Galileo
«Un difetto alla vista influenzò le scoperte»
di Giovanni Caprara


Sarà analizzato anche lo scheletro della giovane donna sepolta assieme a lui. Potrebbe trattarsi della figlia

MILANO — Quando Galileo Galilei muore nel 1642 a Firenze nella condizione di «condannato dalla Chiesa» porta con sé nella tomba un mistero che ora astronomi, genetisti e oftalmologi cercano di sciogliere con l'esame del Dna dei suoi resti. Il genio che aveva posto i fondamenti della scienza moderna e aveva rivoluzionato l'astronomia grazie alle prime osservazioni con il cannocchiale soffriva di un grave difetto alla vista. Negli ultimi anni di vita, quasi cieco, per leggere e scrivere lo aiutava il discepolo Vincenzo Viviani. Ma — si sono sempre chiesti gli scienziati — come è riuscito a vedere quelle macchie solari, i mari lunari o i satelliti gioviani che davano ragione a Copernico diventando poi materia d'accusa per il Sant'Uffizio? E i suoi problemi spiegano anche alcuni «errori» delle rilevazioni?
«La risposta arriverà dall'analisi del Dna che affronteremo su alcuni campioni prelevati dalla tomba» risponde Paolo Galluzzi, direttore del Museo di storia della scienza di Firenze. L'operazione coinvolge l'Istituto di ottica fiorentino, l'Osservatorio di Arcetri e due oftalmologi di Cambridge (Gran Bretagna) tra cui Peter Watson, presidente dell'Accademia Oftalmologica Internazionale. Per i genetisti si sono fatti avanti specialisti inglesi, «ma ne abbiamo di esperti anche tra Pisa e Firenze», nota Galluzzi.
Galileo Galilei riuscì ad essere sepolto dove adesso si trova nella Basilica di Santa Croce la sera del 12 marzo 1737. Finalmente, dopo 95 anni trovava degna sistemazione uno dei geni dell'umanità in seguito all'intervento della massoneria fiorentina e del granduca Gian Gastone condividendo un atto politico mirato a circoscrivere il potere della Chiesa e restituire pienezza allo Stato. Prima, le sue spoglie erano nascoste in una celletta del campanile perché la Chiesa di Roma imp ediva una collocazione capace di magnificare l'uomo che aveva giudicato per «veemente sospetto d'eresia». Ma quando si compie il trasferimento c'è una sorpresa che mette a disagio le autorità convenute, incapaci di dare un'identità al ritrovamento, come dimostra un documento notarile scoperto da Paolo Galluzzi. Nella tomba oltre a Galileo e al discepolo Vincenzo Viviani c'è pure lo scheletro di una giovane donna. «Riteniamo sia suor Maria Celeste, figlia amata del grande scienziato e morta giovanissima a 33 anni — nota Galluzzi —. Ma per aver certezza compiremo l'esame del Dna anche dei suoi resti». Sin da giovane, come racconta in alcune lettere, Galileo si lamenta dei suoi problemi agli occhi. L'ipotesi è che fosse vittima di una malattia genetica all'uvea che provoca alterazioni nella vista. Ora spetta ai genetisti trovare conferme o smentite. E per le stranezze o gli errori di certe osservazioni di cui ci ha lasciato prova negli schizzi? «Galileo aveva notato — racconta Galluzzi — dei rigonfiamenti laterali a Saturno che non esistono, invece degli anelli. Egli inseguiva delle idee e tendeva a vedere talvolta ciò che era nelle sue aspettative. Ad esempio immaginava di trovare dei satelliti anche intorno ad altri pianeti come li aveva individuati intorno a Giove. Inoltre ci si domanda se alcuni profili lunari da lui riprodotti corrispondano alla realtà o non siano il risultato di una deformazione ottica legata alla sua patologia».
L'operazione fiorentina, che si avvia nell'Anno Internazionale dell'Astronomia voluto dall'Unesco proprio per celebrare i 400 anni dalle scoperte galileiane, richiederà tempo e fondi adeguati. «Non meno di 300 mila euro — precisa Galluzzi — ma per la storia della scienza si tratta di un chiarimento importante da raggiungere ».

Corriere della Sera 22.1.09
Inediti Una lettera-testamento scritta cinque anni prima di morire: «Lascio ai posteri questo testo, lo renderò noto dalla tomba»
Mark Twain: che illusione La libertà di parola è finta
«Nessuno sfida l'opinione pubblica con pareri impopolari»
di Mark Twain


Un privilegio di cui nessuna persona vivente gode: la libertà di parola. Chi è in vita non è del tutto privo, a rigore, di un tale privilegio, ma dato che lo possiede solo come vuota formalità e sa di non poterne fare uso, non possiamo considerarlo un effettivo possesso. In quanto privilegio attivo, è simile al privilegio di poter commettere un omicidio: si può esercitarlo se si è disposti a sopportarne le conseguenze. L'omicidio è proibito sia formalmente che di fatto, la libertà di parola è formalmente permessa, ma di fatto proibita. Per l'opinione comune sono crimini entrambi, tenuti in grande spregio da tutti i popoli civili. L'omicidio è a volte punito, la libertà di parola lo è sempre, qualora venga esercitata. Il che avviene raramente. Ci sono almeno cinquemila omicidi per ogni (impopolare) manifestazione di libera espressione. Questa riluttanza a esprimere opinioni impopolari è giustificata: il prezzo da pagare è assai alto, può comportare la rovina economica di un uomo, può fargli perdere gli amici, può esporlo al pubblico ludibrio e alla violenza, può condannare all'emarginazione la sua famiglia innocente e rendere la sua casa un luogo desolato, disprezzato ed evitato da tutti.
Nel petto di ogni uomo si cela almeno un'opinione impopolare sulla politica o sulla religione, e in molti casi se ne trova ben più di una. Più l'uomo è intelligente, maggiore è la quantità delle opinioni di questo tipo che ha e che tiene per sé. Non c'è individuo — compreso il lettore e me stesso — che non sia in possesso di convinzioni impopo-lari, che coltiva e accarezza e che il buon senso gli vieta di esprimere. A volte sopprimiamo un'opinione per ragioni che ci fanno onore, non onta, ma più spesso lo facciamo perché non possiamo sostenere l'amaro costo di dichiararla. A nessuno di noi piace essere odiato, a nessuno piace essere evitato.
Una naturale conseguenza di questa condizione è che, consciamente o inconsciamente, facciamo più attenzione ad accordare le nostre opinioni con quelle del nostro vicino e a mantenere la sua approvazione piuttosto che a esaminarle con scrupolo per vedere se siano giuste e fondate. Quest'abitudine produce inevitabilmente un altro risultato: l'opinione pubblica che nasce e si alimenta in questo modo non è affatto un'opinione, è semplicemente un atteggiamento; non suscita riflessioni, è priva di principi e non merita rispetto.
Quando un progetto politico del tutto nuovo e non sperimentato viene presentato alla gente, questa è sorpresa, ansiosa, intimidita e per qualche tempo resta muta, reticente, incapace di schierarsi. La gran parte non studia la nuova dottrina per farsene un'idea, ma aspetta di vedere quale sarà l'orientamento prevalente. Il movimento antischiavista, quando ebbe inizio nel Nord tre quarti di secolo fa, non suscitò nessuna simpatia. La stampa, il clero e la grande maggioranza delle persone rimasero indifferenti. Questo avvenne per timidezza, per paura di esprimersi e diventare impopolari, non perché si approvasse la schiavitù o non si commiserassero gli schiavi. Non fanno eccezione a questa regola neanche gli Stati, come quello della Virginia, e neanche io stesso: ci siamo aggregati alla causa dei Confederati non perché lo volessimo, non era così, ma perché volevamo essere come gli altri. È semplicemente una legge di natura e l'abbiamo seguita.
È il desiderio di essere come gli altri che porta al successo i partiti politici. Non c'è — nella maggioranza — un motivo particolarmente elevato per aderire a un partito, a meno che non si ritenga tale il fatto che ne facesse parte il proprio padre. Il cittadino medio non è uno studioso delle dottrine dei partiti, e a buon diritto: né lui né io saremmo in grado di capirle. Se gli chiedessimo di spiegare in modo dettagliato perché abbia preferito una bandiera a un'altra, il risultato del suo sforzo sarebbe penoso. Lo stesso vale per la questione delle protezioni doganali. Lo stesso vale per qualsiasi altra grande dottrina politica; perché tutte le grandi dottrine politiche sono piene di problemi difficili — problemi molto al di sopra della portata del cittadino medio. E questo non è strano, dato che sono anche al di sopra della portata delle più acute menti del Paese; dopo tanto chiasso e tante chiacchiere, per nessuna di queste dottrine si è potuta fornire la definitiva dimostrazione che fosse quella giusta, la migliore.
Quando un uomo ha aderito a un partito, è probabile che ci rimanga. Se cambia opinione — intendo il modo di sentire, di pensare — è probabile che continui a restarci ugualmente; i suoi amici appartengono a quel partito; terrà quindi per sé il diverso modo di sentire, e sosterrà pubblicamente quel che in privato ha rinnegato. In questo modo, e non in altri, può godere del privilegio americano della libertà di parola. Di questi poveretti se ne trovano in entrambi i partiti, ma non è possibile dire in quale proporzione. Perciò non sapremo mai quale partito abbia realmente ottenuto la maggioranza alle elezioni.
La libertà di parola è il privilegio dei morti, il monopolio dei morti. Essi possono dire quel che pensano senza ferire (...). Ma allora perché non farlo dalla tomba e prenderci questa soddisfazione? Perché non parlarne nel nostro diario, invece di tralasciarli con discrezione? Perché non metterceli e lasciare poi il diario agli amici? La libertà di parola è davvero desiderabile. Me ne sono accorto a Londra, cinque anni fa, quando i simpatizzanti dei Boeri — persone rispettabili, bravi cittadini che pagano le tasse, con tutto il diritto di avere le proprie opinioni come ogni altro cittadino — sono stati attaccati durante le loro riunioni, e i loro oratori sono stati maltrattati e allontanati dal palco da altri cittadini che avevano opinioni diverse. Me ne sono accorto in America, quando anche da noi abbiamo aggredito chi si riuniva e malmenato gli oratori. E me ne accorgo particolarmente ogni settimana o due, quando voglio dare alle stampe qualcosa che la discrezione mi direbbe di non pubblicare. A volte i miei sentimenti sono così violenti che devo prendere la penna e riversarli sulla carta per impedire che il loro fuoco si consumi dentro di me; ma tutto quell'inchiostro e quella fatica vanno sprecati, perché non posso pubblicare quel che scrivo. Ho appena finito un articolo di questo genere, e ne sono molto soddisfatto. Fa bene alla mia anima tormentata leggerlo e considerare i problemi che creerebbe a me e alla mia famiglia. Lo lascerò ai posteri, e lo renderò noto dalla tomba. Lì c'è libertà di parola e non si può far danno alla famiglia.
(Traduzione di Maria Sepa) Il saggio
Pubblichiamo un inedito di Mark Twain
The Privilege of the Grave, scritto nel 1905. Il testo uscirà in aprile da HarperStudio nella raccolta Who is Mark Twain? introdotta da Robert Hirst, responsabile di The Mark Twain Papers & Project dell'Università di Berkeley: una raccolta esaustiva dei testi di Twain

Corriere della Sera 22.1.09
Il tamburino Grass
di Ranieri Polese


«Con Oskar Matzerath i conti non sono chiusi: continuerà per molto tempo ancora a divertire e spaventare tanta gente». Lo scriveva Hans Mayer a proposito del protagonista del Tamburo di latta, il romanzo di Günter Grass pubblicato in Germania nel 1959 e che oggi si può leggere in una nuova traduzione (Bruna Bianchi, Universale Feltrinelli). Uscì, quel libro, in piena era Adenauer, quando l'imperativo era: prima ricostruire, poi semmai riflettere sul passato. Ma il tamburino che decide di non crescere non ci sta, e raccontando la sua vita ripercorre la storia tedesca dagli Anni 20 al nazismo, alla guerra e dopo.
Irriverente, osceno, cattivo, Oskar costringeva i connazionali a guardarsi indietro, a giudicare padri e madri. Come fa Grass, ancora oggi, con le sue critiche alla riunificazione, condotta— dichiara alla Zeit — con gli stessi metodi del capitalismo di rapina che ci hanno portato alla crisi di adesso. Proprio come il suo Oskar, Grass non ha paura di «sputare nel piatto dei predicatori della domenica».

Corriere della Sera 22.1.09
Il XX secolo raccontato dallo scrittore polacco: riflessioni sull'arte, la guerra e memorie private
Witold Gombrowicz: invettive contro Dante e Parigi «proustiana»
di Franco Cordelli


Il Diario di Witold Gombrowicz è un'alta testimonianza del XX secolo. Nella sezione che comprende gli anni dal 1959 al 1969 se ne può intendere meglio la ragione. Si può cioè capire in che cosa sia un diario unico, diverso da tutti gli eminenti ad esso coevi: i diari di Kafka, di Gide, di Anaïs Nin, di Anna Frank, della Woolf, di Flaiano, di Léautaud o, anche, di Ciano e del Che Guevara. Ma prima di arrivare a un tentativo di definizione, voglio qui elencare alcuni dei temi affrontati dallo scrittore polacco.
Si inizia con un cavallo di battaglia e fondamento della sua poetica: la polemica contro la critica pseudo-scientifica e contro la scienza scientista. Poi, di seguito: Beethoven contro Bach (Bach è il cosmo, la matematica). Abiezione della Polonia e progressivo scadimento culturale dell'esilio polacco (Gombrowicz, lo si ricorderà, nel 1939 era in Argentina, scoppiò la guerra e tornò in Europa solo nel 1963). L'Arte e le Democrazie Popolari: due realtà che non possono convivere, l'arte è per sua natura rivelazione di un individuo e dunque aristocratica. Emergenza dell'America Latina, suo affacciarsi sulla scena della storia (ma qui non mancano obiezioni al successo di Borges come rappresentante di una cultura che si vuole nuova e specifica e che in realtà è fortemente condizionata dall'Europa). Ricordo di amici polacchi da lungo tempo perduti: struggenti le pagine dedicate a Bruno Schulz e fulminante il ritratto di Jozef Wittlin, l'autore de Il sale della terra (lo ricorda nelle sue magistrali note Francesco Cataluccio).
Ritorno in Europa: il Diario Parigi- Berlino era già uscito in italiano, lo si rilegge con immutato piacere. Colpiscono i fuggevoli incontri con i giovani Ingeborg Bachmann e Uwe Johnson, ma di più l'adesione a Sartre contro il generale dissenso, se non vilipendio. Nei confronti di Parigi è sospettoso, la giudica «proustiana», sdolcinata, decide di intraprendere con essa un vero corpo a corpo. Dell'Europa apprezza il benessere, in Europa comincia a coltivare la speranza d'essere finalmente riconosciuto come scrittore. Ma il ritorno in patria gli appare un capitolo finale, l'Europa è un mondo troppo addomesticato perché il suo spirito non ne risenta, egli sa che l'Europa lo «ucciderà». Non a caso subito dopo intraprende il discorso su Hitler e sul Male; il Male, dice, è dentro di noi, è troppo facile circoscriverlo alla Germania, è questo il punto debole dei polacchi e dell'intero vecchio mondo, che ci si voglia liberare dal Male. Ma il Male, che cos'è il Male? Per Gombrowicz è due possibili eventualità: l'inferiorità della giovinezza e la pienezza della maturità lasciate sole. L'una non ha senso se non poggiandosi all'altra, riconoscendo la presenza dell'altra.
Altri momenti o temi: l'autentico dolore (o la rabbia) per aver perso d'un soffio il Premio internazionale degli editori; la gioia per averlo vinto subito dopo; l'invettiva contro Dante (anche questa da noi già nota); l'ammirazione per il giovane Le Clézio, suo vicino di casa (il francese viveva a Nizza, Gombrowicz a Vence, finalmente con una casa, una moglie, un cane e un gatto). C'è infine un'impressionante pagina sul primo infarto. In quanto al Diario come opera in sé, Gombrowicz non racconta quasi mai. L'aneddotica è limitatissima. Anche tutti i temi che ho elencato sono sviluppati con leggerezza, con mano veloce, quasi in punta di penna. Il fatto capitale è stilistico. Gombrowicz intraprende la scrittura di un diario contro i suoi romanzi, nel tentativo di finirla con le ellissi, con i trucchi, con ciò che chiama il difficile. La vera arte, dice, è trasformare il difficile in qualcosa di più facile: non di più accessibile, ma proprio di più facile, di concreto come la musica di Beethoven. Non solo: che cos'è un diario se non un continuo affacciarsi dell'io sulla scena del mondo? Che cosa, dunque, se non un continuo autoincensamento? Pure, dice Gombrowicz fedele alla sua vocazione derisoria, non vi sarà mai autentica aristocrazia se non sbeffeggiando il proprio stesso io sempre tra i piedi. E come ottenere un simile risultato se non suddividendo l'autoincensamento, polverizzando l'io, trasformando l'uniforme scrittura romanzesca in una struttura polifonica quale il diario fornisce con il mutare dei ontinenti e delle stagioni?

Corriere della Sera 22.1.09
Un saggio ricostruisce i rapporti del pittore con gli amici: da Max Jacob a Braque
Picasso sul letto di morte invoca Apollinaire
di Arturo Carlo Quintavalle


No, davvero non si sa ancora abbastanza su Pablo Picasso: lo dimostra questa concentrata guida alla sua esistenza (edita da Bollati Boringhieri), ricca di riferimenti alle molte amicizie. Una su tutte, quella con Apollinaire scomparso nel 1918, Picasso ne mormorerà il nome sul letto di morte. Diverso il caso di Andrè Breton che, dopo aver esaltato lo spagnolo rompe ogni rapporto nel 1946 quando scopre che si è iscritto al Partito Comunista. Intenso il rapporto con Braque nel periodo cubista, poi sempre più distante, mentre quello con Matisse è segnato da un profondo, reciproco rispetto. Picasso è un generoso, gli amici li aiuta, ecco due storie diverse e importanti. Max Jacob il poeta, cubista, ha spesso bisogno di denaro e Picasso negli Anni 20 e 30 gli manda disegni, perché li venda. Max descrive così di Picasso: «Piccolo, duro, solido, inquieto, con penetranti occhi scuri, gesti ampi, mani e piedi piccoli/ Disordine e rabbia brutali». E ancora: «Picasso è stato mio amico per sedici anni, ci siamo odiati reciprocamente e si siamo fatto tanto male e bene, ma egli è indispensabile alla mia vita».
La storia di Antonin Artaud è drammatica. Artaud, chiuso in manicomio, scrive a Picasso nel 1946 per chiedere denari per pubblicare le sue poesie «su carta ordinaria... cosicché anche gli studenti e i poeti, i poveri, i giovani senza denaro possano leggerle». Nessuna risposta. Di nuovo Artaud: «Ho attraversato nove anni di internamento, molestie, celle, camicie di forza... oltre a ciò, due anni di elettroshock costellati da quindici di coma... non è molto amichevole avermi fatto trascinare per cinque volte da Ivry a rue Grand Augustins (dove Picasso aveva lo studio)... non pensi che io valga lo sforzo di inviarmi qualche risposta, qualunque essa sia». Non c'è traccia di replica. Picasso, si sa, non amava scrivere.

il Riformista 22.1.09
Chiamparino. Parla il sindaco di torino: «Su Eluana c'è una sentenza. Sacconi non fa il suo dovere»
«Senza una linea comune sul testamento biologico il Pd non è più un partito»
di Tommaso Labate


INTERVISTA. Il ministro ombra si schiera con Bresso. «Sostenere Beppino Englaro è eticamente corretto. Libertà di coscienza? No, dobbiamo decidere».

C'è una sola premessa da fare. Stavolta, dice Sergio Chiamparino, «della polemica politica non mi frega un bel nulla». Anche perché, mai come stavolta, «tutti fanno finta di non sapere che c'è una sentenza della Cassazione». Una sentenza, aggiunge, «che va rispettata soprattutto perché, in assenza di una legge, è l'unico riferimento normativo che abbiamo».
Il sindaco di Torino, dirigente nazionale del Pd e ministro ombra del Federalismo, affida a quest'intervista al Riformista la sua posizione sul caso Englaro («Sono d'accordo con la scelta della Bresso»), sul testamento biologico («A mio avviso, è necessario») e sul comportamento del suo partito, che sul tema ha deciso di non decidere. «Su una questione come questa - dice Chiamparino - il Pd ha il dovere di arrivare a un punto di compromesso, a una posizione unitaria. Se non lo facciamo, vorrà dire che non siamo un partito ma, più semplicemente, un gruppo di amici che stanno insieme».
Sindaco, Mercedes Bresso ha dichiarato la disponibilità del Piemonte ad accogliere Eluana.
Io sono perfettamente d'accordo con questa scelta. Ripeto: c'è una sentenza della Cassazione ed è nostro dovere rispettarla e farla attuare. Tutto il resto è polemica politica, una strumentalizzazione di cui, soprattutto in questo caso, bisognerebbe fare a meno.
Il ministro Sacconi però insiste, nega di tenere «sotto scacco» le strutture ospedaliere private. Lei che ne pensa?
Chi fa il ministro ha il compito di far rispettare le leggi. E in assenza di una legge, il pronunciamento della Cassazione è l'unico riferimento normativo che abbiamo. Di conseguenza, la scelta del Piemonte sopperisce a una «mancanza» di Sacconi.
Lei è favorevole a una legge sul testamento biologico?
Tanto per citare l'esempio di Eluana, credo che il padre Beppino sia l'unico, autentico, interprete della volontà della figlia. A mio avviso, andare in questa direzione è moralmente giusto ed eticamente corretto.
I gruppi parlamentari del Pd, però, sul caso specifico hanno scelto di non scegliere. La discussione dell'altro giorno si è conclusa senza una votazione finale...
Su questioni eticamente sensibili un partito non deve imporre nulla. Ma il pensiero della maggioranza deve essere tradotto in un atto politico.
In che senso?
Nel senso che una maggioranza non può imporre al mio amico Bobba (esponente teodem, ndr) di pensarla allo stesso modo. Ma di fronte a temi che sono sempre più centrali per il paese, e il testamento biologico lo è, non si può scegliere non scegliere. Se il Pd non ha ancora prodotto una posizione comune su questo terreno... beh, è arrivato il momento di recuperare.
Molti dei cattolici del Pd, però, si appellano alla «libertà di coscienza».
Io capisco la libertà di coscienza nel caso in cui, ad esempio, si discuta di un ordine del giorno sull'eutanasia; tra l'altro, credo che anch'io sarei contrario. Ma qui parliamo di un'altra cosa: nel momento in cui il Parlamento si prepara ad affrontare il tema del fine vita, il Pd ha il dovere di maturare una posizione comune. Sennò significa che non siamo un partito ma solo un gruppo di amici. Il testamento biologico è diventato un tema cruciale, sul quale noi dobbiamo essere in grado di trovare un punto di mediazione, di elaborare un nostro testo, di presentare proposte di legge.
Detta così, il «testamento biologico» sembra un argomento perfetto per la conferenza programmatica che il Pd si prepara ad affrontare. O sbaglio?
Tutt'altro. Guardi che la conferenza programmatica del Pd non è soltanto la sommatoria delle nostre ricette per gli imprenditori, gli insegnanti, gli operai e via dicendo. In quella sede si discuterà anche di ambiente, dal nucleare agli ogm. Per questo la questione dei «confini della vita» può e deve essere affrontata nella conferenza programmatica. Più che altro, mi stupirei se non fosse così...

il Riformista 22.1.09
I popolari a braccetto coi teodem
Ma per Soro «è una mediazione»
di Alessandro Calvi


FINE VITA. Due anni fa la spaccatura sulle unioni civili. Oggi il riavvicinamento. Binetti: «Hanno avuto uno scatto d'orgoglio». Il capogruppo alla Camera: «Non siamo il figliol prodigo. Da noi posizione di equilibrio».

Parla di «scatto di orgoglio» dei popolari, Paola Binetti. E dice che va inteso «nel senso di una fedeltà ai loro valori culturali e anche del loro peso politico». Insomma, è quasi un bentornati a casa agli ex della Margherita che due anni fa, sulle unioni civili, si smarcarono da Rutelli e dai teodem e che ora, sul testamento biologico, hanno fatto il percorso inverso. Il giorno dopo l'invenzione della «posizione prevalente» sul fine vita, dunque, nel Pd rischia di scoppiare un caso-popolari.
Il riavvicinamento dei popolari ai teodem sul testamento biologico, infatti, potrebbe chiudere una fase politica, quella iniziata con uno smarcamento poco meno di due anni fa. Allora - era il febbraio del 2007 - si trattava di coppie di fatto e 60 parlamentari della Margherita sottoscrissero un documento con il quale si affermavano la laicità delle istituzioni e l'autonomia della politica. Martedì scorso, sul tappeto c'era il testamento biologico. E il percorso è stato l'inverso. «Questa volta - osserva la Binetti - c'è stata una convergenza. L'intervento della Bindi è stato molto chiaro e strategicamente significativo». Il presidente dei deputati del Pd, però, non è d'accordo.
Antonello Soro, secondo la Binetti i popolari sono come il figliol prodigo.
Non mi sembra possibile interpretare quanto è avvenuto utilizzando la categoria dei "popolari". E non c'è nessun "caso popolari" che, da Franceschini a Garofani, condividono tutti il testo su cui si è trovata la posizione condivisa.
Ma ieri non si è andati al voto per l'opposizione dei popolari.
Ieri abbiamo evitato il voto perché era un'assemblea di due gruppi congiunti e normalmente non si vota. È stato riferito dei lavori di ieri come di un momento di non decisione ma non è così. Ieri è accaduta una cosa molto positiva. Si è fatto un cammino che, da un punto di partenza che vedeva diverse posizioni, ci ha portato a una posizione condivisa da parte della maggioranza dei parlamentari dei due gruppi. Si è trovata una mediazione, proprio come due anni fa si fece sul terreno dei princìpi. Questa volta si arriverà anche a una legge.
Ma il Pd è apparso più diviso che mai.
Ripeto, mi sembra che sia avvenuto esattamente l'opposto. Lo spirito con il quale è nato questo partito è proprio quello di dare vita a una cultura nuova. D'altra parte, mentre su altri temi i partiti che hanno dato vita al Pd si erano confrontati a lungo e trovato posizioni comuni, è da pochi anni che nel dibattito sono entrati temi come il testamento biologico. Nonostante questo, siamo stati in grado di esprimere una posizione di equilibrio.
Franceschini ha detto che non è su questi temi che si costruisce l'identità del Pd. E allora su cosa si costruisce?
No, ha detto che l'identità del partito l'abbiamo costruita in questi anni. E anche su questi temi "nuovi" abbiamo fatto un bel pezzo di strada.
Rimane il fatto che c'è chi, come la Binetti o i radicali, non si ritrovano affatto nella "posizione prevalente".
Ci sono colleghi, e non soltanto quelli che fanno riferimento all'area teodem, che hanno sottolineato con più forza i punti di non condivisione. Ma quando si parla di leggi, abbiamo tutti il dovere di ricercare un punto di equilibrio alto. Tutte le leggi sono un compromesso, altrimenti non sarebbero valide per tutti ma sarebbero soltanto bandiere ideologiche. E non credo che nel Pd possa essere interesse di qualcuno proporre una via ideologica e fondamentalista alle norme. Il che sarebbe l'esatto contrario di quello che è lo spirito con il quale questo partito è nato: unire.

il Riformista 22.1.09
Una modifica dell'intesa con la tavola valdese può spalancare la via ad altre comunità
Ecco il nuovo 8 per mille. Gli islamici: «E a noi?»
di Khalid Chaouki


Cambia ancora l'8 per mille
contributo pubblico. Il Parlamento è al lavoro e un pezzo di maggioranza è già in allarme. Yahya Pallavicini, segretario della Coreis: «Ci aiuterebbe a liberarci dalle influenze straniere». I dubbi di Mario Scialoja (Lega musulmana): «L'islam italiano è troppo frammentato per chiudere oggi un'intesa».
Ancora tutta aperta la discussione sul finanziamento pubblico all’Islam

Cambia ancora l'8 per mille. Anche la Chiesa Valdese, che finora aveva rinunciato per rigore etico alla ripartizione delle quote non espressamente attribuite dai contribuenti, godrà dei vantaggi della ripartizione. Ma non è questa l'unica conseguenza della modifica alla legge, si potrebbe infatti aprire la via affinché in futuro anche altre confessioni religiose abbiano accesso all'8 per mille. Tra queste, l'islam. Su questa prospettiva c'è già maretta nel centrodestra, la Lega si oppone.
«Per una comunità come quella musulmana l'8 per mille può sicuramente aiutare ad avere una maggiore autonomia dalle eventuali influenze straniere e per finanziare nuovi progetti legati al culto, all'istruzione e al dialogo», spiega invece Yahya Pallavicini, segretario generale della Coreis (Comunità religiosa islamica), da anni depositario di una bozza d'intesa tra la sua organizzazione e lo Stato italiano.
«I musulmani rappresentano la seconda religione del Paese - continua Pallavicini - ma dovrebbero a mio avviso maturare un senso di responsabilità che gli permetterebbe così di proporsi con credibilità e capacità organizzativa alle istituzioni, sollecitando la soluzione di un'evidente vuoto».
Ahmad Vincenzo, presidente degli intellettuali musulmani italiani e molto vicino alla Grande moschea di Roma, descrive uno scenario ambiguo: «In Italia in questo momento non c'è dialogo sulla questione dell'8 per mille e l'intesa in generale, ma solo un uso strumentale dell'islam da parte di alcuni per fare propaganda politica, oltretutto con molti proclami anticostituzionali». Per Vincenzo la via per il riconoscimento dell'islam italiano è chiara e semplice, «basterebbe dialogare con l'unico ente riconosciuto ufficialmente dallo Stato italiano, ossia la Grande moschea di Roma».
Non è dello stesso parere Izzedin Elzir, portavoce dell'Ucoi (Unione delle comunità islamiche in Italia): «Siamo disponibili per il dialogo tra lo Stato e i musulmani d'Italia a patto che non si facciano discriminazioni». Per quanto riguarda l'8 per mille, Elzir ribadisce che «è un diritto di tutte le minoranze e noi in questo senso non capiamo il perché di una tale discriminazione nei nostri confronti». Per l'ambasciatore Mario Scialoja, rappresentante della Lega musulmana mondiale in Italia, è inutile parlare di 8 per mille senza prima occuparsi di un'intesa: «Per ora l'accordo tra lo Stato e le comunità musulmane non è stato né discusso né negoziato. I musulmani si sentono sicuramente discriminati e lo Stato non ha ancora individuato un'organizzazione rappresentativa e accettata dalla maggioranza dei musulmani. Un impresa molto difficile perché l'islam italiano è composto prevalentemente da immigrati provenienti da più di quaranta nazionalità. Cosa ben diversa rispetto alle altre comunità come i protestanti o gli ebrei».

l’Unità 22.1.09
La nuova sinistra. Manifesto per la rinascita
Giordano: «Bertinotti voleva uscire dal governo. E Parisi fomentò la rivolta di Vicenza contro la base Usa»
di Simone Collini


Già il titolo la dice lunga: «Nessun dio ci salverà». L’argomento è la nuova sinistra che deve nascere. Franco Giordano ne parla in un libro che uscirà il 29 gennaio con una prefazione di Fausto Bertinotti, che lungi dal mostrarsi super partes afferma che «bisogna ricominciare da capo», oggi che «la sinistra politica non esiste in Italia», a lavorare per la sua «(ri)nascita». Dire che si tratta del manifesto degli “scissionisti” Prc sarebbe in parte esagerato e in parte riduttivo, e però per la prima volta un dirigente dell’area vendoliana di Rifondazione dice chiaro e tondo che quel partito ha esaurito la sua spinta propulsiva e che bisogna costruire una nuova forza anticapitalista: «Deve essere assolutamente chiaro che l’obiettivo finale è costruire un soggetto politico a tutti gli effetti».
Passaggio che arriva dopo una dura critica al Prc post congresso di Chianciano, vinto da una maggioranza che è «un mix di culture identitarie e testimoniali» e che mostra «una mentalità puramente regressiva» nel rapporto con i movimenti, con il governo, con le altre forze politiche. Lo stesso modello di «partito sociale» caro a Paolo Ferrero viene duramente contestato: «È solo un’ennesima versione della politica dei due tempi».
Vengono anche svelati alcuni retroscena del governo Prodi. Si legge che dopo l’intervento sulle pensioni e il protocollo sul welfare Giordano aveva proposto l’uscita del Prc dal governo. «Bertinotti aveva la stessa opinione», racconta, ma «non ci fu l’accordo dell’intero gruppo dirigente» (un modo per far capire che Ferrero si oppose). O come quando svela che dopo i risultati ottenuti dalla sinistra al vertice di Caserta venne dato il via libera all’ampliamento della base Usa di Vicenza solo per riequilibrare i rapporti di forza interni al governo: «Nei mesi precedenti gli stessi ministri che poi avrebbero preso quella decisione (Parisi, ndr) ci avevano sollecitato perché organizzassimo una mobilitazione popolare a Vicenza, proprio al fine di rendere impossibile l’ampliamento della base. Quella sterzata improvvisa è dunque inspiegabile. O meglio si spiega solo con la volontà di infliggere un colpo durissimo alla sinistra». Quanto ai rapporti col Pd, Giordano attacca duramente la «spregiudicata campagna veltroniana sul voto utile» ma dice che con questo partito va allacciato un dialogo competitivo «senza introdurre una competizione distruttiva, se non vogliamo che questa crisi di egemonia irrisolta a sinistra si risolva infine consegnando alla destra un’egemonia sempiterna». Oltre a Veltroni (criticato) l’unica altra personalità democrat citata (positivamente) è Massimo D’Alema. Che presenterà il libro il 16 febbraio insieme a Bertinotti.

l’Unità 22.1.09
Sacconi insiste, Bresso attacca: La legge vale più di una circolare
di Federica Fantozzi


Botta e risposta tra Bresso e Sacconi. Appello di Radicali e Sd ai presidenti di Regione: «Attuare la sentenza è responsabilità vostra». Oggi il Tar discute il veto di Formigoni a tutte le strutture lombarde.
Botta e risposta tra la presidente del Piemonte Mercedes Bresso, che ha ufficializzato la disponibilità della sua regione ad accogliere Eluana Englaro, e il ministro Sacconi, autore della circolare che vieta a tutte le regioni lo stop all’alimentazione artificiale per la ragazza in coma da 17 anni.
Bresso aveva precisato che l’eventuale ricovero avverrebbe «ovviamente in una struttura pubblica perché quelle private sono sotto scacco del ministro». Ieri la replica del titolare del Welfare: «Non metto sotto scacco nessuno, ho fatto solo una ricognizione delle leggi da applicare». Ribatte il governatore del Piemonte: «Sacconi sa come me che una circolare non sostituisce la legge e solo la magistratura può interpretarla».
Oggi intanto ci sarà a Milano l’udienza del Tar contro la Regione Lombardia che ha diffidato tutte le strutture sul suo territorio dall’ospitare gli ultimi giorni di Eluana. I legali della famiglia chiedono ai giudici amministrativi un atto d’urgenza che annullerebbe il veto di Formigoni, il quale si troverebbe così il «problema» in casa propria. Eluana, ora ricoverata a Lecco, «è una cittadina a carico di questo servizio sanitario regionale - dicono gli avvocati - e quindi questo deve farsi carico di applicare l'ordinanza di interruzione dell'alimentazione».
Il sottosegretario Eugenia Roccella sostiene invece che «eseguire la sentenza non è compito del servizio sanitario nazionale che deve curare, rispettando così la sua legge istitutiva». La sentenza è attesa nei prossimi giorni, forse già domani. Solo dopo quel momento Beppino Englaro deciderà se muoversi con una richiesta specifica di ricovero e dove. Contatti già esistono, al fine di valutare la concretezza delle disponibilità offerte in Piemonte, Emilia, Campania e non solo. L’équipe di medici è pronta da tempo: tutto sta a ricevere luce verde da un ospedale o una clinica.
Sul versante politico, i Radicali e Sinistra Democratica scrivono una lettera aperta «alla Conferenza delle Regioni, al suo presidente Vasco Errani e a tutti i governatori delle Regioni italiane» affinché la sentenza che autorizza lo stop alle terapie sia applicata. «Noi - scrivono i politici tra cui Claudio Fava e Gloria Buffo (Sd), Marco Cappato e Antonella Casu (Radicali) - vi interpelliamo perché è vostra precisa responsabilità, delle Regioni e non più dello Stato come invece abusivamente il ministro Sacconi ha affermato, il funzionamento del servizio sanitario nazionale. Che deve essere in grado di far rispettare i diritti delle persone nell'accesso al sistema sanitario, i doveri dei medici e delle strutture sanitarie nei confronti dei pazienti, e dunque deve applicare una sentenza definitiva che tutela la libertà di scelta delle persone».
E ieri tredici eurodeputati italiani hanno presentato un'interrogazione alla Commissione europea sulla circolare di Sacconi.

l’Unità 22.1.09
La balla del cinque in condotta
di Fabio Luppino


Non serviva alla scuola l’introduzione del cinque in condotta. Ma l’operazione diventa una grottesca balla mediatica del governo se si va a leggere il decreto ministeriale del 16 gennaio in cui si spiega agli insegnanti come essere, si fa per dire, severissimi. All’articolo 4 il documento impone al consiglio di classe continui accertamenti dopo una sospensione cumulata di almeno quindici giorni. Se il ragazzo avrà dimostrato apprezzabili e concreti cambiamenti tali da evidenziare un sufficiente livello di miglioramento nel suo percorso di crescita, considerato «il particolare rilievo che una valutazione di insufficienza del comportamento assume nella carriera scolastica» il cinque non si mette. Sulla base di questi criteri l’insufficienza in comportamento non ci sarà mai, così come l’automatica bocciatura. Anzi, la misura è talmente garantista da arretrare anche rispetto alla pratica precedente, quando si era bocciati con il sette in condotta. Considerato che la misura esclude i bambini delle elementari e con difficoltà potrà essere applicata alle medie, dovrebbe servire per le superiori. Ma è articolata in modo tale da essere inservibile e passibile di valanghe di ricorsi delle famiglie.
Insomma, se il bullo è furbo dando formali segni di ravvedimento, ricordandosi di quando in quando di dare il buongiorno al professore e ripulire il banco dal mosaico di sfregi e adesivi avrà il meritato sei. Che gli alzerà la media dei cinque e quattro nelle altre materie creando imbarazzi al consiglio di classe nella valutazione finale.
La misura, quindi, oltre ad essere inutile è inapplicabile. Il problema del bullismo è serio e non può essere affidato a cornici da dare in pasto ai media desiderosi di un titolo ad effetto. Ma l’opinione pubblica se n’è accorta: il cinque in pagella sin qui l’ha preso la Gelmini, tra i ministri del governo il più impopolare nei sondaggi.

l’Unità 22.1.09
Walchiria, Marisa e le altre: la Resistenza delle donne
di Gabriella Gallozzi


Persino Al Jazeera l’ha raccontata. Un bel documentario sulla resistenza italiana dando voce alle donne, trasmesso per il mondo arabo qualche anno fa. E da noi? Ci si ricorda giusto per le feste comandate. E il punto è sempre quello, ieri come oggi: «Il maschilismo... Altroché se c’era. Seppure noi rischiavamo la vita come i nostri compagni, dovevamo sempre dimostrare di essere più capaci degli uomini». Oggi Walchiria Terradura, medaglia d’argento al valor militare, ha 85 anni e ancora il piglio della combattente. Gli occhi verdi si accendono di una luce ancora più viva quando segue il filo della memoria. Ricordi di partigiana, di «ragazza col fucile» che durante la resistenza sui monti del Burano ha comandato una squadra di sette uomini (Il Settebello) che faceva parte della brigata Garibaldi-Pesaro. «Quando mi hanno scelto a capo della squadra - racconta - Gildo, uno dei compagni, per solennizzare l’avvenimento, mi regalò una pistola dicendo: “Ti avrei dovuto offrire dei fiori, ma vista la situazione... A primavera coglierò per te i più belli”».
Walchiria non è che una delle protagoniste, come tante altre partigiane, staffette e contadine, di questa pagina di storia, la resistenza, che, nonostante la «sordina» della storiografia ufficiale, oggi è noto: non si sarebbe potuta compiere senza l’intervento delle donne. E i numeri parlano chiaro: 35.000 partigiane nelle formazioni combattenti, 20.000 staffette, 70.000 organizzate in gruppi di difesa. 638 le donne fucilate o cadute in combattimento, 1750 le ferite, 4633 arrestate, torturate e condannate dai tribunali fascisti, 1890 le deportate in Germania. Cifre che «raccontano» per difetto. Perché come spiega la stessa Terradura, «quella delle donne è stata una partecipazione diffusa, spontanea. La contadina che ci dava un piatto di minestra, o ci faceva nascondere in casa rischiava la vita proprio come noi».
Eppure questa è stata una memoria taciuta a lungo. «E quante sono ancora oggi le donne della resistenza rimaste nell’ombra?», commenta Teresa Vergalli, classe 1927, della provincia di Reggio Emilia e autrice del libro Storie di una staffetta partigiana. «A parte i nomi celebri di coloro che dopo la guerra hanno incrociato la strada della politica, tante partigiane sono state zitte. In certi casi sono stati gli stessi mariti che non avevano piacere se ne parlasse. C’era addirittura una sorta di vergogna, soprattutto per quelle poverette che sono state torturate....». Invece dell’indignazione contro i torturatori la «vergogna». Alle donne, infatti, scrive Teresa, nome di battaglia Annuska, «venivano riservate cose terribili. Di cui i particolari li abbiamo saputi a guerra finita». Tanto che lei teneva sempre con sè una piccola pistola «con la quale mi illudevo mi sarei potuta tirare un colpo alla testa nel momento mi avessero catturata o torturata». La paura di essere prese era costante. Eppure per molte la scelta di stare contro il nazifascismo era «naturale». Come racconta Luciana Baglioni Romoli, partigiana romana «bambina». Il suo primo atto di «ribellione» fu alle elementari quando la sua maestra, «ligia alle leggi razziali», legò per le treccine ad una finestra della classe una ragazzina ebrea. Per Luciana fui istintivo «scagliarsi contro l’insegnante» e guidare la «rivolta». Il risultato fu l’espulsione da scuola e da lì, negli anni successivi, il suo sostegno alla resistenza romana: «in bicicletta - racconta - a portare messaggi o a buttare i chiodi a tre punte per le strade per far scoppiare le ruote dei nazisti».
Un po’ come è accaduto alla più «nota» Marisa Rodano, che scelse la strada del Pci: «Non sono discesa da una tradizione familiare - racconta -, anzi mio padre aveva fatto la marcia su Roma. Ho cominciato all’università, dopo aver visto cacciare due studenti colpevoli di essere ebrei. Con alcuni compagni abbiamo costituito un piccolo gruppo, nel 1943 sono stata arrestata per la pubblicazione di un foglio comunista, si chiamava Pugno Chiuso, era il primo numero e sarebbe rimasto l’unico. Il 25 luglio sono uscita dal carcere e di lì a poco sono entrata nella Resistenza». Sono tanti i ricordi delle donne. E pieni di coraggio. «Nell’aprile 1945 ero incinta, il mio compagno era appena stato ammazzato dai fascisti - racconta Lina Fibbi, tra le fondatrici dei Gruppi di Difesa delle donne, sindacalista e poi parlamentare del Pci. «Longo mi incaricò di smistare a Milano l’ordine di insurrezione generale del Cln. Io andai: in bicicletta, con il pancione e con una grande paura». Ma erano scelte. Come conclude Teresa Vergalli: «Ora si guarda con una certa comprensione ai ragazzi di Salò, perché anche loro sarebbero stati in buona fede. Ma anche noi partigiani eravamo ragazzi, e stavamo dalla parte giusta! Quella della pace. Ed è una differenza che non bisogna mai dimenticare».
La storia delle partigiane l’ha raccontata da cineasta anche Liliana Cavani, classe 1933: il suo viaggio nella liberazione al femminile l’ha comppiuto nel ‘64 con Le donne della resistenza, straordinario documentario realizzato per la Rai. «Le donne nella resistenza hanno avuto un ruolo fondamentale - racconta Cavani -, erano contadine, operaie, borghesi che sceglievano la lotta in piena coscienza: non solo contro il fascismo e gli occupanti nazisti, ma anche per rivendicare il diritto alla loro partecipazione attiva nella società che si sarebbe costruita».

Le combattenti italiane, testimonianza da salvare
Voci di donne dalla resistenza. Partigiane, combattenti, ragazze armate: testimonianze da salvare, subito perché sono le ultime protagoniste di una stagione di libertà. Come Steven Spielberg ha raccolto nella Shoah foundation le voci degli ultimi sopravvissuti di Auschwitz, ecco l’archivio audiovisivo con i racconti delle partigiane di tutta Italia. Il progetto si chiama «Voci di donne dalla resistenza» in via di realizzazione con l’Associazione culturale Antonello Branca.

35mila partigiane, 683 le fucilate: tutti i numeri di un’epopea
Delle donne partigiane di tutta Italia delle quali la storiografia ufficiale poco o niente si è occupata. Eppure i numeri parlano chiaro: 35.000 partigiane nelle formazioni combattenti, 20.000 staffette, 70.000 organizzate in gruppi di difesa. 683 le donne fucilate o cadute in combattimento; 1750 le ferite, 4633 arrestate, torturate e condannate dai tribunali fascisti, 1890 le deportate in Germania.

Da Cavani a Sangiovanni i documentari d’autore
Un flusso di conoscenze per tenere insieme la memoria di ieri e di oggi. Per esempio: dal documentario di Liliana Cavani, «Donne nella resistenza» del ’64 a «Staffette» di Paola Sangiovanni del 2006. Quest’ultimo mette insieme i racconti di quattro staffette piemontesi (Claudia Balbo, Anna Cherchi, Marisa Ombra e Nicoletta Soave) a confronto con una memoria che non è quella immutata delle diciottenni di allora, ma di donne ormai anziane.

l’Unità 22.1.09
La Cgil si mobilita contro il governo
Contratti, scontro con Confindustria
di Felicia Masocco


Oggi incontro tra governo, sindacati e imprese su come fronteggiare la crisi. La Cgil ha indicato ieri le proprie priorità ed ha annunciato una manifestazione nazionale per il 4 aprile, se l’esecutivo dovesse «far finta di niente».
Oggi sindacati e imprese incontrano il governo, si discuterà della crisi anche se la convocazione ha un ordine del giorno forse più adatto a un simposio visto che parla di «economia sociale di mercato». I partecipanti sperano che tradotto porti risposte concrete alla disoccupazione, ai redditi in sofferenza, agli investimenti. Senza farsi troppe illusioni lo spera Guglielmo Epifani segretario della Cgil che ha chiuso l’anno con uno sciopero generale e apre il nuovo con l’annuncio di una manifestazione nazionale per il 4 aprile se l’esecutivo dovesse continuare col far finta di niente davanti alla crisi «il cui culmine arriverà tra marzo e giugno». La mobilitazione ci sarà a maggior ragione se, come annunciato dalla presidente di Confindustria, il governo oggi calasse la carta della riforma del modello contrattuale e spianasse la strada a un accordo separato senza il maggiore sindacato. Ed è già scontro.
ALLARME
Il timore della Cgil è che per coprire il nulla delle sue proposte, il governo la butti proprio sui contratti. Spingono in questa direzione Confindustria, Cisl e Uil che hanno già firmato una serie di accordi separati. La Cgil non era e non è d’accordo: «Occuparsi in questi giorni del sistema contrattuale non ha alcun senso: se andassimo da un lavoratore a dirgli che abbiamo firmato l’accordo ci direbbero che siamo matti», spiega Epifani per il quale non solo «non è una priorità», ma sarebbe un «un grosso errore perché sulle regole si deve fare un accordo generale: se non si includono tutti diventa inapplicabile». Parole «stupefacenti» ribatte il segretario confederale della Uil Paolo Pirani. Ma la stoccata arriva da Emma Marcegaglia che in un intervista al Sole 24ore in edicola oggi lancia «l’ultimissima» chiamata al leader Cgil. Trovare un’intesa significherebbe aprire «una nuova stagione. Positiva. Per la prima volta, dopo il ‘93, vi sarebbe un accordo generale a difesa di salari e produttività. Mi auguro -conclude- che Epifani non guardi ad altri obiettivi, come le elezioni europee». La replica di Corso d’Italia non si fa attendere. Le parole della leader degli industriali «sono il segno di una caduta di stile e di mancanza di rispetto». In realtà «dimostrano come non ci siano argomenti da opporre alle obiezioni di merito espresse dal segretario della Cgil in relazione ai contenuti della riforma e ai tempi di attuazione».
L’«assenza di un progetto», di un’idea per uscire dal guado, è la sintesi delle critiche che Epifani muove a Palazzo Chigi. Segue l’elenco di cosa andrebbe fatto, a cominciare dell’estensione degli ammortizzatori sociali a tutti. Condivisa da Cisl e Uil la richiesta non ha trovato risposte nel decreto anticrisi che sulle tutele fa «un pasticcio», per giunta «incostituzionale» per il sindacato di Corso d’Italia pronto a far valere questo «vizio». Mentre solo oggi si saprà se le Regioni sono d’accordo a cedere gli 8 miliardi del Fse che Tremonti ha unilateralmente destinato al finanziamento degli ammortizzatori. La Cgil chiede poi al governo di convocare i tavoli, chiesti con Cisl e Uil, sui settori dell’auto, della chimica, della moda. Chiede chiarezza sul Mezzogiorno, «fino ad ora privato di risorse» e sui redditi erosi dal fiscal drag.

Liberazione 22.1.09
Il nuovo corso americano e la questione religiosa
di Paolo Naso


Il tempo della retorica - della grande retorica del cambiamento e della speranza - è finito e per Barack Obama è iniziato quello del governo e quindi anche di decisioni complesse e difficili. Eppure negli occhi e nel cuore dei milioni di americani - e non solo - che nei giorni scorsi hanno seguito le cerimonie di avvio del mandato presidenziale, il 20 gennaio segna davvero un nuovo inizio, una frattura netta con gli otto anni dell'amministrazione Bush, del suo cinico "conservatorismo compassionevole" e del protagonismo teocon. In termini ancora più marcati rispetto alla presidenza Reagan, infatti, gli ultimi due mandati della casa bianca hanno visto il protagonismo culturale e politico di una destra religiosa che ha preteso di monopolizzare le dinamiche religiose interne alla società statunitense e di iscrivere forzatamente Dio nelle liste del partito repubblicano.
In un certo senso Bush e il suo staff passeranno alla storia proprio per questo: essere riusciti a distrarre l'elettorato dalle grandi urgenze politiche del 2000 e del 2004, ed aver "eticizzato" le campagne elettorali riducendole a una grande opzione morale tra "bene" da una parte e "male" dall'altra. In questa prospettiva i grandi temi politici dell'economia, della pace, della guerra e delle scelte ambientali, così cari ad Al Gore e a John Kerry, passavano in secondo piano. Al contrario emergevano con forza i temi dei valori dell'America, della sua tradizione e della sua identità giudaico-cristiana, il no all'aborto, al riconoscimento dei diritti degli omosessuali, alla ricerca sulle cellule staminali embrionali e, più in generale, il tentativo innaturale e anticostituzionale di confessionalizzare la società e le istituzioni degli Stati Uniti.
Argomenti - forse i soli - in grado di mobilitare ampi settori di un elettorato cristiano - altrimenti orientato all'astensione. La capacità di intercettare la grande domanda di religiosità radicale che si esprime nella società Usa è quindi stato l'elemento decisivo a favore di otto anni di egemonia repubblicana.
Oggi, invece, tra gli elementi che hanno portato all'elezione di Barack Obama vi è stata la capacità di assumere il "fattore religioso" e di interpretarlo in chiave progressista ed inclusiva. Lo abbiamo visto proprio nei giorni scorsi quando il presidente ha scelto per presiedere le diverse cerimonie religiose personalità assai diverse tra loro: Rick Warren, un predicatore evangelical che prima di altri ha rotto con la Destra religiosa e con la sua pretesa di monopolizzare il "voto di Dio"; ma anche Gene Robinson, un vescovo episcopaliano (anglicano) apertamente gay e Sharon Watkins, donna pastora e presidente di una delle denominazioni cristiane degli Usa che ha assunto posizioni più radicali sui temi politici, etici e sociali. Ma anche sacerdoti cattolici, rabini e imam; senza ignorare i "non credenti" ai quali Obama si è esplicitamente rivolto nel suo discorso inaugurale.
Il nuovo presidente sarà quindi assai più "ecumenico" del suo predecessore; ben più di Bush sarà garante di quell'eccezionale pluralismo culturale e religioso che costituisce uno dei tratti più originali della società americana. Al tempo stesso si presenta come difensore di quel rigido sistema di separazione tra lo Stato e le confessioni religiose che per secoli ha garantito il principio di laicità da una parte e la massima libertà religiosa dall'altra. L'annunciata decisione di tornare a finanziare la ricerca sulle staminali embrionali è una precisa indicazione di questa direzione di marcia della nuova Amministrazione.
In questo quadro la religione degli americani potrà giocare un ruolo diverso, assai meno bigotto e conservatore. Le chiese storiche, che in buona parte esprimono una teologia liberal e quindi molto attenta ai temi della pace, della giustizia, dell'ambiente e dei diritti potranno essere più visibili e centrali. Dopo gli anni della religione della paura, sembra venuto il tempo della religione della speranza. Lo diceva già Martin Luther King: «Un giorno la paura bussò alla porta. La fede andò ad aprire. E non trovò nessuno».

Liberazione 22.1.09
Il governo di Tel Aviv vuole così evitare inchieste e processi degli organismi internazionali
Israele vuole impunità per le stragi a Gaza:
censurati i nomi dei comandanti militari
Reparti dell´esercito israeliano in azione nella Striscia di Gaza Reuters
di Sara Volandri


La decisione possiede senz'altro una sua logica spietata e chiude il cerchio (di sangue) di "piombo fuso", l'offensiva israeliana nella strscia di Gaza che ha provocato più di mille morti, in gran parte civili del tutto estranei al conflitto.
Come ha rivelato il quotidiano progressista israeliano Haaretz , i vertici dell'esercito hanno infatti deciso di censurare e non rivelare i nomi dei comandanti di battaglione coinvolti nell'operazione ‘Piombo fuso' per evitare eventuali procedimenti giudiziari a loro carico per crimini di guerra. Non sia mai che a un qualche tribunale internazionale (peraltro nessun istituto del genere è riconosciuto da Tel Aviv) venisse in mente di aprire un'inchiesta sui massacri dei palestinesi.
In tal senso, diverse organizzazioni tra cui le stesse Nazioni Unite hanno chiesto l'apertura di inchieste su casi specifici (come la scuola di Jabaliya o altre strutture dell'Onu dove hanno perso la vita decine di persone in seguito ai bombardamenti di Tsaahl).
Inoltre diversi organismi internazionali hanno fatto sapere che intendono indagare sull'uso di armi non convenzionali (come le micidiali armi al fosforo bianco bandite dalla Convenzione di Ginevra o gli ordigni di ultima gnerazione "dime"), sull'uso sproporzionato della forza militare e su violazioni di vario tipo contro la popolazione palestinese. L'International atomic energy agency (Iaea/Aiea), l'organismo dell'Onu che vigila sull'uso dell'energia nucleare, ha confermato di aver già cominciato una procedura per verificare se Israele abbia usato munizioni contenenti uranio impoverito nei 22 giorni di guerra nella Striscia di Gaza: «Investigheremo sulla questione nei limiti delle nostre prerogative», ha dichiarato la portavoce Melissa Fleming.
Una decisione che ha fatto perdere le staffe al governo di Tel Aviv, con il ministero degli Esteri che liquida l'intera faccenda tramite il portavoce Yigal Palmor come «povera propaganda». Non si capisce però se queste accuse di propaganda riguardino la volontà di indagare sui crimini commessi a Gaza o se siano volte a negare la natura stessa dei crimini. Nel primo caso si tratterebbe di una maldestro tentativo intralciare la scoperta della verità, nel secondo di una sgradevole bugia di guerra.

Liberazione 22.1.09
Gli ebrei e l'Europa

Lo sguardo di Hannah Arendt


La moderna questione ebraica nasce nell'illuminismo; è l'illuminismo, cioè il mondo non ebraico, che l'ha posta. I modi in cui è stata formulata e le risposte che essa ha avuto hanno determinato il comportamento degli ebrei, hanno determinato la loro assimilazione. Nella discussione sull'emancipazione ritornano continuamente gli argomenti che hanno avuto in Lessing il massimo rappresentante. A lui si devono la diffusione di concetti come umanità e tolleranza, come pure la distinzione fra verità di ragione e verità storiche. [...] Nell'illuminismo la verità si perde o, meglio, nessuno la vuole più. Più importante della verità è l'uomo che la cerca: "Il valore dell'uomo non sta nella verità che qualcuno possiede... ma nel sincero sforzo che egli ha compiuto per raggiungere la verità". L'uomo diventa più importante della verità e la verità è relativizzata a favore del "valore dell'uomo". [...] Se ciò che veramente conta sono l'incessante ricerca della verità e "l'ampliamento delle capacità", allora per chi è tollerante, cioè per chi è veramente umano, tutte le confessioni sono solo le diverse denominazioni del medesimo uomo. [...]
Le verità storiche sono "vere", cioè universalmente convincenti e vincolanti, solo in quanto confermano verità di ragione. E' pertanto la ragione che deve decidere della necessità della rivelazione e quindi della storia. La contingenza della storia può essere successivamente nobilitata dalla ragione; successivamente la ragione decide che la storia rivelata coincide con la ragione. La storia rivelata funge da educatrice del genere umano. [...] Da queste parole non deriva alcun nuovo riconoscimento dell'autorità divina, ed esse vanno considerate nel contesto della principale tesi teologica di Lessing, secondo la quale la religione precede la Scrittura ed è indipendente da essa. L'essenziale non è la verità come tesi, come dogma o come bene salvifico, ma la religiosità. [...] "Che cosa importano al cristiano le spiegazioni, le ipotesi e le dimostrazioni di costui? Per il cristiano, il cristianesimo semplicemente c'è, quel cristianesimo che egli sente così vero e nel quale si sente beato". Ma nell'insistenza su questa interiorità inattaccabile c'è già la diffidenza dell'illuminismo nei confronti della Bibbia; si insiste sulla pura interiorità perché l'oggettività della rivelazione nella Scrittura non è più certa. La separazione fra religione e Bibbia è l'ultimo vano tentativo di salvare la religione. Vano perché questa separazione frantuma l'autorità della Bibbia e, con essa, l'autorità visibile e conoscibile di Dio sulla terra. [...]
Per Mendelssohn la ricezione dell'illuminismo, la "formazione", si compie ancora all'interno di un vincolo assoluto con la religione ebraica. Per far questo, gli serve l'assoluta autonomia della ragione che l'illuminismo ha affermato. [...] Questa capacità di pensare da sé sta a fondamento dell'ideale della cultura in Mendelssohn; la vera cultura non si nutre della storia e dei suoi fatti, bensì li rende addirittura superflui. A dominare è l'autorità della ragione alla quale ciascuno può accedere da solo e autonomamente. Colui che pensa vive in un assoluto isolamento: egli trova indipendentemente da tutti gli altri la verità che dovrebbe essere comune a tutti. [...] La religione ebraica, e soltanto essa, coincide per Mendelssohn con la religione della ragione, e questo in virtù delle sue "verità eterne", le sole vincolanti anche in senso religioso. Le verità storiche dell'ebraismo, infatti, - così sostiene Mendelssohn - hanno avuto validità solo finché la religione mosaica era la religione di una nazione, e questo, dopo la distruzione del Tempio, non è più avvenuto. Solo le "verità eterne" sono quindi indipendenti da ogni Scrittura, intelligibili in ogni tempo. Su di esse si fonda la religione ebraica e ancora oggi esse vincolano gli ebrei alla religione dei padri. [...] In Lessing la distinzione fra la storia e la religione aveva lo scopo di eliminare la religione come dogma. Mendelssohn, invece, cerca proprio con questa distinzione di salvare la religione ebraica sulla base del "suo contenuto eterno", indipendentemente dal fatto che essa sia anche storicamente attestata. L'interesse teologico, che qui esclude la storia dalla ragione, esclude anche dalla storia chi cerca la verità. A tutto il reale - il mondo circostante, il prossimo, la storia - viene così a mancare la legittimazione della ragione. Questa eliminazione della realtà è strettamente connessa alla situazione di fatto dell'ebreo nel mondo. Il mondo lo interessa talmente poco che esso diventa per lui ciò che è assolutamente immutabile. La nuova libertà introdotta dalla cultura, la libertà della ragione e del pensare da sé, non cambia le cose. L'ebreo "colto" resta indifferente al mondo storico quanto l'oppresso del ghetto. [...]
Nella coscienza storica della Germania si è verificato un mutamento che trova la sua espressione più caratteristica in Herder. Questi aveva cominciato con una critica della sua epoca, dell'epoca dell'illuminismo. Lo scritto Ancora una filosofia della storia per l'educazione dell'umanità appare nel 1774, in pieno illuminismo, e non ha alcun effetto sulla vecchia generazione. Ma tanto più forte e decisiva è la sua influenza sul nascente romanticismo. Esso si scaglia infatti contro l'onnipotenza della ragione e le sue insipide dottrine utilitaristiche. [...] Abbiamo visto come Mendelssohn, riprendendo le idee di Lessing, avesse insistito soprattutto sull'isolamento del singolo che pensa da sé. Herder e dopo di lui il romanticismo (cioè quella tradizione tedesca che è maggiormente rilevante a proposito della questione ebraica) rifiutano proprio questo, proseguendo nella scoperta della storia già cominciata con Lessing. [...] Se la ragione si storicizza come "risultato dell'esperienza", il posto dell'uomo nello sviluppo del genere umano non è più determinato in maniera univoca: "Nessuna storia nel mondo si regge su fondamenti astratti a priori". A una ragione unica e a una verità unica viene contrapposta l'infinità della storia. Per Herder, quindi, il rapporto fra la ragione e la storia si pone in maniera esattamente opposta: la ragione è sottomessa alla storia "perché l'astrazione non legifera sulla storia". [...] Alla convinzione del potere della storia sulla ragione si accompagna la polemica contro l'uguaglianza di tutti gli uomini. La vita si differenzia quanto più è penetrata dalla storia. La diversità si sviluppa da un'uguaglianza originaria. Quanto più un popolo è antico, tanto più si distingue da tutti gli altri. Sono le conseguenze dell'accadere a produrre le differenze fra gli uomini e fra i popoli. La diversità non sta nella disposizione, nel talento, nel carattere, ma piuttosto nell'irrevocabilità di tutto l'accadere umano, nel fatto che c'è un passato che non può essere modificato.
La scoperta dell'irrevocabilità di ogni accadere fa di Herder uno dei primi grandi interpreti della storia. E' grazie a lui, quindi, che per la prima volta in Germania anche la storia degli ebrei diventa visibile come storia determinata essenzialmente dal possesso dell'Antico Testamento. [...] Herder comprende la storia degli ebrei nello stesso modo in cui essi stessi l'hanno interpretata, come la storia del popolo eletto da Dio. La loro dispersione è per lui l'inizio e il presupposto della loro influenza sul genere umano. In tale prospettiva egli segue la storia degli ebrei fino al presente ed è attento a quel loro particolare sentimento di fedeltà al passato, che cerca di preservare il passato nel presente. Il loro lamento sulla Gerusalemme distrutta da tempo infinito, la loro speranza nel Messia sono per Herder segni del fatto che "le rovine di Gerusalemme sono state fondate per così dire nel cuore del tempo". [...] Herder non riconosce l'uguaglianza fra gli ebrei e tutti gli altri popoli - unico mezzo, secondo l'illuminismo, per farne degli uomini - ma ne sottolinea il carattere straniero. Questo, però, non significa affatto rinunciare all'assimilazione: anzi egli la esige in una maniera ancora più radicale, ma su un altro terreno. [...] Per Herder l'assimilazione diventa un problema dell'emancipazione e quindi una questione politica. Proprio perché Herder prende sul serio la fedeltà "alla religione dei padri", egli vede in essa il segno di un legame nazionale e la religione straniera diventa la religione di un'altra nazione. Il compito non è, quindi, né quello di tollerare un'altra religione, così come si è costretti a tollerare tanti pregiudizi, né quello di modificare una situazione socialmente dannosa, ma di incorporare nella Germania un'altra nazione. [...] Fino a che punto una tale assimilazione sia compatibile con il mantenimento della legge ebraica è una questione politica, fino a che punto essa sia in generale possibile è invece una questione che concerne l'educazione e la cultura, cioè per Herder l'umanizzazione. [...] Diventando "colti" nel senso di Herder, gli ebrei sono recuperati all'umanità, ma nella loro visione ciò significa cessare di essere il popolo eletto. "Abbandonati i vecchi e orgogliosi pregiudizi nazionali; respinti i costumi che non si addicono al nostro tempo, alla nostra costituzione né al nostro clima, essi non lavorano più come schiavi... ma come concittadini di popoli colti... La loro Palestina è allora dovunque essi vivano e agiscano nobilmente". [...] Così gli ebrei diventano nella storia i senza storia. La comprensione della storia di Herder ha sottratto loro il passato. Essi stanno di nuovo vis à vis de rien . All'interno di una realtà storica, all'interno del mondo europeo secolarizzato, essi sono costretti ad adattarsi in qualche maniera a quel mondo, a coltivarsi. Ma per loro cultura significa necessariamente tutto ciò che non è il mondo ebraico.
Stralcio da "Illuminismo e questione ebraica" di Hannah Arendt in libreria da martedì prossimo per Cronopio editore in occasione della Giornata della memoria (pp. 48, euro 6)

Liberazione 22.1.09
Vendola: «Esco dal Prc comunità snaturata»
di Angela Mauro


«E' bene che chi considera il Prc una casa snaturata, si cerchi un'altra casa. Quella della sinistra che vuol dire curiosità per un mondo che cambia». A tre giorni dalla kermesse di Chianciano (sabato e domenica prossimi) Nichi Vendola annuncia ufficialmente il suo addio a Rifondazione Comunista. Il governatore della Puglia lo fa in una lunga intervista a Linea Notte del Tg3, ieri sera, e lo fa parlando a titolo personale. Sono noti gli altri nomi dell'area di minoranza "Rifondazione per la sinistra" (costituitasi al congresso di Chianciano a luglio dopo l'elezione del segretario Paolo Ferrero) pronti a lasciare il Prc. Tra loro, l'ex segretario Franco Giordano, l'ex capogruppo alla Camera Gennaro Migliore. Ma Nichi parla a titolo personale perché, spiega, «non chiedo un reclutamento, una leva militare. Ognuno deve fare i conti con la propria coscienza».
E infatti a Chianciano il prossimo weekend non ci saranno voti, nè documenti contrapposti, nè vincoli di maggioranza. Chi lo vorrà annuncerà il suo addio alla casa comune e la scelta di non rinnovare la tessera del partito. Per lavorare ad altro. Cosa? Chi si scinde da Rifondazione va certamente verso una lista comune per le elezioni di giugno con Sd, parte dei Verdi e parte del Pdci. Se l'aggregazione sarà da subito un nuovo soggetto a sinistra lo si discuterà a febbraio.
E' prevista infatti per la fine del mese prossimo un'assemblea pubblica a Roma che sarà un po' il secondo atto di quella tenuta all'Ambra Jovinelli a dicembre. Un nuovo ciak più concreto, a scissione fatta insomma. Quanto alla parte di "Rifondazione per la sinistra" che ha invece deciso di restare nel Prc, resta l'intento di continuare a lavorare per un nuovo soggetto a sinistra. «Meglio costruirlo da dentro - è il ragionamento rivolto a chi lascia - se ci saremo sbagliati, vi raggiungiamo». Intanto, indiscrezioni di partito dicono che due esponenti dei vendoliani che restano in Rifondazione potrebbero presto entrare nella segreteria di Ferrero.
Da parte sua, Vendola insiste. «Non si può vivere separati in casa in una situazione nevrotica, gli uni contro gli altri - dice il governatore pugliese - Dentro Rifondazione c'è ormai un corto circuito politico e di linguaggio. Vale la pena di prendere atto di questa situazione anche per ripristinare un dialogo più civile con coloro con cui abbiamo costruito Rifondazione». Ma è tempo di «elaborare un pensiero forte, di fronte a un mondo attraversato dalla crisi economica, da quella ambientale per presentarci non come portatori di vecchie mitologie ma come cercatori di futuro».
Alla Rifondazione che resta, Oliviero Diliberto rivolge ancora una volta lo stesso appello. «Rimettiamoci insieme», dice il segretario dei Comunisti Italiani a Ferrero nel giorno dell'anniversario della nascita del Partito comunista d'Italia (così si chiamava nel 1921) che si sarebbe poi trasformato nel Partito comunista Italiano. «E' la nostra proposta: la riunificazione dei Comunisti. Per lo meno, noi e Rifondazione Comunista che veniamo da una comune storia e abbiamo alle spalle una divisione, di cui io francamente non vedo più la ragioni già da qualche anno, proviamo a rimetterci insieme. È un'operazione politica ma anche di assoluto buon senso. Siamo fuori dal Parlamento. È la prima volta che accade nella storia repubblicana. Abbiamo ottenuto, tutti insieme, percentuali imbarazzanti. Veniamo da una clamorosa sconfitta, ma da una sconfitta si esce guardando avanti, cercando di rimettere insieme i cocci».

Liberazione 22.1.09
Appello per l'unità
Non scindersi dal Prc, avviare la costituente della sinistra


Pubblichiamo stralci dell'appello promosso dal Centro Studi Asset e scaturito da un incontro pubblico svoltosi a Roma il 16 gennaio. Primo firmatario è il compagno Salvatore Bonadonna, presidente del Collegio nazionale di Garanzia

Abbiamo sostenuto da anni la esigenza di costruire una sinistra capace di rappresentare il lavoro, i diritti civili e l'ambiente nell'era del capitalismo finanziario e della globalizzazione; una sinistra capace non soltanto di memoria ma, soprattutto, di progetto e di futuro.
La globalizzazione capitalistica ha agito come forte catalizzatore della ideologia liberista e mercatista che ha finito con egemonizzare la cultura politica dentro un pensiero unico che ha omologato la destra e la sinistra moderata: il "mercato" è stata la parola d'ordine di questa omologazione che ha descritto e sospinto le forze di sinistra verso una condizione di marginalità e di "estraneità" rispetto al fantastico sviluppo del capitalismo della finanza.
La sinistra divisa non ha saputo costituire una sufficiente massa critica capace di contendere l'egemonia liberista e ha pagato il prezzo delle sconfitte che l'hanno progressivamente indebolita. I lavoratori hanno pagato con il salario ed i diritti nella sfera dell'economia reale e come risparmiatori e consumatori in quella dell'economia di carta. (...) Il tentativo disperato di mettere insieme le forze dell'alternativa, tardivo e agito da molti con poca convinzione, e la formazione del Partito Democratico come soggetto politico candidatosi ad amministrare la società in alternanza all'omologo Partito delle Libertà, non ha recuperato le delusioni,le frustrazioni e la insoddisfazione accumulate nel tempo del governo Prodi. (...)
Abbiamo sostenuto la mozione di "Rifondazione per la Sinistra" perché meglio e di più raccoglieva la istanza di una nuova sinistra unita verso la quale impegnare il lavoro politico e la forza di Rifondazione Comunista. Infatti, la ipotesi dello scioglimento di Rifondazione era esplicitamente esclusa dalla mozione congressuale e la tesi della costituente della sinistra era rivendicata con forza come processo da attivare e da cogliere anche in relazione alla maturazione di forze diverse da Rifondazione e non solo costituite in partiti. (...)
Consideriamo che l'esito del congresso non cancella l'ispirazione e la forza della mozione che abbiamo sostenuto e (...) di dovere impegnare il confronto e l'iniziativa dentro Rifondazione Comunista, per la costruzione di una forte sinistra anticapitalista, ambientalista e capace di coniugare libertà ed uguaglianza in ogni rapporto civile e sociale.
Consideriamo sbagliata la linea su cui si è aggregata la maggioranza congressuale e inadeguata l'azione del partito nella condizione di crisi politica e sociale che sta attraversando il paese e (...) anche la gestione del partito e la sostituzione del direttore di Liberazione . Da qui la esigenza di non recedere da una battaglia politica in difesa dello spirito e della pratica innovativa e libertaria. (...) Una fase di Rifondazione Comunista si è conclusa; si tratta di misurarsi con il difficile compito di aprirne un'altra che, contrariamente ai segnali presenti, guardi avanti verso la costruzione di un soggetto unitario e plurale nel quale i comunisti, i socialisti libertari, eredi delle culture e delle storie politiche del secolo passato, gli ambientalisti si facciano portatori di una idea di società non più fondata sullo sfruttamento del lavoro salariato, sul patriarcato, sulla distruzione della natura e dell'ambiente.
Se non si esprime questo progetto a fronte del fallimento clamoroso della ideologia liberista che ha celebrato il mercato autoregolato e la riduzione della politica a suo strumento, mettendo in causa il ruolo dello Stato e la stessa democrazia, quando una sinistra si renderà degna di definirsi tale?
Per questi motivi rivolgiamo a tutte le compagne e i compagni (...) l'appello a sviluppare, nella unità dell'area programmatica di "Rifondazione per la Sinistra", la battaglia politica e culturale dentro il partito e nel rapporto con tutte le forze e le forme organizzate sul terreno della costruzione del soggetto politico dell'alternativa. In ogni caso, pensiamo di dovere continuare insieme, anche con forme plurime di affiliazione, lo sviluppo delle elaborazioni che insieme abbiamo iniziato e che hanno il medesimo obiettivo di costruire l'alternativa.
Pensiamo che la forza delle idee e la capacità di leggere la realtà di una società destrutturata dalla crisi debba guidare (...) in questa sfida inedita di immaginare e progettare una strategia di riforme, una nuova fase di governo democratico dell'economia, una riforma della politica, capaci di rivoluzionare la società, alimentare la democrazia e la partecipazione, sottrarre al mercato e allo sfruttamento i beni comuni che stanno alla base di una effettiva libertà ed uguaglianza di tutte le donne e di tutti gli uomini.
Marilde Provera impiegata, Luca Centoni impiegato, Romina Tucci capotreno, Eva Mazzetta insegnante, Massimo Rinversi architetto, Giuseppina Monaco dirigente regionale in pensione, Caterina Berruti architetto, Luigi Landi artigiano, Margherita Favale ristoratore, Gaetana D'Aniello ristoratore, Claudio Favale architetto, dirigente tecnico Eell, Alfonso Pavone operaio, Annagrazia Mariani insegnante elementare, Serena Pavone studentessa, Umberto Del Sole libero professionista, Marta Illuminati insegnante di danza, Salvatore Bonadonna presidente Collegio nazionale di Garanzia del Prc, Danilo Corazza consigliere comunale Civita Castellana, Roberto Gallia architetto, Arturo Gallia studente, Rosa Rinaldi componente la direzione del Prc

Povia: è riuscito ad andare a destra del Papa e a sinistra di Massimo Fagioli
Corriere della Sera 22.1.09
Paola Concia La deputata del Pd: ho lasciato mio marito dopo 5 anni di matrimonio, vivo la sessualità con felicità
«La Mannoia canti la mia svolta gay per sfidare Povia»
di Alessandra Arachi


ROMA — «Che fantastica coincidenza.... ».
Cosa?
«Mentre Barack Obama parlava al mondo intero dicendo che siamo tutti uguali, noi in Italia davamo la parola a Povia. Ue'».
Paola Concia lei, deputata del Pd, è omosessuale...
«Attualmente sono l'unica in Parlamento. Dichiarata. Ma non serve essere omosessuali per inorridere davanti alle parole di Povia: è riuscito ad andare a destra del Papa e a sinistra di Massimo Fagioli. Un'impresa impossibile. A meno... ».
Ameno che?
«Qualcuno non ci dica che a scrivere le parole della canzone di Povia sia stata Paola Binetti».
Le associazioni omosessuali hanno annunciato una protesta massiccia a Sanremo durante il Festival..
«Ma certo! E' giusto tenere sotto assedio un festival che è una vetrina internazionale e manda messaggi assurdi: essere omosessuali vuol dire essere infelici, mentre la eterosessualità dà la felicità. Bisognerebbe oscurarlo Povia. Perché non ci pensa Paolo Bonolis?
A fare cosa?
«A mettere Povia in difficoltà. A ridicolizzarlo. Capisco che non è semplice. Però... ».
Però?
«Il potere mediatico di questa operazione di marketing organizzata da Povia è immenso. Tutte le manifestazioni del mondo non possono uguagliarlo. Bisogna, invece, combatterlo sul suo stesso piano».
Ovvero?
«Faccio un appello a Fiorella Mannoia: vorrei che cantasse lei una canzone da scrivere sulla mia storia. Garantisco: merita».
E come sarebbe la sua storia?
«Io sono omosessuale, ma prima di riuscire a vivere liberamente la mia sessualità sono passata attraverso un matrimonio lungo cinque anni».
E poi?
«Ho realizzato che non ci potevo stare dentro ad un matrimonio che non mi apparteneva ».
Quindi?
«Con fatica e dolore ho cambiato tutto. Ho lasciato mio marito, il mio paese, la mia regione...».
E adesso?
«Sono omosessuale. E...».
E?
«E molto felice. Vorrei dirlo al signor Povia».