sabato 24 gennaio 2009

Repubblica 24.1.09
Aborto e staminali, svolta nell´America di Obama
Obama cancella il veto di Bush "Fondi alle organizzazioni pro-aborto"
Nuova svolta del presidente. I vescovi Usa: "Siamo preoccupati"
di Mario Calabresi

In soli tre giorni sono state radicalmente messe discussione le basi etiche e ideologiche della Casa Bianca di George W. Bush: mercoledì Obama ha promesso un´Amministrazione più trasparente e il ritiro dei soldati dall´Iraq in 16 mesi, giovedì ha riscritto la dottrina della sicurezza nazionale, ordinando la fine della tortura, delle carceri segrete della Cia e la chiusura di Guantanamo e infine ieri ha riaperto il dibattito sull´aborto e gli embrioni. La decisione della Fda non dipende da Obama, ma non è casuale la scelta dei tempi: si è aspettato che Bush lasciasse Washington e giurasse un presidente che in campagna elettorale ha promesso di rimuovere i divieti al finanziamento federale della ricerca che utilizza gli embrioni.
L´ordine esecutivo firmato ieri sera da Obama elimina la norma - voluta da Reagan nel 1984 e rilanciata da Bush nel 2001 - che impedisce di dare finanziamenti pubblici alle organizzazioni non governative americane e internazionali che prevedono nelle loro politiche di pianificazione familiare anche l´interruzione di gravidanza. Questa norma chiamata "Mexico City Policy", perché venne adottata durante il vertice dell´Onu sulla popolazione che si tenne nella capitale messicana 25 anni fa, è stata al centro di una battaglia ideologica serratissima. Già Bill Clinton la abolì nel 1993, con il suo primo ordine esecutivo da presidente, e scegliendo di farlo nel giorno del ventesimo anniversario della decisione della Corte Suprema che autorizzò l´aborto. Otto anni dopo, utilizzando la stessa data simbolica, George W. Bush annullò la decisione di Clinton ripristinando il divieto voluto da Reagan. Ora anche Obama è entrato in questa battaglia, ma ha voluto lanciare un segnale di dialogo: non ha firmato la sua decisione nel giorno del contestato anniversario - quando sul Mall di Washington sfilano migliaia di manifestanti in favore del diritto alla vita - per segnalare la volontà di un approccio pragmatico e non ideologico. Non è il caso di lanciare guerre di religione nel momento in cui ha bisogno di un sostegno bipartisan per affrontare la crisi economica.
Tanto che l´altroieri sera, dopo aver detto che la legge sull´aborto «non solo protegge la salute delle donne e la libertà di riproduzione ma simbolizza anche un principio più ampio: che il governo non deve entrare negli affari più intimi della famiglia», Obama ha sottolineato che al di là delle opinioni personali deve esserci unità «nella volontà di prevenire gravidanza indesiderate, ridurre il numero degli aborti e sostenere le donne e le famiglie nelle scelte che fanno».
Ma la Chiesa cattolica è pronta ad andare allo scontro con il nuovo presidente sia se sceglierà di firmare una nuova legge in discussione al Congresso - il Freedom of Choice Act - che prevede una rimozione dei limiti all´aborto decisi negli ultimi anni a livello federale e statale, sia se andrà avanti sulle cellule staminali embrionali. «Siamo preoccupati - ha detto il vescovo di Orlando Thomas Gerard Wenski alla Radio Vaticana - per il fatto che gli ideologi pro-aborto possano far passare al Congresso una legge abortista più radicale: speriamo che ciò non accada, ma se dovesse accadere, speriamo di riuscire a convincerlo a non firmarla».

Repubblica 24.1.09
Staminali, l’America inverte la rotta primo test sull’uomo con cellule embrionali
La Food and Drug Administration dà il via ai primi test al mondo su malati tetraplegici
di Elena Dusi

Era il giorno che Superman aveva sempre sognato. L´attore Christopher Reeve - paralizzato dopo una caduta da cavallo - sperava che le staminali lo potessero aiutare a rialzarsi di nuovo. Ma è morto nel 2004 in piena era Bush, l´epoca più restrittiva per la ricerca sulle cellule ricavate dagli embrioni.
Ad appena tre giorni dall´insediamento di Barack Obama alla Casa Bianca, con una decisione da cui traspare tutta l´impazienza della comunità scientifica, la Food and Drug Administration ha dato luce verde al primo studio clinico al mondo che usa cellule staminali derivate da embrioni umani per tentare di curare le paralisi causate da lesioni del midollo spinale. La Geron - un´azienda di biotecnologie della Silicon Valley - da qui all´estate potrà procedere ai primi esperimenti su dieci pazienti.
La Food and Drug Administration (Fda) ha negato ogni legame fra la sua decisione e l´insediamento di Obama. Eppure solo pochi mesi fa, a maggio del 2008, l´ente che regola farmaci e procedure mediche negli Stati Uniti aveva congelato la richiesta di sperimentazione della Geron. E oggi, dopo l´approvazione che ha fatto salire di oltre il 30 per cento le azioni della ditta della Silicon Valley, altre due aziende biotech si sono dette pronte a partire con studi clinici analoghi che prevedono l´impiego di staminali embrionali, la Advanced Cell di Los Angeles e la Novocell di San Diego.
«Si apre una nuova era per la medicina, che va oltre pillole e bisturi» ha annunciato Thomas Okarma, amministratore delegato della Geron. «Una singola iniezione di cellule vive può restituire funzionalità a un tessuto danneggiato». Il suo entusiasmo va bilanciato però con una serie di test del passato che - pur avendo utilizzato staminali fetali o adulte al posto di quelle embrionali - non hanno dato risultati particolarmente positivi. Né le sperimentazioni potranno aiutare chi è già costretto da tempo su una sedia a rotelle. Per essere trattati, i pazienti della Geron dovranno soffrire di una lesione del midollo spinale acuta. Il loro incidente, cioè, dovrà essere avvenuto una o due settimane prima dell´iniezione di staminali.
Ai test clinici preliminari (per il momento l´obiettivo è verificare che il trattamento non sia dannoso per la salute e le nuove cellule non diano vita a tumori) l´azienda californiana è arrivata dopo oltre dieci anni di studi, 45 milioni di dollari di origine privata spesi a fondo perduto e una manciata di brevetti riconosciuti. La sola richiesta di autorizzazione presentata all´Fda era lunga 12mila pagine e si basava su alcuni successi ottenuti sui topolini di laboratorio. Dopo l´iniezione di cellule, le cavie avevano ricominciato in parte a muovere le zampe che erano bloccate dalla paralisi.
Le staminali usate dalla Geron arrivano da embrioni umani creati durante la fecondazione in vitro e mai utilizzati dalle coppie. Per ottenerle, gli embrioni sono andati distrutti. Ed è questo il motivo per cui la politica scientifica targata Obama ha provocato le proteste di molti gruppi cristiani. La speranza dei medici è che le staminali attecchiscano nel punto in cui il midollo spinale è leso, rigenerando il tessuto nervoso e permettendo agli impulsi provenienti dal cervello di trasformarsi di nuovo in movimento dei muscoli.

Repubblica 24.1.09
Il caso Eluana nel paese della doppia obbedienza
di Ezio Mauro

In modo probabilmente inconsapevole, ma certamente per lui doloroso, Beppino Englaro sta portando alla luce giorno dopo giorno alcuni nodi irrisolti dello Stato moderno di cui siamo cittadini, e a cui guardiamo � o dovremmo guardare � come all´unico titolare della sovranità. Questo accade, come ricorda Roberto Saviano, perché il padre di Eluana cerca una soluzione alla sua tragedia familiare in forma pubblica, quasi pedagogica proprio perché la rende universale, sotto gli occhi dell´intero Paese, costretto per la prima volta a interrogarsi collettivamente sulla vita e sulla morte, a partire dalla pietà per un individuo. A parte la meschinità di chi cerca un lucro politico a breve da questo dramma personale e nazionale, trasformando in frettolosa circolare di governo le richieste della Chiesa contro una sentenza repubblicana, e a parte i ritardi afasici di chi dall´altra parte si attarda invece a parlare di Villari, quello che stiamo vivendo � e soffrendo � è un momento alto della discussione civile e morale del Paese. A patto di intendersi.
Fa parte senz´altro della discussione pubblica, che deve interessare tutti, l´intervento del Cardinale Poletto. È vescovo di Torino, la città dove la presidente della Regione, Mercedes Bresso, si è detta pronta ad ospitare Eluana e la sua famiglia per quell´ultimo atto che lo Stato ha riconosciuto legittimo con una sentenza definitiva, e che il governo vuole evitare con ogni mezzo. Mentre altri cattolici hanno sostenuto che "la morte ha trovato casa a Torino" il Cardinale non ha usato questi toni, ma ha detto che condanna l´eutanasia, anche se si sente vicino al padre di Eluana, prega per lui e non giudica. Vorrei però discutere pubblicamente, se è possibile, il significato più profondo e la portata di due affermazioni del Cardinale.
La prima è l´invito all´obiezione di coscienza dei medici, che per Poletto devono rifiutarsi in Piemonte di sospendere l´alimentazione forzata ad Eluana, entrando in contrasto con la richiesta della famiglia e con la sentenza che la legittima. Non c´è alcun dubbio che la coscienza individuale può ribellarsi a questo esito, e il medico � credente o no � può vivere un profondo travaglio tra il suo ruolo pubblico in un ospedale statale al servizio dei cittadini e delle loro richieste, il suo dovere professionale che lo mette al servizio dei malati e delle loro sofferenze, e appunto i suoi convincimenti morali più autentici. Questo travaglio può portare a decisioni estreme assolutamente comprensibili e rispettabili, come quella di obiettare al proprio ruolo pubblico e al proprio compito professionale perché appunto la coscienza non lo permette, costi quel che costi: e in alcuni casi, come ha ricordato qui ieri Adriano Sofri, il costo di questa opposizione di coscienza è stato altissimo.
Mi pare � appunto in coscienza � molto diverso il caso in cui i credenti medici vengono sollecitati collettivamente da un Cardinale (quasi come un´unica categoria professionale e confessionale da muovere sindacalmente) a mobilitarsi nello stesso momento e ovunque per mandare a vuoto una sentenza dello Stato, indipendentemente dalla riflessione morale e razionale di ognuno, dai tempi e dai modi con cui liberamente ciascuno può risolverla, dalle diverse sensibilità per la pietà e per la carità cristiana, pur dentro una fede comune. Qui non si può parlare, se si è onesti, di obiezione di coscienza: semmai di obbligazione di appartenenza, perché l´identità cattolica di quei medici diventa leva e strumento collettivo su cui puntare con impulso gerarchico per vanificare una pronuncia della Repubblica.
Questo è possibile perché il Cardinale spiega con chiarezza la concezione della doppia obbedienza, e la gerarchia che ne consegue. Lo Stato moderno e laico, libero "dalla" Chiesa mentre la garantisce libera "nello" Stato, applica la distinzione fondamentale tra la legge del Creatore e la legge delle creature. Poletto sostiene invece che poiché la legge di Dio non può mai essere contro l´uomo, andare contro la legge di Dio significa andare contro l´uomo: dunque se le due leggi entrano in contrasto "è perché la legge dell´uomo non è una buona legge", ed il cattolico può trasgredirla. La legge di Dio è superiore alla legge dell´uomo.
Su questa dichiarazione vale la pena riflettere, per le conseguenze che necessariamente comporta. È la concezione annunciata pochi anni fa dal Cardinal Ruini, secondo cui il cattolicesimo è una sorta di seconda natura degli italiani, dunque le leggi che contrastano con i principi cattolici sono automaticamente contronatura, e come tali non solo possono, ma meritano di essere disobbedite. Da questa idea discende la teorizzazione del nuovo cattolicesimo italiano di questi anni: la precettistica morale della Chiesa e la sua dottrina sociale coincidono con il diritto naturale, dunque la legge statale deve basare la sua forza sulla coincidenza con questa morale cattolica e naturale, trasformando così il cattolicesimo da religione delle persone in religione civile, dando vita ad una sorta di vera e propria idea politica della religione cristiana.
Ma se la legge di Dio è superiore alla legge dell´uomo, se nella doppia obbedienza che ritorna la Chiesa prevale sullo Stato anche nell´applicazione delle leggi e delle sentenze, nascono due domande: che cittadino è il cattolico osservante, se vive nella possibilità che gli venga chiesto dalla gerarchia di trasgredire, obiettare, disubbidire? E che concezione ha la Chiesa italiana, con i suoi vescovi e Cardinali, della democrazia e dello Stato? Qualcuno dovrà pur ricordare che nella separazione tra Stato e Chiesa, dopo l´unione pagana delle funzioni del sacerdote col magistrato civile, la religione non fa parte dello "jus publicum", la legge umana non fa parte di quella divina con la Chiesa che la amministra, le istituzioni pubbliche e i loro atti sono autonomi dalle cattedre dei vescovi e dal magistero confessionale.
Il cittadino medico a cui si ordina di agire in nome di una terza identità � suprema �, quella di cattolico, non obietta in nome della sua coscienza, ma obbedisce ad un´autorità che si contrappone allo Stato, e chiede un´obbedienza superiore, definitiva, totale alla Verità maiuscola, fuori dalla quale tutto è relativismo. Solo che in democrazia ogni verità è relativa, anche le fedi e i valori sono relativi a chi li professa e nessuno può imporli agli altri. Perché non esiste una riserva superiore di Verità esterna al libero gioco democratico, il quale naturalmente deve garantire la piena libertà per ogni religione di pronunciarsi su qualsiasi materia, anche di competenza dello Stato, per ribadire la sua dottrina. Sapendo che così la Chiesa parla alla coscienza dei credenti e di chi le riconosce un´autorità morale, ma la decisione politica concreta nelle sue scelte spetta all´autonoma decisione dei laici � credenti e non credenti � sotto la loro responsabilità: che è la parola della moderna e consapevole democrazia, con cui Barack Obama ha siglato l´avvio della sua presidenza.
Dunque non esiste una forma di "obbligazione religiosa" a fondamento delle leggi di un libero Stato democratico, nel quale anzi nessun soggetto può pretendere " di possedere la verità più di quanto ogni altro possa pretendere di possederla". Ne dovrebbe discendere finalmente una parità morale nella discussione pubblica, negando il moderno pregiudizio per cui la democrazia, lo Stato moderno e la cultura civica che ne derivano sono carenti senza il legame con l´eternità del pensiero cristiano, sono insufficienti nel fondamento. È da questo pregiudizio che nasce la violenza del linguaggio della nuova destra cattolica contro chi richiama la legge dello Stato, le sentenze dei tribunali, le norme repubblicane. Come se per i laici la vita non fosse un valore, e praticassero la cultura della morte. Come se il concetto di libertà per una famiglia dilaniata, di fraternità per un padre davanti ad una prova suprema, di condivisione per il suo dolore che non è immaginabile, non contassero nulla. Come se la coscienza italiana fosse solo cattolica. Infine, come se la coscienza cattolica, in democrazia, fosse incapace di finire in minoranza davanti allo Stato.

Repubblica 24.1.09
"Così vince la legge della giungla un Paese diviso non supera la crisi"
Epifani: i nuovi contratti abbattono il potere d'acquisto
di Roberto Mania

Io candidato alle europee con il Pd? È la cosa più volgare che potesse dire la Marcegaglia

ROMA - «Mi chiede con quali regole si rinnoveranno i prossimi contratti? Con quelle della giungla, con la legge del più forte». Il giorno dopo la rottura sul sistema contrattuale, Guglielmo Epifani, leader della Cgil, non nasconde l´amarezza per un epilogo che - dice - ha cercato di evitare fino all´ultimo minuto. Il più grande sindacato è rimasto fuori da quella che è nei fatti la nuova costituzione per le relazioni sindacali. Una situazione che non ha precedenti. «E che - sostiene Epifani - è molto più grave delle rotture dell´´84 sulla scala mobile e del 2001 sul patto per l´Italia».
Ma allora perché non ha firmato? Meglio la giungla?
«Perché il testo che ci è stato presentato a Palazzo Chigi non era modificabile e non rispondeva in alcun modo alla posizione unitaria di Cgil, Cisl e Uil e approvata dai lavoratori. Quel testo è figlio della paura di fronte alla crisi. Anziché scommettere sulla funzione positiva che può avere la contrattazione per rendere più unito il Paese, la si limita a livello nazionale e la si comprime nelle aziende».
La riforma, però, punta proprio a rafforzare il ruolo della contrattazione in particolare quella in azienda.
«Rispondo che il contratto nazionale finirà per ridurre strutturalmente il potere d´acquisto e la contrattazione di secondo livello non sarà affatto estesa. Ma c´è di più: c´è un´idea di derogabilità del contratto nazionale tutta in negativo e un´interpretazione del diritto di sciopero del tutto lesivo del dettato costituzionale perché si fa stabilire alle parti sociali chi ha diritto a proclamare lo sciopero e chi no. Quest´accordo risponde a un obiettivo di divisione la cui responsabilità ricade sul governo ma anche sulla Confindustria che, anziché ricercare, come sta accadendo in tutto il mondo, di affrontare la crisi con coesione hanno esplicitamente scelto di dividere. Questa intesa destabilizza le relazioni sindacali».
Le ricordo che solo la Cgil ha deciso di non firmare.
«Nel costruire il consenso sul quel testo ci sono state evidenti forzature. Ed è un aspetto che andrà approfondito. Checché ne dica la Confindustria, la Cgil ha cercato fino all´ultimo di evitare divisioni. La verità è che quel testo era preconfezionato: prendere o lasciare».
Le potrebbero ribattere che quel testo è il risultato di un negoziato al quale lei non ha voluto partecipare.
«Non è vero: questa è solo una scusa. Il negoziato, se c´è stato, non ha coinvolto tutti i soggetti. La Cgil, per esempio, ha letto per la prima volta a Palazzo Chigi la parte sui contratti pubblici. La Cgil ha sempre presentato le sue proposte. Ma ora questo accordo dovrà essere discusso dai lavoratori. Lo chiederemo formalmente a Cisl e Uil».
Propone un referendum?
«Ci vuole il coinvolgimento dei lavoratori perché tutti gli accordi sulla contrattazione sono stati giudicati dai lavoratori. Sarebbe grave se non si facesse questa volta».
Qualche giorno fa ha detto che «è da matti» pensare alla riforma dei contratti mentre esplode la crisi. Le sembra più saggio mantenere un sistema contrattuale introdotto quando c´era ancora la lira e che in questi quindici anni ha contribuito a mantenere le retribuzioni degli italiani in fondo alla classifica europea?
«È "da matti" se si pensa ai contratti come priorità in questa fase, senza trovare soluzioni condivise, come ci chiedono i lavoratori, per affrontare la crisi. La grande differenza con il protocollo del ´93 è che quello era figlio di un´idea di coesione, di giustizia sociale, di politica di tutti i redditi mentre questo accordo si sviluppa in un vuoto pneumatico di progetto».
Molti si aspettano una retromarcia della Cgil. Accadrà?
«Si illudono. La Cgil andrà avanti sostenendo le sue opinioni e le sue proposte».
Non teme che d´ora in poi la Cgil possa essere esclusa dai rinnovi contrattuali? Presenterete le vostre piattaforme ma gli imprenditori faranno l´accordo con gli altri. È già successo due volte tra i metalmeccanici.
«Sono sempre stati i lavoratori ad approvare le piattaforme. La loro parola dovrà continuare a essere vincolante».
Il presidente di Confindustria Marcegaglia ha insinuato che lei stia pensando a candidarsi con il Pd alle prossime elezioni europee. Lo farà?
«È la cosa più volgare che la Marcegaglia potesse dire. È come se io dicessi che ha firmato l´accordo perché vuole diventare ministro del governo Berlusconi».
Qualche mese fa lei minacciò l´espulsione di Cremaschi dalla Cgil per la sua partecipazione a una manifestazione di Cobas. Ora però la linea di Cremaschi è quella della Cgil.
«È falso. La linea della Cgil è quella della proposta unitaria fatta con Cisl e Uil contro la quale votò Cremaschi».
Che fine faranno i legami con la Cisl e la Uil?
«Intanto subiscono un colpo molto forte. Dovremo mantenere l´unità operativa di fronte alla crisi, dalla Fiat a tutti gli altri settori. Ma la Cgil non avrebbe mai firmato un accordo sulle regole senza la Cisl e la Uil. Mai».

l’Unità 24.1.09
Industriali e governo hanno voluto colpirci. Sapremo rispondere
J’accuse Noi non avremmo mai firmato senza Cisl e Uil. Il testo l’abbiamo
conosciuto solo a Palazzo Chigi, durante una riunione convocata
per discutere di provvedimenti anti crisi. Scelta profondamente sbagliata
Intervista con Guglielmo Epifani di Felicia Masocco

La durata
I contratti non dureranno più 4 anni per la parte normativa e 2 per la parte economica, ma 3 anni per entrambe. anche per il secondo livello

L’inflazione programmata
L’inflazione programmata è superata. Gli aumenti salariali sono calcolati in base all’Ipca, indice dei prezzi armonizzato in europa pe r l’italia

Il secondo livello
Per il secondo livello sono previsti incentivi legati al raggiungimento di obiettivi di produttività, redditività, efficienza e risultato d’impresa

Gli enti bilaterali
Impulso agli enti bilaterali composti da sindacati e imprese che potranno gestire anche il collocamento e gli ammortizzatori sociali

Il j’accuse di Guglielmo Epifani arriva al termine di una riunione fiume con i segretari delle categorie e quelli dei territori. E ce n’è per tutti. Per il governo, che ha «deliberatamente cercato la rottura», per la Confindustria che «ha una responsabilità diretta ed esplicita», per Cisl e Uil «perché mai la Cgil avrebbe firmato un accordo sulle regole senza di loro. Mai».
Invece Cisl e Uil e tutti gli altri hanno firmato. Perché la Cgil no?
«Perché è stato un prendere o lasciare su un testo che non può essere condiviso. Restringe la contrattazione, quella nazionale è fortemente depotenziata in tutti i suoi aspetti; quella aziendale non viene estesa. Il testo contiene un principio di derogabilità ai principi generali che può rendere inesigibili le norme del contratto nazionale. A livello nazionale si procede, strutturalmente, a una riduzione del potere d’acquisto. E non abbiamo firmato perché c’è una norma sul diritto di sciopero assolutamente inaccettabile in quanto le parti dovrebbero stabilire che solo chi rappresenta la maggioranza ha la possibilità di proclamare gli scioperi. Messo così non è un tema delle parti sociali, il diritto di sciopero è garantito dalla Costituzione. È un terreno improprio e pericoloso, una forzatura voluta dal ministro Sacconi. C’è poi l’estensione abnorme della bilateralità.
Lei ha parlato della nascita di una casta...
«Estesa impropriamente la bilateralità rischia di creare una casta di burocrati, del sindacato e delle imprese».
Si aspettava questa accelerazione?
«Doveva essere una riunione per discutere dei provvedimenti contro la crisi, invece contro la crisi non è stato proposto nulla ed è finita con un accordo separato sui contratti. È il segno di una scelta deliberata, profondamente sbagliata e che porterà un sacco di problemi».
La presidente di Confindustria dice che la porta è sempre aperta.
«Ho letto dichiarazioni di Emma Marcegaglia assolutamente incomprensibili. Voglio dire che non è stata la Confindustria a tentare di convincere la Cgil, ma è stata la Cgil a fare l’estremo tentativo chiedendo alla Marcegaglia una disponibilità a discutere sui punti di disaccordo. È stato un senso di responsabilità mantenuto fino all’ultimo dalla Cgil e che si è scontrato con il no della Marcegaglia, la quale ha una responsabilità diretta ed esplicita in questa vicenda, cosa che mai mi sarei aspettato. Come le ho detto la Cgil e Confindustria sono i soggetti fondamentali, anche se non unici, del sistema delle relazioni industriali del Paese e dovrebbero avere tra di loro attenzione e responsabilità reciproca. Cosa che non ho trovato».
Forse perché Confindustria con l’accordo porta a casa un bel po’ di cose.
«Porta a casa un credito verso il governo, un indebolimento del sindacato, una restrizione degli spazi collettivi di contrattazione, una bassa politica salariale del contratto nazionale. Ma non la cosa più importante: regole condivise. Questa assenza determinerà incertezza permanente nei rapporti, a tutti i livelli. E creerà un problema in più alle imprese, dappertutto».
La leader degli industriali dice che lei, Epifani, pensa ad altro, alle elezioni europee. Che cosa risponde?
«Che dovrebbe chiedere scusa se è una persona onesta. Anzi, avrebbe già dovuto farlo».
Al movimento sindacale restano invece un bel po’ di cocci.
«Cocci, esattamente. Resta soprattutto un punto, che per noi questa volta è risolutivo nei rapporti con Cisl e Uil, perché la Cgil non avrebbe mai firmato un accordo sulle regole generali senza Cisl e Uil, mai. Non lo avrebbe concepito. Com’è possibile che quello che per la Cgil è impensabile per gli altri lo è? Non mi si dica che c’è un problema di merito perché c’è sempre un problema di merito tra tre organizzazioni».
Ora che cosa farà la Cgil?
«Sono problemi grandi e destinati a durare quindi faremo ponderatamente le nostre scelte. Apriremo discussioni nei luoghi di lavoro e chiediamo di farlo unitariamente, e chiederemo ai lavoratori di esprimersi democraticamente. Lo facemmo anche nel ‘93. E una sfida democratica cui nessuno può sottrarsi, se no vuol dire che si ha paura di quello che si è firmato. E risponderemo con una iniziativa di lotta specifica che deciderà il direttivo, ferme restando le iniziative programmate».
Il Pd si è diviso, solo una parte vi sostiene. L’amareggia?
«Abbiamo provato fino all’ultimo a fare l’accordo, non si è voluto trovarlo per responsabilità di governo e Confindustria. È evidente che un partito che ha dentro di sé diverse anime e culture possa avere opinioni diverse. Mi piacerebbe che tutto il Pd chiedesse a tutto il sindacato di affrontare un percorso democratico affidando la risoluzione al voto dei lavoratori. Sarebbe un messaggio verso la direzione giusta».

Repubblica 24.1.09
Atti impuri
Esce un libro sulla violenza sessuale nelle diocesi americane
Quegli abusi nel mondo della chiesa
di Marco Politi

Cifre realistiche indicano tra i quaranta e i sessantamila casi negli Usa
Una delle autrici del dossier ha assistito alle riunioni a porte chiuse dei vescovi
Denunce che vengono dall´interno dell´area cattolica
Non è il celibato in sé a favorire le pulsioni trasgressive
Non è solo la descrizione di una catastrofe che ha scosso i cattolici ma la riflessione sull´istituzione e sulle vittime, in maggioranza ragazzi in età pre e post puberale

Le voci dall´inferno sono innumerevoli. «Accadde quando il sacerdote J. era chierichetto. Un giorno, dopo la messa, il prete si mise davanti a J. con il pene eretto e guidò le sue mani fino a raggiungere l´orgasmo� Quando entri in sacrestia, dopo aver servito messa, padre Bill ti dice che hai fatto un buon lavoro e tu sei felice e orgoglioso. Il tuo prete ti offre di aiutarti a sfilare la veste, scherzando. Ma appena l´ha sollevata, padre Bill la spinge sulla tua faccia con una mano mentre con l´altra si sbottona i pantaloni e si spinge dentro di te� Andai su e c´era il buon padre Donald, fumammo insieme (dell´erba) e poi mi fece delle proposte. Era la prima volta che qualcuno soddisfaceva me e mi piacque molto� Il dodicenne Julian fu abusato per tre anni da padre Scott, il quale gli aveva detto che per ricevere la cresima avrebbe dovuto partecipare a speciali sessioni di consulenza� All´età di cinque anni X cominciò ad essere prelevato da letto e portato sul divano del sacerdote (ospite dei genitori), che lo stendeva sopra di sé� I miei ricordi più terribili sono di noi due, io e padre Larry, che facciamo sesso nella mia stanza e dopo scendiamo al piano di sotto per cenare con la mia famiglia� La chiesa nella quale fui violentata era la stessa in cui i preti ascoltavano le confessioni, era la chiesa in cui tutti i figli della mia famiglia si sono sposati e alcuni nipoti battezzati, e in cui sono sepolti i miei genitori».
Il panorama è devastante. Quando papa Ratzinger è stato in America nell´aprile scorso il nuovo cardinale di Boston, Sean O´Malley, lo ha fatto incontrare con un piccolo gruppo di vittime di abusi che portavano con sé un libriccino con i nomi di altri mille abusati. Mille. Proviamo a trasporre la cifra in una diocesi come Torino, Bologna o Genova. Mille casi nascosti, insabbiati, negati e poi faticosamente portati alla luce. Ma basta già lo scandalo esploso ora a Verona, dove decine di ex allievi di un istituto per sordomuti, ormai adulti, hanno denunciato abusi sistematici da parte di esponenti del clero avvenuti nell´arco di un trentennio, per mostrare ciò che può nascondersi dietro la facciata della normalità quotidiana.
Le statistiche (come i processi) negli Stati Uniti sono impietose. Tra il 1950 e il 2004 si sono registrati undicimila casi documentati. Ma tutti i poliziotti sanno che le statistiche dei furti sono per difetto, perché riguardano solo gli episodi denunciati. Lo stesso vale per gli abusi sessuali. E così le cifre realistiche indicano in quaranta-sessantamila i casi di violenza subiti da minori da parte di predatori in tonaca. La media dei preti diocesani coinvolti è del 4,3 per cento. Certe annate di ordinazioni sacerdotali hanno prodotto tassi specialmente alti di preti-predatori. Otto per cento nel 1963, nel ´66, nel ´70, nel ´74. Addirittura 9 per cento nel 1975.
Atti impuri. La piaga dell´abuso sessuale nella Chiesa cattolica (a cura di Mary Gail Frawley-O´ Dea e Virginia Goldner, ed. Raffaello Cortina, pagg. 294, euro 20) non è solo la descrizione di una catastrofe che ha scosso i cattolici americani e portato alla bancarotta per risarcimenti più di una diocesi, ma è soprattutto un´analisi dell´istituzione in cui tutto ciò è potuto avvenire e una riflessione sugli individui colpiti, in maggioranza maschi tra gli undici e i diciassette anni nell´età pre o post-puberale, quando la psiche è maggiormente fragile. Riflessioni e denunce che vengono dall´interno stesso della Chiesa cattolica. Mary Gail Frawley-O´ Dea, una delle curatrici del dossier, è stata l´unica psicoterapeuta ammessa al vertice dei vescovi americani, quando a porte chiuse hanno discusso degli abusi sessuali. Hanno collaborato sacerdoti, religiosi, oltre ad esperti di problemi sessuali, docenti di religione e rappresentanti di altre confessioni cristiane.
Dal dossier emerge un quadro di analisi sfaccettato. Non è di orientamento omosessuale la maggioranza dei colpevoli, ma è l´«opportunità» che favorisce i rapporti con maschi dello stesso sesso. Non è il celibato in sé � come astensione da relazioni sessuali � a favorire le pulsioni all´abuso, ma una concezione del celibato come «integrità» ossessivamente ideologizzata e come «purezza» contrapposta ad una sessualità considerata peccaminosa o di inferiore. Non è tanto questione di trasgredire divieti, ma di personalità che scoppiano perché educate a idealizzare il sacerdozio e che non reggono l´urto con il quotidiano. Del tutto falso, poi, è che questi episodi siano frutto dello spirito libertino contemporaneo, poiché da diciotto secoli la Chiesa ha sancito norme e punizioni (il più delle volte rimaste teoriche) per combattere il fenomeno.
La vicenda non riguarda solo l´America, riguarda l´Italia, l´Irlanda, la Polonia, tutte le nazioni cristiane in misura variabile. L´America è solo il laboratorio di uno studio approfondito che interessa tutta la Chiesa. L´aspetto fondamentale è che le vittime sono «superstiti», carichi di ferite, segnati dall´orrore o dalla manipolazione della propria personalità. «Papa, funzionari del Vaticano e vescovi � scrive il domenicano Thomas Doyle � hanno mancato sistematicamente di accogliere le vittime come fratelli e sorelle in Cristo». Non è questione di brevi incontri dei papi con i «sopravvissuti» né di alcuni interventi, che condannano la mostruosità degli abusi. Il fatto è che finora né Giovanni Paolo II né Benedetto XVI sono arrivati a riconoscere fino in fondo le responsabilità dell´istituzione ecclesiastica e le sue manovre di occultamento. Se l´ex arcivescovo di Boston, cardinale Bernard Law, colpevole di non aver perseguito immediatamente i preti predatori, limitandosi a trasferirli di incarico, viene poi nominato (da papa Wojtyla) arciprete di una delle basiliche più venerande della cristianità, Santa Maria Maggiore, per sistemare lo scandalo dei vertici, l´esempio è assolutamente negativo.
Ancora di più pesa che la maggioranza dei vescovi non abbia saputo instaurare un rapporto umano con le vittime. Troppi vescovi, commenta il gesuita James Martin, hanno finito per anteporre alle vittime gli interessi dei preti violentatori.
Lo si coglie dalle strategie di fuga sistematicamente messe in atto dalla Chiesa allo scoppio di uno scandalo. La vittima ha enormi difficoltà a farsi sentire, i «superiori» invitano al segreto, il primo riflesso è di trasferire i colpevoli in altra parrocchia, poi si accusano i media, infine si pensa che il risarcimento economico chiuda la vicenda, magari concentrando l´attenzione sulla Chiesa «ferita».
Così rimane al centro l´istituzione e non la vittima. E invece gli abusi pongono interrogativi di fondo. E´ pronta la Chiesa a formare preti disposti a crescere con la propria comunità, ad ascoltarla, a considerarsi guide che «imparano» smettendo di autorappresentarsi in versione super-sacralizzata di «altro Cristo»? Il pastore che non è nutrito, sottolinea la pastora anglicana Anne Richardson, «divorerà la pecora».

Repubblica 24.1.09
E Stalin aiutò Israele
Un saggio su come nacque lo stato ebraico
L’Urss sostenne l’istituzione Poi le cose cambiarono. I perché li spiega lo storico Leonid Mlecin
di Luciano Canfora

Anticipiamo parte della prefazione di a Perché Stalin creò Israele di Leonid Mlecin (Sandro Teti editore, pagg. 352, euro 17)

Il Bund, movimento socialdemocratico ebraico, il Posdr, partito operaio socialdemocratico russo di Plechanov e Lenin, e il movimento sionista nacquero quasi contemporaneamente, nel biennio 1897-98. Le relazioni tra Bund e movimento sionista furono, dal principio, molto tese e non meno lo furono quelle tra Bund e socialdemocrazia russa e, più in generale tra Bund e l´Internazionale. Il movimento socialista, Lenin non meno degli altri leader, faceva propria la posizione "assimilazionista" che era stata già messa in atto dalla Rivoluzione francese e trovava contraddittoria, rispetto all´obiettivo del socialismo internazionalista, la scelta "nazionale" dei socialisti del Bund. Ad alcuni però, pur tra le asprezze polemiche, non sfuggiva la peculiarità della situazione degli ebrei e, in particolare, degli operai ebrei. (...)
Queste sono le premesse remote di una vicenda che non si è per nulla esaurita. (...) Essa però ha il suo momento culminante nella scelta sovietica, nel biennio 1944-46, di impegnarsi a fondo per la nascita dello Stato di Israele. (...) Nonostante sia usuale l´accusa di strumentalismo e di Realpolitik nei confronti della politica estera sovietica, sta di fatto che la scelta culminata nel voto sovietico a favore della Risoluzione 181 dell´Assemblea generale dell´Onu, il 26 novembre 1947, che stabiliva la divisione in due della Palestina e la creazione dello Stato di Israele, rappresenta un esito del tutto coerente con le premesse poste quasi tre anni prima alla conferenza sindacale mondiale di Londra, nel febbraio 1945. Qui la delegazione sovietica approvò una risoluzione molto impegnativa e dal contenuto inequivocabile che sollecitava in due direzioni: proteggere gli ebrei contro l´oppressione e la discriminazione in qualunque paese; dare al popolo ebraico la possibilità di costituire un "focolare nazionale" in Palestina (promessa di Balfour dopo il primo conflitto mondiale rimasta disattesa).
La doppiezza c´era in quel momento da parte sovietica. Essa penalizzava gli arabi e in particolare i partiti comunisti dell´area (quello palestinese in particolare) ai quali veniva fatto intendere – per esempio dal console sovietico a Beirut, Ruben Agronov – che il governo sovietico non intendeva, con ciò, esprimersi a favore della creazione di uno Stato ebraico in Palestina. I contraccolpi di tale doppiezza furono ben presto percepiti sul versante del prestigio sovietico nel mondo arabo. Non va dimenticato che nel 1954, quando salirono al potere in Egitto i colonnelli e si affermò il "nasserismo", comunque il partito comunista egiziano fu decimato e messo fuori legge.
Pur mentre la lotta tra potenze portava l´Egitto a un riavvicinamento con l´Urss, l´ostilità araba verso Mosca per la scelta del novembre ´47 perdurava immutata, poiché sarebbe stata decisiva per la nascita di Israele. Si ebbero, all´Assemblea generale dell´Onu, trentatré voti a favore, tredici contro e dieci astensioni. Con l´Urss votarono Ucraina, Bielorussia, Polonia e Cecoslovacchia. Se questi cinque voti fossero passati nel campo dei contrari o degli astenuti, ci sarebbe stato un risultato di parità: ventotto contro ventotto. E la risoluzione per la nascita di Israele sarebbe stata respinta. Si può aggiungere che la Jugoslavia già in rotta di collisione (non ancora palese) con Stalin, si collocò tra gli astenuti.
Appena tre giorni dopo il voto alle Nazioni Unite, esplosero gli scontri in Palestina miranti a impedire l´applicazione della risoluzione relativa alla spartizione della regione. Gli Stati arabi inoltre, sostenuti vigorosamente dall´Inghilterra, opposero un rifiuto netto all´attuazione della Risoluzione 181 e diedero di fatto inizio alle ostilità. Gli Usa furono per non breve tempo in una situazione di paralisi e di incertezza. È fuor di dubbio che proprio le reticenze e incertezze statunitensi di quei mesi diedero ai sovietici la possibilità di inserire un forte elemento di contraddizione tra il movimento sionista e l´alleato "naturale", gli Usa.
Esiste un allarmato rapporto del gennaio 1948 di George Kennan, il teorico della dottrina del "containment" nei confronti dell´Urss, rivolto a spiegare a Truman il rischio della situazione. «Se il piano di spartizione dovrà essere applicato con la forza – spiega Kennan al presidente – l´Urss avrà tutto da guadagnare perché troverà, in tale situazione il pretesto per poter partecipare al "mantenimento dell´ordine" in Palestina. E se le truppe sovietiche entreranno in Palestina per consentire l´attuazione della spartizione, gli agenti comunisti troveranno una base eccellente per estendere le loro attività sovversive, svolgere la loro propaganda, tentare di abbattere gli attuali governi arabi e di installare anche lì delle "democrazie popolari". Forze sovietiche in Palestina sarebbero una minaccia diretta per le nostre posizioni in Grecia, Turchia, Iran, una minaccia a lungo termine per tutto il Mediterraneo».
Kennan prosegue denunciando che l´Urss sta già fornendo armi agli ebrei ma anche ad alcuni tra gli arabi. Nei primi mesi del ´48 gli Usa fanno marcia indietro. Addirittura il 19 marzo Warren Austin, delegato all´Onu, propone di sospendere l´applicazione della Risoluzione 181. (...) Il 23 marzo Gromyko, al Consiglio di sicurezza, denuncia le manovre dilatorie degli Usa miranti a creare una "tutela Onu" sulla Palestina. Ed è la fermezza sovietica all´Onu che porta alla formazione dello Stato ebraico. Nella seduta del 14 maggio ´48 al Consiglio di sicurezza Gromyko respinge tutte le proposte alternative o dilatorie. Scriverà Abba Eban nella sua autobiografia: «L´Urss era la sola potenza mondiale che sostenesse la nostra causa».
La vicenda successiva, quella che Rucker definisce del "secondo stalinismo" vede raffreddarsi progressivamente il rapporto Urss-Israele, sebbene vada pure ricordato che solo l´invio massiccio di armi cecoslovacche, voluto da Stalin, consentì al neonato Stato di Israele di sconfiggere l´attacco concentrico di Egitto e Giordania (armati dagli inglesi) nella prima guerra arabo-israeliana, quella appunto del 1948.
Le cause del progressivo capovolgimento di posizione furono molteplici: la rottura con Tito e l´ossessione staliniana di vedersi affermare posizioni analoghe, di autonomia rispetto all´Urss, nei vertici delle altre democrazie popolari: vertici che, specie in Cecoslovacchia erano in larga parte rappresentati da comunisti di origine ebraica; il forte antisemitismo residuale tuttora allignante sia in Russia che in Ucraina e Polonia; la convinzione che a lungo andare la politica di emigrazione dall´Est Europa in Israele (inizialmente favorita molto intensamente da Stalin) portasse a un danno per gli Stati socialisti "europei". Le tappe della crescente ostilità antiebraica nell´ultimo periodo staliniano sono ben note: dalla vicenda dello "Stato ebraico in Crimea" al mostruoso processo ai medici accusati di aver assassinato Ždanov. (...) Al di là delle oscillazioni tattiche (...), una considerazione si può formulare di fronte al fenomeno più rilevante: quello dell´appoggio netto dell´Urss staliniana alla nascita di Israele-Paese "socialista" nel bel mezzo di monarchie feudali – e del successivo distacco. Anche con altri paesi socialisti affermatisi fuori della stretta azione politico-militare sovietica l´Urss entrò in collisione: Jugoslavia prima, Cina poi. È dunque, forse, l´incapacità della dirigenza staliniana (ma anche kruscioviana e poi brezneviana) ad ammettere la possibilità stessa di un policentrismo dell´area socialista la causa principale di questa vicenda e, alla fine, del crollo stesso dell´Urss.

Corriere della Sera 24.1.09
Election day di giugno Cicchitto (FI) frena: se restano le preferenze noi per il 5%
Europee, voto anche di sabato Pdl e Pd per lo sbarramento al 4%
Udc favorevole, insorgono i «cespugli»: attentato alla democrazia
di Paola Di Caro

I Verdi: intervenga Napolitano. Prc e Sd minacciano ritorsioni verso i democratici sulle alleanze locali

ROMA — Sembrava ormai destinata ad essere accantonata per le divisioni tra e dentro i poli, per l'opposizione dei piccoli partiti, per un clima non adatto al dialogo su alcun tema. E invece, a sorpresa, la legge elettorale per le Europee (che si terranno, conferma il ministro Maroni, il 6 e 7 giugno), potrebbe alla fine davvero essere riformata.
Dopo l'ultimo incontro tra il pd Dario Franceschini e l'azzurro Donato Bruno, infatti, l'accordo sembra riprendere quota, sulla base di un'intesa limitata però all'innalzamento della soglia di esclusione e non più all'abolizione delle preferenze. L'ipotesi di queste ore è che infatti si inserisca uno sbarramento del 4%, via di mezzo tra la richiesta del Pdl (5%) e quella del Pd (3%), percentuale che piace molto al primo partito del centrosinistra («Una soglia c'è in tutta Europa», dice il capogruppo Soro) e che anche il vicecapogruppo del Pdl Italo Bocchino ritiene accettabile, così come l'Udc che ha sempre fatto la sua battaglia contro le preferenze ma che su un paletto già superato alle Politiche non dice no.
E però, a insorgere sono tutti i piccoli partiti, quelli non presenti in Parlamento come Rifondazione, Verdi, Pdci, Sd, Mastella, socialisti di Nencini, liberali, la Destra di Storace, e quelli rappresentati perché eletti in altre liste, come i repubblicani di Nucara, tutti d'accordo a denunciare un'intesa che — raggiunta in extremis a un passo dalle elezioni — rappresenta «un attentato alla democrazia», perché «alle Europee non c'è un problema di governabilità ma di rappresentatività» e dunque la prepotenza sarebbe tale da meritare anche un «intervento del capo dello Stato». Di più: per il Prc e lo Sd l'affronto sarebbe tale da costringerli a «prenderne atto » sul piano delle alleanze locali con il Pd.
Proteste durissime, che hanno il loro peso sulla bilancia, dove d'altra parte, per dirla con il vicecapogruppo del Pdl Gaetano Quagliariello, pesa anche però la volontà dei due grandi partiti di «andare avanti sul consolidamento del bipolarismo, che serve al Paese», e serve al Pd in forte calo di consensi come al Pdl che vuole nascere senza scossoni, se è vero che vengono smentite le voci che vorrebbero un Berlusconi freddo sul varo del nuovo partito e tentato di tornare sui suoi passi tanto da rivalutare una soluzione intermedia come la Federazione tra FI e An: «Il partito si farà, se il 27 marzo è da decidere, ma si farà», assicura il coordinatore di An La Russa, in linea con quanto sostengono i fedelissimi del premier che prevedono anzi un'accelerazione e una conferma dei tempi.
Però, parlare di accordo fatto e siglato sulla legge elettorale è davvero prematuro. Un po' perché, per dirla con il ministro Rotondi, non si capisce «perché il Pdl voglia fare un favore a Veltroni e Casini inserendo lo sbarramento», (e infatti nel Pd dubitano sulle reali intenzioni di Berlusconi), un po' perché è lo stesso capogruppo del Pdl Fabrizio Cicchitto a frenare gli entusiasmi: «Stiamo discutendo, ci sono altri punti da chiarire: i regolamenti, la par condicio... E poi, se non si aboliscono le preferenze, allora noi insistiamo perché la soglia sia alzata al 5%: questa d'altra parte è sempre stata la nostra richiesta ».

Corriere della Sera 24.1.09
Centosessanta opere tra marmi, gessi, bassorilievi, dipinti per mettere in luce un aspetto insolito della poetica del grande artista nel suo dialogo con il passato
Canova. A passo di danza
Amava il teatro e la musica Così molte sue sculture catturavano il movimento
di Francesca Montorfano

Moderno Fidia è stato chiamato. E sicuramente Antonio Canova, già in vita celebrato come il più grande interprete del Neoclassicismo, meglio di ogni altro ha saputo riportare nel mondo la bellezza e la perfezione della scultura greca. «Le opere di Fidia sono una vera carne, cioè la bella natura...», aveva scritto all'amico Quatremère de Quincy, quasi a indicare quello che sarebbe stato il fine della sua arte: rendere in quei suoi marmi così vivi, così palpitanti, lo splendore di seta di un corpo femminile, la gloria immortale di un giovane dio, i sogni e le passioni di tutti gli uomini, perché «sempre sono stati gli uomini composti di carne flessibile e non di bronzo ». E poi, andare più avanti ancora, seguire altre vie, fino misurarsi con il difficile motivo della figura in volo, fino a tradurre in marmo o in dipinto tutto il dinamismo, tutta la grazia e la leggerezza della danza.
A ripercorrere la folgorante carriera dell'artista, conteso da regnanti, papi e ambasciatori, è oggi la mostra ospitata negli spazi di San Domenico a Forlì, la più completa ed emozionante a lui dedicata dopo quella veneziana del 1992 perché indaga aspetti insoliti o ancora poco conosciuti della sua poetica. «Canova è stato un grande innovatore. Il primo a introdurre la rappresentazione del movimento in quei suoi stupefacenti lavori che paiono quasi espandersi nello spazio e che vanno ammirati girandovi tutt'attorno per coglierne appieno la meraviglia. Come nella bellissima Ebe di Forlì che procede lieve, le vesti mosse dal vento, esposta accanto a quella sulla nuvola dell'Ermitage e al Mercurio volante del Giambologna, capolavoro del XVI secolo», commenta Fernando Mazzocca, curatore della rassegna insieme ad Antonio Paolucci e a Sergéj Androsov.
«Il maestro veneto frequentava i teatri, era un grande appassionato di musica e amico del coreografo e ballerino Carlo Blasis, maestro di danza alla Scala di Milano e autore di un celebre trattato sull'argomento. E proprio la raffigurazione della danza è un tema caro all'artista, un motivo ricorrente nelle sue opere». A documentarlo sono lavori straordinari, come la superba Danzatrice col dito al mento destinata al banchiere forlivese Domenico Manzoni, andata dispersa dopo la sua morte ma in seguito approdata ai Musei Civici della città, la Danzatrice con le mani sui fianchi dell'Ermitage già appartenuta all'imperatrice Giuseppina e le delicate figure danzanti delle tempere di Bassano, straordinaria prova di Canova pittore oggi finalmente recuperate all'antico splendore da un sapiente restauro. Una passione, quella di Canova per la danza, che contagiò numerosi artisti del tempo, a partire da Francesco Hayez le cui Danzatrici del Museo Correr di Venezia certamente risentono di quelle canoviane. Le 160 opere esposte a Forlì, tra marmi, gessi, bassorilievi, disegni e dipinti, metteranno infatti a confronto le opere di Canova non solo con i modelli antichi a cui si è ispirato, ma anche con sculture e dipinti di artisti a lui contemporanei. La stessa Ebe, così mirabilmente da lui trattata, fu uno dei motivi prediletti dai maggiori artisti neoclassici, da Reynolds ad Hamilton a Vigéé Le Brun a Lampi, Pellegrini o Landi, i cui lavori creeranno un intrigante gioco di rimandi tra scultura e pittura. Anche uno dei due inediti, già conosciuti alla critica ma esposti per la prima volta al pubblico con nuovi studi, il ritratto ad olio del Principe Lubomirski in veste di Giovannino, evidenzia la versatilità dell'ingegno del-l'artista che del giovane realizzò anche una scultura in marmo.
Straordinari i prestiti che ne celebreranno la grandezza del maestro. I colossali Pugilatori dei Musei Vaticani ispirati a quei Dioscuri del Quirinale da lui a lungo studiati in giovinezza, la Venere Italica di Palazzo Pitti, ritenuta dal Foscolo superiore all'antica Venere dei Medici per l'essere splendida donna oltre che dea e ancora la Maddalena penitente dell'Ermitage, capolavoro che influenzò Hayez con il suo pittoricismo, portandolo a creare la stupenda Maddalena del 1825. Non solo a Fidia o a Prassitele è stato avvicinato Antonio Canova, né solo al divino Raffaello, per quella ricerca del bello ideale che li accomunò. A paragonarlo a Tiziano è stato il suo nuovo modo di fare arte, di ottenere anche con il marmo quegli effetti luministici, quella resa sensuale delle carni della grande pittura veneta.

l’Unità 24.1.09
Il lato oscuro di Antonio Canova
di Renato Barilli

A Forlì in mostra una sua leziosa «Ebe»
Occasione per esplorare invece l’altrasua vena. Che anticipa l’Informale

Il Comune di Forlì, con l’aiuto di una Fondazione bancaria, si è dotato del bel complesso museale del San Domenico, dove tiene mostre annuali. E ora è la volta di celebrare una Ebe, capolavoro di Antonio Canova presente nelle raccolte civiche, il che giustifica l’allestimento di un’esposizione attorno al grande scultore, di cui forse, senza questa presenza in loco, non si sarebbe sentito uno stretto bisogno. Infatti il Canova (1757-1822), dopo una latenza quasi secolare, è riemerso in gloria, al seguito delle rinnovate fortune del Neoclassicismo, e non si contano le sue comparse espositive. Tuttavia forse non si è ancora imboccata la pista giusta per farne un valore ancora provvisto di attualità. La pista giusa non sta certo nell’apprezzare in lui il freddo cultore di un’inanimata concezione appunto neoclassica del bello. Si veda questa Ebe appunto, in sé figuretta insulsa, leziosa, che come tale meriterebbe l’ostracismo decretato contro lo scultore veneto da Roberto Longhi.
LA POETICA DELLA CITAZIONE
La via da percorrere è assai più tortuosa, sta nell’adottare la poetica della citazione, puntualmente rilanciata in seguito da De Chirico, e su su da Giulio Paolini, e magari anche da Jeff Koons. Quei reperti museali, in sé ormai scaduti al livello del kitsch, vanno ripresi «tali e quali», come se si trattasse di ready-made, non molto diversi dalla ruota di biciclette o dallo scolabottiglie di Duchamp. L’artista non «rappresenta», ma assembla oggetti già esistenti. E per esempio, questa Ebe esibisce un’anfora e una coppa che sono proprio «tali e quali». Ma a contrasto con questa ostentata stereotipia nell’artista, come nei suoi fratelli in spirito di altre parti di Europa, Füssli, Blake, Goya, ribolle un lato oscuro, infernale, che produce vampe, attorcimenti impetuosi, giustificati dal panneggio, basta andare a vedere nel retro della statua come le vesti si agitino allo spirare di un vento tempestoso, con soluzioni tali da anticipare l’Espressionismo e l’Informale. Questi aspetti audacemente protesi verso il futuro si colgono ancor meglio nei bassorilievi in gesso, su temi omerici e socratici, che Canova produsse senza poi tradurli in marmo, dato che egli stesso ne intendeva il valore sperimentale, sconveniente ai gusti del neoclassico ufficiale.
TRA BLAKE E GOYA
Infatti in questi pannelli è del tutto negata la prospettiva, le immagini si schiacciano sul piano, come vuole lo spazio dell’età contemporanea, attraversato in un baleno dal rapidissimo trascorrere della luce, ovvero delle onde elettromagnetiche. E le figurette, di Socrate steso sul letto di morte, o dei guerrieri suggeriti dai poemi omerici, si allungano, subiscono la ben nota deformazione stilizzante, volutamente artificiale, antinaturalistica, che è tra i compiti normali di ogni manifestazione «contemporanea» a tutti gli effetti. Da qui la delusione e la condanna di tutti i naturalisti convinti, a cominciare proprio da Roberto Longhi, che giudicava nel nome di Caravaggio o di Courbet.

Liberazione 24.1.09
Il corpo delle donne non si usa
di Anita Sonego

I fatti di Primavalle e di Guidonia non devono farci (soltanto) denunciare, per l'ennesima volta, la violenza sulle donne. Questo giornale ha promosso, più di ogni altro, riflessioni e dibattiti evidenziando la pervicace incapacità dell'intera società ad affrontare in maniera reale questa "emergenza". Anche la sinistra continua non solo ad ignorare la parte "arcaica" presente nella sessualità maschile ma anche a non voler collegare il ripetersi di queste violenze, uccisioni e stupri di donne, al collasso degli istituti preposti all'educazione alle relazioni umane tra le quali quella tra i sessi è particolarmente segnata da un mix di sopruso e dipendenza, bisogno e oppressione, amore e violenza, paura e desiderio. Si continua ad esaltare la famiglia come fantasticato luogo del dispiegamento della cura dei sentimenti senza vedere "di che lagrime grondi e di che sangue", quando tutta l'organizzazione sociale del lavoro e del tempo libero sono imperniati sui valori della produttività e del consumo. La scuola introduce il sette in condotta e le classi differenziali per gli stranieri come antidoto all'incapacità di un progetto educativo alla convivenza tra diversi. Le forme di aggregazione tradizionali, come i partiti, sono ridotte ad apparati per far carriera. Le associazioni "benefiche" dispensano "un piatto per amor di dio" mentre a Lampedusa la popolazione è in rivolta contro gli sbarchi dei sopravvissuti ai naufragi. La sinistra, che un tempo considerava l'urbanistica una scienza che aveva a che fare con la vita dei cittadini, ha lasciato scorazzare i palazzinari nelle periferie delle grandi città. Leggiamo le dichiarazioni di esimi esponenti del Pd di fronte allo stupro di Primavalle e restiamo attoniti. Il ministro-ombra Cerami: «E' un altro caso Reggiani. Le ronde militari, propagandate come una panacea, dove stanno?» e Paola Concia, membro della commissione giustizia alla Camera, che ho conosciuto in tante battaglie per i diritti dei gay e delle lesbiche: «Ci spieghi il sindaco perché è scomparsa l'illuminazione da tante zone di Roma». Ma di che cosa stanno parlando? Si riduce tutto a qualche lampione o a nuovi militari nelle periferie! Viene da pensare che si sia davvero smarrita ogni capacità di comprendere la complessità di una società in crisi, che sta cambiando anche per l'esodo di intere popolazioni ridotte alla fame dalla globalizzazione capitalistica. Ancora una volta il corpo delle donne viene usato per una misera battaglia tra le parti. Il Pd, alla ricerca di consenso, usa la miseria sessuale ed umana per chiedere più controllo, più ordine invece di pretendere più socialità, più giustizia e rispetto dell'umanità di ogni individuo. No. Noi donne non permettiamo che il nostro corpo sia usato né dagli stupratori né da politici privi di prospettive e di progetti per una nuova umana convivenza.

Liberazione 24.1.09
Intervista a Lorena Pasquini della Camera del lavoro di Brescia
«La memoria al futuro sul treno per Auschwitz»
di Maria R. Calderoni

Elena Kluger, sopravvissuta, ricorda: «Mia sorella non aveva gli occhiali. Entra in baracca e dice: "Lo sapete che non vedo bene, ma mi sembra che siano arrivati i russi"». 27 gennaio 1945, era vero: sull'orrore Auschwitz erano piombati i tank della LX Armata Ucraina. Dei deportati, 1 milione e 300 mila, i sovietici ne trovano ancora in vita solo 7 mila, di tutti gli altri erano rimasti 8 tonnellate di capelli, imballati e pronti per il trasporto.
27 gennaio, il giorno-simbolo, il Giorno della Memoria. E anche quest'anno il "Treno" parte. Il Treno per Auschwitz. E' il quinto, dal gennaio 2005. Il quinto Treno per Auschwitz partirà oggi dal "binario 21" della stazione centrale di Milano per il viaggio di 4 giorni - rientro il 27 - sui luoghi della Deportazione. Non solo "Viaggio". Il Treno è anche una storia, da raccontare.
Auschwitz, il nome-simbolo della Shoah, come custodirlo, mantenerlo vivo tra noi, come ricordarlo non come monumento, ma come incancellabile dolore, rimorso e monito? La domanda è per Lorena Pasquini, direttrice dell' Archivio storico della Camera del lavoro di Brescia, promotore - insieme a Cgil e Cisl della Lombardia - del Treno che parte oggi da Milano. «E' dagli anni 90 che lavoriamo sulla costruzione della Memoria. E in questa ricerca, abbiamo pensato che sarebbe stato non solo bello, ma importante, significativo, essere in tanti, a costruirla, la Memoria. In tanti a costruirla, in tanti ad esserci, in tanti ad andarci, là, a vedere. In tanti,un grande gruppo di persone. Il Treno, l'idea del Treno è venuta di conseguenza. L'idea di attraversare l'Europa, lentamente - quasi a ripercorrere in un certo senso il viaggio delle vittime - teneva insieme le due esigenze del nostro progetto: andare in molti e soprattutto partecipare».
Il Sindacato ha da sempre «anche una funzione pedagogica», dice la direttrice dell'Archivio storico - Per noi costruzione della Memoria, lavoro sulla Memoria, significa quindi soprattutto questo, un progetto di educazione civica. E un progetto di educazione civica, per essere tale, richiede di essere impostato sulla partecipazione». Ad evitare il rischio che si resti fermi lì, alla commemorazione, alle esercitazioni accademiche, alla pura celebrazione: ben vengano convegni, ricerche e manifestazioni. «Ma noi pensiamo che la partecipazione, il mettersi in gioco valga di più, conti di più».
L'idea del Treno nasce da qui. Nasce a Brescia, dentro la sua grande Camera del lavoro, ma non si ferma a Brescia. C'è subito un consenso spontaneo e fervido, aderiscono al progetto molte altre realtà. Come la Fondazione "Memoria della Deportazione" di Milano; il Museo dell'ex "Campo di Fossoli" di Carpi; l'Istituto storico del Movimento per la liberazione. Naturalmente, era "la prima volta" per tutti, un po' un azzardo, dice la direttrice, ma comunque nessuno si è tirato indietro, «siamo partiti tutti, col primo Treno, nel gennaio 2005».
Primo Treno, 600 persone in carrozza, sono soprattutto studenti, almeno 300, bresciani, milanesi, emiliani - scuola media superiore - ma in buona rappresentanza sono anche cittadini, sindacalisti, insegnanti, pensionati, ex partigiani: «Il nostro infatti non è mai stato rivolto esclusivamente alle scuole. Pensato come progetto di educazione civica e partecipazione e quindi aperto a tutta la cittadinanza attiva».
Carpi, ex "Campo Fossoli", da qui Primo Levi prese la via per Auschwitz insieme ad altri 146 ebrei. Così nel 2006, sull'esempio del Treno bresciano, un altro convoglio prende il via proprio da qui, dalla stessa stazione di Carpi; sullo striscione le parole dell'autore di Se questo è un uomo , «se comprendere è impossibile, conoscere è necessario».
Quella che parte sabato è la settima edizione, le iniziative si sono moltiplicate; l'Emilia Romagna oggi ha un suo Treno: così la Provincia di Milano, mentre sulla stessa via si muovono Comuni, enti, associazioni. Il sindacato si è allargato, ha fatto proseliti.
Guardando più da vicino, e anche per età, chi "sale" sul Treno per Auschwitz, studenti a parte? «Fondamentalmente, si tratta di questa generazione, quaranta-cinquantenni, molto consapevoli, molto compartecipi, sensibili; e "salgono" anche famiglie intere, alcuni portano i figli piccoli; molti comuni mandano delegazioni soprattutto di giovani. E sul nostro Treno di sabato ci sarà anche una consistente rappresentanza di pensionati».
No, non è un giro turistico. il Treno è un laboratorio consapevole, preparato, costruito con ricerche e corsi di formazione, docenti e ragazzi che lavorano insieme per mesi, veri seminari mirati di storia, cinema, letteratura. Sul Treno salirà tutto, innsieme ragazzi, bandiere, striscioni, disegni, dossier, spettacoli, poesie, canzoni (una dice "sono qui per non scordare, insieme a te"...).
«Mai. Mai si è creato sul Treno un clima da gita. I ragazzi lo vivono come emotività, gli adulti come conoscenza». E quando questi giovani mettono piede nel lager? «Impressionante: i ragazzi tacciono. Restano in assoluto silenzio. E' una cosa che io sottolineo sempre: perché questo loro silenzio è veramente la prova della difficoltà dei giovani a gestire emozioni così forti, che non sono sicuramente le nostre. Ragazzi di 16 anni non hanno certo i filtri che abbiamo noi, e il loro silenzio merita assoluto rispetto».
I filtri, che nessuno può accettare; i filtri per quell'orrore pianificato e mostruoso, «il triangolo rosso per i prigionieri politici , verde per i criminali comuni, nero per gli "asociali", viola per i Testimoni di Geova, marrone per gli zingari, la stella gialla per gli ebrei». E un numero tatuato sul braccio sinistro, «dovevo essere chiamato 158526...».
In silenzio, "ragazzi che sanno", «del milione e trecentomila deportati di Auschwitz, novecentomila furono uccisi subito dopo il loro arrivo e 200 mila poco dopo per fame, malattie, maltrattamenti». In silenzio, "ragazzi che sanno", Auschwitz I, Auschwitz II, Auschwitz III, Birkenau e i suoi infernali 39 "sottocampi", quelli dove milioni di nuovi schiavi lavorarono fino a morire all'insegna della Grande Industria Tedesca, la IG Farben (perirono 25 mila su 35 mila), la Bayer, la Krupp, la Union, la Siemens, la Werke...
Quel Treno per Auschwitz.

Liberazione 24.1.09
Fino a metà marzo, il Teatro della Cooperativa di Storti al Maap
Processo artistico e disagio mentale
A Milano, ricordando Basaglia
di Federico Raponi

Arte e disturbo mentale sono sempre stati strettamente connessi: per la sofferenza personale che il processo creativo può comportare (e viceversa), per l'isolamento a cui la società in genere tende a relegarla, per la necessità di comunicatività e socializzazione da parte di chi ne è portatore. Va da sé, quindi, che anche la scena teatrale stia dedicando attenzione al trentennale della Legge 180.
A Milano, da metà gennaio a metà marzo, il cuore della stagione del Teatro della Cooperativa è incentrato sulla rassegna multidisciplinare Basaglia e la diversità , patrocinata dalla Provincia, dall'ospedale di Niguarda e con il contributo della Camera del lavoro cittadina. Nel progetto di Renato Sarti, direttore della compagnia (oltrechè autore e attore, insieme a Bebo Storti, di lavori come Mai morti , La Nave fantasma , Io santo tu beato ), la programmazione in onore della rivoluzione psichiatrica vuole essere un viaggio tra normalità e follia, per riflettere sulla malattia mentale e su come e quanto il processo artistico, nelle sue diverse espressioni, abbia aiutato il singolo a trovare un equilibrio o semplicemente ad esternare il disagio interiore; considerando perciò la creatività, proprio unitamente a queste funzioni, un percorribile e proficuo canale di collegamento tra mondo esterno e patologia personale, a volte capace di rivelazioni sorprendenti.
Dopo l'allestimento - nell'atrio del teatro stesso - dell'esposizione "Psicol'abile", con opere realizzate nelle Botteghe del MAPP (Museo d'Arte Paolo Pini, ex ospedale psichiatrico), l'apertura al pubblico ha preso il via mercoledì 21 scorso allo Spazio Tadini, luogo non solo espositivo ma in cui si promuovono anche la comunicazione tra le arti e gli artisti e dibattiti culturali.
La giornata ha visto Storti impegnato nella lettura di brani tratti da Charles Bukowski, preceduto dall'inaugurazione della mostra di pittura dei triestini Pedra Zandegiacomo (1903-1987, subì ripetuti ricoveri) e Ugo Pierri, scelti per la loro forza espressiva e capacità di racconto del malessere psichico. La provenienza geografica dei due ha una precisa ragione: «il primo teatro dove ho lavorato a Trieste - spiega Sarti - è stato quello all'interno dell'ospedale psichiatrico San Giovanni. Si provava con la porta aperta e gli utenti, questo era l'accordo stabilito con Basaglia (che ne era allora direttore, prima di provvederne alla chiusura, ndr), potevano entrare durante le prove e gli spettacoli. Nel '74 sono venuto a Milano a fare teatro, ma i loro sguardi e le loro storie, che rivelano di quali nefandezze e brutalità sia stato capace il sistema psichiatrico, fanno parte indelebilmente della mia». Il giorno successivo, grazie all'Associazione Arca Onlus e ancora al Mapp, Ale e Franz insieme a Rossana Mola hanno dato voce a Folle amore , poesie e pensieri degli ospiti del Pini raccolti da chi nella struttura ha lavorato («un gesto - raccontano Teresa Melorio e Enza Bacchi, due delle curatrici - emozionante, carico di attenzione e rispetto, un'occasione per contemplare il sacro che appartiene alla natura umana e ascoltare chi ha saputo esprimersi nella solitudine»).
Parte del ricavato dell'iniziativa servirà alla pubblicazione dell'omonimo libro. Per gli spettacoli, tra le differenti serate ne sono previste due "Teatribù" (basate sull'improvvisazione sul tema della diversità) e altre con Paolo Rossi, Vitaliano Trevisan, i clown della scuola del centro sociale Torchiera, Davide Anzalone, Anna Meacci e tre giovani artisti.

il Riformista 24.1.09
Ultime notizie/1 La carta stampata stenta a sopravvivere nella recessione
Solo i quotidiani stanno peggio delle banche
di Fabrizio Goria

Rotative. Sarkozy prova a salvare i giornali francesi con 600 milioni, regalando un abbonamento a tutti i ragazzi che diventano maggiorenni. Ma nel resto del mondo continuano a soffrire: dal New York Times all'Evening Standard: i lettori non sono tanti, ma la pubblicità è ancora meno. Per fortuna ci sarà sempre bisogno di giornali. O no?
Dopo aver aiutato con 6 miliardi il settore dell'auto, il presidente francese Nicolas Sarkozy ha annunciato ieri 600 milioni in tre anni per un altra industria che «lo Stato ha il dovere di aiutare»: i giornali. Arriveranno direttamente dal bilancio pubblico i soldi a difesa di un'informazione che è minacciata dal crollo delle entrate pubblicitarie e da una struttura industriale troppo costosa: rinvio dell'aumento delle tariffe postali, il raddoppio delle spese di comunicazione istituzionale dello Stato, sostegno alle edicole e alle società che consegnano i quotidiani a domicilio, un anno di abbonamento gratuito a un quotidiano per ogni ragazzo che compie la maggiore età.
La crisi, dopo aver colpito le Borse, sta infatti facendo sentire i suoi effetti anche nel mondo dell'editoria. Il caso del New York Times è forse il più emblematico, ma il prestigioso quotidiano americano non è il solo ad essere in difficoltà. Dall'Europa al Sud America sono moltissime le testate che lottano per sopravvivere. Per il New York Times i primi presagi del definitivo aggravarsi della situazione si sono avvertiti nello scorso dicembre, le agenzie di stampa hanno battuto la notizia dell'ipoteca del grattacielo di Manhattan, progettato solo pochi anni fa da Renzo Piano, che ospita la redazione principale del giornale. La famiglia Sulzberger, che controlla il pacchetto di maggioranza della NY Times Company, ha deciso di vendere il 58 per cento della proprietà sull'immobile per trovare la liquidità per circa 225 milioni di dollari. Ci ha pensato Carlos Slim Helu, magnate messicano delle telecomunicazioni e secondo uomo più ricco al mondo secondo la rivista Forbes. Con un'iniezione di denaro di 250 milioni di dollari, sotto forma di warrant, Slim ha aumentato la propria partecipazione nella Times Company dal 6,8 per cento, fino al raggiungimento del 17 per cento. Sembra scongiurato, almeno nel breve termine, un fallimento del quotidiano newyorkese, anche se circolano voci su possibili scorpori di altri giornali del gruppo in perdita, come il Boston Globe, il secondo più grande tra quelli controllati dai Sulzberger, e la squadra di baseball dei Red Sox.
La bancarotta invece ha colpito il Chicago Tribune, principale giornale della città del presidente Barack Obama. Il 9 dicembre scorso l'editore ha richiesto l'iscrizione al Chapter 11 del codice fallimentare statunitense, che prevede l'amministrazione controllata della società in crisi per consentire ai creditori di recuperare quanto possibile vendonde i pezzi al miglior offerente. Un duro colpo per l'azienda, anche alla luce delle difficoltà in cui versa anche l'altro quotidiano edito dalla Tribune Company, il Los Angeles Times. Secondo uno studio di Lazard Bank, ammontano a 13 miliardi di dollari i debiti del gruppo.
In Europa la situazione è quasi altrettanto grave. In Francia la crisi dell'editoria si avverte e da molto tempo: Le Monde tra mille polemiche e declinismi ha ridimensionato nello scorso aprile il proprio organico di 130 unità, fra cui 80 redattori. Per la prima volta nella storia del giornale c'è perfino stato uno sciopero. Numerosi giornalisti hanno dato la colpa alla gestione di Jean-Marie Colombani, storico direttore, e Alain Minc, ex presidente del consiglio di sorveglianza della società editrice. «Colombani ha allargato il gruppo comperando testate. Minc ha allargato l' azionariato. Questi sono i risultati», dicono i giornalisti. Risultati che sono pesanti: oltre 150 milioni di euro di debiti e una perdita d'esercizio pari a 20 milioni solo nel 2007. Anche nel Regno Unito si cominciano a raccogliere storie di crisi editoriali. L'Evening Standard, quotidiano serale di Londra ha ripianato i suoi debiti, stimati in 22 milioni di sterline, tramite capitali provenienti dall'Est. Il miliardario russo ed ex agente del Kgb Alexander Lebedev ha acquistato con una cifra simbolica la quota di maggioranza dell'editore, il Daily Mail & General Trust, che comunque conserverà il 24,9 per cento delle azioni. Il tutto mentre crollano le vendite del quotidiano simbolo della stampa progressista, il Guardian: nel 2008 oltre il 20 per cento di venduto in meno rispetto al 2007. Sul versante tedesco preoccupa la Westdeutsche Allgemeine Zeitung (WAZ), che con oltre 550mila copie al giorno è uno dei maggiori giornali a diffusione regionale, oltre che un colosso editoriale a capo di 38 differenti testate. In dicembre ha annunciato tagli al personale, mentre crollano i proventi delle pubblicità. In Spagna il madrileno El Mundo, di proprietà dell'italiana RCS MediaGroup, ha subito una pesante flessione delle vendite che ha contribuito ad affossare il titolo RCS nel listino di Piazza Affari. I risultati di gestione allo scorso 30 settembre registravano un calo di oltre 9 mila copie giornaliere vendute da El Mundo, a causa «dell'intensa attività promozionale attuata dalle testate concorrenti» come continua la nota del gruppo editoriale.
Nemmeno il Brasile si salva da una contrazione della vendita dei quotidiani, come dimostra il caso di O Globo. Regge, in compenso, la controparte televisiva del gruppo editoriale, TV Globo, che macina successi di audience. Le cause della crisi, a detta degli analisti di Bloomberg, vanno ricercate nelle «diminuzioni degli investimenti e della raccolta pubblicitaria», senza dimenticare i nuovi supporti elettronici. Amazon Kindle è lo spauracchio numero uno per gli editori: un lettore di e-book che permette di visualizzare in mobilità i quotidiani, tramite un collegamento internet senza fili integrato nel sistema. «Restrizione del credito, crisi globale ed internet stanno affossando l'editoria tradizionale, ma della carta stampata ci sarà sempre bisogno» rassicura Michael Bloomberg, fondatore del network americano e attuale sindaco di New York.

il Riformista 24.1.09
Ultime notizie/2 Da Repubblica al Sole 24 Ore, si riducono organici e stipendi, anche per i collaboratori
Novanta cent a riga, anche in Italia si taglia
di Paola Nania

Rassegna stampa. L'agenzia Dire sta per chiudere, l'Agi sciopera, i grandi gruppi pensano di chiedere lo stato di crisi e mentre le aziende tagliano le inserzioni pubblicitarie, gli editori sperano nell'intervento del Governo.

Anche se in Italia ancora non si convocano gli Stati Generali dell'editoria, la situazione non è migliore che in Francia o Stati Uniti. Se mercoledì, tanto per fare un esempio, si fosse fatta una ricerca tra le agenzie Agi, si sarebbe trovato solo il seguente messaggio: «L'Agenzia Italia sospende le trasmissioni nella giornata del 21 gennaio per lo sciopero di 24 ore proclamato dall'assemblea dei giornalisti». Niente notizie per protestare contro il piano di tagli e prepensionamenti proposto dall'azienda contro la crisi che contagia inevitabilmente anche l'Italia: 21 prepensionamenti su 90 redattori in organico e nessun rinnovo agli otto contratti a termine, rispediti a casa.
«Scricchiolii preoccupanti» - li definisce il segretario generale della Fnsi (il sindacato dei giornalisti italiani), Franco Siddi - che arrivano da moltissime aziende del settore. Il gruppo che unisce Qn- Quotidiano Nazionale, Il Resto del Carlino e La Nazione ha mandato a casa prima del tempo 36 dipendenti. La redazione di La 7 combatte da mesi contro il taglio di 25 giornalisti, che ormai è quasi cosa fatta. Si vocifera di possibili sforbiciate anche in templi come il Corriere della Sera e la Repubblica, con il gruppo Espresso che starebbe per chiedere lo stato di crisi (per ristrutturarsi con meno vincoli); la piccola agenzia di stampa Dire galleggia da tempo tra il rischio di chiusura e indiscrezioni - che nessuno però si sente di confermare - che parlano della fusione con un'altra agenzia, l'Asca. Intanto qualcuno chiude, come la rivista Tutto Turismo della casa editrice Domus ed Emme, l'inserto dell'Unità, curato dal vignettista Sergio Staino (i redattori del settimanale hanno diffuso nei giorni scorsi un comunicato preoccupato).
Se non si taglia sulle risorse umane, si taglia in molti casi sui compensi. Così il prestigioso Sole 24 Ore ha inviato una lettera a tutti i suoi collaboratori (in molti casi giovani professionisti), avvisandoli che - visti i tempi - un articolo sarà pagato 90 centesimi per riga scritta e non più 1 euro (-10 per cento). Tagli più consistenti per i collaboratori di lusso, a cui il direttore Ferruccio De Bortoli ha comunicato una riduzione del 25 per cento, tagli analoghi li ha decisi anche il gruppo Espresso.
Che i problemi ci siano lo conferma anche il presidente della Federazione italiana degli editori, Carlo Malinconico. «Le difficoltà - spiega - erano iniziate già nel 2008 a causa di problemi strutturali legati a un mercato nuovo, fatto di web e multimedialità. Ma la situazione è peggiorata con l'arrivo della crisi globale». Crisi che, nel caso dell'editoria, si è tradotta in un calo delle copie vendute ma soprattutto in un calo vertiginoso della pubblicità: secondo la società di ricerche di mercato degli analisti di Nielsen, gli investimenti nel periodo gennaio-novembre 2008 sono scesi del 2,1 per cento rispetto all'anno precedente, con una tendenza al peggioramento. Nel solo mese di novembre si è perso il 13,4 per cento di introiti rispetto al novembre 2007. Perdite che nessuno può permettersi di sottovalutare, visto che nei ricavi della stampa quotidiana la pubblicità ha raggiunto la soglia del 50 per cento degli introiti complessivi mentre la vendita delle copie rappresenta il 34 per cento (dati Agcom).
«L'eccezionalità di questa crisi - prosegue il presidente Fieg - necessita di mezzi straordinari per affrontarla». Le richieste degli editori al Governo vanno dal credito agevolato alla reintroduzione del credito d'imposta per la carta. Dall'esecutivo una prima aperture è arrivata con l'emendamento al decreto anticrisi che prevede lo stanziamento di 10 milioni di euro per l'Inpgi, l'istituto di previdenza dei giornalisti, da utilizzare per alcuni prepensionamenti (166 - secondo le stime dell'Istituto - considerando uno scivolo di cinque anni). Emendamento apprezzato dalla Fieg che parla però di «sistema abbozzato», che richiederebbe ulteriori aggiustamenti a partire dalla platea compresa in questo tipo di ammortizzatori (esclusi per esempio i giornalisti di periodici oltre che radio, tv e web. Compresi solo dipendenti di carta stampata quotidiana e agenzie di stampa). Della stessa opinione, cosa rara per altro, anche l'Fnsi che con Franco Siddi parla di «bicchiere mezzo pieno» e mette in guardia dal rischio di misure episodiche e non strutturali, incapaci quindi di fronteggiare difficoltà di lungo termine. Intanto i tagli vanno avanti. Per il presidente degli editori è difficile fare previsioni per il 2009, «certo - aggiunge - i licenziamenti non devono essere un tabù, accompagnati ovviamente dagli ammortizzatori sociali». Ammortizzatori che però al momento non comprendono i tantissimi precari.

La Stampa 24.1.09
L'addio di Vendola guarda a D’Alema
Oggi il Prc si spacca. Gli scissionisti sperano nella débacle di Veltroni
di Riccardo Barenghi

Ottantotto anni e tre giorni fa, la prima scissione che diede vita al Partito comunista italiano, quella di Livorno. Oggi e domani va in scena a Chianciano l'ultima replica delle infinite diaspore che hanno segnato la vita della sinistra e che non è certo paragonabile a quella del 1921. Tuttavia succede che l'ultimo partito comunista rimasto in vita (fatta eccezione per alcune schegge che sopravvivono a se stesse), cioè Rifondazione, venga abbandonata dai suoi massimi dirigenti: Fausto Bertinotti, che non rinnova la tessera, Franco Giordano, Gennaro Migliore, Nichi Vendo la. Che stamattina spiegherà come e perché bisogna andar via da «un partito che non esiste più», candidandosi a essere il leader della nuova Cosa che nascerà. E che dovrà decidere tutto, dai candidati ai dirigenti, fino alle scelte politiche più importanti attraverso le primarie. Un rovesciamento seccco della tradizione, i dirigenti decidon la base ratifica.
Ma è una Cosa o come la chiamano loro un «nuovo soggetto», ancora tutto da costruire, addirittura da definire nella sue forme e nei suoi contenuti. Intanto perché nasce zoppa visto che saranno molti quelli dell'area vendoliana (forse un terzo, forse la metà) che, pur condividendo il progetto di costruire una forza politica denominata La Sinistra insieme a Fava e Mussi e a un pezzo dei Verdi, resteranno con Ferrero. Almeno per un po'. Poi - giurano ma chissà - raggiungeranno i loro compagni una volta che il «soggetto» avrà preso forma. Già, ma che forma avrà, che roba sarà, sarà un Partito, sarà un associazione, sarà un cartello elettorale, si presenterà alle europee? Non si sa, non lo sanno neanche i protagonisti dell'avventura.
C'è chi vuole farne subito un Partito e chi no. Tra i primi si segnalano i giovani e soprattutto la Sinistra democratica di Fava. Tra i secondi, per citarne uno solo (ma basta e avanza), c'è Fausto Bertinotti. II quale resta sempre il deus ex machina, il leader dei suoi «ragazzi». Di quelli che escono e di quelli che restano. Ai primi ha detto che «fate bene ad andarvene», ai secondi «che non fate male a restare». Un posizione ecumenica ma non troppo, visto che tra il «bene» e il «non male» c'è una differenza, e che soprattutto prelude a un'idea di più lungo respiro. L'ex presidente della Camera, infatti, scommette su un terremoto che potrebbe investire il Partito democratico dopo le elezioni europee. Quando auspica un «big bang» come occasione per «ricostruire una sinistra che non esiste più», si riferisce a quello che potrebbe accadere nel Pd in caso di débacle elettorale. Cioè che alla fine i soci fondatori di quel Partito, che lui considera «un fallimento politico», decidano di separarsi. Potrebbe allora nascere un Partito di sinistra a impronta dalemiana e uno di centro, diretto da Rutelli e Casini. E' evidente, questo il ragionamento di Bertinotti, che se La Sinistra si farà trovare pronta per partecipare alla costruzione di un nuovo Partito (chiamiamolo socialdemocratico) avrà molte più chance di ritornare in campo. Se invece fosse già strutturata, - organismi, leader, circoli - sarebbe tutto più difficile. Dunque, sì alla scissione ma anche sì a quelli che non scindono: calma e gesso, compagni, e speriamo nel big bang di Veltroni.
Strategia che viene fuori anche dal libro di Franco Giordano e Andrea Colombo, con prefazione dello stesso Bertinotti (Nessun dio ci salverà, Donzelli, 15 euro). Leggendolo si capisce chiaramente che gli ex leader di Rifondazione guardano a D'Alema come futuro interlocutore e magari come compagno di viaggio. Lo stesso D'Alema che non a caso aveva tifato esplicitamente per loro nella battaglia congressuale perduta. Nel suo libro, Giordano svela un paio di retroscena inediti, per esempio che l'allora ministro della Difesa Parisi spinse Rifondazione a organizzare manifestazioni per impedire la costruzione della base di Vicenza che anche lui considerava una scelta sbagliata (Parisi ieri ha smentito). Poi però, spiega Giordano confermando nei fatti la rivelazione, «fummo lasciati soli perché si qecise di infliggere un colpo durissimo alla sinistra, in modo da poter procedere con le politiche economico-sociali per le quali noi rappresentavamo un impedimento». Impedimento che quasi un anno dopo (secondo retro scena svelato nel libro), lo stesso segretario aveva pensato di eliminare. D'accordo con Bertinotti, aveva infatti deciso di uscire dal governo Prodi, «ma il gruppo dirigente bocciò la proposta». Quel gruppo dirigente era formato da Giordano, Migliore, Russo Spena e il ministro Ferrero. Se ne deduce che fu proprio Ferrero a opporsi, cioè quello che dalla sconfitta in poi ha sparato a zero sul governo di cui faceva parte. E che così è riuscito a vincere il congresso e a diventare segretario di Rifondazione. Un Partito di cui, da domani, ne resterà in piedi poco più della metà.

venerdì 23 gennaio 2009

l’Unità 23.1.09
Eluana, crociata dei vescovi contro la sentenza dello Stato
di Federica Fantozzi


Rimini, Bologna, Udine, Torino: l’interventismo degli arcivescovi nelle città in cui si apre una finestra per ospitare la ragazza in coma da 17 anni. Poletto: «La legge di Dio prevale, i medici facciano obiezione».
Riappare come probabile l’approdo di Eluana Englaro in Friuli, terra d’origine del padre: la clinica di Udine “La Quiete”, non convenzionata con la Regione, di proprietà comunale e con un consiglio di amministrazione in maggioranza favorevole, potrebbe accogliere la ragazza in coma da 17 anni nei prossimi giorni. Dopo la decisione del Tar della Lombardia sul veto imposto da Formigoni a tutte le strutture sul suo territorio.
La politica e la chiesa
Contro l’esecuzione della sentenza definitiva che autorizza lo stop alle cure, tuttavia, si muove l’offensiva a tenaglia di due soggetti egualmente motivati quanto potenti. Da un lato, il ministro del Welfare Sacconi che ieri ha avvertito: «Tutti i soggetti pubblici e privati sono tenuti a rispettare i principi del sistema sanitario nazionale a pena di sanzioni». Sull’altro versante si muove la Chiesa con un interventismo puntuale, mirato sulle singole regioni in cui si aprano finestre, efficacissimo sulla politica locale. Udine, Bologna, Rimini, Torino: cardinali che, neanche fossero consiglieri dell’opposizione, esprimono ad alta voce e a mezzo stampa il diniego preventivo. Nel silenzio ormai solido dei partiti di centrosinistra che alle lacerazioni interne preferiscono l’afonia. Salvo eccezioni tacciono i cattolici democratici. Su questo giornale Stefano Rodotà ha denunciato «il silenzio negativo dell’opposizione» che ha fatto mancare il «clima giusto alla battaglia di civiltà» di Beppino Englaro. E domenica, nella piazza di Lecco sferzata dal nevischio, il Radicale Marco Cappato ha salutato i partecipanti alla fiaccolata: «Siamo qualche centinaio, un buon risultato. Se la manifestazione l’avessero organizzata i grandi partiti sarebbe oceanica, purtroppo non è così...».
L’offensiva
Nel deserto di chi la pensa altrimenti, la campagna “per la vita” della Chiesa affonda come una lama nel burro. Passa dall’epoca Ruini che disse no ai funerali religiosi di Welby a quella Bagnasco che nega un accanimento terapeutico. Previe solidarietà e preghiere per la sofferenza dei familiari, ma senza sconti. Durante la tormentata «riflessione» della “Città di Udine”, il dissenso dell’arcivescovo Pietro Brollo è stato costante. Con l’anno nuovo, la disponibilità di Bologna si era appena affacciata sull’intricato scenario della vicenda Englaro, quando l’arcivescovo della città, cardinale Carlo Caffarra, ha fatto sapere urbi et orbi la sua contrarietà: «Sarebbe un atto gravissimo in primo luogo contro Dio, autore e signore della vita. Un atto non per la vita ma per la soppressione della vita».
Poi un avviso più concreto al governatore Errani, che pure si era limitato a dire che Stato e Regioni non possono intervenire sulla libera scelta di chiunque: «Da cittadino rilevo che anche l’Emilia deve obbedire alla Carta che non prevede l’eutanasia». Era il 19 gennaio. Poco dopo: l’ufficializzazione del no da parte del PdL emiliano, la spaccatura del consiglio comunale bolognese con la scelta del Pd di rinviare ogni decisione.
Due giorni dopo sulla ventilata disponibilità della Asl di Rimini si esprime il vescovo monsignor Lambiasi dichiarandosi in sintonia con Caffarra: «Affrettare la morte non è segno di pietà». E nonostante il prelato abbia precisato di non sapere se l’ipotesi «abbia fondamento», la via romagnola non decolla. Ieri, di fronte alla prima inequivoca presa di posizione di un presidente di Regione (Tondo era stato coraggioso, ma a titolo personale), la piemontese Mercedes Bresso, l’intervento del cardinale di Torino Severino Poletto: «Se la legge dell’uomo entra in contrasto con quella di Dio - ha detto a Repubblica - deve prevalere la seconda. Togliere cibo e acqua sarebbe eutanasia: i medici facciano obiezione di coscienza».
Nessuno fuori dal coro
Nessun distinguo trova spazio. La lettera di Natale dei dieci preti di frontiera friulani, tra cui Don Di Piazza e Don Vatta, che difendevano le ragioni dei genitori di Eluana è stata derubricata a «posizioni personali» con la raccomandazione a non reiterarle. Stessa accoglienza per i quattro confratelli toscani. Un appello firmato, tra gli altri, da Don Bizzotto, Don Gallo e Don Mazzi, esprime «sconcerto e amarezza per la posizione dei vertici ecclesiastici, la pietà ci sembra dimenticata».

l’Unità 23.1.09
«La Chiesa invita a non rispettare la legge. Non può farlo»
di Maria Zegarelli


Il Governatore del Piemonte: il cardinal Poletto vuol far coincidere
le convinzioni religiose con la politica. Il centrodestra come sempre
sta modificando le cose. Sacconi definisce disabile Eluana, non è così

Il resoconto del botta e risposta andato avanti per tutto il giorno è copioso. Il cardinal Severino Poletto ha detto che sul caso Englaro i medici devono fare obiezione di coscienza. La legge di uno Stato non può andare contro la legge di Dio. Mercedes Bresso ha replicato che «non viviamo in una Repubblica di ayatollah».
Presidente, Mantovano definisce «incivile» la sua replica al cardinal Poletto. Perché ha pensato agli ayatollah?
L’obiezione di coscienza, non esiste nell’ordinamento, vale solo per la legge 194, quindi quello del cardinal Poletto è un invito a non rispettare la legge vigente. Tuttavia sono convinta che nessuno possa essere obbligato a compiere azioni contrarie alla propria coscienza. Per questo una legge sul testamento biologico deve prevedere l’obiezione di coscienza che, ne sono certa, i medici adotterebbero con grande cautela. Sappiamo tutti per esperienza personale che i medici, cattolici e non, continuamente prendono decisioni insieme alla famiglia su quando interrompere le terapie. Soltanto la politica, nell’ipocrisia di questo dibattito, fa finta di non saperlo.
Quindi non è stato esagerato usare quel termine?
La parola ayatollah non è un insulto, indica i capi religiosi che per un insieme di circostanze hanno ottenuto il potere temporale e hanno fatto coincidere la legge religiosa con quella politica. L’appello lanciato da Poletto non va in quella direzione?
Sul caso di Eluana Englaro la politica
sta scrivendo fiumi di parole. Non è incivile anche questo atteggiamento?
La confusione fra Stato e Chiesa provoca solo danni. Il dibattito politico da un lato è incivile perché non tiene conto della discrezione che si dovrebbe avere in un caso del genere e del fatto che in uno Stato di diritto vanno rispettate le sentenze, dall’altro perché mira a criminalizzare chiunque ritenga - in questo caso la famiglia Englaro - di essere titolare di un diritto.
Il ministro Sacconi dice di aver fatto riferimento, tra l’altro, alla Convenzione delle Nazioni unite.
Il centrodestra, come è nel suo stile, sta modificando uno stato di fatto. Sacconi parla di Eluana come di una disabile e sta insinuando che il padre vuole ucciderla, quando tutti sappiamo che la vita di Eluana è artificiale. Si sostiene che alimentazione e idratazione non sono trattamenti medici e questo è un falso voluto,, al punto che Sacconi considera questi trattamenti nei Livelli Essenziali di Assistenza, cioè nelle cure, le stesse che il paziente può rifiutare, ma noi, istituzioni, no.
C’è una sentenza che rischia di restare inattuata a causa di una circolare ministeriale. Può accadere in uno Stato laico?
Il ministro non può dare una interpretazione autentica della legge, spetta alla magistratura e le leggi le fanno i parlamenti. Nel caso specifico, poi, né io, né Sacconi, né tutti quelli che parlano, possiamo sostituirci al lavoro che hanno svolto medici e giudici prima di arrivare, con grande prudenza, ad una decisione. C’è chi la accusa di aver riacceso la polemica senza che nessuno le avesse chiesto nulla. Come mai si è espressa sul caso Englaro?
Mi è stata fatta una domanda da un giornalista e ho dato una risposta. Per quanto mi riguarda nella mia Regione non ci sono ostacoli, la grande maggioranza degli operatori sanitari del Piemonte ha dato la propria disponibilità.
Lei pensa che si arrivi ad una legge?
Anche in presenza di una legge sarebbe sempre necessaria una figura di tutela, in caso di conflitto tra medico e famiglia, per esempio. La legge serve soprattutto per conoscere l’orientamento della persona, se invece andasse a porre limitazioni rischierebbe di toccare un principio non violabile dell’ordinamento: il diritto a decidere sulla propria persona. Il principio dell’habeas corpus è un principio inviolabile del diritto occidentale.
Come mai si parla sempre meno di laicità?
Da quando i cattolici non sono più largamente rappresentati dallo stesso partito, c’è una caccia aperta al loro voto e spesso ci si dimentica che ci sono tanti cattolici laici.
Sta dicendo che lo stato era più laico con la Dc?
Probabilmente sì, la Dc spesso aveva atteggiamenti laici nei confronti del rapporto con la Chiesa.

Repubblica 23.1.09
"Non è il paese degli ayatollah" Eluana, la Bresso attacca Poletto
Piemonte, nuovo scontro. Sacconi: campagna ideologica
Per chi crede in Dio le sue leggi prevalgono su quelle dell’uomo
di Marco Trabucco


TORINO - «Non viviamo in un repubblica di ayatollah, nella quale il diritto religioso fa premio sul diritto civile». Nella vicenda di Eluana Englaro, Mercedes Bresso non fa passi indietro. Prima replica all´arcivescovo di Torino, Severino Poletto che aveva detto che la legge di Dio è superiore a quella dell´uomo e invitato i medici all´obiezione di coscienza: «Credo sia un errore per la Chiesa entrare a gamba tesa su una materia delicata in cui dovrebbe essere più madre che maestra. Si possono richiamare i credenti, ma i diktat li fanno gli Stati a guida religiosa». Poi costringe il ministro Sacconi a rispiegare, in una lunga nota, il perché del suo no alla sentenza della Cassazione e incassa il silenzio imbarazzato di Berlusconi e la solidarietà di centinaia di simpatizzanti su facebook e sul suo blog.
Non riesce però a trascinarsi dietro un Pd, ancora una volta dilaniato dai contrasti tra laici e cattolici. Se mercoledì il concittadino Sergio Chiamparino le aveva dato appoggio incondizionato, meno entusiasta è sembrato ieri quello di Walter Veltroni: «Nel caso di Eluana, meno entra la politica, meglio è - ha detto il segretario dei Democratici - c´è una sentenza e quindi il governo in primo luogo, ma la politica in generale devono avere rispetto di una procedura di carattere legale che ha anche risvolti umani». Parole per cui è stata necessaria, qualche minuto dopo, una precisazione: «La presidente Bresso sta facendo ciò che è giusto, garantendo l´autonomia delle strutture sanitarie rispetto a forme di pressione politica. L´importante è che non ci siano strumentalizzazioni da parte dei partiti». Non ha usato mezzi termini invece, per criticarla, Gianfranco Morgando, segretario del Pd piemontese che ha aggiunto le sue parole a quelle dei tanti altri cattolici (da Rosi Bindi a Luigi Bobba) che nei giorni scorsi avevano già detto no Bresso. Un vero anatema è però quello di Luigi Amicone, direttore della rivista cattolica Tempi: «Scusi, signora Bresso, - scrive - ma di quale diritto religioso e ayatollah stiamo parlando? Non si fanno morire così, per fame e per sete, come si vorrebbe far morire quella ragazza, nemmeno i cavalli. Se la morte di Eluana troverà casa in Piemonte, sarà grazie al suo volenteroso presidente». Bresso non si scompone: «Sull´obiezione sono d´accordo con il cardinal Poletto: nel nostro paese è consentita solo per l´interruzione di gravidanza, ma è evidente che va rispettata anche in un caso del genere. Nessuno può essere obbligato a fare qualcosa se ritiene di non poterlo fare. Però penso sia altrettanto disumano pretendere che una persona che è in stato vegetativo debba essere tenuta artificialmente in vita con strazio della famiglia». L´ultima replica è a Maurizio Sacconi, il ministro del Welfare che in una nota aveva rispiegato il suo no agli Englaro: «La sentenza della Cassazione - aveva scritto Sacconi - ha efficacia solo nel caso specifico e attribuisce una mera facoltà al tutore di Eluana, ma non dispone obblighi per le strutture del servizio sanitario nazionale. Non siamo noi ad aver fatto un´ingerenza politica, semmai l´ha fatta Bresso». «Se dico che non ci tireremmo indietro di fronte a una richiesta degli Englaro - risponde la presidente del Piemonte - è perché abbiamo accertato la disponibilità delle nostre strutture. Proprio a loro si rivolgerà la famiglia, se lo riterrà un eventuale accordo non deve passare attraverso di noi. E in ogni caso garantiremo l´assoluto riserbo».

Repubblica 23.1.09
Se il cardinale parla come un ayatollah
risponde Corrado Augias


Gentile Augias, il cardinale Poletto identifica la legge di Dio con la legge della Chiesa, però il riconoscimento da parte della stessa Chiesa d'aver commesso gravi errori, dimostra che non di rado i suoi insegnamenti si sono allontanati dalla legge di Dio. Se Eluana fosse vissuta in tempi passati, o in Paesi privi di strutture moderne, se ne sarebbe andata, e il cardinale avrebbe detto: il Signore se l'è presa.
Miriam Della Croce

Caro Augias, avanzo l'auspicio che si arrivi a sdoganare il termine «eutanasia», togliendolo dalla palude dei tabù verbali branditi come un'arma dai custodi della Verità, per riportarlo al suo vero significato, etimologico e profondamente umano, che non è sicuramente quello che vorrebbero farci credere: "soluzione finale" e "culto della morte".
Paolo Tufari

Gentile Augias, quando il Cardinale afferma che rispettare la volontà di Eluana, così coraggiosamente difesa dal suo papà, è un "atto contro Dio", si deve insorgere e dire ad alta voce che devono smetterla di avvalersi di parole così inopportune e lesive della dignità e della libertà delle persone.
Elio Zago

La clamorosa e sconsiderata uscita del cardinale si presterebbe a varie considerazioni che devo purtroppo tralasciare. Sto alla storia della Chiesa la quale sugli argomenti che oggi condensiamo sotto il termine 'bioetica', compreso in questo il famoso e dibattuto `inizio della vita', ha più volte cambiato idea nel corso dei secoli. Giustamente cambiato idea, aggiungo, poiché le cognizioni scientifiche, nonché le tecnologie, si aggiornano e il pensiero deve seguirle per non passare dalla fede alla superstizione. Stante però questo ondeggiante pensiero la domanda che ognuno dovrebbe farsi è: dov'è, qual è la vera Legge di Dio? è possibile che la Legge di Dio cambi con il progredire degli strumenti disponibili o della dislocazione nel tempo (mondo antico, Medio Evo, modernità) e nello spazio (Europa, Africa, deserti caucasici)? La seconda domanda al cardinale, con ogni dovuto rispetto, è: signor cardinale lei si rende conto che in questo paese c'è una Costituzione alla quale ciascun cittadino deve obbedienza? Si rende conto che le sue parole, alla luce di quella carta, suonano quasi eversive? Oltre a confinare l'Italia al livello di un paese da Ayatollah? Glielo ha già ricordato opportunamente la governatrice piemontese Mercedes Bresso la quale, in questa occasione, ha dimostrato una fermezza repubblicana di cui altri esponenti politici, a destra e a sinistra, sembrano essersi purtroppo dimenticati.

Repubblica 23.1.09
La rivoluzione di un padre
di Roberto Saviano


Beppino Englaro, il papà di Eluana, sta dando forza e senso alle istituzioni italiane e alla possibilità che un cittadino del nostro Paese, nonostante tutto, possa ancora sperare nelle leggi e nella giustizia. Ciò credo debba essere evidente anche per chi non accetta di voler sospendere uno stato vegetativo permanente e ritiene che ogni forma di vita, anche la più inerte, debba essere tutelata.
Mi sono chiesto perché Beppino Englaro, come qualcuno del resto gli aveva suggerito, non avesse ritenuto opportuno risolvere tutto "all´italiana". Molti negli ospedali sussurrano: "Perché farne una battaglia simbolica? La portava in Olanda e tutto si risolveva". Altri ancora consigliavano il solito metodo silenzioso, due carte da cento euro a un´infermiera esperta e tutto si risolveva subito e in silenzio. Come nel film "Le invasioni barbariche", dove un professore canadese ormai malato terminale e in preda a feroci dolori si raccoglie con amici e familiari in una casa su un lago e grazie al sostegno economico del figlio e a una brava infermiera pratica clandestinamente l´eutanasia.
Mi chiedo perché e con quale spirito accetta tutto questo clamore. Perché non prende esempio da chi silenziosamente emigra alla ricerca della felicità, sempre che le proprie finanze glielo permettano. Alla ricerca di tecniche di fecondazione in Italia proibite o alla ricerca di una fine dignitosa. Con l´amara consapevolezza che oramai non si emigra dall´Italia solo per trovare lavoro, ma anche per nascere e per morire. Nella vicenda Englaro ritornano sotto veste nuova quelle formule lontane e polverose che ci ripetevano all´università durante le lezioni di filosofia. Il principio kantiano: "Agisci in modo che tu possa volere che la massima delle tue azioni divenga universale" si fa carne e sudore. E forse solo in questa circostanza riesci a spiegarti la storia di Socrate e capisci solo ora dopo averla ascoltata migliaia di volte perché ha bevuto la cicuta e non è scappato. Tutto questo ritorna attuale e risulta evidente che quel voler restare, quella via di fuga ignorata, anzi aborrita è molto più di una campagna a favore di una singola morte dignitosa, è una battaglia in difesa della vita di tutti. E per questo Beppino, nonostante il suo dramma privato, ha dovuto subire l´accusa di essere un padre che vuole togliere acqua e cibo alla propria figlia, contro coloro che dileggiano la Suprema Corte e contro chi minaccia sanzioni e ritorsioni per le Regioni che accettino di accogliere la sua causa, nel pieno rispetto di una sentenza della Corte di cassazione.
L´unica risposta che ho trovato a questa domanda, la più plausibile, è che la lotta quotidiana di Beppino Englaro non sia solo per Eluana, sua figlia, ma anche e soprattutto in difesa del Diritto, perché è chiaro che la vita del Diritto è diritto alla vita. Beppino Englaro con la sua battaglia sta aprendo una nuova strada, sta dimostrando che in Italia si può e si deve restare utilizzando gli strumenti che la democrazia mette a disposizione. In Italia non esiste nulla di più rivoluzionario della certezza del Diritto. E mi viene in mente che tutelare la certezza dei diritti, la certezza dei crediti, costituirebbe la stangata definitiva all´economia criminale. Se fosse possibile, nella mia terra, rivolgersi a un tribunale per veder riconosciuto, in un tempo congruo, la fondatezza del proprio diritto, non si avvertirebbe certo il bisogno di ricorrere a soluzioni altre. Beppino questo sta dimostrando al Paese. Non sarebbe necessario ricorrere al potere di dissuasione delle organizzazioni criminali, che al Sud hanno il monopolio, illegale, nel fruttuoso business del recupero crediti. E a lui il merito di aver insegnato a questo Paese che è ancora possibile rivolgersi alle istituzioni e alla magistratura per vedere affermati i propri diritti in un momento di profonda e tangibile sfiducia. E nonostante tutte le traversie burocratiche, è lì a dimostrare che nel diritto deve esistere la possibilità di trovare una soluzione.
Per una volta in Italia la coscienza e il diritto non emigrano. Per una volta non si va via per ottenere qualcosa, o soltanto per chiederla. Per una volta non si cerca altrove di essere ascoltati, qualsiasi cittadino italiano, comunque la pensi non può non considerare Beppino Englaro un uomo che sta restituendo al nostro Paese quella dignità che spesso noi stessi gli togliamo. Immagino che Beppino Englaro, guardando la sua Eluana, sappia che il dolore di sua figlia è il dolore di ogni singolo individuo che lotta per l´affermazione dei propri diritti. Se avesse agito in silenzio, trovando scorciatoie a lui sarebbe rimasto forse solo il suo dolore. Rivolgendosi al diritto, combattendo all´interno delle istituzioni e con le istituzioni, chiedendo che la sentenza della Suprema Corte sia rispettata, ha fatto sì, invece, che il dolore per una figlia in coma da 17 anni, smettesse di essere un dolore privato e diventasse anche il mio, il nostro, dolore. Ha fatto riscoprire una delle meraviglie dimenticate del principio democratico, l´empatia. Quando il dolore di uno è il dolore di tutti. E così il diritto di uno diviene il diritto di tutti.

l’Unità 23.1.09
Arrigo Boldrini, la Resistenza che non odiava il nemico
di Bruno Gravagnuolo


Non è una lite di paese quella a Ravenna sulla memoria di Arrigo Bodrini. Né la foto ingiallita della solita rissa di provincia tra fascisti e antifascisti. È la solita storia italiana: la destra italiana che non si riconosce nella Resistenza da cui viene la Repubblica. E che perciò si rifiuta di rendere onore a uno dei capi militari di quella stagione. Uno dei più intelligenti e moderati. Unanimemente riconosciuto come tale dagli Alleati nel 1945, dai monarchici, dai cattolici, dai liberali, e naturalmente dalle popolazioni che subirono la ferocia nazifascista nel ravennate, tra l’8 settembre 1943 e il 4 dicembre 1944, data della liberazione di Ravenna.
E così dopo le gazzarre a Ravenna per l’inaugurazione di un busto a Boldrini nel palazzo Comunale, e l’annuncio del sindaco di volergli intitolare una via, arriva l’ennesima guerriglia ideologica del Pdl e dei casiniani locali contro Bulow - nome di battaglia di Boldrini - in occasione delle celebrazioni di sabato a Ravenna, a un anno dalla scomparsa del leggendario comandante, presidente dell’Anpi fino al 1994. Capi di imputazione: aver coperto i crimini partigiani nella zona, essere stato uno stalinista, un feroce regolatore di conti e insomma uomo di divisione e di guerra civile. Non degno di incarnare spirito civico e memoria democratica in questa Italia. Accuse false e rilanciate in questi anni dai libri di Giampaolo Pansa e prima ancora dall’opera di uno storico free-lancer riminese, Gianfranco Stella. Autore nel 1991 di un libro - Ravennati contro - che accusava Boldrini di aver comandato o secondato l’eccidio di Codevigo nel maggio 1945, dove furono uccisi 107 fascisti in fuga (di cui 70 ravennati) catturati da uomini della 28ma Brigata Garibaldi (comandata da Boldrini) e della divisione Cremona aggregata (inquadrate nell’VIII armata inglese del generale Mc Creerly). In realtà svariati processi hanno fatto luce sui fatti, escludendo ogni resposabilità di Boldrini per quegli eccididi avvenuti nei dintorni di Padova, ancora in tempo di operazioni militari. Il tutto a pochi giorni dalla liberazione di Venezia e con i nazifascisti in fuga, dopo aver massacrato e fatto terra bruciata sia nel ravennate che in Veneto. Tra il primo e il 10 maggio vengono così catturati 120 sbandati, dalla 28ma e dalla «Cremona» fatta di militari. E fucilati a gruppi senza processo(ma molti furono i morti vittime di faide tra fascisti in lotta per il bottino requisito e detenuto). Boldrini in quel momento è in retrovia, e ha assunto un ruolo di rappresentanza politica e militare della Resistenza. Partecipa in tale veste a incontri con i vertici dell’Italia liberata, dopo essere stato decorato con la medagli d’oro dal generale Mc Creely il 4 febbrario 1945.
Va a Roma, poi ad Adria, incontra Umberto di Savoia, gira da nord a sud. Difficile che avesse potuto comandare un tale eccidio, sfuggito al controllo in zone ancora di completa anarchia. E del resto una sentenza del 1954 lo scagiona interamente, come pure lo scagiona la causa vinta contro Sgarbi e Cossiga, che lo avevavano chiamato in causa ai primi degli anni 90. Mentre un altra sentenza, relativa alle accuse di Stella, pur riconoscendo a quest’ultimo il diritto storiografico di accusare Boldrini, non entra nel merito né avalla in alcun modo le sue tesi. Dunque, il solito polverone. Che tenta invano di nascondere l’essenziale. Primo: Boldrini-Bulow fu un uomo equilibrato e ragionevole. Teorizzò la discesa in pianura dei partgiani e il loro inserimento in città: tra braccianti e contadini. Realtà che voleva unificare senza settarismo e senza vendette, capaci di incrinare il consenso alla Resistenza. Volle poi l’unità con gli Alleati ed era contrario ad alzate di testa insurrezionali. Anche perché capiva che le rese dei conti dopo la fine del fascismo non potevano che essere tragiche e incontrollate. Non fu mai un antifascista cieco, e sostenne sempre che la libertà doveva valere anche per i fascisti. Non a caso era amico di infanzia di Benigno Zaccagnini, e persino Casini si è smarcato dalla faziosità degli Udc di Ravenna. Di più. Lo stesso Pansa non ha mai osato di fatto attaccare frontalmente Bulow. Ha sempre e solo scritto: «Quelli di Bulow». Non può inveire di più.

Repubblica 23.1.09
Il vescovo: "L´olocausto non è mai esistito"
Frasi shock del lefevriano Williamson. Imbarazzo in Vaticano, che era pronto a revocare la scomunica
L’antisemitismo può essere cattivo solo quando è contro la verità, non se c’è qualcosa di vero
di Andrea Tarquini


BERLINO - Le dichiarazioni rese a una tv svedese da monsignor Richard Williamson, un vescovo consacrato da monsignor Lefebvre, annunciano nuove tensioni nei rapporti già problematici e freddi tra Santa Sede e comunità ebraiche e Israele. Monsignor Williamson ha infatti detto al canale tv svedese Svt1 che secondo lui le camere a gas dell´Olocausto nazista non sono mai esistite. La notizia è emersa proprio mentre, secondo resoconti di stampa italiani, papa Benedetto XVI si preparerebbe a revocare la scomunica contro i vescovi della Fraternità di san Pio X, cioè l´ordine tradizionalista fondato da monsignor Lefevbre. E si studierebbe una soluzione, scriveva ieri sera l´agenzia AdnKronos, per trovare un´inquadratura alla Fraternità nell´ambito della Chiesa cattolica.
I fatti risalgono secondo i resoconti stampa al novembre dell´anno scorso, ma Der Spiegel e il canale tv svedese li hanno resi noti ieri. Monsignor Richard Williamson, 68 anni, ex anglicano convertito al cattolicesimo e consacrato vescovo anni fa da monsignor Lefebvre, era presso Regensburg per la consacrazione di diaconi. La cerimonia aveva suscitato interesse nei media di Stoccolma perché tra i consacrandi c´era un convertito svedese, Sven Sandmark. Dopo la cerimonia, monsignor Williamson ha dunque concesso un´intervista al canale Svt1 della televisione svedese. L´intervistatore lo ha interrogato sull´Olocausto e sulle camere a gas. Williamson, come riportano Spiegel e la Agence France Presse, avrebbe espresso prima, indirettamente, i suoi dubbi sull´entità dell´Olocausto. Poi il giornalista gli ha chiesto se lui non credesse che sei milioni di ebrei furono uccisi dai nazisti nei Lager. La risposta: «Sì, la penso così, secondo me le camere a gas non sono mai esistite». Il presule ha poi detto in sostanza di condividere l´opinione dei revisionisti (la corrente di storici e politici che nega l´Olocausto) e ha aggiunto di ritenere che al massimo duecentomila o trecentomila ebrei morirono nei campi di concentramenti nazisti, ma che le camere a gas secondo lui non sono mai esistite. Ha fornito spiegazioni tecniche dettagliate, facendo notare l´altezza e la forma secondo lui inadeguate dei camini e le porte che secondo lui non erano stagne, cioè non erano a prova di gas.
Richiesto dal giornalista svedese se si ritenesse antisemita e cosa pensasse dell´antisemitismo, monsignor Williamson ha risposto: «L´antisemitismo può essere cattivo solo quando è contro la verità, ma se c´è qualcosa di vero non può essere cattivo. Non sono interessato alla parola antisemitismo». Il Consiglio delle comunità ebraiche tedesche ha chiesto l´apertura di un´indagine per verificare se esistano gli estremi per denunciare Williamson, poiché in Germania negare l´Olocausto è reato penale. Franz Schmidburger, responsabile della Fraternità in Germania (non scomunicato perché non è vescovo e la scomunica tocca solo i vescovi) afferma che gli ebrei oggi portano la colpa del deicidio, finché non prenderanno le distanze dai loro avi e non riconosceranno la natura divina di Gesù Cristo. Su questo sfondo, si attende di sapere se è vero che la Santa Sede prepara un ritiro della scomunica per i vescovi �lefebvriani´. Sono quattro: Williamson stesso, lo svizzero Bernard Fellay, il francese Bernard Tissier de Maillerais e lo spagnolo Alfonso de Galarreta.

Repubblica 23.1.09
Saracinesche bloccate col silicone Roma, raid contro i negozi ebraici
di Renata Mambelli e Laura Serloni


Colpiti una ventina di esercizi, anche se non tutti di commercianti ebrei
Il gesto vandalico nel quartiere Africano. Inchiesta per istigazione all´odio razziale

ROMA - Non sono riusciti ad aprire le serrande dei negozi i commercianti di viale Libia a Roma che ieri mattina hanno trovato i lucchetti delle saracinesche bloccati dal silicone. Dei ventidue esercizi colpiti otto sono di negozianti ebrei. L´azione è stata rivendicata dall´associazione di estrema destra Militia con uno striscione appeso a piazza Annibaliano - "Boicotta Israele. Militia" - corredato da un fascio littorio.
Vittime dell´aggressione le piccole botteghe tradizionali della via commerciale nel cuore del quartiere Africano. È stato impossibile per gli esercenti riuscire a infilare la chiave nel lucchetto: sono stati costretti a chiamare un fabbro e solo dopo le 11 di mattina hanno potuto aprire i loro negozi al pubblico come ogni giorno. «È vergognoso - dice Giacomo Sonnino, che da anni vende abiti da uomo e donna in viale Libia - anche perché non è la prima volta: già lo scorso anno ci hanno incollato le saracinesche e ci hanno riempito di scritte le vetrine». I vetri sono stati sfregiati da oggetti appuntiti con cui i vandali hanno inciso alcune frasi, prive però di significato politico. «Credo che non sia un atto antisemita - commenta Giuseppina Nolano - anche perché io sono di religione cattolica ma hanno colpito anche il mio negozio». Minimizza pure Armando Calò, presidente dell´associazione commercianti di viale Libia: «Io penso che si sia trattato di un atto vandalico. Su 22 negozi ai quali sono state incollate le serrande meno della metà è gestito da persone di religione ebraica, piuttosto parlerei di un atto di demenza. Comunque chiediamo alle istituzioni un maggiore controllo del territorio, anche perché con i cantieri per la costruzione della linea B1 della metropolitana viale Libia la sera è meno illuminato».
Resta il fatto che questo è solo l´ultimo di una lunga serie di atti di antisemitismo nella capitale. Nella notte tra l´11 e il 12 gennaio scritte antisemite e pro Hamas erano comparse a piazza Bologna, sempre su alcuni negozi di proprietà di commercianti ebrei, e due giorni dopo le sedi di alcuni organi di informazione erano state presi di mira con scritte contro gli ebrei e lanci di vernice rossa. Su quei fatti la procura della Repubblica di Roma ha aperto un´inchiesta per istigazione all´odio razziale e danneggiamento, mentre le indagini sugli episodi di ieri sono condotte dagli agenti della polizia di Stato del commissariato Vescovio. Solidarietà ai commercianti colpiti dall´atto vandalico è arrivata dal sindaco Alemanno, che ha promesso che saranno risarciti a spese del Comune di Roma, e da tutte le forze politiche e istituzionali della città.

Repubblica 23.1.09
Un piccolo paese brasiliano vanta il record dei parti gemellari Bimbi biondi e con gli occhi azzurri. Lì visse il medico di Hitler
L’ombra di Mengele nel "villaggio ariano"
di Omero Ciai


BRASILIA. Candido Godoi è un paesino di settemila abitanti nel ricco sud brasiliano, a nord ovest di Porto Alegre, vicino alla frontiera con il Paraguay. E´ famoso per la sua altissima percentuale di gemelli monozigoti perfettamente identici, tanto che all´inizio della strada principale c´è un cartello di benvenuto con scritto: «La città dei gemelli». Oggi ce ne sono circa un centinaio di coppie. Sono quasi tutti biondi con gli occhi azzurri ma fin qui non c´è nulla di strano visto che Candido Godoi nasce come colonia rurale fondata da un gruppo di tedeschi. Quel che ha sempre stupido i ricercatori e i cronisti è il loro numero. A Candido Godoi si calcola che in alcuni periodi della sua storia un parto ogni cinque fosse gemellare mentre la norma statistica vorrebbe che fossero circa uno ogni ottanta. Ora, secondo lo storico argentino Jorge Camarasa il motivo di questa stranezza si chiama Joseph Mengele. Il criminale nazista che, dopo aver svolto i suoi folli esperimenti ad Auschwitz, fuggì prima a Buenos Aires, poi in Paraguay ed infine nel sud del Brasile, dove morì nel 1979.
Jorge Camarasa è un ex giornalista del Clarin che vive a Cordoba ed un riconosciuto esperto della storia dei nazisti in America Latina. Ha seguito per anni le tracce del medico di Auschwitz ed ora ha pubblicato "Mengele: l´angelo della morte in Sudamerica". Nel libro Camarasa sostiene che Candido Godoi fu, tra gli anni Sessanta e Settanta, il "laboratorio" nel quale Mengele proseguì gli esperimenti sull´inseminazione artificiale iniziati vent´anni prima nel campo di concentramento. E la presenza di Mengele a Candido Godoi spiegherebbe il mistero dei gemelli. Camarasa ricorda che Mengele aveva avuto da Hitler il compito di scoprire attraverso quale meccanismo genetico si producessero i gemelli con l´obiettivo di incrementare la tassa di natalità ariana. Dalla ricostruzione di Camarasa, Mengele arrivò nel villaggio di Candido Godoi alla metà degli anni Sessanta, poco prima della nascita della prima coppia di gemelli. Si faceva chiamare Rudolph Weiss e si presentava come veterinario. Nei primi tempi, si recava nel paesino ogni tanto, conservando la sua residenza in un´altra colonia tedesca dall´altra parte della frontiera, in Paraguay. «Poi iniziò ad occuparsi delle donne, seguendone con attenzione le gravidanze», hanno raccontato allo storico gli abitanti del paesino.
Intervistato dal Daily Telegraph, Camarasa sostiene di essersi convinto che Weiss e Mengele fossero la stessa persona. «Le testimonianze raccontano - dice lo storico argentino - delle sue visite alle donne, di come abbia seguito le loro gravidanze curandole con nuovi tipi di medicinali e che abbia parlato di inseminazione artificiale sugli essere umani». Per Camarasa solo la presenza di Mengele a Candido Godoi può spiegare il mistero dei gemelli. Il criminale nazista arrivò a Buenos Aires nel 1949 munito di un passaporto falso a nome di Helmut Gregor insieme ad altre due centinaia di gerarchi del Terzo Reich in fuga dalla Germania. All´inizio lavorò in una officina meccanica ma, più tardi e grazie a Peron (il presidente che aveva approvato e seguito l´arrivo dei nazisti in Argentina), riprese i suoi esperimenti in alcuni laboratori farmacologici. Ma quando nel 1960 il Mossad riuscì a catturare a Buenos Aires, e a trasferire in Israele, Adolf Eichmann, Mengele lasciò l´Argentina per paura di fare la stessa fine. All´inizio trovò rifugio in una colonia tedesca in Paraguay, poi si trasferì in Brasile. Mengele visse i suoi anni in America Latina sempre sotto falso nome. Nel 1979 morì mentre si faceva il bagno colpito da un ictus a Bertioga, in Brasile. Venne sepolto con il nome di Wolfang Gerhard a Embu e solo nel 1985 il corpo venne riesumato e grazie all´esame del Dna identificato come quello del medico di Auschwitz.
Nel libro, Camarasa ricostruisce tutta l´avventura sudamericana di Mengele grazie anche a testimonianze inedite di persone che lo conobbero e a quaderni e diari che lasciò. Per Camarasa, a Candido Godoi Mengele voleva riprodurre «una città ariana» per eccellenza. Secondo il famoso cacciatore di nazisti Simon Weisenthal, Mengele non interruppe mai i rapporti con la sua f

Repubblica 23.1.09
Primo Levi
Un racconto per capire cos’è l’orrore
di Stefano Giovanardi


In occasione della giornata della memoria tornano, con il quotidiano e il settimanale, i capolavori dello scrittore che narrò l´inferno di Auschwitz e l’abiezione dell’uomo

«Ho vissuto la mia vita nel Lager più razionalmente che ho potuto, e ho scritto Se questo è un uomo per tentare di spiegare agli altri, e a me stesso, gli eventi in cui mi ero trovato coinvolto, ma senza particolari intenti letterari». Così nel 1986 Primo Levi rispondeva a Philip Roth, che lo era andato a trovare a Torino per intervistarlo. In quelle poche parole c´è forse per intero la formula principe dell´impegno etico, civile ed estetico dello scrittore: capire e spiegare, anche ciò che è mostruosamente incomprensibile e inspiegabile; esercitare ad ogni costo la razionalità al suo livello più alto, che è la capacità di discernere, classificare, sistematizzare, anche in situazioni estreme, tragicamente inaudite per l´essere umano e per la sua storia; e non "mistificare" i risultati di quella strenua attività con la consolazione della dimensione estetica, con quelli che egli chiamava «intenti letterari»: quasi che la quota di falsificazione geneticamente connessa - per quanto discreta essa sia -, alla letteratura mal si accordasse con la testimonianza autobiografica, che per poter «spiegare agli altri» doveva essere innanzitutto integralmente veritiera.
E infatti bisognerà aspettare il 1982 per veder uscire il suo primo e unico vero "romanzo", quel Se non ora, quando? frutto di una «scommessa» con se stesso, come rivela ancora a Roth: «Dopo così tanta autobiografia più o meno camuffata, sei o non sei uno scrittore in piena regola, capace di costruire un romanzo, creare personaggi, descrivere paesaggi che non hai mai visto? Provaci!».
Ma si trattava, appunto, di una scommessa, quasi di un gioco, seppur ancora tutto impregnato della tragedia dell´Olocausto (di nuovo a Roth: «Avevo intenzione di divertirmi scrivendo una storia "western", ambientata in un paesaggio insolito per l´Italia»). Ciò che per lui contava davvero restava la comunicazione in diretta del suo sforzo, per molti versi eroico e forse infine vano, di far entrare nel dominio della ragione sovrana gli orrori di cui aveva dovuto esser testimone.
Di famiglia appartenente alla borghesia ebraica torinese, non ancora uscito dall´adolescenza, gli era toccato il trauma dell´antisemitismo e poco dopo delle leggi razziali. «I nostri compagni di scuola "ariani" ci prendevano in giro», racconta allo scrittore americano, «dicendo che la circoncisione equivaleva alla castrazione, e noi, almeno a livello inconscio, tendevamo a crederci». Ma anche su questi punti così dolenti, mantiene intatta la sua onestà intellettuale. Due anni prima aveva infatti detto a Tullio Regge, nel bellissimo dialogo pubblicato da Einaudi: «Di tutti i miei compagni d´università, studenti e studentesse, non ce n´è stato uno che mi abbia chiamato "ebreo". Hanno tutti percepito le leggi razziali o come una sciocchezza o come una crudeltà, o tutt´e due». E aveva appena riconosciuto: «Ho avuto la laurea con lode e sono convinto che questa lode mi sia stata data per un 40 per cento per merito mio e per il resto perché i professori, quasi tutti vagamente antifascisti, avevano trovato quel modo per esprimere il loro dissenso».
Con lode, com´è noto, si era laureato in chimica nel 1941, a ventidue anni. Ma prima la guerra e poi Auschwitz gli impedirono di diventare lo scienziato che avrebbe voluto. Si accontentò perciò di essere un «tecnico» e si applicò sempre al suo lavoro con dedizione e rigore: come il muratore italiano suo compagno d´internamento, che odiava i nazisti, ma che se doveva costruire un muro nel campo, lo faceva con assoluta perizia e precisione, non certo per complicità con gli aguzzini, ma per «dignità professionale». E Faussone, l´operaio suo dichiarato alter ego ne La chiave a stella, è appunto il campione di un culto del lavoro ben superiore a qualsiasi consapevolezza politica, a qualsiasi scelta di campo ideologica: un culto squisitamente morale, che ha a che vedere con la missione esistenziale dell´uomo, sul senso del suo lasciare un segno, del suo inviare, agendo, un messaggio al microcosmo che lo attornia, e che però è specchio dei vari macrocosmi sovrordinati, così come l´individuo dovrebbe sempre essere specchio dei tratti migliori dell´umanità.
Coscienza civile, si è detto. Ma per Primo Levi le cose erano forse addirittura più semplici. Per lui bastava esercitare la ragione, al meglio delle sue facoltà analitiche e sintetiche, e tutto sarebbe venuto di conseguenza. Lui intanto, con la ragione, è riuscito, se non a sconfiggere, almeno a ritenere possibile Auschwitz, e dunque a integrarlo nell´eterna vicenda di orrori e meraviglie che scandisce la storia dell´uomo.
Uomo lo scrupoloso muratore e uomini i suoi carnefici. Se questo è un uomo, appunto.
Non è stato ancora del tutto sciolto il dubbio sul volo nella tromba delle scale della sua casa torinese che nel 1987 ha posto fine alla sua vita: se si sia cioè trattato di suicidio o sciagurato incidente. I più propendono per la prima ipotesi, ma c´è ancora qualcuno cui piace pensare che la volontà indomita di testimoniare, capire e spiegare non avrebbe consentito allo scrittore una fuga così eclatante e definitiva. Certo, a leggere la più volte citata conversazione con Philip Roth, avvenuta appena un anno prima della morte, nulla fa presagire un esito così drammatico. Ma se anche infine avesse ceduto, dichiarando a se stesso e al mondo una sconfitta invano elusa per quarant´anni, rimarrebbe intatto, e anzi forse ulteriormente esaltato, il valore etico del suo messaggio: anche se si è condannati dentro dalla violenza cieca degli uomini, si può continuare a sentirsi uomini. E nell’uomo sperare.

Repubblica 23.1.09
Parla Françoise Carasso
Quel testimone che tutti devono leggere
di Leonetta Bentivoglio


«La chiarezza come partito preso ha sospinto l´intera esistenza di Primo Levi, ricca di lucidità e chiaroveggenza. Amava guardare il mondo: sentirlo, comprenderlo. Guai, però, a parlare di facoltà profetiche. Sapeva che nessuno può prevedere il futuro. E non si propose mai come profeta o modello, nozioni che aborriva. Nel suo ultimo libro, I sommersi e i salvati, scrive che bisogna diffidare di chi crede di possedere la verità». Questo, secondo la filosofa francese Françoise Carasso, è il cuore dell´opera di Levi: la volontà di dare forma all´informe, il cammino che scansa zone oscure, l´idea di procedere con la scansione limpida e netta di uno scienziato, perché «lo scrittore ha gli stessi doveri dell´uomo di scienza. Levi, che era un chimico, rifiutò sempre la cesura tra cultura scientifica e letteraria».
Esperta di filosofia della scienza e docente universitaria a Orléans e a Parigi, la Carasso si è applicata molto allo studio della vita e della produzione di Levi, curando tra l´altro un´edizione commentata di Se questo è un uomo per gli studenti liceali francesi. Nel sobrio e luminoso saggio Primo Levi. Le parti pris de la clarté, appena uscito in Italia col titolo La scelta della chiarezza (Einaudi, pagg. 197, 18 euro), affronta l´universo dello scrittore nella prospettiva della «norma di trasparenza» che egli s´impose, facendone una delle ragioni del suo fertile umanesimo.
Che cosa l´ha catturata di Primo Levi?
«La simpatia e il calore dell´essere umano, che non ho mai conosciuto, ma che per me è come una presenza familiare. Levi dà l´impressione di capire qualcosa di fondamentale sulla resistenza umana. E la modestia che esprime scrivendo trasmette la sua unicità. È umanamente ben radicato nella sua opera, ma al tempo stesso sa cancellarsi, sparire. Ciò che mi ha spinto a scrivere su di lui sono state le modalità della sua morte, scioccanti. Si parlò di suicidio, un atto che Levi mostrò sempre di disapprovare. Detestava l´oscurità della scrittura di Paul Célan, al quale rimproverò con violenza d´essersi suicidato. Come se tra il buio dello stile di Célan e il suo suicidio ci fosse stato un nesso. Invece Levi cercava luce: sempre. Anche nei territori più dolorosi dell´essere. Per questo mi è incomprensibile quel suo gesto finale».
Si può definire il "messaggio" complessivo di Levi senza il rischio del semplicismo?
«Anche questo termine, "messaggio", non gli sarebbe piaciuto. Quello che più conta nella sua opera è proprio la chiarezza. Dire le cose come stanno senza abbellimenti. Non fare idoli delle persone eroiche, non condannare chi compie azioni abominevoli. Non confondere le vittime con i carnefici, ma sapere che possiamo diventare tutti carnefici. Levi sa dircelo con forza e semplicità. E con amore per la vita».
Da cosa è testimoniato quest´amore?
«Dal suo gusto della scienza. Dal suo piacere d´esserci e capire quanto lo circonda. Basta leggere un libro splendido come Il sistema periodico per percepirlo. Levi soffrì molto, ma nella consapevolezza che far parte del mondo è essenziale. Non si può caderne fuori».

l’Unità 23.1.09
Intervista a Hiam Abbas
«Io palestinese credo al dialogo anche dopo l’orrore di Gaza
L’attrice del Giardino dei limoni: «Ho vissuto con il mio popolo la sofferenza della guerra. Spero in Obama ma voglio giudicarlo dai fatti»


L’ospite inatteso del nuovo cinema mondiale è una donna palestinese di quarantotto anni. Negli ultimi venti, con volto, occhi e voce, Hiam Abbas ha dato forma a ipotesi di convivenza finora impercorribili. Un’avventura esistenziale incapace di chiudere gli occhi davanti al presente. Al telefono da Parigi, dove vive da anni, alterna durezze e sorrisi.
L’ha rincuorata ascoltare il discorso inaugurale di Barack Obama, la mano tesa al mondo islamico, la telefonata ad Abu Mazen?
«Parole bellissime e gesti che fanno ben sperare ma prima di giudicare, preferisco aspettare lo svolgimento degli eventi. Ho assistito a troppi buoni propositi stracciati senza preavviso, per poter affermare che l’orizzonte possa mutare all’improvviso».
Cosa prova adesso, a ritiro ultimato?
«Ho litigato con me stessa per non scivolare nella spirale dell’odio, mantenere un autocontrollo, rispettare la mia filosofia. Non è stato semplice. Avrei provato compassione di fronte a chiunque si fosse trovato inerme sotto le bombe. Da giorni mi accompagna un dolore. Un dilemma. Un’indignazione. Ma non voglio arrendermi. Sono sempre convinta che la soluzione si possa trovare. È l’unica via percorribile. Quando le violenze finiranno, qualcuno dovrà sedersi intorno a un tavolo e parlare».
Nei suoi film, a partire dal “Giardino di limoni”, le donne sembrano essere le sole a rendere possibile un contatto tra universi inconciliabili.
«Nel dialogo credo molto, anche se nelle scorse settimane, questa condizione dell’animo ha subito duri colpi. Ci sono stati momenti terribili da sopportare. Provavo ansia e dolore aggrappata ai media alternativi, nel tentativo di non informarmi con le sole notizie diramate dalla televisione francese, con le immagini scelte con cura, con la sottile manipolazione della realtà».
Ritiene che il nuovo cinema israeliano, fortemente critico nei confronti della politica interna, possa scuotere le coscienze?
«A volte mi trovo a ragionare su questo tema in assoluta solitudine. Senza risposte certe. Le collaborazioni artistiche tra isreliani e palestinesi potrebbero contribuire ad allargare la visione complessiva, la comprensione reciproca. Far mutare i punti di vista, però per me è difficile quantificarne l’incidenza».
Perché?
«Me ne sono andata vent’anni fa eppure è come se fossi sempre rimasta lì. Ho sviluppato l’arte tra le linee del conflitto, a due passi da casa. È una lunga conquista. Non basta un mese o un anno, forse nemmeno una vita intera. Continuerò a comportarmi come ho fatto finora, provando a battere percorsi alternativi».
Crede ancora alla creazione di un solo Stato per due popoli?
«Sarebbe la soluzione ideale ma nella situazione attuale, è pura utopia. Il primo passo è cercare l’equità, suddividendo la terra senza ingiustizie. Se avvenisse, sono certa che i palestinesi si comporterebbero diversamente».
Ha visto “Valzer con Bashir”, il film che ricostruisce l’eccidio di Sabra e Chatila?
«Dopo aver lasciato la sala, sono rimasta attonita per alcune ore. Nella sua contraddittorietà, mi è piaciuto. È un’opera che inquieta, offre la possibilità di fare un viaggio all’indietro e pone molte domande universali sul genere umano. Anche a gente che mai ha conosciuto disperazione e guerra. Calarsi nella vita di un ragazzo diventato uomo, costretto a ripensare a una mostruosa parentesi della sua giovinezza, è un’operazione interessante. La storia si ripete. Ho una sola obiezione».
Quale?
«Perché la rivisitazione avviene oltre 25 anni più tardi? Ti arrabbi e ti chiedi: “Non potevi pensarci prima di fare un film?”».
Lei vive in Europa dal 1989. Vantaggi, nel cambio di prospettiva?
«Allontanarmi mi ha regalato la giusta distanza e il privilegio per osservare le cose in maniera più oggettiva. Se in un dramma sei coinvolto emozionalmente è arduo essere lucidi. Vivere a Parigi mi ha aiutato a considerare entrambe le sofferenze, permettendomi un approccio inesplorato alle diverse posizioni».
In che contesto crebbe Hiam Abbas?
«Felice ma poco indulgente. I miei genitori insegnavano e tenevano alla tradizione più che ad ogni altra cosa. Tutto ciò che esulava da quel quadro, me lo sono dovuta conquistare».
Fu complicato?
«Molto. La ribellione mi servì ad evitare che le mie migliori energie si incanalassero in qualcosa di prestabilito da altri. Ho sempre rifiutato di piegarmi. Fosse andata in un altro modo, oggi non sarei quello che sono.

l’Unità 23.1.09
Attacco alla 180. Trent’anni dopo fa ancora paura
di Cristiana Pulcinelli


Le sfide di uno psichiatra
1924
Franco Basaglia nasce a Venezia l’11 marzo 1924. Psichiatra, lascia la docenza per dirigere il manicomio di Gorizia.
1973
L’Ospedale psichiatrico di Trieste, diretto da Basaglia dal ’71, viene designato «zona pilota» per l’Italia nella ricerca dell’Oms sui servizi di salute mentale. Basaglia fonda Psichiatria Democratica.
1977
Viene annunciata la chiusura del manicomio di Trieste. Il 13 maggio 1978 viene approvata in Parlamento la legge 180. Secondo lo psichiatra, «la conquista della libertà del malato deve coincidere con la conquista della libertà dell’intera comunità».

Il 9 gennaio scorso su Libero diretto da Vittorio Feltri, è apparso l’articolo di Cristiana Lodi Psichiatri da legare. La figlia è schizofrenica, rinchiudono la madre. Vi si raccontava la storia di una donna schizofrenica attraverso le parole di sua madre. La figlia è in cura presso il Dipartimento di salute mentale di Trieste, la madre tuttavia afferma che sua figlia non solo non viene curata, ma viene tenuta rinchiusa e lontana da lei contro la sua volontà. Gli psichiatri hanno inoltre disposto tre trattamenti sanitari obbligatori nei suoi confronti perché - a suo dire - si ribellava al modo in cui veniva trattata la figlia.
«SCHEDATA»
L’articolo è scritto con lo stile aggressivo che contraddistingue il giornale, contiene pesanti attacchi agli psichiatri di Trieste e a Franco Basaglia che, si legge, «contestando i luoghi della follia arrivò a contestare la follia stessa. Negandola. E lasciando così i malati abbandonati a loro stessi». È corredato dalla foto della figlia in primo piano con tanto di didascalia che la definisce «schizofrenica» e da un articolo in cui la 180 è detta «legge criminale e criminogena» dello psicologo Luigi De Marchi, firmatario assieme al deputato del Pdl Paolo Guzzanti di una proposta di legge per la modifica della 180.
Peppe Dell’Acqua, direttore del DSM di Trieste, risponde tempestivamente con una lettera al quotidiano e con una denuncia. Ma la storia è succosa e altri media ci si buttano. In particolare, nella trasmissione Sabato e Domenica, del 18 gennaio su Rai uno, Franco Di Mare fa parlare la giornalista Lodi che racconta la vicenda così come presentata su Libero. Buttando in pasto ai telespettatori la vita di chi non può difendere la sua privacy.
La storia vera è complessa e molto dolorosa. La racconta Peppe Dell’Acqua e la confermano i familiari dei pazienti di Trieste che scrivono una lettera aperta per spiegare perché si fidano degli operatori che hanno in cura i loro figli. È la storia di una figlia schizofrenica e di una madre con un disturbo mentale grave alla mercè di un prete esorcista e di alcuni estremisti di Forza Nuova che le impediscono di accettare la malattia della figlia. Ma non vogliamo entrare in questioni personali, la domanda che ci si pone è: perché?
«FORT APACHE»
«È in atto un attacco a Fort Apache - dice Peppe Dell’Acqua-. Non a caso, il sottosegretario Martini ha detto che la partita della modifica alla legge 180 si chiuderà nel 2009». Come si chiuderà? Nel programma di governo si parlava esplicitamente di «riforma della legge 180 del 1978 in particolare per ciò che concerne il trattamento sanitario obbligatorio dei disturbati psichici». E il sottosegretario Martini ha detto che questo è un punto prioritario del governo.
Intanto, sono state presentate alcune proposte di legge: una al senato firmata da Carrara e Ombretta Colli, l’altra alla camera, primo firmatario Ciccioli; la terza, proposta Guzzanti, sempre alla Camera. In comune hanno il fatto che prolungano il periodo di trattamento sanitario obbligatorio e chiedono molti posti letto in più per la salute mentale. «Posti letto che il sistema pubblico non potrà garantire - spiega Dell’Acqua - e che giustificheranno quindi l’ingresso in gioco dei privati».
«La preoccupazione è che parlare della riforma della 180 ci distoglie dall’affrontare il problema più urgente e reale - dice Dell’Acqua - che è quello della dissociazione tra il cambiamento culturale prodotto dalla legge e quello che succede nei fatti. In Friuli Venezia Giulia abbiamo centri di salute mentale aperti 24 ore al giorno e reparti di diagnosi e cura senza contenzione, ma non è così in tutte le regioni. Ci sono leggi regionali monche, pochi fondi, una formazione universitaria che non va bene nella nostra realtà. Questi problemi la sinistra se li deve porre. Non possiamo solo difendere la 180, ma dobbiamo dire cosa fare nelle singole regioni e nelle singole aziende sanitarie».

l’Unità 23.1.09
Un’altra cura è possibile
Le storie dei familiari degli utenti e dei medici


Tre pubblicazioni per un anniversario raccolgono
le esperienze e le testimonianze del successo della riforma
che rivoluzionò il modo di guardare alla malattia mentale
A trent’anni dall’approvazione della legge grazie alla quale il nostro paese è diventato un punto di riferimento mondiale nell’assistenza alle persone affette da disturbo mentale, approdano in libreria tre volumi sulla salute mentale: trattano dell’esperienza di Franco Basaglia, del movimento legato alla sua eredità scientifica e culturale e della 180. La cornice teorico-pratica delle tre opere è costruita sul confronto tra saperi (compreso quello dei pazienti), sulla ricerca di soluzioni condivise, sulla partecipazione di familiari, amministratori, giornalisti, artisti. Per ribadire che la salute mentale non è solo una questione tecnica, che le coordinate di intervento della psichiatria non hanno sistemi di riferimento riducibili a modelli onnicomprensivi, compreso quello medico-biologico.
Ritroviamo questo dibattito in Storie di vita Storie di follia, curato da Paolo Tranchina e Maria Pia Teodori: in circa 300 pagine sono raccolti i racconti di utenti, familiari, medici che forniscono al lettore esempi di risposte concrete al disagio anche nelle situazioni più difficili. L’occasione per quella che gli autori presentano come un tentativo di «clinica del sapere pratico» sono i 35 anni di Psichiatria Democratica, associazione fondata nel 1973 da Basaglia e da alcuni suoi collaboratori. Se nel libro di Tranchina e Teodori la 180 fa da sfondo alla raccolta, un’esplicita «riflessione collettiva» sulla legge è l’obiettivo di Emilio Lupo e Salvatore Di Fede nella realizzazione del volume Centottanta. I testimoni chiamati ad esprimersi spaziano dalla politica alla cultura, dall’architettura alla sociologia. Rosy Bindi, Guglielmo Epifani, Alex Zanotelli, Riccardo Dalisi sono alcuni dei nomi. Ma è nell’ultimo libro di questa rassegna che possiamo rileggere direttamente le considerazioni di Basaglia a poco più di un anno all’approvazione della riforma che porta il suo nome. Raffaello Cortina Editore ha infatti ripubblicato il libro-intervista La nave che affonda. È un dialogo a più voci condotto dal giornalista Salvatore Taverna e al quale partecipano oltre a Basaglia, Franca Ongaro e lo psichiatra Agostino Pirella. Un documento realizzato subito dopo un importante e contrastato Reseau internazionale di alternativa alla psichiatria svoltosi nel 1977 a Trieste. Siamo alle fasi conclusive del lungo percorso di abbattimento del manicomio.
Le pagine del libro restituiscono appieno «l’interno di un’esperienza calda» di allora, ma ci parlano anche di oggi, dell’etica del sacrificio, di ciò che non si deve fare. Ci dicono che l’eredità più importante del superamento dell’ospedale psichiatrico è «la voglia di rimettersi in gioco con generosità, senza cedere al disincanto verso la politica o alle illusioni della tecnica». La stagione in cui politica e cultura sapevano creare «complessità e legame sociale» è però vista come ormai lontana. Ed è forse per questo che tutti gli autori dei volumi descritti sembrano mossi dall’urgenza di mostrare che, nonostante tutto, esistono storie di successo, che anche dai disturbi mentali più severi si può guarire.

Corriere della Sera 23.1.09
La polemica Le conclusioni dello studio aprono un dibattito ideologico. «L'addio al comunismo? Un milione di morti»
La rivista Lancet: nell'Est la mortalità aumentata del 13% per le privatizzazioni


Un legame anche tra la disoccupazione e il numero delle vittime. Stiglitz: disastrose quelle dottrine degli anni '90

Quanti morti può fare una privatizzazione? O meglio — se un conto si può fare — quante vite è costato il passaggio dal comunismo al capitalismo? E ancora: si può conteggiare l'effetto delle ricette economiche che quella transizione l'hanno dettata negli eltsiniani (e clintoniani) anni Novanta?
Il conto è stato fatto. Pubblicato su una delle più prestigiose riviste di medicina internazionali, l'inglese Lancet, 4 anni di lavoro, modelli matematici complessi, basandosi sui dati del'Unicef dal 1989 al 2002. La conclusione: le politiche della privatizzazione di massa nei Paesi dell'ex Unione Sovietica e nell'Europa dell'Est hanno aumentato la mortalità del 12,8%. Ovvero, hanno causato la morte prematura di 1 milione di persone.
Non che, finora, qualche stima non fosse stata fatta. L'agenzia Onu per lo sviluppo, l'Undp, nel '99 aveva contato in 10 milioni le persone scomparse nel tellurico cambio di regime, e la stessa Unicef aveva parlato dei 3 milioni di vittime. Lo studio di Lancet (firmato da David Stuckler, sociologo dell'Oxford University, da Lawrence King, della Cambridge University e da Martin McKee, della London School of Hygiene and Tropical Medicine) invece parte da una domanda diversa: si potevano evitare tante vittime, e sono da addebitare a precise strategie economiche?
La risposta è sì. Ed è la «velocità » della privatizzazione che — secondo Lancet — spiega il differente tasso di mortalità tra i diversi Paesi. Si moriva di più dove veniva adottata la «shock therapy »: in Russia tra il '91 e il '94 l'aspettativa di vita si è accorciata di 5 anni. Nei Paesi più «lenti », invece, come Slovenia, Croazia, Polonia, si è allungata di quasi un anno.
Grazie, signor Jeffrey Sachs. Perché se gli operai inglesi negli anni '80, come nel film di Ken Loach, «ringraziavano» la signora Thatcher, gli operai delle fabbriche chiuse dell'Est devono (in parte) la loro sorte al geniale economista americano, consigliere allora di molti governi dell'Est. E infatti il signor Sachs ha risposto piccato, con una lettera al Financial Times. Ma quel «milione di morti» ha ormai accesso il dibattito ai due lati dell'Oceano, sulle pagine del New York Times e nei blog economici.
«S'è scatenata — risponde da Oxford David Stuckler — una rissa ideologica, ma noi non volevamo infilarci in un dibattito politico. Volevamo puntare l'attenzione sui rischi sociali. E poi, il nostro non è un attacco alla shock therapy, tant'è che analizziamo solo le privatizzazione, non le liberalizzazioni o le politiche di stabilizzazione ».
E il signor Sachs? Contesta i numeri. Dice, all'Ft, che «dove sono stato consigliere, come in Polonia, non c'è stato nessun incremento della mortalità». E il caso russo, dove sono state «vendute 112mila imprese di Stato» dal '91 al '94 contro le 640 della Bielorussia, e i tassi di mortalità sono 4 volte maggiori? Colpa delle diete russe, dice Sachs, ma più ancora del crollo dell'impero, «degli aiuti negati dagli occidentali a Mosca », «tanto che nel '94 mi sono dimesso» da consigliere del Cremlino. Non rinuncia all'occasione di seppellire Sachs il suo vecchio nemico, il Nobel Joseph Stiglitz. « Lancet ha ragione, la Polonia è stata un caso di politiche graduali. Quanto alla shock therapy,
guardando indietro, è stata disastrosa. Pura ideologia, che ha distorto delle buone analisi economiche».
C'è un altro dato che emerge nella ricerca. Il legame disoccupazione- mortalità nell'ex Unione sovietica. «Il perché è evidente: erano le fabbriche che spesso garantivano screening medici», dice Stuckler. Con la loro chiusura nell'ex Urss è crollato anche il sistema sociale. Numeri impressionanti di morti per alcol, di suicidi. «Mentre dove c'era una forte rete sociale — come nella Repubblica ceca in cui il 48% delle persone faceva parte o di un sindacato o va in Chiesa — l'impatto è stato quasi nullo».
Il sociologo Grigory Meseznikov, uno dei più apprezzati politologi dell'Europa dell'Est, risponde al telefono al Corriere
che «sì, sui ceti inferiori l'impatto è stato forte. Ma poi, accanto ai danni immediati, bisogna valutare i benefici e l'impatto positivo a lungo termine». A Lubiana, il sociologo Vlado Miheljak, invece, ricorda che «tra i motivi del successo sloveno, a parte la maggiore integrazione con l'Ovest, c'è stata soprattutto la lentezza. Allora tutto il mondo ci criticava perché non privatizzavano come i cechi, come gli ungheresi. Invece probabilmente, è stata la nostra salvezza».

Corriere della Sera 23.1.09
Scegliere e vendere testi. Il futuro del mercato alla vigilia dei corsi della Scuola per librai
L'editore di cultura non esiste più
Stefano Mauri: «Tutti vogliono il bestseller e garantirsi il prossimo Nobel»
di Paolo Di Stefano


Ereditare gli imperi congiunti di Luciano Mauri, il leggendario padrone delle Messaggerie, e di Mario Spagnol, il dominus
storico della Longanesi, si può dire un privilegio. Ma anche un onere, con due numi tutelari di quel calibro. Presidente e amministratore delegato del terzo gruppo editoriale italiano, che oggi vanta 130 milioni di fatturato e 10 milioni di copie l'anno vendute, Stefano Mauri non si scompone troppo, e non solo perché divide le decisioni con un co-amministratore, Luigi Spagnol. «Io cito spesso suo padre — sorride Stefano — e lui cita spesso il mio, ma è molto diverso da me per fortuna, così abbiamo di che discutere».
Mauri ricorda che nell'88, tornato da un master sull'editoria negli Stati Uniti, si trovò a dover scegliere tra un bell'ufficio con segretaria nella distribuzione, il settore in cui dominava la sua famiglia, e l'ufficio marketing di Longanesi, una casa editrice prestigiosa ma che allora non navigava in ottime acque. Fu suo padre Luciano a consigliargli: «Noi di distribuzione sappiamo già tutto, di editoria non più. Vai da Spagnol che è il migliore». Ora Stefano commenta: «Mi piace pensare di avere appreso da Spagnol, tra le altre cose, quel che lo zio Val aveva seminato». Zio Val è Valentino Bompiani, parentela acquisita con i Mauri per via della sorella. «Poi più avanti — prosegue Stefano —, quando ci fu l'occasione di assumere un incarico di gestione che era stato lasciato dal braccio destro di Spagnol, contro il parere di mio padre lo presi. E feci bene». A tal punto che oggi, dopo un decennio di responsabilità al vertice, non esita troppo a far valere le proprie credenziali: «Fu la prima volta che risanai e rilanciai una casa editrice, ricollocandola sul mercato. Successivamente trovai il modo di rifarlo con tante case editrici diverse e trovando ogni volta una via diversa per ottenere il risultato». Con dieci direzioni editoriali da coordinare.
La fierezza è riassunta nei numeri (oggi il fatturato è decuplicato), ma anche nelle scelte. Mauri non nasconde la sua passione per la narrativa: «Soprattutto quella commerciale», precisa. E tra le recenti acquisizioni volute in prima persona ricorda La cattedrale del mare dell'avvocato spagnolo Ildefonso Falcones e Figlia del silenzio di Kim Edwards. E l'ultimo arrivato, Il suggeritore di Donato Carrisi, già in classifica. «I grandi bestseller degli ultimi anni, Harry Potter e Il Codice da Vinci—
dice — sono generi tradizionali: una fiabona e un giallo storico, ma hanno maggiore ricchezza e intensità di idee rispetto a quelli del passato». Anche gli italiani hanno capito che bisogna restare fedeli ai generi tradizionali: «Dopo Camilleri, c'è una nuova generazione di scrittori consapevoli della nozione dell'entertainment per il lettore comune. Questo ha ampliato il pubblico, tant'è vero che negli ultimi anni dietro la Rowling e Dan Brown in classifica troviamo gli italiani: Camilleri, Vitali, Carofiglio, Ammaniti...». Che ne direbbe Spagnol? «Spagnol diceva che le angosce dell'uomo moderno le trovava più facilmente in tanti thriller americani che nella narrativa ombelicale italiana». Ma il fiuto del mostro sacro Spagnol resta ineguagliabile? «Il suo fiuto era aiutato dalla schiettezza e dall'efficienza. E poi per lui gli autori erano sacrosanti, erano la fonte creativa». Papà Luciano era su un altro fronte: «Concretezza economica soprattutto».
L'assenza di realismo economico è il rimprovero rivolto di solito a quella che un tempo veniva chiamata l'editoria di cultura, un'entità oggi tendenzialmente in declino. Un argomento su cui Mauri sembra avere idee molto chiare: «Oggi non esiste l'editore di cultura puro: tutti, grandi e piccoli, mescolano il sacro e il profano sia pure con dosaggi e soprattutto con vesti diverse. Ci sono editori dall'aspetto molto serio e austero che fanno spesso e volentieri delle escursioni nei libri più commerciali e viceversa. Le due aspirazioni di tutti sono: trovare il nuovo bestseller e assicurarsi il futuro premio Nobel». Sugli editori apparentemente seri, meglio non indagare. A proposito del Nobel, va detto che l'Accademia di Stoccolma ultimamente non sembra garantire il meglio: «Già, con le recenti esperienze...», sorride Mauri.
Se dal mondo della produzione passiamo al mondo dei librai, e cioè a quelli che da oltre vent'anni sono gli interlocutori dei famosi Seminari veneziani voluti dalla famiglia Mauri, il cambiamento è persino più visibile. I megastore Feltrinelli, per esempio, ne sono il segno più visibile: «Hanno portato a una spersonalizzazione e in più il cliente deve trovare da sé quel che desidera. Non c'è più un libraio a cui chiedere un consiglio... Ma sono spazi più accessibili e moderni ».
Fatto sta che oggi più dei consigli dei critici o del libraio conta il passaparola, parolina magica con cui si spiegano tanti successi: «Funziona quando un libro ha superato la soglia delle cinquantamila copie: all'editore tocca impegnarsi perché si superi questa quota, oltre la quale può scattare una trasmissione di comunicazione tra pari. E quando poi di un libro te ne parla il benzinaio o la segretaria, a quel punto se non lo leggi sei tagliato fuori. Però non dimentichiamo che già quindici anni fa il 40 per cento dei lettori diceva di seguire i consigli degli amici». E adesso gli amici sono tutti collegati a Internet, quindi il gioco è più facile: «Oggi è internet che orienta il gusto, perché si comunica in modo molto veloce il parere del lettore senza nessuna mediazione. La voce corre in fretta, e così se nell'80 le 60 mila copie di Wilbur Smith erano un grande successo, oggi lo sono le 300 mila copie». E mettiamoci in più la televisione: «Un passaggio da Fabio Fazio decuplica le vendite nella settimana successiva, il libro va nei supermercati e negli autogrill, compare in classifica e la classifica, si sa, condiziona il libraio e il lettore».
E l'editore non è mai condizionato? «Altroché. Oggi attraverso sistemi molto elaborati come Nielsen possiamo vedere in diretta il corso delle vendite». Un circolo virtuoso o vizioso? «Internet, il passaparola e le classifiche si concentrano su pochi bestseller. Ricordo che zio Val una volta alla Scuola dei Librai di Venezia disse: "ora si consultano i computer per sapere se un libro vende. Io ho un metodo ancora più infallibile". Prese una margherita che stava sul tavolo e cominciò a staccare i petali: "vende, non vende, vende, non vende"...».

Corriere della Sera 23.1.09
Michel Foucault, ultime lezioni. Una sfida contro il tempo


Una sfida contro il tempo: così qualcuno ha già definito questo ciclo di lezioni, l'ultimo, tenuto da Michel Foucault (1926-1984) al College de France dal 1983 al 1984 e appena pubblicato in Francia da Gallimard-Seuil. Perché quando Foucault inizia quelle lezioni (ora raccolte sotto il titolo Il coraggio della verità - Il governo di sè e degli altri) è già «malato, molto malato» e quando le termina dichiara: «È troppo tardi». Ma al di la della «sfida» e delle tematiche (la divisione della filosofia occidentale in due branche «prova di vita» oppure «conoscenza dell'anima), quelle lezioni restano importanti soprattutto perché «permettono di percepire la tensione estrema della riflessione di Foucault».

Repubblica 23.1.09
Da domenica il grande omaggio di Forlì
Canova
di Antonio Pinelli


La rassegna nei Musei di San Domenico presenta 160 tra marmi, gessi, bassorilievi, bozzetti, dipinti del maestro insieme ad alcune opere a cui l’artista si ispirò

Arriva Canova, con tutto il suo carico di splendori e raffinatezze, di meraviglie papaline e di guerre napoleoniche, di marmi di Carrara dal bianco candore. E´ Canova (1757-1822) il protagonista di una fondamentale rassegna che si tiene a Forlì, una ricerca intorno a questo scultore che ebbe una influenza determinante su tutta la cultura artistica dell´Ottocento italiano e non solo, precorrendo il movimento romantico con lo splendore e la levigatezza dei suoi marmi, dei soggetti da lui scelti, della grazia e della morbidezza con cui venivano trattati. Quasi tutto questo avvenne in Roma, intorno al suo studio, nei pressi dell´ospedale San Giacomo, a quel tempo centro di una nuova e coerente teorizzazione classicista. Ma oggi siamo a Forlì, nelle Romagne: furono luoghi fondamentali per Canova ed egualmente per il neoclassicismo in pittura e scultura e la mostra che è stata appena allestita proprio in questa città non a caso si intitola Canova, l´ideale classico tra scultura e pittura.
Ribalta, se ancor ve ne fosse bisogno, i giudizi negativi che furono espressi contro questo artista che ha avuto un declino della sua fortuna a causa di giudizi negativi come quelli che furono espressi nel 1945 da Roberto Longhi. E´ trascorso più di mezzo secolo e la rassegna che si tiene a Forlì nei Musei di San Domenico dal 25 gennaio al 21 giugno, non solo narra la storia di una conversione della critica, ma segna la definitiva e inappellabile consacrazione dell´artista veneto al soglio del cosmopolitismo del suo tempo, modello di eccellenza internazionale da Roma a San Pietroburgo, dagli Stati Uniti a Londra e Parigi.
La mostra odierna è finanziata dalla Cassa di Risparmio di Forlì e curata da Antonio Paolucci, Ferdinando Mazzocca e Sergey Androssov. Ed è l´esposizione più completa dedicata a Canova, alla scoperta della sua estrema finitezza tecnica e formale, e del suo tempo, esposizione comparabile a quella, memorabile, del 1992 di Venezia. Questa è ricca di 160 opere, marmi, gessi, bassorilievi, bozzetti, offre la novità assoluta di una collezione fra sculture dell´antichità classica o dipinti di grandi geni come Raffaello ai quali l´artista si ispirò vivendo a Roma. Sono esposte inoltre opere di maestri a lui contemporanei. Parliamo di Hayez e di artisti considerati minori come Gaspare Landi o Pompeo Marchesi.
Ispiratori, seguaci, confratelli. Perché una simile rassegna proprio a Forlì? Perché Forlì è un luogo canoviano e con Forlì le Romagne parlano di neoclassicismo. Per la città Canova creò tre capolavori: una versione della Ebe realizzata fra il 1816 e il 1817 su committenza della contessa Vittoria Guarini e ceduta dai suoi eredi ai musei cittadini, poi la Danzatrice con il dito sul mento voluta dal conte faentino Domenico Manzoni, aristocratico, banchiere filo francese assassinato a coltellate mentre si recava a teatro. Se la Danzatrice è purtroppo, per ora, dispersa, resta però nella chiesa della Santissima Trinità la sublime Stele Funeraria ispirata a quelle attiche e dedicata al Manzoni stesso dopo l´omicidio. Il curioso e instancabile cronista di cose, fatti e misfatti che fu Sthendal, ci dice: «en arrivant a Rome c´est aupres du tombeaux des Stuart qu´il faut venir essayer si l´ont tient du hasard un coeur fait pour sentir la sculpture» (giunti a Roma, è presso le tombe degli Stuart che è opportuno recarsi per scoprire se si abbia per caso un cuore fatto per comprendere la scultura). Non c´è alcuna necessità di arrivare a Roma, il cenotafio Manzoni esprime e riassume, capolavoro di bellezza e semplicità, il rapporto che Canova aveva con il tema della morte.
La rassegna segue un percorso tematico. Nella stanza dedicata alla Ebe, l´opera commissionata dalla Guarini si confronta con quella di Pietroburgo, appartenuta all´Imperatrice Giuseppina e, come quasi tutti i pezzi della sua collezione, acquistata dall´imperatore Alessandro I. E´ un paragone stimolante. La Ebe di Giuseppina infatti è raffigurata in volo su una nuvola. E´ audace quindi esporle accanto il celeberrimo Mercurio alato di Giambologna, uno dei capolavori della scultura rinascimentale. E per capire ancora meglio il senso della mostra, la prima e la seconda Ebe sono collocate in sequenza con due gioielli della scultura antica, l´Arianna con la Pantera del museo Archeologico di Firenze e la Danzatrice di Tivoli. Nella stessa stanza le pareti ospitano dipinti sul medesimo soggetto, prediletto dai pittori neoclassici stranieri come Reynolds, Romney, West, Hamilton, Vigée Lebrun o italiani come Pellegrini, Landi e Lampi. L´Amore e Psiche che viene dall´Ermitage è affiancato da opere di Gaspare Landi, Angelica Kaufmann, Francesco Hayez e Felice Giani sullo stesso tema. Se Hayez si può considerare il Canova della pittura, Felice Giani fu il più solerte diffusore del verbo neoclassico in Emilia Romagna - basti pensare agli affreschi di Palazzo Laderchi, di Palazzo Manzoni o di Palazzo Pasolini dall´Onda di Faenza e a innumerevoli schizzi, bozzetti, dipinti e disegni che ci sono rimasti.
I curatori della rassegna hanno recuperato anche diverse opere inedite, per esempio una sconosciuta versione del busto di Cimarosa leggermente diversa da quella oggi ai Musei Capitolini, ordinata a Canova dal segretario di Stato di Pio VII, il Cardinal Consalvi, colto e appassionato ammiratore del musicista napoletano. Del resto Consalvi tanto stimava Canova che lo fece Ispettore delle Belle Arti. E subito dopo il congresso di Vienna lo mandò a Parigi a recuperare le opere d´arte trafugate dai francesi negli Stati pontifici. Il soggiorno parigino fu faticosissimo, e poco invidiabile il testa a testa con Vivant Denon, allora avido direttore del Louvre. Ma da Parigi Canova si recò direttamente a Londra. Aveva, lui figlio di uno scalpellino e di scarsissima istruzione, imparato l´inglese (esiste un piccolo manualetto delle sue lezioni). Se i Napoleonidi erano finiti, gli Hannover regnavano, e con loro una ricca aristocrazia britannica. E Londra gli diede anche l´occasione di studiare i cosiddetti «Elgin Marbles»che altro non erano se non le metope del Partenone di Fidia che lo entusiasmarono. E così il nuovo Fidia, il nuovo Raffaello, creò altri capolavori.
A Forlì sono anche ospitate, e si possono vedere per la prima volta, le tempere finalmente restaurate di Bassano del Grappa: le celebri e sconosciute Danzatrici che furono l´ispirazione per quelle realizzate da Hayez per il Palazzo Reale di Venezia.
Il catalogo della Silvana editrice si avvale anche dell´opera validissima di una vera e propria squadra di giovani ricercatori agguerriti e compatti che hanno prodotto saggi e schede a volte fondamentali e sono Francesco Leone, Stefano Grandesso, Gabriele Dodati e Alessandra Imbellone.

Repubblica 23.1.09
Le meraviglie del marmo


Fu idolatrato per aver riportato la statuaria ai fasti dell´antichità, poi giudicato retorico dai romantici, e infine ora riportato in auge
L´"Ebe" scolpita a Forlì è esposta accanto a quella sulla nuvola dell´Ermitage e messa a paragone con il "Mercurio" del Giambologna
Il percorso espositivo confronta le sculture dell´artista con capolavori antichi o con maestri come Raffaello

FORLI. Prima sugli altari, poi nella polvere, quindi di nuovo sugli altari: come la fenice che muore per rinascere dalle proprie ceneri, Canova assurge ad emblema di quanto repentini possano essere i capovolgimenti del gusto e le conseguenti oscillazioni della fama di un artista. Idolatrato in vita per aver riportato la statuaria alle altezze siderali cui l´avevano innalzata Fidia e Prassitele, poco dopo la sua morte, che fu vissuta dall´Europa tutta come un lutto universale, cominciò ad attirare su di sé gli strali più avvelenati di una critica alimentata dal dilagare del Romanticismo, che compendiava nel disprezzo per la sua scultura, giudicata insincera, retorica e gelidamente accademica, la propria indomabile ostilità nei confronti dell´intera esperienza neoclassica. Ma da qualche decennio in qua, dopo esser stato il bersaglio preferito delle stroncature di alcuni tra i più brillanti storici dell´arte del secolo scorso - a cominciare dal sarcastico epitaffio che gli riservò Longhi, liquidandolo come «lo scultore nato morto, il cui cuore è ai Frari, la cui mano è all´Accademia e il resto non so dove» - il moto della ruota della fortuna si è finalmente invertito, riportando in auge il Neoclassicismo, e di conseguenze lui, Canova. Anzi, soprattutto lui. Di qui un crescendo di saggi, monografie e, in special modo, di mostre, tra le quali spicca la memorabile rassegna monografica che si tenne a Venezia nel �92, cui intende programmaticamente richiamarsi, per impegno critico e mobilitazione di capolavori, l´imponente mostra vese (ben 160 opere, tra marmi, gessi, bozzetti, dipinti e disegni), che si accinge ad aprire i battenti (Canova. L´ideale classico tra scultura e pittura, a cura di A. Paolucci, F. Mazzocca e S. Androsov, fino al 21 giugno).
Ci sono almeno cinque buone ragioni per definire Forli «città canoviana». Le prime due riguardano la scultura di Canova solo indirettamente, ma non vanno trascurate: è custodito nella Biblioteca civica forlivese quel Fondo Piancastelli che è forse il maggior deposito italiano di cultura neoclassica, messo insieme all´inizio del secolo scorso dal bibliofilo fusignanese Carlo Piancastelli, ed era di Forlì quell´abate Melchiorre Missirini, che a partire dal 1816 divenne segretario e biografo ufficiale di Canova, trascrivendo ogni sua lettera o intrattenendolo quotidianamente con la lettura di testi classici mentre egli disegnava o modellava, ed infine votando tutto se stesso alla fama postuma dello scultore.
Ma le tre ragioni più sostanziali - che di fatto costituiscono il movente primo dell´odierna mostra - sono altrettante opere che Canova scolpì per tre personaggi forlivesi. La più nota, e tuttora conservata a Forlì, è una statua di Ebe, realizzata nel 1816-17 per la contessa Veronica Guarini, che replica una delle più celebri invenzioni dell´artista, ma introducendovi varianti di rilievo, tra le quali un buon numero di accessori in bronzo dorato, sfavillante omaggio alla polimatericità della statuaria antica che proprio in quegli anni andava riscoprendo il suo grande amico Quatremère de Quincy, e la sostituzione con un più convenzionale tronco d´albero dell´audace ma criticata nuvola su cui poggiava l´Ebe di due precedenti versioni. Neppure il caustico Karl Ludwig Fernow, che fu l´unico critico ad avere il coraggio di dissociarsi dal coro compatto di lodi che sempre accompagnava ogni nuovo exploit del «divino scultore», riuscì a sottrarsi al fascino aurorale dell´Ebe canoviana, che incede leggera posandosi in volo per versare il suo nettare a Zeus, mentre la veste le si incolla al corpo o le fluttua attorno («è raffigurata in quell´età in cui germoglia il fiore della leggiadria virginale: dal suo corpo esile, dalle dolci colline dei seni acerbi, dalle guance piene e rotonde, dal viso serenamene innocente emana il fascino fresco e fiorente della gioventù»).
La seconda statua canoviana scolpita per un forlivese non è invece più nella città romagnola e - quel ch´è peggio - se ne sono addirittura perse le tracce. Nel senso che la conosciamo attraverso innumerevoli gessi e copie, ma l´originale sembra essersi dileguato nello sconfinato territorio russo, anche se qualche anno fa si credette di riconoscerlo in un esemplare che fa bella mostra di sé in un Ufficio di San Pietroburgo. Si tratta della Danzatrice con il dito al mento, deliziosa e civettuola variazione sul tema, assai caro e congeniale a Canova, della danzatrice in azione, che lo scultore, per interessamento dell´amico Pietro Giordani, destinò alla moglie del controverso banchiere Domenico Manzoni. Terminata nel �14, la statua però giunse a destinazione solo dopo l´assassinio, in un oscuro agguato, del committente, finendo per essere presto venduta ad un diplomatico russo. Comunque, la vedova Manzoni pregò Canova di eseguire la stele del marito, che è dunque la terza opera forlivese dello scultore, e la seconda tuttora conservata nella città romagnola.
Sviluppando attorno a queste opere forlivesi l´impianto concettuale della mostra e forte di prestiti eccezionali, cui altri curatori avrebbero avuto minor agio di accedere, il percorso espositivo si articola in nuclei tematici stimolanti e piuttosto innovativi. L´Ebe di Forlì è esposta accanto a quella sulla nuvola dell´Ermitage e confrontata con il Mercurio di Giambologna del Bargello e con due capolavori antichi, l´Arianna degli Uffizi e la Danzatrice di Tivoli, che non mancano di riecheggiare la Nike in volo di Peonio, aureo prototipo di ogni altro exploit nel campo delle «statue aeree».
Tra i tanti prestiti inviati dall´Ermitage, la Maddalena penitente si affianca alle steli e ai bassorilievi con la Morte e compianto di Socrate per esplorare le molte strade aperte dall´artista nel genere della scultura funebre, mentre la Danzatrice con le mani sui fianchi, confrontata con le Danzatrici di Hayez e con le tempere canoviane di Bassano, indagano quel rapporto tra Canova e la danza, cui ha dedicato studi fondamentali Lucia Capitani, il cui libro sul tema è da tempo in attesa dell´editore intelligente che vorrà pubblicarlo.
La rassegna sviluppa inoltre per la prima volta il rapporto tra scultura e pittura, non solo per quanto riguarda i dipinti dello stesso Canova, che si concedeva in questo campo vezzi e moine cui rinunciava nella più sorvegliata statuaria, ma anche degli artisti che gli fecero corona, da Gaspare Landi al giovane Hayez, mentre la presenza della Venere italica degli Uffizi, nata come variante moderna per compensare il trasferimento d´ufficio a Parigi dell´antica Venere medicea, ha il compito di smentire in via definitiva il fraintendimento novecentesco su Canova «frigorifero erotico», rammentandoci che Foscolo le dedicò un´infiammata ekfrasis erotica, confessando: «Io ho dunque visitata e rivisitata, e amoreggiata e baciata, e - ma che nessuno il sappia - ho anche una volta accarezzata questa Venere nuova. Insomma se la Venere dei Medici è bellissima Dea, questa che io guardo è bellissima donna; l´una mi faceva sperare il paradiso fuori di questo mondo e questa mi lusinga del Paradiso in questa valle di lacrime».

il Riformista 23.1.09
Ricerca Finalmente si respira un'aria di ottimismo
Buone Notizie Staminali
di Angelo L. Vescovi


Bioetica. Dallo scontro morale e scientifico è nata la necessità di trovare vie alternative alla clonazione umana, agli ibridi uomo-animale e all'uso degli embrioni per la ricerca: le cellule adulte riprogrammate a uno stato embrionale e le staminali adulte.

In un periodo di profonda crisi economica e finanziaria, dagli inevitabili e negativi risvolti sociali ed umani, sembra difficile trovare ragioni per sorridere od entusiasmarsi, o anche semplici buone notizie. Fortunatamente, pur trattandosi sempre di argomenti intricati e spinosi, questa volta mi trovo a discutere di cellule staminali e dei loro usi prospettici in ambito biomedico e biotecnologico in una prospettiva veramente positiva.
Sembrano in qualche modo lontani i tempi bui del referendum sulla legge 40 in cui scienziati, politici, sociologi, giornalisti e, perche no, avvocati, attrici e così via, si scontravano sulla liceità o meno di utilizzare embrioni umani, addirittura clonandoli, per estrarre le famose cellule staminali embrionali. Queste ultime, ci veniva spiegato, avrebbero rappresentato una sorgente insostituibile di cellule per i trapianti per molte malattie incurabili, prime fra tutte quelle neurodegenerative come il morbo di Alzheimer e Parkinson o la SLA. Da qui la necessità di derogare ad alcune obiezioni etiche relative alla distruzione di embrioni umani - vite umane - dovuta alla supposta, "palese" mancanza di strade alternative.
Sappiamo tutti com'è andato il referendum e le preoccupazioni che tale risultato fece emergere, relative alpaventato blocco della ricerca e dello sviluppo delle nuove terapie cliniche che si fondano sul trapianto cellulare. Fortunatamente, il diavolo fa le pentole ma non i coperchi e, quasi paradossalmente, le cose sono andate nel senso opposto, vale a dire molto bene, sia per la scienza che per lo sviluppo di terapie cellulari in ambito clinico. Sono numerosi, infatti, gli sviluppi positivi che hanno virtualmente estinto le preoccupazioni di cui sopra.
Vedete, le cellule staminali embrionali umane dovevano servire a produrre cellule nuove da trapiantare per sostituire quelle malate. Il problema etico relativo all'uso di queste cellule non consiste nell'uso delle cellule in sé, ma nel doverle estrarre da embrioni umani, distruggendoli. Dovesse esistere un modo di produrre le staminali embrionali senza, nel mentre, generare embrioni, avremmo risolto il problema etico alla radice. Ai tempi del referendum proposi questa opzione e venni tacciato di faciloneria e pressapochismo e…. due anni dopo, Shinya Yamanaka pubblica un lavoro "monumentale" sulla rivista Cell, dove riesce a creare cellule pluripotenti, nei fatti identiche alle embrionali, partendo da cellule adulte della pelle, attraverso un processo semplice e senza produrre embrioni. È una vera e propria rivoluzione scientifica (Yamanaka prenderà il premio Nobel per questa scoperta, è certo). I maggiori laboratori mondiali si uniscono alla corsa e nel giro di due ulteriori anni, un vero e proprio battito di ciglia in ambito scientifico, il lavoro viene riprodotto, esteso alle cellule umane e migliorato notevolmente nei suoi aspetti tecnici. Oggi, sono a disposizione linee cellulari pluripotenti, di origine umana, senza insorgere di alcun problema etico, ed addirittura clonate e quindi, passibili di trapianto senza rigetto.
Nessun blocco della ricerca scientifica, anzi, sviluppo di metodi impensabili sino a pochi mesi prima, che permettono esperimenti tuttora impossibili utilizzando embrioni umani. Sapete tutti che cosa è successo alla supposta clonazione terapeutica coreana.
La ricerca fiorisce e le aperture in ambito terapeutico sono impensabili. Basti ricordare che è possibile generare cellule pluripotenti riprogrammando cellule adulte di pazienti affetti da malattie genetiche ed usarle per studiare i meccanismi che scatenano il male. Ha dell'incredibile, lo riconosco. Nel settore si respira un'aria di ottimismo come raramente è avvenuto negli ultimi anni.
Non bastasse questo a risollevare lo spirito e la ricerca biomedica, vi sono ulteriori buone notizie. Le malattie neurodegenerative subiscono i primi attacchi "cellulari" grazie all'uso delle cellule staminali cerebrali. Non arriva ancora a conclusione la sperimentazione con staminali cerebrali nel morbo di Batten, una malattia genetica che affligge il sistema nervoso umano, che già la stessa compagnia di biotecnologie che l'ha avviata chiede alla Food and Drug Administration statunitense di procedere con u protocollo simile per una patologia umana letale analoga alla sclerosi multipla. Contemporaneamente, ricercatori americani depositano una richiesta simile per la Sclerosi Laterale Amiotrofica e, il nostro gruppo, si accinge a fare la stessa cosa per una sperimentazione tutta italiana. Fermo restando che nessuno può prevedere l'esito di queste sperimentazioni, finalmente le cose si muovono e, come sempre succede, questo stimolerà ulteriori trial clinici, fino all'inevitabile successo finale. Christian Barnard docet.
Vien da concludere, sottolineando che questa è una vittoria di tutti, compresi quelli che sostenevano che senza l'uso di embrioni umani ci sarebbe solo stata una catastrofe scientifica e biomedica. Dallo scontro etico e scientifico, anche veemente, è nata la necessità di trovare vie alternative alla clonazione umana, agli ibridi uomo-animale ed all'uso degli embrioni per la ricerca. La scienza con la S maiuscola le ha trovate, nelle cellule adulte riprogrammate ad uno stato embrionale e nelle staminali adulte. La via è aperta. A questo punto bisogna solo rimboccarsi le maniche e lavorare, per dare ai malati le risposte che sono state promesse. Se poi si volesse cogliere l'occasione per mettere da parte, una volta per tutte, le polemiche inutili e sfruttare, inoltre, una occasione unica per investire nella ricerca in questo ed altri settori promettenti, ci accorgeremmo che, quando questa crisi mondiale sarà terminata, l'Italia si potrebbe trovare in una posizione estremamente competitiva per quanto riguarda l'industria biotecnologica e biomedica. Ma su questo, l'esperienza amara m'insegna, non farei tanto affidamento. È per questo che i cervelli Italiani spesso tornano e, a volte, rimangono….con una gran voglia di andarsene per sempre.
*Professore Università della Bicocca e Ospedale Niguarda Cà Granda, Milano

Aprile on line 22.1.09
Verso la scissione. Individuale
di Marzia Bonacci


Il leader della minoranza Vendola ha fatto sapere che lascerà il Prc ma che qualsiasi uscita, per ora, è a titolo personale. L'area si riunirà nel week end a Chianciano per fare il punto sulla situazione che vede una parte restare dentro il partito. Mentre per quegli stessi giorni la Rifondazione di Ferrero ha lanciato il tesseramento

Mancano poche ore all'appuntamento di Chianciano dove l'area che fa capo a Nichi Vendola discuterà l'uscita da Rifondazione. Poche ore in cui tutto si mette in moto per dare vita ad una scissione che era già presente, anche se in forma potenziale, nelle dichiarazioni e negli atti che hanno accompagnato il Congresso di luglio, quando la maggioranza di Ferrero e Grassi ha dato vita al nuovo corso del partito segnando la fine della lunga fase bertinottiana.
Se qualcuno ha scelto di lasciare la casa comunista, però, altri hanno preso la decisione opposta di restare. Sempre fedeli alla mozione 2 e convinti del processo costituente del nuovo partito della sinistra, alcuni vendoliani hanno optato per rimanere dentro il Prc e condurre dall'interno la battaglia. Nomi noti come Milziade Caprili, Giusto Catania, Marilde Provera, Augusto Rocchi non se la sentono di lasciare via del Policlinico, sebbene la nuova segreteria e il suo progetto politico non li convincano affatto. Ma allo stesso tempo l'ipotesi di abbandonare Rifondazione per accelerare il processo costituente sotto la pressione dei prossimi appuntamenti elettorali rischia, secondo loro, di affossare il futuro nuovo partito. Meglio attendere allora, lavorando nella società e con gli altri soggetti politici (Sd, parte del PdCI e dei Verdi) per rilanciare la sinistra, facendo della formazione partitica un frutto più maturo.
Sono proprio i tempi lunghi l'aspetto che maggiormente preoccupa i vendoliani che hanno scelto di andare via. Restare in un partito in cui non ci si riconosce più, nel progetto politico e nel clima di veleni che lo stanno caratterizzando da mesi, appare per loro insostenibile. Se si aggiunge la recente vicenda della sostituzione di Sansonetti alla direzione di Liberazione, dai vendoliani vissuta come un vero vulnus democratico, il quadro per uscire è presto fatto.
Per ora, comunque, non c'è una decisione di massa ufficiale perché, come ha spiegato Vendola, lasciare il partito è una scelta che per adesso avviene a livello singolo. Sabato a Chianciano, ha spiegato il governatore pugliese, "chiuderemo una stagione politica e faremo i conti con la crisi travolgente della politica", fermo restando che anche la decisione di chiudere con Rifondazione è qualcosa di individuale: "Io parlo per me, non voglio una leva militare, non chiedo un reclutamento. Ognuno deve fare i conti con la propria coscienza", ha infatti spiegato ai microfoni del Tg3 di tarda serata annunciando in via definitiva che lascerà la formazione. Con lui usciranno molti nomi noti: Franco Giordano, Gennaro Migliore, Graziella Mascia, Rina Gagliardi.
A niente valgono gli inviti a restare. L'appello rivolto in extremis per i vendoliani è ormai irricevibile: se si voleva ricucire, è il loro ragionamento, lo si poteva fare nei mesi scorsi. Adesso, a decisioni prese, è troppo tardi. Innescare la marcia indietro non è più possibile e del resto, forse, non è nemmeno ciò che vogliono entrambi, sia la minoranza che l'attuale segreteria. A questa scissione si è arrivati tutti preparati, nel senso che era nell'ordine delle cose fin da luglio e dall'assise di Chianciano: era solo una questione di quando, non di se.
Cade nel vuoto perciò l'ultimo richiamo del responsabile organizzazione Grassi, oggetto di critiche furenti in questi mesi da parte dei vendoliani a cui, di contro, non ha risparmiato mai la polemica. "Non si può inventare un partito ogni due anni - dice Grassi - A sinistra del Pd c'e' Rifondazione, pur con tutti i suoi limiti. Stiamo attraversando un momento difficile, ma si può ripartire". In fondo, sostiene l'ex senatore che ha dato i numeri della sua mozione per consegnare la segreteria a Ferrero, "lo ha fatto la Lega, che per uscire da una crisi gravissima ha puntato con forza su identità e radicamento territoriale, perchè non dovremmo riuscirci noi?".
Grassi non nasconde la sua visione: quella di lasciare il Prc è infatti "una scelta sbagliata" che determina "uno sbocco moderato" perché non "sollecitata da movimenti o istanze di lotta". Tradotto: la scelta dei vendoliani "si incrocia a livello nazionale con Sinistra democratica e a livello europeo con il Partito socialista", cioè il progetto politico sul quale si impegnano è quello di "costruire un partito di sinistra non comunista".
Per questo, la risposta del partito a tale uscita sarà quella di organizzare, proprio per il week end in cui i vendoliani si ritirano a Chianciano, un tesseramento straordinario perché "il futuro ha bisogno di Rifondazione". Che, per coloro che se ne vanno, però, non è la stessa in cui hanno investito Ferrero e la sua maggioranza.

Liberazione 23.1.09
Una domanda ai "patriarchi della sinistra"
Si può scrivere di comunismo senza citare Rosa Luxemburg?
di Lidia Menapace


Cari compagni, care compagne, leggo "Liberazione" e vi faccio molti auguri perché possiamo superare insieme tutte le difficoltà e andare avanti. Oggi (mercoledì 21 per chi legge, ndr) ero in treno tornando da Firenze a Bolzano e ho letto tutto, dal titolo al tamburino, sicché posso dare un giudizio generale. Mi sono sembrate molto equilibrate le pagine su Obama e di grandissima utiilità e piene di notizie di prima mano (diciamo d'inchiesta) tutte le pagine che vengono dalle manifestazioni operaie ecc., e che riguardano l'economia. Dunque: bene. Vorrei raccomandare di prestare più attenzione alla correzione delle bozze, perché gli errori di stampa sono un po' troppi, inoltre anche al rewriting, perché è curioso vedere la foto della Bresso indicata (correttamente) come "la" presidente della regione ecc., e nell'articolo subito sotto come "Il" presidente Mercedes Bresso: a parte qualsiasi altra considerazione è uno strafalcione di grammatica: una che si chiama Mercedes è una presidente e non un presidente.
Da qui in poi mi rivolgo solo ai compagni maschi, per dedicarmi a ciò che scrivono di Rifondazione e della nascita del comunismo, cioè i pezzi di Ferrero, Prestipino e l'annuncio del convegno dell'Ernesto. Meno male che vi è venuto in mente di intervistare Luciana Castellina, così abbiamo potuto sentire anche le opinioni di una donna, peraltro interrogata su di voi e non su di sé.
Ora qui abbiamo dei comunisti patriarchi che parlano di comunismo: si può scrivere di comunismo, di partito comunista, di lotta contro la prima guerra mondiale e non citare Rosa Luxemburg? si può parlare del grande movimento operaio del secolo scorso e non ricordarsi le donne?
Dalla Rivoluzione francese in qua per citare solo la contemporaneità ricordiamo solamente Olympe de Gouges, che chiese il voto per le donne e poi - differenziandosi da Condorcet - specificò per la differenza femminile il diritto alla scuola per le bambine, una assistenza al parto che lo rendesse non una morte quasi certa e il diritto di riconoscere i figli e dare loro il cognome, dato che erano sicure di averli fatti e fatte; e le suffragiste inglesi che si battevano per il suffragio e che tra molto altro, un giorno che si discuteva nel parlamento inglese di una legge detta gentilmente "legge sui bastardi" buttarono volantini sui parlamentari, per dire che forse ci sono genitori bastardi, ma che i figli e le figlie sono tutti uguali; e le femministe statunitensi rifiutare il diritto matrimoniale che le voleva soggette al marito; e allearsi con i neri che fuggivano dagli stati schiavisti (e oggi mandano a Obama dalle università dove insegnano come economiste un documento firmato da 1000 accademici perché tenga conto delle donne nella lotta contro la crisi). E le donne liberali in Europa e in Italia il voto (Annamaria Mozzoni anche il divorzio e la parità), le socialiste di votare lavorare e che si lottasse contro le tratta, le cattoliche che si votasse, lottasse contro la tratta e il diritto al lavoro: come pensate che la Merlin avrebbe potuto ottenere la chiusura dei casini e la dichiarazione che la prostituzione non è un reato, se non avesse trovato alleanza tra le altre donne socialiste e cattoliche data l'ostilità del Pci? e nell'antifascismo si può dimenticare Camilla Ravera? e si può parlare del '68 senza citare il femminismo? Questo, per fare storia come piace a voi, tra grandi nomi e molti libri (ma il femminismo tra l'altro ha una bibliografia vastissima eccellente intelligentissima variegatissima ecc. ecc.). Se poi si volesse fare storia per soggetti o delle masse (cioè dal basso) vi scordereste delle "filandere" e di tutte le tessili, delle mondine, delle racoglitrici di olive e di bergamotto, delle guantaie, delle telegrafiste postine e levatrici, delle setaiole di Como e di quelle di Caserta, delle migranti e delle vedove bianche, ecc.ecc. ecc., delle postine e di tutte le maestrine dalla penna rossa e di tutte le insegnanti della scuola italiana fino ad oggi e di quelle che lavorano nei call center e ai computer ecc. ecc. ecc. e di quelle precarie e disoccupate, di quelle cui vengono meno i servizi? La storia cui vi riferite è falsa o almeno reticente. E se pensate che si potrebbe, oh momentaneamente!, accettare la fine del Welfare e rinviare le donne a casa ad occuparsi di chiesa, cucina, bambini, malati ecc. secondo la vecchia ricetta di Bismarck (Kirche Kueche Kinder Kranken) sappiate che è già successo ed è andata male: una delle cause del fascismo fu la sciagurata idea di D'Aragona che pensò si potessero accontentare gli ex combattenti rinviando a domicilio le donne, ma le donne ridivenute casalinghe dipendenti dalla famiglia divennero un potentissimo freno alle lotte.
Quando sento patriarchi di destra, mi sembra ovvio e mi metto a ribattere a lottare a criticare di gusto e di voglia: ma se sono patriarchi di sinistra e che si dicono comunisti è un avvilimento e un vero dolore, non mi va giù, mi colpisce: insomma è possibile che non riusciate a guardare oltre la vostra barba? e dove credete di andare così? Con affetto e rabbia