giovedì 29 gennaio 2009

Repubblica 29.1.09
Un enigma tra Marx E DARWIN
La strana amicizia tra il rivoluzionario e lo scienziato evoluzionista
di Stephe Jay Gould

Perché mai il biologo Ray Lankester, rispettabile espressione dell´establishment britannico più tradizionale, sentì il bisogno di partecipare ai funerali dell´autore del "Capitale"?
Amava l´arte e la letteratura conosceva molto bene il francese e il tedesco
Quel giorno a Highgate, per l´ultimo addio, erano presenti solo nove persone

Anticipiamo un brano del libro "I Have Landed. Le storie, la storia" di , Codice edizioni, Pagg. 452, euro 33 in uscita in questi giorni

Torniamo all´Highgate Cemetery, e alla sepoltura di Karl Marx, avvenuta il 17 marzo 1883. Friedrich Engels, che per tutta la vita fu amico e collaboratore di Marx (e anche suo "angelo" finanziario, grazie a un´azienda tessile di famiglia a Manchester), descrisse la cerimonia: raccolta, breve e modesta. Lo stesso Engels pronunciò un breve discorso in inglese comprendente il seguente commento, molto citato: «Proprio come Darwin scoprì la legge dell´evoluzione nella natura organica, Marx scoprì la legge dell´evoluzione nella storia umana». Sebbene le cronache dell´epoca varino un poco, le più generose fissano a nove il numero dei convenuti sul luogo della sepoltura – uno iato fra risonanza immediata e influenza successiva superato forse soltanto dalla sepoltura di Mozart in una fossa comune (escludo, naturalmente, uomini famosi come Bruno e Lavoisier, ai quali, essendo stati condannati a morte, fu ufficialmente negato ogni rito funebre).
L´elenco dei presenti ha una sua logica (con un´unica eccezione). Presenziarono al rito la moglie e la figlia di Marx (un´altra figlia era morta da poco: un evento che esacerbò la depressione di Marx e probabilmente ne accelerò la fine), i suoi due generi francesi socialisti (Charles Longuet e Paul Lafargue) e quattro persone non imparentate con il defunto ma che avevano con lui legami di vecchia data, oltre a impeccabili credenziali di socialisti e attivisti. Costoro erano: Wilhelm Liebknecht, fondatore e leader del Partito socialdemocratico tedesco (il quale tenne un vibrante discorso in tedesco che – insieme all´orazione funebre in inglese di Engels, a una breve dichiarazione in francese di Longuet e alla lettura di due telegrammi inviati dal partito dei lavoratori francese e spagnolo – costituì l´intero programma delle esequie); Friedrich Lessner, condannato a tre anni di carcere al processo contro i comunisti celebratosi a Colonia nel 1852; G. Lochner, descritto da Engels come «un vecchio membro della Lega comunista»; e Carl Schorlemmer, un professore di chimica di Manchester, ma anche vecchio seguace comunista di Marx ed Engels, combattente a Baden nell´ultimo sollevamento dei moti rivoluzionari del 1848.
Il nono e ultimo convenuto, però, sembra entrare nel quadro appena descritto come il proverbiale cavolo a merenda, così che pare esservi inserito a forza, come un oggetto quadrato in un buco rotondo: si tratta di E. Ray Lankester (1847-1929), già allora giovane biologo evoluzionista britannico di spicco e insigne discepolo di Darwin, ma che in seguito sarebbe diventato – come Professor Sir E. Ray Lankester K.C.B. (Cavaliere dell´Ordine di Bath), M.A. (la laurea "guadagnata" di Oxford o Cambridge),D.Sc. (una successiva laurea honoris causa come dottore in scienze), F.R.S. (fellow della Royal Society, la più prestigiosa accademia della scienza britannica) – fra i più celebrati e i più boriosi scienziati britannici tradizionalisti e socialmente eminenti. Lankester salì la scala accademica partendo da esordi esemplari, fino a raggiungere un finale di massimo rilievo, dapprima come professore di zoologia allo University College di Londra, poi come Fullerian Professor di fisiologia alla Royal Institution, e infine come Linacre Professor di anatomia comparata alla Oxford University. Diede poi l´ultimo tocco alla sua carriera assumendo la direzione (dal 1898 al 1907) del British Museum (Natural History): nel suo campo, la posizione di massimo potere e prestigio. Perché mai, in nome del cielo, questo perfetto esemplare di rispettabilità britannica, questo scienziato d´élite, fondamentalmente conservatore, si trovava insieme a un gruppo di vecchi comunisti (per la maggior parte tedeschi) al funerale di un uomo descritto da Engels, nella sua orazione funebre, come il «più odiato e calunniato del suo tempo»?
Lo stesso Engels sembrò percepire l´anomalia quando, nel concludere il suo rapporto ufficiale sulle esequie pubblicato su Der Sozialdemokrat di Zurigo il 22 marzo 1883, scriveva: «Le scienze naturali erano rappresentate da due celebrità di prima grandezza, lo zoologo Professor Ray Lankester e il chimico Professor Schorlemmer, entrambi membri della Royal Society di Londra». Certo, ma Schorlemmer era un compatriota di Marx: suo amico da sempre e suo alleato politico. Lankester invece conobbe Marx non prima del 1880 e non poteva esser definito – nessuno sforzo di immaginazione sarebbe bastato – né un suo sostenitore politico, né un suo simpatizzante (al di là della condivisione di una assai generale convinzione nel miglioramento degli esseri umani attraverso l´educazione e il progresso sociale). Inizialmente Marx si era rivolto a Lankester allo scopo di farsi raccomandare un medico per la moglie e la figlia malate, e in seguito anche per se stesso. Evidentemente, questo contatto professionale si era poi sviluppato diventando una salda amicizia. Ma che cosa poteva aver avvicinato due persone così profondamente diverse?
Sicuramente non possiamo cercare la causa primaria di quella cordiale simpatia in qualche aspetto radicale dell´opera biologica di Lankester che possa essere accostato al tenore dell´impresa di Marx nel campo delle scienze politiche. Lankester può essere considerato il miglior morfologo evoluzionista della prima generazione di biologi impegnati a riflettere sulle implicazioni dell´epocale scoperta di Darwin. Oggi però gli studi di Lankester appaiono come poco più di un´esemplificazione delle idee di Darwin e di una loro applicazione a diversi gruppi specifici di organismi: un lavoro di "completamento" che spesso fa seguito ai grandi progressi teorici, ma che a posteriori non sembra esprimere il dono d´una grande originalità. (...)
Quando ci chiediamo perché un biologo fondamentalmente conservatore come Lankester poteva aver apprezzato e tenuto in gran considerazione la compagnia di un vecchio agitatore come Karl Marx, fatichiamo a non guardare quest´ultimo attraverso le lenti delle successive catastrofi umane perpetrate in suo nome – da Stalin a Pol Pot. D´altra parte, quand´anche decidessimo di ritenere Marx in parte responsabile per non aver previsto le possibili conseguenze delle sue stesse dottrine, dobbiamo comunque ammettere che nel 1883, quando egli morì, quelle tragedie erano ancora in un futuro inconoscibile. Il Karl Marx che conobbe Lankester nel 1880 non dev´essere confuso con il Karl Marx portabandiera postumo di alcuni dei peggiori crimini commessi nella storia dell´umanità. Quando accostiamo E. Ray Lankester (massiccio, imponente relitto della biologia vittoriana ed edoardiana) a Karl Marx (citato come colui che fornì una base razionale alla carriera omicida di Stalin) e poi ci domandiamo come due uomini così diversi potessero stare nella stessa stanza, e meno che mai provare il calore dell´amicizia, commettiamo dunque un errore.
Nel 1880, Lankester era un giovane biologo di ampie vedute sulla vita e sull´intelletto, dotato di una mente libera a cui non importava un accidente delle convenzioni di rispettabilità politica, a prescindere dalle sue stesse posizioni, fondamentalmente conservatrici. Dimostrando una rara gamma d´interessi fra gli scienziati di professione, amava anche l´arte e la letteratura e sapeva molto bene il francese e il tedesco. Inoltre, ammirava in modo particolare il sistema universitario tedesco – all´epoca orgoglioso modello d´innovazione –soprattutto nel momento in cui lo confrontava con il meschino classicismo di Oxford e Cambridge, tanto spesso oggetto del suo massimo disprezzo e della sua frustrazione.
Perché mai Lankester non avrebbe dovuto godere, addirittura aver cara, l´attenzione di un intelletto straordinario come quello di Karl Marx (giacché proprio questo fu: un intelletto straordinario, qualsiasi cosa si voglia pensare delle sue dottrine e delle loro conseguenze)? Che cosa avrebbe potuto far più piacere a Lankester dell´amicizia di un uomo più anziano tanto brillante, che conosceva così bene l´arte, la filosofia e i classici, e che riassumeva in sé l´eccellenza intellettuale tedesca, oggetto della sua massima ammirazione? E quanto a Karl Marx – vecchio, malato, gravemente depresso –, che cosa avrebbe mai potuto offrirgli più sollievo, all´ombra della morte, della compagnia di giovani ottimisti, entusiasti, intelligenti, nel fiore del loro sviluppo intellettuale?
Considerati sotto questa luce – ossia nella luce appropriata del loro tempo, non viziata dalle distorsioni anacronistiche costituite da eventi successivi che, se noi non riusciamo a ignorare, loro non potevano tuttavia conoscere –, Marx e Lankester sembrano idealmente adatti, anzi quasi destinati, alla calda amicizia che infatti nacque fra loro.
Tutti gli studi storici – che si tratti di tracciare biografie umane o linee evolutive in biologia – soffrono potenzialmente di questa fallacia "presentista". Chi scrive nel presente conosce le conseguenze imprevedibili generate dagli eventi passati – e spesso giudica, in modo improprio, motivi e azioni dei soggetti in studio in termini di scenari futuri, all´epoca inconoscibili. Capita così, fin troppo spesso, che gli evoluzionisti collochino un´esigua linea marginale di pesci devoniani (creature che vivevano in piccole raccolte d´acqua dolce) molto in alto nella scala dell´essere, e li considerino destinati al successo: perché oggi noi sappiamo – ma solo a posteriori – che da questi organismi furono generati tutti i moderni vertebrati terrestri, compresi noi, i tanto glorificati esseri umani. E tributiamo un onore eccessivo a una particolare specie di primati africani, considerandola fondamentale per lo slancio in avanti dell´evoluzione, solo perché il nostro tipo esclusivo di coscienza sorse, grazie a favorevoli contingenze, proprio da quel ceppo precario. E se in passato noi nordisti oltraggiammo Robert E. Lee tacciandolo di tradimento, oggi tendiamo invece a considerarlo in una luce più distaccata e benevola, come un uomo di principi e grandissimo leader militare; d´altra parte, nessuna posizione estrema – né l´una né l´altra – può cogliere o spiegare davvero quest´uomo affascinante nel contesto più appropriato del suo tempo.
Di fronte alla fortuna delle nostre attuali circostanze, un po´ di umiltà potrebbe farci bene. Un poco più di ammirazione per le realtà del passato – affrancate dal giudizio che scaturisce dal loro esito successivo, esito di cui noi soltanto possiamo essere a conoscenza – potrebbe aiutarci a comprendere la nostra storia, ovvero la fonte primaria della nostra presente condizione. Forse potremmo prendere a prestito una frase scritta da un uomo avvilito, che morì nel dolore, ancora straniero in terra straniera nel 1883, ma che almeno godette della consolazione offerta da giovani come E. Ray Lankester: un amico leale che non evitò il funerale di un espatriato tanto impopolare e reietto.
La storia rivela modelli e regolarità che aumentano le nostre capacità di comprensione. D´altra parte, essa esprime anche le imprevedibili debolezze della passione, dell´ignoranza e dei sogni di trascendenza umani. Per quanto sia legittimo decidere di giudicare le motivazioni e le intenzioni dei nostri predecessori, noi possiamo arrivare a cogliere il significato degli eventi del passato solo considerando i termini e le circostanze in cui essi ebbero luogo. Karl Marx cominciò il suo più celebre trattato storico, lo studio dell´ascesa al potere di Napoleone III, scrivendo: «Gli uomini fanno la propria storia, ma non la fanno a loro arbitrario piacimento».

Repubblica 29.1.09
Il vero volto del suicidio
Patologia sociale o atto di libertà? perché l´occidente l´ha condannato
Uno studio di marzio barbagli

Sessantadue italiani su cento lo ritengono moralmente sbagliato. Intanto le morti calano dove il disagio trova risposte
Dopo secoli di colpevolizzazione oggi a prevalere è il sentimento della pietà
Per la Chiesa il caso Englaro è l´ultima trincea di una resistenza ormai sconfitta

BOLOGNA
Ian Palach. Sansone. Giuda. Mohamed Atta. Catone. Sylvia Plath. Anna Karenina. Adolf Hitler. Piergiorgio Welby. Forse esistono tante ragioni per Congedarsi dal mondo (Il Mulino, pagg. 526, 32 euro) quanti sono gli individui, storici o immaginari, che hanno scelto di farlo per libera scelta e di propria mano. Tracciare un "sistema del suicidio" sembra uno sforzo impervio quanto analizzare i motivi stessi della vita e della morte. Tuttavia Marzio Barbagli, sociologo all´Università di Bologna, studioso della criminalità e dei comportamenti devianti, della famiglia e dell´omosessualità, con questo denso volume su cui ha speso otto anni di lavoro, non è il primo ad aver tentato l´impresa. Prima di lui il padre della sociologia classica, Émile Durkheim, dalle cui conclusioni - anzi, contro di esse - Barbagli sviluppa la sua tesi: solo quando, dopo secoli di ferocissima repressione, il "delitto di Satana" è stato laicizzato e naturalizzato, è stato possibile conoscerne il vero volto, che non è solo quello della disperazione privata e della disgregazione, ma anche quello di una prerogativa umana; ed anche, in anni recenti, sconfiggerne le manifestazioni più oscure e patologiche.
Per la Chiesa il suicidio è peccato; per Durkheim, patologia sociale: non è la stessa condanna in due forme diverse, professore?
«Ma il suicidio non è solo una patologia sociale, come non è solo una patologia clinica. In certi casi è anche la consapevole rivendicazione di una libertà fondamentale dell´individuo, il diritto di decidere della propria vita, di fronte alla quale anche la morale cristiana ha dovuto cedere terreno».
La Chiesa è tuttora severa con chi rivendica quel diritto: Piergiorgio Welby non ha potuto avere esequie religiose.
«Il dibattito odierno sul diritto al rifiuto delle cure è niente rispetto a ciò che fu nel passato la repressione del suicidio. Dopo iniziali incertezze, da Sant´Agostino in poi la Chiesa considerò la morte autoinflitta come un delitto più orrendo dell´omicidio, un peccato irredimibile e contagioso. Chi si indigna oggi per i toni di alcuni vescovi non sa che ferocia raggiunsero per secoli le sanzioni inferte ai corpi dei suicidi e ai loro familiari. Quei toni e quelle minacce oggi non hanno più corso, la Chiesa e i suoi ministri sono più comprensivi verso i suicidi, nei singoli casi e anche nella dottrina; il suicidio resta un peccato, ma il Catechismo stesso prevede attenuanti e non esclude più la speranza nel perdono».
Cosa ha prodotto questa indulgenza, o resa?
«Per essere efficace, il sistema repressivo della Chiesa non poteva basarsi solo sulle minacce ultraterrene; aveva bisogno del potere temporale, le cui leggi erano ugualmente severe. Ma nel Seicento la rivoluzione scientista cominciò a erodere le basi morali di quella severità: prima con le teorie degli "umori" e della "melancolia", poi con lo studio delle passioni e della mente, il suicidio è stato sottratto alla sfera del peccato e trasferito in quella della malattia. Da frutto della disperazione, cioè della perdita di Dio, il suicidio è diventato un fenomeno appartenente alla natura, da curare, non più da reprimere. Svuotato dalla colpa e privo di deterrenza punitiva, il sistema di valori costruito dalla Chiesa è crollato».
A giudicare dalle polemiche sul caso Englaro e sul testamento biologico, non sembra.
«È l´ultima trincea di una resistenza sconfitta. A differenza di molti colleghi, vedo in queste reazioni della Chiesa la difesa disperata di una forza non più egemone ma soccombente. La Chiesa presidia sempre più a fatica una posizione che i suoi stessi sacerdoti non riescono più ad applicare integralmente».
Svanita da tempo la repressione, solo ora però, col testamento biologico, il suicidio entra nella legislazione come diritto positivo.
«La Costituzione garantisce già il diritto a rifiutare le cure. Ma quel che conta è che le novità legislative affondano in un contesto morale che da molto tempo è profondamente mutato. Ufficializzano una rivoluzione già avvenuta. Dopo secoli di feroce condanna, oggi verso un suicida non si prova altro che commozione».
Anche Marx ha sbagliato: per lui il suicidio era un effetto dell´alienazione capitalista.
«Le spiegazioni del suicidio elaborate dai grandi pensatori dell´Ottocento non sono sbagliate: sono insufficienti. Per Durkheim ci si uccideva in conseguenza di un turbamento profondo della coesione o delle norme sociali: in molte situazioni è ancora vero, prenda l´ondata di suicidi nei paesi post-sovietici. Ma accade anche in società perfettamente stabili e regolate. Marx ignorava che la crescita impetuosa del fenomeno precede di almeno un secolo la rivoluzione industriale, ed è spiegabile proprio con l´alleggerirsi della repressione morale e penale del suicidio».
Tre capitoli del suo libro tracciano la storia, ben diversa, del suicidio in Oriente. Cosa ci svela il confronto?
«Quel che avviene in società dove la repressione religiosa del suicidio non è intervenuta. Nell´Occidente pagano alcune forme di suicidio erano tollerate e perfino onorate: quello della donna violentata, del condottiero sconfitto, la vendetta morale per un torto ricevuto. Il cristianesimo ha spazzato via questa cultura, mentre in Oriente è rimasta radicata».
I kamikaze infatti vengono dall´Oriente. Siamo all´ultima tipologia di suicidio: l´arma del più debole contro i suoi nemici.
«L´attentato suicida ha radici anche nella cultura giudaico-cristiana: Agostino si trovò assai in difficoltà alle prese con Sansone. Ma è vero che in Occidente il suicidio aggressivo è pressoché sconosciuto. Invece dall´India alla Cina darsi la morte per colpire un nemico, immolandosi con lui o facendogli ricadere addosso la colpa della propria morte, è una scelta messa a disposizione per secoli da culture diverse. Attribuirla solo al fanatismo islamico è riduttivo. Tra l´altro, almeno fino all´11 settembre 2001, gli attentatori suicidi di fede islamica erano solo la metà del totale. Certo, è l´arma del debole, e in questo è tecnicamente efficiente ed economica. Ma se non c´è un retroterra culturale, i kamikaze non si reclutano».
Un alto tasso di morti volontarie non è segno di disgregazione sociale? Nella sua Bologna papa Wojtyla accomunò i suicidi ai divorzi e agli aborti come "stigmate di morte".
«Ci si toglie la vita per essere meno infelici. È una scelta che può indicare disperazione, ma anche liberazione da un vincolo doloroso. Del resto, quando il divorzio era proibito le famiglie non erano per questo meno disgregate».
Se dalla crescita dei suicidi non si deduce la crisi sociale, è spesso vero l´inverso. Cosa dobbiamo aspettarci da questo 2009 di recessione mondiale?
«Come accadde nel ´29, forse un´impennata nel numero dei suicidi. Di un paio di casi clamorosi la stampa s´è già occupata. Ma non credo che la crisi riuscirà a invertire la tendenza, stabile da qualche decennio, alla forte diminuzione dei suicidi in Occidente. Una tendenza iniziata proprio là dove tre secoli prima partì quella contraria: nei ceti più istruiti, nei contesti urbani. In Italia il tasso di suicidi tra laureati si è dimezzato in vent´anni, a Milano e Torino stessa cosa. Qui si vede come Durkheim sbaglia: non viviamo in società più coese di prima, eppure ci si uccide sempre meno».
I veri motivi?
«La terapia del dolore ha tolto di mezzo molti stati di disperazione. La medicalizzazione del disagio psicologico anche. Chi soffre di depressione o di disturbi mentali, oggi sa che queste sono malattie e non colpe, sa che può curarsi, che non è obbligato a sopportare fino al limite estremo».
Dove le scomuniche del prete hanno fallito, le cure del dottore hanno successo?
«Sessantadue italiani su cento ritengono ancora moralmente sbagliato il suicidio. In Svezia già solo il 29%. Intanto i suicidi calano là dove il disagio trova risposte e non punizioni. Credo significhi quello che dice lei».

Repubblica 29.1.09
La fortezza di Ratzinger
di Carlo Galli

Il punto che consente di individuare correttamente qual è la posta in gioco nella vicenda del vescovo lefebvriano negazionista è che la richiesta di perdono dei suoi confratelli è stata rivolta al Santo Padre, e non agli ebrei o all´opinione pubblica mondiale, cioè alla forma concreta che prende oggi l´umanità.
All´origine di questa insensibilità verso la fraternità universale e verso il dovere di testimoniare la verità davanti all´intero consesso umano, c´è il nucleo del pensiero dei tradizionalisti. Le loro fonti intellettuali sono infatti i controrivoluzionari cattolici del primo Ottocento - polemisti come Maistre, Bonald, Donoso Cortés - e l´intransigentismo antimoderno che di lì si è propagato dentro la Chiesa e all´interno delle gerarchie, fino almeno a Pio X (a cui è intitolata la confraternita dei lefebvriani). Un pensiero di micidiale coerenza - superato solo dal Concilio Vaticano II - che consiste soprattutto nell´affermazione di un´autorità (il papa, vertice della Chiesa) e nella interpretazione del cattolicesimo come un insieme di dogmi identitari, al di fuori dei quali non c´è salvezza: non a caso i tradizionalisti avversano il principio conciliare della libertà religiosa, come in generale negano l´autonomia della politica dalla religione, unico fondamento che dia stabilità alle istituzioni umane. L´identità cattolica consiste nell´obbedienza all´autorità, e nella difesa della Chiesa da chi le è nemico (il mondo moderno, generato dal protestantesimo) e da chi le è estraneo: in particolare, gli ebrei, che per di più sono anche deicidi e che, comunque sia, devono convertirsi alla vera fede.
Lo sterminio nazista, in quest´ottica, può essere negato - o minimizzato come questione storica che non interessa i religiosi, come si legge nella lettera di scuse al pontefice - perché si vuole dimostrare che l´antisemitismo (religioso, s´intende, non razziale) è giustificabile, e che le sue conseguenze non sono necessariamente quel mostruoso crimine davanti a ogni Dio e a ogni uomo che è stata la Shoa. Se tale negazione crea qualche problema - com´è inevitabilmente avvenuto - allora ci si scusa con l´autorità, che da quel passo falso può avere difficoltà, e subire contraccolpi negativi: la questione è sostanzialmente ridotta a una faccenda di opportunità e si gioca solo nello spazio dell´autorità. Insomma, se il negazionismo "laico" serve a rendere spendibile politicamente il nazismo, liberato dalla colpa dello sterminio e trasformato in uno sforzo di difesa dell´Europa dalle minacce dell´Occidente americano e dell´Oriente bolscevico, l´antisemitismo tradizionalista (più o meno avventato nelle sue formulazioni) è interno e funzionale all´interpretazione autoritaria e identitaria del cattolicesimo.
La Chiesa cattolica ufficiale vede nel nazismo l´esempio estremo (insieme al comunismo) del Male a cui conduce la modernità che diventa pagana e antiumana proprio perché rifiuta Dio e si ribella all´autorità della Chiesa, pervertendo così anche la retta ragione umana. Una posizione che potrebbe essere enfatizzata come opposta a quella dei tradizionalisti: tuttavia la connotazione specifica di questo pontificato porta la Chiesa all´utilizzazione costante del principio di autorità (da ultimo con la contrapposizione della legge di Dio - interpretata dalla gerarchia - a quella dello Stato). Oggi, le affermazioni autoritarie non vanno certamente nella direzione di una giustificazione dello sterminio (semmai, si impegnano in una difesa dogmatica della vita); eppure la Chiesa sembra trattare i tradizionalisti come "fratelli che sbagliano", come un figliol prodigo esuberante ed estremista ma recuperabile, appunto perché è orientato nel senso giusto, perché crede prima di tutto nell´autorità come dimensione essenziale della vita religiosa organizzata. È in nome della comune affermazione - l´una prudente, l´altra imprudente - del principio di autorità che, anziché tenere fermo il muro (la scomunica) alzato da un altro pontefice, la Chiesa oggi riammette i lefebvriani nella propria comunità, a patto che tornino all´obbedienza papale.
Probabilmente, è questo uno dei segni che fanno capire con quanta convinzione la Chiesa si schieri oggi sulla difensiva, quanto profondamente si interpreti come una fortezza assediata, un´identità coinvolta in un conflitto di civiltà,che si gioca tanto all´interno dell´Occidente quanto all´esterno. Certo, questo clima intellettuale e argomentativo, che porta la Chiesa a conciliarsi piuttosto con i tradizionalisti che col mondo di oggi, costringe a ritornare ai "fondamentali" della Modernità, alla sua lotta contro il principio di autorità: e a ricordare che le affermazioni dogmatiche, comunque orientate, portano con sé la potenziale negazione della libertà e della verità che gli uomini faticosamente costruiscono nella loro vicenda storica.

Repubblica 27.1.09
Arendt e Heidegger
Antonia Grunenberg ha scritto un libro sulla passione tra l’allieva e il filosofo
Due amanti pieni di colpe
Si capiscono ora anche i lati più oscuri e perché Hannah, ebrea, ricercò Martin, il maestro abbagliato dal nazismo, dopo la guerra
Fu un rapporto fatto di felicità e tragedia, che attraversò parte del Novecento
Dopo il ´45 fu lei la figura dominante per il ruolo pubblico che svolgeva
di Vanna Vannuccini
Un amore in Germania nel secolo appena passato che mette a nudo le lacerazioni della storia e della cultura tedesca. Un rapporto fatto di felicità e tragedia, impegno e delusione. Due amanti che per origine, carattere e esperienze di vita non avrebbero potuto essere più distanti. Da quando sono state pubblicate le lettere di Hannah Arendt e Martin Heidegger (quelle di lui erano state a lungo inaccessibili) la loro storia d´amore si è rivelata al lettore in ogni dettaglio. Per quanto riguarda lei è la storia di una liberazione del pensiero, dell´emancipazione intellettuale di una donna perseguitata perché ebrea. Per quello che riguarda lui è la storia di un maestro che abbagliato dal potere tradisce se stesso e il proprio pensiero. Per entrambi è però anche la forza di un amore, al quale soprattutto lei è incondizionatamente fedele, in nome della fedeltà verso se stessa.
Il seme di questa fede incondizionata nell´entelechia dell´amore lo aveva gettato il trentacinquenne professore che le citava Agostino ("amo significa volo ut sis, voglio che tu sia come sei") e già nella sua seconda lettera, il 21 febbraio 1925, le scriveva : "Perché l´amore è un dolce fardello? Perché noi ci trasformiamo in ciò che amiamo eppur restiamo noi stessi. Vogliamo dire grazie all´amato ma non troviamo niente che sia sufficiente se non il dono di noi stessi. Così l´amore trasforma la gratitudine in fedeltà a se stessi e nella capacità di credere incondizionatamente nell´altro". Tanta totale disponibilità naturalmente non sedusse solo sul piano filosofico la studentessa diciottenne, bella e affamata di sapere. Tre anni dopo, lasciata Marburg dove insegnava Heidegger, Hannah Arendt si laureò a Heidelberg con Jaspers con una tesi sul concetto di amore in Agostino.
Antonia Grunenberg, che dirige il Centro e l´Archivio Hannah Arendt all´Università di Oldenburg, ci racconta in un libro ben curato e dettagliato (Storia di un amore, Longanesi, pagg. 500, euro 22) la storia di questo amore che fece scandalo ? non solo perché era il legame tra una ragazza e un uomo sposato e padre di famiglia; lo scandalo continuò anche dopo la guerra perché lei, emigrata negli Stati Uniti, volle riprendere fin dal suo primo viaggio di ritorno in Germania i contatti con lui, che si era lasciato sedurre dal nazionalsocialismo e nel 1933 era stato nominato rettore dell´Università di Marburg. Qual è il segreto di un amore così pervicace da ignorare qualsiasi tipo di delusione?
«Il segreto del loro amore era, io credo, quello di prendere nutrimento da più fonti. Una di queste era la passione . Ma un´altra era la fedeltà, un´altra ancora la fede nella verità del vissuto; e infine il comune, ancorché conflittuale, rapporto con il pensiero e il suo sviluppo».
Perché Hannah Arendt volle riprendere i contatti con Heidegger?
«Dalle lettere e da tutte le notizie che abbiamo è evidente che Arendt prima di tutto voleva sapere se il suo amore era stato vero, se aveva anche per Heidegger questo significato esistenziale che lei gli attribuiva; o invece se per lui era stato soltanto un affaire, una storia. Certamente c´era da parte di lei anche la curiosità di sapere che cosa fosse divenuto davvero quest´uomo che aveva tradito la filosofia, il pensiero e lei stessa. Tra gli emigrati negli Stati Uniti si parlava continuamente degli amici e dei colleghi di un tempo, di quanto si fossero compromessi col nazismo, e su Heidegger correvano le voci più disparate. Si sapeva che era stato uno dei primi rettori universitari a passare al nazismo a bandiere spiegate. Perciò lei voleva sapere quello che veramente aveva fatto, chi era, come si era comportato».
La scoperta più interessante nelle sue ricerche?
«E´ stato capire a fondo quale fosse l´idea dell´amore per Hannah Arendt. Secondo lei dall´amore tra due persone nasce una terza cosa che è un riferimento per entrambi. L´amore non consiste solo nei sentimenti verso l´altro, ma prende una forma propria ? che chiede qualcosa a entrambi gli amanti. Ho anche capito perché Hannah Arendt dopo la guerra abbia sempre rifiutato la definizione di filosofa, anche se si muoveva nell´ambito della filosofia. Aveva infatti elaborato una critica radicale al modo in cui Heidegger e altri si occupavano di filosofia come materia di riflessione senza sentire nessun impegno verso il mondo, senza manifestare in alcun modo quella "cura" in senso ontologico di cui Heidegger parla diffusamente in Essere e Tempo. Secondo Arendt questo pensiero che distoglieva lo sguardo dal mondo fu una delle cause del fallimento degli intellettuali europei di fronte agli avvenimenti politici del secolo scorso».
Alla fine, diventa Hannah la figura dominante nel loro rapporto?
"Hannah Arendt era una figura dominante e Heidegger, almeno quando lei lo incontrò di nuovo dopo la guerra, era un pensatore chiuso in se stesso, che esercitava il pensiero non con la determinazione ma piuttosto attraverso la calma, la contemplazione. Certamente lei non lo ha mai dominato, ma poiché si muoveva nel mondo più di lui, aveva più collegamenti con il mondo reale, poteva nei loro colloqui anche sfidarlo, provocarlo».
Il rapporto tra Arendt e Heidegger è secondo lei in qualche modo paradigmatico dei rapporti tra tedeschi e ebrei?
«In un certo modo e per un certo periodo senz´altro. Rapporti di questo genere ce ne sono stati molti. Gli intellettuali tedeschi e gli intellettuali ebrei si influenzavano reciprocamente. E´ vero che alla fine del 19esimo secolo c´era stata una divisione negli ambienti del movimento giovanile nazionalista, ma prima del 1933 non aveva influito su i veri grandi intellettuali. E questa era stata fino al ?33 anche l´esperienza di Hannah Arendt. Fu nel ?33 che la situazione precipitò e gran parte degli intellettuali tedeschi e europei si rivelarono volenterosi collaboratori dei regimi autoritari. L´esperienza del crollo dell´intellighenzia europea fu considerata paradigmatica da Arendt e fu quello che la spinse a riflettere continuamente sul rapporto del pensiero filosofico col mondo».
Uno dei temi su cui riflette è la natura della responsabilità di chi è sottoposto, praticamente disarmato, alla propaganda di un regime totalitario. Qual è il suo giudizio?
«Nei dibattiti del dopoguerra sulla colpa e sulla responsabilità Hannah Arendt tracciò un confine preciso. In genere la discussione oscilla tra due poli. Chi dice che sotto una dittatura non si può parlare di responsabilità perché la dittatura è violenza e costrizione. E chi sostiene che esiste l´obbligo a resistere, anche a rischio della vita. Hannah Arendt propone una terza prospettiva. Con Kant e con Socrate lei sostiene che nessun uomo può voler convivere con il suo alter ego criminale. Il nostro alter ego (che in termini cristiani è la coscienza) ci dice che non possiamo commettere crimini, altrimenti diventiamo nemici del genere umano. Hannah Arendt non teorizza la resistenza militante, ma dice che il minimo comune denominatore è non diventare complici del male, in quanto siamo portatori di una responsabilità verso la collettività e non possiamo accettare che vada distrutta. Quindi abbiamo almeno la possibilità di tirarci indietro. Se dessimo per scontato che i regimi totalitari possono distruggere anche l´ultima capacità dell´uomo all´autocontrollo nei termini del senso comune, torneremmo in una situazione precivilizzazione, in cui ognuno è nemico dell´altro : homo homini lupus. Questo è quello che la colpì particolarmente nella vicenda e nella persona di Adolf Eichmann, che era palesemente un uomo privo di coscienza. Proprio questo sensus communis era assente nell´epoca di cui parliamo, anche e soprattutto tra gli intellettuali».
Repubblica 27.1.09
Un libro su Santa Teresa d´Avila, una serenata in forma di fiction 
Lacan e Kristeva come godono i santi 
Un´analisi dedicata alla beata spagnola e alla sua estasi. Come interpretare questa forma sublime di rapimento? Perché il sesso non spiega tutto 
di Nadia Fusini (Nuccio Russo e Dina Battioni))
 
Teresa, mon amour è non solo il titolo dell´ultimo libro di Julia Kristeva (tradotto da Alessia Piovanello per Donzelli Editore, pagg.628, euro 35,00); è il ritornello che l´attraversa, quasi il libro tutto fosse una canzone, una lunghissima serenata che l´autrice dedica alla santa spagnola, alla sua estasi. In copertina, of course, la Transverberazione di Santa Teresa di Gian Lorenzo Bernini. Subito comprendiamo che lacaniano sarà il corteggiamento, debitore al medesimo fremito barocco che scioglie perfino il marmo della famosa scultura. E non a caso Jacques Lacan sceglieva lo stesso gruppo marmoreo a copertina del suo seminario Encore dell´anno accademico 1972-73. Dove nel capitolo sesto a chi volesse intendere l´amore divino e il godimento mistico si raccomandava di andare a Roma a contemplare la statua del Bernini. Guardatela e vedrete, affermava Lacan, vedrete che lei gode! Non c´è dubbio. E di che cosa gode? Di che cosa godono i mistici, le mistiche? Fino al secolo scorso, fino a Charcot, fino a Freud si sarebbe detto che era una faccenda puramente sessuale, energia libidica repressa, e così via.
No, dice Lacan, non è una questione di fottere, o meno. C´è di più. In quell´attacco c´è un vero e proprio passaggio all´ ex-sistenza, un passaggio in quell´"ex", in quel "fuori" che fa da prefisso alla parola ex-stasi.
In mille variazioni Julia Kristeva riprende il motivo lacaniano, intrecciando il delirio mistico alla dimensione immaginativa e alla scrittura, e in quest´ultima versione, in quanto scrittrice, fa "sua" la santa. Letteralmente se ne appropria. Si identifica. Una volta adottata questa chiave – la vera estasi è la scrittura- non ci vuole molto a stabilire una stretta affinità tra la santa e la scrittrice. Tanto più che Teresa, oltre che santa e scrittrice e fondatrice, fu interprete e analista dell´ anima.
A dare più brio alla serenata, l´inno a Teresa viene affidato a un alter ego, tale Sylvia Leclercq, psicoterapeuta, ossessionata, invasata dalla santa, intorno alla quale monta la sua fiction; fiction postmoderna, più che letteratura vera e propria, perché solo nel registro di una bulimica assimilazione, che procede per scorci temporali e incroci spaziali, pare a Sylvia di riuscire ad afferrare la vita della santa. Se Sylvia legge con passione le opere di Teresa, è per comprendere se stessa, le donne di oggi che incontra in terapia. E si esalta a certe affinità che intravvede. E´ meno sensibile alle differenze.
Il termine fiction piace alla dotta dottoressa di Linguistica e Semiotica Julia Kristeva, che in questa sua opera si sforza al massimo di rendere contemporaneo il suo soggetto anche grazie a una scrittura che si vuole veloce, gergale. E si concede vezzi modaioli che per via di slang ci presentano Teresa come "un big-bang fatto donna" (p.588); mentre per descrivere la sua religiosa confidenza con Dio si ricorre all´ espressione: "fare una Tac al mistero del Signore (p.274). Abbondano allusioni all´idea della rete. Internet, default sono termini che tornano. E i corsi di Derrida e di Kristeva alla Columbia University vengono citati come occasioni uniche per i pochi privilegiati che li frequentarono per penetrare, o meglio decostruire i misteri della rete che per l´appunto connetterebbe i mistici e i kamikaze. La nebulosa mistica si espande così in nebbia religiosa, e si aprono a ventaglio nel libro scottanti temi di attualità, tra cui sovrani i problemi del fanatismo e della fede: con Teresa sempre al centro, al crocevia di pensieri e concezioni di sé e del mondo che cambiano, che la vedono accanto a Montaigne, a Spinoza, a Cervantes. Teresa esponente sublime del Siglo de Oro. E ragazza d´oggi, runaway girl. Come Louise Bourgeois. Come Julia Kristeva. Tutte donne capaci di darsi un altro padre, un´ altra patria. E di farsi un nome!
In questo senso, Teresa mon amour è una "installazione" (p.577). E forse proprio tale termine meglio descrive questo strano libro troppo lungo, interessante quando si presenta come "una avventura nel cuore del credere" (p.565). Meno, quando riduce quell´avventura a una spiegazione della vita umana tutta – sia barocca sia contemporanea sia mistica sia mondana - in chiave di parafrasi attualizzante tradotta in termini psicoanalitici della vita medesima. A proposito della scrittura teresiana Kristeva parla di "una scrittura fuori genere, perché li mescola tutti" (p.311). Così fa lei qui; trasportata non dall´estasi, ma da una specie di hybris intellettuale che di certo non le manca, si fa una e trina: autrice, narratrice, protagonista del racconto, che è insieme una biografia, una autobiografia, un saggio, una fiction; alla fine, un monumento alla diva Julia.
Repubblica 27.01.2009
Arendt Heidegger Due amanti pieni di colpe
di VANNA VANNUCCINI

Un amore in Germania nel secolo appena passato che mette a nudo le lacerazioni della storia e della cultura tedesca. Un rapporto fatto di felicità e tragedia, impegno e delusione. Due amanti che per origine, carattere e esperienze di vita non avrebbero potuto essere più distanti. Da quando sono state pubblicate le lettere di Hannah Arendt e Martin Heidegger (quelle di lui erano state a lungo inaccessibili) la loro storia d' amore si è rivelata al lettore in ogni dettaglio. Per quanto riguarda lei è la storia di una liberazione del pensiero, dell' emancipazione intellettuale di una donna perseguitata perché ebrea. Per quello che riguarda lui è la storia di un maestro che abbagliato dal potere tradisce se stesso e il proprio pensiero. Per entrambi è però anche la forza di un amore, al quale soprattutto lei è incondizionatamente fedele, in nome della fedeltà verso se stessa. Il seme di questa fede incondizionata nell' entelechia dell' amore lo aveva gettato il trentacinquenne professore che le citava Agostino ("amo significa volo ut sis, voglio che tu sia come sei") e già nella sua seconda lettera, il 21 febbraio 1925, le scriveva : "Perché l' amore è un dolce fardello? Perché noi ci trasformiamo in ciò che amiamo eppur restiamo noi stessi. Vogliamo dire grazie all' amato ma non troviamo niente che sia sufficiente se non il dono di noi stessi. Così l' amore trasforma la gratitudine in fedeltà a se stessi e nella capacità di credere incondizionatamente nell' altro". Tanta totale disponibilità naturalmente non sedusse solo sul piano filosofico la studentessa diciottenne, bella e affamata di sapere. Tre anni dopo, lasciata Marburg dove insegnava Heidegger, Hannah Arendt si laureò a Heidelberg con Jaspers con una tesi sul concetto di amore in Agostino. Antonia Grunenberg, che dirige il Centro e l' Archivio Hannah Arendt all' Università di Oldenburg, ci racconta in un libro ben curato e dettagliato (Storia di un amore, Longanesi, pagg. 500, euro 22) la storia di questo amore che fece scandalo - non solo perché era il legame tra una ragazza e un uomo sposato e padre di famiglia; lo scandalo continuò anche dopo la guerra perché lei, emigrata negli Stati Uniti, volle riprendere fin dal suo primo viaggio di ritorno in Germania i contatti con lui, che si era lasciato sedurre dal nazionalsocialismo e nel 1933 era stato nominato rettore dell' Università di Marburg. Qual è il segreto di un amore così pervicace da ignorare qualsiasi tipo di delusione? «Il segreto del loro amore era, io credo, quello di prendere nutrimento da più fonti. Una di queste era la passione . Ma un' altra era la fedeltà, un' altra ancora la fede nella verità del vissuto; e infine il comune, ancorché conflittuale, rapporto con il pensiero e il suo sviluppo». Perché Hannah Arendt volle riprendere i contatti con Heidegger? «Dalle lettere e da tutte le notizie che abbiamo è evidente che Arendt prima di tutto voleva sapere se il suo amore era stato vero, se aveva anche per Heidegger questo significato esistenziale che lei gli attribuiva; o invece se per lui era stato soltanto un affaire, una storia. Certamente c' era da parte di lei anche la curiosità di sapere che cosa fosse divenuto davvero quest' uomo che aveva tradito la filosofia, il pensiero e lei stessa. Tra gli emigrati negli Stati Uniti si parlava continuamente degli amici e dei colleghi di un tempo, di quanto si fossero compromessi col nazismo, e su Heidegger correvano le voci più disparate. Si sapeva che era stato uno dei primi rettori universitari a passare al nazismo a bandiere spiegate. Perciò lei voleva sapere quello che veramente aveva fatto, chi era, come si era comportato». La scoperta più interessante nelle sue ricerche? «E' stato capire a fondo quale fosse l' idea dell' amore per Hannah Arendt. Secondo lei dall' amore tra due persone nasce una terza cosa che è un riferimento per entrambi. L' amore non consiste solo nei sentimenti verso l' altro, ma prende una forma propria - che chiede qualcosa a entrambi gli amanti. Ho anche capito perché Hannah Arendt dopo la guerra abbia sempre rifiutato la definizione di filosofa, anche se si muoveva nell' ambito della filosofia. Aveva infatti elaborato una critica radicale al modo in cui Heidegger e altri si occupavano di filosofia come materia di riflessione senza sentire nessun impegno verso il mondo, senza manifestare in alcun modo quella "cura" in senso ontologico di cui Heidegger parla diffusamente in Essere e Tempo. Secondo Arendt questo pensiero che distoglieva lo sguardo dal mondo fu una delle cause del fallimento degli intellettuali europei di fronte agli avvenimenti politici del secolo scorso». Alla fine, diventa Hannah la figura dominante nel loro rapporto? "Hannah Arendt era una figura dominante e Heidegger, almeno quando lei lo incontrò di nuovo dopo la guerra, era un pensatore chiuso in se stesso, che esercitava il pensiero non con la determinazione ma piuttosto attraverso la calma, la contemplazione. Certamente lei non lo ha mai dominato, ma poiché si muoveva nel mondo più di lui, aveva più collegamenti con il mondo reale, poteva nei loro colloqui anche sfidarlo, provocarlo». Il rapporto tra Arendt e Heidegger è secondo lei in qualche modo paradigmatico dei rapporti tra tedeschi e ebrei? «In un certo modo e per un certo periodo senz' altro. Rapporti di questo genere ce ne sono stati molti. Gli intellettuali tedeschi e gli intellettuali ebrei si influenzavano reciprocamente. E' vero che alla fine del 19esimo secolo c' era stata una divisione negli ambienti del movimento giovanile nazionalista, ma prima del 1933 non aveva influito su i veri grandi intellettuali. E questa era stata fino al '33 anche l' esperienza di Hannah Arendt. Fu nel '33 che la situazione precipitò e gran parte degli intellettuali tedeschi e europei si rivelarono volenterosi collaboratori dei regimi autoritari. L' esperienza del crollo dell' intellighenzia europea fu considerata paradigmatica da Arendt e fu quello che la spinse a riflettere continuamente sul rapporto del pensiero filosofico col mondo». Uno dei temi su cui riflette è la natura della responsabilità di chi è sottoposto, praticamente disarmato, alla propaganda di un regime totalitario. Qual è il suo giudizio? «Nei dibattiti del dopoguerra sulla colpa e sulla responsabilità Hannah Arendt tracciò un confine preciso. In genere la discussione oscilla tra due poli. Chi dice che sotto una dittatura non si può parlare di responsabilità perché la dittatura è violenza e costrizione. E chi sostiene che esiste l' obbligo a resistere, anche a rischio della vita. Hannah Arendt propone una terza prospettiva. Con Kant e con Socrate lei sostiene che nessun uomo può voler convivere con il suo alter ego criminale. Il nostro alter ego (che in termini cristiani è la coscienza) ci dice che non possiamo commettere crimini, altrimenti diventiamo nemici del genere umano. Hannah Arendt non teorizza la resistenza militante, ma dice che il minimo comune denominatore è non diventare complici del male, in quanto siamo portatori di una responsabilità verso la collettività e non possiamo accettare che vada distrutta. Quindi abbiamo almeno la possibilità di tirarci indietro. Se dessimo per scontato che i regimi totalitari possono distruggere anche l' ultima capacità dell' uomo all' autocontrollo nei termini del senso comune, torneremmo in una situazione precivilizzazione, in cui ognuno è nemico dell' altro : homo homini lupus. Questo è quello che la colpì particolarmente nella vicenda e nella persona di Adolf Eichmann, che era palesemente un uomo privo di coscienza. Proprio questo sensus communis era assente nell' epoca di cui parliamo, anche e soprattutto tra gli intellettuali».

Repubblica 27.01.2009
Lacan e Kristeva come godono i santi
di NADIA FUSINI

Teresa, mon amour è non solo il titolo dell' ultimo libro di Julia Kristeva (tradotto da Alessia Piovanello per Donzelli Editore, pagg.628, euro 35,00); è il ritornello che l' attraversa, quasi il libro tutto fosse una canzone, una lunghissima serenata che l' autrice dedica alla santa spagnola, alla sua estasi. In copertina, of course, la Transverberazione di Santa Teresa di Gian Lorenzo Bernini. Subito comprendiamo che lacaniano sarà il corteggiamento, debitore al medesimo fremito barocco che scioglie perfino il marmo della famosa scultura. E non a caso Jacques Lacan sceglieva lo stesso gruppo marmoreo a copertina del suo seminario Encore dell' anno accademico 1972-73. Dove nel capitolo sesto a chi volesse intendere l' amore divino e il godimento mistico si raccomandava di andare a Roma a contemplare la statua del Bernini. Guardatela e vedrete, affermava Lacan, vedrete che lei gode! Non c' è dubbio. E di che cosa gode? Di che cosa godono i mistici, le mistiche? Fino al secolo scorso, fino a Charcot, fino a Freud si sarebbe detto che era una faccenda puramente sessuale, energia libidica repressa, e così via. No, dice Lacan, non è una questione di fottere, o meno. C' è di più. In quell' attacco c' è un vero e proprio passaggio all' ex-sistenza, un passaggio in quell' "ex", in quel "fuori" che fa da prefisso alla parola ex-stasi. In mille variazioni Julia Kristeva riprende il motivo lacaniano, intrecciando il delirio mistico alla dimensione immaginativa e alla scrittura, e in quest' ultima versione, in quanto scrittrice, fa "sua" la santa. Letteralmente se ne appropria. Si identifica. Una volta adottata questa chiave - la vera estasi è la scrittura- non ci vuole molto a stabilire una stretta affinità tra la santa e la scrittrice. Tanto più che Teresa, oltre che santa e scrittrice e fondatrice, fu interprete e analista dell' anima. A dare più brio alla serenata, l' inno a Teresa viene affidato a un alter ego, tale Sylvia Leclercq, psicoterapeuta, ossessionata, invasata dalla santa, intorno alla quale monta la sua fiction; fiction postmoderna, più che letteratura vera e propria, perché solo nel registro di una bulimica assimilazione, che procede per scorci temporali e incroci spaziali, pare a Sylvia di riuscire ad afferrare la vita della santa. Se Sylvia legge con passione le opere di Teresa, è per comprendere se stessa, le donne di oggi che incontra in terapia. E si esalta a certe affinità che intravvede. E' meno sensibile alle differenze. Il termine fiction piace alla dotta dottoressa di Linguistica e Semiotica Julia Kristeva, che in questa sua opera si sforza al massimo di rendere contemporaneo il suo soggetto anche grazie a una scrittura che si vuole veloce, gergale. E si concede vezzi modaioli che per via di slang ci presentano Teresa come "un big-bang fatto donna" (p.588); mentre per descrivere la sua religiosa confidenza con Dio si ricorre all' espressione: "fare una Tac al mistero del Signore (p.274). Abbondano allusioni all' idea della rete. Internet, default sono termini che tornano. E i corsi di Derrida e di Kristeva alla Columbia University vengono citati come occasioni uniche per i pochi privilegiati che li frequentarono per penetrare, o meglio decostruire i misteri della rete che per l' appunto connetterebbe i mistici e i kamikaze. La nebulosa mistica si espande così in nebbia religiosa, e si aprono a ventaglio nel libro scottanti temi di attualità, tra cui sovrani i problemi del fanatismo e della fede: con Teresa sempre al centro, al crocevia di pensieri e concezioni di sé e del mondo che cambiano, che la vedono accanto a Montaigne, a Spinoza, a Cervantes. Teresa esponente sublime del Siglo de Oro. E ragazza d' oggi, runaway girl. Come Louise Bourgeois. Come Julia Kristeva. Tutte donne capaci di darsi un altro padre, un' altra patria. E di farsi un nome! In questo senso, Teresa mon amour è una "installazione" (p.577). E forse proprio tale termine meglio descrive questo strano libro troppo lungo, interessante quando si presenta come "una avventura nel cuore del credere" (p.565). Meno, quando riduce quell' avventura a una spiegazione della vita umana tutta - sia barocca sia contemporanea sia mistica sia mondana - in chiave di parafrasi attualizzante tradotta in termini psicoanalitici della vita medesima. A proposito della scrittura teresiana Kristeva parla di "una scrittura fuori genere, perché li mescola tutti" (p.311). Così fa lei qui; trasportata non dall' estasi, ma da una specie di hybris intellettuale che di certo non le manca, si fa una e trina: autrice, narratrice, protagonista del racconto, che è insieme una biografia, una autobiografia, un saggio, una fiction; alla fine, un monumento alla diva Julia.

lunedì 26 gennaio 2009

Repubblica 26.1.09
Le radici dell'Olocausto
di Susanna Nirenstein

Una genealogia della Shoah. La traccia arditamente Georges Bensoussan nel suo Genocidio. Una passione europea (Marsilio, pagg. 388, euro 21), individuando i semi già attivi nell´Ottocento e nel Settecento, i secoli della ragione e del progresso, da cui è nata la pianta totalitaria e omicida del Novecento. Un´operazione complessa, anche se lui stesso avverte, riprendendo un proverbio cinese, come «conoscere la fine non aiuti a comprendere l´inizio». Ma troppo grande è lo sconcerto per la distruzione degli ebrei nel cuore del mondo occidentale e questa opera di archeologia alla ricerca delle fonti della barbarie è generosa e piena di spunti.
Andando a ritroso dunque, tre sono i filoni che lo storico delle idee, già autore di un monumentale lavoro sul sionismo a cui è stato conferito a Parigi il "Prix Mémoire de la Shoah", segnala ed esplora: la natura di guerra totale del primo conflitto mondiale, concepita dai suoi protagonisti, primi fra tutti i tedeschi - ma non solo -, come una via per "l´igiene del mondo" da percorrere attraverso tutti i mezzi possibili (la Germania vi introdusse gas, campi di concentramento dove affamare e picchiare i prigionieri, utilizzo dei cadaveri per riempire i fossati...). Una visione, argomenta Bensoussan, resa possibile (e qui andiamo di nuovo all´indietro) dal darwinismo sociale sviluppato nell´XIX secolo che indica via via classi, gruppi (i malati), popoli, razze inferiori che devono soccombere: teorie nate all´interno dell´anti-illuminismo da cui derivano in generale un colonialismo predatore e razzista (vedi la soppressione degli Herrero, piuttosto che degli armeni), l´eugenetica della sterilizzazione dei malati gravi (già votata ad esempio nella Repubblica di Weimar).
L´antisemitismo infine: che Bensoussan giustamente associa all´antigiudaismo coltivato e agito secolarmente dalle Chiese cattolica e protestante, radicato sì nell´idea del "popolo deicida" ma, fin dalla fine del I millennio, evoluto in una dimensione razziale come dimostra l´ossessione per la purezza del sangue che perseguitò gli ebrei anche se convertiti.
Monsieur Bensoussan, dunque per lei esiste una sorta di gestazione unica, intellettuale ma non solo, dello sterminio biologico degli ebrei d´Europa. È così?
«No, non esiste una causalità lineare che conduca alla Shoah. Non esistono delle "cause". Ma un terreno culturale che prepara gli intelletti e li condiziona».
La prima matrice del "disastro" è la Prima Guerra Mondiale, ma non tanto per il risentimento e la sete di riparazione che lasciò in Germania, quanto per come venne concepita e condotta.
«Fu una tappa verso la guerra totale che non distinse tra militari e civili. Questa concezione del conflitto come "igiene del mondo" si coniugava con il sogno di un´umanità sottomessa unicamente alle leggi della scienza. Non fu appannaggio della sola Germania che però, per prima in Europa, ha introdotto alcune forme di annientamento totale. Ed è sempre la Germania che fin dal 1925 ha accolto l´insegnamento dell´igiene razziale nelle università tedesche»
La Germania durante la Prima Guerra concepì già l´Europa orientale come il suo "spazio vitale", il lebensbraun nazista, abitato solo da barbari e primitivi?
«Da tempo la Germania, attraverso le Leghe pangermaniste nate alla fine del XIX sec., pensava l´Est come un suo spazio naturale di espansione. Il disprezzo verso gli slavi era radicato. Allo scoppio del conflitto lo sguardo dei tedeschi su di loro è come quello del colonizzatore bianco che sbarca in Africa. Slavi ed ebrei gli appaiono popoli degenerati. Gli ebrei, per di più, vengono percepiti come pericolosi, specie dopo l´enorme flusso migratorio che li aveva condotti in Germania e Austria nell´ultima parte dell´Ottocento».
Nel riavvolgimento di questo nastro dell´orrore, lei rammenta lo sterminio degli Herrero (nelle colonie africane tedesche), ma più in generale il capitolo del colonialismo come un´altra tappa verso la concezione dell´esistenza di sotto uomini la cui vita non aveva alcun valore. E parla molto della responsabilità del darwinismo sociale. Ci può spiegare meglio?
«Ci fu un uso distorto della scienza. I successi ottenuti dalla biologia non furono sinonimi della costituzione del biopotere che considera l´uomo innanzitutto un essere vivente e non pensante, segnando così la fine della sua centralità. Anche se il darwinismo sociale e razziale ha impregnato i paesi sviluppati di quest´epoca, solo alcuni di loro hanno spazzato via le barriere etiche che fondano la nostra civiltà».
Al di là dei principi di selezione e sterminio che presero piede in Europa tra Ottocento e Novecento, cosa scattò perché questi divenissero realtà massificata, Shoah?
«L´idea di selezione, ovvero di sterminio, è all´origine di un razzismo moderno che si basa su studi scientifici distorti. Quest´idea è inseparabile dall´Europa della rivoluzione urbana e industriale e del colonialismo che rimette in discussione l´eredità biblica e dell´Illuminismo per giustificare la sua impresa di dominio. Se si dimentica questa realtà, il trionfo del nazismo appare come un incidente incomprensibile. Come un sotto prodotto del periodo 1914-1918, della pace di Versailles o della Depressione. Una spiegazione davvero riduttiva anche se quei fatti storici hanno contribuito a tessere il dramma. Ma senza quel contesto anti-illuministico che in Germania assunse una forma più violenta che altrove, senza il movimento völkisch, il pangermanesimo, il luteranesimo non si capirebbe Hitler. E nemmeno senza lo studio della tradizione di obbedienza all´autorità, qualunque essa sia, o delle strutture del potere e della famiglia che caratterizzano la società tedesca. Nessuna spiegazione vale senza genealogia, che non costituisce da sola una interpretazione: perché il nazismo resta una rottura nella tradizione politica dell´Occidente. Fare l´archeologia del disastro non deve nascondere questa verità».
Dal Settecento all´anno Mille e prima, sono le Chiese a portare lo stendardo della demonizzazione di ebrei, omosessuali, streghe...
«Ogni piccolo europeo si è nutrito fin dalla più tenera età di un antigiudaismo dottrinario che si è depositato strato dopo strato negli intelletti. Un gruppo esiste solo a condizione di espellere da sé il proprio odio per proiettarli su un gruppo-vittima. I lebbrosi, gli ebrei, i devianti sessuali e le donne, costituiscono delle declinazioni di un´identica cultura del diavolo».
C´è differenza tra antigiudaismo e antisemitismo?
«Il termine antisemitismo fu coniato nel 1879 in Germania, e lascia intendere che esista una razza semita, quando invece esistono solo delle lingue semitiche. È una versione secolarizzata della giudeofobia. L´antisemita cammina nel solco della tradizione antiebraica della Chiesa, dalla quale si discosta appena. Se il rigetto basato sulla fede lascia una porta aperta all´ebreo perseguitato, il rifiuto basato sulla razza chiude tutte le vie d´uscita. Il sangue non si può cambiare. Rimane il fatto che dal XV secolo, la tradizione spagnola, l´interrogativo sull´ascendenza famigliare del convertito costituisce il primo passo verso il razzismo moderno».
Perché la teoria cospirativa che ha perseguitato l´ebreo europeo oggi è passata, più o meno tale e quale, nel mondo islamico?
«Numerosi modelli anti-ebraici propri del mondo cristiano sono passati oggi al mondo musulmano che nel XIX secolo ignorava l´accusa del crimine rituale, dell´avvelenamento dell´acqua, del complotto. Sono stati introdotti dalle congregazioni cristiane, e infatti allora erano gli arabi cristiani i più ostili agli ebrei. Ma le frustrazioni e i risentimenti che i paesi arabi islamici svilupperanno nei confronti del mondo occidentale nel XX secolo favoriscono la cristallizzazione di un potente antisemitismo. L´assenza di una rivoluzione illuministica, in grado di cambiare le mentalità che continua a ignorare la secolarizzazione e la laicità, rafforzata da un sentimento di umiliazione di una cultura a lungo dominatrice, sono elementi che spingono a non sopportare l´idea che l´"ebreo", creatura disprezzata, si emancipi dalla condizione di dhimmi, inferiore, a cui era relegato negli stati musulmani. La sua "uguaglianza" è vissuta come un´arroganza insopportabile. Il sionismo e Israele verranno a sovrapporsi a questo sentimento di umiliazione, dando il colpo di grazia a questo ethos dominatore. Così come l´hitlerismo aveva fatto dell´ebreo lo specchio dello smarrimento esistenziale dello spirito tedesco, e al contempo l´opposto della propria identità, il musulmano di oggi ha bisogno di Israele per esprimere le proprie contraddizioni verso il mondo moderno».
Quanto è pericoloso tutto questo?
«La letteratura politica di quel mondo, penso a Hamas e Hezbollah in particolare, all´Iran, è un incitamento al genocidio. Se preferiamo dar retta a quel potente bisogno che ha l´essere umano di essere rassicurato, ci si può persuadere che "tanto le cose finiranno per sistemarsi". Ma la storia è tragica e radicale».


sabato 24 gennaio 2009

Repubblica 24.1.09
Aborto e staminali, svolta nell´America di Obama
Obama cancella il veto di Bush "Fondi alle organizzazioni pro-aborto"
Nuova svolta del presidente. I vescovi Usa: "Siamo preoccupati"
di Mario Calabresi

In soli tre giorni sono state radicalmente messe discussione le basi etiche e ideologiche della Casa Bianca di George W. Bush: mercoledì Obama ha promesso un´Amministrazione più trasparente e il ritiro dei soldati dall´Iraq in 16 mesi, giovedì ha riscritto la dottrina della sicurezza nazionale, ordinando la fine della tortura, delle carceri segrete della Cia e la chiusura di Guantanamo e infine ieri ha riaperto il dibattito sull´aborto e gli embrioni. La decisione della Fda non dipende da Obama, ma non è casuale la scelta dei tempi: si è aspettato che Bush lasciasse Washington e giurasse un presidente che in campagna elettorale ha promesso di rimuovere i divieti al finanziamento federale della ricerca che utilizza gli embrioni.
L´ordine esecutivo firmato ieri sera da Obama elimina la norma - voluta da Reagan nel 1984 e rilanciata da Bush nel 2001 - che impedisce di dare finanziamenti pubblici alle organizzazioni non governative americane e internazionali che prevedono nelle loro politiche di pianificazione familiare anche l´interruzione di gravidanza. Questa norma chiamata "Mexico City Policy", perché venne adottata durante il vertice dell´Onu sulla popolazione che si tenne nella capitale messicana 25 anni fa, è stata al centro di una battaglia ideologica serratissima. Già Bill Clinton la abolì nel 1993, con il suo primo ordine esecutivo da presidente, e scegliendo di farlo nel giorno del ventesimo anniversario della decisione della Corte Suprema che autorizzò l´aborto. Otto anni dopo, utilizzando la stessa data simbolica, George W. Bush annullò la decisione di Clinton ripristinando il divieto voluto da Reagan. Ora anche Obama è entrato in questa battaglia, ma ha voluto lanciare un segnale di dialogo: non ha firmato la sua decisione nel giorno del contestato anniversario - quando sul Mall di Washington sfilano migliaia di manifestanti in favore del diritto alla vita - per segnalare la volontà di un approccio pragmatico e non ideologico. Non è il caso di lanciare guerre di religione nel momento in cui ha bisogno di un sostegno bipartisan per affrontare la crisi economica.
Tanto che l´altroieri sera, dopo aver detto che la legge sull´aborto «non solo protegge la salute delle donne e la libertà di riproduzione ma simbolizza anche un principio più ampio: che il governo non deve entrare negli affari più intimi della famiglia», Obama ha sottolineato che al di là delle opinioni personali deve esserci unità «nella volontà di prevenire gravidanza indesiderate, ridurre il numero degli aborti e sostenere le donne e le famiglie nelle scelte che fanno».
Ma la Chiesa cattolica è pronta ad andare allo scontro con il nuovo presidente sia se sceglierà di firmare una nuova legge in discussione al Congresso - il Freedom of Choice Act - che prevede una rimozione dei limiti all´aborto decisi negli ultimi anni a livello federale e statale, sia se andrà avanti sulle cellule staminali embrionali. «Siamo preoccupati - ha detto il vescovo di Orlando Thomas Gerard Wenski alla Radio Vaticana - per il fatto che gli ideologi pro-aborto possano far passare al Congresso una legge abortista più radicale: speriamo che ciò non accada, ma se dovesse accadere, speriamo di riuscire a convincerlo a non firmarla».

Repubblica 24.1.09
Staminali, l’America inverte la rotta primo test sull’uomo con cellule embrionali
La Food and Drug Administration dà il via ai primi test al mondo su malati tetraplegici
di Elena Dusi

Era il giorno che Superman aveva sempre sognato. L´attore Christopher Reeve - paralizzato dopo una caduta da cavallo - sperava che le staminali lo potessero aiutare a rialzarsi di nuovo. Ma è morto nel 2004 in piena era Bush, l´epoca più restrittiva per la ricerca sulle cellule ricavate dagli embrioni.
Ad appena tre giorni dall´insediamento di Barack Obama alla Casa Bianca, con una decisione da cui traspare tutta l´impazienza della comunità scientifica, la Food and Drug Administration ha dato luce verde al primo studio clinico al mondo che usa cellule staminali derivate da embrioni umani per tentare di curare le paralisi causate da lesioni del midollo spinale. La Geron - un´azienda di biotecnologie della Silicon Valley - da qui all´estate potrà procedere ai primi esperimenti su dieci pazienti.
La Food and Drug Administration (Fda) ha negato ogni legame fra la sua decisione e l´insediamento di Obama. Eppure solo pochi mesi fa, a maggio del 2008, l´ente che regola farmaci e procedure mediche negli Stati Uniti aveva congelato la richiesta di sperimentazione della Geron. E oggi, dopo l´approvazione che ha fatto salire di oltre il 30 per cento le azioni della ditta della Silicon Valley, altre due aziende biotech si sono dette pronte a partire con studi clinici analoghi che prevedono l´impiego di staminali embrionali, la Advanced Cell di Los Angeles e la Novocell di San Diego.
«Si apre una nuova era per la medicina, che va oltre pillole e bisturi» ha annunciato Thomas Okarma, amministratore delegato della Geron. «Una singola iniezione di cellule vive può restituire funzionalità a un tessuto danneggiato». Il suo entusiasmo va bilanciato però con una serie di test del passato che - pur avendo utilizzato staminali fetali o adulte al posto di quelle embrionali - non hanno dato risultati particolarmente positivi. Né le sperimentazioni potranno aiutare chi è già costretto da tempo su una sedia a rotelle. Per essere trattati, i pazienti della Geron dovranno soffrire di una lesione del midollo spinale acuta. Il loro incidente, cioè, dovrà essere avvenuto una o due settimane prima dell´iniezione di staminali.
Ai test clinici preliminari (per il momento l´obiettivo è verificare che il trattamento non sia dannoso per la salute e le nuove cellule non diano vita a tumori) l´azienda californiana è arrivata dopo oltre dieci anni di studi, 45 milioni di dollari di origine privata spesi a fondo perduto e una manciata di brevetti riconosciuti. La sola richiesta di autorizzazione presentata all´Fda era lunga 12mila pagine e si basava su alcuni successi ottenuti sui topolini di laboratorio. Dopo l´iniezione di cellule, le cavie avevano ricominciato in parte a muovere le zampe che erano bloccate dalla paralisi.
Le staminali usate dalla Geron arrivano da embrioni umani creati durante la fecondazione in vitro e mai utilizzati dalle coppie. Per ottenerle, gli embrioni sono andati distrutti. Ed è questo il motivo per cui la politica scientifica targata Obama ha provocato le proteste di molti gruppi cristiani. La speranza dei medici è che le staminali attecchiscano nel punto in cui il midollo spinale è leso, rigenerando il tessuto nervoso e permettendo agli impulsi provenienti dal cervello di trasformarsi di nuovo in movimento dei muscoli.

Repubblica 24.1.09
Il caso Eluana nel paese della doppia obbedienza
di Ezio Mauro

In modo probabilmente inconsapevole, ma certamente per lui doloroso, Beppino Englaro sta portando alla luce giorno dopo giorno alcuni nodi irrisolti dello Stato moderno di cui siamo cittadini, e a cui guardiamo � o dovremmo guardare � come all´unico titolare della sovranità. Questo accade, come ricorda Roberto Saviano, perché il padre di Eluana cerca una soluzione alla sua tragedia familiare in forma pubblica, quasi pedagogica proprio perché la rende universale, sotto gli occhi dell´intero Paese, costretto per la prima volta a interrogarsi collettivamente sulla vita e sulla morte, a partire dalla pietà per un individuo. A parte la meschinità di chi cerca un lucro politico a breve da questo dramma personale e nazionale, trasformando in frettolosa circolare di governo le richieste della Chiesa contro una sentenza repubblicana, e a parte i ritardi afasici di chi dall´altra parte si attarda invece a parlare di Villari, quello che stiamo vivendo � e soffrendo � è un momento alto della discussione civile e morale del Paese. A patto di intendersi.
Fa parte senz´altro della discussione pubblica, che deve interessare tutti, l´intervento del Cardinale Poletto. È vescovo di Torino, la città dove la presidente della Regione, Mercedes Bresso, si è detta pronta ad ospitare Eluana e la sua famiglia per quell´ultimo atto che lo Stato ha riconosciuto legittimo con una sentenza definitiva, e che il governo vuole evitare con ogni mezzo. Mentre altri cattolici hanno sostenuto che "la morte ha trovato casa a Torino" il Cardinale non ha usato questi toni, ma ha detto che condanna l´eutanasia, anche se si sente vicino al padre di Eluana, prega per lui e non giudica. Vorrei però discutere pubblicamente, se è possibile, il significato più profondo e la portata di due affermazioni del Cardinale.
La prima è l´invito all´obiezione di coscienza dei medici, che per Poletto devono rifiutarsi in Piemonte di sospendere l´alimentazione forzata ad Eluana, entrando in contrasto con la richiesta della famiglia e con la sentenza che la legittima. Non c´è alcun dubbio che la coscienza individuale può ribellarsi a questo esito, e il medico � credente o no � può vivere un profondo travaglio tra il suo ruolo pubblico in un ospedale statale al servizio dei cittadini e delle loro richieste, il suo dovere professionale che lo mette al servizio dei malati e delle loro sofferenze, e appunto i suoi convincimenti morali più autentici. Questo travaglio può portare a decisioni estreme assolutamente comprensibili e rispettabili, come quella di obiettare al proprio ruolo pubblico e al proprio compito professionale perché appunto la coscienza non lo permette, costi quel che costi: e in alcuni casi, come ha ricordato qui ieri Adriano Sofri, il costo di questa opposizione di coscienza è stato altissimo.
Mi pare � appunto in coscienza � molto diverso il caso in cui i credenti medici vengono sollecitati collettivamente da un Cardinale (quasi come un´unica categoria professionale e confessionale da muovere sindacalmente) a mobilitarsi nello stesso momento e ovunque per mandare a vuoto una sentenza dello Stato, indipendentemente dalla riflessione morale e razionale di ognuno, dai tempi e dai modi con cui liberamente ciascuno può risolverla, dalle diverse sensibilità per la pietà e per la carità cristiana, pur dentro una fede comune. Qui non si può parlare, se si è onesti, di obiezione di coscienza: semmai di obbligazione di appartenenza, perché l´identità cattolica di quei medici diventa leva e strumento collettivo su cui puntare con impulso gerarchico per vanificare una pronuncia della Repubblica.
Questo è possibile perché il Cardinale spiega con chiarezza la concezione della doppia obbedienza, e la gerarchia che ne consegue. Lo Stato moderno e laico, libero "dalla" Chiesa mentre la garantisce libera "nello" Stato, applica la distinzione fondamentale tra la legge del Creatore e la legge delle creature. Poletto sostiene invece che poiché la legge di Dio non può mai essere contro l´uomo, andare contro la legge di Dio significa andare contro l´uomo: dunque se le due leggi entrano in contrasto "è perché la legge dell´uomo non è una buona legge", ed il cattolico può trasgredirla. La legge di Dio è superiore alla legge dell´uomo.
Su questa dichiarazione vale la pena riflettere, per le conseguenze che necessariamente comporta. È la concezione annunciata pochi anni fa dal Cardinal Ruini, secondo cui il cattolicesimo è una sorta di seconda natura degli italiani, dunque le leggi che contrastano con i principi cattolici sono automaticamente contronatura, e come tali non solo possono, ma meritano di essere disobbedite. Da questa idea discende la teorizzazione del nuovo cattolicesimo italiano di questi anni: la precettistica morale della Chiesa e la sua dottrina sociale coincidono con il diritto naturale, dunque la legge statale deve basare la sua forza sulla coincidenza con questa morale cattolica e naturale, trasformando così il cattolicesimo da religione delle persone in religione civile, dando vita ad una sorta di vera e propria idea politica della religione cristiana.
Ma se la legge di Dio è superiore alla legge dell´uomo, se nella doppia obbedienza che ritorna la Chiesa prevale sullo Stato anche nell´applicazione delle leggi e delle sentenze, nascono due domande: che cittadino è il cattolico osservante, se vive nella possibilità che gli venga chiesto dalla gerarchia di trasgredire, obiettare, disubbidire? E che concezione ha la Chiesa italiana, con i suoi vescovi e Cardinali, della democrazia e dello Stato? Qualcuno dovrà pur ricordare che nella separazione tra Stato e Chiesa, dopo l´unione pagana delle funzioni del sacerdote col magistrato civile, la religione non fa parte dello "jus publicum", la legge umana non fa parte di quella divina con la Chiesa che la amministra, le istituzioni pubbliche e i loro atti sono autonomi dalle cattedre dei vescovi e dal magistero confessionale.
Il cittadino medico a cui si ordina di agire in nome di una terza identità � suprema �, quella di cattolico, non obietta in nome della sua coscienza, ma obbedisce ad un´autorità che si contrappone allo Stato, e chiede un´obbedienza superiore, definitiva, totale alla Verità maiuscola, fuori dalla quale tutto è relativismo. Solo che in democrazia ogni verità è relativa, anche le fedi e i valori sono relativi a chi li professa e nessuno può imporli agli altri. Perché non esiste una riserva superiore di Verità esterna al libero gioco democratico, il quale naturalmente deve garantire la piena libertà per ogni religione di pronunciarsi su qualsiasi materia, anche di competenza dello Stato, per ribadire la sua dottrina. Sapendo che così la Chiesa parla alla coscienza dei credenti e di chi le riconosce un´autorità morale, ma la decisione politica concreta nelle sue scelte spetta all´autonoma decisione dei laici � credenti e non credenti � sotto la loro responsabilità: che è la parola della moderna e consapevole democrazia, con cui Barack Obama ha siglato l´avvio della sua presidenza.
Dunque non esiste una forma di "obbligazione religiosa" a fondamento delle leggi di un libero Stato democratico, nel quale anzi nessun soggetto può pretendere " di possedere la verità più di quanto ogni altro possa pretendere di possederla". Ne dovrebbe discendere finalmente una parità morale nella discussione pubblica, negando il moderno pregiudizio per cui la democrazia, lo Stato moderno e la cultura civica che ne derivano sono carenti senza il legame con l´eternità del pensiero cristiano, sono insufficienti nel fondamento. È da questo pregiudizio che nasce la violenza del linguaggio della nuova destra cattolica contro chi richiama la legge dello Stato, le sentenze dei tribunali, le norme repubblicane. Come se per i laici la vita non fosse un valore, e praticassero la cultura della morte. Come se il concetto di libertà per una famiglia dilaniata, di fraternità per un padre davanti ad una prova suprema, di condivisione per il suo dolore che non è immaginabile, non contassero nulla. Come se la coscienza italiana fosse solo cattolica. Infine, come se la coscienza cattolica, in democrazia, fosse incapace di finire in minoranza davanti allo Stato.

Repubblica 24.1.09
"Così vince la legge della giungla un Paese diviso non supera la crisi"
Epifani: i nuovi contratti abbattono il potere d'acquisto
di Roberto Mania

Io candidato alle europee con il Pd? È la cosa più volgare che potesse dire la Marcegaglia

ROMA - «Mi chiede con quali regole si rinnoveranno i prossimi contratti? Con quelle della giungla, con la legge del più forte». Il giorno dopo la rottura sul sistema contrattuale, Guglielmo Epifani, leader della Cgil, non nasconde l´amarezza per un epilogo che - dice - ha cercato di evitare fino all´ultimo minuto. Il più grande sindacato è rimasto fuori da quella che è nei fatti la nuova costituzione per le relazioni sindacali. Una situazione che non ha precedenti. «E che - sostiene Epifani - è molto più grave delle rotture dell´´84 sulla scala mobile e del 2001 sul patto per l´Italia».
Ma allora perché non ha firmato? Meglio la giungla?
«Perché il testo che ci è stato presentato a Palazzo Chigi non era modificabile e non rispondeva in alcun modo alla posizione unitaria di Cgil, Cisl e Uil e approvata dai lavoratori. Quel testo è figlio della paura di fronte alla crisi. Anziché scommettere sulla funzione positiva che può avere la contrattazione per rendere più unito il Paese, la si limita a livello nazionale e la si comprime nelle aziende».
La riforma, però, punta proprio a rafforzare il ruolo della contrattazione in particolare quella in azienda.
«Rispondo che il contratto nazionale finirà per ridurre strutturalmente il potere d´acquisto e la contrattazione di secondo livello non sarà affatto estesa. Ma c´è di più: c´è un´idea di derogabilità del contratto nazionale tutta in negativo e un´interpretazione del diritto di sciopero del tutto lesivo del dettato costituzionale perché si fa stabilire alle parti sociali chi ha diritto a proclamare lo sciopero e chi no. Quest´accordo risponde a un obiettivo di divisione la cui responsabilità ricade sul governo ma anche sulla Confindustria che, anziché ricercare, come sta accadendo in tutto il mondo, di affrontare la crisi con coesione hanno esplicitamente scelto di dividere. Questa intesa destabilizza le relazioni sindacali».
Le ricordo che solo la Cgil ha deciso di non firmare.
«Nel costruire il consenso sul quel testo ci sono state evidenti forzature. Ed è un aspetto che andrà approfondito. Checché ne dica la Confindustria, la Cgil ha cercato fino all´ultimo di evitare divisioni. La verità è che quel testo era preconfezionato: prendere o lasciare».
Le potrebbero ribattere che quel testo è il risultato di un negoziato al quale lei non ha voluto partecipare.
«Non è vero: questa è solo una scusa. Il negoziato, se c´è stato, non ha coinvolto tutti i soggetti. La Cgil, per esempio, ha letto per la prima volta a Palazzo Chigi la parte sui contratti pubblici. La Cgil ha sempre presentato le sue proposte. Ma ora questo accordo dovrà essere discusso dai lavoratori. Lo chiederemo formalmente a Cisl e Uil».
Propone un referendum?
«Ci vuole il coinvolgimento dei lavoratori perché tutti gli accordi sulla contrattazione sono stati giudicati dai lavoratori. Sarebbe grave se non si facesse questa volta».
Qualche giorno fa ha detto che «è da matti» pensare alla riforma dei contratti mentre esplode la crisi. Le sembra più saggio mantenere un sistema contrattuale introdotto quando c´era ancora la lira e che in questi quindici anni ha contribuito a mantenere le retribuzioni degli italiani in fondo alla classifica europea?
«È "da matti" se si pensa ai contratti come priorità in questa fase, senza trovare soluzioni condivise, come ci chiedono i lavoratori, per affrontare la crisi. La grande differenza con il protocollo del ´93 è che quello era figlio di un´idea di coesione, di giustizia sociale, di politica di tutti i redditi mentre questo accordo si sviluppa in un vuoto pneumatico di progetto».
Molti si aspettano una retromarcia della Cgil. Accadrà?
«Si illudono. La Cgil andrà avanti sostenendo le sue opinioni e le sue proposte».
Non teme che d´ora in poi la Cgil possa essere esclusa dai rinnovi contrattuali? Presenterete le vostre piattaforme ma gli imprenditori faranno l´accordo con gli altri. È già successo due volte tra i metalmeccanici.
«Sono sempre stati i lavoratori ad approvare le piattaforme. La loro parola dovrà continuare a essere vincolante».
Il presidente di Confindustria Marcegaglia ha insinuato che lei stia pensando a candidarsi con il Pd alle prossime elezioni europee. Lo farà?
«È la cosa più volgare che la Marcegaglia potesse dire. È come se io dicessi che ha firmato l´accordo perché vuole diventare ministro del governo Berlusconi».
Qualche mese fa lei minacciò l´espulsione di Cremaschi dalla Cgil per la sua partecipazione a una manifestazione di Cobas. Ora però la linea di Cremaschi è quella della Cgil.
«È falso. La linea della Cgil è quella della proposta unitaria fatta con Cisl e Uil contro la quale votò Cremaschi».
Che fine faranno i legami con la Cisl e la Uil?
«Intanto subiscono un colpo molto forte. Dovremo mantenere l´unità operativa di fronte alla crisi, dalla Fiat a tutti gli altri settori. Ma la Cgil non avrebbe mai firmato un accordo sulle regole senza la Cisl e la Uil. Mai».

l’Unità 24.1.09
Industriali e governo hanno voluto colpirci. Sapremo rispondere
J’accuse Noi non avremmo mai firmato senza Cisl e Uil. Il testo l’abbiamo
conosciuto solo a Palazzo Chigi, durante una riunione convocata
per discutere di provvedimenti anti crisi. Scelta profondamente sbagliata
Intervista con Guglielmo Epifani di Felicia Masocco

La durata
I contratti non dureranno più 4 anni per la parte normativa e 2 per la parte economica, ma 3 anni per entrambe. anche per il secondo livello

L’inflazione programmata
L’inflazione programmata è superata. Gli aumenti salariali sono calcolati in base all’Ipca, indice dei prezzi armonizzato in europa pe r l’italia

Il secondo livello
Per il secondo livello sono previsti incentivi legati al raggiungimento di obiettivi di produttività, redditività, efficienza e risultato d’impresa

Gli enti bilaterali
Impulso agli enti bilaterali composti da sindacati e imprese che potranno gestire anche il collocamento e gli ammortizzatori sociali

Il j’accuse di Guglielmo Epifani arriva al termine di una riunione fiume con i segretari delle categorie e quelli dei territori. E ce n’è per tutti. Per il governo, che ha «deliberatamente cercato la rottura», per la Confindustria che «ha una responsabilità diretta ed esplicita», per Cisl e Uil «perché mai la Cgil avrebbe firmato un accordo sulle regole senza di loro. Mai».
Invece Cisl e Uil e tutti gli altri hanno firmato. Perché la Cgil no?
«Perché è stato un prendere o lasciare su un testo che non può essere condiviso. Restringe la contrattazione, quella nazionale è fortemente depotenziata in tutti i suoi aspetti; quella aziendale non viene estesa. Il testo contiene un principio di derogabilità ai principi generali che può rendere inesigibili le norme del contratto nazionale. A livello nazionale si procede, strutturalmente, a una riduzione del potere d’acquisto. E non abbiamo firmato perché c’è una norma sul diritto di sciopero assolutamente inaccettabile in quanto le parti dovrebbero stabilire che solo chi rappresenta la maggioranza ha la possibilità di proclamare gli scioperi. Messo così non è un tema delle parti sociali, il diritto di sciopero è garantito dalla Costituzione. È un terreno improprio e pericoloso, una forzatura voluta dal ministro Sacconi. C’è poi l’estensione abnorme della bilateralità.
Lei ha parlato della nascita di una casta...
«Estesa impropriamente la bilateralità rischia di creare una casta di burocrati, del sindacato e delle imprese».
Si aspettava questa accelerazione?
«Doveva essere una riunione per discutere dei provvedimenti contro la crisi, invece contro la crisi non è stato proposto nulla ed è finita con un accordo separato sui contratti. È il segno di una scelta deliberata, profondamente sbagliata e che porterà un sacco di problemi».
La presidente di Confindustria dice che la porta è sempre aperta.
«Ho letto dichiarazioni di Emma Marcegaglia assolutamente incomprensibili. Voglio dire che non è stata la Confindustria a tentare di convincere la Cgil, ma è stata la Cgil a fare l’estremo tentativo chiedendo alla Marcegaglia una disponibilità a discutere sui punti di disaccordo. È stato un senso di responsabilità mantenuto fino all’ultimo dalla Cgil e che si è scontrato con il no della Marcegaglia, la quale ha una responsabilità diretta ed esplicita in questa vicenda, cosa che mai mi sarei aspettato. Come le ho detto la Cgil e Confindustria sono i soggetti fondamentali, anche se non unici, del sistema delle relazioni industriali del Paese e dovrebbero avere tra di loro attenzione e responsabilità reciproca. Cosa che non ho trovato».
Forse perché Confindustria con l’accordo porta a casa un bel po’ di cose.
«Porta a casa un credito verso il governo, un indebolimento del sindacato, una restrizione degli spazi collettivi di contrattazione, una bassa politica salariale del contratto nazionale. Ma non la cosa più importante: regole condivise. Questa assenza determinerà incertezza permanente nei rapporti, a tutti i livelli. E creerà un problema in più alle imprese, dappertutto».
La leader degli industriali dice che lei, Epifani, pensa ad altro, alle elezioni europee. Che cosa risponde?
«Che dovrebbe chiedere scusa se è una persona onesta. Anzi, avrebbe già dovuto farlo».
Al movimento sindacale restano invece un bel po’ di cocci.
«Cocci, esattamente. Resta soprattutto un punto, che per noi questa volta è risolutivo nei rapporti con Cisl e Uil, perché la Cgil non avrebbe mai firmato un accordo sulle regole generali senza Cisl e Uil, mai. Non lo avrebbe concepito. Com’è possibile che quello che per la Cgil è impensabile per gli altri lo è? Non mi si dica che c’è un problema di merito perché c’è sempre un problema di merito tra tre organizzazioni».
Ora che cosa farà la Cgil?
«Sono problemi grandi e destinati a durare quindi faremo ponderatamente le nostre scelte. Apriremo discussioni nei luoghi di lavoro e chiediamo di farlo unitariamente, e chiederemo ai lavoratori di esprimersi democraticamente. Lo facemmo anche nel ‘93. E una sfida democratica cui nessuno può sottrarsi, se no vuol dire che si ha paura di quello che si è firmato. E risponderemo con una iniziativa di lotta specifica che deciderà il direttivo, ferme restando le iniziative programmate».
Il Pd si è diviso, solo una parte vi sostiene. L’amareggia?
«Abbiamo provato fino all’ultimo a fare l’accordo, non si è voluto trovarlo per responsabilità di governo e Confindustria. È evidente che un partito che ha dentro di sé diverse anime e culture possa avere opinioni diverse. Mi piacerebbe che tutto il Pd chiedesse a tutto il sindacato di affrontare un percorso democratico affidando la risoluzione al voto dei lavoratori. Sarebbe un messaggio verso la direzione giusta».

Repubblica 24.1.09
Atti impuri
Esce un libro sulla violenza sessuale nelle diocesi americane
Quegli abusi nel mondo della chiesa
di Marco Politi

Cifre realistiche indicano tra i quaranta e i sessantamila casi negli Usa
Una delle autrici del dossier ha assistito alle riunioni a porte chiuse dei vescovi
Denunce che vengono dall´interno dell´area cattolica
Non è il celibato in sé a favorire le pulsioni trasgressive
Non è solo la descrizione di una catastrofe che ha scosso i cattolici ma la riflessione sull´istituzione e sulle vittime, in maggioranza ragazzi in età pre e post puberale

Le voci dall´inferno sono innumerevoli. «Accadde quando il sacerdote J. era chierichetto. Un giorno, dopo la messa, il prete si mise davanti a J. con il pene eretto e guidò le sue mani fino a raggiungere l´orgasmo� Quando entri in sacrestia, dopo aver servito messa, padre Bill ti dice che hai fatto un buon lavoro e tu sei felice e orgoglioso. Il tuo prete ti offre di aiutarti a sfilare la veste, scherzando. Ma appena l´ha sollevata, padre Bill la spinge sulla tua faccia con una mano mentre con l´altra si sbottona i pantaloni e si spinge dentro di te� Andai su e c´era il buon padre Donald, fumammo insieme (dell´erba) e poi mi fece delle proposte. Era la prima volta che qualcuno soddisfaceva me e mi piacque molto� Il dodicenne Julian fu abusato per tre anni da padre Scott, il quale gli aveva detto che per ricevere la cresima avrebbe dovuto partecipare a speciali sessioni di consulenza� All´età di cinque anni X cominciò ad essere prelevato da letto e portato sul divano del sacerdote (ospite dei genitori), che lo stendeva sopra di sé� I miei ricordi più terribili sono di noi due, io e padre Larry, che facciamo sesso nella mia stanza e dopo scendiamo al piano di sotto per cenare con la mia famiglia� La chiesa nella quale fui violentata era la stessa in cui i preti ascoltavano le confessioni, era la chiesa in cui tutti i figli della mia famiglia si sono sposati e alcuni nipoti battezzati, e in cui sono sepolti i miei genitori».
Il panorama è devastante. Quando papa Ratzinger è stato in America nell´aprile scorso il nuovo cardinale di Boston, Sean O´Malley, lo ha fatto incontrare con un piccolo gruppo di vittime di abusi che portavano con sé un libriccino con i nomi di altri mille abusati. Mille. Proviamo a trasporre la cifra in una diocesi come Torino, Bologna o Genova. Mille casi nascosti, insabbiati, negati e poi faticosamente portati alla luce. Ma basta già lo scandalo esploso ora a Verona, dove decine di ex allievi di un istituto per sordomuti, ormai adulti, hanno denunciato abusi sistematici da parte di esponenti del clero avvenuti nell´arco di un trentennio, per mostrare ciò che può nascondersi dietro la facciata della normalità quotidiana.
Le statistiche (come i processi) negli Stati Uniti sono impietose. Tra il 1950 e il 2004 si sono registrati undicimila casi documentati. Ma tutti i poliziotti sanno che le statistiche dei furti sono per difetto, perché riguardano solo gli episodi denunciati. Lo stesso vale per gli abusi sessuali. E così le cifre realistiche indicano in quaranta-sessantamila i casi di violenza subiti da minori da parte di predatori in tonaca. La media dei preti diocesani coinvolti è del 4,3 per cento. Certe annate di ordinazioni sacerdotali hanno prodotto tassi specialmente alti di preti-predatori. Otto per cento nel 1963, nel ´66, nel ´70, nel ´74. Addirittura 9 per cento nel 1975.
Atti impuri. La piaga dell´abuso sessuale nella Chiesa cattolica (a cura di Mary Gail Frawley-O´ Dea e Virginia Goldner, ed. Raffaello Cortina, pagg. 294, euro 20) non è solo la descrizione di una catastrofe che ha scosso i cattolici americani e portato alla bancarotta per risarcimenti più di una diocesi, ma è soprattutto un´analisi dell´istituzione in cui tutto ciò è potuto avvenire e una riflessione sugli individui colpiti, in maggioranza maschi tra gli undici e i diciassette anni nell´età pre o post-puberale, quando la psiche è maggiormente fragile. Riflessioni e denunce che vengono dall´interno stesso della Chiesa cattolica. Mary Gail Frawley-O´ Dea, una delle curatrici del dossier, è stata l´unica psicoterapeuta ammessa al vertice dei vescovi americani, quando a porte chiuse hanno discusso degli abusi sessuali. Hanno collaborato sacerdoti, religiosi, oltre ad esperti di problemi sessuali, docenti di religione e rappresentanti di altre confessioni cristiane.
Dal dossier emerge un quadro di analisi sfaccettato. Non è di orientamento omosessuale la maggioranza dei colpevoli, ma è l´«opportunità» che favorisce i rapporti con maschi dello stesso sesso. Non è il celibato in sé � come astensione da relazioni sessuali � a favorire le pulsioni all´abuso, ma una concezione del celibato come «integrità» ossessivamente ideologizzata e come «purezza» contrapposta ad una sessualità considerata peccaminosa o di inferiore. Non è tanto questione di trasgredire divieti, ma di personalità che scoppiano perché educate a idealizzare il sacerdozio e che non reggono l´urto con il quotidiano. Del tutto falso, poi, è che questi episodi siano frutto dello spirito libertino contemporaneo, poiché da diciotto secoli la Chiesa ha sancito norme e punizioni (il più delle volte rimaste teoriche) per combattere il fenomeno.
La vicenda non riguarda solo l´America, riguarda l´Italia, l´Irlanda, la Polonia, tutte le nazioni cristiane in misura variabile. L´America è solo il laboratorio di uno studio approfondito che interessa tutta la Chiesa. L´aspetto fondamentale è che le vittime sono «superstiti», carichi di ferite, segnati dall´orrore o dalla manipolazione della propria personalità. «Papa, funzionari del Vaticano e vescovi � scrive il domenicano Thomas Doyle � hanno mancato sistematicamente di accogliere le vittime come fratelli e sorelle in Cristo». Non è questione di brevi incontri dei papi con i «sopravvissuti» né di alcuni interventi, che condannano la mostruosità degli abusi. Il fatto è che finora né Giovanni Paolo II né Benedetto XVI sono arrivati a riconoscere fino in fondo le responsabilità dell´istituzione ecclesiastica e le sue manovre di occultamento. Se l´ex arcivescovo di Boston, cardinale Bernard Law, colpevole di non aver perseguito immediatamente i preti predatori, limitandosi a trasferirli di incarico, viene poi nominato (da papa Wojtyla) arciprete di una delle basiliche più venerande della cristianità, Santa Maria Maggiore, per sistemare lo scandalo dei vertici, l´esempio è assolutamente negativo.
Ancora di più pesa che la maggioranza dei vescovi non abbia saputo instaurare un rapporto umano con le vittime. Troppi vescovi, commenta il gesuita James Martin, hanno finito per anteporre alle vittime gli interessi dei preti violentatori.
Lo si coglie dalle strategie di fuga sistematicamente messe in atto dalla Chiesa allo scoppio di uno scandalo. La vittima ha enormi difficoltà a farsi sentire, i «superiori» invitano al segreto, il primo riflesso è di trasferire i colpevoli in altra parrocchia, poi si accusano i media, infine si pensa che il risarcimento economico chiuda la vicenda, magari concentrando l´attenzione sulla Chiesa «ferita».
Così rimane al centro l´istituzione e non la vittima. E invece gli abusi pongono interrogativi di fondo. E´ pronta la Chiesa a formare preti disposti a crescere con la propria comunità, ad ascoltarla, a considerarsi guide che «imparano» smettendo di autorappresentarsi in versione super-sacralizzata di «altro Cristo»? Il pastore che non è nutrito, sottolinea la pastora anglicana Anne Richardson, «divorerà la pecora».

Repubblica 24.1.09
E Stalin aiutò Israele
Un saggio su come nacque lo stato ebraico
L’Urss sostenne l’istituzione Poi le cose cambiarono. I perché li spiega lo storico Leonid Mlecin
di Luciano Canfora

Anticipiamo parte della prefazione di a Perché Stalin creò Israele di Leonid Mlecin (Sandro Teti editore, pagg. 352, euro 17)

Il Bund, movimento socialdemocratico ebraico, il Posdr, partito operaio socialdemocratico russo di Plechanov e Lenin, e il movimento sionista nacquero quasi contemporaneamente, nel biennio 1897-98. Le relazioni tra Bund e movimento sionista furono, dal principio, molto tese e non meno lo furono quelle tra Bund e socialdemocrazia russa e, più in generale tra Bund e l´Internazionale. Il movimento socialista, Lenin non meno degli altri leader, faceva propria la posizione "assimilazionista" che era stata già messa in atto dalla Rivoluzione francese e trovava contraddittoria, rispetto all´obiettivo del socialismo internazionalista, la scelta "nazionale" dei socialisti del Bund. Ad alcuni però, pur tra le asprezze polemiche, non sfuggiva la peculiarità della situazione degli ebrei e, in particolare, degli operai ebrei. (...)
Queste sono le premesse remote di una vicenda che non si è per nulla esaurita. (...) Essa però ha il suo momento culminante nella scelta sovietica, nel biennio 1944-46, di impegnarsi a fondo per la nascita dello Stato di Israele. (...) Nonostante sia usuale l´accusa di strumentalismo e di Realpolitik nei confronti della politica estera sovietica, sta di fatto che la scelta culminata nel voto sovietico a favore della Risoluzione 181 dell´Assemblea generale dell´Onu, il 26 novembre 1947, che stabiliva la divisione in due della Palestina e la creazione dello Stato di Israele, rappresenta un esito del tutto coerente con le premesse poste quasi tre anni prima alla conferenza sindacale mondiale di Londra, nel febbraio 1945. Qui la delegazione sovietica approvò una risoluzione molto impegnativa e dal contenuto inequivocabile che sollecitava in due direzioni: proteggere gli ebrei contro l´oppressione e la discriminazione in qualunque paese; dare al popolo ebraico la possibilità di costituire un "focolare nazionale" in Palestina (promessa di Balfour dopo il primo conflitto mondiale rimasta disattesa).
La doppiezza c´era in quel momento da parte sovietica. Essa penalizzava gli arabi e in particolare i partiti comunisti dell´area (quello palestinese in particolare) ai quali veniva fatto intendere – per esempio dal console sovietico a Beirut, Ruben Agronov – che il governo sovietico non intendeva, con ciò, esprimersi a favore della creazione di uno Stato ebraico in Palestina. I contraccolpi di tale doppiezza furono ben presto percepiti sul versante del prestigio sovietico nel mondo arabo. Non va dimenticato che nel 1954, quando salirono al potere in Egitto i colonnelli e si affermò il "nasserismo", comunque il partito comunista egiziano fu decimato e messo fuori legge.
Pur mentre la lotta tra potenze portava l´Egitto a un riavvicinamento con l´Urss, l´ostilità araba verso Mosca per la scelta del novembre ´47 perdurava immutata, poiché sarebbe stata decisiva per la nascita di Israele. Si ebbero, all´Assemblea generale dell´Onu, trentatré voti a favore, tredici contro e dieci astensioni. Con l´Urss votarono Ucraina, Bielorussia, Polonia e Cecoslovacchia. Se questi cinque voti fossero passati nel campo dei contrari o degli astenuti, ci sarebbe stato un risultato di parità: ventotto contro ventotto. E la risoluzione per la nascita di Israele sarebbe stata respinta. Si può aggiungere che la Jugoslavia già in rotta di collisione (non ancora palese) con Stalin, si collocò tra gli astenuti.
Appena tre giorni dopo il voto alle Nazioni Unite, esplosero gli scontri in Palestina miranti a impedire l´applicazione della risoluzione relativa alla spartizione della regione. Gli Stati arabi inoltre, sostenuti vigorosamente dall´Inghilterra, opposero un rifiuto netto all´attuazione della Risoluzione 181 e diedero di fatto inizio alle ostilità. Gli Usa furono per non breve tempo in una situazione di paralisi e di incertezza. È fuor di dubbio che proprio le reticenze e incertezze statunitensi di quei mesi diedero ai sovietici la possibilità di inserire un forte elemento di contraddizione tra il movimento sionista e l´alleato "naturale", gli Usa.
Esiste un allarmato rapporto del gennaio 1948 di George Kennan, il teorico della dottrina del "containment" nei confronti dell´Urss, rivolto a spiegare a Truman il rischio della situazione. «Se il piano di spartizione dovrà essere applicato con la forza – spiega Kennan al presidente – l´Urss avrà tutto da guadagnare perché troverà, in tale situazione il pretesto per poter partecipare al "mantenimento dell´ordine" in Palestina. E se le truppe sovietiche entreranno in Palestina per consentire l´attuazione della spartizione, gli agenti comunisti troveranno una base eccellente per estendere le loro attività sovversive, svolgere la loro propaganda, tentare di abbattere gli attuali governi arabi e di installare anche lì delle "democrazie popolari". Forze sovietiche in Palestina sarebbero una minaccia diretta per le nostre posizioni in Grecia, Turchia, Iran, una minaccia a lungo termine per tutto il Mediterraneo».
Kennan prosegue denunciando che l´Urss sta già fornendo armi agli ebrei ma anche ad alcuni tra gli arabi. Nei primi mesi del ´48 gli Usa fanno marcia indietro. Addirittura il 19 marzo Warren Austin, delegato all´Onu, propone di sospendere l´applicazione della Risoluzione 181. (...) Il 23 marzo Gromyko, al Consiglio di sicurezza, denuncia le manovre dilatorie degli Usa miranti a creare una "tutela Onu" sulla Palestina. Ed è la fermezza sovietica all´Onu che porta alla formazione dello Stato ebraico. Nella seduta del 14 maggio ´48 al Consiglio di sicurezza Gromyko respinge tutte le proposte alternative o dilatorie. Scriverà Abba Eban nella sua autobiografia: «L´Urss era la sola potenza mondiale che sostenesse la nostra causa».
La vicenda successiva, quella che Rucker definisce del "secondo stalinismo" vede raffreddarsi progressivamente il rapporto Urss-Israele, sebbene vada pure ricordato che solo l´invio massiccio di armi cecoslovacche, voluto da Stalin, consentì al neonato Stato di Israele di sconfiggere l´attacco concentrico di Egitto e Giordania (armati dagli inglesi) nella prima guerra arabo-israeliana, quella appunto del 1948.
Le cause del progressivo capovolgimento di posizione furono molteplici: la rottura con Tito e l´ossessione staliniana di vedersi affermare posizioni analoghe, di autonomia rispetto all´Urss, nei vertici delle altre democrazie popolari: vertici che, specie in Cecoslovacchia erano in larga parte rappresentati da comunisti di origine ebraica; il forte antisemitismo residuale tuttora allignante sia in Russia che in Ucraina e Polonia; la convinzione che a lungo andare la politica di emigrazione dall´Est Europa in Israele (inizialmente favorita molto intensamente da Stalin) portasse a un danno per gli Stati socialisti "europei". Le tappe della crescente ostilità antiebraica nell´ultimo periodo staliniano sono ben note: dalla vicenda dello "Stato ebraico in Crimea" al mostruoso processo ai medici accusati di aver assassinato Ždanov. (...) Al di là delle oscillazioni tattiche (...), una considerazione si può formulare di fronte al fenomeno più rilevante: quello dell´appoggio netto dell´Urss staliniana alla nascita di Israele-Paese "socialista" nel bel mezzo di monarchie feudali – e del successivo distacco. Anche con altri paesi socialisti affermatisi fuori della stretta azione politico-militare sovietica l´Urss entrò in collisione: Jugoslavia prima, Cina poi. È dunque, forse, l´incapacità della dirigenza staliniana (ma anche kruscioviana e poi brezneviana) ad ammettere la possibilità stessa di un policentrismo dell´area socialista la causa principale di questa vicenda e, alla fine, del crollo stesso dell´Urss.

Corriere della Sera 24.1.09
Election day di giugno Cicchitto (FI) frena: se restano le preferenze noi per il 5%
Europee, voto anche di sabato Pdl e Pd per lo sbarramento al 4%
Udc favorevole, insorgono i «cespugli»: attentato alla democrazia
di Paola Di Caro

I Verdi: intervenga Napolitano. Prc e Sd minacciano ritorsioni verso i democratici sulle alleanze locali

ROMA — Sembrava ormai destinata ad essere accantonata per le divisioni tra e dentro i poli, per l'opposizione dei piccoli partiti, per un clima non adatto al dialogo su alcun tema. E invece, a sorpresa, la legge elettorale per le Europee (che si terranno, conferma il ministro Maroni, il 6 e 7 giugno), potrebbe alla fine davvero essere riformata.
Dopo l'ultimo incontro tra il pd Dario Franceschini e l'azzurro Donato Bruno, infatti, l'accordo sembra riprendere quota, sulla base di un'intesa limitata però all'innalzamento della soglia di esclusione e non più all'abolizione delle preferenze. L'ipotesi di queste ore è che infatti si inserisca uno sbarramento del 4%, via di mezzo tra la richiesta del Pdl (5%) e quella del Pd (3%), percentuale che piace molto al primo partito del centrosinistra («Una soglia c'è in tutta Europa», dice il capogruppo Soro) e che anche il vicecapogruppo del Pdl Italo Bocchino ritiene accettabile, così come l'Udc che ha sempre fatto la sua battaglia contro le preferenze ma che su un paletto già superato alle Politiche non dice no.
E però, a insorgere sono tutti i piccoli partiti, quelli non presenti in Parlamento come Rifondazione, Verdi, Pdci, Sd, Mastella, socialisti di Nencini, liberali, la Destra di Storace, e quelli rappresentati perché eletti in altre liste, come i repubblicani di Nucara, tutti d'accordo a denunciare un'intesa che — raggiunta in extremis a un passo dalle elezioni — rappresenta «un attentato alla democrazia», perché «alle Europee non c'è un problema di governabilità ma di rappresentatività» e dunque la prepotenza sarebbe tale da meritare anche un «intervento del capo dello Stato». Di più: per il Prc e lo Sd l'affronto sarebbe tale da costringerli a «prenderne atto » sul piano delle alleanze locali con il Pd.
Proteste durissime, che hanno il loro peso sulla bilancia, dove d'altra parte, per dirla con il vicecapogruppo del Pdl Gaetano Quagliariello, pesa anche però la volontà dei due grandi partiti di «andare avanti sul consolidamento del bipolarismo, che serve al Paese», e serve al Pd in forte calo di consensi come al Pdl che vuole nascere senza scossoni, se è vero che vengono smentite le voci che vorrebbero un Berlusconi freddo sul varo del nuovo partito e tentato di tornare sui suoi passi tanto da rivalutare una soluzione intermedia come la Federazione tra FI e An: «Il partito si farà, se il 27 marzo è da decidere, ma si farà», assicura il coordinatore di An La Russa, in linea con quanto sostengono i fedelissimi del premier che prevedono anzi un'accelerazione e una conferma dei tempi.
Però, parlare di accordo fatto e siglato sulla legge elettorale è davvero prematuro. Un po' perché, per dirla con il ministro Rotondi, non si capisce «perché il Pdl voglia fare un favore a Veltroni e Casini inserendo lo sbarramento», (e infatti nel Pd dubitano sulle reali intenzioni di Berlusconi), un po' perché è lo stesso capogruppo del Pdl Fabrizio Cicchitto a frenare gli entusiasmi: «Stiamo discutendo, ci sono altri punti da chiarire: i regolamenti, la par condicio... E poi, se non si aboliscono le preferenze, allora noi insistiamo perché la soglia sia alzata al 5%: questa d'altra parte è sempre stata la nostra richiesta ».

Corriere della Sera 24.1.09
Centosessanta opere tra marmi, gessi, bassorilievi, dipinti per mettere in luce un aspetto insolito della poetica del grande artista nel suo dialogo con il passato
Canova. A passo di danza
Amava il teatro e la musica Così molte sue sculture catturavano il movimento
di Francesca Montorfano

Moderno Fidia è stato chiamato. E sicuramente Antonio Canova, già in vita celebrato come il più grande interprete del Neoclassicismo, meglio di ogni altro ha saputo riportare nel mondo la bellezza e la perfezione della scultura greca. «Le opere di Fidia sono una vera carne, cioè la bella natura...», aveva scritto all'amico Quatremère de Quincy, quasi a indicare quello che sarebbe stato il fine della sua arte: rendere in quei suoi marmi così vivi, così palpitanti, lo splendore di seta di un corpo femminile, la gloria immortale di un giovane dio, i sogni e le passioni di tutti gli uomini, perché «sempre sono stati gli uomini composti di carne flessibile e non di bronzo ». E poi, andare più avanti ancora, seguire altre vie, fino misurarsi con il difficile motivo della figura in volo, fino a tradurre in marmo o in dipinto tutto il dinamismo, tutta la grazia e la leggerezza della danza.
A ripercorrere la folgorante carriera dell'artista, conteso da regnanti, papi e ambasciatori, è oggi la mostra ospitata negli spazi di San Domenico a Forlì, la più completa ed emozionante a lui dedicata dopo quella veneziana del 1992 perché indaga aspetti insoliti o ancora poco conosciuti della sua poetica. «Canova è stato un grande innovatore. Il primo a introdurre la rappresentazione del movimento in quei suoi stupefacenti lavori che paiono quasi espandersi nello spazio e che vanno ammirati girandovi tutt'attorno per coglierne appieno la meraviglia. Come nella bellissima Ebe di Forlì che procede lieve, le vesti mosse dal vento, esposta accanto a quella sulla nuvola dell'Ermitage e al Mercurio volante del Giambologna, capolavoro del XVI secolo», commenta Fernando Mazzocca, curatore della rassegna insieme ad Antonio Paolucci e a Sergéj Androsov.
«Il maestro veneto frequentava i teatri, era un grande appassionato di musica e amico del coreografo e ballerino Carlo Blasis, maestro di danza alla Scala di Milano e autore di un celebre trattato sull'argomento. E proprio la raffigurazione della danza è un tema caro all'artista, un motivo ricorrente nelle sue opere». A documentarlo sono lavori straordinari, come la superba Danzatrice col dito al mento destinata al banchiere forlivese Domenico Manzoni, andata dispersa dopo la sua morte ma in seguito approdata ai Musei Civici della città, la Danzatrice con le mani sui fianchi dell'Ermitage già appartenuta all'imperatrice Giuseppina e le delicate figure danzanti delle tempere di Bassano, straordinaria prova di Canova pittore oggi finalmente recuperate all'antico splendore da un sapiente restauro. Una passione, quella di Canova per la danza, che contagiò numerosi artisti del tempo, a partire da Francesco Hayez le cui Danzatrici del Museo Correr di Venezia certamente risentono di quelle canoviane. Le 160 opere esposte a Forlì, tra marmi, gessi, bassorilievi, disegni e dipinti, metteranno infatti a confronto le opere di Canova non solo con i modelli antichi a cui si è ispirato, ma anche con sculture e dipinti di artisti a lui contemporanei. La stessa Ebe, così mirabilmente da lui trattata, fu uno dei motivi prediletti dai maggiori artisti neoclassici, da Reynolds ad Hamilton a Vigéé Le Brun a Lampi, Pellegrini o Landi, i cui lavori creeranno un intrigante gioco di rimandi tra scultura e pittura. Anche uno dei due inediti, già conosciuti alla critica ma esposti per la prima volta al pubblico con nuovi studi, il ritratto ad olio del Principe Lubomirski in veste di Giovannino, evidenzia la versatilità dell'ingegno del-l'artista che del giovane realizzò anche una scultura in marmo.
Straordinari i prestiti che ne celebreranno la grandezza del maestro. I colossali Pugilatori dei Musei Vaticani ispirati a quei Dioscuri del Quirinale da lui a lungo studiati in giovinezza, la Venere Italica di Palazzo Pitti, ritenuta dal Foscolo superiore all'antica Venere dei Medici per l'essere splendida donna oltre che dea e ancora la Maddalena penitente dell'Ermitage, capolavoro che influenzò Hayez con il suo pittoricismo, portandolo a creare la stupenda Maddalena del 1825. Non solo a Fidia o a Prassitele è stato avvicinato Antonio Canova, né solo al divino Raffaello, per quella ricerca del bello ideale che li accomunò. A paragonarlo a Tiziano è stato il suo nuovo modo di fare arte, di ottenere anche con il marmo quegli effetti luministici, quella resa sensuale delle carni della grande pittura veneta.

l’Unità 24.1.09
Il lato oscuro di Antonio Canova
di Renato Barilli

A Forlì in mostra una sua leziosa «Ebe»
Occasione per esplorare invece l’altrasua vena. Che anticipa l’Informale

Il Comune di Forlì, con l’aiuto di una Fondazione bancaria, si è dotato del bel complesso museale del San Domenico, dove tiene mostre annuali. E ora è la volta di celebrare una Ebe, capolavoro di Antonio Canova presente nelle raccolte civiche, il che giustifica l’allestimento di un’esposizione attorno al grande scultore, di cui forse, senza questa presenza in loco, non si sarebbe sentito uno stretto bisogno. Infatti il Canova (1757-1822), dopo una latenza quasi secolare, è riemerso in gloria, al seguito delle rinnovate fortune del Neoclassicismo, e non si contano le sue comparse espositive. Tuttavia forse non si è ancora imboccata la pista giusta per farne un valore ancora provvisto di attualità. La pista giusa non sta certo nell’apprezzare in lui il freddo cultore di un’inanimata concezione appunto neoclassica del bello. Si veda questa Ebe appunto, in sé figuretta insulsa, leziosa, che come tale meriterebbe l’ostracismo decretato contro lo scultore veneto da Roberto Longhi.
LA POETICA DELLA CITAZIONE
La via da percorrere è assai più tortuosa, sta nell’adottare la poetica della citazione, puntualmente rilanciata in seguito da De Chirico, e su su da Giulio Paolini, e magari anche da Jeff Koons. Quei reperti museali, in sé ormai scaduti al livello del kitsch, vanno ripresi «tali e quali», come se si trattasse di ready-made, non molto diversi dalla ruota di biciclette o dallo scolabottiglie di Duchamp. L’artista non «rappresenta», ma assembla oggetti già esistenti. E per esempio, questa Ebe esibisce un’anfora e una coppa che sono proprio «tali e quali». Ma a contrasto con questa ostentata stereotipia nell’artista, come nei suoi fratelli in spirito di altre parti di Europa, Füssli, Blake, Goya, ribolle un lato oscuro, infernale, che produce vampe, attorcimenti impetuosi, giustificati dal panneggio, basta andare a vedere nel retro della statua come le vesti si agitino allo spirare di un vento tempestoso, con soluzioni tali da anticipare l’Espressionismo e l’Informale. Questi aspetti audacemente protesi verso il futuro si colgono ancor meglio nei bassorilievi in gesso, su temi omerici e socratici, che Canova produsse senza poi tradurli in marmo, dato che egli stesso ne intendeva il valore sperimentale, sconveniente ai gusti del neoclassico ufficiale.
TRA BLAKE E GOYA
Infatti in questi pannelli è del tutto negata la prospettiva, le immagini si schiacciano sul piano, come vuole lo spazio dell’età contemporanea, attraversato in un baleno dal rapidissimo trascorrere della luce, ovvero delle onde elettromagnetiche. E le figurette, di Socrate steso sul letto di morte, o dei guerrieri suggeriti dai poemi omerici, si allungano, subiscono la ben nota deformazione stilizzante, volutamente artificiale, antinaturalistica, che è tra i compiti normali di ogni manifestazione «contemporanea» a tutti gli effetti. Da qui la delusione e la condanna di tutti i naturalisti convinti, a cominciare proprio da Roberto Longhi, che giudicava nel nome di Caravaggio o di Courbet.

Liberazione 24.1.09
Il corpo delle donne non si usa
di Anita Sonego

I fatti di Primavalle e di Guidonia non devono farci (soltanto) denunciare, per l'ennesima volta, la violenza sulle donne. Questo giornale ha promosso, più di ogni altro, riflessioni e dibattiti evidenziando la pervicace incapacità dell'intera società ad affrontare in maniera reale questa "emergenza". Anche la sinistra continua non solo ad ignorare la parte "arcaica" presente nella sessualità maschile ma anche a non voler collegare il ripetersi di queste violenze, uccisioni e stupri di donne, al collasso degli istituti preposti all'educazione alle relazioni umane tra le quali quella tra i sessi è particolarmente segnata da un mix di sopruso e dipendenza, bisogno e oppressione, amore e violenza, paura e desiderio. Si continua ad esaltare la famiglia come fantasticato luogo del dispiegamento della cura dei sentimenti senza vedere "di che lagrime grondi e di che sangue", quando tutta l'organizzazione sociale del lavoro e del tempo libero sono imperniati sui valori della produttività e del consumo. La scuola introduce il sette in condotta e le classi differenziali per gli stranieri come antidoto all'incapacità di un progetto educativo alla convivenza tra diversi. Le forme di aggregazione tradizionali, come i partiti, sono ridotte ad apparati per far carriera. Le associazioni "benefiche" dispensano "un piatto per amor di dio" mentre a Lampedusa la popolazione è in rivolta contro gli sbarchi dei sopravvissuti ai naufragi. La sinistra, che un tempo considerava l'urbanistica una scienza che aveva a che fare con la vita dei cittadini, ha lasciato scorazzare i palazzinari nelle periferie delle grandi città. Leggiamo le dichiarazioni di esimi esponenti del Pd di fronte allo stupro di Primavalle e restiamo attoniti. Il ministro-ombra Cerami: «E' un altro caso Reggiani. Le ronde militari, propagandate come una panacea, dove stanno?» e Paola Concia, membro della commissione giustizia alla Camera, che ho conosciuto in tante battaglie per i diritti dei gay e delle lesbiche: «Ci spieghi il sindaco perché è scomparsa l'illuminazione da tante zone di Roma». Ma di che cosa stanno parlando? Si riduce tutto a qualche lampione o a nuovi militari nelle periferie! Viene da pensare che si sia davvero smarrita ogni capacità di comprendere la complessità di una società in crisi, che sta cambiando anche per l'esodo di intere popolazioni ridotte alla fame dalla globalizzazione capitalistica. Ancora una volta il corpo delle donne viene usato per una misera battaglia tra le parti. Il Pd, alla ricerca di consenso, usa la miseria sessuale ed umana per chiedere più controllo, più ordine invece di pretendere più socialità, più giustizia e rispetto dell'umanità di ogni individuo. No. Noi donne non permettiamo che il nostro corpo sia usato né dagli stupratori né da politici privi di prospettive e di progetti per una nuova umana convivenza.

Liberazione 24.1.09
Intervista a Lorena Pasquini della Camera del lavoro di Brescia
«La memoria al futuro sul treno per Auschwitz»
di Maria R. Calderoni

Elena Kluger, sopravvissuta, ricorda: «Mia sorella non aveva gli occhiali. Entra in baracca e dice: "Lo sapete che non vedo bene, ma mi sembra che siano arrivati i russi"». 27 gennaio 1945, era vero: sull'orrore Auschwitz erano piombati i tank della LX Armata Ucraina. Dei deportati, 1 milione e 300 mila, i sovietici ne trovano ancora in vita solo 7 mila, di tutti gli altri erano rimasti 8 tonnellate di capelli, imballati e pronti per il trasporto.
27 gennaio, il giorno-simbolo, il Giorno della Memoria. E anche quest'anno il "Treno" parte. Il Treno per Auschwitz. E' il quinto, dal gennaio 2005. Il quinto Treno per Auschwitz partirà oggi dal "binario 21" della stazione centrale di Milano per il viaggio di 4 giorni - rientro il 27 - sui luoghi della Deportazione. Non solo "Viaggio". Il Treno è anche una storia, da raccontare.
Auschwitz, il nome-simbolo della Shoah, come custodirlo, mantenerlo vivo tra noi, come ricordarlo non come monumento, ma come incancellabile dolore, rimorso e monito? La domanda è per Lorena Pasquini, direttrice dell' Archivio storico della Camera del lavoro di Brescia, promotore - insieme a Cgil e Cisl della Lombardia - del Treno che parte oggi da Milano. «E' dagli anni 90 che lavoriamo sulla costruzione della Memoria. E in questa ricerca, abbiamo pensato che sarebbe stato non solo bello, ma importante, significativo, essere in tanti, a costruirla, la Memoria. In tanti a costruirla, in tanti ad esserci, in tanti ad andarci, là, a vedere. In tanti,un grande gruppo di persone. Il Treno, l'idea del Treno è venuta di conseguenza. L'idea di attraversare l'Europa, lentamente - quasi a ripercorrere in un certo senso il viaggio delle vittime - teneva insieme le due esigenze del nostro progetto: andare in molti e soprattutto partecipare».
Il Sindacato ha da sempre «anche una funzione pedagogica», dice la direttrice dell'Archivio storico - Per noi costruzione della Memoria, lavoro sulla Memoria, significa quindi soprattutto questo, un progetto di educazione civica. E un progetto di educazione civica, per essere tale, richiede di essere impostato sulla partecipazione». Ad evitare il rischio che si resti fermi lì, alla commemorazione, alle esercitazioni accademiche, alla pura celebrazione: ben vengano convegni, ricerche e manifestazioni. «Ma noi pensiamo che la partecipazione, il mettersi in gioco valga di più, conti di più».
L'idea del Treno nasce da qui. Nasce a Brescia, dentro la sua grande Camera del lavoro, ma non si ferma a Brescia. C'è subito un consenso spontaneo e fervido, aderiscono al progetto molte altre realtà. Come la Fondazione "Memoria della Deportazione" di Milano; il Museo dell'ex "Campo di Fossoli" di Carpi; l'Istituto storico del Movimento per la liberazione. Naturalmente, era "la prima volta" per tutti, un po' un azzardo, dice la direttrice, ma comunque nessuno si è tirato indietro, «siamo partiti tutti, col primo Treno, nel gennaio 2005».
Primo Treno, 600 persone in carrozza, sono soprattutto studenti, almeno 300, bresciani, milanesi, emiliani - scuola media superiore - ma in buona rappresentanza sono anche cittadini, sindacalisti, insegnanti, pensionati, ex partigiani: «Il nostro infatti non è mai stato rivolto esclusivamente alle scuole. Pensato come progetto di educazione civica e partecipazione e quindi aperto a tutta la cittadinanza attiva».
Carpi, ex "Campo Fossoli", da qui Primo Levi prese la via per Auschwitz insieme ad altri 146 ebrei. Così nel 2006, sull'esempio del Treno bresciano, un altro convoglio prende il via proprio da qui, dalla stessa stazione di Carpi; sullo striscione le parole dell'autore di Se questo è un uomo , «se comprendere è impossibile, conoscere è necessario».
Quella che parte sabato è la settima edizione, le iniziative si sono moltiplicate; l'Emilia Romagna oggi ha un suo Treno: così la Provincia di Milano, mentre sulla stessa via si muovono Comuni, enti, associazioni. Il sindacato si è allargato, ha fatto proseliti.
Guardando più da vicino, e anche per età, chi "sale" sul Treno per Auschwitz, studenti a parte? «Fondamentalmente, si tratta di questa generazione, quaranta-cinquantenni, molto consapevoli, molto compartecipi, sensibili; e "salgono" anche famiglie intere, alcuni portano i figli piccoli; molti comuni mandano delegazioni soprattutto di giovani. E sul nostro Treno di sabato ci sarà anche una consistente rappresentanza di pensionati».
No, non è un giro turistico. il Treno è un laboratorio consapevole, preparato, costruito con ricerche e corsi di formazione, docenti e ragazzi che lavorano insieme per mesi, veri seminari mirati di storia, cinema, letteratura. Sul Treno salirà tutto, innsieme ragazzi, bandiere, striscioni, disegni, dossier, spettacoli, poesie, canzoni (una dice "sono qui per non scordare, insieme a te"...).
«Mai. Mai si è creato sul Treno un clima da gita. I ragazzi lo vivono come emotività, gli adulti come conoscenza». E quando questi giovani mettono piede nel lager? «Impressionante: i ragazzi tacciono. Restano in assoluto silenzio. E' una cosa che io sottolineo sempre: perché questo loro silenzio è veramente la prova della difficoltà dei giovani a gestire emozioni così forti, che non sono sicuramente le nostre. Ragazzi di 16 anni non hanno certo i filtri che abbiamo noi, e il loro silenzio merita assoluto rispetto».
I filtri, che nessuno può accettare; i filtri per quell'orrore pianificato e mostruoso, «il triangolo rosso per i prigionieri politici , verde per i criminali comuni, nero per gli "asociali", viola per i Testimoni di Geova, marrone per gli zingari, la stella gialla per gli ebrei». E un numero tatuato sul braccio sinistro, «dovevo essere chiamato 158526...».
In silenzio, "ragazzi che sanno", «del milione e trecentomila deportati di Auschwitz, novecentomila furono uccisi subito dopo il loro arrivo e 200 mila poco dopo per fame, malattie, maltrattamenti». In silenzio, "ragazzi che sanno", Auschwitz I, Auschwitz II, Auschwitz III, Birkenau e i suoi infernali 39 "sottocampi", quelli dove milioni di nuovi schiavi lavorarono fino a morire all'insegna della Grande Industria Tedesca, la IG Farben (perirono 25 mila su 35 mila), la Bayer, la Krupp, la Union, la Siemens, la Werke...
Quel Treno per Auschwitz.

Liberazione 24.1.09
Fino a metà marzo, il Teatro della Cooperativa di Storti al Maap
Processo artistico e disagio mentale
A Milano, ricordando Basaglia
di Federico Raponi

Arte e disturbo mentale sono sempre stati strettamente connessi: per la sofferenza personale che il processo creativo può comportare (e viceversa), per l'isolamento a cui la società in genere tende a relegarla, per la necessità di comunicatività e socializzazione da parte di chi ne è portatore. Va da sé, quindi, che anche la scena teatrale stia dedicando attenzione al trentennale della Legge 180.
A Milano, da metà gennaio a metà marzo, il cuore della stagione del Teatro della Cooperativa è incentrato sulla rassegna multidisciplinare Basaglia e la diversità , patrocinata dalla Provincia, dall'ospedale di Niguarda e con il contributo della Camera del lavoro cittadina. Nel progetto di Renato Sarti, direttore della compagnia (oltrechè autore e attore, insieme a Bebo Storti, di lavori come Mai morti , La Nave fantasma , Io santo tu beato ), la programmazione in onore della rivoluzione psichiatrica vuole essere un viaggio tra normalità e follia, per riflettere sulla malattia mentale e su come e quanto il processo artistico, nelle sue diverse espressioni, abbia aiutato il singolo a trovare un equilibrio o semplicemente ad esternare il disagio interiore; considerando perciò la creatività, proprio unitamente a queste funzioni, un percorribile e proficuo canale di collegamento tra mondo esterno e patologia personale, a volte capace di rivelazioni sorprendenti.
Dopo l'allestimento - nell'atrio del teatro stesso - dell'esposizione "Psicol'abile", con opere realizzate nelle Botteghe del MAPP (Museo d'Arte Paolo Pini, ex ospedale psichiatrico), l'apertura al pubblico ha preso il via mercoledì 21 scorso allo Spazio Tadini, luogo non solo espositivo ma in cui si promuovono anche la comunicazione tra le arti e gli artisti e dibattiti culturali.
La giornata ha visto Storti impegnato nella lettura di brani tratti da Charles Bukowski, preceduto dall'inaugurazione della mostra di pittura dei triestini Pedra Zandegiacomo (1903-1987, subì ripetuti ricoveri) e Ugo Pierri, scelti per la loro forza espressiva e capacità di racconto del malessere psichico. La provenienza geografica dei due ha una precisa ragione: «il primo teatro dove ho lavorato a Trieste - spiega Sarti - è stato quello all'interno dell'ospedale psichiatrico San Giovanni. Si provava con la porta aperta e gli utenti, questo era l'accordo stabilito con Basaglia (che ne era allora direttore, prima di provvederne alla chiusura, ndr), potevano entrare durante le prove e gli spettacoli. Nel '74 sono venuto a Milano a fare teatro, ma i loro sguardi e le loro storie, che rivelano di quali nefandezze e brutalità sia stato capace il sistema psichiatrico, fanno parte indelebilmente della mia». Il giorno successivo, grazie all'Associazione Arca Onlus e ancora al Mapp, Ale e Franz insieme a Rossana Mola hanno dato voce a Folle amore , poesie e pensieri degli ospiti del Pini raccolti da chi nella struttura ha lavorato («un gesto - raccontano Teresa Melorio e Enza Bacchi, due delle curatrici - emozionante, carico di attenzione e rispetto, un'occasione per contemplare il sacro che appartiene alla natura umana e ascoltare chi ha saputo esprimersi nella solitudine»).
Parte del ricavato dell'iniziativa servirà alla pubblicazione dell'omonimo libro. Per gli spettacoli, tra le differenti serate ne sono previste due "Teatribù" (basate sull'improvvisazione sul tema della diversità) e altre con Paolo Rossi, Vitaliano Trevisan, i clown della scuola del centro sociale Torchiera, Davide Anzalone, Anna Meacci e tre giovani artisti.

il Riformista 24.1.09
Ultime notizie/1 La carta stampata stenta a sopravvivere nella recessione
Solo i quotidiani stanno peggio delle banche
di Fabrizio Goria

Rotative. Sarkozy prova a salvare i giornali francesi con 600 milioni, regalando un abbonamento a tutti i ragazzi che diventano maggiorenni. Ma nel resto del mondo continuano a soffrire: dal New York Times all'Evening Standard: i lettori non sono tanti, ma la pubblicità è ancora meno. Per fortuna ci sarà sempre bisogno di giornali. O no?
Dopo aver aiutato con 6 miliardi il settore dell'auto, il presidente francese Nicolas Sarkozy ha annunciato ieri 600 milioni in tre anni per un altra industria che «lo Stato ha il dovere di aiutare»: i giornali. Arriveranno direttamente dal bilancio pubblico i soldi a difesa di un'informazione che è minacciata dal crollo delle entrate pubblicitarie e da una struttura industriale troppo costosa: rinvio dell'aumento delle tariffe postali, il raddoppio delle spese di comunicazione istituzionale dello Stato, sostegno alle edicole e alle società che consegnano i quotidiani a domicilio, un anno di abbonamento gratuito a un quotidiano per ogni ragazzo che compie la maggiore età.
La crisi, dopo aver colpito le Borse, sta infatti facendo sentire i suoi effetti anche nel mondo dell'editoria. Il caso del New York Times è forse il più emblematico, ma il prestigioso quotidiano americano non è il solo ad essere in difficoltà. Dall'Europa al Sud America sono moltissime le testate che lottano per sopravvivere. Per il New York Times i primi presagi del definitivo aggravarsi della situazione si sono avvertiti nello scorso dicembre, le agenzie di stampa hanno battuto la notizia dell'ipoteca del grattacielo di Manhattan, progettato solo pochi anni fa da Renzo Piano, che ospita la redazione principale del giornale. La famiglia Sulzberger, che controlla il pacchetto di maggioranza della NY Times Company, ha deciso di vendere il 58 per cento della proprietà sull'immobile per trovare la liquidità per circa 225 milioni di dollari. Ci ha pensato Carlos Slim Helu, magnate messicano delle telecomunicazioni e secondo uomo più ricco al mondo secondo la rivista Forbes. Con un'iniezione di denaro di 250 milioni di dollari, sotto forma di warrant, Slim ha aumentato la propria partecipazione nella Times Company dal 6,8 per cento, fino al raggiungimento del 17 per cento. Sembra scongiurato, almeno nel breve termine, un fallimento del quotidiano newyorkese, anche se circolano voci su possibili scorpori di altri giornali del gruppo in perdita, come il Boston Globe, il secondo più grande tra quelli controllati dai Sulzberger, e la squadra di baseball dei Red Sox.
La bancarotta invece ha colpito il Chicago Tribune, principale giornale della città del presidente Barack Obama. Il 9 dicembre scorso l'editore ha richiesto l'iscrizione al Chapter 11 del codice fallimentare statunitense, che prevede l'amministrazione controllata della società in crisi per consentire ai creditori di recuperare quanto possibile vendonde i pezzi al miglior offerente. Un duro colpo per l'azienda, anche alla luce delle difficoltà in cui versa anche l'altro quotidiano edito dalla Tribune Company, il Los Angeles Times. Secondo uno studio di Lazard Bank, ammontano a 13 miliardi di dollari i debiti del gruppo.
In Europa la situazione è quasi altrettanto grave. In Francia la crisi dell'editoria si avverte e da molto tempo: Le Monde tra mille polemiche e declinismi ha ridimensionato nello scorso aprile il proprio organico di 130 unità, fra cui 80 redattori. Per la prima volta nella storia del giornale c'è perfino stato uno sciopero. Numerosi giornalisti hanno dato la colpa alla gestione di Jean-Marie Colombani, storico direttore, e Alain Minc, ex presidente del consiglio di sorveglianza della società editrice. «Colombani ha allargato il gruppo comperando testate. Minc ha allargato l' azionariato. Questi sono i risultati», dicono i giornalisti. Risultati che sono pesanti: oltre 150 milioni di euro di debiti e una perdita d'esercizio pari a 20 milioni solo nel 2007. Anche nel Regno Unito si cominciano a raccogliere storie di crisi editoriali. L'Evening Standard, quotidiano serale di Londra ha ripianato i suoi debiti, stimati in 22 milioni di sterline, tramite capitali provenienti dall'Est. Il miliardario russo ed ex agente del Kgb Alexander Lebedev ha acquistato con una cifra simbolica la quota di maggioranza dell'editore, il Daily Mail & General Trust, che comunque conserverà il 24,9 per cento delle azioni. Il tutto mentre crollano le vendite del quotidiano simbolo della stampa progressista, il Guardian: nel 2008 oltre il 20 per cento di venduto in meno rispetto al 2007. Sul versante tedesco preoccupa la Westdeutsche Allgemeine Zeitung (WAZ), che con oltre 550mila copie al giorno è uno dei maggiori giornali a diffusione regionale, oltre che un colosso editoriale a capo di 38 differenti testate. In dicembre ha annunciato tagli al personale, mentre crollano i proventi delle pubblicità. In Spagna il madrileno El Mundo, di proprietà dell'italiana RCS MediaGroup, ha subito una pesante flessione delle vendite che ha contribuito ad affossare il titolo RCS nel listino di Piazza Affari. I risultati di gestione allo scorso 30 settembre registravano un calo di oltre 9 mila copie giornaliere vendute da El Mundo, a causa «dell'intensa attività promozionale attuata dalle testate concorrenti» come continua la nota del gruppo editoriale.
Nemmeno il Brasile si salva da una contrazione della vendita dei quotidiani, come dimostra il caso di O Globo. Regge, in compenso, la controparte televisiva del gruppo editoriale, TV Globo, che macina successi di audience. Le cause della crisi, a detta degli analisti di Bloomberg, vanno ricercate nelle «diminuzioni degli investimenti e della raccolta pubblicitaria», senza dimenticare i nuovi supporti elettronici. Amazon Kindle è lo spauracchio numero uno per gli editori: un lettore di e-book che permette di visualizzare in mobilità i quotidiani, tramite un collegamento internet senza fili integrato nel sistema. «Restrizione del credito, crisi globale ed internet stanno affossando l'editoria tradizionale, ma della carta stampata ci sarà sempre bisogno» rassicura Michael Bloomberg, fondatore del network americano e attuale sindaco di New York.

il Riformista 24.1.09
Ultime notizie/2 Da Repubblica al Sole 24 Ore, si riducono organici e stipendi, anche per i collaboratori
Novanta cent a riga, anche in Italia si taglia
di Paola Nania

Rassegna stampa. L'agenzia Dire sta per chiudere, l'Agi sciopera, i grandi gruppi pensano di chiedere lo stato di crisi e mentre le aziende tagliano le inserzioni pubblicitarie, gli editori sperano nell'intervento del Governo.

Anche se in Italia ancora non si convocano gli Stati Generali dell'editoria, la situazione non è migliore che in Francia o Stati Uniti. Se mercoledì, tanto per fare un esempio, si fosse fatta una ricerca tra le agenzie Agi, si sarebbe trovato solo il seguente messaggio: «L'Agenzia Italia sospende le trasmissioni nella giornata del 21 gennaio per lo sciopero di 24 ore proclamato dall'assemblea dei giornalisti». Niente notizie per protestare contro il piano di tagli e prepensionamenti proposto dall'azienda contro la crisi che contagia inevitabilmente anche l'Italia: 21 prepensionamenti su 90 redattori in organico e nessun rinnovo agli otto contratti a termine, rispediti a casa.
«Scricchiolii preoccupanti» - li definisce il segretario generale della Fnsi (il sindacato dei giornalisti italiani), Franco Siddi - che arrivano da moltissime aziende del settore. Il gruppo che unisce Qn- Quotidiano Nazionale, Il Resto del Carlino e La Nazione ha mandato a casa prima del tempo 36 dipendenti. La redazione di La 7 combatte da mesi contro il taglio di 25 giornalisti, che ormai è quasi cosa fatta. Si vocifera di possibili sforbiciate anche in templi come il Corriere della Sera e la Repubblica, con il gruppo Espresso che starebbe per chiedere lo stato di crisi (per ristrutturarsi con meno vincoli); la piccola agenzia di stampa Dire galleggia da tempo tra il rischio di chiusura e indiscrezioni - che nessuno però si sente di confermare - che parlano della fusione con un'altra agenzia, l'Asca. Intanto qualcuno chiude, come la rivista Tutto Turismo della casa editrice Domus ed Emme, l'inserto dell'Unità, curato dal vignettista Sergio Staino (i redattori del settimanale hanno diffuso nei giorni scorsi un comunicato preoccupato).
Se non si taglia sulle risorse umane, si taglia in molti casi sui compensi. Così il prestigioso Sole 24 Ore ha inviato una lettera a tutti i suoi collaboratori (in molti casi giovani professionisti), avvisandoli che - visti i tempi - un articolo sarà pagato 90 centesimi per riga scritta e non più 1 euro (-10 per cento). Tagli più consistenti per i collaboratori di lusso, a cui il direttore Ferruccio De Bortoli ha comunicato una riduzione del 25 per cento, tagli analoghi li ha decisi anche il gruppo Espresso.
Che i problemi ci siano lo conferma anche il presidente della Federazione italiana degli editori, Carlo Malinconico. «Le difficoltà - spiega - erano iniziate già nel 2008 a causa di problemi strutturali legati a un mercato nuovo, fatto di web e multimedialità. Ma la situazione è peggiorata con l'arrivo della crisi globale». Crisi che, nel caso dell'editoria, si è tradotta in un calo delle copie vendute ma soprattutto in un calo vertiginoso della pubblicità: secondo la società di ricerche di mercato degli analisti di Nielsen, gli investimenti nel periodo gennaio-novembre 2008 sono scesi del 2,1 per cento rispetto all'anno precedente, con una tendenza al peggioramento. Nel solo mese di novembre si è perso il 13,4 per cento di introiti rispetto al novembre 2007. Perdite che nessuno può permettersi di sottovalutare, visto che nei ricavi della stampa quotidiana la pubblicità ha raggiunto la soglia del 50 per cento degli introiti complessivi mentre la vendita delle copie rappresenta il 34 per cento (dati Agcom).
«L'eccezionalità di questa crisi - prosegue il presidente Fieg - necessita di mezzi straordinari per affrontarla». Le richieste degli editori al Governo vanno dal credito agevolato alla reintroduzione del credito d'imposta per la carta. Dall'esecutivo una prima aperture è arrivata con l'emendamento al decreto anticrisi che prevede lo stanziamento di 10 milioni di euro per l'Inpgi, l'istituto di previdenza dei giornalisti, da utilizzare per alcuni prepensionamenti (166 - secondo le stime dell'Istituto - considerando uno scivolo di cinque anni). Emendamento apprezzato dalla Fieg che parla però di «sistema abbozzato», che richiederebbe ulteriori aggiustamenti a partire dalla platea compresa in questo tipo di ammortizzatori (esclusi per esempio i giornalisti di periodici oltre che radio, tv e web. Compresi solo dipendenti di carta stampata quotidiana e agenzie di stampa). Della stessa opinione, cosa rara per altro, anche l'Fnsi che con Franco Siddi parla di «bicchiere mezzo pieno» e mette in guardia dal rischio di misure episodiche e non strutturali, incapaci quindi di fronteggiare difficoltà di lungo termine. Intanto i tagli vanno avanti. Per il presidente degli editori è difficile fare previsioni per il 2009, «certo - aggiunge - i licenziamenti non devono essere un tabù, accompagnati ovviamente dagli ammortizzatori sociali». Ammortizzatori che però al momento non comprendono i tantissimi precari.

La Stampa 24.1.09
L'addio di Vendola guarda a D’Alema
Oggi il Prc si spacca. Gli scissionisti sperano nella débacle di Veltroni
di Riccardo Barenghi

Ottantotto anni e tre giorni fa, la prima scissione che diede vita al Partito comunista italiano, quella di Livorno. Oggi e domani va in scena a Chianciano l'ultima replica delle infinite diaspore che hanno segnato la vita della sinistra e che non è certo paragonabile a quella del 1921. Tuttavia succede che l'ultimo partito comunista rimasto in vita (fatta eccezione per alcune schegge che sopravvivono a se stesse), cioè Rifondazione, venga abbandonata dai suoi massimi dirigenti: Fausto Bertinotti, che non rinnova la tessera, Franco Giordano, Gennaro Migliore, Nichi Vendo la. Che stamattina spiegherà come e perché bisogna andar via da «un partito che non esiste più», candidandosi a essere il leader della nuova Cosa che nascerà. E che dovrà decidere tutto, dai candidati ai dirigenti, fino alle scelte politiche più importanti attraverso le primarie. Un rovesciamento seccco della tradizione, i dirigenti decidon la base ratifica.
Ma è una Cosa o come la chiamano loro un «nuovo soggetto», ancora tutto da costruire, addirittura da definire nella sue forme e nei suoi contenuti. Intanto perché nasce zoppa visto che saranno molti quelli dell'area vendoliana (forse un terzo, forse la metà) che, pur condividendo il progetto di costruire una forza politica denominata La Sinistra insieme a Fava e Mussi e a un pezzo dei Verdi, resteranno con Ferrero. Almeno per un po'. Poi - giurano ma chissà - raggiungeranno i loro compagni una volta che il «soggetto» avrà preso forma. Già, ma che forma avrà, che roba sarà, sarà un Partito, sarà un associazione, sarà un cartello elettorale, si presenterà alle europee? Non si sa, non lo sanno neanche i protagonisti dell'avventura.
C'è chi vuole farne subito un Partito e chi no. Tra i primi si segnalano i giovani e soprattutto la Sinistra democratica di Fava. Tra i secondi, per citarne uno solo (ma basta e avanza), c'è Fausto Bertinotti. II quale resta sempre il deus ex machina, il leader dei suoi «ragazzi». Di quelli che escono e di quelli che restano. Ai primi ha detto che «fate bene ad andarvene», ai secondi «che non fate male a restare». Un posizione ecumenica ma non troppo, visto che tra il «bene» e il «non male» c'è una differenza, e che soprattutto prelude a un'idea di più lungo respiro. L'ex presidente della Camera, infatti, scommette su un terremoto che potrebbe investire il Partito democratico dopo le elezioni europee. Quando auspica un «big bang» come occasione per «ricostruire una sinistra che non esiste più», si riferisce a quello che potrebbe accadere nel Pd in caso di débacle elettorale. Cioè che alla fine i soci fondatori di quel Partito, che lui considera «un fallimento politico», decidano di separarsi. Potrebbe allora nascere un Partito di sinistra a impronta dalemiana e uno di centro, diretto da Rutelli e Casini. E' evidente, questo il ragionamento di Bertinotti, che se La Sinistra si farà trovare pronta per partecipare alla costruzione di un nuovo Partito (chiamiamolo socialdemocratico) avrà molte più chance di ritornare in campo. Se invece fosse già strutturata, - organismi, leader, circoli - sarebbe tutto più difficile. Dunque, sì alla scissione ma anche sì a quelli che non scindono: calma e gesso, compagni, e speriamo nel big bang di Veltroni.
Strategia che viene fuori anche dal libro di Franco Giordano e Andrea Colombo, con prefazione dello stesso Bertinotti (Nessun dio ci salverà, Donzelli, 15 euro). Leggendolo si capisce chiaramente che gli ex leader di Rifondazione guardano a D'Alema come futuro interlocutore e magari come compagno di viaggio. Lo stesso D'Alema che non a caso aveva tifato esplicitamente per loro nella battaglia congressuale perduta. Nel suo libro, Giordano svela un paio di retroscena inediti, per esempio che l'allora ministro della Difesa Parisi spinse Rifondazione a organizzare manifestazioni per impedire la costruzione della base di Vicenza che anche lui considerava una scelta sbagliata (Parisi ieri ha smentito). Poi però, spiega Giordano confermando nei fatti la rivelazione, «fummo lasciati soli perché si qecise di infliggere un colpo durissimo alla sinistra, in modo da poter procedere con le politiche economico-sociali per le quali noi rappresentavamo un impedimento». Impedimento che quasi un anno dopo (secondo retro scena svelato nel libro), lo stesso segretario aveva pensato di eliminare. D'accordo con Bertinotti, aveva infatti deciso di uscire dal governo Prodi, «ma il gruppo dirigente bocciò la proposta». Quel gruppo dirigente era formato da Giordano, Migliore, Russo Spena e il ministro Ferrero. Se ne deduce che fu proprio Ferrero a opporsi, cioè quello che dalla sconfitta in poi ha sparato a zero sul governo di cui faceva parte. E che così è riuscito a vincere il congresso e a diventare segretario di Rifondazione. Un Partito di cui, da domani, ne resterà in piedi poco più della metà.