domenica 1 febbraio 2009

l’Unità 1.2.09
Il ministro della paura
Trapianti e trapiantati
di Paolo Soldini


Il ministro della Paura ha colpito ancora. Ora ha scoperto il traffico di organi dei bambini, profughi ed emigranti, che approdano a Lampedusa. I media gli sono andati dietro, appecoronati comme d’habitude quelli di regime, un po’ spaesati gli altri. Nessuno che si sia dato la briga di approfondire il parere di chi sa di che cosa si sta parlando, come i medici che fanno i trapianti e l’Aido, l’associazione che se ne occupa istituzionalmente. Se lo avessero fatto, non avrebbero avuto il minimo dubbio: il ministro responsabile (?) dell’Interno ha sparato l’ennesima cannonata acchiappaconsensi.
Le «evidenze di traffici di organi di minori» di cui Maroni ha parlato emergerebbero, infatti, dall’incrocio dei dati sulle denunce nei paesi in cui si presume che venga praticato l’espianto a scopo di lucro e la scomparsa di ben 400 dei 1320 minorenni arrivati a Lampedusa. Ora, mentre la scomparsa dei 400 è un fatto circostanziato (sul quale il ministro farebbe bene a disporre indagini), le denunce - non potrebbe essere altrimenti - riguardano espianti già avvenuti. Se il traffico avviene in Italia, si dovrebbe pensare che gli espiantati in patria si portino dietro i loro organi per venderli qui da noi…
Inoltre, gli organi dei bambini possono essere reimpiantati - in genere solo il cuore e con gravi difficoltà - unicamente sui bambini. Quattrocento donatori (ma anche 200 o 100) sarebbero in pesante soprannumero sulla «situazione di mercato» in Italia. In ogni caso, poi, i trapiantati hanno bisogno di cure complesse che durano tutta la vita. Come potrebbero giustificare (loro o i loro genitori) il «possesso» di un organo la cui origine non è certificabile?
Si potrebbe continuare, ma forse basta per chiedere a Maroni di smettere, se ne è capace, di propalare sciocchezze. Se proprio non ci riesce, ministro, spari almeno la sua propaganda lontano da chi, come i malati in attesa di trapianto, di guai ne ha già abbastanza.

Corriere della Sera 1.2.09
Giuseppe De Rita «Il rischio della paura esasperata»
«L'identità perduta e il branco come rifugio»
intervista di Paolo Conti


ROMA — «Negli anni ho visto criminalizzare algerini, marocchini, albanesi... Adesso tocca ai romeni. L'Italia, pur essendo abituata da secoli al passaggio di popoli più o meno barbari, continua a considerare chiunque si avvicini alle coste o ai confini come un potenziale nemico. Unica eccezione, gli americani che ci liberarono dal nazifascismo».
Professor Giuseppe De Rita, sociologo e responsabile del Censis, gli ultimi episodi di stupri legati alla presenza di romeni hanno scatenato nuove e forti forme di rifiuto...
«Qui non c'entra né il razzismo né la politica della Lega. È un dato endemico della nostra società che svela uno schema istintivo di protezione, come l'antica accensione dei fuochi sulla penisola sorrentina: "mamma, li Turchi!" Il tentativo impaurito di mantenere un impossibile equilibrio interno. Per di più, e non è un dettaglio, i romeni a molti appaiono come emigrati "facilitati". Non hanno dovuto correre il rischio di morire di sete nel deserto o di finire affogati in un barcone nel bel mezzo del Mediterraneo perché adesso, grazie all'Unione Europea, basta un comodo viaggio in macchina... Tutto questo corrobora le forme estreme del rifiuto».
Ma gli ultimi episodi di stupro, a Guidonia, come a Cosenza, riguardano cittadini romeni. Possibile che sia solo colpa della paura italiana, della diffidenza verso l'immigrazione?
«Vorrei ricordare a tutti che la massima parte dei cittadini romeni residenti ora in Italia rappresenta ottime e indispensabili badanti per i nostri anziani, bravi artigiani per le imprese edili, affidabili portieri di stabili propensi all'integrazione».
E i romeni «altri», allora, chi sono?
«Chi invece arriva carico di rabbia e tensione incarna l'incapacità di integrazione proprio perché arriva da una società disintegrata. Alcuni miei collaboratori sono andati recentemente in Romania e hanno analizzato una Nazione in cui i romeni sono quasi scomparsi e destinati alla fine demografica, sostituiti da altre etnìe. La società non ha più un'identità precisa. Quindi queste schegge di emarginazione tendono a organizzarsi in gruppi, in branchi».
Per quale motivo, professor De Rita?
«Perché il gruppo protegge il singolo nel momento in cui c'è una destrutturazione sociale. Vorrei ricordare il primo stupro di un branco in Italia, il famoso caso del Circeo nel 1975. Il meccanismo, nella sua diversità, era analogo: un gruppo di ricchi pariolini che si sono protetti a vicenda convinti com'erano di trovarsi al di fuori delle regole in un momento in cui la coesione sociale era fortemente in bilico...».
Fatto sta che uno stupro resta uno stupro, professore. E che certi episodi allarmano anche i più propensi all'integrazione.
«A me sembra che il peso di questi stupri venga drammatizzato. Vorrei ricordare che il Parlamento ha appena approvato una legge sullo
stalking... a proposito, a chi è venuto in mente di usare una parola incomprensibile alla massima parte degli italiani?... E lo stalking, ovvero la molestia grave e ripetuta, riguarda quattro milioni di donne italiane. Se fossimo onesti dovremmo dire: dio, dio, dio! Allora siamo noi italiani, ricchi ed educatissimi, i veri stupratori e non quel gruppetto di romeni che fa notizia sulle prime pagine!».
Fatto sta che a Roma, per esempio, aumenta la sensazione di paura e la richiesta di sicurezza. Cosa suggerisce?
«Sia sotto il sindaco Veltroni che ora, con Alemanno, certe vicende sono state politicamente rimpallate e sfruttate. Fa parte del gioco delle parti. Ma alla fine cosa ci rimane in mano? Solo una esasperazione della paura e della rabbia. Che, in poco tempo, potrebbe portare a episodi di linciaggio».
Lei parla di linciaggio, professore. Viene da pensare alla folla che circondava i sei romeni appena arrestati a Guidonia.
«Ecco, anch'io penso a quella scena. Schierare sempre di più incolpevoli alpini e soldati per le strade o rincarare le pene non significa rassicurare ma, al contrario, alimentare la percezione di una grave insicurezza diffusa. Vuol dire de-responsabilizzare la società e affidare a qualcun altro, appunto l'esercito, un compito sostanzialmente impossibile in queste condizioni. È la certificazione della nostra incapacità di autocontrollo come società e realtà vitale ».
Ma torniamo alla questione del linciaggio, professore.
«Ecco, il pericolo è che al branco romeno si risponda con la formazione di un branco italiano, deciso a risolvere il problema col linciaggio del primo. Bel risultato, sul piano della convivenza e dell'integrazione dell'altro. Saremmo proprio alla frattura di qualsiasi coesione».
Sembra quasi che lei faccia poca differenza tra l'azione e la reazione. È così, professor De Rita?
«Ho appena letto la risposta data da un figlio stupratore al padre italiano che gli chiedeva perché non avesse pensato alle conseguenze del suo gesto: "La verità, papà, è che non ho proprio pensato". È l'abdicazione della riflessione. La prova della società- mucillagine di cui parlavamo nel rapporto Censis dell'anno scorso. Cosa c'è di diverso dagli stupratori romeni? E cosa, in fondo, rispetto alla disgregazione della società romena?».

il Riformista 1.2.09
Dopo la Francia anche Inghilterra, Russia, Messico. La protesta globale
Rivolte da crisi
Il nuovo protezionismo. Nei pub di Londra si discute dei cortei per la britannicità della raffineria di Lindsey e si chiede a Brown di respingere i "maccaroni".
di Mauro Bottarelli


British job. Lo schermo è su Sky News dove si parla solo dei cortei di Lindsey contro gli italiani. Il laburista che difende la libera circolazione dei lavoratori è sommerso dai fischi.

Londra. All'ora di pranzo il Queens Head di Lindsey è pieno zeppo. È sabato, la giornata dedicata al pub e al calcio, una sorta di istituzione sacra per gli inglesi. Gli schermi rimandano le immagini che arrivano dal Britannia Stadium di Stoke-on-Trent dove lo Stoke City affronta il Manchester City. L'ingiusta espulsione di Rory Delap, l'uomo dalla rimessa laterale più lunga del mondo, suscita rabbia. Ma è nulla rispetto alla rabbia che percorre questo piccolo edificio vittoriano dalle mura bianche e dall'insegna verde mangiata dal tempo e dalla pioggia: quando l'arbitro fischia la fine del primo tempo con lo Stoke City in vantaggio per 1 a 0 tutti gli schermi virano rapidi su Sky News e l'argomento principe è solo uno, la crisi della raffineria di Lindsey, l'arrivo di italiani e portoghesi a rubare lavoro britannico. Il dibattito è aperto e quando a prendere la parola è un esponente laburista che difende la libera circolazione dei lavoratori in nome dell'Europa e del libero mercato, i fischi e gli improperi diventano insormontabili per qualsiasi curva calcistica. È il caos, è la disperazione declinata in rabbia cieca, paura che prende la scorciatoia dell'odio per evitare di cedere all'impotenza, all'incapacità di reagire. Inaccettabile nel paese di Churchill, della Regina meccanico in tempo di guerra, di Coventry e dell'epopea dei minatori gallesi.
Entrando al Queens Head sono poche le cose che danno nell'occhio, è il classico pub di provincia, odore di birra e moquette lisa che a metà pomeriggio raccoglie rassegnata ciò che è cascato dalle pinte per le mani divenute tremolanti nella presa per il troppo bere. Ovunque, però, al bancone come sui tavoli, campeggiano due cartelli: uno, quello delle "january sales", gli sconti su birra e cibo che vedono il fish'n'chips venduto a 5 sterline invece che 8,99, annuncia che l'offerta anti-crisi proseguirà anche a febbraio. L'altro è lo stesso che campeggia ovunque da queste parti: «British job for british workers you said it! Gordon Brown».
Ovvero, la rivalsa politica di questi uomini e giovani dalle facce segnate dalla stanchezza verso un primo ministro che al congresso del partito del 2007, quando la sua leadership era all'inizio, proferirà quella frase con petto in fuori e voce stentorea da scozzese orgoglioso che mai ha subìto il fascino sottile della cessione di sovranità. Quella frase, quel mantra, arrivava direttamente dall'armamentario populista del British National Party, l'estrema destra che tentava l'operazione simpatia verso la working class bianca: proletarizzazione della rabbia la definirono i sociologi e Gordon Brown cadde nella trappola del facile consenso quando ancora la crisi sembrava confinata agli angusti ancorché limitati confini del fallimento di Northern Rock. Non è stato così, non è così oggi. Il Paese che ha saputo accettare e integrare, almeno formalmente, tre generazioni di sudditi giunti da ogni parte del Commonwealth ora scende in strada contro il nemico italiano, contro quei lavoratori "stranieri" che arrivano da lontano a rubare il pane. Europei, entrambi. Eppure così lontani, così immediatamente catalogati come orde di barbari. Fu così per i polacchi, ora tornati in patria a causa della crisi.
Il problema, qui, non è tanto il timore del lavoro che sparisce per andare a un altro, a uno straniero: è la perdita di quel senso di forza che ha reso la Gran Bretagna meta privilegiata di intere generazioni di emigranti, muratori come broker. La Gran Bretagna, gli occhi di un paese che traspaiono da quelli del barista che spina incessantemente pinte di lager gelata, sono velati della tristezza di chi sa che i tempi del primato in Europa, dell'essere locomotore orgoglioso di quel carrozzone chiamato Ue sono finiti. Sono i conti pubblici a dirlo, i dati macroeconomici, le urla disperate di quei lavoratori che imperterriti picchettano il cancello della "loro" fabbrica, del loro sostentamento, del loro duro lavoro quotidiano che oggi sembra lieve, piacevole, quasi un piacere a cui non si può fare a meno.
È la Gran Bretagna ad aver paura, non solo Lindsey e i suoi lavoratori: e come quasi sempre accade, quando si ha paura si fa la voce grossa per dissimulare. La tv rimanda immagini di calcio ma uno schermo viene tenuto costantemente sintonizzato sulle news: l'ultimo aggiornamento avverte che il governo ha chiamato in azione i mediatori sindacali per porre fine alle agitazioni e cercare una soluzione alla vicenda.
Difficile pronosticare come andrà a finire visto che l'azienda italiana ha vinto una gara con legale bando su regolamentazione internazionale e difficilmente Gordon Brown potrà fare qualcosa senza scatenare le ire e le recriminazioni di Roma.
La giornata scivola lenta e livida come il cielo sopra Lindsey, la birra continua a scorrere copiosa e lo Stoke City difende fiero il vantaggio acquisito sul finire del primo tempo. Tutt'intorno, visi e grida, l'anima di una nazione ferita nell'orgoglio che non si aspettava un'altra Coventry. E che, per la prima volta, non sa come affrontare la situazione se non issando cartelli che chiedono al premier di tener fede alle proprie azzardate promesse e di chiudere le porte, ergendo muri impossibili contro i "maccaroni". Il mondo è piccolo, visto dal Queens Head.

Liberazione 1.2.09
Marco Revelli: «Attenzione, è guerra tra proletari ma gli operai inglesi non sono leghisti»
Manifestazione dei lavoratori della raffineria Total Lindsey contro gli operai di Tonino Bucci


British jobs for british workers. Con questo slogan - lavori britannici per lavoratori britannici - mezza dozzina di raffinerie sono scese in sciopero. Lo hanno in solidarietà con la Lindsey, uno stabilimento sulla costa orientale controllato da una società francese, i cui operai sono entrati in rivolta non appena saputo dell'assunzione di un gruppo di italiani all'indomani di una gara d'appalto. La proverbiale stampa scandalistica inglese l'ha subito messa sul piano della xenofobia, italiani contro inglesi. Però l'effetto immediato della protesta, sostenuta anche dai sindacati locali, è quello. Gli operai inglesi si lamentano per la concorrenza "sleale" dei lavoratori italiani, disponibili ad accettare un posto di lavoro a paghe più basse di quelle normalmente percepite in Gran Bretagna. Le maestranze delle raffinerie dicono che gli italiani gli rubano il posto, che "li hanno presi perché sono pagati meno, ma non sanno lavorare". Insomma, non si può negare che gli operai inglesi siano vittime di un meccanismo economico che porta al ribasso delle condizioni lavorative, epperò qualche segnale inquietante c'è - come sostiene Marco Revelli - in questo intreccio tra voglia di protezionismo e rischio di una resipiscenza della guerra tra popoli e razze.
Nazionalismo e competizione tra lavoratori di diversa nazionalità. La peggiore via di uscita alla crisi che si possa pensare, no?
Mi sembra un segnale inquietante di come la crisi morde sulla società. Non va sottovalutato. Andremo incontro a effetti mostruosi se non ci saranno culture politiche capaci di filtrare gli effetti regressivi della crisi economica e di governarne l'impatto sociale. Sarà la guerra tra poveri se non si costruiscono anticorpi nella cultura politica. C'è un istinto primordiale alla chiusura nazionalistica che si diffonde in tutti i paesi. La crisi enfatizza tutte le fratture nel momento in cui scatta il meccanismo della sopravvivenza. E' la mors tua, vita mea. Non c'è scampo: o hai una cultura politica capace di fare da filtro oppure la risposta è quella che dà Maroni.
Il leghismo avrà pure aspetti folcloristici, però è anche, alla sua maniera, una risposta alla crisi attuale: guerra agli immigrati ed esaltazione del suolo delle piccole patrie. Sarà il modello per il futuro come dimostra la vicenda inglese?
L'istinto della Lega a chiudere i confini nei confronti dei migranti qui ci ritorna sulla testa. La stessa cosa succede allo specchio nei confronti dei lavoratori italiani in Gran Bretagna. E domani potrebbe scattare un analogo meccanismo di rifiuto delle merci italiane da parte dei tedeschi. I nostri politici che speculano su questi istinti belluini giocano col fuoco.
L'unica differenza è che il leghismo italiano soffia sull'odio per gli immigrati che fanno i lavori in basso nella gerarchia sociale, mentre in Gran Bretagna la contesa riguarda lavoratori qualificati. Non è così?
Questo dipende dal fatto che l'Inghilterra nella divisione internazionale del lavoro si colloca a un livello più alto. La competizione si gioca perciò all'interno della gerarchia sociale anche al livello dei tecnici. Ma non c'è una differenza qualitativa. E' che la composizione sociale italiana è appiattita sui lavori a bassa qualificazione, quindi la guerra si fa contro i maghrebini, gli africani e i rumeni. Alla radice ci sta l'alternativa tra il potenziale di imbarbarimento che ha la crisi e le culture politiche che possono costruire anticorpi. Il problema è che queste culture politiche sono collassate. Anche all'interno del mondo del lavoro fa presa la seduzione del leghismo.
Appunto. Dietro la protesta "antitaliana" degli operai britannici ci sono anche i sindacati locali. Avranno anche le loro ragioni, ci sono posti di lavoro a rischio, però così facendo non rischiano di incrementare la guerra tra "proletari"?
Probabilmente in questo meccanismo è coinvolta anche una parte del mondo sindacale. Il fenomeno è determinato anche dalla diversa collocazione dell'Inghilterra nella divisione internazionale del lavoro. La Gran Bretagna ha sperimentato i guasti dell'ultra-liberismo. Conserva nella memoria la follia thachteriana prima e blairiana. L'apertura delle frontiere del mercato è servita come clava per massacrare la parte organizzata del mondo del lavoro e delle Unions. L'Inghilterra si è affidata al neoliberismo in forma più radicale rispetto all'Italia. La vicenda di questi giorni mi sembra un colpo di rimbalzo inquietante e, direi, anche comprensibile in questo quadro.
In fondo parliamo di una costante classica nella storia del movimento operaio. Si potrebbe risalire allo stesso Marx che nel cosiddetto "Discorso sul libero scambio" stigmatizzava il protezionismo come forma di conservatorismo. Insomma, cosa deve fare un sindacato, tutelare i lavoratori dalla concorrenza "sleale" degli stranieri oppure abbracciare la filosofia della libera circolazione di merci ed esseri umani?
Se non hai una forte cultura dell'internazionalismo proletario, una cultura della solidarietà di classe tra lavoratori al di là dei confini, allora la reazione istintiva è quella là, la guerra tra poveri. Poi questa guerra potrà esprimersi ai livelli più alti nei paesi a maggior contenuto tecnologico e di maggior qualificazione della forza lavoro come è l'Inghilterra. Qui da noi probabilmente non avremmo un moto di rivolta contro gli ingegneri inglesi che venissero a gestire degli impianti sofisticati in Italia per la semplice ragione che di impianti sofisticati ne abbiamo pochi. Quelli che vengono a costruire impianti mediamenti sofisticati in Italia lo fanno perché i salari dei nostri ingegneri sono più bassi di quelli dei paesi centrali. La ragione è solo questa. quando la Motorola ha aperto i suoi stabilimenti a Torino ha assunto un centinaio di ingegneri italiani. Perché costavano di meno di quelli inglesi, tedeschi, giapponesi o americani. Poi ha deciso di chiudere e li ha licenziati. Se oggi in Inghilterra si ricorre al subappalto di imprese ad alta qualificazione italiane è perché qui i salari anche di operai altamente specializzati sono stipendi da fame. I nostri lavoratori che vanno là vanno in dumping. Il meccanismo economico è quello. E' un segnale che ci dimostra quanto sfasciato sia il nostro mondo del lavoro, visto che la nostra manodopera, persino quella altamente qualificata, risulta conveniente per gli altri paesi europei.
Non a caso i lavoratori inglesi protestano perché gli italiani accettano di fare un lavoro qualificato a paghe più basse e così facendo spingono al peggioramento delle condizioni lavorative e della forza contrattuale di tutti gli altri. Sbagliano?
Non hanno tutti i torti. E comunque hanno molte più ragioni di quanto non ne abbiano i padani nell'alzare barricate contro i maghrebini che vengono a fare lavori che gli italiani non farebbero.
Insomma questi operai inglesi non sono come li dipinge il giornale "Libero" che incita a imparare da loro come si difendono i posti di lavoro...
Il meccanismo è lo stesso di Maroni ma in condizioni molto diverse. I nostri lavoratori in Inghilterra sono lavoratori sottopagati che si collocano allo stesso livello di qualificazione dei lavoratori inglesi, mentre i nostri migranti non in competizioni con la maggior parte dei nostri lavoratori.
Dal punto di vista della nostra cultura politica dobbiamo prepararci a questo scenario. Ormai sempre più governi annunciano misure a favore dei lavoratori dei propri paesi a partire dagli Usa di Obama. O no?
Il mondo orribile del neoliberismo ha al di sotto una dimensione ancora più orribile che è quella del mondo post-neoliberista e iperprotezionista. E' quello che successe tra gli anni 20 e 30. Prepara le peggiori catastrofi belliche, razziali, totalitarie. Il rimbalzo protezionista dopo l'ubriacatura liberista è micidiale.
Può innescare una spirale in fondo alla quale c'è la guerra e la recrudescenza dei conflitti di razza. Dalla crisi del '29 si è usciti con la Seconda guerra mondiale, mica con il New Deal. Anche l'economista Samuelson dice di stare attenti all'iperprotezionismo del quale, a casa nostra, è interprete Tremonti...
Certo, il protezionismo ha dentro di sé la guerra. Tremonti è molto inquietante in questa sua involuzione verso il demos, cioè verso quella dimensione che negli anni Trenta prese il nome di völkisch. Bisogna fare attenzione a questa regressione verso l'identitarismo su base nazionale o su base populistica. Il populismo protezionistico ha un potenziale distruttivo immenso.

il Riformista 1.2.09
Se la crisi alza nuove barriere ai confini
di Stefano Feltri


Una diagnosi efficace l'ha fatta Christine Lagarde, ministro francese dell'Economia: «La situazione attuale comporta due rischi principali, proteste sociali e protezionismo». Perché la crisi della globalizzazione finanziaria, innescata dai mutui americani, sta causando una crisi della globalizzazione economica, quella dei container cinesi, delle fabbriche delocalizzate, dei servizi esportati, come dimostrano le proteste londinesi contro i tecnici italiani e portoghesi superspecializzati che hanno vinto un subappalto e che, secondo i manifestanti, impedirebbero che i lavori britannici restino ai lavoratori britannici. Come ha ribadito il direttore generale della Wto, Pascal Lamy, una settimana fa, è importante avere chiaro il nesso causale: il commercio internazionale è una «casualty», cioè una vittima, della crisi. E non una causa. Quello che si sta iniziando a capire all'inizio del 2009, ora che si avverte davvero il passaggio della crisi dalla finanza all'economia reale, è che isolarsi è impossibile. Nessun Paese può sperare di salvarsi ripiegandosi su se stesso nell'attesa che l'economia mondiale si riprenda. Perché in quel "mondo piatto", come lo chiama il giornalista Thomas Friedman, che si è creato nel primo decennio degli anni Duemila, le catene di produzione si sono frammentate e sparpagliate ovunque.
Ma questo non impedisce che il protezionismo stia aumentando, in forme molto diverse e non sempre riconoscibili. Quella più evidente è il blocco dei negoziati multilaterali: il Doha round, cioè il ciclo di trattative aperto nel 2001 alla Wto, si è bloccato. Nonostante il segretario Lamy lo ribadisca ogni volta che può, la riduzione delle barriere doganali per favorire lo sviluppo, anche dei paesi poveri, non è più la priorità per nessuno. Un postulato economico (più commercio uguale più crescita) da sempre discusso e discutibile nel dibattito accademico sta lasciando il posto al suo contrario empirico: difesa dello status quo e, quando possibile, riduzione degli scambi. Ma le cose non stanno andando come auspicavano i critici della globalizzazione Wto-style, come Joseph Stiglitz o il coreano Ha-Joon Chang (si veda il suo ultimo libro "Cattivi samaritani", Università Bocconi editore). Il rallentamento dell'apertura dei paesi poveri alle importazioni dei ricchi non è dovuto a ragioni strategiche come la protezione delle "industrie nascenti", messe al riparo dalla concorrenza internazionale finchè non sono abbastanza forti da competere. L'attuale de-globalizzazione è gestita giorno per giorno, senza piani di medio periodo. E forse è l'unico comportamento possibile quando le esportazioni di Paesi come Germania, Brasile o India crollano di decine di punti percentuale in poche settimane.
Simon J. Evenett, che per il sito Voxeu.org ha coordinato un dibattito tra economisti sul protezionismo, vede alcuni rischi nell'improvviso crollo dei commerci internazionali che si sta verificando in questi mesi. Primo rischio: i piani di molti Stati per combattere la recessione prevedono un aumento del debito pubblico per finanziarli. Ma trovare credito sui mercati finanziari sarà sempre più difficile, proprio perché tutti lo cercano. Quindi alcuni Governi potrebbero cercare entrate sicure alzando le tariffe alla dogana. Ed è possibile perchè in sede Wto spesso si riducono solo le bound tariff, le tariffe massime applicabili, spesso sono molto superiori a quelle applicate davvero. Secondo rischio: nel tentativo di sostenere la domanda domestica per compensare la diminuzione delle esportazioni si possono prendere decisioni affrettate che finiscono per creare nuove tensioni, come quella della Malesia che ha invitato le imprese a licenziare prima i lavoratori stranieri (perché mandano a casa buona parte del loro stipendio invece che spenderlo in loco). Ma questo fa diminuire le rimesse verso i paesi d'origine e quindi, potenzialmente, anche le esportazioni malesi. Oltre a creare un gruppo di disoccupati molto arrabbiati.

il Riformista 1.2.09
Il rublo vale sempre meno
Russi in piazza da Mosca a Vladivostok
di Luca Sebastiani


La crisi non risparmia nessuno, neanche il granitico potere autoritario che da dieci anni domina la Russia col pugno di ferro. Una contestazione così scoperta come quella di ieri, infatti, non si era mai vista. «Putler Kaput», «Siamo contro il Cremlino». I cartelli e gli striscioni contro l'esecutivo del primo ministro Vladimir Putin non potevano essere più espliciti. E inediti, in un paese in cui il dissenso è tenuto a bada con tutti i mezzi necessari. Ieri infatti era stata solo la clemenza del Cremlino a concedere all'opposizione l'opportunità, per la prima volta, di organizzare una giornata d'azione nazionale di protesta. Una valvola di sfogo sapientemente socchiusa in un contesto economico che sta degradandosi velocemente e rischiando di sgretolare le basi del consenso su cui si era retto fin qui il sistema putiniano. Ma anche una finestra da richiudere in fretta, prima che l'opposizione si renda troppo palese e possa raccogliere consenso.
A Mosca, ad esempio, la libertà di manifestare è durata solo qualche secondo, appena il tempo di pronunciare qualche parola. Il contesto del resto non era promettente. Triumphalnaia, la piazza di una manifestazione non autorizzata, era praticamente circondata da un impressionante dispiegamento di celere e di agenti in borghese, mentre dall'alto vigilava un elicottero. Appena Eduard Limonov, leader del partito nazional-bolscevico e virulento oppositore di Putin, ha cominciato ad aprir bocca, è stato strappato dal palco piazzato sotto la statua di Vladimir Maiakovski e trascinato fino ai furgoni della polizia.
Oltre a lui sono state arrestate altre quindici persone. Non è andata meglio all'opposizione vicina all'ex campione di scacchi Garry Kasparov, che in un altro quartiere della capitale russa stava manifestando e chiedendo le dimissione di Putin. Anche lì il bilancio è stato di una decina di arresti.
Tra le manifestazioni che hanno attraversato la Russia, la meglio riuscita è stata quella di Vladivostok, nell'Est. Alla protesta organizzata dal Partito comunista hanno partecipato tremila persone e contrariamente a quello che era successo nella stessa città un mese prima, le forze dell'ordine abbondantemente dispiegate hanno concesso agli organizzatori che la manifestazione si svolgesse regolarmente. Agli slogan che chiedevano le dimissioni dell'esecutivo e strillavano che «La crisi è nelle teste delle autorità», questa volta rispondevano gli slogan favorevoli a Putin dei cinquemila militanti del partito governativo Russia unita, riuniti poco distante.
Certo queste espressioni isolate di protesta non sono ancora in grado di scalfire l'autorità del Cremlino, ma sono un segno, una sfida per il sistema di potere putiniano. Finora la crescita costante del tenore di vita è stata la condizione necessaria perché i russi chiudessero un occhio sulla libertà vigilata e sulla man bassa delle autorità sul sistema economico. Ma in queste settimane il malcontento ha cominciato a crescere di pari passo con la svalutazione del rublo e la crescita dell'inflazione.
Se nel febbraio 2008 era solo il 22 per cento dei russi a temere la minaccia economica, oggi è il 60 per cento che colloca la crisi e la recessione in testa alle proprie preoccupazioni. E non hanno tutti i torti. Da quando si è manifestata la crisi mondiale, a settembre dello scorso anno, il rublo non ha fatto che crollare e neanche l'intervento massiccio della Banca centrale russa, che ha immesso sul mercato 251 miliardi di dollari, ha potuto fermarne la caduta. A questo ritmo le riserve del Paese, che sono già passate da 600 miliardi a 385, rischiano di prosciugarsi.
Del resto il corso della moneta non fa che seguire quello delle materie prime, che da sole rappresentano l'80 per cento delle esportazioni russe, la colonna del sistema putiano. Con gas e petrolio Putin ha garantito al Paese dieci anni di crescita continua, mentre per il 2009 il Fondo monetario internazionale prevede l'entrata ufficiale della Russia nella recessione.
Contrariamente ad altri Paesi emergenti, infatti, la Russia ha puntato tutto sulle materie prime lasciando completamente da parte il sistema produttivo del paese. Il risultato è che oggi quasi tutto quello che si compra in Russia viene importato a prezzi sempre più alti. Mentre anche gli investimenti esteri prendono la strada di casa. Dall'inizio della crisi 290 miliardi di dollari hanno lasciato la Russia.
Data la situazione si capisce bene il discorso che tre giorni fa Putin ha tenuto a Davos. Ai potenti della terra il primo ministro russo ha chiesto cooperazione e coordinazione economica per fronteggiare la crisi. Perché, ha detto, «siamo tutti sulla stessa barca».

il Riformista 1.2.09
In Messico calano le rimesse
Verso lo sciopero generale. «Sin maiz, no hai pais». Proteste contro il caro gasolio per l'agricoltura. Il ritorno degli emigrati che non trovano più lavoro in Usa.
di Roberto Zicchitella


Si dice che quando gli Stati Uniti hanno il raffreddore il Messico si ammala di polmonite. La frase è stata ripresa venerdì in un dibattito al Forum Economico Mondiale di Davos dal presidente messicano Felipe Calderon proprio nel giorno in cui le strade di Città del Messico sono rimaste bloccate per dieci ore da migliaia di manifestanti che protestano contro la crisi economica.
Con la crisi che morde a nord del Rio Bravo il Messico rischia di subire pesanti conseguenze, ammette Calderon, tuttavia assicura che il paese è abbastanza solido e attrezzato per fronteggiare le difficoltà dei prossimi mesi. La ciambella di salvataggio che impedisce al Messico di affondare sono i petrodollari. Ma dopo il petrolio la principale fonte di ricchezza del gigante centroamericano sono le rimesse degli emigranti.
Quando cercano fortuna i messicani, legalmente o illegalmente, varcano la frontiera settentrionale e si sparpagliano negli Stati Uniti. Lavorano nei ristoranti, nelle fabbriche, nei campi, nelle aziende di pulizia, nell'edilizia. Spesso in nero, in genere sottopagati. Ma i dollari che riescono a risparmiare vengono spediti a casa, dai familiari. Ora che la "grande gelata" della crisi finanziaria ed economica colpisce duramente l'economia americana, i messicani sono i primi a pagare. Quando le aziende devono licenziare o non rinnovano più un contratto di lavoro, in testa alla lista ci sono loro, i vari Ramon, Maria, Diego, Felipe, Carlos.
Senza lavoro e senza stipendio molti si arrangiano, altri sono costretti a tornare in Messico. E non ci sono più soldi da spedire a casa. Per la prima volta dal 1995, dopo anni di crescita continua, l'anno scorso le rimesse degli emigranti messicani sono calate del 3,6 per cento. E tutto lascia credere che andrà peggio nel 2009.
Le conseguenze già si fanno sentire. Il malessere sociale si diffonde. E la gente scende in strada per protestare. Come è accaduto due giorni fa a Città del Messico e in altre città del Paese. Alla manifestazione della capitale hanno preso parte almeno cinquantamila persone. Erano in maggioranza contadini, ma c'erano anche operai, insegnanti, professori universitari, studenti, rappresentanti di organizzazioni non governative. Hanno sfilato fino a Plaza de la Constitucion esibendo striscioni, cartelli e bandiere. I contadini indossavano sombreri di paglia, alcuni reggevano ceste di vimini piene di pannocchie di granoturco.
«Sin maiz, no hai Pais», si leggeva su alcuni striscioni. «Senza il mais non c'è il Paese», come dire che se si affossa la produzione di mais va a picco l'economia dell'intero paese. La rabbia dei campesinos nasce dalla decisione, da parte del Governo, di congelare il prezzo della benzina, ma non quello del gasolio, con il quale sono alimentati i motori della maggior parte delle macchine agricole. Proprio ieri il prezzo del gasolio è salito di altri cinque centesimi e questi aumenti ormai hanno cadenza mensile. Già nei mesi scorsi gli incrementi di prezzo del combustibile avevano scatenato proteste da parte degli autotrasportatori e dei pescatori.
La protesta dei contadini ha trovato la solidarietà dei dipendenti del trasporto pubblico, che hanno bloccato le strade della capitale facilitando così il flusso della manifestazione. Gli insegnanti, invece, hanno protestato contro le riforme annunciate nei settori dell'istruzione e del welfare, considerate un primo passo verso la privatizzazione.
Ma preoccupa soprattutto un possibile impoverimento della popolazione come conseguenza della crisi. I principali sindacati sono concordi nel chiedere, fra l'altro, anche l'introduzione di tariffe elettriche sociali. Cruz Lopez Aguilar, dirigente della Confederaciòn Nacional Campesina, ha chiesto anche una modifica della Costituzione allo scopo di far inserire fra i diritti fondamentali il diritto all'alimentazione, così da proteggere le famiglie dalla povertà e dall'emarginazione.
Un altro dirigente sindacale, Agustin Rodriguez Fuentes, a nome delle varie sigle sindacali rappresentate alla marcia di venerdì, ha detto che se il Governo non darà risposte immediate la protesta si radicalizzerà. I sindacati minacciano di bloccare le strade, le stazioni ferroviarie, i porti e gli aeroporti con un prossimo sciopero generale.

il Riformista 1.2.09
L'invettiva anti-giudaica di un ultra-tradizionalista
di Fabrizio d'Esposito


Maurizio Ruggiero. È la guida del movimento veronese Sacrum Imperium. Condanna l'uso della parola Olocausto, dice che sulle tesi di Williamson si dovrebbe poter discutere, evoca interessi economici dietro la memoria della Shoah e si sente perseguitato dagli ebrei in virtù della sua fede cristiana.

A Verona il monumento in memoria dell'Olocausto si trova nella piazzetta di fronte alla chiesa di Santa Maria in Organo, una delle più note e antiche della città. Il quartiere è in centro e si chiama Veronetta. Dice Maurizio Ruggiero: «È un'orribile ferraglia che solo con uno sforza da ernia può dirsi monumento. E poi il quartiere Veronetta ha un alto numero di tradizionalisti. Peccato che l'amministrazione comunale non abbia considerato i fanti della guarnigione veneziana che difendeva Verona e la Serenissima al tempo delle Pasque Veronesi, la grande insurrezione contro Bonaparte nell'aprile del 1797. I soldati furono deportati in Francia via Milano nei primi campi di concentramento che la storia ricordi, allestiti dai giacobini benefattori dell'umanità. Tornarono in pochi, ma si sa, la propaganda è propaganda e i morti non sono tutti uguali».
Maurizio Ruggiero ha cinquantuno anni, non è sposato ed è un cattolico tradizionalista. «Ultra-tradizionalista» dicono di lui i tradizionalisti del movimento Una Voce, che ne condannano gli eccessi.
A Verona è il coordinatore del movimento legittimista Sacrum Imperium. Per lui, l'unica messa valida è quella dell'antico rito tridentino, in latino. La differenza tra tradizionalisti e lefebvriani è semplice: i primi non sono mai usciti dalla Chiesa. Poi, continua Ruggiero, «l'analisi è la stessa, siamo contro il modernismo e il Concilio Vaticano II». A Verona il Sacrum Imperium ha un indirizzario di cinquemila nomi. Anche se in Curia minimizzano molto la sua influenza, «trenta quaranta seguaci». Spiega Ruggiero: «All'estero la via per diventare tradizionalisti è soprattutto liturgica. In tanti restano affascinati dal rito antico. Da noi, invece, è diverso. Lo si diventa per motivi storico-politici».
Alle elezioni Ruggiero, barese trapiantato a Verona sin da bambino, vota per la Lega: «Il sindaco Tosi è un mio amico da più di dieci anni. Ci vediamo sempre, non spesso. Adesso lo devo incontrare anche per la questione del monumento alla Shoah. Si avvicinò a noi nel 1996, alla vigilia del bicentenario delle Pasque Veronesi, allora era già capogruppo al Comune se non sbaglio». Sul caso Williamson, il vescovo negazionista dei lefebvriani, l'opinione di Ruggiero è questa: «Premesso che la Chiesa condanna il razzismo e l'antisemitismo, ritengo che non esistano tabù storici. Perché non è possibile discutere le affermazioni di Williamson? Quanti ebrei sono morti: sei milioni o cinquecentomila? Le camere a gas sono esistite oppure no? Ripeto, perché non è possibile discutere di queste cose? Sulla Shoah c'è stata una strumentalizzazione scandalosa. Certo gli eventi della Seconda guerra mondiale sono stati poco encomiabili e poco gloriosi, ma i comunisti sovietici e cinesi hanno ammazzato nei lager più di cento milioni di persone. E poi c'è la questione risarcitoria. Gli interessi che sono dietro la Shoah mi ricordano le denunce di pedofilia contro i preti. Spesso le vittime che accusano i sacerdoti sono mosse da motivi di natura economica». Dal negazionismo all'antigiudaismo. Il passo è breve: «L'uso del termine Olocausto è improprio e rischia di cancellare il vero Olocausto che è stata la morte di Cristo». Del resto, Ruggiero rivendica l'anti-giudaismo dei tradizionalisti cattolici: «Il nostro è il giudizio negativo che si deve dare della falsa religione giudaico-talmudica, la quale non ha più senso dopo la venuta del Messia. Prima del Redentore c'era il popolo eletto, dopo coloro che ne decretarono la morte e non lo hanno riconosciuto».
Ruggiero, a questo punto, prosegue le sue invettive anti-giudaiche distinguendo tra liturgia sinagogale e Talmud: «Oggi un vescovo cattolico deve avere l'indispensabile assenso del rabbinato, sennò sono guai, ma perché nessuno dice o scrive delle preghiere maledette, nel senso che sono maledizioni, che vengono recitate contro i cristiani nelle sinagoghe? Perché nessuno parla degli insulti contro Gesù e la Madonna contenuti nel Talmud, che è il vero libro sacro dell'ebraismo e non ha nulla a che fare con l'Antico Testamento?». Ruggiero si ferma e comincia a prendere documenti. Elenca siti dove è possibile trovare le cose che dice. «Partiamo dai precetti e dalle prescrizioni anti-cristiane del Talmud. In merito il testo più famoso è quello di monsignor Giovan Battista Pranaitis: Christianus in Talmude judeorum. Pranaitis era un sacerdote russo e il libro fu pubblicato nel 1892». Ruggiero legge da un lungo articolo a firma di don Curzio Nitoglia uscito alla fine del 1993 sulla rivista Sodalitium, che sintetizza i passaggi più significativi di Pranaitis: «Le leggo cosa c'è nel Talmud sulla vita di Cristo. "Nel Trattato Kallah 1 b (18 b) si narra che Gesù fosse un bastardo e figlio di una donna impura. Che aveva in sé l'anima di Esaù ed era stolto, prestigiatore, seduttore, idolatra. Fu crocifisso e sepolto nell'inferno e divenne l'idolo dei cristiani". E ancora: "Nel Sanhedrin 67 a si legge che Gesù era figlio di una meretrice, che fu crocifisso la sera di Pasqua, che sua madre fu la prostituta Maria Maddalena. La Madonna è chiamata meretrix o Stada poiché aveva tradito il marito con un adulterio. Nello Schabbath 104 b Gesù è chiamato stolto e demente, prestigiatore e mago. Lo Zohar 282 b dice che Gesù morì come una bestia e fu sepolto tra le bestie"».
Sul sito tradizionalista della Milizia di San Michele Arcangelo c'è invece un elenco delle prescrizioni talmudiche così come riportato sempre da Pranaitis: «L'ebreo non deve salutare il cristiano»; «L'ebreo non deve ricambiare il saluto del cristiano»; «I cristiani devono essere evitati perché sono immondi»; «Si deve fare del male ai cristiani: l'ebreo ha l'obbligo di fare del male ai cristiani per quanto egli possa, sia indirettamente - non aiutandolo in nessuna maniera - che direttamente - distruggendo i loro piani e progetti»; «I cristiani devono essere danneggiati nelle cose necessarie alla sopravvivenza»; «Un ebreo deve sempre cercare di ingannare i cristiani». Ed ecco come conclude Pranaitis il suo libro: «Se lo studio delle orribili bestemmie di questo libro dovesse essere rivoltante per il lettore, che egli non me ne voglia. Non ho detto, all'inizio, che avrei narrato qualcosa di piacevole, ma solamente che avrei dimostrato ciò che veramente il Talmud insegna sui cristiani».
La liturgia in sinagoga, infine. Stavolta Ruggiero sventola un articolo dell'agenzia vaticana Fides. «La Fides non è tradizionalista ma guardi cosa scriveva nel 2007». Legge ancora: «Alcuni circoli ebraici e alcuni organi di stampa hanno fatto rumore in occasione della promulgazione del Motu proprio di Benedetto XVI sulla Messa antica, paventando la reintroduzione della preghiera per gli ebrei, quella da cui Papa Giovanni tolse l'aggettivo "perfidi". Forse pochi sanno che la orazione solenne per gli ebrei del Venerdì Santo ha una corrispondente nella birkat ha-minim (benedizione contro gli eretici) della liturgia giudaica, che è la seguente: "Che per gli apostati non ci sia speranza; sradica prontamente ai nostri giorni il regno dell'orgoglio; e periscano in un istante i nazareni e gli eretici: siano cancellati dal libro dei viventi e con i giusti non siano iscritti. Benedetto sei tu Yahweh che pieghi i superbi". Così recita la XII benedizione della liturgia sinagogale nella forma primitiva. Mentre in quella del Talmud babilonese più diffusa oggi: "Per i calunniatori e gli eretici non vi sia speranza, e tutti in un istante periscano; tutti i Tuoi nemici prontamente siano distrutti, e Tu umiliali prontamente ai nostri giorni. Benedetto Tu, Signore, che spezzi i nemici e umili i superbi"».
Conclude Ruggiero: «Sono antigiudaico per difendermi da queste maledizioni».

l’Unità Lettere 1.2.09
Follie religiose
di Giovan Sergio Benedetti


Ci sono diversi modi di ricordare l’olocausto. Papa Ratzinger lo fa riaccogliendo a braccia aperte nella Chiesa di Roma il vescovo scismatico Richard Williamson, che l’olocausto lo nega. Da parte sua Israele stato-chiesa, ma di un’altra chiesa, lo fa imponendo un nuovo olocausto a donne e bambini palestinesi. Tutto questo conferma la mia profonda convinzione che le religioni, come la storia insegna, sono da sempre fomentatrici di divisioni e violenza nel mondo. La pace in terra verrà, se verrà, senza o contro le religioni, tutte notte della ragione, compreso, ovviamente, l'Islam.

il Riformista 1.2.09
La paura scende in piazza
di Giampaolo Pansa


Sono sempre stato un ottimista. Ma adesso comincio ad avere i brividi. Forse perché ho passato i settant'anni. O perché il mondo va davvero a rotoli, assalito non dai marziani, bensì dal mostro della sciagura economica. Sta di fatto che anch'io temo di perdere quanto ho conquistato: il lavoro, un'esistenza senza problemi, i risparmi, la sicurezza.
Quando sento dire che ritorniamo all'Italia del dopoguerra, mi incavolo. L'ho vissuto il dopoguerra, da ragazzino. Allora eravamo meno infelici di oggi. Non avevamo niente e dunque potevamo perdere ben poco. Le case erano fredde. Il cesso sulla ringhiera gelato. Niente stanza da bagno. Niente telefono. Niente auto o motorette. Niente vacanze. Risparmi all'osso. Lo spreco era il delitto più grave. Guai a lasciare nel piatto un cucchiaio di minestra. La calza bucata veniva rammendata all'infinito. I cappotti rivoltati. Le scarpe risuolate più volte.
Nelle strade sfilavano gli operai disoccupati. Ma anche il ceto medio stava allo stremo.
Ricordo una vignetta di Giovanni Guareschi sul Candido: un impiegato non poteva comprare al bambino le castagne arrosto perché non le vendevano a rate. La legna per scaldarsi costava un occhio della testa. Il carbone era razionato: sette chili a persona, per tutto l'inverno. Anche in classe si stava con il paltò addosso.
Per fortuna c'era l'America. Gli Stati Uniti avevano vinto la guerra, ma non abbandonavano gli sconfitti. Oltre Oceano fu organizzato il Treno dell'Amicizia. Raccoglieva aiuti per l'Italia. Il treno sbarcò a Napoli e risalì la penisola, rifornito dalle navi americane. Quando arrivò da noi, andai a ritirare il pacco: farina, latte in polvere, legumi, pasta, scatolame vario. Più un taglio di stoffa, che diventò un cappotto per me. C'era un biglietto del cardinale Spellman, l'arcivescovo di New York: «Non posso credere che l'Italia sceglierà lo stalinismo contro Dio, la Russia sovietica contro l'America». Mancava poco al 18 aprile 1948.
Adesso l'America non ci può aiutare. Il presidente Obama ha il fuoco in casa. Visto alla tivù, ha cambiato faccia. Non è più abbronzato, come disse il Cavaliere, ma livido, un uomo alle prese con il disastro. Invece i nostri politici di governo hanno il volto del meneimpippo, rilassato, roseo, un sorrisone, una battuta per il tg e via andare. Mascherano il terrore per quel che può accadere. E strillano: ottimismo, fiducia, lo stellone d'Italia ci proteggerà dallo sfascio!
Ma lo sfascio è già qui. Migliaia di persone hanno perso il lavoro. Altre migliaia lo perderanno. La cassa integrazione straripa di gente in ansia. I numeri ballano. Il capo della Fiat, Marchionne, dice che rischia di mandare a casa sessantamila dipendenti. La capa degli industriali, Marcegaglia, lo corregge: non sessanta, ma duecentomila.
La paura è in piazza. Rivediamo cortei di altri tempi. Alcuni aizzati da agitatori estremisti, che si portano dietro schiere di immigrati furibondi. A Torino hanno assalito la Prefettura. In tribunale le nuove Brigate rosse insultano i testimoni. Un galantuomo come Pietro Ichino si è sentito urlare: «Assassino, massacratore di operai». Nelle cantine dell'antagonismo preparano robaccia. È stato un errore lo sbarramento al quattro per cento delle europee. Servirà solo a gettare benzina sul fuoco.
Sta accadendo l'impensabile. In Gran Bretagna, operai inglesi si scagliano contro operai italiani, perché gli portano via il lavoro. Prima o poi, anche i nostri disoccupati se la prenderanno con gli stranieri che vivono in Italia, accusandoli di rubargli il pane di bocca. La rabbia che abbiamo visto contro gli stupratori rumeni risulterà uno scherzo di borgata. Ci saranno scontri etnici, una guerra tra poveri. Le forze dell'ordine, messe in mezzo, dovranno difendersi. Qualcuno sparerà. Qualcun altro verrà sparato. Torneranno sulla scena le bande rosse e nere. Lo schema è noto: basta pensare agli anni Settanta.
La gente chiederà ai politici ordine e pugno di ferro. Ma la casta non saprà che fare. L'avversione per i partiti crescerà. I sindaci, accusati a ragione di buttare via i soldi, dovranno blindarsi nei municipi. Montecitorio e Palazzo Madama diventeranno posti da assaltare, come i negozi. I parlamentari decideranno di dare ai disoccupati i tre quarti dell'indennità. Ma senza spegnere l'incendio. Le tivù rinunceranno ai talk show con i cacicchi, perché nessuno li guarda più. I giornali, ridotti a poche pagine, cancelleranno i servizi politici, per non vedersi bruciare all'arrivo in edicola. Le sedi dei partiti spariranno davanti al rischio di essere devastate.
Si parlerà e scriverà soltanto del disastro mondiale. Senza poter evitare le voci più assurde. Gli ospedali stanno per chiudere, non hanno quattrini per tirare avanti. L'energia elettrica viene erogata soltanto al calar del buio. Torna il razionamento, con la tessera del pane. Molti prodotti si trovano appena al mercato nero. Non funzionano più i cellulari e i computer. Manca la benzina. Niente aerei e treni. Le autostrade abbandonate alle erbacce.
Descrivo un incubo che forse eviteremo. Ma l'Italia delle istituzioni è immobile. Il Governo non sa che fare e decide con drammatica lentezza. Le opposizioni hanno poco da proporre. La tivù pubblica fa pena. Giovedì sera "Annozero" ha di nuovo preso per i fondelli Lucia Annunziata. Con la Rosy Bindi, il bel Casini e il leghista Cota che ridevano per l'imitazione fatta da Sabina Guzzanti. Sì, ridete, che la mamma vi ha fatto i gnocchi. Ma quando non troverà più la farina, riderete ancora?

l’Unità 1.2.09
Il presidente della Corte d’Appello: «Esecutivo e politica non possono annullare le sentenze»
Scontro con il PdL Gasparri: «Mi attiverò perché venga punito». Roccella: «Toni dittatoriali»
di Federica Fantozzi


Eluana, i giudici di Milano: «Le sentenze vanno applicate»
All’inaugurazione dell’anno giudiziario Genchi invoca la separazione dei poteri: «Le sentenze non si giudicano, si impugnano». Il cardinale Tettamanzi: «Accanimento mediatico sulla vicenda».
«Né il potere legislativo né quello esecutivo possono porre nel nulla le sentenze definitive». Il presidente della Corte d’Appello di Milano Giuseppe Grechi all’apertura dell’anno giudiziario torna sul caso di Eluana Englaro. Vicenda su cui la Corte milanese aveva emesso nel 2008 il decreto che autorizza la sospensione dell’alimentazione forzata alla ragazza in coma da 17 anni.
Ed è di nuovo scontro tra giudici e maggioranza di governo, con Maurizio Gasparri speranzoso che Grechi «venga punito». Mentre il sottosegretario all’Interno Mantovano parla di «sindrome di onnipotenza». E la sottosegretaria al Welfare Roccella denuncia «toni dittatoriali».
Dopo le invasioni di campo della politica che hanno impedito l’esecuzione del provvedimento, Grechi si toglie qualche sassolino dalla scarpa. Primo: «In uno stato di diritto il giudice non può rifiutare una risposta per quanto nuova e difficile sia la domanda di giustizia rivoltagli» perché esiste il principio della completezza dell’ordinamento giuridico. Secondo: la Corte «non ha invaso territori altrui. Né il potere esecutivo né legislativo possono far finire nel nulla le sentenze». Perché la Costituzione «è fondata sulla separazione dei poteri per cui un potere non può interferire in un altro». Terzo: «La Consulta, la Corte di Cassazione e la Corte Europea dei diritti dell'uomo hanno già confermato la correttezza della Corte d'Appello».
Il magistrato conclude lapidario che «le sentenze non si giudicano, si impugnano». Parole apprezzate dal padre di Eluana: «Mi fa piacere - dice Beppino Englaro - che ancora una volta i principi di diritto chiariti per la magistratura sono intoccabili». Insorge il senatore Gasparri: «Grechi è un eversivo. Una vergogna che ricopra quel ruolo, le sue frasi sono da denuncia. Ribellarsi al Parlamento è un attentato alla Carta». Lui replica «Sono convintissimo di ciò che ho detto». Controreplica Gasparri: «Non conosce la Costituzione, spero venga punito e assumerò iniziative a tal fine». Sul caso Eluana però nasce una fronda dentro il PdL. Dopo il repubblicano Nucara, che aveva manzonianamente paragonato Formigoni a Don Rodrigo e Sacconi all’Innominato, è Della Vedova a considerare «ineccepibili» le parole di Grechi. Condivide l’avvocato forzista Pecorella: «Una sentenza va rispettata e applicata».
Formigoni insiste
Il governatore della Lombardia sostiene che se non intende eseguire la sentenza del Tar non è per «un personalismo» bensì perché quella di Eluana «è una vita piena». Parla anche il cardinale di Milano Tettamanzi: «C’è stato accanimento mediatico, non si trasformi un desiderio in diritto vero e proprio». Infine, l’allarme dell’ex pg del capoluogo lombardo Francesco Saverio Borrelli: «Non è detto che una legge sul testamento biologico sia auspicabile. Potrebbe irrigidire e cristallizzare la materia».

Repubblica 1.2.09
Quel rispetto del medico per il paziente
di Gian Domenico Borasio, Cattedra di cure palliative, Università di Monaco di Baviera


Il signor Formigoni, nella sua intervista a Repubblica, afferma: «La gente sa che Eluana morirà con una lunghissima e dolorosissima agonia? Morirà di fame e di sete, con dolori, crampi muscolari, generalizzati e dolorosi, le mucose si seccheranno e ci saranno ulcere, il corpo subirà crisi convulsive generalizzate». Queste affermazioni sono assurde e rivoltanti. Quale medico potrebbe tollerare che un suo paziente morisse in simili condizioni? Nelle cure palliative è nostro compito accompagnare i malati nel loro ultimo cammino col più grande rispetto per la loro volontà. Non è nostro compito sindacare sulle decisioni dei malati, che spettano solo a loro o a chi è autorizzato a farle in loro vece (in Germania, la nomina di un amministratore di sostegno è già stata effettuata da milioni di persone, assieme al testamento biologico).
Certamente Formigoni è digiuno delle più elementari nozioni di medicina palliativa. Dal punto di vista neurologico parlare di fame e di sete è un controsenso: le parti del cervello necessarie a creare la sensazione soggettiva di fame e sete non funzionano più. La morte di questi malati, poi, è una delle più pacifiche possibili. In uno studio americano su oltre 100 malati morti per interruzione della nutrizione artificiale, chi li accudiva ha classificato la loro morte come pacifica su un livello di otto in una scala da zero a nove. La nostra esperienza clinica conferma questi dati. Infine, è compito del medico che accompagna un malato in fase terminale utilizzare tutte le sue risorse per evitare sofferenze. Lo scenario descritto da Formigoni non ha attinenza colla realtà. Le cure palliative dispongono di tutti gli strumenti per prevenire e curare la sofferenza dei morenti.
Dopo aver assistito migliaia di malati terminali, e parlato coi loro familiari, una certezza emerge: non è compito dei medici imporre le proprie convinzioni etiche o religiose a chi si affida alle loro cure. Il malato ha diritto a un´assistenza competente e al rispetto delle sue decisioni. Come scrisse il filosofo Kierkegaard: «Se vogliamo aiutare qualcuno, dobbiamo prima capire cosa desidera. Questo è il segreto dell´assistenza».

l’Unità 1.2.09
«Stato palestinese. Solo così Israele eviterà la catastrofe»
L’ex presidente Usa: «Nessuna Barriera potrà mai difendere lo Stato ebraico dalla vicina bomba demografica. La pace in Terrasanta arriverà solo se sapranno convivere due Paesi indipendenti»
intervista con Jimmy Carter di Umberto De Giovannangeli


Il suo contributo risultò decisivo per giungere agli accordi di Camp David (1979) che sancirono la pace fra Israele e l’Egitto. Nel 2002 ha ricevuto il Premio Nobel per la Pace. È Jimmy Carter, 85 anni, trentanovesimo presidente degli Stati Uniti tra il 1977 e il 1981. Per le sue posizioni critiche rispetto all’occupazione israeliana dei Territori palestinesi, racchiuse nel suo libro sul conflitto israelo-palestinese, «Palestine, Peace, not Apartheid», (2006) è stato tacciato di «simpatie pro-Hamas». Nel libro, Carter sottolinea che la politica di Israele nei Territori è «un sistema di apartheid, con due popoli che occupano lo stesso Paese ma che sono completamente separati l’uno dall’altro, con gli israeliani che dominano, opprimono e privano i palestinesi dei loro diritti umani basilari». Critiche che si sono moltiplicate dopo le sue affermazioni sulla necessità di prendere atto che «Hamas ha vinto libere elezioni (gennaio 2006, ndr.) e che rappresenta almeno la metà del popolo palestinese». Per questo, l’ex presidente Usa, continua a ritenere «irrealistica» la politica di non parlare con Hamas. Nel recente passato, Carter Usa ha cercato di svolgere un ruolo di «pacificatore» nella martoriata Terrasanta. «Ho avuto modo di incontrare i dirigenti di Hamas nelle settimane precedenti la rottura della tregua. Era evidente che per consolidarla una delle questioni preminenti era la riapertura dei valichi di frontiera (tra Israele e Gaza, ndr.)». Per aver incontrato in Siria il leader di Hamas, Khaled Meshaal, Carter - che ha sempre ritenuto un «crimine» il lancio di razzi da parte delle milizie palestinesi - fu aspramente criticato da Israele e dalla passata amministrazione Bush. L’artefice della pace fra lo Stato ebraico e l’Egitto si disse «dispiaciuto» di quelle critiche. «Il problema - sottolinea Carter - non è che mi sono incontrato con Hamas in Siria. Il problema è il rifiuto di Israele e degli Stati Uniti di incontrarsi con qualcuno che deve essere coinvolto».
Le sue idee sulla pace possibile, Carter, 85 anni le ha ora raccolte in un libro uscito in questi giorni negli Stati Uniti: «We can have peace in the Holy Land». La tesi di fondo, afferma l’ex presidente Usa, «è che la vera catastrofe per Israele sarebbe non rilanciare con convinzione il negoziato di pace che porti alla costituzione di uno Stato palestinese. La non nascita di questo Stato sarebbe la vera catastrofe per Israele». Perché non c’è alcuna Barriera di sicurezza o potenza militare che potrà difendere Israele dalla «bomba demografica». In passato, l’ex presidente Usa ha usato parole molto dure per stigmatizzare l’assedio israeliano imposto alla Striscia di Gaza: «Si tratta - denuncia Carter - di uno dei più grandi crimini contro i diritti dell’uomo». In occasione dell’uscita del suo ultimo libro, l’ottuagenario Premio Nobel per la Pace ha risposto ad alcune domande dell’Unità. Sulla più stretta attualità, l’ottuagenario Premio Nobel, si dice convinto che «la devastante invasione di Gaza da parte israeliana poteva essere evitata. Ora si tratta di operare per una estensione del cessate il fuoco; si tratta di un passaggio cruciale che non deve però restare fine a se stesso. Perché l’obiettivo da perseguire è quello di una pace globale e permanente. Sono convinto che il presidente Obama intende muoversi in questa direzione».
Signor Presidente, in un suo recente intervento sul Washington Post, dal titolo "Una guerra non necessaria", Lei ha sostenuto che non sono state le milizie palestinesi a rompere la tregua a Gaza. Una tesi controcorrente.
«In quell’articolo ho provato a ricostruire i fatti. Dopo la firma della tregua di giugno il lancio dei razzi da parte di Hamas fu subito interrotto e ci fu un aumento nelle forniture di cibo, acqua, medicinali e combustibile (da parte di Israele, ndr). Tuttavia l’aumento fu in media del venti percento del livello normale. E questa fragile tregua fu parzialmente rotta il 4 novembre, quando Israele lanciò un attacco a Gaza per distruggere un tunnel difensivo che veniva scavato da Hamas all’interno del muro che rinchiude Gaza. Non vedo nessun preconcetto anti-israeliano in questa ricostruzione».
Il mondo ha assistito sgomento alla guerra di Gaza. La diplomazia e il dialogo sono impotenti nella martoriata Terrasanta?
«Guai se fosse così. Sarebbe una catastrofe per tutti. Non solo per i palestinesi, ma anche per Israele. Sono profondamente convinto, ed è ciò che ho cercato di argomentare nel mio libro, è che la vera catastrofe per Israele sarebbe la mancata nascita di uno Stato indipendente palestinese».
Su cosa fonda questa considerazione?
«Sulle tre opzioni alternative conseguenti alla soluzione di un solo Stato. Ognuna di queste opzioni avrebbe ricadute catastrofiche sul futuro di Israele e sulla stabilità dell’intero medio Oriente. La prima opzione sarebbe quella di espellere forzatamente centinaia di migliaia di palestinesi dalla Cisgiordania, il che significherebbe attuare una vera e propria pulizia etnica. La seconda opzione è quella di negare ai palestinesi la parità dei diritti di cittadinanza, a partire dal diritto di voto. Ciò significherebbe imporre un vero e proprio regime di apartheid. C’è poi la terza opzione: quella di riconoscere ai palestinesi parità di cittadinanza e dunque il diritto di voto».
Cosa c’è di catastrofico per Israele in questa opzione?
«La fine di Israele come Stato ebraico, ovvero l’autocancellazione di uno dei pilastri che sono a fondamento della nascita dello Stato d’Israele: il suo essere focolaio nazionale del popolo ebraico. La politica sarebbe con ogni probabilità orientata dai palestinesi, più compatti rispetto agli israeliani che appaiono al proprio interno maggiormente divisi, e grazie alla crescita demografica maggioritari sul piano numerico in un futuro non lontano. E contro la "bomba demografica" non c’è Barriera di sicurezza e potenza militare che tengano. Resta la politica. Questa è l’"arma" che Israele dovrebbe usare per evitare la catastrofe».
L’"arma" della politica. Lei sottolinea la necessità di giungere ad una pace globale e permanente. È un punto centrale del suo ultimo libro. Su quale base dovrebbe fondarsi l’auspicato accordo di pace?
«Resto convinto che l’opzione dei due Stati sia ancora la migliore, quella su cui concentrare tutti gli sforzi diplomatici. Ciò implica un "dare e avere" da parte di tutti. Di Israele, che dovrà riconoscere una Palestina indipendente su gran parte dei territori occupati nel 1967. Dei palestinesi, che dovranno accettare un ragionevole compromesso sul diritto al ritorno dei profughi del ’48. E da parte dei vicini arabi, che dovranno riconoscere il diritto di Israele a esistere in pace. Per nessuno dei soggetti in questione la pace può essere a costo zero».

l’Unità Lettere 1.2.09
La mozione poteva passare
di Claudio Fava


Caro Direttore, Livia Turco non fa opera di verità giustificando – nell’intervista sull’Unità – il “non voto” del Partito Democratico sulla mozione di sfiducia al sottosegretario Cosentino. Dire come fa l’on. Turco che “se la mozione non è passata è per il voto contrario della maggioranza”, significa dire il falso. Se tutti i parlamentari presenti dell’opposizione avessero appoggiato la mozione di sfiducia (da loro stessi presentata) la mozione di sfiducia sarebbe passata. L’on. Turco inoltre non dice una parola sul punto vero della questione: al di là degli assenti, degli astenuti e dei contrari, un quarto del gruppo Pd non ha voluto partecipare a quel voto! La mozione non era certo un atto di giustizia sommaria: chiedere al sottosegretario Cosentino di fare un passo indietro dal governo era e rimane un atto di decenza. Ci piacerebbe che su questo punto l’on. Turco facesse sentire la sua voce: l’occasione persa dal suo partito per rimettere al centro della politica la questione morale come questione democratica. Cordialmente, buon lavoro
* Segretario Sinistra Democratica

Repubblica 1.2.09
"Se si tocca il 4% salta tutto" Europee, la soglia divide il Pd
L’altolà di Franceschini, i dubbi di D’Alema
Calderisi (Pdl) esclude ritocchi Fava (Sd) attacca: a rischio le alleanza locali
di Carmelo Lopapa


ROMA - La riforma per le Europee col suo sbarramento al 4 vede il traguardo, forse già in settimana alla Camera. Ma con la rivolta dei piccoli si accendono scintille anche dentro il Pd. L´ala sinistra del partito e ancora più l´area dalemiana, gli ulivisti e poi Enrico Letta non sembrano affatto entusiaste dell´accordo raggiunto con la maggioranza. Temono ripercussioni sull´elettorato e sulle alleanze per le amministrative. Ma dalla segreteria Veltroni arriva l´altolà. Chi punta al 3 vuole solo far saltare tutto, è l´avvertimento. Rilanciato nel Pdl dal relatore Calderisi.
In casa Pd il confronto interno sarà piuttosto accesso, quando martedì mattina si riunirà il gruppo poche ore prima dell´avvio dell´esame della riforma alla Camera. «Trovo questo dibattito interno sulla legge elettorale autolesionista e fastidioso - attacca il numero due del partito, Dario Franceschini, artefice dell´intesa col Pdl - Le posizioni iniziali le conoscono tutti: noi eravamo per lo sbarramento al 3 per cento e le preferenze. Il Pdl per il 5 e le liste bloccate. Nella riunione del 14 gennaio con personalità quali D´Alema, Rutelli e Marini, mi fu dato il mandato di dire no al sistema misto e proporre il 4 e il mantenimento delle preferenze. Ora, se c´è qualcuno che oggi propone il 3 lo fa unicamente per far saltare tutto». Un´uscita non casuale, quella del vicesegretario. Poche ore prima, Enrico Letta parlava da Pontedera di «masochismo, male oscuro» del Pd, giudicando «sbagliato dare l´idea che siamo quelli che andiamo a pietire da Berlusconi un aiuto per essere più forti nel voto utile».
I dalemiani restano in attesa del chiarimento interno. Nicola Latorre dice di non comprendere «tutta questa agitazione». Lo sbarramento al 4 è un «buon compromesso», certo, «ma servono approfondimenti», bisogna tener conto del «contesto politico». Che è poi il ragionamento che in queste ore sembra stia facendo Massimo D´Alema. Le perplessità sull´opportunità politica dell´intera operazione ci sono, come pure i timori per le reazioni dell´opinione pubblica di sinistra. Quel che è certo è che l´area che fa riferimento a Red non presenterà emendamenti al testo. Mentre la sinistra Pd, da Vincenzo Vita a Livia Turco, ha già fatto sentire il proprio "no" all´intesa, come anche il partito piemontese. Altri, come il sindaco di Venezia Massimo Cacciari, ritengono lo sbarramento «sacrosanto». Giusto o no, non si torna indietro, mette in chiaro Giuseppe Calderisi (Pdl), relatore del progetto di riforma e mediatore per conto della maggioranza: «L´accordo, frutto di mediazione, non può in alcun modo essere modificato, una soglia diversa - sembra far eco a Franceschini - vuole dire far saltare l´accordo».
Il moto di protesta dalla sinistra radicale e dai piccoli partiti è crescente. Il "Manifesto" aveva lanciato col direttore Gabriele Polo una provocazione al popolo della sinistra: saltare un giro alle prossime Europee. Ma, come scriveva ieri il quotidiano, sul web solo un elettore su sette si dice favorevole alla proposta. Claudio Fava, coordinatore di Sd, attacca a testa bassa Veltroni che «ha elemosinato questa legge offrendo in cambio l´eutanasia dell´opposizione». Con quello sbarramento, è la minaccia, «sono a rischio le alleanze» negli enti locali. Nichi Vendola e gli altri ex Prc vanno avanti col cartello delle sinistre: «Non per paura del 4%, ma per rispondere alla crisi». Mentre il governatore siciliano e leader Mpa Raffaele Lombardo si dice pronto a un´alleanza con la Lega.

Liberazione 1.2.09
Fuori dai palazzi per una politica di massa
di Paolo Ferrero


Vi sono epoche storiche in cui il tempo sembra scorrere più veloce, in cui si producono cambiamenti repentini, in cui ciò che due mesi prima appariva impossibile viene considerato normale. Vi sono epoche in cui i giorni valgono anni. Io penso che oggi stiamo attraversando una di queste epoche. La crisi che ha investito il sistema capitalistico a livello mondiale è destinata a modificare pesantemente le nostre vite. In Italia questa crisi sarà particolarmente pesante e oggi cominciamo ad averne una qualche consapevolezza.
In Italia più di un milione di persone perderanno il proprio posto di lavoro. Di questi la metà non avranno alcuna forma di sostegno del reddito. Molti stavano pagando il mutuo per la prima casa e la perderanno. La paura per il futuro tende a sostituire l'incertezza e l'insicurezza che già caratterizzavano gli ultimi anni.
La crisi non durerà pochi mesi, ma è destinata a durare a lungo perché non è frutto di un incidente di percorso degli speculatori finanziari ma è il frutto maturo della globalizzazione capitalistica. In questi venti anni è raddoppiato il numero di lavoratori salariati a livello mondiale e parallelamente è sceso il salario relativo. In questi anni ovunque nel mondo e in particolare in Italia sono aumentati i profitti e le rendite ed è diminuita la massa salariale e le pensioni. Questa iniqua distribuzione del reddito è all'origine della crisi: i lavoratori non hanno i soldi per comprare le merci che producono. I padroni non hanno nuovi mercati verso cui indirizzare la produzione eccedente. Da questa crisi non si esce senza un rovesciamento della distribuzione del reddito e senza una radicale messa in discussione delle tipologie di produzione e della stessa mercificazione dei valori d'uso.
Nello stesso tempo, il sistema politico italiano vive una crisi irrisolta. Il passaggio dalla prima alla seconda repubblica non ha dato luogo ad una costruzione stabile, ma piuttosto ad una costruzione fragile. Il ricorso sempre più diffuso al populismo e il continuo scontro tra poteri dello stato ne è un chiaro indizio. Quella italiana, più che una lunga transizione, sembra alludere ad una sorta di crisi della repubblica di Weimar al rallentatore.
Una crisi costituente
Per queste ragioni io penso che ci troviamo di fronte ad una crisi "costituente", ad un punto di passaggio che modificherà radicalmente il quadro dei rapporti sociali, delle culture dominanti, delle rappresentanze politiche. La crisi - questa è la mia tesi - ha una valenza qualitativa simile alla crisi del '29 e - in scala ridotta - alle guerre mondiali. Questa crisi non è un passaggio ma una fucina da cui il materiale che entra viene radicalmente trasformato.
In questa situazione, potenti forze operano per una uscita da destra dalla crisi. Oltre a Confindustria, il governo nel suo impasto di populismo reazionario e politiche economiche antisociali propone nei fatti come sbocco la guerra tra i poveri, o meglio, una gestione autoritaria della frantumazione del conflitto sociale. Il Pd non va oltre alcune suggestioni da borghesia illuminata; accetta la riforma della contrattazione e il peggioramento dell'iniqua distribuzione del reddito isolando la Cgil e risponde alla sua crisi strategica - non è in grado di assumere una posizione chiara su nessun tema - forzando il carattere bipartitico della politica italiana e provando a distruggere la sinistra.
Le altre forze politiche presenti certo non sono in grado di rovesciare questa tendenza. Di Pietro ha accumulato consensi agitando l'antiberlusconismo e costruendosi una posizione di rendita sull'ignavia veltroniana, ma non propone alcun elemento progettuale in grado di prefigurare una uscita dalla crisi. Una parte della sinistra di alternativa - tra cui i compagni e le compagne usciti dal Prc - ha piegato il tema dell'alternativa all'interno della gabbia dell'alternanza, condannandosi così all'impotenza.
Il nostro progetto
Il nostro progetto al contrario propone una uscita da sinistra dalla crisi. Visto il carattere delle classi dominanti e delle rappresentanze politiche, proponiamo una uscita in basso a sinistra dalla crisi, perché non è all'orizzonte nulla di simile a quanto si è prodotto negli Stati Uniti con la vittoria di Obama. In altri termini non è alla portata un governo che persegua un New Deal comunque inteso, per cui la costruzione di uscita da sinistra dalla crisi deve necessariamente passare per una costruzione dal basso, in termini di conflitto, di vertenzialità, di progettualità, di costruzione di relazioni sociali solidali ed egualitarie.
Il nostro progetto si può così declinare: ridistribuire reddito, ridistribuire potere, riconvertire l'economia in senso ambientale e sociale attraverso un intervento pubblico forzato dal conflitto sociale. Questo progetto, per potersi realizzare, deve muoversi su più livelli: il conflitto sociale, la battaglia culturale, la pratica mutualistica della solidarietà, la riproposizione sul terreno della politica della prospettiva dell'alternativa.
A tal fine dobbiamo ripensare completamente il modo di essere e di agire del nostro partito. Occorre evitare qualsiasi continuismo e burocratismo interno. Il peggior ostacolo che oggi noi abbiamo è costituito dall'incapacità di capire che la realtà si è rimessa in movimento e nel pensare che si tratta di resistere, di aspettare che "passi la nottata". Noi non siamo impegnati a fare una traversata del deserto in cui si tratta di resistere. Non siamo gli ultimi sopravvissuti di un esercito sconfitto chiamati a far la guardia a cosa resta di un passato glorioso dopo che la guerra è finita. Siamo dentro una guerra di movimento in cui le identità sociali, politiche e culturali che abbiamo ereditato sono messe pesantemente in discussione, disarticolate dalla crisi,a ma anche disponibili al conflitto ed a cercare una via di uscita. Il problema oggi è la capacità di abbandonare completamente un atteggiamento di testimonianza e di propaganda per assumere una linea di massa che sappia interagire con la novità introdotta dalla crisi e su questa costruire le opportune alleanze e convergenze.
Questo, a mio parere, significa fare tre cose. In primo luogo essere costruttori di conflitto. Lo sciopero di Fiom e Funzione pubblica del 13 febbraio e il percorso di lotte pensato dalla Cgil così come le lotte che metterà in piedi il sindacalismo di base, non sono fatti sindacali. Sono la principale risorsa di mobilitazione su cui innervare un tentativo di uscita a sinistra dalla crisi. Dobbiamo lavorare a generalizzare queste lotte e a costruire mille punti di aggregazione, mille vertenze sul territorio. La rivendicazione di estendere gli ammortizzatori sociali a tutti coloro che perdono il lavoro - qualsiasi sia il lavoro, dai precari, ai dipendenti delle aziende artigiane, a tutta la platea del lavoro subordinato - è, da questo punto di vista, obiettivo centrale della piattaforma.
In secondo luogo essere costruttori di pratiche mutualistiche e di solidarietà, di vertenzialità con gli enti locali, per combattere la solitudine delle persone, dare risposte concrete a problemi concreti e creare legami comunitari solidali. Nessuno deve essere lasciato solo nella crisi.
In terzo luogo dobbiamo dare forma al progetto, dobbiamo trasformarlo in bandiere, slogan, ideali, proposta politica. Dobbiamo demistificare il carattere non naturale della crisi e unire le rivendicazioni materiali con la lotta al razzismo e al sessismo. Dobbiamo unire la richiesta della redistribuzione del reddito con la proposta dell'intervento pubblico per la riconversione ecologica e sociale dell'economia. Dobbiamo cioè avere chiaro che il nostro "essere comunisti" deve essere oggi completamente piegato al nostro "fare i comunisti", cioè al nostro costruire qui ed ora il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente.
Non è poco ma non è impossibile. Soprattutto è indispensabile.

Liberazione 1.2.09
«Liberazione» e la libertà di stampa
di Carlo Patrignani


Cos'è la vera libertà di stampa? E' dire alla gente ciò che la gente non vorrebbe mai sentirsi dire. Spero che la nuova Liberazione sappia camminare lungo questo angusto ma ricco sentiero: la sfida è fare "cultura" per ri-conquistare quella "egemonia" smarrita che oggi è nelle mani della "cultura dominante", di quel centro-destra che abilmente fa sue e si alimenta di certe idee (l'intervento pubblico in economia contrapposto al libero mercato) e proposte (l'attenzione ai ceti meno abbienti, ai poveri) che appartenevano anni addietro al variegato mondo della "sinistra". Anche un quotidiano di partito come è Liberazione deve e credo abbia l'ambizione di "far cultura", di porsi come punto alto di riferimento non solo dei suoi abituali lettori, i militanti del Prc, ma anche di altri lettori che stanno nel variegato mondo della cosiddetta "sinistra diffusa" ma, aggiungo con un po' di amarezza, "delusa" per scelte o poco comprensibili o poco chiare e chiarite, per cui in un brevissimo lasso di tempo dal 5 maggio 2007 al 13-14 aprile 2008 ha assistito inerme alla "non nascita" di un "nuovo soggetto politico", alla "nascita" di un Pd famelico che doveva con il "voto utile" prosciugarla senza però battere Berlusconi e Fini, alla "evaporazione" nel nulla della straordinaria manifestazione del 20 ottobre, alla lenta inesorabile incontrastata "decomposizione" del Governo di centro-sinistra dopo appena 18 mesi di vita e ben due finanziarie "lacrime e sangue" arrivato a "morte cerebrale irreversibile" proprio quando si sarebbe dovuto re-distribuire quel "tesoretto" frutto delle due finanziarie. Quindi l'esito che era nell'aria, che si palpava andando in giro, che era visibile a Piazza Navona quando il leader Premier della Sinistra Arcobaleno, Fausto Bertinotti, dialogava in compagnia di Dario Vergassola, in assenza dei leader della sua stessa coalizione. E così quella "sinistra radicale" che molte speranze aveva generato nella gente, si ritrovava fuori dal Parlamento. Sconfitta? E' poco, è stato uno tsunami! Provare e riprovare: non ci si può rassegnare, né si puà gettare la spugna. Invece di serrare le fila, ecco altre scissioni, altra frammentazione. Una storia maledetta che si ripete a sinistra dove la tendenza a "distruggere" è ben più strutturata che a "costruire". Ma "una via d'uscita" da quest'assurda, incomprensibile deriva distruttiva, va trovata, va ricercata, con pazienza e perseveranza, una "via d'uscita" ovviamente a sinistra e non a destra come del resto ebbe a dire lo stesso segretario del Prc a febbraio del 2007 in un convegno a Ferrara su Raniero Panzieri: «l'esperienza del socialismo di sinistra è stata positiva perché ha rappresentato una via d'uscita a sinistra dallo stalismo». Ebbene, esempi di fulgida lungimiranza politica, di assoluta incontaminazione ed influenza da dogmi e verità rivelate, a sinistra, ce ne sono stati tanti: si tratta di prender qualcosa da ciascuno e riaggionarlo alla situazione attuale. E' questo, penso, il terreno sul quale la nuova Liberazione , stando magari un metro più avanti del Prc, può fare ricerca per essere il giusto battistrada, avendo sempre occhi spalancati ed orecchie attente a quel che ribolle, risplende e si muove fuori, nella società. Insomma, se si scrive qualcosa che "non offende", "non irrita", "non provoca" nessuno, non si è scritto niente.

Repubblica 1.2.09
Quelli che puntano sul cinese
di Enrico Bonerandi


Per la prima volta nella storia della scuola italiana agli esami di maturità gli studenti dei licei linguistici affronteranno una prova scritta di mandarino Un risultato del boom che stanno conoscendo i corsi, pubblici e privati, di questa lingua. Nella convinzione che sia un passaporto per fare carriera e cambiare vita

Se ne sono accorti tutti quando il ministro dell´Istruzione, Mariastella Gelmini, nel comunicare via You Tube la scorsa settimana le materie d´esame per le maturità, ha ammesso per la prima volta il cinese come prova scritta per i licei linguistici. Pur in pesante ritardo rispetto ad altri paesi, lo studio della lingua cinese in Italia è in pieno boom. E se nel 2009 saranno ancora pochini gli studenti alle prese con gli ideogrammi alla maturità (una dozzina forse al Manzoni di Milano e al Pigafetta di Vicenza, dove comunque lo studio del cinese nelle quinte è soltanto a livello di "terza lingua"), in un futuro prossimo verranno a maturarsi studenti che hanno scelto l´opzione curriculare per la durata di cinque anni. E così i tre licei d´avanguardia - oltre a Manzoni e Pigafetta, il Deledda di Genova - cominceranno a sfornare ragazzi (soprattutto ragazze) che la «lingua del futuro» la masticheranno con qualche dimestichezza.
Entriamo in una seconda del Manzoni, banchi disposti a ferro di cavallo attorno alla cattedra. Perché avete scelto il cinese? Risponde Lucrezia: «È una cosa nuova. La Cina si sviluppa economicamente e qui ci sono tanti di loro». Però come lavoro sogna di fare la regista a Hollywood. Anche Federico tiene d´occhio la crescita economica, ma in mente ha di studiare psicologia o giornalismo. Ci sono tre studentesse con tratti somatici orientali, molto più concrete dei loro compagni. Claudine è stata convinta ad affrontare il cinese dalla mamma, che è di Singapore, e vuol fare l´avvocato di diritto internazionale. Sofia è di madre giapponese e, contro il parere di mamma, ha deciso di studiare il cinese «perché le due lingue hanno la stessa matrice» (e vuol diventare interprete simultanea). Xiao Feng: «Sono cresciuta in Italia e ormai non parlo più mandarino. Ho provato qualche corso privato, ma mi facevano solo perdere tempo e soldi. Così mi sono iscritta qui». Cosa farai da grande? «Voglio tornare a vivere in Cina». Se gli si chiede se lo studio è difficile, quelli della seconda A rispondono in coro: «Bestiale!». Uno per tutti: «Ci vuole costanza. Se non stai sempre in pari, non capisci più niente». Qualche ragazza alza gli occhi al cielo: «Sembrava così bello all´inizio...».
La professoressa di cinese, Claudia Ambrosini, smonta un po´ le motivazioni della scolaresca: «Sì, va bene, la Cina è una potenza economica e conoscerne la lingua può aprire molte strade, ma questo è il parere dei genitori. Per i ragazzi vale di più la sensibilità new age, il gusto esotico. Per dirla con loro, studiare cinese è figo. Poi si accorgono che non è una passeggiata e boccheggiano. Ma non è nemmeno la fine del mondo. È vero che ci vuole memoria, soprattutto visiva, ma un adolescente ce la fa benissimo. Cinque anni sono il minimo per impadronirsi dei fondamenti e non bisogna smettere mai di studiare».
Insomma, è dura. A livello universitario, nei quattro atenei di Milano, Roma, Napoli e Venezia che hanno facoltà e corsi di lingua - ma si stanno affacciando anche realtà minori, come Firenze, Torino, Pesaro e Como - gli studenti di cinese sono intorno a cinquemila. Il consorzio Almalaurea ha verificato che 1.257 laureati nei curricula sostengono di conoscere bene questa lingua. Che si è affermata a spese soprattutto del giapponese, da quando l´economia nipponica ha avuto una curva discendente. L´indice di abbandono è però abbastanza alto: «Almeno un quarto dopo qualche mese rinuncia. Quelli più anziani, che si sono avvicinati al cinese per pura curiosità, non reggono allo sforzo iniziale - ammette Luigi Stirpe, docente all´Isiao, l´Istituto per l´Africa e l´Oriente di Roma -. È un bene che lo studio sia avviato fin dal liceo, perché i risultati arrivano, ma solo dopo qualche anno».
Piero Conti, industriale di Stradella, provincia di Pavia, in tutto ha preso una quarantina di ore di lezione. Ha un´azienda petrolchimica, l´Itm, e cura un gruppo di fitness e kung-fu in Europa, l´Evtf. «In Cina vado venti volte all´anno. Non conoscere la lingua era un handicap. Allora ho fatto un corso, ma potevo seguire poco per i miei impegni». E allora? «I cinesi sono molto orgogliosi. Se capiscono che ti interessi alla loro lingua, che ci provi, ti fanno salire nelle quotazioni. I convenevoli e un minimo di dialogo ora li so condurre. Nelle trattative intuisco le loro conversazioni, al di là dell´interprete. Una parola qui, una parola là. Se ti stanno fregando te ne accorgi. Il concetto chiave è guanxi, relazione. Devi metterti in relazione con loro, entrare nel gruppo, far parte della famiglia». E adesso come va il guanxi? «Molto meglio. A loro non piacciono gli imprenditori in cerca dell´affarone per poi scappare via. Vogliono un rapporto continuativo. Se quello è il tuo obbiettivo, la lingua la devi conoscere. E se ti mancano tutte le parole, ti aiuti coi gesti. Loro apprezzano, comunque».
Alessandra Lavagnino, docente ordinario alla Facoltà di mediazione linguistica e culturale della Statale di Milano, ex-addetta stampa dell´ambasciata italiana a Pechino, non è d´accordo: «Sono stereotipi che lasciano il tempo che trovano. Mica sono stupidi i cinesi. Ti devi avvicinare con umiltà alla loro cultura, perché i loro manager sono molto preparati. Devi studiare parecchio, fare stage in Cina. Così si possono aprire prospettive di lavoro molto interessanti. Alcuni nostri allievi trovano lavoro ancor prima di aver concluso gli studi». Come è accaduto a Martina Pistarà, ventisei anni, di Alessandria. Ha cominciato a studiare cinese per passione culturale, ma è stata presto assunta da un´azienda italiana di abbigliamento. Dopo un anno, è passata a un altro settore, quello della gioielleria. «Ma da studentessa già lavoravo come mediatrice culturale nelle scuole. Il mio sogno è di trasferirmi stabilmente in Cina, e prima o poi ci riuscirò».
«Non sono tutte rose e fiori - avverte Stefano Bona, trentadue anni -. In Cina incontro tanti italiani che si mantengono a stento, in attesa della buona occasione». Stefano ha studiato scienze politiche, una serie di conferenze di una docente affascinante come Enrica Collotti l´ha convinto a imparare il cinese. Cinque anni fa l´assunzione in una media impresa meccanica che ha una fabbrica a Suzhou e il colpo di fulmine con una ragazza di Shanghai, ora sua moglie («ma fra noi parliamo inglese. Il cinese mi serve con i suoceri»).
Luci e ombre. Sacrifici. Ma poi grandi opportunità da prendere al volo. Un recente articolo dell´Herald Tribune segnala che molte aziende cinesi sono alla ricerca di manager internazionali, purché parlino la lingua con fluidità. «Quelli ai quali l´Italia va stretta, è alla Cina che devono guardare. Oltretutto, oggi laggiù la vita è molto divertente», assicura Alessandra Lavagnino. Attenzione però ai facili entusiasmi. I corsi universitari sono lunghi e impegnativi. Scuole più abbordabili ne esistono: qualche decina solo a Milano, in tutta Italia superano il centinaio. Non sempre di grande livello. Professori madrelingua, ma con scarsa esperienza didattica. Ci sono anche corsi in internet, che servono più che altro come supporto. Il vero obbiettivo, la luce che fa risplendere i curricula, è però lo Hsk (hanyu shuiping kaoshi), una sorta di proficiency riconosciuto dal governo cinese, che misura in tre categorie il grado di conoscenza della lingua. No Hsk, no party. E gli esami sono severissimi.

Corriere della Sera 1.2.09
Le norme Sono scritte nel regolamento penitenziario, ma gli asili sono pochi e gli spazi all'interno degli istituti di pena poco adatti
Bambini condannati. Al carcere
di Roberto Rizzo


La solidarietà In qualche caso le donne e i loro figli sono aiutati dai volontari che la domenica portano fuori i piccoli
59 in cella con le madri detenute, 36 stanno per nascere A 3 anni affidati ai parenti. «Legge non applicata»
Leda Colombini ha presentato una proposta di legge che ha consegnato in Parlamento.
Per ora nessuna risposta.

I più fortunati, si fa per dire, hanno qualche giocattolo, magari anche un lettino vero, invece della branda dove dormire e una parete colorata. Gli altri, i più, sono trattati come gli adulti. Stanno dentro una cella, imparano il linguaggio carcerario («Andare all'aria », «Arriva la matricola» sono frasi che presto diventano familiari), vivono secondo i tempi e i ritmi della prigione.
Sono i bambini detenuti negli istituti di pena italiani. Figli di madri finite dentro per reati che sono sempre gli stessi, furto o spaccio di droga. Piccoli che vanno dalla settimana di vita fino ai 3 anni. Poi, il giorno del loro terzo compleanno, spente le candeline, vengono tolti alle mamme (lo prevede la legge) e affidati alla famiglia, se c'è, oppure a qualche comunità che li ospiterà fino a quando la madre non avrà scontato la sua pena.
Il numero dei bambini detenuti, incredibile, non è certo: «Al momento dovrebbero essere 70, ma il dato è ufficioso. Quello ufficiale, fornito dal ministero della Giustizia e fermo al 30 giugno 2008, dice che sono 59», spiega Riccardo Arena, un avvocato romano che da sei anni ha abbandonato la professione per dedicarsi al mondo dei detenuti e conduttore di «Radiocarcere », programma di Radio Radicale oltre che rubrica sul quotidiano Il Riformista.
«Quei bambini sono pochi per interessare davvero a qualcuno». Lo dice l'ex ministro delle Pari Opportunità Anna Finocchiaro, attuale capogruppo al Senato per il Partito Democratico, che nel 2001 fece approvare una legge a suo nome. Norma che prevede che «le condannate madri di prole di età non superiore ad anni 10, se non esiste un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti…», abbiano la possibilità di espiare la condanna in strutture che non siano il carcere. Intento lodevole, peccato che, otto anni dopo, la legge Finocchiaro non ha ancora trovato applicazione. E i bimbi rimangono in carcere.
Se n'è ricordato anche il ministro della Giustizia Angelino Alfano quando, recentemente, ha promesso: «Un bambino non può stare in cella. Approveremo una riforma dell'ordinamento carcerario che consenta di far scontare la pena alle mamme in strutture dalle quali non possano scappare ma che non facciano stare in carcere il bambino». Belle parole. Peccato che in tutta Italia di queste strutture ce ne sia soltanto una, a Milano. Nell'attesa, i piccoli carcerati devono accontentarsi del Regolamento penitenziario che all'articolo 19 dice: «Presso gli istituti o sezioni dove sono ospitate madri con bambini sono organizzati, di norma, appositi reparti ostetrici e asili nido. Le camere dove sono ospitate madri con i bambini non devono essere chiuse affinché gli stessi possano spostarsi all'interno del reparto o della sezione. Sono assicurate ai bambini all'interno degli istituti attività ricreative e formative proprie della loro età».
Sarà così? Non proprio. «In Italia sono solo sedici gli asili nido allestiti all'interno di istituti di pena — afferma Arena —. Ma siamo sempre dentro un carcere, tra ogni genere di detenute, urla e rumori. Non è certo l'ambiente adatto a dei bimbi, talvolta neonati».
Le storie di questi piccoli prigionieri sono tutte uguali. Per esempio, quella denunciata in questi giorni da Maria Grazia Caligaris, consigliere socialista della Regione Sardegna. È la storia di Josephine, una bimba nigeriana di un anno e dieci mesi «ancora dietro alle sbarre con la madre, incinta di 7 mesi e detenuta per droga, nel carcere Buoncammino di Cagliari». «Non solo Josephine deve stare in prigione ma non ha neppure ottenuto il permesso di frequentare l'asilo», aggiunge Caligaris.
«Il carcere riproduce le stesse disuguaglianze della società. I bambini restano in cella perché, nella maggior parte dei casi, sono figli di donne straniere che non hanno niente, nemmeno un avvocato che le tuteli», dice Anna Finocchiaro.
Secondo l'ex ministro, la soluzione sarebbe nelle mani dei Comuni: «Basterebbe pescare nel loro patrimonio immobiliare per creare centri di accoglienza dove far scontare a queste donne la pena ma permettendo loro di vivere con i figli in ambienti più simili a una casa che a una prigione».
Se per un adulto la detenzione può essere un trauma, immaginiamo quello che rappresenta per un bimbo. Lo racconta una donna italiana, trent'anni, di cui cinque trascorsi nel carcere romano di Rebibbia, uno degli istituti dotati di una sezione Nido, insieme a sua figlia Chiara: «Quando sono stata arrestata la bimba aveva solo cinque mesi. In prigione Chiara ha subito risentito dello spazio chiuso, della mancanza di un ambiente familiare. Ha smesso di sorridere e ha iniziato a piangere in continuazione. È stata male diverse volte, ricoverata in ospedale sempre da sola perché noi mamme detenute non possiamo seguire i nostri piccoli in ospedale. È rimasta muta fino a due anni e mezzo». Fino a quando non è tornata ad essere una bambina libera.
In mancanza delle istituzioni, proprio a Roma, a Rebibbia, è attivo da 15 anni il progetto «Crescere e giocare insieme». A portarlo avanti è un gruppo di volontari organizzato da Leda Colombini, femminista della prima ora, ex deputato Ds. «Il giorno di Natale, quando abbiamo fatto la festa, c'erano 21 madri detenute con i loro figli: due africane, tre italiane e le altre di etnia rom. Vivono nella sezione nido, dove si è cercato di dare una condizione più attenuata del carcere, con un giardinetto e dei giochi. Ma è sempre un ambiente ristretto, sottoposto alle regole del penitenziario ».
L'iniziativa principale del progetto Colombini è «ogni sabato portare fuori, dal mattino alla sera, i bambini detenuti per far vivere ad ognuno di loro una giornata normale. D'estate al mare, d'inverno in montagna o in piscina. I piccoli hanno la possibilità di scatenarsi fisicamente, cosa che in carcere non è permessa. Rinunciano volentieri al sonnellino pomeridiano pur di non perdersi qualche ora di gioco». L'altra attività dei volontari consiste nel portare i bimbi di Rebibbia all'asilo esterno: «Abbiamo ottenuto un pulmino dal Comune per portarli in tre nidi della zona. Sono bambini che fanno tenerezza, molto meno capricciosi dei loro coetanei ». Di loro colpisce lo sguardo: «È diverso perché è uno sguardo che sbatte sempre contro un muro e, infatti, la creatività di questi bambini è molto limitata».

Corriere della Sera Salute 1.2.09
Banca del Dna quali regole
di Amedeo Santosuosso, giudice Corte d'appello di Milano


La Corte europea: «cancellare» il Dna degli imputati che vengono assolti

Vent'anni fa le raccolte di materiali biologici e di profili di Dna (biobanche) a scopo di identificazione non esistevano. Fra vent'anni è molto probabile che non siano più un problema, perché costituiranno solo una variante degli uffici dello stato civile e perché dovremmo avere adottato adeguati sistemi di sicurezza e organizzazione. Oggi ci troviamo a vivere la fase più delicata. Escluso di rinunciare ad avere una banca del Dna (siamo uno degli ultimi paesi europei a non averla) e non volendo inserire i dati di tutti i cittadini, è necessario attuare un bilanciamento tra il fondamentale diritto alla riservatezza e le esigenze di sicurezza.
Nel dicembre scorso la Corte europea dei diritti dell'uomo ha dato una basilare indicazione sui termini di questo bilanciamento. Nel caso Marper v. Regno Unito i giudici hanno affermato il diritto dell'imputato, che alla fine del processo viene assolto, alla distruzione dei campioni biologici e del profilo del Dna che erano stati raccolti nelle indagini. Il criterio è molto semplice: se si entra nella banca in relazione a un determinato reato, l'assoluzione rompe questa relazione e toglie legittimità alla permanenza di quelle informazioni, permanenza che diventa una violazione del diritto alla riservatezza. Il criterio è talmente chiaro, che non pare possano esservi obiezioni serie di qui ai prossimi vent'anni. Il Senato italiano ha finalmente approvato il 23 dicembre scorso un disegno di legge che regola l'istituzione di raccolte di campioni biologici e di profili di Dna, il prelievo coattivo di materiali biologici nei processi penali e l'adesione dell'Italia al Trattato di Prüm (un accordo di cooperazione tra alcuni paesi dell'Unione europea). Ora la discussione è alla Camera e sicuramente i parlamentari trarranno spunto dalla sentenza Marper per emendare il testo approvato dal Senato nelle parti che non sono in sintonia, come la possibilità di prelievo coattivo anche da non imputati (che viola il criterio in entrata in relazione a un reato) oppure la cancellazione dei dati solo per alcune formule di assoluzione e non per altre (che viola il criterio in uscita), e altro ancora.
Nei giorni scorsi se ne è discusso a Roma in un incontro pubblico su iniziativa del Centro di ricerca interdiparimentale ECLSC dell'Università di Pavia e del Policlinico San Matteo di Pavia, in collaborazione con il Comitato nazionale biosicurezza e biotecnologie, e che si è concluso con una raccolta di indicazioni che verranno sottoposte ai parlamentari e al pubblico, per una discussione il più aperta e consapevole possibile sui modi corretti di introduzione di uno strumento utilissimo per l'individuazione dei colpevoli, come per l'assoluzione di innocenti.

Corriere della Sera Salute 1.2.09
Lesioni spinali. Il mercato delle staminali
Via libera negli Usa alle ricerche contro la paraplegia. Mentre in molti Paesi promettono «miracoli»
di Adriana Bazzi


Staminali Caccia alle cellule che rimettono in cammino
Barack Obama «apre» alle embrionali: parte la ricerca

Le cellule utilizzate nella prima sperimentazione sono state scelte perché sarebbero incapaci d'indurre tumori e di scatenare il rigetto
La tempestività
Questi trapianti di cellule, secondo gli esperti, per funzionare devono avvenire entro due settimane al massimo dal trauma spinale

Una decina di paraplegici riceveranno, per la prima volta al mondo, iniezioni nel midollo di cellule embrionali «modificate»
Un dossier di 22 mila pagine, il più grande mai presentato all'Fda, l'ente di controllo sanitario americano, per chiedere l'autorizzazione a una sperimentazione sui malati. La risposta è arrivata negli ultimi giorni, positiva: nei prossimi mesi una decina di pazienti con gravi lesioni al midollo spinale riceveranno, per la prima volta al mondo, una terapia a base di cellule staminali embrionali.
Curiosa coincidenza con l'arrivo di Barack Obama alla Casa Bianca. I responsabili della Geron, l'azienda californiana che ha messo a punto il trattamento, negano qualsiasi legame, ma il neoeletto Presidente promette di ridare fiato a queste ricerche dopo il veto, posto da George Bush, al finanziamento pubblico nel settore.
Così si ricomincia con le staminali embrionali che, secondo molti ricercatori, sono più promettenti di quelle adulte già utilizzate in qualche sperimentazione clinica (l'ultima in malati di sclerosi multipla ha permesso qualche miglioramento, come annuncia
Lancet Neurology). Più promettenti le embrionali perché in grado di dare origine agli oltre duecento tipi diversi di cellule umane presenti nel nostro organismo. Le cellule che verranno utilizzate nel nuovo trial sono embrionali di partenza (sono state cioè ottenute da embrioni in sovrannumero, donati da persone che si sono sottoposte a fecondazione in vitro), ma hanno subito un processo di differenziazione in laboratorio (messo a punto dalla Geron,
un'industria biotech che da anni investe in queste ricerche e che, una decina di anni fa, aveva finanziato all'Università del Wisconsin a Madison James Thomson, il ricercatore che per primo scoprì le staminali embrionali).
Le cellule della Geron sono precursori degli oligodendrociti (in sigla Opc) e verranno iniettate a persone che hanno subito un trauma al midollo spinale in seguito a incidenti, come era successo a Christopher Reeve, l'attore Superman costretto sulla sedia a rotelle dopo un caduta da cavallo, scomparso nel 2004. Reeve era completamente paralizzato, arti superiori compresi, mentre i pazienti candidati alla sperimentazioni avranno lesioni più basse, con paralisi delle gambe.
Di solito un trauma non crea una discontinuità nel midollo, ma una contusione che provoca infiammazione; l'infiammazione distrugge la guaina di mielina che riveste i nervi e i nervi non riescono più a trasmettere gli impulsi nervosi ai muscoli. L'idea è quella di somministrare le cellule Opc per ricostruire questa guaina. I pazienti però devono sottoporsi al trattamento entro le prime due settimane dal trauma perché così il trapianto sembra funzionare meglio. Al momento l'obiettivo immediato dello studio è quello di verificare la sicurezza del trattamento, ma gli sperimentatori si aspettano di avere qualche indicazione anche sulla sua efficacia. Studi condotti nei topi da Hans Keirstead dell'Università della California e pubblicati nel 2005 hanno dimostrato che questo approccio funziona: gli animali hanno riacquistato la capacità di movimento. L'impiego di precursori degli oligodendrociti permette di superare uno dei problemi legati all'uso di staminali embrionali. Queste ultime, proprio perché capaci di dare origine a diversi tipi di cellule, potrebbero generare tumori chiamati teratomi: le verifiche condotte su animali hanno escluso che questo possa avvenire con gli oligodendrociti della Geron. Il secondo ostacolo è rappresentato dal rigetto, ma studi su tessuti umani, cresciuti in laboratorio, hanno dimostrato che le cellule Opc non attivano le difese immunitarie umane. Se la sperimentazione appena autorizzata dall'Fda darà buoni risultati, entro due anni si potrebbero intraprendere trial più ampi. E non solo per la cura delle lesioni del midollo spinale. L'idea dei ricercatori è di usare staminali embrionali semi-differenziate in laboratorio per curare altre malattie come l'infarto o il diabete.

Corriere della Sera Salute 1.2.09
Un gigante biotech cinese offre a Bangkok trattamenti a base di staminali estratte dal cordone ombelicale
di Mario Pappagallo


Sono più di 100 gli italiani «curati» in Thailandia
La superbanca. La Beike biotechology ha in Cina la banca di cellule staminali più grande del mondo
Lo scetticismo. Secondo molti scienziati questi trapianti possono dare un beneficio soltanto transitorio L'ospedale di Hangzhou Della Beike è specializzato nella cura dei bambini Razvan Iordache

«Disperati, abbiamo voluto provare la strada delle cellule staminali. Siamo arrivati a Bangkok il primo aprile 2008 e nostro figlio è stato sottoposto ad un trattamento di sei iniezioni di cellule staminali cordonali. Al nostro ritorno in Italia, il 5 maggio, abbiamo riscontrato diversi cambiamenti: il bimbo ha un tono muscolare più rilassato, ha più appetito, riposa di più (e anche noi di conseguenza) e poi reagisce molto di più alle luci e riesce a vedere le ombre: prima aveva gli occhi fissi ed ora segue i movimenti di chi gli sta intorno in un raggio di tre metri. Siamo stupefatti. Ora siamo in attesa di altri cambiamenti che gli possano in futuro far vivere una vita normale».
Alessandro e Michela, di Sassari, sono i genitori di Kevin, 2 anni, nato con tetraparesi spastica e ipoplasia del nervo ottico (non vedente, quindi). Da quando è nato ha subito quattro interventi: reni, cuore, tumore benigno alla vescica, ricostruzione dell'organo genitale. Poi Bangkok. Ora i genitori sperano. Ma Kevin non è il solo. Malati di sclerosi laterale amiotrofica (Sla), giovani con la sclerosi multipla, bambini con l'atrofia midollare, ventenni sulla sedia a rotelle per un trauma alla colonna vertebrale. Oltre cento gli italiani trattati, per lo più nel 2008, con le staminali da cordone ombelicale cinesi nell'ospedale di Bangkok, in Thailandia. Guariti? Per ora migliorati. Così come Razvan Iordache, ventenne rumeno, tetraplegico dopo un brutto tuffo in acqua: osso del collo rotto. Ora muove la parte alta del tronco, mangia da solo, respira. La tv rumena ha raccontato la sua storia, un miliardario ha creato una fondazione e già circa 120 rumeni si sono curati a Bangkok. Ma anche 150 americani.
E francesi, tedeschi, olandesi.
In tutto quattromila trattati, tremila cinesi, i pazienti ricorsi all'infusione di cellule staminali da cordone ombelicale. A Bangkok, dove la cinese Beike
ospita chi viene a curarsi da altri paesi, in Cina per i locali. Ricovero di circa un mese con riabilitazione. 6.000 euro tutto incluso.
Le malattie trattate? L'elenco diffuso dal gigante biotech cinese Beike comprende: Alzheimer, atassia (spinocerebellare e di Friedreich), traumi cerebrali nei bambini e a certe condizioni negli adulti, paralisi cerebrali, sclerosi multipla (Sm), distrofia muscolare di Duchenne, traumi spinali, atrofia muscolare spinale (Sma), tetraparesi spastica, sclerosi laterale amiotrofica all'esordio (Sla), il piede diabetico, l'ischemia degli arti inferiori. E patologie oftalmiche: il trattamento dell'ipoplasia del nervo ottico e la retinite pigmentosa. Aggiunge Andrea Mazzoleni, della Beike Europe, sede in Svizzera: «Anche le lesioni traumatiche al nervo ottico sono affrontabili, a patto che il nervo sia ancora collegato all'occhio e al cervello».
La banca di cellule staminali più grande al mondo è a Taizhou, provincia di Jiangsu. E' della Shenzhen Beike Biotechnology, fornisce cellule staminali per trattamenti medici ad almeno venti centri ospedalieri. Si è partiti con la banca di staminali da cordone ombelicale, dalla placenta, dalla membrana amniotica, dal midollo osseo. In futuro produrrà anche cellule staminali pluripotenti indotte (Ips), derivate dalla «riprogrammazione» di cellule adulte. Senza toccare gli embrioni. La Repubblica popolare cinese si sente leader e non vuole errori: ha ordinato ai manager di applicare gli stessi standard della Aabb, l'American association of blood banks (Associazione delle banche americane del sangue), per evitare rischi da malattie trasmissibili. Rigidi anche nell'accettare i pazienti, nonostante il business. Selezione severa.
Molti scienziati occidentali sono però scettici: «Le staminali cordonali non sono capaci di generare cellule di altri tessuti in misura significativa. I benefici? Transitori. Probabilmente dovuti a fattori, rilasciati dalle cellule trapiantate, in grado di ridurre l'infiammazione e di aiutare la sopravvivenza delle cellule malate. Che però difficilmente saranno sostituite ».
Replicano dalla Beike: «Le cellule staminali comunicano con quelle del paziente mediante segnali chimici, scambiandosi informazioni e istruzioni. E sono proprio questi messaggi a dire alla staminale quando attivarsi e che cosa diventare. Identificare le istruzioni è uno degli obiettivi della ricerca. Solo così si potranno ottenere in vitro tessuti per il trapianto o, addirittura, arrivare a sfruttare queste molecole per stimolare nel paziente la crescita controllata di un organo danneggiato».
A gennaio perfino Nature si è accorta della Beike, analizzando il considerevole numero di pazienti trattati con apparenti buoni risultati. Duecento le richieste al mese, rifiutate nel 60 per cento dei casi. E il costo? Non è alto? Risponde Mazzoleni: «In una recente statistica pubblicata da Cittadinanzattiva viene indicato un costo medio per trapianto di cellule staminali di 6.000 euro. È quanto si paga in Germania, con le staminali adulte infuse in ambulatorio senza ricovero. Alla stessa cifra per la Beike c'è circa un mese di degenza in clinica per due persone, la riabilitazione, l'agopuntura, l'assistenza medica, gli esami effettuati, le terapie somministrate e i trapianti di cellule staminali a 10-15 milioni per volta».
E, in alcuni casi, c'è stato anche il rimborso dal sistema sanitario italiano: come cure specialistiche all'estero.

Corriere della Sera Salute 1.2.09
Il mercato A Pechino e a Lisbona offrono interventi con cellule olfattorie
I «miracoli» alla cinese e le promesse alla portoghese
Ma i risultati non sono stati scientificamente accertati
di Franca Porciani


Nel febbraio del 2004 Huang Hongyun si presentò al congresso sulle lesioni spinali a Vancouver, in Canada, con cinque clip mozzafiato. Nei video persone paralizzate riacquistavano funzioni perdute, ritrovavano sensibilità scomparse, tutto questo nel giro di due, tre giorni dall'intervento.
Immagini che ipnotizzarono perfino Paul Cooper, direttore del centro di chirurgia spinale dell'università di New York che dichiarò alla rivista
Lancet: «Ho visto persone con le braccia immobili tenere in mano una tazza da tè; incredibile».
Ciarlatano o geniale innovatore questo cinese di formazione americana che cura la paraplegia con iniezioni di cellule speciali? La risposta è difficile perché l'arrogante neurochirurgo — «i miei risultati sono sotto gli occhi di tutti, non ho bisogno di pubblicarli sulle riviste scientifiche » — va avanti senza dare risposte.
Intanto gli interventi (20.000 dollari l'uno), su pazienti «occidentali» sono più di 500, un centinaio - si dice su italiani, paraplegici, ma anche malati di sclerosi laterale amiotrofica, la cosiddetta Sla, e di ictus.
La tecnica di cui Huang è orgoglioso ma che non vuole rivelare nei dettagli, utilizza cellule del bulbo olfattorio (la struttura alla radice del naso da cui partono gli impulsi per la percezione degli odori) prelevate da feti abortiti di 16 settimane e coltivate in laboratorio con sieri bovini fino ad ottenerne il milione necessario all'intervento. Intervento che consiste in un'iniezione immediatamente al di sopra e al di sotto del midollo spinale lesionato.
Il beneficio di queste cellule deriverebbe dalla loro capacità di liberare grandi quantità di fattori di crescita, tanto da stimolare la rigenerazione delle fibre nervose.
Ma in un articolo su Neurorehabilatation and Neural Repair
del 2006, i neurologi della università della California, dell'ospedale Balgrist di Zurigo e del Miami project to cure paralysis, dopo avere analizzato l'evoluzione di sette persone paralizzate che avevano deciso di operarsi da Huang, arrivano a mettere in discussione i decantati miglioramenti. Non solo: denunciano l'alta frequenza di complicazioni, soprattutto di meningite, e sollevano anche dubbi sull'autenticità delle cellule iniettate.
Più che di elementi del bulbo olfattorio, difficilissimi da isolare in un feto di tre mesi e che forse in questa epoca di sviluppo non ci sono nemmeno, si tratterebbe di comuni cellule fetali. D'altro canto il medico cinese non permette a nessun «occidentale» di curiosare nel suo laboratorio.
Però, perché spingersi fino a Pechino, come aveva deciso di fare lo stesso Ambrogio Fogar, scomparso poco prima dell'appuntamento con Huang, quando qualcosa di simile si fa in Portogallo? A Lisbona all'ospedale Egaz Moniz l'equipe guidata dal neurologo Carlos Lima e dal neurochirurgo Patas Vital pratica l'intervento di rigenerazione del midollo con cellule staminali della mucosa olfattiva. In pratica le stesse cellule di Huang, ma prelevate dal paziente stesso (attraverso le narici), quindi non più fetali, ma adulte. I paraplegici accorrono, tanto che Pechino sembra già una meta superata, nonostante il costo che si aggira sui 35.000 euro (qualcuno in Italia pare che sia riuscito a farsi rimborsare dal Servizio sanitario).
A differenza del medico cinese, Lima qualche risultato l'ha pubblicato: un suo articolo del 2006 documentava segni di lieve miglioramento in sette paraplegici a distanza di 18 mesi dall'intervento. «Peccato che sia poi lo stesso Lima a consigliare ai pazienti la riabilitazione intensa continuativa, la RIC, un programma, come dice il nome, che impegna parecchie ore al giorno per anni presso strutture a pagamento — informa Giuseppe Carannante, primario emerito di chirurgia vertebrale del Cto di Torino — ; ad esempio, il Centro Giusti di Firenze. I costi sono notevoli (i pazienti parlano di 8.000 euro al mese) a fronte di un'efficacia tutta da dimostrare».

Corriere della Sera Salute 1.2.09
Le cure (e la denuncia) dei clandestini
di Riccardo Renzi


Con gli sbarchi frequenti a Lampedusa ricorre spesso sulla cronaca dei giornali e alla televisione il problema dei clandestini e delle cure mediche. Mi sembra che si vogliano confondere le acque. Una cosa è la clandestinità e una cosa garantire la salute alle persone che transitano in Italia. Perché ci si deve tanto scandalizzare se a un clandestino vengono chieste le generalità?
Giorgio B. Milano
Un tema che ritorna, purtroppo. Un tema ancora di attualità, visto che sta per essere votato al Senato l'emendamento che abolisce il divieto di segnalare all'autorità i pazienti clandestini. Per la precisione la norma che si vuole eliminare recita così: «L'accesso alle strutture sanitarie da parte dello straniero non in regola con le norme sul soggiorno non può comportare alcun tipo di segnalazione all'autorità, salvo i casi in cui sia obbligatorio il referto, a parità di condizioni con il cittadino italiano». Ha scritto una settimana fa sul Corriere Salute Giuseppe Remuzzi: «C'è un modo solo di essere medico: essere solidali con chi è ammalato ed esserlo in qualunque circostanza, senza condizioni. Senza guardare alla religione o a come la pensa o a che cosa ha fatto l' ammalato che ha davanti». Io la penso, senza essere medico, esattamente come lui. E la pensano come lui molte organizzazioni dei medici, compresa la Federazione degli ordini dei medici. E la pensano come lui grandi organizzazioni non governative internazionali come Emergency e Medici senza Frontiere, che ha lanciato lo slogan "Siamo medici e infermieri, non siamo spie". Ritengo anche che fra tutti i nuovi provvedimenti presi dal governo negli ultimi tempi sulla questione dell'immigrazione clandestina questo possa essere il più ingiusto e dannoso, non solo per gli extracomunitari ma per tutti i cittadini.
Considerando che l'apertura dei centri di cura pubblici senza restrizioni costituisca anche una misura di prevenzione sanitaria. E penso, infine, che sia straordinariamente ipocrita la posizione di chi sostiene che nessuno vuole vietare le cure mediche ai clandestini, purché ci sia l'obbligo di denuncia. Sapendo che nella realtà sarebbe la stessa cosa.

Corriere della Sera Salute 1.2.09
Va male a scuola: colpa dell'inconscio?
di Gustavo Pietropolli Charmet


Mio figlio è stato bocciato due volte in prima liceo scientifico. Lo abbiamo iscritto a una scuola privata e ha superato il biennio. Quest'anno è tornato nella scuola pubblica. Oggi è arrivata la pagella ed è quella tipica dello studente che verrà bocciato. I docenti dicono che è bloccato, che devo portarlo dallo psicologo. Lui dice che non vuole neanche sentirne parlare. Mi ha però molto colpito l'opinione dei suoi docenti, tutti convinti che mio figlio soffra di qualche misterioso problema che gli impedisce di avere un normale rendimento scolastico. Come debbo comportarmi?
Lettera firmata
Darei credito all'opinione dei docenti. E' infatti insolito che provenga da loro un suggerimento di questo tipo. Cosa hanno registrato nel comportamento scolastico di suo figlio che sembra loro incomprensibile? Nel ruolo di studente suo figlio suggerisce l'idea che ci sia qualcosa di strano che lo costringe a farsi bocciare tutti gli anni. Se fosse chiaro che non ha voglia di studiare o che non ha gli strumenti necessari per affrontare un liceo, i suoi docenti glielo direbbero chiaramente. Invece non capiscono le ragioni dell'insuccesso: sono i casi in cui è ovvio invocare la consulenza dello specialista.
Lo psicologo scolastico dovrebbe servire proprio per dare risposte ai problemi degli studenti che falliscono per motivi misteriosi. Qual è il motivo per cui suo figlio si fa bocciare pur avendo scelto lui il liceo? Potrebbe trattarsi di una profonda ostilità nei confronti del padre, di una esagerata dipendenza dalla madre, di un desiderio inconsapevole di bloccare la crescita, del bisogno di restare figlio per sempre, oppure di un sentimento di colpa che obbliga a cercare punizioni ed insuccessi. Possono sembrare complicazioni degli psicologi, ma in molti casi sono le vere ragioni che inducono i ragazzi a bloccare la crescita scolastica. E' importante capire di cosa si tratta perché ne può derivare una soluzione facile, a volte apparentemente miracolosa. Vale la pena di provare * Docente di psicologia dinamica, psicoterapeuta dell' adolescenza

il Riformista 1.2.09
Occasioni perdute Gli scavi commissariati rendono poco, nell'indifferenza generale
La notte di Pompei. Le rovine valgono meno dei rifiuti
di Adolfo Scotto di Luzio


PATRIMONI. Un libro di Alain Jaubert edito da Gallimard restituisce la sensuale vitalità meridionale messa a dura prova dalla crisi di Napoli. Ma non basta: è ancora possibile sentire la cultura non solo come emozione ma come coscienza di una identità nazionale? Della prestigiosa area archeologica viene sfruttato solo il 5% del potenziale business. È sufficiente il mito anglosassone della «gestione delle risorse», o manca un tassello meno tecnico?

Una notte d'estate, un uomo e due donne, a spasso per gli scavi di Pompei, si abbandonano ad ogni sorta di gioiosa lascivia che, come spiega la più giovane, Anna Maria, i romani riassumevano in cinque verbi: futuere, pedicare, fellare, lingere, irrumare. Naturalmente bevono champagne. È questa la Nuit à Pompei che, su uno sfondo glamour e chic internazionale, dà il titolo al romanzo di Alain Jaubert, uscito di recente in Francia per Gallimard, culmine dell'amorosa inchiesta cominciata quarant'anni prima dal protagonista proprio nei vicoli di Napoli, giovanissimo e solitario viaggiatore.
Scontata qualche ingenuità, il libro di Jaubert è molto interessante. Già il tema scelto, la memoria dell'antico, la vitalità e la sensualità meridionale, convenzionale quanto vi pare appartiene però ad una convenzione poco usuale di questi tempi di predominante leggenda nera sulla città, che anche in Francia ha i suoi adepti. Nel romanzo di Jaubert al contrario tutto si arrangia con leggerezza. La storia scompare e la natura prende il sopravvento. Il romanzo finisce come inizia, con lo sguardo fisso al Vesuvio, immobile, eterno, fertile. Sovranamente indifferente all'umanità brulicante ai suoi piedi.
Questa predominanza è l'espressione di uno sguardo che riduce il Sud, come un tempo l'Italia intera, alla condizione di una terra dolcemente morta alla storia. Eppure il sentimento del paesaggio italiano e napoletano in particolare è sincero, si nutre di una perlustrazione amorosa dei luoghi, restituiti con precisione al lettore. Il romanzo di Jaubert si fa leggere soprattutto perché con un'assoluta mancanza di pudore lo scrittore sceglie un tema gigantesco, quello del rapporto con l'antico come specchio dell'identità dell' uomo moderno, europeo settentrionale, individualista e solitario, colto nel riflesso della diversità di un Sud tradizionale, cattolico e mediterraneo.
Ho ripensato al romanzo di Jaubert dopo la lettura del profilo «americano» che il 12 gennaio di quest'anno il Wall Street Journal ha tracciato di Mario Resca, l'uomo di Sandro Bondi alla gestione del patrimonio museale e archeologico del nostro paese. E non perché, come perfidamente suggerisce l' Economist, il linguaggio manageriale dell' ex boss di Mc Donald Italia assimila i musei ad una «big factory». Piuttosto, nella nuova fase della modernizzazione italiana com'è quella che stiamo attraversando, la scelta del ministro dei beni culturali ripropone un'alternativa tra la mentalità del Nord (genericamente anglosassone) e l' arretratezza meridionale che è stata centrale nel modo con cui gli italiani hanno pensato alla loro mancata modernità. Di fronte ai dati dei visitatori nei nostri musei, Mario Resca ha imparato a reagire come i viaggiatori inglesi all' inizio dell' Ottocento di fronte allo spettacolo della campagna romana. Come ad un problema di efficienza del suo sfruttamento. Parlando di Pompei, ad esempio, Resca nota lo scarto troppo grande tra il potente richiamo della sua memoria e la capacità del sito archeologico di attrarre turisti. Tempo fa quelli di Merryl Lynch hanno calcolato che la ricchezza prodotta da Pompei è appena il 5% del suo potenziale. Naturalmente è decisivo il modo in cui si gestisce un patrimonio culturale. Ma resta inevasa un'altra questione: il senso del rapporto che stabiliamo con il nostro passato.
Proprio le vicende di Pompei sono significative da questo punto di vista. Tra le tante cose di cui i napoletani hanno dato prova di non avere cura ci sono appunto gli scavi. In una città che nel corso del 2008 ha visto molte delle sue istituzioni politiche e civili sottratte alla incapacità di gestirsi dei suoi abitanti, è arrivato anche il commissariamento del sito archeologico più celebre del mondo. Dico dei napoletani perché è impossibile attribuire le condizioni in cui versano gli scavi alla responsabilità del sovrintendente e, oggi, del commissario. L'urgenza che ha mosso il governo è tutta del degrado circostante, che rischiava e rischia di sommergere i resti della città romana sotto l'impeto di un vulcano più minaccioso del Vesuvio, perché è fatto di un disprezzo per la storia degli uomini di cui gli uomini sono gli unici responsabili.
Le immagini del degrado sono state diffuse ampiamente. Gli scavi vi appaiono insidiati da una città che penetra con il suo disordine e il suo malcostume il tracciato dell' insediamento antico. Pompei è l'occasione per mille piccoli arricchimenti senza ricchezza, come di chi si azzuffa per arraffare quanto può dei denari fatti circolare dall'enorme afflusso di turisti, in calo nel 2008 ma sempre più di due milioni in un anno: i parcheggiatori come dei questuanti; l'assenza di sorveglianza fuori e la sua grave carenza dentro il sito archeologico, e poi le guide che litigano per i gruppi di visitatori, i pagamenti in nero, i modi sgarbati del personale; i mille ricatti sindacali, con migliaia di visitatori in fila ad attendere la fine di un'assemblea, le decisioni di una corrente, il beneplacito di un capobastone. Miseria che produce miseria.
Quello che mi colpisce è il moltiplicarsi di atteggiamenti di disaffezione e di indifferenza che tradiscono il dissolversi del legame concreto di una comunità con il suo patrimonio storico e artistico.
Per conservare qualcosa, qualsiasi cosa, bisogna averne il sentimento che non è una generica e lacrimevole disponibilità a lasciarsi emozionare ma è coscienza e dunque cultura. Altrimenti le cose prima o poi si perdono, come si dice di solito, per nascondersi un abbandono, di tutti quegli oggetti di un passato che abbiamo smesso di riconoscere come nostro e che ad un tratto non troviamo più. Dei beni culturali si parla spesso e molto giustamente come di un' occasione di ricchezza materiale, mai come dell' elemento cruciale nella definizione dell'identità degli italiani.