mercoledì 4 febbraio 2009

l’Unità 4.2.09
Il silenzio e le bugie
di Concita De Gregorio


Solo in un Paese che abbia smarrito il rispetto degli uomini, la capacità di tollerare la diversità fra simili, di coesistere in libertà nel rispetto del diritto. Solo in un Paese che non CONOSCA più il senso dello Stato la tragica storia della famiglia Englaro può diventare pretesto per una indecente gazzarra fra sostenitori di diverse fazioni (politiche, ideologiche, partitiche o di frammenti di partito, ecclesiastiche) che - perduta l’umanità e la capacità di far posto al pensiero nel silenzio - si avversano in una fragorosa pubblica battaglia a colpi di accuse, menzogne, ricatti, minacce e private personali convenienze. Certamente il fatto di contenere lo stato del Vaticano all’interno del proprio corpo di nazione non favorisce la necessaria distanza da posizioni - quelle della Chiesa - sempre legittime anche quando estreme ma di parte: le posizioni di una parte che alza la sua voce gridando oggi all’omicidio. Tuttavia lo stesso cardinale Tettamanzi, arcivescovo di Milano, dice: «Vorrei che il clamore cessasse, che si aprisse lo spazio della preghiera, della riflessione». Accanto alla legge di Dio sta la coscienza di ciascuno. C’è poi la legge dello Stato che è la legge di tutti, credenti e atei, musulmani e indu. Per la legge comune e per le sentenze non vale il principio dell’obiezione di coscienza. Chiunque, altrimenti, potrebbe opporre la sua personale convinzione per ignorarle o infrangerle. Allora l’unica parola dotata di grande valore e di definitivo senso, fra quelle ascoltate ieri, torna ad essere la parola del Capo dello Stato che chiede: si faccia una legge sul testamento biologico. Il vero delitto, oggi in Italia, è l’incapacità di uscire dallo scontro fra bande e darsi insieme un orizzonte che delle fazioni regoli l’agire. Ci vorrebbe un colpo di reni di residua laicità. Di rispetto reciproco, di libertà. Ci vorrebbero coraggio e altruismo.
Questo giornale ha chiesto silenzio su Eluana molte settimane fa. Ha scritto "Libera" in prima pagina quando la giustizia ha dato al padre la facoltà di agire. Libera senza punto esclamativo, senza enfasi e senza entusiasmo come hanno malignamente mentito alcuni. Libera e basta. Chiunque abbia vissuto il calvario di Beppino Englaro capisce. Abbiamo poi assistito ai tristi ricatti di governo e agli anatemi. Di nuovo oggi il padre chiede silenzio, lo fanno i medici, alcuni illuminati politici. Gli altri continuano a gridare e ad esibire cartelli e pagnotte, ad assaltare le ambulanze. Si prevedono sit in. Dibattiti. Noi ripetiamo: silenzio. Non potendo ignorare le cronache - d’altro non si parla - abbiamo pensato almeno di rendere un servizio. Dire che cosa non è vero. Si rispetti la realtà dei fatti se non si riesce a farlo col dolore degli uomini. Allora: non è vero che Eluana soffrirà, non percepisce il dolore. Non è vero che «morirà di sete e di fame», lo spiegano i medici. Non è vero che interrompere il trattamento medico sia un «omicidio». Al contrario. Il padre di Eluana ha percorso tutto l’iter giudiziario che il nostro sistema consente per essere autorizzato a interrompere l’alimentazione coatta. «Per una volta - scrive Luigi Manconi - il diritto si è espresso in modo inequivocabile: la famiglia Englaro solo a esso si è appellata e solo di esso si è fatta scudo». Adesso, se chi urla è capace anche di agire, si faccia una legge.

l’Unità 4.2.09
Le sei bugie sul caso Englaro. Ecco come stanno le cose
di Luca Landò


Le sue condizioni. Eluana non ha più parola, percezione di dolore, fame o sete
La sua volontà. Una vita artificiale grazie a trattamenti sanitari. Che rifiutava

Il cervello di Eluana è stato irrimediabilmente compromesso la notte del 18 gennaio 1992 quando la sua auto slittò sul terreno ghiacciato e andò a sbattere contro un muro. L’incidente lasciò intatte le parti del cervello che controllano le funzioni fisiologiche primarie, come la respirazione e il battito cardiaco, che si trovano nel cosiddetto tronco encefalico. I danni più gravi riguardarono invece la corteccia cerebrale, una sorta di “cuffia” che avvolge il cervello e nella quale vengono elaborate funzioni più complesse come la parola, la visione, la percezione del dolore ma anche la fame e la sete. Quando i medici della clinica di Udine inizieranno a ridurre progressivamente l’idratazione e l’alimentazione artificiale, Eluana non si accorgerà di nulla, così come è da 17 anni che non avverte né fame, né sete, né dolore.
Dire che Eluana si possa riprendere dalla situazione in cui si trova (stato vegetativo permanente) è come dire che il treno su cui viaggiamo deraglierà sicuramente o che la casa in cui ci troviamo crollerà tra cinque minuti: tutto è possibile, ma le probabilità che simili eventi accadano sono talmente basse da non poter essere prese in considerazione ai fini delle nostre decisioni (altrimenti non viaggeremmo sui treni o non abiteremmo dentro case).
Eluana è stata definita la Terry Schiavo italiana, con riferimento alla giovane americana su cui si è accesa una violenta battaglia giuridica. Come scrive Maurizio Mori nel suo libro («Il caso Eluana Englaro», Pendragon Editore), «l’analogia è corretta per quanto riguarda l’aspetto clinico (in entrambi i casi si parla di stato vegetativo permanente), è invece sbagliata per quanto riguarda i risvolti giuridici». La vicenda di Terri Schiavo divenne una “caso” per via della fortissima divergenza tra i famigliari. Il marito asseriva che lei non avrebbe mai voluto restare in stato vegetativo e chiedeva la sospensione dell’alimentazione e idratazione artificiali; al contrario, il padre, la madre e il fratello della donna sostenevano che quella non era la volontà di Terri.
«Il caso Eluana - ricorda Mori, che ben conosce la famiglia - non ha mai presentato alcun contrasto tra i famigliari. Anzi, la situazione è diametralmente opposta: i genitori Englaro sono perfettamente concordi circa la sospensione dei trattamenti».
Il caso Terri Schiavo, semmai, insegna un’altra cosa: l’autopsia eseguita subito dopo la morte della donna rivelò che il cervello si era irrimediabilmente atrofizzato al punto da pesare soltanto 615 grammi (circa la metà del normale). Quell’esame stabilì senza ombra di dubbio che le sue condizioni erano «irreversibili e che nessun tipo di terapia o cura riabilitativa avrebbero potuto cambiare le cose», come disse il dottor John R. Thogmartin, patologo del sesto distretto giudiziario della Florida che condusse l’autopsia.
Dicono: interrompere l’idratazione e l’alimentazione artificiale ad Eluana è come togliere il pane e l’acqua a una persona. L’analogia fa effetto ma è sbagliata: si tratta infatti di trattamenti sanitari che richiedono un intervento del medico sia per quanto la modalità di somministrazione (nel caso di Eluana un sondino nasogastrico) sia per il tipo sostanze inserite (non un frullato di frutta preparato in cucina ma una miscela di proteine, vitamine e quant’altro indicate dietro rigorosa prescrizione medica). Se si decide di interrompere ogni forma di accanimento terapeutico, come in questo caso, è giusto sospendere anche questi trattamenti artificiali.
Maurizio Gasparri, presidente dei Senatori PdL, ha detto ieri che «è iniziato l’omicidio di Eluana», frase che si accompagna a quella di Enrico La Loggia, vicepresidente del Gruppo PdL alla Camera («A Udine si sta per compiere un vero e proprio omicidio») e a quella del cardinale Barragan («Fermate quella mano assassina»). Infine l’associazione cattolica «Scienza & Vita», lo scorso anno, ha lanciato un appello che iniziava con queste parole: No alla prima esecuzione capitale della storia repubblicana».
Prima di usare simili espressioni, pronunciate al solo scopo di stimolare emozioni e attirare attenzione, sarebbe bene riflettere su alcuni punti:
1) l’articolo 32 della Costituzione dice che «Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario» e che «La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». Proprio di recente, una donna a cui si è prospettata la necessità di amputare un arto, ha deciso di rifiutare l’intervento anche se questa scelta le è costata la vita;
2) il padre di Eluana ha percorso tutto l’iter del nostro sistema giudiziario prima di ottenere l’autorizzazione a interrompere i trattamenti artificiali di alimentazione e idratazione che da 17 anni tengono in vita il corpo di Eluana. I giudici hanno riconosciuto: a) che il padre ha svolto il ruolo di tutore delle volontà della figlia (che non avrebbe voluto vivere in condizioni di stato vegetativo); b) che i trattamenti artificiali di alimentazione e idratazione sono trattamenti medici e, come tali, rientrano in questo caso nella fattispecie di accanimento terapeutico
3) l’omicidio, il più grave dei reati, è punito con le pene più alte: il medico che interrompe, dietro volontà del paziente o del suo tutore, una situazione di accanimento terapeutico non è punito dalla legge; al contrario, lo sarebbe se si ostinasse a curare il paziente contro la sua volontà (abuso di ufficio).
4) a parte la scelta di ignorare il dramma di una famiglia (ma anche quello di altre 2500 nella stessa condizione) gli esponenti di Scienza & Vita hanno deciso di non riconoscere la figura dei giudici della Corte di Appello e della Corte di Cassazione che hanno sentenziato sul caso Englaro. La condanna capitale in Italia è infatti vietata dalla Costituzione (art. 27): cosa intendevano sostenere gli autori dell’appello, che in Italia i giudici non rispettano la Costituzione?
La Cei ha detto ieri che «togliere idratazione e alimentazione ad Eluana è eutanasia».
Va notato come nella frase, ripresa dalle agenzie, manchi l’aggettivo “artificiale”: come spiegato sopra, l’alimentazione e l’idratazione artificiali sono, in questo caso, trattamenti sanitari e, dunque, da interrompere per volontà del padre che, come riconosciuto dalla legge, rappresenta quella della figlia.
L’eutanasia viene praticata in alcuni Paesi, l’Olanda ad esempio, per alleviare le sofferenze di pazienti terminali. La morte viene indotta con la somministrazione, prima di un sedativo, poi di una sostanza che blocca il battito cardiaco o interrompe la respirazione: è dunque un intervento attivo che viene effettuato dietro volontà del paziente e dopo la decisione di un giudice. Eluana non è una paziente terminale: non ha un male che la consuma giorno dopo giorno. Nessuno, inoltre, ha mai parlato di interrompere il suo battito cardiaco ricorrendo a farmaci. Eluana si trova invece in una situazione vegetativa permanente che si protrae nel tempo solo per i trattamenti di idratazione e alimentazione artificiali. Secondo quanto detto dal padre e dai giudici dopo 12 anni di valutazione del caso, questi trattamenti sono stati sempre effettuati contro la sua volontà.

l’Unità 4.2.09
La forza potente del dolore
di Luigi Manconi


Ora che la vicenda di Eluana Englaro – una sorta di parabola per credenti e laici – si avvia all’epilogo, risultano più nitide le figure dei diversi protagonisti. Da una parte, sgangherate manifestazioni di fanatismo: quello di chi grida «assassini» verso l’ambulanza che porta via Eluana e quello di chi (qualche prelato e molti politici) definisce «un omicidio» la pietosa scelta dei suoi familiari. Dall’altra, il volto nobilissimo, nella sua scavata essenzialità, di Beppino Englaro che ha saputo fare del solo sentimento che lo muove, l’amore per la figlia, una testimonianza civile e morale.
UNA NOVITÀ CULTURALE
Sullo sfondo, una straordinaria novità culturale e religiosa: a favore del diritto all’autodeterminazione come espressione della libertà di coscienza e della “libertà dei cristiani” si sono espresse le intelligenze più acute del cattolicesimo italiano: Vito Mancuso e Roberta De Monticelli, Vittorio Possenti e Giovanni Reale.
Tutto ciò ha lasciato traccia persino all’interno della Conferenza episcopale italiana, le cui più recenti parole sono state diverse da quelle precedenti: si parla di eutanasia, ma precisando che ciò accade “al di là delle intenzioni” e ci si affida “alla preghiera” (che è dimensione propria dell’espressione di fede più di quanto lo sia l’accalorato dibattito pubblico-politico).
IL DIRITTO RICONOSCIUTO
Ma ciò si deve al fatto che l’intera giurisprudenza ha riconosciuto il diritto di Beppino Englaro a decidere sulla sorte ultima della figlia.
Per una volta il diritto si è espresso in modo limpido e inequivocabile: e questo è accaduto perché la famiglia Englaro solo a esso si è appellata e solo di esso si è fatta scudo. Come nelle tragedie greche e come nella storia delle vittime di tutti i tempi, il dolore più intimo – se trova il coraggio di manifestarsi nello spazio pubblico – può farsi forza potente, capace di fondare nuove norme e di tutelare le libertà collettive.

Liberazione 4.2.09
Stefano Rodotà giurista ex garante dei dati personali:
«Governo recidivo, violata ancora la legalità costituzionale»
intervista di Vittorio Bonanni


Il ministro Sacconi che minaccia interventi formali del governo per fermare la mano dei medici che dovrebbero interrompere l'alimentazione artificiale che tiene in vita Eluana; il cardinale Barragan, presidente del Pontificio consiglio per gli operatori sanitari, che chiede di fermare «la mano assassina». Mentre la vicenda della giovane in coma vegetativo da 17 anni sembra volgere al termine, c'è chi non si rassegna e tenta in tutti i modi di ignorare le diverse sentenze della magistratura che hanno detto sì alla volontà espressa dai genitori di Eluana e dalla stessa ragazza. Abbiamo chiesto a Stefano Rodotà, giurista autorevole, attento ai temi della laicità e dei diritti della persona, un parere su questo scenario. «E' in atto non da oggi - dice l'ex garante della protezione dei dati personali - un gravissimo e pericoloso conflitto sul tema della legalità e il rispetto dei diritti. Queste invocazioni, questi tentativi di impedire che si dia esecuzione ad una sentenza passata in giudicato non vengono da soggetti che fanno appello a dei criteri morali. In tal senso figuriamoci se sono d'accordo sul contenuto e ancor meno sulle parole del cardinale Barragan».
Ma almeno agisce senza avere un ruolo istituzionale. Ma quando dichiarazioni di questo genere e annunci di comportamenti vengono da responsabili politici investiti da ruoli particolarmente rilevanti come un ministro qui si apre un conflitto».

Che certamente non è nuovo, vero professore?
Sì, si tratta di un conflitto aperto da molto tempo. Gli atti precedenti, dichiarati assolutamente illegittimi, si sono esplicitati con tre tentativi di bloccare attraverso strade più o meno corrette dal punto di vista legale l'attuazione della sentenza: primo tentativo, il Parlamento che ha sollevato appunto un conflitto tra magistratura e Parlamento stesso dicendo che non spettava ai giudici dare indicazioni in materia. La Corte Costituzionale ha liquidato molto rapidamente questo come un atteggiamento non corretto e ha valutato che la magistratura si è mossa nell'ambito dei propri poteri e delle proprie competenze.
Secondo tentativo, Formigoni, governatore della Lombardia, che dice "non in casa mia". Questo atto è stato impugnato davanti al Tribunale amministrativo della Lombardia, che ha annullato il provvedimento del presidente. Terzo, il cosiddetto atto di indirizzo di Sacconi, che più passa il tempo, più è stato studiato da chi ha conoscenza di grammatica giuridica, più si è rivelato un provvedimento legalmente improponibile. Tant'è che lo stesso governatore del Friuli Venezia Giulia, che come sappiamo è una regione amministrata dal centro-destra, non ha ritenuto vincolante qull'atto di invito. Quindi noi siamo di fronte ad un conflitto che ci viene riproposto di nuovo dopo che in tutte le sedi istituzionali questi tentativi della maggioranza di governo o del governo in quanto tale sono stati ritenuti assolutamente illegittimi.

Un grave strappo istituzionale...
E una gravissima violazione della legalità costituzionale perché sono in gioco contemporaneamente i poteri dello Stato e i diritti individuali e fondamentali delle persone. Questo come valutazione d'insieme. Sicché trovo stravagante per non usare altre parole, la richiesta di Buttiglione di organizzare una riunione immediata del Consiglio dei ministri perché sia approvata una legge che dovrebbe avere come obiettivo quello evidentemente di bloccare l'attuazione di una sentenza. Ne ho viste di tutti i colori in questo paese ma dire che con un decreto legge si possa impedire che una sentenza possa avere attuazione viola la stessa logica della politica costituzionale.

Professore, non siamo di fronte anche ad una grave violazione della sfera personale?
Non userei in questo caso la parola privacy . Qui c'è la fine del rispetto della dignità delle persone. Un principio che deve guidarci in ogni momento. Qui la dignità del morire non può essere evidentemente considerata qualcosa sulla quale ci si accanisce con una certa violenza. Anche da questo punto di vista in altri tempi si sarebbe detto che c'è una spaventosa mancanza di carità cristiana. Oggi dobbiamo dire laicamente, anche se quell'espressione della carità cristiana continua a piacermi, che il principio di dignità, che è uno dei principii fondativi di uno stato democratico, è violentamente aggredito. E non si dica che la dignità è quella di chi deve vedere la propria sopravvivenza resa obbligatoria ma di chi invece deve essere rispettato nelle sue decisioni e nel suo essere persona.

Quando si affrontano questi temi si parla sempre di vuoto legislativo. Ma non si rischia, visto lo scenario che offre il Parlamento, di "colmare" questo vuoto peggiorando la situazione?
Anzitutto non enfatizzerei il profilo "vuoto legislativo". Non c'è infatti questo vuoto tant'è che i giudici, con alcune decisioni, in particolare con la sentenza cardine di tutta questa vicenda, quella della Corte di Cassazione dell'ottobre 2007, hanno potuto ricostruire con molto rigore il sistema giuridico italiano mettendo in evidenza tutti gli elementi che già oggi, senza bisogno di una legge, consentono di arrivare alla conclusione che si è delineata, e cioè il diritto di rifiutare le cure e di morire con dignità. Quindi io uso con prudenza, e anzi tendo a non accettare l'argomento del vuoto legislativo perchè significa che qualcuno lo ha riempito più o meno illegittimamente. Quello che hanno fatto i giudici è assolutamente legittimo, conforme ai principi del nostro sistema e della nostra Costituzione, perché hanno letto tutta una serie di norme, come ci è stato insegnato dalla stessa Corte Costituzionale, secondo un'interpretazione costituzionalmente orientata. Oggi dunque non c'è un vuoto. Ci possono essere degli aspetti operativi che hanno bisogno di una disciplina più puntuale. Per esempio la forma del testamento biologico o la possibilità di nominare un fiduciario di un amministratore di sostegno per evitare che ci siano ancora dei dubbi. Ma il mio timore è che si voglia usare l'argomento "dobbiamo fare una legge" sul testamento biologico o sulla tutela della vita fino alla sua fine "naturale", per una vera e propria restaurazione e per tornare indietro rispetto a ciò che già oggi è possibile per i cittadini italiani, ovvero poter rifiutare le cure in diverse forme.

l’Unità 4.2.09
«Questo centrodestra è formato da un branco di arroganti e ignoranti»
Maria Zegarelli intervista Margherita Hack, astrofisica


Non parla soltanto come scienziata, parla come cittadina di un paese che fatica a riconoscere. E non fa sconti, Margherita Hack.
Non si spengono i riflettori su Eluana Englaro, si annunciano marce su Udine. Che ne pensa?
«Intanto vorrei dire che apprezzo molto l’atteggiamento del presidente del Friuli Renzo Tondo, un uomo del Pdl che ha assunto una posizione laica e di grande rispetto».
Ha visto il video choc, le persone che gridavano a Eluana sull’ambulanza: «Ti vogliono uccidere»?
«È una vergogna. Se non ci fossero stati i progressi della medicina Eluana sarebbe morta 17 anni fa, questa è la verità».
C’è chi accusa di omicidio i medici che sospenderanno i trattamenti artificiali. La Chiesa parla di eutanasia.
«Qui non siamo di fronte alla difesa della vita, siamo di fronte a posizioni ideologiche. C’è qualcuno che vuole far vincere le proprie idee senza considerare Eluana. Eluana è già morta, di fatto. È un corpo tenuto in vita da macchine, non in grado di soffrire o di capire cosa le sta accadendo intorno. È come fosse sotto anestesia da 17 anni».
Forse la Chiesa e i cattolici hanno paura che si crei un precedente con l’applicazione di questa sentenza, in vista della legge sul testamento biologico?
«Ma una legge sul testamento biologico è indispensabile e deve tutelare le volontà del paziente».
È questo il punto. C’è chi sostiene che idratazione e alimentazione artificiale non siano cure mediche e quindi nessuno può sospenderle.
«Sarebbe innaturale imporre una cosa del genere: stiamo parlando di trattamenti medici. Qui non c’è più alcun sentimento cristiano verso chi soffre, c’è soltanto la volontà di imporre il proprio punto di vista. Se vogliono fare una legge del genere è meglio che lascino stare, significherebbe togliere diritti alle persone sulla propria vita e il proprio corpo. È inammissibile».
Davanti al caso di Eluana come ci si dovrebbe muovere?
«Con il massimo del rispetto. L’ingerenza della Chiesa e la debolezza della politica sono due cose veramente insopportabili. La politica solo una cosa deve fare: una legge per il testamento, che poi deve essere eseguito secondo le volontà di chi lo ha sottoscritto».
Secondo lei c’era un altro modo di raccontare il caso Englaro?
«Credo che finora tutto si sia mosso con una grande irrazionalità, con grande voglia di prevaricare la volontà degli individui. È incivile».
Nel centrodestra c’è chi ha chiesto un decreto d’urgenza per bloccare tutto.
«Questo centrodestra è formato da un branco di politici arroganti e ignoranti che pretende di bloccare una decisione della magistratura. Ma il Pd dovrebbe essere più coraggioso».

l’Unità 4.2.09
Benvenuti nella tribù
Violenza e protezionismo
È la crisi che genera i nostri nuovi mostri
di Loretta Napoleoni


Un filo rosso lega il branco di Nettuno agli inglesi che scioperano
contro gli italiani

Cosa lega la crisi economica che si è abbattuta sul villaggio globale e le manifestazioni xenofobiche degli ultimi giorni? Un filo diretto e invisibile accomuna il gesto incomprensibile di tre ragazzi che per provare una forte emozione danno fuoco ad un barbone nella stazione di Nettuno e gli scioperi selvaggi che imperversano in Inghilterra contro i lavoratori stranieri; e questo legame, paradossalmente, lo ritroviamo anche nelle stanze del potere della nuova amministrazione americana, che propone un programma di salvataggio economico condizionato all’acquisto di prodotti «esclusivamente» americani. Ben tornati nella tribù! Poiché questo è lo slogan con il quale si apre il recessivo 2009.
Di fronte ai primi veri problemi economici la globalizzazione si sgretola. Tendenze protezioniste minano il WTO, gli accordi faticosamente stipulati dall’organizzazione mondiale del commercio sembrano ormai carta straccia, anche i fondamenti dell’Unione Europea sono messi a durissima prova dagli scioperi in Gran Bretagna. A Davos, tempio sacro della globalizzazione, Russia e Cina apertamente accusano l’America di non saper «guidare il mondo» ed a Washington le fronde protezioniste fanno stragi di liberal al congresso.
Alla base di queste reazioni, che soltanto sei mesi fa’ sarebbero state reputate assurde, c’è la paura. La paura della disoccupazione spinge un sindacato laburista a schierarsi con la destra nazionalista e antieuropea britannica e la paura che l’America precipiti nella seconda Grande depressione convince il primo presidente afro-americano a proporre riforme protezioniste. E infine la paura, non la noia o la droga, motiva i giovani italiani a commettere un crimine da Arancia Meccanica.
Il mondo globalizzato è un pianeta che spaventa, popolato da gente terrorizzata dal diverso e dalla diversità. Ce ne stiamo accorgendo solo adesso che la recessione ci accomuna nella disgrazia, ma da vent’anni chi vive ai margini del villaggio globale - dove il processo di omogeneizzazione non ha portato pace e prosperità ma il proliferarsi delle guerre o il dilagare della povertà - convive con questa paura. Molti, specialmente i giovani, si sono protetti ricreando la struttura tribalista dei branchi.
Dalle Maras centro americane alle gangs britanniche, dalle bande di adolescenti Nigeriane fino alle cellule jihadiste, il branco è la risposta ai timori ed alla minaccia della globalizzazione. E la matrice comune del nuovo tribalismo è, naturalmente, la violenza. Le bande oggi come ieri combattono la paura con la violenza, e la violenza è ormai diventata uno stile di vita. In un documentario britannico, Gang Wars (guerre tra bande), il leader di una banda londinese, Taba, sostiene che la violenza «durerà per sempre, perché è la gente a essere violenta».
La violenza simboleggia anche l’onore e l’orgoglio, l’identità del singolo e il metro per decidere l’appartenenza o il rifiuto di entrare in una banda. Per essere ammessi nelle moderne tribù è necessario superare un duro rito di passaggio. Gli aspiranti mareros si sottopongono a una complessa e dolorosa prova, che ricorda quelle imposte dalle sette sataniche medievali. Devono uccidere un membro di una banda rivale o assistere a un’esecuzione. «La prima volta che ho visto una decapitazione avevo dieci anni. Per un mese intero sognai il morto che veniva verso di me con la testa tra le mani. Poi, con il tempo, ci si abitua agli omicidi e quando capita che un tuo amico uccida uno di un’altra banda sei contento, anzi lo tormenti pure mentre sta morendo. Ti diverti». Racconta Necio un ventenne membro di Mara Salvatrucia, una banda di El Salvador. La violenza è dunque anche sinonimo di divertimento, ed il comportamento dei tre delinquenti italiani ne è la riprova.
La paura del diverso serpeggia da anni anche nel villaggio globale, la ritroviamo nel lessico della guerra contro il terrorismo. La politica della paura del presidente Bush ce lo ripropone, anzi lo catapulta nell’arena politica internazionale. Pensate al suo famoso discorso all’indomani dell’11 settembre. Bus divide il mondo in due gruppi: «chi è con noi e chi è contro di noi». Una frase che secondo il Guardian è la più cruda espressione della politica tribale mai concepita». Come possiamo definire loro e noi se, ad esempio, gli attentatori suicidi di Londra erano cittadini britannici? La nazionalità, il vecchio nazionalismo quindi, non è più l’unica causa determinante né una categoria valida. Il tribalismo sembra adattarsi meglio al nuovo scenario.
Anche senza volerlo noi finiamo per assimilare il lessico tribale e quando ci sentiamo minacciati, a reagire sono i nostri istinti tribali. Cosi chi sciopera in Scozia contro i lavoratori italiani e portoghesi dichiara apertamente che sciopererebbe anche se questi fossero inglesi o gallesi, lo sciopero mira infatti a proteggere la forza lavoro locale. E la solidarietà manifestata da altri lavoratori nel territorio di sua maestà ha gli stessi obbiettivi: proteggere il proprio orticello. Il pericolo è quindi che anche il tessuto nazionale delle organizzazioni sindacali, già seriamente indebolito dal governo Thatcher, si sgretoli completamente.
Sono scenari questi agghiaccianti, che ci devono far riflettere sull’involuzione in atto in un pianeta in preda alla recessione. Poco meno di un secolo fa’, il crollo di Wall Street fece precipitare il mondo nella Grande depressione, preludio della follia nazista che sfociò nella seconda guerra mondiale. Anche allora a guidare l’ascesa del nazismo sulle ceneri della repubblica di Weimar fu la paura del diverso, uomini donne e bambini con in petto una stella di Davide gialla. Anche a casa nostra c’erano i diversi, appartenevano al movimento operaio perseguitato dalle camicie nere. La simbologia cambia ma la sostanza resta: la paura è un grandissimo strumento di manipolazione collettiva, e quindi è solo questo che dobbiamo temere perché domani i diversi potremmo essere proprio noi.

l’Unità 4.2.09
«L’identità d’Italia la dobbiamo cercare pure in Tolstoj e Brecht»
intervista a Alberto Asor Rosa di Maria Serena Palieri


Da solo. Alberto Asor Rosa, dopo quasi vent’anni spesi nel dirigere il lavoro collettivo della Letteratura italiana, grande opera Einaudi, arriva in libreria con le duemila pagine di una Storia europea della letteratura italiana (3 volumi, euro 30 ciascuno), ancora per la casa di via Biancamano. Stavolta si devono tutte alla sua penna. E l’omaggio da rendere non è all’impresa olimpionica in sé, ma al costante - splendido - livello d’indagine e stilistico. Pagine tutte di suo pugno, dunque, salvo l’ospitalità accordata a una serie di schede linguistiche firmate da Sabine Koesters Gensini. Intanto, diciamo che nel titolo il peso specifico maggiore lo riveste quell’aggettivo: questa è una storia della nostra letteratura in chiave «europea». Nel primo volume convivono Dante e Swift, nel secondo Manzoni e Chateubriand, nel terzo Calvino, Dickens, Brecht... Freschi di stampa, ci guardano da un tavolo nell’appartamento romano di Asor Rosa, in Borgo, spolverati di tanto in tanto dalla coda di Pepe, golden retriever enorme ma cocciutamente cucciolo.
Con un ventennio di ritardo sul mondo anglosassone, a inizio anni ‘80 nelle nostre università ha trovato spazio la comparatistica, che getta uno sguardo a 360° sulle «storie» narrate nel pianeta, esplorando ciò che può unirle. Disciplina perfetta per tempi di globalizzazione. Perché da noi è arrivata tardi?
«Per il residuo di pregiudizio idealistico-crociano, una mentalità avversa a forme disciplinari mescolate, al mettere insieme, in questo caso, universi linguistici diversi per farne una storia unica. E spesso la comparatistica italiana non è andata al di là di accostamenti un po’ meccanici. Da noi circola, più che per spinte autoctone, sull’esempio di modelli stranieri, come Starobinski».
Parlare di Milton o Tolstoj in una storia della letteratura italiana è un modo di renderle omaggio?
«No, io sono stato ispirato, al contrario, da una ricerca dell’identità italiana, un’identità che si è costruita nei secoli, però, in uno scambio imprescindibile con la letterature europee contemporanee. Da un certo momento in poi, “occidentali”. L’interscambio in qualche caso è andato dall’Italia a fuori, diciamo dalle origini al Cinquecento, in qualche caso al contrario, dal Seicento a oggi. Ma non in modo così univoco».
L’Italia è un Paese che, prima di esistere come Stato, è esistito per sette secoli come lingua e come letteratura. E questo l’abbiamo imparato al liceo, da Francesco De Sanctis...
«Prima, da un gesuita, Girolamo Tiraboschi, autore nel Settecento di una Storia della letteratura italiana che rimane come un archetipo. De Sanctis laicizza la questione e la collega alle istanze risorgimentali».
In questo raffronto europeo l’unicità spicca: siamo l’«unico» paese europeo vecchio di novecento anni ma giovane d’appena un secolo e mezzo. Visto il crollo identitario che attraversiamo, vale la pena ragionarci. E questa «Storia» ci racconta appunto che la «questione della lingua» - questione di identità - per noi, è carsica. L’analisi del Neorealismo in questa chiave - chiusi il fascismo e la guerra, come recupero della freschezza della lingua quotidiana - è, in effetti, uno dei passaggi più belli di queste pagine.
«Io mi ancoro alla lezione di De Mauro, alla sua Storia linguistica dell’Italia unita. E cimentandomi in proprio in due momenti in particolare, nel primo Cinquecento, dove c’è la normalizzazione “bembesca”, ma anche fenomeni di radicamento nella lingua parlata, come nelle commedie del Ruzante, che ci rivelano un’altra lingua e, quindi, un’altra Italia. E nel Neorealismo, appunto, dove l’invenzione letteraria è anche linguistica, e viceversa».
Alcuni anni fa Asor Rosa diagnosticava la scomparsa d’una lingua letteraria italiana. Orazione funebre, per un Paese che, appunto, su di essa è nato. È questa, oggi, la nuova, e apocalittica, «questione della lingua»?
«Sulla base degli ultimi due o tre decenni di analisi direi che non c’è più una lingua letteraria nel senso tradizionale del termine. Intendo nel senso di Calvino, Pasolini, Morante, Ginzburg. Che, con innovazioni anche enormemente sorprendenti, si muovevano dentro un solco. Il solco è stato distrutto. Gli autori più giovani - io qui mi fermo ai quarantenni - vanno tutti alla ricerca di un modo diverso di esprimersi, in cui il parlato ha una preminenza molto maggiore. La lingua letteraria è quella che si distacca dall’uso comune cercando di raggiungere risultati di alta formalizzazione, tenendo conto delle esperienze precedenti o contemporanee. E questo vale per l’italiano come per i dialetti: Belli e Porta non si limitavano a un ricalco del parlato dialettale, né lo ha fatto Meneghello. Questo s’è enormemente attenuato nei narratori italiani vicini a noi. Molto meno nella poesia».
Si deve all’egemonia che dalla fine degli anni Ottanta comincia a esercitare il mercato?
«Non solo. Io chiamo “esploratori del magma” anche narratori non così mercatistici, per esempio Mazzucco, Veronesi, Ammaniti. Sono quelli in cui gli elementi della tradizione si stemperano fino quasi a scomparire. Ma dove ermerge il tentativo di ricostruire un universo letterario su basi nuove. Sono personalità, cioè, che il mercato lo fronteggiano dialetticamente».
E questo cosa dice, in senso più largo, sulla possibilità di superare il baratro in cui ci troviamo come Paese?
«Ci sono tante possibilità di superare positivamente questo passaggio letterario quante di superare questo passaggio storico.
Rischiamo contemporaneamente di perdere la nostra letteratura e la nostra identità nazionale, in questi anni calamitosi».

Repubblica 4.2.09
Sì allo sbarramento del 4% esplode la protesta dei partitini
Intesa bipartisan alla Camera. Salta il voto segreto
A favore 517, due gli astenuti, 22 i voti contrari di dissidenti di Idv, repubblicani, radicali, liberaldemocratici e minoranze linguistiche
di Silvio Buzzanca


ROMA - La pioggia cade insistente sui silenziosi manifestanti arrivati davanti al Quirinale per protestare contro l´introduzione dello sbarramento del 4% alle Europee. Bagna quelli della Destra che protestano davanti a Montecitorio. Intanto planano simpatici manifestini dalle tribune della Camera su Gianfranco Fini seduto alla presidenza che aveva appena ridotto a 20 i quasi 2 mila emendamenti e sub emendamenti. Seduta sospesa per cinque minuti. Ma una vera e propria valanga travolge le speranze e i sogni del "Comitato per la democrazia": la Camera approva in serata, dopo poche ore di dibattito, la nuova legge che porta in alto la soglia da scavalcare per portare un deputato in Europa: 517 sì su 542 presenti. Due gli astenuti, Scilipoti e Porfidia, 22 i voti contrari. Da cercare fra gli autonomisti del Mpa, 6, i 3 dissidenti di Italia dei Valori, Barbato, Giulietti e Pisichhio, i 4 repubblicani e liberaldemocratici e i 3 deputati delle minoranze linguistiche. 5 radicali e Furio Colombo. A favore, come da accordo sottoscritto la settimana scorsa, Pdl, Pd, Lega, Idv e Udc. La pratica passa ora al Senato. A risarcimento dei piccoli, Ugo Sposetti, ex tesoriere dei Ds, aveva presentato un emendamento che concedeva il finanziamento pubblico a tutti i partiti che superano l´1 per cento. Fini lo ha giudicato inammissibile, ma molti giurano che la proposta potrebbe passare. Magari alzando la soglia al 2 per cento.
Un "contentino" che potrebbe rendere meno amaro un risultato che era scontato. A maggior ragione dopo che l´assemblea del gruppo dei Democratici in mattinata aveva dato il via libera allo sbarramento. Anche se dopo tre ore di confronto teso, dove i mal di pancia erano venuti allo scoperto. Ma alla fine era passata la linea Veltroni. Con l´unica incognita di un voto segreto che si poteva trasformare in una conta nel Pd. Ma anche l´ultimo atto è stato privato da questo pathos. Gianfranco Fini, infatti, era ben disposto a concedere il segreto dell´urna ai deputati e fino ad un certo c´erano le 30 firme richieste dal regolamento. Ma all´ultimo minuto i democratici Furio Colombo e Oriano Giovannelli e i pidiellini Giustina Destro, Giancarlo Lehner e Basilio Catanoso hanno ritirato l´adesione alla richiesta di voto segreto. Fini ha dovuto constatare che le 31 firme erano diventate 26 e che quindi si doveva procedere a scrutinio palese.
Quello che alla fine rimane impresso è la stretta di mano fra Walter Veltroni, Elio Vito e lo stesso Verdini e il commento del leader del Pd: «Almeno una cosa insieme in questa legislatura l´abbiamo fatta». Gli altri possono solo inondare la Camera di un ritocco della locandina del film di Totò venditore della Fontana di Trevi. Al posto del comico napoletano c´è Berlusconi, mentre la regia del film viene attribuita a Veltrusconi. Veltroni incassa una marea di critiche, ma continua ad invitare la sinistra ad unirsi. E rivela che Franco Giordano, allora segretario del Prc, gli avrebbe chiesto la soglia del quattro per cento. Come risposta riceve l´accusa di essere un bugiardo. Quanto ad unirsi la sinistra è in alto mare. Oliviero Diliberto si dice pronto ad accettare la sfida della soglia e pensa di allearsi con Ferrero. Ma Ferrero polemizza ferocemente con Nichi Vendola. A scatenare la furia di Rifondazione un ordine del giorno del Pd, accolto, che permetterebbe al movimento di Vendola di presentare le liste senza raccogliere le firme. Per Ferrero è la prova provata che la scissione da Rifondazione è stata istigata dal Pd e da Veltroni per soffocare Rifondazione.

Liberazione 4.2.09
Il congresso costituente del Parti de Gauche francese:
nessun "oltrismo" e Fronte della sinistra alle europee
di Bruno Steri


«Ci dicono: prima di redistribuire, occorre produrre la ricchezza. Loro! Che hanno ingrassato le multinazionali e un pugno di ricchi nel mondo!», «Concittadini, vogliamo cambiare radicalmente la società: non siamo disposti a ricominciare a produrre non importa cosa, non importa come…», «Noi crediamo alle rivoluzioni dove si vota, come in Venezuela, come in Bolivia», «La nostra filosofia è quella dei lumi, della repubblica, della sinistra; con un obiettivo concreto: unire la sinistra per battere il neoliberismo», «E al Partito socialista dico: non agitate il voto utile. L'unico voto utile è quello che porterà nel Parlamento europeo deputati nettamente contrari al Trattato di Lisbona». Sono queste alcune delle battute con cui Jean-Luc Mélenchon ha concluso il congresso del suo partito: lo ha fatto con una dialettica scaltra e vivace, che coniuga il furore iconoclasta con richiami illuministici e repubblicani (di quelli che scaldano i cuori del patriottismo francese); e che, al contempo, colloca questo transfuga del Ps nel campo della sinistra anticapitalista.
In una struttura periferica situata a sud di Parigi, da venerdì a domenica scorsi, il Parti de Gauche (PdG) ha celebrato il suo "congresso costituente": una forza politica che, appena nata, conta sul contributo di 4mila militanti (ma il trend è in ascesa) e che, essendosi staccata solo un paio di mesi fa dal Partito socialista, ha trovato un suo spazio nella gauche anticapitalistica francese. Nell'ampia sala congressuale, il clima è quello dei grandi momenti. Ma, in generale, è la situazione politica transalpina che mostra chiari segnali di risveglio e offre alle forze della sinistra consistenti opportunità. La Francia ha appena visto mobilitarsi due milioni e mezzo di persone, chiamate allo sciopero generale da tutti i principali sindacati, di nuovo uniti, contro i tagli di Sarkozy e la sua gestione della crisi: come è stato rilevato anche sulla nostra stampa, erano presenti nelle piazze tutti i settori della società. Non a caso, la relazione introduttiva del congresso ha reso omaggio a questa formidabile giornata di sciopero, ringraziando esplicitamente le forze sindacali per la loro determinazione e la loro inequivoca volontà di lotta. Per comprendere quanto il quadro politico francese sia oggi spostato a sinistra rispetto al nostro, è sufficiente considerare la presenza nel corteo parigino della stessa segretaria del Ps, Martine Aubry. Da noi, al contrario, un pezzo di sindacato firma accordi separati con padroni e governo; e il segretario del maggior partito di centro-sinistra tace davanti ad un'operazione regressiva che tenta di isolare e mortificare il più grande sindacato italiano.
Ma è il tema dell'Europa a marcare la più visibile distanza. Mentre in Italia, al livello dell'opinione diffusa, tale questione è sostanzialmente evanescente, in Francia essa coincide con il nervo scoperto di un referendum tradito. In Francia si è votato; e si è votato "No" al Trattato europeo. Ciò ha consentito alle forze della sinistra di radicare questa tematica nel vivo del dibattito politico. Ed oggi la consapevolezza maturata in quella battaglia referendaria è pienamente disponibile, per dare nerbo all'imminente contesa elettorale («L'80% delle leggi francesi sono trascrizioni di direttive europee!»). Così - accanto alla proposta politica di un Fronte delle sinistre per la prossima scadenza elettorale continentale - sul piano analitico-programmatico, la crisi del capitalismo e l'Europa hanno del tutto naturalmente costituito l'asse centrale della discussione e dei documenti congressuali; e l'intransigente rifiuto del Trattato di Lisbona («copia conforme del Trattato costituzionale rigettato nel 2005») ha orientato l'intero dibattito. Di qui passa eminentemente la stessa critica al Partito socialista, "complice" nell'approvazione del suddetto Trattato-fotocopia. Come detto, la radicale critica a questa Europa, «costruzione liberista e autoritaria», si è intrecciata con quella del vigente sistema capitalistico e con la necessità storica di un suo superamento: necessità resa ancor più inderogabile dalle drammatiche urgenze (sociali, democratiche, ambientali) indotte dal precipitare della crisi. Su questo, la posizione del PdG è parsa molto netta: «Non si esce dalla crisi rilanciando il capitalismo, ridando fiato ai meccanismi che hanno condotto al disastro sociale e ad una spaventosa crisi ambientale». Occorre proporre un'alternativa al capitalismo, un altro orizzonte, «precisando le transizioni che vi conducono». Non sarà una passeggiata: «La sinistra non convincerà il capitale finanziario a rendere quel che ha estorto attraverso un'amabile discussione tra gente di buona compagnia». Ma deve essere la sovranità popolare a determinare la realizzazione di ciò che corrisponde all'"interesse generale": precisamente come sta accadendo in America Latina, in Venezuela, in Bolivia.
Sulla base di tali orientamenti generali, i documenti presentati alla discussione hanno articolato il programma del partito (da proporre successivamente ad un'eventuale coalizione elettorale). Innanzitutto, sul versante interno, quello delle concrete risposte alla crisi sociale. La ricchezza c'è: tant'è che le imprese francesi, nel 2007, hanno incamerato 650 miliardi di utili. Contrariamente a quello che fa il Ps, occorre intervenire con decisione e presto sugli squilibri di classe, proponendo misure strutturali a livello nazionale ed europeo. Anche sul versante esterno, il PdG non sembra fare sconti: neanche ad Obama. Gli Stati Uniti - ha infatti osservato la responsabile del dipartimento sui problemi internazionali - si sono resi responsabili dell'azzeramento del diritto internazionale; e le teorie dello Scontro di civiltà e della Guerra al terrorismo hanno di fatto "fornito un nuovo abito" all'imperialismo. Pur essendo diverso da Bush, Obama non smentisce tali pseudo-teorie: e rafforza le truppe in Afghanistan.
Al grido di "Unità, unità!", il congresso ha approvato l'appello per un Fronte della sinistra alle prossime europee. Il Pc francese ha già accolto l'invito: e l'ovazione tributata dai delegati alla segretaria comunista Marie-George Buffet ha simbolicamente sigillato l'intesa. La decisione tocca ora al sin qui riluttante Olivier Besancenot, leader del Nuovo Partito Anticapitalista (Npa), che ha raccolto e rinnovato l'eredità della Ligue Comuniste Révolutionnaire, il quale celebrerà il suo congresso nel prossimo week-end. A Besancenot si è direttamente rivolto Mélanchon: «Non ti chiediamo di sciogliere il tuo Npa. Tu dici che ci sono cose che vi distinguono da noi. Confermo: anche noi su alcune cose divergiamo da voi. Ma, appunto, non vogliamo una fusione, bensì un'unione tra forze distinte». Niente oltrismi, dunque; niente superamenti. E niente scissioni. Così si prova a costruire l'unità. E la si costruisce su punti ben determinati. Mélanchon ne indica due, in particolare: rifiuto netto del Trattato di Lisbona e gruppo parlamentare collocato a sinistra del Ps europeo. Unità nel rispetto delle identità e nella chiarezza dei contenuti: questa è la strada maestra che prova a percorrere la sinistra francese. E un sondaggio dà l'eventuale ressemblement al 14,5%...

Repubblica 4.2.09
Visita all'Istituto Gramsci per comunicare che c'è la nuova sede della fondazione. "Quanti documenti, il Msi quando cambiò casa buttò via tutto"
E Alemanno si siede sulla poltrona di Togliatti
di Alessandra Longo


ROMA - Gianni Alemanno prende posto dietro la scrivania. Gli fanno cenno di sedersi e lui lo fa con il massimo della solennità, ad uso dei flash. Ecco, è successo: «Mi sto sedendo sulla sedia di Togliatti! Lo trovo profondamente emozionante...». Roma, martedì 3 febbraio 2009: un´altra prima volta. Il sindaco di Roma varca la sede della Fondazione Gramsci, tempio della cultura italiana, già sede di lavoro dell´archivista Linda Giuva D´Alema. Sulla porta lo attendono i vertici dell´Istituto, il presidente Beppe Vacca, il direttore Silvio Pons, il vicedirettore Roberto Gualtieri, che è anche motore di Italianieuropei, creatura dalemiana.
Che ci fa Alemanno nel santuario gramsciano? Viene a portare la buona notizia: dopo una via crucis durata anni, la Fondazione avrà una nuova sede, sempre nel quartiere Portuense, adeguata al suo prestigio, con gli archivi sopra il livello del Tevere e non, come adesso, esposti all´umidità e separati dal corpo centrale. La visita non gli costa fatica, anzi, è proprio contento di superare il confine non scritto, gli sembra «doveroso», «nel nome di una memoria condivisa», portare a termine la delibera ereditata dai suoi predecessori, trova quasi incredibile sedersi, lui, ragazzo nero degli Anni Settanta, su quella sedia illustre che faceva parte degli arredi arrivati da Botteghe Oscure. I fotografi gli chiedono di stare in posa, accanto al professor Vacca, sotto il busto di Gramsci: «Ecco, sindaco, si metta là». C´è anche il capogruppo Pd al consiglio comunale, Umberto Marroni.
Sotto la pioggia, la piccola delegazione raggiunge gli archivi. E qui c´è lo stordimento, lo stupore dell´allievo della scuola di Pino Rauti, (uno che, a destra, i libri li ha sempre letti), di fronte ai microfilm della Pravda, ai centomila faldoni ordinati con certosina passione dagli archivisti del Gramsci: «Sembra di entrare nella cripta di una chiesa». Silvio Pons gli spiega che lì c´è tutta la storia del Pci, ci sono i documenti ricostruiti dall´archivio (non fruibile) di Mosca fino alla guerra, lettere e testi originali dal '43 al '91. «Che differenza! Il Msi, quando cambiò sede, buttò via tutto». Risata collettiva. Si risale per la cerimonia ufficiale, per la firma che garantisce una sede finalmente dignitosa alla Fondazione. C´è anche il buffet con le tartine e l´inevitabile domanda su Gramsci. Alemanno l´ha letto: «Lo considero uno dei grandi pensatori politici del Novecento, per la sua capacità di creare un ponte tra marxismo e cultura nazionale. Lo apprezzo profondamente anche dal punto di vista umano per il suo senso del sacrificio».
Musica di violino per i vertici dell´Istituto. Il sindaco conosce Vacca da una vita, da quegli anni Ottanta in cui cominciarono gli annusamenti con l´avversario: «Eravamo interessati ad approfondire la cultura di sinistra. Con il professore, anche attraverso Giano Accame, ci siamo già confrontati». Cita Marco Tarchi, Umberto Croppi, quel «gramscismo di destra» affascinato dall´analisi dell´egemonia culturale. No, Gramsci non è più uno straniero, appare anche nelle tesi fondative di Fiuggi, nella nuova biblioteca di An, non estranee le conversazioni che Pinuccio Tatarella ebbe allora con il professor Vacca.
«So che lei è un curioso, un cultore di certe cose», dice al sindaco il presidente dell´Istituto. E gli fa trovare sul tavolo, solo per visione, una lettera di Marinetti a Sibilla Aleramo, un autografo di Napolitano (che ha donato il suo archivio personale alla Fondazione), lo scambio epistolare tra De Gasperi a Togliatti e i verbali della direzione del Pci nel giorno del sequestro Moro. Alemanno legge l´elenco dei presenti: Amendola, Pajetta, Napolitano, D´Alema...». Ammette: «Sono emozionato, qui c´è un pezzo importante della storia della nostra comunità nazionale».

Corriere della Sera 4.2.09
Biagio de Giovanni «Si inseriscono nel vuoto terribile che si è aperto tra politica e società»
«Partito democratico inesistente, governano i clan»
di Mario Porqueddu


MILANO — «È un fatto di brutalità sanguinaria, che addolora». Ma questo non basta, è scontato, bisogna sforzarsi di dire altro. Il professor Biagio de Giovanni, filosofo della politica, ci prova. E a poche ore dall'omicidio di un consigliere comunale a Castellammare di Stabia, quello che gli viene in mente è radicale: «In questa terra viviamo un vuoto in cui può succedere di tutto. Pensare di colmarlo mettendo per strada altri uomini delle forze dell'ordine, altri soldati, è assurdo: non possono riempirlo loro. Tocca ad altri soggetti e a un altro tipo di controllo democratico. Quello che è andato perduto».
A cosa si riferisce, professore?
«Sono interrotte le comunicazioni tra società e politica. I partiti non ci sono più. Il Pd, per parlare di quello che conosco da vicino, di fatto non esiste: è virtuale, aereo».
Manca quello che per anni è stato l'anello che metteva in comunicazione società e istituzioni.
«Sì, e quando questi collegamenti si spezzano si apre uno spazio, un vuoto terribile, nel quale le istituzioni non sono più protette da un pensiero comune, da idee condivise, da gruppi sociali, politici e umani che partecipano a un dibattito pubblico. E, anzi, sono esposte al contatto con una "vita immediata" che in una regione come la nostra può assumere l'aspetto della criminalità. La camorra si è inserita nella crisi dello spazio pubblico democratico come mai aveva fatto prima d'ora. Governa interi quartieri, questo è un fatto noto».
Appunto, non è una novità....
«Ma l'impressione è che le cose siano peggiorate. Il Pil della camorra è molto più alto di un tempo. Questo deve dirci qualcosa, indicarci quale sia la capacità di aggregazione sociale della camorra. E ancora: il miscuglio tra economia legale e illegale è sempre più evidente. I confini sono sottili. Oggi la camorra non vive più con il pizzo o con attività clandestine, ma è impegnata negli appalti e nell'attività economica ufficiale. È un tarlo dell'economia legale. Altro segnale che la qualità del fenomeno è cresciuta».
E questo è colpa della politica?
«Non voglio, come si usa dire, buttarla in politica. Ma il ceto politico si è separato, sta in un mondo a parte, non avverte più lo spirito critico. Così, attorno alle istituzioni viene a mancare il tessuto che solo può garantire controllo democratico. E anche le forze dell'ordine non hanno più una missione che vada al di là della repressione».
Che fare?
«Le classi dirigenti dovrebbero favorire la costruzione di un tessuto aggregativo nella società. Il problema delle nostre società è lo svuotamento dell'aggregazione, i sensi di vuoto, le noie nichilistiche che conducono a episodi di violenza come quelli delle scorse settimane, che non c'entrano con il razzismo. Però non si è avvertito lo sforzo politico della costruzione di quel tessuto di cui abbiamo bisogno. I partiti sono camarille di potere nelle quali girano inimicizie, odi. Invece le aggregazioni devono essere comunità».
Quindi?
«Le forze politiche devono recuperare il senso dello Stato, collaborare alla restaurazione di una auctoritas, invece di dare vita a questa guerra giornaliera. Le responsabilità sono di tutti, maggioranza e opposizione. L'odio cresce invece di diminuire, c'è mancanza di riconoscimento reciproco. Questo non aiuta, non dà il senso dell'unità di una nazione».
Se i partiti «non esistono» come possono affrontare simili sfide?
«Possono correggersi, anche se non saranno più i vecchi partiti che conoscevamo. E poi forse è il momento di quelle che Giuseppe De Rita chiama minoranze attive, che nelle società in disgregazione sono importanti. Penso a minoranze non politicamente organizzate ma che sappiano stimolare il dibattito pubblico e far valere progetti sul territorio. A Napoli abbiamo visto il fallimento di Bagnoli o di Napoli-Est. Se si riuscisse a realizzare qualcosa diminuirebbe la possibilità di incidenza della criminalità organizzata, per il solo fatto che avrebbe più ostacoli da superare».

Corriere della Sera 4.2.09
La polemica. Inusuale intervento della Cancelliera tedesca
La Merkel critica il Papa «Il Vaticano chiarisca che non si nega la Shoah»
La replica: «Abbiamo già spiegato tutto»
Il cardinale Kasper: «Ci sono state incomprensioni ed errori di gestione nella Curia»
di D. Ta.


BERLINO - La cancelliera tedesca critica il Papa tedesco. Con un'iniziativa non usuale e inattesa, Angela Merkel è entrata con nettezza nella disputa apparentemente solo religiosa che si è aperta intorno alla decisione di Benedetto XVI di sollevare la scomunica ai vescovi lefebvriani e con essa a Richard Williamson, che ha negato l'Olocausto. La cancelliera ha così portato la questione su un terreno politico.
«Se la decisione del Vaticano solleva l'impressione che l'Olocausto possa essere negato, ciò non può restare senza conseguenze - ha detto ai giornalisti -. Si tratta di affermare molto chiaramente da parte del Papa e del Vaticano che non ci può essere negazione». Ha spiegato che di solito non giudica le decisioni interne alla Chiesa ma, ha aggiunto, il dibattito in corso tocca una questione fondamentale.
«A mio parere - ha affermato - non è una questione tra le comunità cristiane, cattoliche ed ebraiche in Germania ma il Papa e il Vaticano dovrebbero chiarire in modo non ambiguo che non ci può essere negazione e che ci devono essere relazioni positive con la comunità ebraica in generale». Perché «questi chiarimenti, a mio parere, non sono ancora stati sufficienti ». Presa di posizione decisa e richiesta esplicita: in questo modo, Frau Merkel si mette alla testa dei critici del Vaticano che in Germania nei giorni scorsi si sono moltiplicati.
Il Vaticano ha risposto alla critica con una nota del portavoce, padre Federico Lombardi. Vi si ricorda che il Papa si è sempre pronunciato contro il negazionismo, l'ultima volta durante l'udienza di mercoledì scorso. «La condanna di dichiarazioni negazioniste dell'Olocausto sostiene Lombardi - non poteva essere più chiara e dal contesto risulta evidente che essa si riferiva anche alle posizioni di monsignor Williamson e a tutte le posizioni analoghe».
Lunedì sera, il cardinale Walter Kasper, responsabile del dipartimento vaticano per gli affari ebraici, aveva però ammesso che in questi giorni a Roma si sono fatti degli errori. «Osservo il dibattito con grande preoccupazione - ha detto al servizio tedesco della Radio Vaticana Ci sono state incomprensioni e errori di gestione nella Curia» dovuti a suo parere a «mancanza di comunicazione nel Vaticano ».
Nei giorni scorsi l'iniziativa di Benedetto XVI di porre termine alla scomunica della Fraternità di San Pio X aveva sollevato un'onda di proteste con pochi precedenti: nell'opinione pubblica, tra le comunità ebraiche ma anche tra numerosi vescovi cattolici che sono intervenuti contro le scelte vaticane. La signora Merkel si è fatta interprete della voce di buona parte del Paese.

Corriere della Sera 4.2.09
Dossier La malattia costa quanto il 4-5% del Pil
Allarme depressione In Europa ne soffre una donna su sei
Seconda causa di morte dopo la strada
In 10 anni sarà la malattia più diffusa. La Ue: serve un piano d'azione per la salute mentale dei cittadini
di Luigi Offeddu


BRUXELLES — L'Europa politica si allarga, e si allarga anche il suo «male oscuro»: la depressione e altri disturbi correlati, con le giornate che rubano al lavoro, causano ormai un danno pari al 3-4% del prodotto interno lordo, nei ventisette Paesi dell'Unione Europea; la depressione colpisce oggi una donna su sei; e in dieci anni sarà la malattia più diffusa fra entrambi i sessi, la seconda causa di invalidità, in tutto il mondo sviluppato. Una persona su quattro, secondo queste proiezioni, soffrirà almeno una volta nella vita di un disturbo mentale.
Sono dati dell'Eurostat e dei governi, sui quali si basa l'allarme appena lanciato dal Parlamento europeo. La Commissione ambiente e sanità pubblica ha approvato una risoluzione sulla «salute mentale» che sarà votata in seduta plenaria a metà febbraio.
La cartina di tornasole del fenomeno sono le statistiche sui suicidi: il novanta per cento dei 59.000 suicidi compiuti ogni anno nella Ue è attribuibile a un disordine mentale; per gli europei fra i venti e i quarantaquattro anni il suicidio è diventato, insieme con gli incidenti stradali, la causa più frequente delle morti che non sono collegate a una malattia.
L'Italia (10,3 suicidi maschi ogni centomila abitanti, e 2,6 femmine) è fortunatamente fra gli ultimi Paesi, insieme con Grecia e Spagna. Se oggi si può parlare di un'epidemia di depressione in Europa, è anche perché la malattia si riconosce prima: «D'altro canto, però — spiega lo psichiatra Mario Savino — un disturbo è il risultato dell'interazione fra un soggetto geneticamente predisposto e l'ambiente in cui cresce e vive: traumi antichi o recenti, ritmi di vita insostenibili, precarietà economica sono fattori che possono anche scatenare la depressione nei soggetti predisposti. E in questo senso, è una anche "figlia dei tempi": l'invalidità da depressione è una condizione di estrema sofferenza per il malato e la sua famiglia, è una delle più importanti sfide della medicina di questo millennio».
Per vincerla, l'Europarlamento chiede ora un «piano d'azione per la salute mentale dei cittadini». E un emendamento proposto dagli eurodeputati liberaldemocratici Vittorio Prodi e Beniamino Donnici — quest'ultimo psichiatra di professione — propone di puntare sulla riabilitazione nelle «piccole strutture pubbliche, private, o miste ».

il manifesto 4.2.09
Storie normali e poco normali
Auschwitz 2009
di Paolo Nori


Il viaggio della memoria di uno scrittore da Fossoli verso i lager tedeschi. Tra due rom con i cappelli da cow boy e un ragazzo con una spilletta con croce celtica sullo zaino, modello Gianni Alemanno
Se due anni fa mi avessero detto Vuoi venire ad Auschwitz?, io avrei risposto, probabilmente, Non ci penso nemmeno. E quando l'anno scorso Silvia Mantovani, della fondazione Fossoli, mi ha proposto di fare il viaggio con loro, di partire in treno da Carpi e arrivar fino ad Auschwitz, in occasione del giorno della memoria, insieme a seicento o settecento tra studenti e professori e politici e scrittori e cantanti, ripercorrendo la strada che avevano fatto settant'anni prima cinquemila italiani, che dal campo di concentramento di Fossoli erano stati tradotti, come si dice, in quei due campi là, Auschwitz e Auschwitz due (così chiamavano Birkenau), io le ho detto Guarda, Silvia, non lo so, io a queste cose come il giorno della memoria sono un po' contrario. E mi aspettavo che lei mi dicesse Ah, va bene, grazie, scusa, e mettesse giù. Invece, mi ricordo, mi ha detto Ma sai che anch'io, sono un po' contraria a queste cose come il giorno della memoria? Ne possiamo parlare sul treno. Allora sono andato. Anche se, l'anno scorso, io ho preteso, in un certo senso, di ripartire poi subito, fare il viaggio con loro, fermarmi una notte a Cracovia e poi prendere un aereo e tornare indietro. Questo per diversi motivi.
Dovevo finire un lavoro, lo dovevo consegnare nei giorni immediatamente successivi, e questo era il motivo principale e la scusa, principale, che queste scadenze, queste date di consegna, per i lavori che faccio io non sono quasi mai rigide, se avessi chiesto di consegnare due o tre giorni dopo mi avrebbero probabilmente detto che andava bene lo stesso. Valeva forse di più il fatto che, tornando il mattino del terzo giorno, non sarei dovuto andare, fisicamente, né ad Auschwitz né a Birkenau, e quindi è vero, avrei fatto il cosiddetto viaggio della memoria, ma non mi sarei trovato di fronte a quella roba lì, ai campi di concentramento che son diventati musei che era una cosa sulla cui opportunità avevo dei dubbi, e in parte li ho ancora. I due giorni di visita ai campi, che volevo schivare, rischiavano di essere, nella mia immaginazione, un estratto di retorica che avrei fatto fatica a sopportare. Poi c'era anche, devo dir la verità, la paura. Un po' mi faceva paura, quella roba lì, che è una roba rispetto alla quale ti viene l'istinto di voltare le spalle. Ma soprattutto, credo, c'era il fatto che io, quelli della fondazione Fossoli, non li conoscevo bene. Non sapevo che atmosfera avrei trovato, in quel viaggio, e avendo provato, qualche volta, andando in giro per l'Italia a presentare dei libri, l'impressione di essere ostaggio di quelli che mi avevano invitato, solo, in una città sconosciuta, a sostenere, e subire, lunghissime conversazioni sulla crisi del mercato editoriale, o sul fatto che in Italia la gente non legge, o su come siano importanti i libri, la prospettiva di trovarmi in una condizione del genere, per cinque giorni, e non Italia, in Polonia, tra Cracovia, Auschwitz e Birkenau, e non a parlare della crisi dell'editoria, ma dell'olocausto e del male assoluto e dell'importanza della memoria e del piantare un seme che crescerà un albero, era una prospettiva che, con tutto che Silvia Mantovani mi era simpatica, farmi tutti e cinque i giorni devo dire che mi sembrava rischioso. Invece poi l'anno scorso, nei due giorni in cui son rimasto, mi son trovato così bene che a quelli di Fossoli ho detto Se mi invitate anche l'anno prossimo vengo anche l'anno prossimo. E loro mi hanno invitato. E questa volta sono stato via cinque giorni, son partito in treno, son tornato in treno, e ho partecipato a tutte le serate e a tutte le visite, son stato ad Auschwitz e a Birkenau e è stato un viaggio talmente strano, son tornato contento, mi vien perfino da dire che mi son divertito, ma cerco di non dirlo, che se dicessi così la gente chissà cosa penserebbero, Sei stato ad Auschwitz e ti sei divertito? Non lo dico, anzi, ero ancora in treno che mi hanno cercato sul cellulare per una cosa e io ho risposto Sto tornando dalla Polonia, mandami una mail per cortesia, che ti rispondo stasera, e nel dire così mi son ricordato che già prima di partire, io andavo ad Auschwitz, e dicevo a tutti Vado in Polonia, e adesso, che stavo tornando, tornavo da Auschwitz e dicevo a tutti Norm dalla Polonia. Che Auschwitz è un nome che si fa fatica a farci dei ragionamenti intorno, a raccontare le cose come le si è viste, perché una cosa che succede ad Auschwitz uno ha l'impressione che debba sempre e comunque essere una cosa che ha, in sé, un qualche orrore, la faccia automaticamente si atteggia al dispiacere, come se Auschwitz non fosse anche, prima di tutto, mi vien da dire, un posto, dove vive della gente come noi, normale, o meglio, come noi, sia normale che poco normale. Come se uno che, per esempio, nasce, ad Auschwitz, dovesse portare per sempre, con la sua carta d'identità, quel marchio lì: te sei nato lì, e quindi devi portare con te sempre un po' di orrore.
Per via del viaggio di quest'anno, è vero, ci sono stati dei momenti, in questo viaggio, che mi veniva da voltare le spalle, come quando, alla fine della visita a Birkenau, con una guida che senza nessuna enfasi ti racconta com'era organizzato il campo, e ti dice che quelli che vedi, quella distesa di camini, è quel che è rimasto delle baracche, e ogni baracca ne aveva due, e non funzionavano quasi mai, perché non c'era niente con cui accenderli, e sembra che li abbiano fatti per dimostrare che i detenuti venivano trattati bene, che stavano al caldo, e non lo sai se è vero, ma se fosse vero sarebbe stranissimo il fatto che quel che è rimasto, quel che è durato più a lungo, la testimonianza, per così dire, è la cosa che non serviva, la cosa finta, mentre la cosa vera, il legno delle baracche, il legno dei letti a castello, per la maggior parte è marcita. Alla fine di questa visita, stavo dicendo, dopo che ti hanno spiegato come era organizzato il campo, e da dove arrivavano i deportati, dove si fermavano, e le strade che prendevano, la maggior parte verso le camere a gas, gli altri verso le baracche, dopo che hai visto le foto dei deportati in divisa, quella famosissima, a strisce, con i triangoli di colori diversi a seconda delle categorie, dopo che hai visto i forni crematori, che erano gli strumenti per lo smaltimento dei rifiuti, in un certo senso, dopo che hai in testa tutta questa metafisica dell'orrore, in un certo senso, tu ti trovi davanti a un muro con le fotografie dei deportati, quelle che si erano portati loro da casa, fotografie della vita di prima, e ti accorgi che quella gente lì era della gente che fumavan la pipa, e andavano al mare, e stavano sopra le sdraio con degli accappatoi bianchi, e guardavano in macchina, trattenendo un sorriso, e si vestivano bene per andar dal fotografo, e guardavano in macchina come se fossero sicuri, come per dire Fotografami, che mi son preparata. Ecco io, lì, ancora, mi è venuto l'impulso di voltare le spalle, e una volta uscito ho guardato lontano, fuori dai confini del campo, e ho visto una casa, che sembrava recente, costruita al massimo negli anni sessanta, e ho pensato Ma questa gente qua come fa, a vivere qui? E dopo, uscito dal campo, è passato un autobus, polacco, pieno di polacchi, com'è naturale, che abitavano lì, e che usavan quell'autobus per andare a casa, o per andare in città, e mi guardavano, e io li guardavo e mi sembrava stranissima, la loro tranquillità. Solo che il giorno dopo, quando siamo tornati a Birkenau dopo essere stati ad Auschwitz, ad Auschwitz uno, che è tutto diverso, un museo, e dove mi era successo ancora di voltare le spalle dopo che la nostra guida polacca ci aveva indicato una specie di baldacchino di legno e ci aveva detto, in ottimo italiano, e con un tono deciso che tradiva una certa soddisfazione, che l'ex direttore nazista del campo, Rudolf Franz Höss, dopo essere stato arrestato in Germania, dove si era nascosto sotto falso nome, era stato trasferito in Polonia e lì processato e condannato all'impiccagione e la sentenza era stata eseguita ad Auschwitz ed era stata costruita appositamente una forca Che è quella lì, ci aveva detto la nostra guida indicando il baldacchino, quel pomeriggio, quando siamo tornati poi a Birkenau, io mi sono trovato a entrare nel campo di Birkenau parlando con un mio amico e senza far caso per niente al posto in cui eravamo, l'avevo visto il giorno prima e era già un paesaggio abituale, e io mi meravigliavo dei polacchi.
È vero, dicevo, ci son stati quei momenti lì, che ti veniva da voltare le spalle, ma ce ne son stati degli altri uguali e contrari, quando per esempio, durante la cerimonia ufficiale, i primi che si sono avvicinati al monumento che c'è alla fine del viale di Birkenau, per deporre le loro corone di fiori, era un gruppetto di dieci-dodici ex deportati, dei vecchietti, e delle vecchiette, con i fazzoletti bianco-azzurri al collo, e uno camminava con le stampelle, e facevan fatica, e uno ha fatto cadere il lumino che aveva, e a me è venuto da pensare che bisognava far delle fotografie a quelle facce lì e metterle in tutte le case e negli uffici pubblici. E quando poi, tra tutte le altre delegazioni ufficiali degli stati che si son succedute, rappresentanti dei paesi che hanno avuto delle vittime ad Auschwitz, armeni, croati, ungheresi, francesi, slovacchi, maltesi, cechi, serbi, svedesi, tedeschi, sloveni e altri ancora (l'Italia non era rappresentata), si sono avvicinati due signori, rappresentanti del popolo rom, che avevan due cappelli a tesa larga, come si dice, un po' da cow boy, e uno dei due aveva il pizzetto e il codino, e un'aria un po' da puttaniere, e uno si immaginava una Mercedes un po' impolverata che l'aspettava fuori, e vedere la proprietà con la quale quei due stavan lì dentro, era una cosa che riempiva gli occhi, e non ti stancavi mai di guardarli.
E, per esempio, mi viene in mente adesso, c'era un ragazzo partito con noi che aveva una spilla con una croce celtica sullo zaino. E prima di entrare a Birkenau gli han fatto notare che forse non era il caso. E lui ci ha pensato poi ha detto Va bene, la tolgo.

Arci report 4 2009
Il Treno della memoria da Torino ad Auschwitz e a Birkenau dove è avvenuto l’indicibile

Il 28 gennaio il Treno della memoria con 700 ragazze e ragazzi delle scuole superiori di Torino, organizzato dall’associazione Terra del fuoco, dopo un viaggio di quasi 25 ore è arrivato a Cracovia. Ad accompagnare i ragazzi, oltre agli insegnanti, il Presidente nazionale delle Acli Andrea Olivero, il responsabile immigrazione della Cgil Piero Soldini, il sindaco di Torino Sergio Chiamparino e Walter Massa in rappresentanza della presidenza nazionale dell’Arci, che ha scritto un ‘diario di viaggio’ del quale riportiamo alcuni stralci
Siamo partiti il 29 gennaio al mattino presto alla volta prima di Auschwitz e poi di Birkenau. A Birkenau si è tenuta la parte conclusiva del viaggio, la commemorazione ufficiale e poi, alla sera, il percorso sulla memoria si è concentrato sulla propaganda nazista e fascista che costruì, nel più totale silenzio della popolazione, l'orrore dell'Olocausto. La sensazione di mettere un piede nella storia, tragica, della Seconda guerra mondiale è forte, così come è forte ancora l'odore di morte che aleggia tra le baracche. Passiamo in rassegna i volti dei prigionieri, volti di uomini e donne impauriti, increduli e fieri. Il giro prosegue; numeri impressionanti, il progresso tedesco al servizio della morte, una razionalità che non può essere liquidata come follia. Mentre si percorrevano gli spazi museali che provavano a descrivere i numeri dell'Olocausto, Andrea Olivero ci informava che proseguivano le dichiarazioni farneticanti di alcuni pezzi della Chiesa sulla Shoa: «l'ultima - disse Andrea - è che quelle che oggi vediamo nei campi-museo sparsi per l'Europa in realtà non erano camere a gas ma camere per la disinfestazione». Il pugno allo stomaco è stato forte, ancora di più mentre si attraversavano gli anfratti bui delle celle di punizione. Il percorso guidato è stato inframmezzato da letture nei luoghi della morte fatte con grande intensità da una giovane compagnia teatrale torinese. La visita si è chiusa al blocco degli Italiani, che si dice sia il più artistico dei blocchi dei Paesi; e infatti si è presentato come una mostra centrata sui colori, l'unica cosa non grigia di questa giornata. Dopo un pranzo veloce, siamo partiti per Birkenau. Qui il freddo, lo sgomento, la rabbia si sono fusi quando siamo entrati nella prima baracca di legno, che durante la guerra ospitava fino a 400 persone: si tratta di baracche di 50 metri x 10, costruite per ospitare 40 cavalli. Lo sgomento ben presto si è trasformato in rancore: iniziamo le discussioni in piccoli gruppetti e i paragoni con la situazione attuale non sono mancati. Abbiamo parlato dei rom, dei migranti, di quelli che oggi molti considerano bestie, forza lavoro e non persone. Il 30 gennaio è stato il giorno della riflessione su quanto visto, che probabilmente, a quei ragazzi, non è mai stato raccontato a dovere: che sensazioni? che impegno? che significato dare a tutte le persone che sapevano e non hanno fatto e a tutte quelle che non hanno voluto sapere? I ragazzi si sono mostrati più che disponibili a mettersi in gioco; così ci siamo interrogati su ciò che avremmo fatto noi se avessimo vissuto quei momenti e anche su ciò che stiamo facendo oggi di fronte alle ingiustizie quotidiane. Dall'opportunismo dei nostri genitori, ai valori per cui vale la pena vivere. Dalla ricerca incessante di un mondo più giusto, alle contraddizioni che animano le democrazie occidentali. La mattinata è passata in attesa della plenaria del pomeriggio e del dibattito serale sul razzismo. A questo è stato dedicato il Treno della memoria del 2009.

il Riformista 4.2.09
Revisionismi Esce da Laterza un saggio che farà discutere
Italiani in Russia. Invasori sconfitti, non vittime
di Francesco Longo


Il Corpo di spedizione non era una truppa dell'Ottocento attrezzata male, come "al tempo di re Pipino"

Thomas Schlemmer. Lo storico tedesco rilegge una vicenda militare che non fu una tragica fatalità, ma un'opzione valutata e fortemente voluta, con tutti i mezzi necessari disponibili, da Mussolini. Una necessaria revisione del processo di "stilizzazione" del soldato italiano, ridotto e riscattato come ostaggio della Storia. Contro il meccanismo autoindulgente e autoassolutorio tipico della nostra memoria collettiva.

Non c'erano solo scarpe di cartone e nevicate sovietiche. Quando si offrono nuove interpretazioni della storia, non sempre si prende la deriva del revisionismo. Un nuovo studio sulla campagna di Russia (1941-1943), per esempio, porta luce su alcuni lati ignorati di quel celebre conflitto. Spesso gli storici oggi si occupano di grattare sotto l'immaginario collettivo per scoprire quanto di ciò che viene tramandato sia realtà e quanto racconto edulcorato della realtà. Esce in questi giorni il libro di Thomas Schlemmer intitolato Invasori, non vittime. La campagna italiana di Russia 1941-1943 (Laterza pp. 346, euro 22) che sicuramente farà discutere. Lo storico tedesco ridefinisce i ruoli della campagna di Russia per decostruire alcuni miti che oggi appaiono fatti assodati. Scopo dichiarato del volume, che contiene nella seconda parte numerosi documenti, è quello di mostrare come quella vicenda non fu una «tragica fatalità». I soldati italiani furono sempre narrati come vittime di quell'evento. Vittime della politica criminale del regime fascista, vittime delle forze russe, vittime di un territorio incredibilmente esteso, vittime di una natura spietata, e vittime, più di ogni altra cosa, dei tedeschi. I tedeschi, così vuole l'adagio che da allora ad oggi viene ripetuto, erano gli unici veri responsabili delle perdite italiane. Tutto il resto fu amaro destino.
Thomas Schlemmer lavora al contrario, per mostrare il modo in cui si arrivò a questa "stilizzazione" del soldato italiano come vittima, per ripristinare un quadro storico capace di chiarire il ruolo e la consapevolezza del contributo italiano in quella vicenda. Per prima cosa: «fu taciuto il fatto che i propri soldati combattevano una guerra offensiva e non difensiva».
Secondo punto: la decisione sembrò tutta di Hitler, come un fatto compiuto che Mussolini accettò quasi contro la sua volontà, mentre la notizia dell'attacco russo non lo colse affatto di sorpresa.
Terzo: Mussolini aveva molte ragioni per partecipare a quella campagna (non ultimo il cruccio che la guerra "parallela" combattuta tra Grecia e Albania fosse terribilmente fallita). Una delle dimostrazioni che offre il libro a sostegno di tale nuova lettura del conflitto orientale è la scelta dei mezzi selezionati per portarlo avanti. Scrive l'autore: «Il Corpo di spedizione non era assolutamente una truppa dell'Ottocento che era stata trascinata in uno dei più orribili conflitti del Novecento, composta da soldati con divise di tela, scarpe di cartone e armi "del tempo di re Pipino"».
Si può aggiungere, e questo testo lo fa, una breve rassegna delle violenze che i soldati italiani portarono in quella aggressione, tipici dell'invasione. Rastrellamenti, perquisizioni personali, controspionaggio. Ci furono stragi, puntualmente riportate nel saggio: «Nella città di Krasnyj Luc occupata il 18 luglio 1942, le truppe italiane scatenarono un terrore spietato contro la popolazione (…) Li costrinsero a spogliarsi e a correre verso il pozzo della miniera: subito dopo spararono facendo cadere i morti nel pozzo. In questo modo hanno giustiziato 1700 cittadini sovietici inermi, uomini, donne, vecchi e bambini».
Diari, testimonianze e rapporti dal fronte forgiarono un'immagine diversa, più umana e indulgente verso gli stenti, le difficoltà, i sentimenti. Ma il motivo del cliché degli italiani «brava gente» è chiaro. Autoindulgenza verso un risultato negativo sul fronte, autoassoluzione dopo la guerra persa, dalla parte sbagliata della storia. In Russia non si vide solo, come il libro pure ricostruisce, paura, nostalgia dell'Italia e umanità, ma anche soldati che esaltavano la guerra sul fronte, armi buone, volontà di Mussolini di prendervi parte. La memoria collettiva ha sempre bisogno di essere riesaminata. Che a farlo sia uno storico tedesco, di una nazionalità che non fa sconti al passato, lo rende evidentemente solo più doloroso.

martedì 3 febbraio 2009

l’Unità 3.2.09
Il branco. 5 risposte da Chiara Saraceno
di Andrea Carugati


1.Come si muove il branco
C’è una peculiarità italiana: più che una guerra tra branchi per il controllo del territorio, come nelle metropoli Usa, c’è il gruppo contro il singolo che è percepito come isolato, vulnerabile.
2.Il senso del limite
Fasce minoritarie ma consistenti della società non hanno maturato il senso del limite. C’è in loro una assoluta insignificanza dell’esistenza: e intorno, nelle famiglie, spesso trovano giustificazioni o anche omertà.
3.Una società atomizzata
Anche altrove ci sono banlieue violente. Ma in Italia lo Stato non è compiutamente interiorizzato, una maggioranza di persone si chiama fuori da ogni responsabilità collettiva. A questo si aggiunge, nelle grandi periferie, la fine dei legami da piccola comunità, che nel passato costruivano identità.
4.Le classi dirigenti
Nel nostro paese c’è un grave livello di inciviltà nel discorso pubblico. Anche i nostri politici e giornalisti spesso si comportano “da branco”, criminalizzando l’interlocutore.
5.La lezione per i politici
Dovrebbero interrogarsi sugli effetti che possono produrre sui più sprovveduti: perché c’è una continuità tra l’aggressività della scena pubblica e la reazione di chi pensa che la violenza sia l’unico modo per esistere.

l’Unità 3.2.09
«L’Italia non c’è più. La violenza nasce dalla fine della società»
Intervista a Gian Enrico Rusconi di Bruno Gravagnuolo


L’analisi del politologo Il nostro è un Paese sfaldato, dove tutte le
patologie di sempre esplodono, magari con la violenza di branco
E non c’è più, da molti anni, alcuna forza morale capace di tenerlo insieme

Paese sfaldato, che affonda da tempo. Ma dove a un certo punto tutte le patologie di sempre fanno massa ed esplodono, magari con la violenza di branco». Diagnosi cupa sull’Italia di oggi quella di Gian Enrico Rusconi, germanista, storico e politologo, da sempre attento al fattore identitario. Da Berlino, dove è di casa e di studio, ci comunica intanto la percezione «esterna» di un’Italia che implode. Priva di classe politica e in preda a una sorta di ingovernabilità molecolare: dei sentimenti, del costume, delle relazioni sociali. Un male che s’aggrava con la crisi economica globale e con i flussi migratori. Sotto la cui pressione rischiamo per Rusconi di restare stritolati.
Professor Rusconi, dagli stupri di gruppo alle violenze sugli immigrati e alle rivolte dei disperati, assistiamo in Italia a un imbarbarimento del costume e a un deficit capillare di «autocontrollo» sociale. Tutto ciò che impressione le fa visto dalla Germania?
«In Germania rispetto all’Italia la situazione pare relativamente tranquilla. E c’è un’emergenza italiana in questo momento. La parola chiave resta “imbarbarimento”, solo che non bisogna stupirsi troppo. Certi fenomeni da noi sono antichi. E sarebbe ora di smetterla con la retorica di una società civile buona, contrapposta alla politica o ad agenti alieni perversi. Si svela qui la profonda corruzione della società civile e la caduta di ogni velo ipocrita: gli italiani non sono buoni e generosi. Né sono meglio di altri popoli. Emergono etnocentrismo e xenofobia come altrove, ma con l’aggravante di un ritardo maggiore su questi temi: istituzionale, culturale e politico. E il ritardo è di tutti, da destra a sinistra. E anche la Chiesa non lo percepisce fino in fondo».
Spesso la Chiesa fa da argine contro il razzismo e la Lega...
«Spesso agisce da presidio. Ma dà l’impressione di non capire nel profondo certi sintomi, di non raggiungere davvero le coscienze, malgrado la sua pretesa di incarnare l’etica pubblica. Il punto è la reale incidenza antropologica della Chiesa. In un contesto degradato non solo dagli illegalismi tollerati e diffusi, ma compromesso dalla volgarità del linguaggio, a cominciare da quello dei media. Nonché dall’ottimismo di maniera legato al berlusconismo».
Lei mette l’accento sullo sfaldamento civile e sulla mancanza di Auctoritas condivisa?
«Sì, la nostra è una società decaduta e non esiste alcuna Auctoritas in grado di farvi fronte».
Eppure nel quadro di ottimismo ipocrita, si leva forte l’appello a legge e ordine e a esecutivi decisionisti, o no?
«La disgregazione genera sempre il desiderio di capi carismatici, che è l’altra faccia dell’insicurezza. Ma è un mulinare a vuoto, destinato a cadere nel nulla. Nel nulla della volgarità imperante del linguaggio televisivo, o di quello politico, spesso da avanspettacolo».
Nulla del linguaggio e linguaggio del nulla. Sa che i ragazzi di Nettuno hanno detto di aver bruciato l’indiano per gioco e non per razzismo?
«Patologia ben nota, da nichilismo di periferia, senza dover risalire a esempi culturali più illustri. Ovvio che il nulla venga riempito con gesti gratuiti e distruttivi, per dotarsi di un’esistenza. È il trionfo dell’“anomia”, che in sociologia da Durckheim in poi significa atrofia dei legami e dissoluzione dell’individuo. Con contraccolpi reattivi di violenza gratuita, magari sul più debole. Ma tutto questo è il disvelamento di qualcosa di antico che adesso esplode. È l’espressione di un disfacimento da paese declassato, senza politiche e senza grande politica».
Giuseppe de Rita parla dell’ascesa del branco come unità identitaria per spiegare la violenza. Categoria troppo «micro»?
«De Rita ha fiuto, e il branco allude anche a qualcosa di più generale: lobby, corporazioni, comitati d’affari, etnie. Alla fine torniamo sempre lì. Alla società civile italiana liquefatta e inselvatichita. Non esiste, e da tempo, alcuna forza morale capace di tenere insieme un paese che non c’è più».
Gioca un ruolo la nascita di partiti gassosi, trasversali e privi di nuclei emotivi e simbolici condivisi?
«Certo che sì, ma si tratta di una causa o di un sintomo?»
Un circolo vizioso?
«Appunto».

l’Unità 3.2.09
Il Paese dei nemici immaginari
di Luigi Cancrini


Tre persone “fatte”, per loro stessa ammissione, di alcool e di hashish inzuppano di benzina gli stracci di un indiano che dorme e gli danno fuoco. Sono alla ricerca, dicono, «di un’emozione forte per finire la serata».
La riflessione politica su un comportamento di questo tipo (la drammatica vicenda di Nettuno) riporta alle origini del fascismo, una crisi economica che mette a dura prova la sicurezza delle famiglie e il futuro dei giovani e un comportamento irresponsabile di troppe autorità che orientano l’odio verso un nemico immaginario: i comunisti che occupavano le fabbriche ieri, gli emigranti che occupano il tuo territorio oggi.
La riflessione sociologica riporta alla noia della città di provincia, alle notti brave di troppi giovani che vagano senza scopo alla ricerca di qualche cosa che sostituisca il vuoto di una vita in cui i bisogni materiali sono soddisfatti da altri e quelli più personali, legati alla capacità di realizzarsi ed alla costruzione di una immagine soddisfacente del Sé non sono neppure immaginati.
La riflessione sui valori riporta alle famiglie, d’altra parte, oneste e perbene nella misura in cui sono capaci di vivere dentro le regole proprie della società civile e tuttavia incapaci, per ciò che riguarda un’etica dei valori, di insegnare ai figli che le loro emozioni, forti o deboli che siano, non sono più importanti della vita degli altri.
Proponendo problemi enormi da tutti i punti di vista, politico, sociologico e valoriale a chi questo tragico susseguirsi di vicende assurde voglia davvero tentare di arrestare. Non dimenticando, però, perché anche questo conta, il problema di chi, lavorando con le persone e con le famiglie deve riuscire a capire perché solo alcuni dei giovani che vivono in una situazione che è la situazione di tutti o, almeno, di tanti, arrivano a fare follie così macroscopiche.
Quella che chi ci lavora deve avere bene chiara, infatti, è la complessità di un mondo in cui ogni sistema, personale e famigliare, gode di una sua relativa autonomia ed in cui le circostanze sfavorevoli di ordine politico, sociologico o valoriale rendono un po’ più probabili ma mai obbligate follie come quelle di cui stiamo parlando.
Chiedendo a chi di questi e di altri poveri ragazzi si occuperà, di recuperare e di ricostruire il filo che si è spezzato dentro di loro: agganciandosi alla possibilità che ognuno di loro ha o non ha di ricucire le fratture grandi che, senza saperlo, si porta dentro. Sapendo che una condanna forte e chiara ed una pena proporzionata alla gravità di quello che hanno fatto sono la premessa necessaria, tuttavia, di un qualsiasi percorso di recupero.

il Riformista 3.2.09
Gli stranieri e il branco italiano
La polveriera Italia può scoppiare sull'immigrazione
di Ritanna Armeni


Non è da cassandre aspettarsi esplosioni in un Paese in cui si incrociano e confrontano una cultura oramai estesa di violenza e razzismo e una disperazione, altrettanto radicata, unita alla sofferenza e all'umiliazione di intere comunità

Ho l'impressione che l'Italia sia seduta su una polveriera e che questa da un momento all'altro possa esplodere. Non è solo l'orrendo episodio dell'immigrato indiano bruciato a Nettuno da tre ragazzi che volevano "divertirsi" a suggerirmi quest'immagine. Non è solo il ricordo di altri episodi che in questi mesi si sono susseguiti in cui il razzismo, la xenofobia, l'odio per il diverso, la voglia di farsi giustizia da soli sono emersi con una forza inaspettata. Non è solo quello.
Ciò di cui non ci stiamo forse accorgendo è che il livello di sopportazione, di rassegnazione, delle comunità immigrate sta finendo. Non ci stiamo rendendo conto che l'immigrazione in Italia non è più un fenomeno marginale, non è fatto solo da individui poveri, disperati, alcuni dei quali disposti a tutto, magari anche a delinquere, ma di comunità, gruppi, collettività che in Italia studiano e lavorano con figli nati in Italia e che dall'Italia si aspettano qualcosa di importante. In sostanza non ci stiamo accorgendo di quanto le nostre città siano diventate simili alle città inglesi, francesi e tedesche. E di come ogni episodio di razzismo e violenza colpisca non solo quell'individuo che lo subisce, ma interi e numerosi gruppi che si sentono minacciati e umiliati.
E, ancora, sopravalutando la forza dello Stato o della collettività, noi italiani e i nostri governanti non vediamo un altro importante fenomeno. Di fronte a quegli atti di follia razzista, di fronte ad atti che vengono considerati ingiusti e discriminatori le comunità immigrate non rimangono più in silenzio. Si sentono colpite e rispondono, manifestano, protestano. È avvenuto a Lampedusa, dove è esplosa la protesta contro i centri e contro la decisione di non procedere ad alcun trasferimento cioè ad alcuna accoglienza. Avviene di fronte agli episodi di razzismo e di odio manifestato dagli italiani, in particolare se si tratta di forze dell'ordine. Sono rabbie per il momento contenute, manifestazioni che si mantengono nei limiti, denunce, richieste di solidarietà. Ma che appunto si manifestano, mentre fino a qualche tempo fa non c'erano o non con questa visibilità. Fino a quando si manterranno nei limiti e non sfoceranno in qualcosa di più grande, di più rabbioso, di più violento? Fino a quando non diventeranno come nelle banlieues francesi un fenomeno di disordine sociale che non sarà facile affrontare? E quali saranno allora le reazioni?
Non è da cassandre aspettarsi il peggio. Non è da cassandre aspettarsi esplosioni in un Paese in cui si incrociano e confrontano una cultura oramai estesa di violenza e razzismo e una disperazione, altrettanto radicata, unita alla sofferenza e all'umiliazione di intere comunità, che cominciano a essere consapevoli e meno rassegnate. E quel razzismo si dimostra meno episodico e marginale di quanto si pensasse. Dobbiamo chiederci come siamo arrivati a questo punto, quale è stato il percorso che ha portato l'Italia, Paese ritenuto solidale e accogliente, con una forte cultura cattolica, a essere così intriso di pericolosi veleni. E le risposte potrebbero essere molte e complesse. I processi di globalizzazione, lo spostamento di masse di diseredati da un continente all'altro, le mancate politiche di integrazione, la rapidità e frettolosità dei processi, la difficoltà di fronte alla crisi di condividere risorse e lavoro. Molto è stato detto e scritto su queste questioni.
Ma di questa situazione, del pericolo di un'esplosione sociale, c'è chi porta oggi una responsabilità politica preponderante e pesante. Da alcuni anni i partiti che oggi stanno al governo hanno perseguito una politica in cui il problema dell'immigrazione è diventato quasi esclusivamente un problema di sicurezza. Da alcuni anni la Lega e forze della destra hanno cavalcato paure, insicurezze e disagi sociali per condurre e imporre anche ad altre forze politiche misure di esclusione e leggi discriminatorie. Il senso di insicurezza è aumentato, alimentato anche - non intendiamo dimenticarlo neppure per un momento - dagli episodi di delinquenza e di violenza a cominciare dagli stupri, portati dall'immigrazione. Ma ad esso non si è saputo rispondere. Le forze che oggi stanno al governo e che hanno alimentato e usato il veleno della insicurezza e della paura nei confronti dello straniero poi non hanno dato risposte alla domanda di sicurezza, né hanno saputo affrontare neppure parzialmente uno dei tanti enormi problemi che il fenomeno dell'immigrazione impone.
I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Un Paese impaurito, un razzismo che si sente almeno culturalmente giustificato, comunità di immigrati arrabbiate e umiliate, nuovi continui sbarchi che non si possono fermare, perché è difficile se non impossibile fermare le migrazioni frutto della grande onda della fame, della mancanza di lavoro, delle guerre. Ce ne è abbastanza per temere che la polveriera esploda.

Liberazione 3.2.09
Il lupo e l'agnello
di Dino Greco


Accadono cose curiose nell'incartapecorito mondo della politica italiana. Fra queste, merita un posto privilegiato la polemica ingaggiata contro Liberazione da Giorgio Tonini, del coordinamento del Pd. La pietra dello scandalo è rappresentata dal poster - diffuso insieme al nostro giornale - con cui il Prc attacca Walter Veltroni, responsabile di aver concordato «con il principale esponente dello schieramento a lui avverso» una soglia elettorale di sbarramento del 4% per l'ingresso al parlamento europeo. Il nostro censore si indigna, fa sapere che "il confine è stato passato" e che l'attacco, politicamente scorretto, sarebbe non soltanto incivile, ma persino "pericoloso", perchè indicherebbe in Veltroni non già un avversario, ma un nemico. Parole gravi. E del tutto infondate. Lo dimostra il fatto che nessun argomento è stato speso per contestare i contenuti del poster. Non la violenza del patto leonino con cui i due partiti maggiori vorrebbero cambiare le regole elettorali a ridosso delle elezioni. Non la pervicace intenzione di ridurre la politica (e la democrazia) a gioco bipolare a bassa intensità. Non la sponda prestata all'attacco senza precedenti portato al maggior sindacato italiano, la Cgil. Il capovolgimento della realtà ha del prodigioso: il Pd, che insieme a Berlusconi congiura per l'epurazione della sinistra dall'Europa, è la vittima; il Prc, che reagisce e protesta, diventa, con un gioco di prestigio, il carnefice. Ricordate la favola di Fedro, Lupus et agnus ? Il lupo sbranò l'agnello dopo averlo accusato di inquinargli l'acqua che scorreva dal ruscello dal quale entrambi si abbeveravano. «Ma il lupo stava più in alto» chiosava sarcastico l'autore.

Repubblica 3.2.09
Negazionismo
Gli assassini della memoria che cancellano l’Olocausto
I ripetuti assalti alla verità dei cosiddetti "revisionisti" hanno dimostrato la necessità di non permettere che la memoria venga cancellata
di Bernardo Valli


Una corrente di pensiero che non ha nulla di "scientifico", come pretende, ma che è invece un´ideologia, meglio una setta religiosa
Il vescovo lefebvriano Williamson riporta d´attualità le tesi di chi sostiene che la Shoah non ha mai avuto luogo Storia e significato di una idea senza fondamento scientifico

I sostenitori del negazionismo cercano di dare basi scientifiche alle loro tesi. Perlomeno lo sostengono. Il loro principale obiettivo è di dimostrare che il genocidio degli ebrei non è mai avvenuto. L´Olocausto sarebbe un mito, creato al fine di favorire gli interessi degli ebrei nel mondo, e giustificare la nascita e la difesa di Israele; sarebbe una colossale invenzione tesa a screditare, a demonizzare, la Germania di Hitler. Oggi le tesi dei negazionisti, dei quali la maggiore espressione è l´Institute for Historical Review, fondato da Dave McCalden (ex membro del National Front) alla fine degli anni Settanta negli Stati Uniti, affermano con argomentazioni variabili secondo i "ricercatori":
1) che non sono mai esistite camere a gas per uccidere gli ebrei e che se sono esistite servivano, stando ad alcuni, per sterminare i pidocchi di cui Auschwitz era infestato;
2) che i nazisti non si proponevano di uccidere gli ebrei, ma semplicemente di rinchiuderli nei campi;
3) che il numero degli ebrei morti durante la Seconda guerra mondiale è di gran lunga inferiore a quanto si denuncia.
Questi, in sintesi, i principi su cui si basa il negazionismo. Ai quali si devono aggiungere molte altre affermazioni più specifiche, o "scientifiche", contenute in una vasta pubblicistica o espresse durante il congresso (o nel periodico) dell´Institute for Historical Review. Cito, a titolo di esempio, soltanto alcuni degli argomenti usati dai negazionisti in testi presentati come saggi di revisionismo storico. Secondo il Leuchter Report l´inesistenza delle camere a gas sarebbe provata dall´assenza di residui di cianuri negli ambienti di Auschwitz- Birkenau destinati allo sterminio. È inoltre impossibile credere, secondo i negazionisti, che gli inservienti, anche se dotati di maschere, potessero entrare subito, come si racconta, nelle camere a gas dove giacevano fino a millecinquecento cadaveri, senza che essi stessi venissero uccisi a loro volta dai miasmi letali. In quanto al cielo di Auschwitz, dalle fotografie aeree fatte dagli americani, non risulterebbe nascosto da una costante nuvola di fumo nero uscito dai forni crematori, come viene descritto. E le immagini dei prigionieri scarnificati, riprese sempre dagli americani? Lo stato di quei prigionieri sarebbe dovuto all´abbandono, senza cibo e medicine, per giorni e giorni, in seguito allo sfaldamento del fronte tedesco. Insomma Auschwitz sarebbe «una truffa».
Non c´è bisogno di sottolineare che, nonostante le pretese, il negazionismo non abbia nulla di scientifico e neppure scalfisca gli studi e le testimonianze dirette sulle tecniche di sterminio nei campi di concentramento nazisti.
Il negazionismo è un´ideologia. Meglio ancora, si è di fronte a una setta religiosa, come diceva lo storico francese Pierre Vidal-Naquet, precisando che si trattava di una setta simile a quella che «Weber opponeva con ragione alla Chiesa». È un´opposizione settaria al culto dominante. Vidal-Naquet ricorse a quella definizione quando si presentò il caso di Roger Garaudy: un professore di filosofia via via convertito al protestantesimo, poi al comunismo (diventando un dirigente del Pcf), poi al cattolicesimo e infine all´islam. Approdato a quest´ultima religione, Garaudy abbracciò e difese pubblicamente le tesi negazioniste, compiendo un´altra tappa nella sua agitata vita spirituale o ideologica. Fu singolare il sostegno, altrettanto pubblico, che gli dette l´Abbé Pierre, considerato da molti francesi un santo vivente. In seguito l´Abbé Pierre si corresse e si capì che il suo era stato un eccessivo e irresponsabile slancio d´amicizia.
Pierre Vidal-Naquet fu uno dei primi ad affrontare i negazionisti (emersi negli anni Settanta) con una serie di articoli raccolti in un libro: Gli assassini della memoria (Viella 2008). Egli rifiutò tuttavia di dibattere faccia a faccia con loro. Non erano interlocutori accettabili.
Specialista dell´antica Grecia e impegnato con passione nel denunciare la tortura durante la guerra d´Algeria, Vidal-Naquet non aggirava i problemi. Come storico e come ebreo scandiva l´atteggiamento verso la Shoah in tre distinti momenti. Alla Liberazione nessuno si era interessato ai deportati ebrei. Si era poi passati a un interesse esclusivo, specifico, per il genocidio di cui erano state le vittime. E c´è stata a questo punto - ed è il terzo momento - una sacralizzazione della Shoah, a suo parere rischiosa: perché la Shoah non deve essere considerata un culto, suscettibile di creare un anti-culto, ossia un´eresia. Né deve essere uno strumento politico. È un genocidio che, insieme agli altri (quello simultaneo degli zingari, quello precedente degli armeni a opera dei turchi, o quello successivo nel Ruanda), deve impegnare gli storici, cui spetta di tener viva la memoria. Vidal-Naquet era contrario alla legge che condanna chi nega i crimini contro l´umanità, perché può far apparire i negazionisti come dei perseguitati. Si può capire, e condividere, il rigore di Vidal-Naquet, quando sottolinea il rischio implicito nella sacralizzazione o nell´uso politico della Shoah, ma è comprensibile, o addirittura inevitabile, che questo avvenga poco più di mezzo secolo dopo, quando i ricordi sono ancora vivi e sono mantenuti tali, anzi sono arroventati, dalla tragedia mediorientale.
I negazionisti vogliono essere considerati dei revisionisti. Una qualifica cui non credo abbiano diritto. Non è revisionista l´intellettuale impegnato a contrastare la realtà, concretamente provata, di un fatto storico, la cui veridicità non richiede supplementi di indagine. Il revisionismo ridefinisce il giudizio su un evento, ne dà un´interpretazione diversa, non ha come fine la sua cancellazione. La storiografia è una continua revisione. Il negazionismo è dettato da un´ideologia.
Per evitare che la scomparsa di testimoni viventi favorisca le tesi negazioniste, Claude Lanzmann ha realizzato con anni di lavoro il suo documentario di nove ore sulla Shoah, basato non sulle immagini ma su una straordinaria e sconvolgente serie di testimonianze dirette, destinate a restare quando si passerà definitivamente dalla memoria alla storia.
Se si scorrono le liste dei partecipanti al congresso dell´Institute for Historical Review si trovano i nomi di Carlo Mattogno, il negazionista italiano più noto, di Bradley Smith, fondatore del CODOH (Comitato per un aperto dibattito sull´Olocausto), di David Irving, autore di Hitler´s War, libro che ha mobilitato tanti tribunali, e di Robert Faurisson, il professore dell´Università di Lione, diventato un autore di riferimento per molti negazionisti. Nel 1992, durante un raduno negazionista in Germania, Irving dichiarò che la camera a gas ricostruita ad Auschwitz era un falso fabbricato dopo la guerra. Nel 2000 il tribunale britannico che trattò la causa per diffamazione intentata da Irving alla storica Deborah Lipstadt, sentenziò che il querelante, ossia Irving, aveva distorto e falsificato l´evidenza storica ed era un antisemita.
Il francese Robert Faurisson usufruì del singolare sostegno di Noam Chomsky, illustre linguista, figlio di un professore di ebraico, intellettuale libertario e nemico di tutti gli imperialisti. Chomsky fece infatti la prefazione al libro di Faurisson (Mémoire en defense contre ceux qui m´ accussent del falsifier l´histoire) in cui si immagina, tra l´altro, una dichiarazione di guerra a Hitler da parte della comunità ebraica mondiale, e dove si dice che Hitler, il quale aveva imposto agli ebrei di portare la stella gialla a partire da sei anni, si preoccupava molto di più della sicurezza dei soldati tedeschi che degli ebrei.
Chomsky precisava nella prefazione di non avere letto il libro, e, in sostanza, di volere soprattutto difendere la libertà d´opinione, quale che sia. Vidal-Naquet scrisse pubblicamente a Noam Chomsky. Gli disse che poteva sostenere il diritto del peggior nemico alla libertà d´opinione, se non domandava la sua morte e quella dei suoi fratelli. Ma che lui, Chomsky, non aveva il diritto di prendere un falsario e di ridipingerlo con i colori della verità. A questo equivaleva infatti la sua prefazione. Più tardi Chomsky non sconfessò quanto aveva scritto, ma l´uso che ne era stato fatto. E chiese che la prefazione non fosse pubblicata. Ma era troppo tardi. Era già in libreria. Pochi mesi dopo Robert Faurisson veniva condannato, per la prima volta, per «contestazione di crimine contro l´umanità».

Repubblica 3.2.09
Lo sterminio senza fine
Perché dicono che la macchina di morte non è esistita
La vera finalità del rifiuto delle prove è la convinzione che i sopravvissuti non siano credibili, perché sono ebrei e dunque per natura dicono il falso
di David Bidussa


Che cosa significa negare un fatto storico? E perché, nello specifico, il negazionismo include una forma di antisemitismo? La prima riguarda la dimensione della morte nei campi; la seconda chiama in causa il giudizio sull´identità dei sopravvissuti.
Di che si discute quando qualcuno afferma che non sono esistite le camera a gas e che, più in generale, quei morti "non sono morti"? Consideriamo i numeri (un dato che costituisce un´ossessione per i negazionisti). I numeri dello sterminio riferiti ad Auschwitz sono stati riepilogati da Jean-Claude Pressac nel suo libro Le macchine dello sterminio (Feltrinelli 1994).
Questi i numeri che Pressac riporta: ebrei gasati non iscritti, da 470 mila a 550 mila (l´oscillazione riguarda il numero complessivo degli ebrei ungheresi gasati); corrispondono ai deportati trasportati ad Auschwitz e selezionati già sulla rampa di arrivo; detenuti iscritti deceduti (ebrei e non ebrei) 126 mila: ovvero quelli sopravvissuti alla prima selezione sulla rampa e poi, gasati per malattia, debilitamento...; prigionieri di guerra sovietici, 15 mila; diversi (di cui soprattutto zingari), 20 mila.
Complessivamente dunque stiamo parlando di una quantità di persone gasate tra i 631 mila e i 711 mila. Nessuno di questi numeri è stato contestato dai negazionisti. Nessuno di loro ha mai risposto a Pressac. Questa cosa non fa pensare?
Ma la retorica negazionista non riguarda solo i numeri. La ricostruzione storica di un fatto, non è mai fondata su un solo documento o su un corpo di documenti limitati a un punto. Indagare un fatto implica assumere l´intera filiera all´interno del quale si colloca. La storia non è mai l´astrazione di un particolare. La storia si studia solo assumendola "a parte intera".
E dunque ai dati forniti da Pressac, vanno aggiunti: i deportati sterminati in tutti gli altri campi (di sterminio, Treblinka, Majdanek, Sobibor, per esempio; o di concentramento: Dachau, Mauthausen...); quelli che vengono catturati, rinchiusi nei campi di transito, e che lì muoiono; quelli che sono trasportati in vagone e muoiono nel viaggio; tutti coloro che sono uccisi prima della scena del campo di sterminio: per esempio i fucilati nell´estate 1941, durante l´occupazione militare in Unione sovietica e quelli uccisi dai reparti di polizia speciale (per esempio i 260 mila sterminati in Polonia tra il 1940 e il 1944 dal Battaglione 101 come racconta Christopher Browning nel suo Uomini comuni, Einaudi).
Negare le camere a gas, dunque, è funzionale a un obiettivo concreto: dichiarare che quella macchina complessiva di morte non sia mai esistita.
Nello sterminio non c´è una parte per il tutto, c´è il tutto. E proprio con quel pacchetto complessivo si tratta di confrontarsi. Il primo atto del negazionismo è preliminare alla sua affermazione sulle camere a gas. Consiste nell´eliminare tutti i particolari e tutte le componenti che renderebbero insostenibile la tesi finale. La macchina dello sterminio nazista non è la camera a gas. Quello è il livello ultimo di un lungo percorso. All´interno di ciascun passaggio si uccidono individui, si sterminano interi gruppi famigliari o intere comunità locali. Lo sterminio preesiste alle camere a gas.
Quella retorica tuttavia non si limita a negare un fatto provato. Infatti essa contesta non solo le prove, ma le testimonianze di chi sostiene l´esistenza nelle forme e nei modi dello sterminio. Anzi il vero obiettivo del rifiuto delle prove è la convinzione che i sopravvissuti non abbiano diritto di parola. Quel diritto non viene riconosciuto ai sopravvissuti perché la loro natura - e non la loro esperienza - li rende incredibili. Secondo i negazionisti, infatti, essi non sono credibili e non devono essere creduti non perché ciò che dicono si sarebbe dimostrato fondatamente falso, ma perché la loro identità ebraica li qualifica come pericolosi sovvertitori dell´ordine e perché la loro natura li rende "perfidi". Credereste mai ai nemici irriducibili? Alla fine, dunque, per i negazionisti quei testimoni sono non credibili perché sono ebrei e dunque per natura, raccontano il falso e lo raccontano perché il loro obiettivo sarebbe la conquista fraudolenta del potere.
Lungi da non essere mai avvenuto, lo sterminio per i negazionisti non è mai finito. È ideologicamente giustificato perché si basa sull´adesione all´ideologia che l´ha predicato e poi praticato. Alla fine lo si nega, per poter avere l´opportunità di completarlo.

Repubblica 3.2.09
Religione millenaria
Le radici di un odio
di Adriano Prosperi


La religione millenaria dell’antigiudaismo oggi rialza la testa e riunisce davanti alle bandiere bruciate giovani di destra e di sinistra
Il peso della tradizione nelle posizioni del Vaticano

La millenaria religione dell´antigiudaismo, la madre ormai riconosciuta dell´antisemitismo moderno, dà segni di ripresa davanti a quell´annebbiamento della memoria che sta seppellendo le vittime della Shoah e il senso di colpa dell´Occidente cristiano. Oggi i movimenti giovanili di estrema sinistra si incontrano con quelli di estrema destra sulle piazze dove bruciano i vessilli con la stella di David e davanti alle sinagoghe imbrattate di una vernice rossa che chiede ancora l´antico sacrificio del sangue ebraico.
Di fronte a questo ritorno di fiamma antisemita è opportuno comprenderne, non tanto o non solo le ragioni che attraversano la società civile, quanto quelle che si riscontrano all´interno della chiesa.
Cos´è infatti la negazione dell´Olocausto da parte del vescovo "lefebvriano" Richardson se non anche la manifestazione indiretta di un problema che ha coinvolto e continua a coinvolgere la parte più tradizionale del clero?
La gerarchia ha comunque le sue esigenze che la democrazia non può comprendere. L´emergere dell´aggettivo "ecclesiale" a fianco e in sempre più evidente contrasto con l´antico aggettivo «ecclesiastico» e la loro lotta per affiancare in modo esclusivo il sostantivo "Chiesa" sono stati i segni che anche il più distratto degli osservatori ha potuto cogliere nei decenni scorsi, intorno al concilio e subito dopo: in questo problema di linguaggio si è resa evidente la tensione fra il momento comunitario e creativo dal basso della vita religiosa cristiana e il momento gerarchico e autoritario di un corpo dove la proprietà esclusiva della parola e il controllo del messaggio sono "ab antiquo" il monopolio dell´autorità ecclesiastica.
Per questo la soluzione del problema dello scisma lefebvriano appare complicata e non vicina. Coinvolge in prima istanza la sorte del concilio Vaticano II. L´"aggiornamento" conciliare dette voce alla necessità di un corpo sacrale arroccato nella immobilità della tradizione di aprirsi a un mondo moderno lungamente considerato come una realtà da tenere lontana se non da maledire nel suo complesso.
A chi guardi questa vicenda dall´esterno si offrono poi altri motivi di riflessione e di preoccupazione: la situazione attuale dei rapporti col mondo mussulmano offre una insperata occasione di riscossa alla religione dei crocifissi sanguinanti e delle crociate contro i mussulmani in nome della quale monsignor Lefebvre continuò fino alla fine a promuovere in Vaticano il riconoscimento di quelle santità mistiche e antimoderne sorte nelle province più chiuse della Francia reazionaria negli anni della Comune e della Grande Guerra.

l’Unità 3.2.09
Gli uomini perbene
Molti i casi, ma poche le denunce. Spesso l’incubo è a casa
Ogni tre giorni in Italia una donna muore per la violenza maschile. Una statistica da brivido
di Federica Fantozzi


1 milione di donne ha subito violenza; 126 sono state uccise
6,5 milioni di donne hanno subito almeno una volta forme di violenza fisica o sessuale
25 novembre, questa la data scelta come giornata mondiale contro la violenza sulle donne
14 milioni le donne che, a causa di una situazione familiare o sociale negativa, rischierebbero la salute e spesso la vita stessa. Infatti, nella maggior parte dei casi, le violenze culminano con la morte della donna oggetto delle negative attenzioni.
69,7% degli stupri avviene ad opera del partner o di un familiare. Nella stragrande maggioranza dei casi non viene denunciato

Stieg Larsson li chiamerebbe “Uomini che rispettano le donne”. Sono i promotori di un appello contro la violenza lanciato nella tragica estate 2006 di Hina, la giovane pakistana uccisa dal padre a Brescia, e rimodulato sulla cronaca recente. Tra le firme Goffredo Fofi e Gad Lerner, Giacomo Marramao e Nanni Balestrini, Piero Fassino e Franco Giordano. La segretaria generale della Cgil Tessile Valeria Fedeli ha chiesto al sindacato nazionale di sottoscriverlo. Il sindaco e la giunta di Sesto San Giovanni lo hanno fatto proprio e proposto a tutti i cittadini maschili.
Dietro c’è l’associazione Maschile Plurale, nata un anno fa per «reinventare l’identità maschile e la mascolinità» sforzandosi di avvicinare Marte a Venere. Una mosca bianca, nel mare magnum delle organizzazioni anti-violenza, che senza dubbio piacerebbe allo scrittore svedese, autore del best seller «Uomini che odiano le donne».

Singoli e gruppi al maschile che nel tempo hanno costruito una rete a livello locale, tra amicizia e idee comuni, e poi hanno giudicato i tempi maturi per emergere con un «progetto sociale». Significativo il testo: è «giunto il momento di una presa di parola pubblica e assunzione di responsabilità da parte maschile». Di qui sedute di autocoscienza collettive, iniziative politiche, presentazioni culturali, un appuntamento nazionale a Pinerolo il 21-22 marzo.
Non sono numeri enormi: un centinaio gli iscritti, un migliaio le firme, molti più simpatizzanti e internauti. Racconta Alberto, da Genova: «L’appello ci ha fatto vedere una realtà più grande di quanto immaginassimo di uomini su questa posizione». Ora hanno uno strumento per condividerla. Conferma Gianguido Palumbo, uno dei fondatori: «C’è stato un tam tam. Il sollievo di poter confrontare dubbi, riflessioni, modi di vita». Capita, come racconta Alberto, di uomini che «usufruendo di questa piccola comunità siano riusciti a incanalare una tendenza alla violenza che sentivano dentro di sé, senza venire condannati». Ma se è ben accetta la curiosità (che soprattutto è femminile), Palumbo mette in guardia dal «voyeurismo»: «Una trasmissione televisiva ci ha chiesto di filmare un incontro di autocoscienza maschile. Li abbiamo mandati al diavolo».
Palumbo fornisce un identikit degli aderenti. Età: dai 40 ai 60, maggioranza over 50. «Siamo non dico reduci ma militanti di una sensibilità sociale che ha fatto gli Anni ‘70». Generazioni toccate dal femminismo: non pervenuti ragazzi di oggi. Professioni varie: insegnanti, professionisti, impiegati, pensionati, qualche operaio. Credenti e non, etero e omosessuali. Pochi militanti o iscritti a partiti, tutti di sinistra. Dal Pd agli attuali extraparlamentari: «Nessuno di destra e c’è un motivo. La politica è anzitutto cultura. Il rapporto con il mondo attraverso l’identità sessuale fa parte integrante di te e conduce a una certa militanza. Un associato di An mi farebbe piacere, ma sarebbe in crisi con la sua tradizione».
Omogeneità territoriale: da Nord a Sud. A Torino c’è «Il cerchio degli uomini», con attività teatrali e «lavoro sul corpo». A Pinerolo «Uomini in cammino», comunità di cattolici di base gestita da Beppe Pavan, ex prete poi sposatosi, ex operaio. A Roma e Bologna le presenze più strutturate. A Ragusa è nato il nucleo «Non più sole».
Orazio Leggiero fa parte di «Uomini in gioco»: da 7 anni si incontrano tra Bari e Monopoli, a casa dell’uno o dell’altro. «Ci vediamo 4 volte al mese - racconta - E scegliamo il tema da affrontare a livello emozionale, perché è lì che noi siamo carenti. Parliamo del rapporto con i genitori, i figli, la violenza in generale». Perché un gruppo maschile si incontra per dibattere un problema non suo? «Non vogliamo scimmiottare le femministe, ma si deve partire dal proprio vissuto di genere». Gli amici vi prendono per matti o vi invidiano? «Avvertiamo un certo disagio, interesse inconfessato. Ma spesso si uniscono a noi. C’è sofferenza diffusa».
Per un fenomeno in riemersione, che sia «quantitativa o culturale»: «Ormai - si legge nell’appello - opinione pubblica e senso comune non tollerano più la prevaricazione maschile». Tantomeno se l’”allarme straniero” serve a rimuovere gli stessi comportamenti «di noi maschi occidentali». Massimo Greco, caposala al Policlinico di Tor Vergata, ha gestito un corso di formazione per infermieri che si relazionino con vittime di abusi. 60 iscritti. Il punto: «Le ricerche mostrano che gli operatori sanitari a volte non capiscono il problema della donna, o scattano stereotipi del tipo “guarda come era vestita”». Si impara a individuare una vittima che ha paura di denunciare: lesioni da difesa, come il livido della presa di mani o tagli sulle braccia, i movimenti, il silenzio. Visti dalle ambulanze, i maltrattamenti crescono? «Cresce il coraggio di andare in ospedale. Tante donne non sanno che anche nel matrimonio può esserci stupro che richiede il medico». L’interrogativo finale è perché uomini rispettosi delle donne sentano il bisogno di impegnarsi in prima linea: «Noi non abbiamo mai alzato le mani - dice Leggiero - Ma questo non ci assolve del tutto». È il senso di colpa maschile? «Direi introiettato nel profondo. C’è una colpa collettiva di cui dobbiamo farci in parte carico».

l’Unità 3.2.09
Combattiamo l’idea della donna-preda
di Abdon Alinovi


I comuni assumano le difese delle cittadine offese e umiliate
Così lo spirito pubblico sarebbe chiamato a proteggere le vittime
Non si tratta di inasprire le pene ma di ridurre le attenuanti

La sequenza degli stupri che affligge il bel Paese registra un picco alto, dal Capodanno e nella stessa Capitale. Si è aggiunto il caso clamoroso di Guidonia ed ora quello nel piacentino, dove gli autori dell'odioso delitto sono stati due branchi di giovani di nazionalità romena. A Guidonia la giusta indignazione popolare rischiava di finire in un linciaggio senza la robusta tenuta dei carabinieri. È legittimo il dubbio che allo sdegno si sia mescolata l'ostilità xenofoba. Resta la necessità di riflettere sopra un delitto che si è diffuso senza confronto con il passato per numero e frequenza. Certo, il delitto si inscrive nel grosso capitolo della violenza contro la donna. L'allarme della stampa è giustificato. Si deve insistere non solo con l'informazione ma con l'impegno volto alla formazione di un'opinione pubblica che sappia valutare i rischi gravi di regressione culturale e morale.
Considero tuttora emblematica la vicenda complessa e sconcertante della ragazza di Montalto di Castro. Nel marzo 2007, una sedicenne uscita dalla discoteca del paese per rincasare fu assalita e violentata sulla strada da otto giovanotti, sortiti dallo stesso locale. Le cronache registrarono marginalmente il caso. Ma il clamore fu suscitato dall'incredibile deliberazione del Comune che elargiva trenta mila euro, su richiesta delle otto mamme, per la difesa degli imputati in una "faccenda più grande di loro" (parole del Sindaco). La protesta si levò alta, ma tutta al femminile, ed alcune parlamentari chiesero le dimissioni di quel Sindaco. Questi, nel riferirsi ad Anna Finocchiaro, la apostrofò pubblicamente con le parole: "...talebana del...". Il pressing di un personaggio altolocato del suo partito lo indusse alla revoca e ad un'untuosa, ipocrita autocritica che, invece, si rivelò un'autoaccusa. Si ricompose, comunque, il coro del consenso paesano. Fu archiviata "l'imprudenza", la "scivolata". Quella rozza reazione aveva rivelato una precisa mentalità: la Finocchiaro si era "impicciata di una ragazzotta di poco conto" solo per fanatismo femministico, senza tener conto, per dirlo con le parole dei predatori, che "...aveva provocato con la sua minigonna nera e poi era ubriaca...", aggiungendo così alla selvaggia violenza altre turpi offese. Solitaria, al maschile, si levò su questo giornale la mia protesta: la vittima era stata trascurata. Immaginai che la sventurata ragazza fosse figlia di uno dei miei figli e questo mi aiutò a capire. Evocai anche il nome di Luigi Petroselli che era stato animatore di lotte civili ed aveva portato in alto il nome di Montalto, prima di ascendere in Campidoglio. In suo nome chiesi a vari enti misure riparatrici. Invano. Ecco perché sui casi recenti di Roma e del Lazio non mi sembra che l'accento vada posto sulla pubblica sicurezza. Ad Alemanno occorre chiedere un atto di coraggio civile; il Comune assuma la difesa delle cittadine colpite, anche in nome della dignità e civiltà della Capitale. Sarebbe un segnale forte. Lo spirito pubblico sarebbe chiamato a proteggere le vittime, a condannare la concezione della donna-oggetto, la donna- preda. Questo è il punto dolente. La frivolezza del Grande Deviatore nei confronti dell'universo femminile fa tutt'uno con la sua rozza ironia: "...un soldato per ogni bella ragazza...?". Parole che rivelano la mentalità partecipe della subcultura comune: " l'uomo cacciatore per natura...e per natura la donna bella provoca, deve dunque sapersi guardare da sé...". Cioè, deve rinunciare alla rischiosa minigonna, all'allegria in discoteca....
In Parlamento, finalmente, pare ci si muova. Non si tratta tanto di inasprire le pene, quanto piuttosto di restringere le maglie sulle attenuanti. Inoltre, occorrerebbe migliorare la normativa, determinando l'obbligatorietà della cura e dell'assistenza alla vittima da parte degli enti pubblici competenti. La delibera revocata nel Comune di Montalto di Castro non deve essere neppure ipotizzabile perché antigiuridica; al contrario, occorre obbligare l'ente locale ad attuare i provvedimenti necessari per la possibile riparazione del danno materiale e morale. Persone esperte, per il patimento subito o per competenza scientifica, affermano che il trauma agisce in tutto il corso della vita della donna, anche con possibilità di disabilità in alcune funzioni.
Più in generale, occorrerebbe una svolta culturale in tutta la società, per suscitare una concezione universale di gioiosa limpidezza e naturalità nel rapporto uomo-donna.

l’Unità 3.2.09
Veltroni e la “soglia”: «Andiamo avanti senza incertezze»
di Bruno Miserendino


Anche i segretari regionali favorevoli allo sbarramento al 4%
Ma la vicenda è diventata il paradigma del Pd nell’attuale fase
E adesso occhi puntati sulla conferenza programmatica
Ai segretari regionali Veltroni ha confermato che sulla soglia della discordia «si andrà avanti senza tentennamenti». Si ascolterà, si discuterà, «ma non si può tornare indietro». E Franceschini che già s’era arrabbiato per i distinguo delle ultime ore, aprendo la riunione, ha ribadito che questa vicenda dello sbarramento è «uno spartiacque». Insomma se si fa la riforma è un successo del Pd e del paese, non il risultato di un inciucio. Perchè quella proposta «è coerente con l’idea di semplificazione del quadro politico che il Pd ha sempre perseguito, tornare indietro adesso non è possibile», ha ripetuto anche il numero due del Pd. In sostanza la vicenda è diventata il paradigma del Pd in questa tormentata fase. Il rischio è la paralisi, l’impossibilità di mandare avanti una linea, e Veltroni non può permetterselo: «Così - va dicendo anche pubblicamente - non fanno male solo a me, lo fanno al Pd». Il problema non è che qualcuno esprima idee diverse o consigli, come li chiama D’Alema, ma che il tutto dia un’immagine di divisione e di inadeguatezza.
Per la verità l’offensiva scatenata sul tema sbarramento dai critici interni di Veltroni, da D’Alema a Letta, sta perdendo quota e si è capito ieri dal tenore del dibattito successivo alle comunicazioni di Franceschini. I segretari regionali, che hanno il polso degli umori della gente e dei militanti, hanno espresso fastidio per questo nuovo caso all’interno del Pd. «Discussione inutile», l’hanno bollata in molti, compresi uomini come Minniti e Martina che veltroniani non sono. Come dire che questa decisione di andare alla riforma con lo sbarramento non doveva essere messa in discussione all’interno del Pd, perchè gli elettori e i simpatizzanti non capiscono, come dimostrano anche i sondaggi. Dice il capogruppo alla Camera Antonello Soro: «l’accordo corrisponde a una indicazione che tutti abbiamo dato e a un orientamento condiviso dagli italiani e anche da una larga parte degli elettori della sinistra radicale».
La sfida di autunno Perché allora tanti distinguo postumi dopo che tutti i «big» avevano dato il via libera a Franceschini a trattare con la Pdl? La spiegazione, secondo i veltroniani, ma non solo, è che ormai - come dice Giorgio Merlo - ogni argomento è buono «per logorare la leadership, per creare problemi alla gestione politica di Veltroni». O meglio: ci sono idee diverse sul futuro del Pd, la sua identità, e anche la leadership, solo che non c’è ancora una compiuta piattaforma alternativa. La chiarificazione vera arriverà al congresso dopo le europee. Per ora Veltroni, anche rispondendo alle sollecitazioni della base, vuole andare dritto per la sua strada. Negli ultimi giorni qualcosa ha incassato: la fine delle ostilità sulla soglia, il caso Villari, le primarie toscane che hanno dimostrato quanto il popolo del Pd sia più avanti di tanti bizantinismi al vertice. Alla conferenza programmatica di aprile invece, l’idea è di discutere di temi concreti: ambiente, economia, Europa, identità del partito, cultura. Non è escluso che siano chiamate a collaborare personalità esterne al Pd. La fondazione Italianieuropei di D’Alema fornirà il suo contributo sul tema Europa.

l’Unità 3.2.09
Legge elettorale. Quella soglia per l’Europa
di Gianfranco Pasquino


In poco più della metà degli Stati-membri dell’Unione Europea esistono leggi per l’elezione del Parlamento europeo che contengono soglie percentuali (dal 3 al 5 per cento) per ottenere seggi. Spesso, quelle leggi sono la logica prosecuzione di leggi simili già da tempo utilizzate per l’elezione dei rispettivi parlamenti nazionali. In poco meno della metà degli Stati-membri gli elettorati hanno la possibilità di usare uno o più voti di preferenza fra le candidature della lista partitica che prescelgono. Questa sinteticissima ricognizione, non effettuata da Eugenio Scalfari che, quindi, sbaglia nel dire che dappertutto esistono soglie di sbarramento e da nessuna parte le preferenze, approda ad una limpida conclusione. L’unico elemento comune alle leggi vigenti nei singoli Stati-membri è l’esistenza, persino in Gran Bretagna, che ha dovuto rinunciare al suo sistema maggioritario in collegi uninominali, di leggi proporzionali sostanzialmente imposte dalla “armonizzazione” voluta tempo fa dalla Commissione Europea. Dopodiché i gruppi parlamentari nel Parlamento europeo sono abbastanza numerosi, all’incirca sette, e completamente omogenei al loro interno. Credo che l'esistenza di una qualche frammentazione a livello di Parlamento europeo sia persino opportuna. Privo di qualsiasi funzione di governo, ma non del tutto di potere sulla scelta e sulla vita della squadra di governo, ovvero della Commissione, il Parlamento deve cercare di essere assolutamente rappresentativo dei cittadini dell'Europa. Deve essere inclusivo al massimo, consentendo accesso alla sua tribuna ad un’ampia pluralità di voci, di idee, di visioni che, anche nel dissenso, potrebbero contribuire a fare crescere l’unificazione politica attraverso il confronto fra diversità. L’eventuale decisione italiana di porre una soglia del 4 per cento per l’accesso al Parlamento europeo, soglia già esistente per la Camera dei deputati, non risponde a nessuna richiesta europea. È discrezionale e, come tale, può essere criticata poiché, a bocce ferme, comporta la probabile esclusione dei rappresentanti di molti piccoli partiti di sinistra (“nanetti” nella memorabile espressione di Giovanni Sartori). Non è, però, una soglia invalicabile se alcuni di quei nanetti decidessero di procedere a dare vita non a improvvisati cartelli elettorali, ma a forme di aggregazione politica giustificate da un progetto incentrato sull’Europa. Quella soglia, più o meno discutibile, non è, di per sé, liberticida, ma è sicuramente funzionale ad evitare smottamenti sia del Popolo della Libertà sia del Partito Democratico. Potrebbe anche diventare funzionale per la sinistra in Italia se sapesse coagularsi intorno ad una piattaforma condivisa che rappresentasse, non gli interessi del suo ceto politico, ma quelli degli elettori che non si riconoscono nell’attuale claudicante bipolarismo.

Liberazione 3.2.09
«Opposizione, per guardare un po' più in là del nostro ombelico»
di Piero Di Siena


Tre mesi dopo la manifestazione dell'11 ottobre - quella che sancì il primo, timido risveglio dell'opposizione dopo lo «schiaffo» elettorale - la sinistra fa il punto. Così, un lunghissimo elenco di intellettuali, di dirigenti, di semplici militanti ha buttato giù un lungo documento - s'intitola «ritorno al futuro» -, una sorta di manifesto che potrebbe offrire gli strumenti all'opposizione per combattere la crisi. Ne parliamo con Piero Di Siena, fra i firmatari dell'appello, presidente dell'Associazione per il Rinnovamento della Sinistra.
Allora Di Siena, credi che un documento come quello di cui stiamo parlando, sottoscritto da tutta la sinistra - ma proprio tutta tutta - possa davvero essere uno strumento per superare l'empasse di questi mesi?
Anche in questa situazione, così difficile, credo che l'unica chance che abbiamo sia quella di ripartire dai problemi. Dai problemi reali. E credo che il documento sia importante da questo punto di vista.
Perché? Cosa vedi di così nuovo in quel documento?
In quell'analisi, ma soprattutto in quelle proposte, vedo la possibilità di costruire una vera convergenza contro il governo della destra. E se mi permetti, ci vedo una possibilità di superare i limiti che si sono manifestati in questi mesi post-sconfitta...
In pillole: come definiresti quei limiti?
Credo che sia sotto gli occhi di tutti che dopo il disastro, tutte le varie parti che compongono la sinistra abbiano commesso lo stesso errore: voler ripartire da sè.
Cosa intendi quando parli di tutti i pezzi della sinistra?
Parlo di tutti. Sia di chi, come me, pensa sia giusto e irrimandabile la costruzione di un nuovo soggetto ampio e plurale della sinistra, sia chi ritiene prioritario ricostruire la propria identità. Tutti però ci siamo comportati in modo autoreferenziale. Dimenticandoci che anche in questa fase abbiamo dei compiti rispetto al paese. Ecco perché dico che quel documento è importante: disegna un'azione politica comune, fa da base al rilancio delle battaglie di opposizione.
Opposizione che non potrà più essere solo contro il governo delle destre, visto che su alcuni temi Berlusconi può contare sul sostegno del piddì. Non è così?
L'opposizione deve partire dai bisogni del paese. Che oggi, su questo sono d'accordo, sono stretti fra le politiche della destra, che sono inadeguate rispetto a tutti gli altri paesi, compresi quelli dove sono al governo i conservatori, e il piddì. Che oscilla fra altisonanti dichiarazioni di contrapposizione a Berlusconi e una tentazione, sempre più forte, di cedere al consociativismo. Un piddì che ha scelto di isolare la Cgil....
Già, perché Veltroni ha scelto di rompere col vecchio «bacino di utenza» del Pds?
Ha fatto una scelta di campo, precisa. Al sindacato non assegna più il ruolo di tutela del lavoro ma lo vuole subalterno ed integrato. Esattamente il modello neocorporativo della Cisl. Veltroni ha scelto Bonanni, insomma.
Parlavi dell'opposizione.
Ce n'è bisogno. Opposizione che certo non può essere rappresentata da un partito come quello di Di Pietro, che magari contesta il premier su alcuni temi ma tralascia intenzionalmente qualsiasi cosa riguardi gli aspetti sociali. No, sono convinto che la drammaticità della crisi imponga una presenza della sinistra.
Che dovrà dire cosa?
Esattamente quello che è enunciato nel manifesto. Che si riparte dalla difesa del lavoro, che si chiede il blocco dei licenziamenti. Che si comincia a impostare una nuova idea di politiche industriali. Pensa al passaggio dedicato al settore dell'auto, la madre di ogni riforma dell'assetto industriale, che credo sia uno dei più innovativi del manifesto. Ecco, lì, in quelle frasi, si delinea chiaramente un diverso rapporto fra modello di sviluppo e ambiente, che può essere la cifra di una nuova sinistra.
Ma tutto ciò, i firmatari di questo documento, la sinistra, insomma, devono comunque fare i conti con un nodo: fra quattro mesi si vota.
Come la penso è noto. Credo che sia opportuno che la sinistra, tanto più dopo aver trovato una convergenza sul che fare, possa e debba trovare la strada per presentarsi assieme alle europee. Detto questo, sono però rispettosissimo di cosa deciderà ogni singola forza. Di più: credo che qualunque cosa si pensi sul futuro, sul futuro della propria organizzazione, credo che oggi ci sia la necessità di convergere per provare a ridar voce alle vittime di un disastro economico. dal quale si vorrebbe uscire rimettendo in piedi gli stessi meccanismi che l'hanno provocato.
Non ti affascina, dunque, l'idea del Manifesto di «saltare un giro»? Non ti piace la proposta di disertare, per una volta, il turno elettorale?
No, non mi piace affatto. Io la penso esattamente come la Rossanda. Voglio una sinistra che ci sia, nel paese e nelle istituzioni.

Liberazione 3.2.09
Troppa apologia sulla storia del Pci? Polemica e dibattito dopo la ricorrenza del 21 gennaio
Il comunismo serve ancora?
di Franco Russo


Il 21 gennaio dovrebbe essere l'occasione di riflessioni sulla nascita del PdCI, e non quella per inni incensatori che semplificano la storia dei movimenti politico-sociali. Lascio agli storici la narrazione e i giudizi sulle vicende del Pci, della sua attività clandestina, della lotta antifascista, del rapporto con Stalin e le sue politiche concentrazionarie e totalitarie (per riprendere parole di Victor Serge). Occorre abbandonare atteggiamenti apologetici volti a perpetuare il mito dell'eccezionalità e della diversità dei comunisti, come se la storia delle sinistre e dei movimenti rivoluzionari si esaurissero in quella della Terza Internazionale.
Mi ha colpito una frase di Ferrero: senza il comunismo l'innovazione è occhettismo. Penso che l'occhettismo fosse invece nel dna del Pci e che ci sono positive innovazioni culturali e politiche che sono state, e rimangono fuori dell'orizzonte del Pci, e del comunismo. Anzi, se non ci fossero state queste rotture con il passato comunista oggi nel mondo non si potrebbe parlare di anticapitalismo, dato che i partiti comunisti o guidano i processi di instaurazione del capitalismo, come in Cina, o sono ridotti a gruppi di nostalgici - a volte con risvolti reazionari (come nella Russia di Putin).
Davvero il Pci è stato motore di trasformazione? Il partito di massa di Togliatti ha davvero cambiato il mondo? L'elaborazione delle vie nazionali al socialismo, il policentrismo dopo il '56, il dialogo con le gerarchie cattoliche, le alleanze con i ceti medi sono stati l'espressione del contributo del Pci al processo di modernizzazione del capitalismo italiano, le cui compatibilità sono state sempre assunte come vincoli. Il centralismo democratico è stato il modo per impedire l'emergere del dissenso, e soprattutto per centralizzare i processi decisionali in tutti gli organismi sindacali o associativi, per farne cinghie di trasmissione del partito. Quando si avviò la stagione del centro-sinistra, il Pci non lo contrastò per la sua impronta di cauto riformismo e di cooptazione subalterna di nuove forze sociali nel governo: Togliatti voleva solo condizionare il centro-sinistra e divenirne parte.
Il governo, non la trasformazione socialista, è stato sempre l'orizzonte del Pci. Per questo esso ha sostenuto, anche in ritardo rispetto al Psi, le scelte strategiche della Dc: ha avallato la Nato e ha accettato supinamente la Cee, l'europeismo delle classi capitalistiche.
Per questa dinamica "governista" Berlinguer coniò il sintagma del "compromesso storico", partecipò alla gestione dell'emergenza nazionale negli anni Settanta, e per autonomizzarsi dall'Urss di Breznev inventò la terza via dell'eurocomunismo. Il Pci condivise con la Dc un duopolio: a lui il monopolio dell'opposizione, alla Dc quello del governo. La pulsione del Pci verso la Dc ha radici antiche, nell'ideologia che i due partiti essendo di massa potevano e dovevano incontrarsi. Quella dinamica portò il Pci alla contrapposizione verso il movimento degli operai e degli studenti nel biennio rosso del '68-69. In tutti gli anni della protesta popolare e proletaria - da Genova del luglio '60 a Piazza dello Statuto, all'abbattimento della statua del conte Marzotto nel 1968 - il Pci ha sempre praticato una politica di contenimento e canalizzazione, insomma di "normalizzazione" delle lotte, che gli consentirono le grandi avanzate elettorali. Le lotte, non il Pci, furono la base delle "grandi riforme", dalle pensioni allo Statuto dei lavoratori alla riforma sanitaria, che portano peraltro la firma parlamentare dei governi Dc-Psi. Dunque, anche sul piano riformatore il Pci non è stato il protagonista, anzi sui diritti civili fu molto guardingo fino al punto che con titubanza si schierò a difesa del divorzio e dell'aborto, per timore di incrinare il rapporto con le gerarchie cattoliche e con la Dc.
Con il movimento di lotta del '68 lo scontro fu frontale: gli studenti erano piccolo-borghesi ed espressione del sovversivismo delle classi dirigenti. L'apertura di Longo rientrava nella linea del controllo e dell'egemonia sui movimenti, che dovevano essere collaterali alla politica del partito. D'altronde mai il Pci ha concepito l'autonomia dei movimenti, tanto che la Cgil ha impiegato decenni per liberarsi, almeno formalmente, dalla tutela del Pci, che vedeva gli "organismi di massa" come strumenti di penetrazione e non di libera espressione di bisogni sociali e progetti politici. Questo intreccio tra società e partito, che tanto affascina Mario Tronti, è stata la base della potenza del Pci dimenticando che il prezzo di questo intreccio è stato il depotenziamento delle istanze di trasformazione dei movimenti di lotta.
Il crollo del socialismo reale ha comportato la fine dei partiti comunisti, e non vedo quali mattoni di quelle macerie possiamo ancora utilizzare per costruire la casa della sinistra anticapitalista, che fa dell'uguaglianza la leva della libertà delle persone.

Liberazione 3.2.09
Alle nostre spalle non ci sono solo macerie
Quel partito ha unito democrazia e anticapitalismo
di Giuseppe Chiarante


Nelle ricostruzioni storiografiche delle vicende del partito comunista italiano (mi riferisco, in questo intervento, non alla storiografia di orientamento comunista, ma a quella più dichiaratamente critica o ostile) sono generalmente prevalse due diverse linee interpretative fondamentali, che in molti casi si sono tra variamente intrecciate.
La prima linea è quella secondo la qule il Pci altro non sarebbe stato che la forma atipica e originale assunta nel nostro paese - a causa delle specificità della storia italiana e in particolare dei condizionamenti derivanti dalla più che ventennale lotta contro il fascismo - da quelli che negli altri paesi europei sono stati i grandi partiti socialdemocratici di massa. E' chiaro, secondo questa interpretazione, che la trasformazione in un partito socialdemocratico o liberaldemocratico con vocazione centrista, quale il Pds prima e il Pd oggi, sarebbe semplicemente l'esplicitazione - dopo la crisi culminata nella svolta della Bolognina e nella dissoluzione del Pci - di ciò che il comunismo italiano potenzialmente già era.
La seconda linea interpretativa è invece quella che vedeva e vede nel Pci un partito che, al di là delle apparenze, rimase saldamente ancorato alla tradizione terzinternazionalista: sarebbe cioè stato un partito di matrice leniniana e staliniana, costretto solo tatticamente, nelle condizioni interne e internazionali createsi dopo il '45, ad assumere le vesti democratiche un partito di opposizione di massa, simile ai partiti socialisti dell'Occidente. Ma il legame di fondo non sarebbe mai venuto meno: e questo fatto spiegherebbe perché la caduta del muro di Berlino e il crollo dei regimi di socialismo reale costruiti sul modello sovietico avrebbe inevitabilmente provocato la fine anche del Pci.
A queste due linee si sono aggiunte, dopo il 1989, quelle puramente demolitarie, dirette soprattutto a sostenere la necessità di voltar pagina rispetto alle macerie di un passato fatto di errori e di sconfitte. In questo quadro si colloca - mi pare di capire - anche il giudizio prospettato nell'articolo di Franco Russo, che la cortesia della redazione di Liberazione mi ha consentito di leggere in anteprima. Secondo questa valutazione l'obiettivo del governo sarebbe sempre stato il punto di riferimento fondamentale della politica del Pci: e avrebbe comportato per questo partito, alti prezzi politici e sociali, ben al di là della svolta di Salerno e dell'accettazione del governo Badoglio o dell'intesa con la Dc e i partiti moderati nella elaborazione della Costituzione: prezzi assai pesanti, in particolare, nel senso di un contenimento della lotta delle masse pur di consolidare il duopolio con la Dc nella direzione della democrazia postfascista. Il culmine di questa linea fallimentare sarebbe stato lo scontro frontale con il movimento di lotta del '68 e la normalizzazione delle lotte operaie e studentesche del "biennio rosso".
Ho già cercato di chiarire, nei due libri sulla storia del Pci dopo la caduta del fascismo che ho recentemente pubblicato (Tra De Gasperi e Togliatti. Memorie degli anni Cinquanta e Con Togliatti e con Berlinguer. Dal tramonto del centrismo al compromesso storico , entrambi pubblicati da Carocci) come queste diverse linee interpretative, tutte accomunate dalla visione di un Pci inchiodato a un ruolo subalterno (subalterno rispetto al modello sovietico o rispetto ai vincoli sociali e politici dell'Italia dopo il '45) non consentano di vedere quali furono realmente le caratteristiche fondamentali di quel partito e come e perché esso potè svolgere un ruolo determinante, certamente tutt'altro che secondario, sia nella rinascita nazionale e nello sviluppo della democrazia italiana nel postfascismo sia nel dibattito nel movimento operaio e comunista su scala mondiale e nella ricerca di nuove strade dopo la morte di Stalin. Al contrario la tesi che in questi libri ho enunciato - e mi pare - abbastanza fondatamente argomentato è che il ruolo costruttivo svolto dal Pci nella crescita sociale e civile dell'Italia e nel suo sviluppo democratico e l'eccezionale prestigio internazionale della sua leadership (particolarmente con Togliatti e con Berlinguer) non erano certamente dovute al caso o a una semplice abilità tattica ma si fondavano sul fatto che quel partito è stato - per gli aspetti teorici soprattutto nella riflessione di Gramsci e per gli aspetti politici soprattutto per l'opera, di Togliatti e di Berlinguer - la formazione politica che nel quadro del movimento comunista internazionale ha più consapevolmente saputo portare avanti, partendo dall'affermazione del valore universale del principio democratico, la critica delle contraddizioni e delle distorsioni del modello di società realizzato in Urss e nei paesi di "socialismo reale", senza per questo arretrare su posizioni subalterne all'ideologia capitalistica: ma cercando invece di fare i conti con i problemi e con le attese dei paesi di "capitalismo maturo", quale ormai era anche l'Italia, al fine di delineare e di dar corpo a un modello di sviluppo che si fondasse sulla pienezza della democrazia e fosse all'altezza dei problemi e delle domande a quelli che, nel linguaggio della tradizione marxista, venivano definiti "i punti più alti del sistema".
Significativo, al riguardo è il modo in cui il Pci affrontò la sfida nel riformismo di centro-sinistra, agli inizi degli anni sessanta. Era una sfida insidiosa perché mirava, superando le arretratezze della società italiana e riassorbendo attraverso una politica di riforme il malcontento popolare, a "tagliar l'erba sotto i piedi" all'opposizione comunista: ma il Pci evitò una posizione di chiusura e - secondo l'espressione di Togliatti - accettò quella sfida come "un terreno più avanzato di confronto", mirando a dimostrare che l'azione dei comunisti era diretta a dare ai bisogni e ai problemi della società italiana, una risposta qualitativamente più alta di quella rappresentata dalla modernizzazione capitalistica.
Quest'impostazione, che fu vincente nei confronti del centro-sinistra (ad esso e all'azione dei comunisti e del movimento sindacale, e non già a indistinti "movimenti di lotta", si devono le sole vere riforme introdotte in Italia alla fine di quel decennio e agli inizi del seguente, dalle pensioni allo statuto dei lavoratori, dalla generalizzazione dell'istruzione di base alla riforma sanitaria e psichiatrica e a quella del diritto di famiglia) fu ripresa dieci anni dopo da Enrico Berlinguer di fronte ai nuovi problemi degli anni Settanta. La tesi centrale della politica di Berlinguer fu, infatti, che i limiti, i conflitti, le contraddizioni del capitalismo si manifestavano ormai più sul terreno della qualità che su quello della quantità; e che il confronto con la nuova fase del capitalismo andava perciò affrontato proponendo un diverso modello di sviluppo, che fosse indirizzato più al soddisfacimento dei bisogni umani più ricchi (di creatività, di cultura, di solidarietà individuale e collettiva) e non già all'indefinita moltiplicazione della produzione di merci per rispondere a domande per lo più artificiosamente indotte). Uno sviluppo che, inoltre, si fondasse su un uso sobrio e razionale delle risorse, così da garantire l'equilibrio delle condizioni di vita sul pianeta e da assicurare una più equa distribuzione della ricchezza prodotta tra tutti gli individui e tutti i popoli.
Questa posizione rimane - a me pare - la risposta forse più avanzata che l'elaborazione del movimento comunista abbia saputo dare alla domanda di uno sviluppo autenticamente umano e civile e ai vincoli, sempre più pressanti, dell'equilibrio ecologico. Nel dire questo mi guardo bene dall'affermare che oggi, si tratterebbe, per superare la crisi in cui versa la sinistra italiana, semplicemente di riprendere i fili della riflessione avviata dal Pci negli ultimi decenni del secolo scorso. Non v'è dubbio che quel partito subì, alla fine, una dura sconfitta; e la subì perché non fu in grado di dare una risposta vincente ai nuovi problemi posti al movimento operaio dalla ristrutturazione e dalla mondializzazione capitalistica, il che consentì alla controffensiva conservatrice di imporre la propria egemonia ideologica (il liberismo, i vincoli del mercato, il decisionismo, la governabilità) anche a gran parte della sinistra.
Non v'è dubbio, però, che molte delle questioni rimaste allora irrisolte sono ancor oggi interrogativi con i quali la sinistra, se vuole andare avanti, è chiamata a confrontarsi.
Non è vero, perciò, che tornare a riflettere sul passato significa illudersi di trovare dei mattoni utili per una nuova costruzione, là dove, invece, ci sono solo macerie da abbandonare al più presto. E' vero invece che, nella storia, è sempre indispensabile fare i conti con il passato, e dunque, nel caso specifico, con l'esperienza del comunismo italiano: allo scopo di trarre, tanto dai risultati acquisiti come dagli errori compiuti, le possibili opportune indicazioni e soprattutto ai fini di misurarsi, sui problemi che sono ancora aperti, con la ricerca già avviata e con gli ostacoli che impedirono di portarla a buon esito. Se questo impegno manca, ha poco senso - se non quello di un'affermazione nominalistica, insistere nel ribadire la continuità con la tradizione del movimento operaio e comunista.

Liberazione 3.2.09
Un errore dare al Pci tutte le colpe
Ora non c'è più e il mondo non è migliore
di Alberto Burgio


Di solito chi a sinistra se la prende con la storia del comunismo butta a mare il cosiddetto «socialismo realizzato» (cominciando dall'Unione sovietica, che ne fu fondamento e metropoli) e cerca di salvare il resto: le idee, la storia delle lotte, l'esperienza di qualche partito comunista. Nella sua foga demolitrice, il compagno Franco Russo va oltre e non risparmia nulla e nessuno. Lo guida la ferma convinzione che il comunismo (in blocco: teoria e pratica politica) sia sinonimo di conservazione e repressione. E che, per contro, l'anticapitalismo sia appannaggio di posizioni culturali e politiche diverse dal comunismo. Che convinzioni del genere alberghino nella mente di un dirigente di Rifondazione comunista può forse sorprendere, ma è soltanto un piccolo indizio delle difficoltà in cui la sinistra di classe si dibatte. È sempre più difficile, di questi tempi, definire la propria cultura politica, collocare il proprio impegno, rintracciare i propri antecedenti. Anche questo è il portato di una sconfitta epocale.
Dunque la storia del comunismo lascia, secondo Russo, soltanto cumuli di «macerie». Non credo abbia ragione, né per l'Urss e il «socialismo reale», né, tanto meno, per il Pci, la demolizione del quale è il principale obiettivo della sua invettiva.
L'Unione sovietica nacque dal primo tentativo riuscito di costruire uno Stato diretto dal proletariato operaio e contadino. Le conseguenze di quell'evento rivoluzionario furono di immensa portata non solo per le popolazioni dell'ex Impero zarista, emancipate da condizioni di servaggio feudale, ma anche per le masse lavoratrici dei Paesi capitalistici (il welfare, le socialdemocrazie), per i popoli colonizzati, per le stesse democrazie occidentali, sfidate dal nazifascismo e salvate dalla vittoriosa resistenza dell'Armata Rossa. Dire questo non significa dimenticare la collettivizzazione forzata delle campagne, le purghe staliniane, il gulag, la repressione del dissenso, la degenerazione oligarchica dei gruppi dirigenti e delle tecnocrazie. Significa soltanto evitare bilanci monchi. Utili, forse, a costruire arringhe, ma non a capire la complessità degli accadimenti storici. Qualche giorno fa Lancet ha pubblicato i risultati di una ricerca sugli effetti sociali della vittoria del capitalismo nell'ex-Urss. Si parla di un aumento della mortalità del 12,8% tra il 1991 e il '94, cioè della morte di un milione di persone, alle quali era stato brutalmente tolto il lavoro e quanto in Unione sovietica era, bene o male, garantito a tutti: casa, assistenza sanitaria, vacanze, un'idea di sé e della propria funzione sociale. Anche se questa notizia disturba la critica «radicale» del «comunismo realizzato», bisognerebbe ugualmente tenerla presente nella formulazione dei propri giudizi.
Riguardo al Pci, l'unilateralità di Russo è disarmante. Per ciò che dice: tutta la storia del Pci gli pare inscritta dentro la cornice delle «compatibilità», scandita da un'ossessione autoritaria e normalizzatrice, irretita in un'ottica conservatrice, moderata e «governista», motivata da una incoercibile avversione nei confronti dei movimenti (quello studentesco nel '68 in primis, ma anche quello sindacale, che il Pci avrebbe sistematicamente tentato di ridurre a «cinghia di trasmissione»). È disarmante, questo bilancio, anche per ciò che omette: la resistenza al fascismo sino alla Liberazione; la Costituzione repubblicana; l'educazione delle masse lavoratrici alla partecipazione politica; le lotte contro Scelba, Tambroni e il neofascismo; il sostegno alle lotte bracciantili nel Mezzogiorno e alle lotte operaie per la democrazia in fabbrica negli anni Settanta. Una parte diventa il tutto, una storia lunga e complicata risulta appiattita in un'immagine astratta e fuori dal tempo.
Non ripeterò quanto ho appena osservato a proposito della dubbia utilità dei bilanci a senso unico. Piuttosto, meraviglia come Russo non si ponga una domanda inevitabile: come mai la fine dell'Urss e la liquidazione del Pci non hanno fatto fare all'Italia e al mondo intero un balzo in avanti verso quella libertà degli uguali che giustamente Russo considera meta da perseguire? Se i suoi giudizi cogliessero nel segno, in questi vent'anni avremmo assistito ovunque a trasformazioni progressive e questo Paese avrebbe percorso di slancio il cammino verso una compiuta democrazia. Come mai non è accaduto niente di tutto questo e invece ci lasciamo alle spalle un ventennio di guerre di inaudita e crescente violenza; continue violazioni del diritto internazionale; la devastazione dello Stato costituzionale; l'esasperazione delle ingiustizie sociali; l'immiserimento delle masse subalterne, il supersfruttamento del lavoro subordinato? E come mai dai primi anni Novanta questo Paese è venuto via via cancellando i diritti del lavoro e svuotando di senso la Carta costituzionale? Come mai ha radicalizzato le ineguaglianze, dilapidato il pluralismo politico, compromesso la libertà di informazione, riabilitato il fascismo, seminato i germi di un nuovo razzismo?
Intendiamoci. Nessuno nega che tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta nel Pci si siano verificati processi degenerativi, dei quali peraltro lo stesso Berlinguer ebbe chiara e angosciata coscienza. Ha ragione Russo: l'occhettismo non nacque dal nulla e all'improvviso. Ma non è vero che esso figurasse nel patrimonio genetico del Pci. Fu invece il frutto maturo di una mutazione che trasformò radicalmente parte del gruppo dirigente. Questa è una storia che attende ancora di essere scritta e che ci porta dritto sino a noi. Una storia che parla di congedo dal mondo del lavoro e dal conflitto di classe. Di caduta della tensione critica. Di rinuncia all'impegno trasformativo. Di omologazione e di opportunismo e di subalternità culturale al capitale. Ma appunto: questa fu la fine del Pci, non la storia del Pci.
D'altra parte, non è proprio il caso di concedersi infantili autoassoluzioni. Se la sinistra italiana è in questo disastro, non c'è nessuno che possa chiamarsi fuori, addossando ogni responsabilità, inadeguatezza o errore agli altri: agli eterni padri, con i quali i conti restano ancora aperti dopo quarant'anni e nutrono inestinguibili risentimenti. La sconfitta è di tutti e raccomanda a ciascuno modestia e serietà. Quella meta che Russo addita - l'uguaglianza dei liberi, la libertà degli eguali - non è chiaro a nessuno come conseguirla. Di certo non consente le evasioni utopiche care al pensiero libertario. Pone, al contrario, i problemi dell'organizzazione, del potere e del comando. E impone di fare duramente i conti con il modo di produzione, radice ultima del dominio e dell'ineguaglianza.
Sostiene il compagno Russo che l'anticapitalismo non sia affare dei comunisti. È un punto di vista singolare, che meriterebbe di essere illustrato nel dettaglio. Sarebbe interessante conoscerne i presupposti che - immagino - ispirano una così implacabile requisitoria anticomunista. Chissà che non scopriremo finalmente, a vent'anni dalla caduta del Muro di Berlino, una nuova direzione di marcia per le nostre battaglie. Mi permetto soltanto di segnalare un rischio. Chi, in cerca del nuovo, getta alle ortiche l'eredità della storia, si ritrova il più delle volte al punto di partenza, come nel vecchio giuoco dell'oca. Ce lo ricordano altri compagni, sino a ieri con noi, tornati proprio in questi giorni a invocare la nascita di un partito post-comunista dalemiano dopo la «parentesi» di Rifondazione. «Heri dicebamus»… a proposito di risorgente, o mai estinto, occhettismo.

Repubblica 3.2.09
Il ventre molle. Perdere la dignità
L’ex presidente della Camera accusa la cattiva globalizzazione: "Episodi del genere possono ripetersi"
Bertinotti: "È una guerra fra poveri serve un Piano europeo del lavoro"
di Alessandra Longo


Nella recessione, con il sindacato e la politica fuori gioco, l´operaio è diventato il ventre molle nelle mani della impresa e del mercato
Quando il lavoro diventa una merce rara, perderlo significa perdere dignità sociale. È una gara per la vita che produce barbarie

ROMA - Quel che succede in Inghilterra, è figlio della «cattiva globalizzazione», «della deriva liberista assunta dalle istituzioni europee», della «crisi del tessuto sociale», della solitudine degli operai, prima usati «come arma» per una «competizione al ribasso», poi, adesso, con la recessione, scaricati nel nome «della ristrutturazione dell´apparato produttivo». Fausto Bertinotti ragiona sulla protesta dei lavoratori inglesi del Lincolnshire contro i colleghi italiani. «Una lotta orribile - dice - che va condannata in radice - ma le cui ragioni ci obbligano a riflettere perché la tragedia è duplice, per chi subisce e per chi produce l´intimidazione». Per l´ex presidente della Camera c´è il rischio che episodi del genere possano ripetersi, «in una sorta di guerra civile latente». «Per questo andrebbe ripensata radicalmente la Costituzione materiale europea e ci vorrebbe subito, in Europa, un Piano del lavoro».
Presidente, perché questa guerra tra poveri?
«Perché succede così quando c´è penuria di lavoro, quando il lavoro diventa una merce rara e perderlo significa perdere cittadinanza, dignità sociale. E´ una competizione per la vita e per la morte e produce barbarie. Lo stupore di molti nasce da un deficit di memoria. Fatti del genere contrassegnano la storia dell´industrializzazione europea. In Francia, alla fine dell´800, ci fu una strage di operai italiani, linciati perché considerati crumiri...».
Ma adesso c´è l´Europa.
«Sì e noi continuiamo ad essere abbagliati dai primi gloriosi 30 anni dell´Europa, quelli della ricostruzione dell´unità dei lavoratori, dello stato sociale, del riconoscimento del ruolo del lavoro nelle costituzioni democratiche. E finiamo per non ricordarci cosa sono gli ingloriosi 30 anni successivi. La protesta degli inglesi non nasce dal nulla, si è prodotto un vulnus».
Ce l´ha con la globalizzazione?
«Con la cattiva globalizzazione. Ce l´ho con chi pensava che la globalizzazione potesse essere generatrice di una nuova leva di diritti disconnessi dal lavoro. Ce l´ho con la direttiva Bolkestein che non promuove la libera circolazione dei lavoratori ma produce dumping sociale, estende il contratto di lavoro rumeno anche in Italia».
Lei dice in sostanza: gli inglesi sbagliano ma il malessere nasce dalle mancate risposte...
«La classe dirigente europea ha una responsabilità storica in materia di lavoro. C´è stata una contrazione di diritti, un rovesciamento dei principi alla base delle Costituzioni democratiche, penso a quella francese, a quella italiana. Ogni lavoratore è rimasto solo, prima l´hanno fatto correre come una lepre nel nome della crescita, bassi salari e alta flessibilità, poi, nella fase della recessione, con il sindacato e la politica fuori gioco, con il tramonto della coscienza di classe e del movimento operaio, è diventato il ventre molle da comprimere, nelle mani dell´impresa e del mercato».
Ecco che si arriva alla guerra tra poveri.
«Nel caso degli inglesi, più che di razzismo parlerei di un nazionalismo concorrenziale che nasce dalla paura. Un peccato che, comunque, non può essere assolto».
Dicono: prima noi, poi gli altri.
«Sbagliano. Il primo lo sceglie comunque il sistema ed è quello che gli conviene di più, quasi mai quello che ha più bisogno».
E da dove si parte allora?
«Non c´è verso. Si deve partire dai bisogni dell´ultimo. La parola d´ordine rimane sempre: «Piena e buona occupazione». Senza questo orizzonte non c´è civiltà»
Lei dipinge uno scenario pesante. Non pensa che la sinistra radicale europea abbia fatto una campagna antipatizzante nei confronti della globalizzazione producendo eccessiva diffidenza?
«Niente affatto. Io sono per l´internazionalizzazione del lavoro. La battaglia contro la Bolkestein è stata una battaglia contro la cattiva globalizzazione. Quel che succede oggi dimostra la miopia dei dirigenti europei. Solo poco tempo fa chiunque parlasse di nazionalizzazione delle banche e grandi interventi pubblici nell´economia veniva accolto da sorrisi ironici. Adesso bisognerebbe cogliere la lezione che viene da questo smacco. Adesso bisognerebbe fare subito un Piano del lavoro in Europa per non dover mai scegliere, in futuro, tra l´operaio inglese e quello italiano».

Corriere della Sera 3.2.09
«Liberazione sbaglia» Vendola e Sansonetti schierati con Walter
di Al. T.


ROMA — Accantonata momentaneamente l'ossessione antiberlusconiana, l'incarnazione del Nemico per Rifondazione ha il volto non troppo pacioso di Walter Veltroni, incorniciato in un poster pubblicato da Liberazione nel quale viene additato come l'individuo che vuole «emarginare la Cgil» e che «si è accordato con Berlusconi «per distruggere la sinistra». «Manifesti incivili e pericolosi — attacca Giorgio Tonini —. Quando la polemica arriva a trasformarsi in un manifesto contro un leader, indicato come un nemico, il confine è passato — dice Tonini —.
Sono attacchi personali violenti e strumentali, indegni del Prc». Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione, non la pensa così: «Non abbiamo indicato Veltroni come un nemico. La critica è il sale della democrazia».
L'accordo per tenere la soglia di sbarramento al 4 per cento, per le Europee, è visto come un modo per approfittare delle divisioni della sinistra, condannandola alla scomparsa. Per questo, contesta Manuela Palermi, direttore di «Rinascita», «è Veltroni che ha individuato in noi un nemico, non il contrario». Ma l'antiveltronismo non sembra essere un collante per tutti. Nichi Vendola, leader degli scissionisti, è contro lo sbarramento: «È un segnale inquietante, ingiustificabile in un Parlamento dove non conta la governabilità ». C'è un ma, nel ragionamento di Vendola: «Dobbiamo contrastare la deriva moderata di Veltroni, ma dobbiamo farlo sul piano sociale, culturale e politico. Non in questo modo grezzo. Mi angoscia combattere la destra attraverso la personalizzazione antiberlusconi, tanto più farlo contro Veltroni». Non è un caso che il Nemico ora sia lui: «È un vizietto antico della sinistra. La smania di avere un nemico, di dargli un volto e un nome e di sceglierselo tra chi è più vicino». Piero Sansonetti, ex direttore di Liberazione, è ironico: «Sono arrivati un po' tardi. Noi già un anno e mezzo fa inventammo il
Veltrusconi e Claudio Grassi ci scrisse per contestare. Allora mi accusavano di antiveltronismo». E ora? «Ora Veltroni non è il nemico principale. La destra dilaga, afferma la sua idea di società: qualcuno farebbe bene a farsi venire una mezza idea per contrastarla». Neanche Rina Gagliardi è entusiasta: «Non mi piace la propaganda e il nemico principale resta Berlusconi. Ma è Veltroni che ha scelto come nemico la sinistra. È una battaglia disperata, quella della sinistra: il manifesto è una ritorsione legittima».

l’Unità 3.2.09
La mia Berlino ancora divisa nel cuore dei berlinesi
Intervista a Ingo Schulze di Laura Lucchini


Quale riunificazione? Il monumento all’unità tedesca sarà collocato a Schlossplatz, nell’ex parte Est. Il paradosso? A Ovest protestano...

Quest’anno, in occasione del ventennio della caduta del muro, Berlino celebrerà la ricorrenza con la costruzione di un monumento all’unità. Si ignora ancora quale sarà l’aspetto di tale memoriale, il concorso di idee è appena iniziato. Si sa, invece, che sorgerà nella centralissima Schlossplatz, nell’ex parte est, e che costerà 15 milioni di euro. Si sa anche che la decisione del governo ha causato numerose polemiche e ha diviso ancora una volta est e ovest, con un dibattito vivace che sembra prendere in giro il significato stesso del monumento e rivela un problema di fondo riguardo alla memoria comune delle due Germanie.
Questo tipo di monumenti all’unità «non hanno alcun significato», secondo Ingo Schulze, 46 anni, attualmente uno degli scrittori più popolari in Germania. Manca piuttosto un dibattito e una presa di coscienza sugli eventi dell’89. Nato e cresciuto nell’est, nei suoi racconti e nei suoi romanzi Schulze illustra la difficoltà quotidiana della transizione dall’est socialista all’ovest globalizzato. Le sue storie di vita quotidiane, semplici e drammatiche, danno voce a milioni di tedeschi che nel novembre dell’89 videro stravolte le loro vite.
Il passaggio da una società socialista a quella capitalista ha creato un trauma nella sua generazione. Rapidamente tutto è cambiato, «prima il confronto tra gli intellettuali giaceva nelle parole, dopo la caduta del muro si è trasformato in un problema di numeri», spiega dal suo appartamento all’ultimo piano di un edificio del quartiere berlinese di Prenzlauer Berg, a est.
Questo trauma si manifesta con tutta la sua ferocia in un momento di crisi economica come quello attuale: «C’è paura, di perdere il lavoro, di perdere il denaro. C’è concorrenza. Se a 50 anni perdi il lavoro è molto difficile trovarne uno nuovo… Tutte queste cose non esistevano prima, nell’est. Ma c’erano naturalmente altre paure».
Il nome di Ingo Schulze è stato in qualche occasione accostato al concetto di «Ostalgia», un termine che si usa ora in Germania per descrivere la nostalgia dell’est (Ost in tedesco), un male che colpisce molti. Schulze rifiuta questa definizione. «Credo che l’Ostalgia sia un concetto inventato dalla televisione, non conosco nessuno che desideri veramente tornale alla Ddr (la Germania socialista, ndr). (…) Peró non posso dire di aver sempre sofferto dietro a quel muro».
Il Bundestag ha stanziato 15 milioni di euro per la costruzione di un monumento all’unità tedesca….
«Credo che questi monumenti non abbiano alcun tipo di significato. Se dovessi fare qualche raccomandazione riguardo a questo tipo di celebrazioni direi piuttosto che andrebbe spostata la data del giorno dell’unità tedesca: dal 3 al 9 di ottobre. Perché il 9 di ottobre è il giorno della manifestazione di Lipsia. Era un lunedì. Due giorni prima, il 7, era stato l’anniversario dei 40 anni della Ddr e non si sapeva cosa sarebbe successo. C’erano minacce latenti che avrebbero potuto ricorrere alle armi. Erich Honecker aveva ricevuto una delegazione dalla Cina e sapevamo gia quello che era successo in piazza Tienammen. Peró il 9 di ottobre a Lipsia la manifestazione fu così immensamente grande e pacifica… Quel giorno una rivoluzione vinse finalmente in Germania senza spargimenti di sangue. Non c’era mai stata in questo paese una rivoluzione senza sangue».
Non crede che il dibattito che si è ora sviluppato intorno a questo monumento sia la presa in giro del suo significato?
«Credo che sarebbe molto positivo che si discutesse effettivamente e realmente di questi temi. Fa ridere che questo monumento sorgerà proprio nel piedistallo dove era stato eretto il monumento all’ultimo Kaiser. E poi perché farlo a Berlino, andrebbe fatto a Lipsia. Credo che lo spostamento della data sarebbe invece un gesto molto più significativo perché il 3 di ottobre (il 3 ottobre 1990 fu la data fissata politicamente per l’unità, ndr) nessuno lo vincola a niente. Il 9 ottobre, quando la gente scese in strada non c’era alcun leader politico».
Nel suo libro «Vite Nuove», il protagonista è un intellettuale che si scontra con il cambiamento. Com’è cambiato il ruolo dell’intellettuale dall’est all’ovest?
«In entrambe le parti ci fu un confronto molto importante tra intellettuali prima dell’89-90 che risiedeva nelle parole. Dopo passò ad essere un confronto di numeri. Con un amico decidemmo di fondare un giornale per promuovere la transizione. Pensavamo ingenuamente che ci avrebbe pagato qualcuno, però non successe. Fu necessario trasformarsi da un giorno all’altro in imprenditori e misurarci come uomini d’affari. Prima avevo lavorato nel teatro, che era in quel momento molto interessante perché si potevano dire cose che non erano permesse in altre sedi nella Ddr. Con la caduta del muro questo ambiente scomparve e il dibattito passò alla televisione. Fu in questo momento che passai alla stampa senza rendermi conto del cambiamento di paradigma che ciò implicava. Prima come intellettuale era molto più facile, ora dovevamo capire come funzionava questa società».
Com’è sopravvissuto alla transizione?
«Ho avuto fortuna. Ho potuto vivere dei miei libri, attraverso i premi e le borse di studio. Però ci sono molti colleghi, che in nessun caso sono peggiori di me, che non possono. Nella Ddr la vita di tutti i giorni non costava niente. C’erano però altri problemi. Per esempio allora non avrei mai potuto viaggiare a Roma e bere un espresso. Ciò che mi interessa di più di questo processo è il cambiamento delle priorità: quella priorità primariamente ideologica passò ad essere economica».
Cosa significa «Ostalgia»?
«È un termine che hanno inventato le televisioni private. Non conosco nessuno che voglia veramente tornare indietro alla Ddr. Però ora ci sono paure e angustie esistenziali, di perdere il denaro che si possiede. C’è una gran lotta di concorrenza, e significa che quando a 50 anni perdi il lavoro è molto difficile trovarne uno nuovo… Tutte queste cose non esistevano nell’est. C’erano ovviamente altre paure. Capita che alcuni scrittori dell’Ovest mi dicano che nei miei libri la Germania socialista appare ritratta in modo idilliaco. Io rispondo che non è vero. Ogni volta che mi capita penso: “Dio mio, cosa leggono nei miei libri!”. Il fatto è che non posso dire di aver sempre sofferto dietro a quel muro. Non lo posso dire».
Soffre di Ostalgia?
«Il mio problema non è che sia scomparso l’est. Il problema è che anche l’ovest è cambiato di conseguenza. Gli ultimi 20 anni non sono stati di progresso evidente. Il sistema politico ha seguito a ruota la globalizzazione, che è iniziata esattamente nell’89 con la caduta del muro, e le conseguenze si vedono ora con la crisi economica. Ciò che mi irrita e mi strugge è che nessun partito politico in Germania, nemmeno Die Linke, parla di una società senza crescita economica».
Si sente oggi occidentalizzato?
«Dipende dalle circostanze. Mia moglie, per esempio, viene dall’ovest, da Bonn, però quando ci vedono insieme sembro io quello dell’ovest perché sono un po’ più timido. Ovviamente non ci sono differenze tra gli amici. Anzi forse si discute di più con una persona dell’est che con una dell’ovest, perché spesso si hanno impressioni molto diverse della stessa esperienza».
È Angela Merkel, una donna dell’est, un simbolo dell’unità tedesca?
«Non l’ho votata e non la voterei mai. Mi sembra buono che una persona dell’est abbia raggiunto quella posizione, ma questi non sono i criteri decisivi. Non voterei Gerard Schroeder nemmeno se provenisse dalla Bassa Sassonia (a est, ndr). Nella lotta tra est e ovest lei forse tiene un ruolo equilibrante, però non la appoggerei».

Repubblica 3.2.09
Un codice di vita e di morte
di Aldo Schiavone


Un decalogo sull´inizio e sulla fine della vita. Una breve trama di princìpi condivisi - a partire da un centrosinistra tormentosamente lacerato - in cui tutti abbiamo messo in gioco le nostre appartenenze ideali, per arrivare a una sintesi accettabile dall´intera collettività.

È QUESTO L’OBIETTIVO - politico e giuridico, prima ancora che etico - cui dobbiamo e possiamo tendere, dopo mesi di discussione. Una volta, la nascita e la morte erano fatti "naturali" per eccellenza, e dunque sottratti, nell´immodificabilità radicale del loro accadimento, a ogni regola elaborata dalla società. Semplicemente, si nasceva e si moriva. Oggi non è più così: la potenza della tecnica - che non è altro se non la forza dell´intelligenza umana in cammino per appropriarsi fino in fondo del proprio destino - sta modificando la forma intrinseca di quegli eventi; sta cominciando a farli entrare, per dir così, nel raggio delle nostre scelte. La tecnica infatti ha sempre come effetto quello di accrescere, talvolta in modo smisurato, la nostra capacità di decidere. E quando noi possiamo scegliere, abbiamo bisogno di etica, di democrazia e di diritto. Per ora, non abbiamo inventato strumenti migliori, per aiutarci.
E allora, proviamo a fissarne almeno alcuni, di questi princìpi.
1. La vita - nella forma individualizzata in cui solo ci è dato per ora di farne esperienza - la vita insomma di ogni essere umano, è un bene totalmente indisponibile: da parte dello Stato, della società, dello stesso soggetto che la vive.
Questa preclusione assoluta è un principio di salvezza, che siamo ben lontani dall´aver realizzato nell´ordine globale - se lo avessimo fatto, non ci sarebbero più guerre - ed è il punto di eticità più alto cui siamo arrivati nella nostra storia. Non riflette per necessità una prospettiva originalmente cristiana, o cattolica: la Chiesa ha convissuto a lungo e tranquillamente con guerre, torture e pena di morte. E non deriva nemmeno in modo esclusivo dal riconoscere alla vita una carattere di sacralità e di trascendenza - dal vedervi una scintilla di divino. Vi si può arrivare anche da un´altra strada: dalla scoperta cioè, in ogni singola vita, di un aspetto così fortemente unico e irripetibile - e dunque di arricchimento per tutta la specie, una "sporgenza" universale da declinare solo "in terza persona" e non coincidente con la veduta individualizzata di chi la vive - da renderla un bene da proteggere nei confronti di chiunque, anche dalla scelta soggettiva dell´io cui appartiene.
2. Il momento finale e quello iniziale della vita individuale sono convenzionali, e devono essere stabiliti dalla legge: non fotografano infatti la natura, ma riflettono unicamente una responsabile scelta umana.
Per quanto attiene alla morte, la scienza ne ha spostato di continuo il confine: una volta il cessare del respiro, poi l´arresto del cuore, ora la fine dell´attività elettrica del cervello, per come riusciamo a registrarla. E questo accade perché ormai il problema non è di cogliere l´attimo "naturale" del passaggio, ma di individuare una situazione di "irreversibilità" biologica, di "non ritorno" rispetto allo stato attuale delle tecniche di rianimazione, che cambia di continuo, e che certamente muterà in futuro.
Per quanto riguarda invece l´inizio, un tempo era il distacco dal corpo materno che decideva. Ma ora, quanto meglio riusciamo a tracciare integralmente il percorso biologico che precede quell´evento, tanto più tendiamo a spostare indietro la soglia oltre la quale riconosciamo l´esistenza (e la difesa) di una "nuova" vita. Fin dove arretrare nella ricerca di questo esordio, quando individuare il momento esatto in cui il processo cessa di inscriversi nel quadro biochimico della fisicità della madre, per diventare un´"altra cosa", presuppone una valutazione qualitativa, l´interruzione valutativa di un "continuum" biologico, che può essere solo il frutto di una scelta convenzionale, di una "finzione" etica e giuridica che tenga conto dell´insieme degli interessi e dei valori in gioco: quello della nuova vita ad essere percepita (e protetta) il più presto possibile nella sua identità, e quella della madre - sino a quando si nascerà dal corpo di una donna - a far prevalere, almeno fino a un certo limite, su ogni altra valutazione, il proprio personale controllo su processi fisiologici che la coinvolgono così da vicino.
3. L´indisponibilità, di cui abbiamo detto al punto 1, riguarda la vita, e non il ricorso illimitato a tecniche ancora largamente imperfette, che stiamo appena iniziando a sperimentare.
La tecnica sta (provvisoriamente) creando spazi intermedi fra la vita e la morte - quando la vita è già finita come progetto e come speranza, (o, se preferiamo, quando l´anima non ha più alcun rapporto col mondo, e la provvidenza che la tocca alcun modo di esercitarsi restando nei confini dell´umano), ma la soglia della morte (essa stessa determinata dalla scienza), è allontanata attraverso il ricorso permanente ad impianti esterni che consentono il mantenimento di alcune funzioni biologiche primarie. In questi casi, non è più in questione il valore assoluto della vita e la sua totale indisponibilità, ma solo gli effetti potenziali - che possono anche essere aberranti - di una forma storica e contingente (presto destinata a essere superata) del rapporto fra tecnica e vita. E allora, non può che rientrare in gioco la volontà del soggetto, e, in funzione sussidiaria, quella della famiglia e della società, che devono poter decidere fino a che punto possa spingersi l´invasività della tecnica, in una situazione data. Questo diritto non viola il nostro primo principio, ma ne rappresenta anzi il coronamento, perché ne impedisce un uso potenzialmente abnorme, che porta solo al moltiplicarsi di zone grigie, dove per ora l´uso della tecnica non serve a ripristinare la vita, ma solo ad allontanare quello che noi stessi abbiamo deciso esser la morte.
4. I limiti in cui è possibile il ripristino dell´autodeterminazione di cui al punto 3, insieme con i modi con cui possa manifestarsi, devono essere stabiliti dalla legge. Essi devono riguardare - nelle attuali condizioni tecnologiche - solo due casi: quando, pur in presenza di uno stato di coscienza (di una capacità di intendere e di volere), la continuazione della vita è legata all´uso permanente e irreversibile di impianti extracorporei fissi; e quando, in presenza di uno stato neurovegetativo permanente, questa condizione venga giudicata irreversibile, alla luce delle tecnologie al momento utilizzabili.
È ovviamente possibile migliorare questi abbozzi di regole. Ma il metodo che esse indicano mi sembra l´unico possibile.

Corriere della Sera 3.2.09
Corte internazionale. Dopo le indagini promesse da Onu e governo Olmert
«Crimini di guerra» a Gaza: L'Aja apre dossier su Israele
Il procuratore Moreno-Ocampo: «Esame preliminare»
di Francesco Battistini


1.300 le vittime palestinesi (tra miliziani e civili) nei 22 giorni di fuoco su Gaza
Creata nel 2002, 108 Stati membri. La Corte penale internazionale istituita col Trattato di Roma del 1998, attiva dal 2002 con sede all'Aja, ha competenza sui crimini più seri che riguardano la comunità internazionale, come genocidio o crimini di guerra. Oggi ne sono membri 108 Paesi. Tra quelli che non la riconoscono: Usa, Russia, Cina e Israele
Il tribunale, creato nel 2002, non ha però giurisdizione: gli israeliani non ne hanno riconosciuto la legittimità

GERUSALEMME — Si può fare. I palestinesi ci speravano. Il governo israeliano lo temeva. Adesso la Corte dell'Aja lo dice: sì, stiamo esaminando le denunce per i presunti crimini di guerra commessi a Gaza. L'uomo che indagò sui desaparecidos, l'avvocato argentino Luis Moreno- Ocampo, l'unico procuratore generale che abbia mai chiesto l'arresto per genocidio d'un presidente in carica (il sudanese Omar Al Bashir), l'altro giorno stava a Davos. Un giornalista inglese gli ha chiesto lumi. E lui, uomo di riflettori non meno della cacciatrice di boia balcanici Carla Del Ponte o di Baltazar Garzon, il giudice spagnolo che perseguì Pinochet, non s'è tirato indietro. Non abbiamo giurisdizione su Israele o su Gaza, dice, ed esaminare il caso non significa che le accuse siano fondate. Ma il dossier è lì: «È un caso molto complicato», le obiezioni citano solo la giurisprudenza, mentre «io faccio un'analisi diversa: potrà richiedere molto tempo, ma voglio arrivare a una decisione secondo legge».
Il caso è complicato, anche perché i dossier s'aprono inarrestabili come finestre di Windows. Ci sono le denunce che otto ong israeliane, B'Tselem in testa, hanno presentato alla giustizia israeliana. Poi le indagini che l'Onu ha commissionato al suo ufficio di Ramallah, cinque edifici Onu colpiti, materiale da girare al finlandese Martti Ahtisaari (se sarà lui l'investigatore). All'Aja, invece, pendono le istruttorie d'organizzazioni palestinesi, di Amnesty international e dei governi della Lega araba. Non ci sono nuovi episodi incriminati, che si sappia: l'uso di fosforo bianco, che l'esercito di Tsahal prima ha negato e poi riconosciuto, a carico d'un gruppo di soldati (c'è un'indagine militare in corso) e poi in casi ammessi dalla Convenzione di Ginevra; i bombardamenti di moschee, ospedali, scuole a Beit Lahiya e Jabaliya, decine di morti, che secondo Israele erano scudi per proteggere Hamas; diverse denunce di fuoco aperto «senza ragione» su civili inermi...
Il caso è complicato, anche perché la Corte non ha giurisdizione: Israele non ha mai ratificato lo Statuto di Roma che istituì il tribunale, non ne riconosce la legittimità. Nei loro ricorsi, però, gli avvocati fanno notare che a contare è il luogo in cui i crimini sarebbero stati commessi, ovvero la Striscia da cui Israele si ritirò nel 2006, e quindi importa chi oggi comanda lì: in teoria l'Autorità palestinese, governo senza Stato, che sarebbe titolare di un'azione legale; in realtà Hamas, che non ha però riconoscimento internazionale. Per Moreno-Ocampo, anche il Darfur e la Costa d'Avorio erano in simili situazioni di vuoto, eppure una soluzione si trovò. L'ideale sarebbe un ok da Gerusalemme — «indagate pure sui nostri» — al momento impensabile: Israele nega qualsiasi responsabilità penale, ha consigliato ai suoi ufficiali di non viaggiare all'estero e di non dare generalità alla stampa. Qualche giorno fa, il premier Ehud Olmert ha promesso che «i militari spediti a Gaza saranno al riparo da ogni tribunale, lo Stato li proteggerà come loro ci hanno protetto coi loro corpi». Un
habeas corpus, la paga del soldato.

Corriere della Sera 3.2.09
Il giudice italiano Cuno Jakob Tarfusser
«Il nodo della giurisdizione? Potrebbe scioglierlo l'Onu»
di Maria Serena Natale


Portare i vertici militari israeliani davanti alla Corte penale internazionale per presunti crimini di guerra commessi nei ventidue giorni di fuoco su Gaza sarebbe «molto complicato», ha ammesso il procuratore generale dell'Aja Luis Moreno- Ocampo.
Quali sono i punti più delicati?
«Prima di tutto, secondo il principio di sussidiarietà, la Corte può intervenire solo in caso di inerzia da parte della giurisdizione interna dello Stato accusato — risponde Cuno Jakob Tarfusser, procuratore capo della Repubblica a Bolzano, recentemente eletto giudice al tribunale penale internazionale —, occorrerà quindi attendere le decisioni israeliane».
Israele è tra gli Stati che hanno firmato ma non ratificato lo Statuto di Roma (il testo che istituisce la Corte, adottato nel 1998 ed entrato in vigore nel 2002), non è dunque sottoposto alla giurisdizione della Corte dell'Aja.
«A meno che non sia il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite a investire la Corte, come già accaduto con il Sudan in merito al conflitto del Darfur. Il nodo da sciogliere in fase preliminare è proprio quello della giurisdizione. Il procuratore Moreno-Ocampo ha ragione quando sostiene che la questione è estremamente complicata e che ci vorrà del tempo per esaminarne i diversi aspetti».
Un altro precedente citato è quello della Costa d'Avorio, che nel 2005 accettò la giurisdizione «ad hoc».
«È una possibilità prevista dal paragrafo 3 dell'articolo 12: uno Stato che non abbia ratificato lo Statuto può dichiarare di "accettare" la competenza della Corte sul proprio territorio».
Stavolta però parliamo di territorio palestinese, dove non c'è uno Stato riconosciuto.
«È uno dei punti più spinosi. Le organizzazioni che stanno sollevando il caso, secondo quanto si apprende dal Times, sostengono appunto che dopo il ritiro israeliano del 2006 la Striscia di Gaza sia parte di uno "Stato di fatto" palestinese ».
Un principio accettabile?
«Questo potrebbe diventare materia di valutazione da parte della Corte se investita della questione».
E se il procuratore decidesse di attivarsi, quali sarebbero i passi successivi?
«A prescindere dal nodo dello "Stato di fatto", il procuratore potrebbe cominciare a raccogliere elementi conoscitivi sugli eventi che gli sono stati riportati e valutare se, in base all'articolo 15 dello Statuto, richiedere l'autorizzazione all'apertura di un'indagine. A quel punto la parola passerebbe alla Camera preliminare».
Qualunque decisione sia presa, segnerà una svolta nella storia del diritto internazionale?
«È un caso molto delicato, la cautela è d'obbligo».

Corriere della Sera 3.2.09
Un antisemitismo senza ebrei
E in Asia ritornano i «Protocolli»
di Ian Buruma


Un best seller dal titolo La guerra monetaria, descrive in che modo gli ebrei si propongono di dominare il mondo manipolando il sistema finanziario internazionale. Viene letto, così si dice, ai massimi livelli governativi. Se è vera, la notizia non promette nulla di buono per le finanze globali, che fanno affidamento appunto sui cinesi più informati per uscire dall'attuale crisi.
Teorie della congiura come queste non sono una novità in Asia. Negli ultimi anni i lettori giapponesi hanno dimostrato un crescente appetito per libri come Guarda gli ebrei e vedrai il mondo con chiarezza,
oppure Il prossimo decennio: uno sguardo ai protocolli ebraici, o ancora Chiedo scusa ai giapponesi: confessioni di un vecchio ebreo (scritto da un autore giapponese, ovvio, sotto lo pseudonimo di Mordecai Mose). Tutte queste opere altro non sono che variazioni di un documento falso prodotto in Russia nel secolo XIX, I protocolli dei savi anziani di Sion, di cui i giapponesi vennero a conoscenza dopo la sconfitta dell'armata zarista nel 1905.
Dai giapponesi, i cinesi hanno appreso molte idee occidentali moderne e forse è così che si sono tramandate le teorie delle congiure ebraiche. Occorre dire peraltro che le popolazioni del sud-est asiatico non sono immuni a questo genere di idiozie. L'ex primo ministro della Malesia, Mahathir Bin Mohammed, ha affermato che «gli ebrei manovrano il mondo per delega: mandano gli altri a combattere e a morire al loro posto». E un recente articolo nelle Filippine, pubblicato in un grande settimanale di economia, ha spiegato come gli ebrei hanno da sempre controllato i Paesi in cui si sono stabiliti, compresi gli Stati Uniti di oggi.
Nel caso del premier Mahathir, è probabile che una certa qual solidarietà musulmana colori le sue convinzioni. Ma a differenza dell'antisemitismo europeo o russo, la varietà asiatica non ha alcuna radice religiosa. Né i cinesi, né i giapponesi accusano gli ebrei di aver messo a morte i loro santi e profeti, né credono che bevessero il sangue dei loro bambini durante le celebrazioni della Pasqua. In realtà, ben pochi cinesi, giapponesi, malesi o filippini hanno mai visto un ebreo, né lo vedranno mai, a meno che non siano stati all'estero.
Come si spiega allora il notevole successo che riscuotono le varie teorie di congiura ebraica? La risposta dev'essere in parte politica. Tali teorie difatti proliferano laddove l'accesso all'informazione è limitata e la libertà di ricerca ostacolata. Il Giappone non è più una società chiusa, è vero, eppure persino i Paesi che hanno alle spalle una breve storia di democrazia sono propensi a credere di essere vittima di forze oscure. Forse proprio per il fatto che gli ebrei sono relativamente poco noti, e quindi misteriosi, e in qualche modo associati all'Occidente, ecco che diventano il bersaglio più ovvio della paranoia anti-occidentale.
Questo accade soprattutto in Asia, dove quasi ogni Paese è rimasto sotto il controllo delle potenze occidentali per diversi secoli. Il Giappone non è mai stato formalmente colonizzato, certo, ma anch'esso subì il predominio occidentale, per lo meno dalla metà del secolo XIX in poi, quando le navi da guerra americane, con i cannoni puntati, costrinsero il Paese ad aprire le sue frontiere, alle condizioni dettate dall'Occidente.
La fusione degli ebrei con gli Stati Uniti risale anch'essa alla fine del secolo XIX, quando l'America era odiata dai reazionari europei come una società senza radici, dominata dall'avidità per il denaro, immagine che si attagliava perfettamente allo stereotipo dell'ebreo gretto e apolide. Di qui l'idea che sono gli ebrei a gestire il potere in America.
Tra le grandi ironie della storia coloniale vi è quella che i popoli colonizzati hanno spesso adottato i pregiudizi che giustificavano il governo dei loro oppressori. L'antisemitismo sbarcò nelle colonie assieme all'intero pacchetto di teorie europee sulla razza, e tali pregiudizi sono rimasti in circolazione in Asia, benché già passati di moda in Occidente.
Per alcuni versi, le minoranze cinesi nel sud-est asiatico hanno subìto la medesima ostilità patita dagli ebrei in Occidente.
Escluse da molte professioni, sono sopravvissute grazie al commercio e all'appoggio dei loro clan. Anch'esse sono state perseguitate per non essere «originarie del luogo». E anche ad esse vengono attribuiti poteri soprannaturali quando si tratta dell'abilità nell'arricchirsi. Pertanto, se le cose vanno male, la colpa è dei cinesi, non solo perché capitalisti senza scrupoli, ma anche — come nel caso degli ebrei— perché comunisti, visto che sia il capitalismo che il comunismo vengono associati al cosmopolitismo e allo sradicamento dal Paese di origine.
La paura di forze oscure spesso si trasforma in credenza, un fenomeno umano universale che sta alla base di tutte le religioni. Oltre ad essere temuti, i cinesi sono ammirati e considerati più intelligenti degli altri. La stessa combinazione di timore e riverenza traspare spesso nelle opinioni comuni sia riguardo gli Stati Uniti che gli ebrei. Ma l'antisemitismo giapponese rappresenta un caso particolarmente interessante.
Il Giappone riuscì a sconfiggere la Russia nel 1905 solo quando un banchiere ebreo di New York, tale Jacob Schiff, aiutò i giapponesi con l'emissione di obbligazioni. Pertanto I protocolli dei savi anziani di Sion confermarono quanto i giapponesi già sospettavano, e cioè che le leve della finanza globale erano manovrate in realtà dagli ebrei. Ma invece di attaccarli, i giapponesi, assai pragmatici, pensarono che fosse meglio coltivare i rapporti con questi amici tanto astuti e potenti.
Fu così che durante la Seconda guerra mondiale, mentre i tedeschi chiedevano ai loro alleati di rastrellare e consegnar loro gli ebrei, nella Manciuria occupata dai giapponesi si davano cene ufficiali per sancire l'amicizia con gli ebrei. E i rifugiati ebrei a Shanghai, pur circondati dai pericoli, ebbero salva la vita grazie alla protezione dei giapponesi. Tuttavia, quelle stesse idee, che aiutarono gli ebrei di Shanghai a sopravvivere allora, oggi rischiano di stravolgere il giudizio di un popolo che dovrebbe ormai sapere come stanno veramente le cose.
traduzione di Rita Baldassarre

Corriere della Sera 3.2.09
Catto-comunisti
Pellegrinaggi italiani dal fascismo al bolscevismo
Risponde Sergio Romano


In un libro di cui ignoravo l'esistenza (Guido Manacorda, «Il Bolscevismo», Sansoni editore, Firenze, 1940 -XVIII) mi ha colpito la dedica dell'autore a Giuseppe Bottai: «Questo studio di una rivoluzione oscura, che ai popoli in travaglio addita luce e salvezza». Orbene, che un illustre studioso, sia pure di fede fascista, autore di numerose opere letterarie pre e durante il regime, abbia potuto scrivere nel 1939 e pubblicare l'anno successivo un testo simile, la dice lunga. Non credo che in Germania il nazismo concedesse altrettanta libertà e lo stesso dicasi per altre dittature.
Con questo non voglio giustificare la dittatura fascista, sicuramente inaccettabile, ma ritengo che anche sotto questo profilo quel regime qualche «distinguo» lo richieda. Un passo del testo del Manacorda illumina sui rapporti tra bolscevismo e cattolicesimo, nel quale ultimo vi è «pieno riconoscimento della funzione storica, sociale, morale delle classi», loro varietà e distinzione, ammesse come espressioni altrettanto naturali della varietà e ineguaglianza della vita (con riferimento alla «Summa» di San Tommaso d'Aquino): si anticipa forse di qualche decennio il cosiddetto catto-comunismo?
Umberto Burla

Caro Burla,
Conosco il libro di Guido Manacorda e ho letto la lunga dedica dell'autore a Giuseppe Bottai, pubblicata in epigrafe. È un testo molto retorico, scritto con il gusto enfatico di certe lapidi sugli eroi del Risorgimento, della Grande guerra e della Resistenza che ancora si leggono sulle facciate dei municipi e di altri palazzi pubblici italiani. Ma contiene, forse per eccesso di retorica, una certa dose di ambiguità. Nella frase da lei citata non è chiaro se la luce e la salvezza per i «popoli in travaglio» provenga dalla «rivoluzione oscura» o dallo studio dell'autore. Quella virgola, dopo «rivoluzione oscura», potrebbe suggerire la seconda ipotesi.
Il libro è comunque interessante. Manacorda non fu né storico né politologo. Si laureò all'Università di Pisa nel 1901, fu inviato a Catania come bibliotecario e fece parte di una squadra di soccorso che giunse a Messina dopo il terremoto del 1908. Lasciò il servizio delle biblioteche per diventare professore di letteratura tedesca nel 1913. Fu volontario nella Grande guerra e ne tornò con una medaglia d'argento e due di bronzo. Nel corso delle sua carriera accademica si dedicò alla traduzione di opere tedesche, soprattutto di Goethe e Wagner, ma ebbe anche interessi filosofici, con una particolare inclinazione per il cattolicesimo e il misticismo. Fu fascista, grande amico di Bottai, molto attivo negli scambi culturali con il Terzo Reich e aderì alla Repubblica Sociale italiana. Lasciò l'insegnamento dopo la guerra (era nato nel 1879) e morì a Firenze nel 1965.
A prima vista, secondo gli schemi correnti, Manacorda fu un uomo di destra. Ma il suo libro sul bolscevismo dimostra un'attenzione, una curiosità e una sensibilità per il comunismo che appaiono a prima vista sorprendenti. Contiene molte informazioni sul sistema politico-costituzionale dell'Urss, una lunga appendice in cui sono riprodotte alcune leggi sovietiche, il testo del trattato d'amicizia con la Germania del 1939, notizie sugli ambienti artistici, una fotografia di Stalin che mette il dittatore in buona luce, e alcune riproduzioni di opere d'arte (pitture, sculture, progetti architettonici) create dal «realismo socialista ». L'autore è cattolico e non ignora l'enciclica «Divini Redemptoris» con cui Pio XI ha definito il comunismo «intimamente perverso». Ma cita con soddisfazione uno scrittore cattolico francese per cui «l'idea del comunismo affonda in piena terra cristiana (...), nel sentimento di amicizia che il marxismo suscita tra i proletari, nel commovente appello ch'esso lancia verso una società senza classi e senza odio». Manacorda non risparmia le sue critiche al regime di Stalin, ma osserva «tutta una serie di atteggiamenti e provvedimenti, i quali, allontanandosi (...) dalla ortodossia marxistica, mirano sempre più ad accostarsi alla lettera, se non proprio allo spirito, del Fascismo: rivalutazione del concetto di patria, imperialismo, intensa politica demografica, ritorno, se pure ancora molto cauto e limitato, all'istituto della proprietà e dell'ereditarietà, restaurazione della disciplina scolastica, ristabilimento di gerarchie vecchie e creazione di gerarchie nuove, realismo artistico al servizio della rivoluzione, e via dicendo».
Il libro di Manacorda non è un fenomeno isolato. Vi era nel fascismo una corrente, soprattutto di sinistra, che studiava con attenzione l'esperimento sovietico e provava per il regime di Stalin una specie di naturale affinità. Particolarmente interessante tuttavia è che questa tendenza esistesse anche in alcuni ambienti cattolici. Capiamo meglio, dopo averlo letto, perché tanti intellettuali fascisti siano diventati comunisti e perché esistesse nell'Italia del dopoguerra un gruppo di comunisti cristiani, invisi alla Chiesa e al Pci ma strettamente imparentati con i cattocomunisti degli anni Settanta e Ottanta.

Corriere della Sera 3.2.09
“Fratelli”
Torna il romanzo di Carmelo Samonà, da subito considerato un miracolo letterario
Le vite senza tempo di un uomo demente e di suo fratello sano
di Paolo Di Stefano


«Vivo, ormai sono anni, in un vecchio appartamento nel cuore della città, con un fratello ammalato. Nessun altro abita con noi, e le visite si fanno rare». Basta questo splendido incipit, esempio di precisione e di semplicità e di ritmo, per capire come la prosa di Carmelo Samonà si affidi soprattutto alla musica e all'orecchio di chi la ascolta. Basta per farci tornare al senso profondo della letteratura, cioè pura necessità consegnata alla parola, in un momento in cui evasione e/o consumo sono scambiati per letteratura. Ogni parola è al suo posto e non potrebbe occuparne un altro.
Fratelli fu pubblicato da Einaudi nel 1978 e viene ora riproposto da Sellerio accompagnato da L'esitazione, il racconto a cui Samonà (famoso come ispanista prima che come scrittore) lavorò durante la malattia che gli fu fatale nel 1990. Fratelli apparve, già all'uscita, come un miracolo. E lo è ancora di più ora, a oltre trent'anni dalla prima pubblicazione. Un corpo del tutto estraneo alla narrativa corrente. Non racconta quasi nulla, se non l'immobilità senza tempo nel rapporto tra un fratello sano e l'altro demente, eppure ti tiene attaccato alla pagina con la forza dell'emozione, della parola che si fa, quasi inavvertitamente sotto i nostri occhi (o meglio dentro il nostro orecchio più interno), incubo, delirio. Incubo, perché la narrazione si svolge come un nastro lungo un tempo immobile: «Mi dico che una mattina è perfettamente uguale a un'altra, una notte a un'altra notte». Non c'è cambiamento ma ripetizione fino allo sfinimento, e noi lo sappiamo sin dall'inizio. La malattia mentale, l'«oggetto invisibile», è lì e non vi è rimedio, nonostante le strategie che il fratello narratore mette in atto: i Grandi e i Piccoli Viaggi che portano i due a inventarsi giochi, recite, scambi di ruolo, letture destinate ad essere stravolte (Geppetto diventerà uno stregone perverso), brevi rincorse nell'appartamento lasciato semideserto da una famiglia che non c'è più.
Sono strategie che vengono messe in atto per occupare il vuoto del tempo (e dello spazio), non perché ci si illuda mai che qualcosa possa mutare. E il paradosso su cui si regge tutto il romanzo è proprio qui: nella tragica tensione tra la fiducia nella parola che traspare dall'esattezza della pagina costruita dall'autore e l'impossibilità di comunicare che emerge implacabile dal racconto della relazione a due. Il linguaggio, nonostante tutto, non guarisce, anzi. Nel migliore dei casi, è fatto di «suoni flebili e opachi» o di silenzio «sterminato e piatto», più spesso viene piegato a logiche distorte, incontra resistenze e rigetti.
In questo tempo immobile, il narratore, alternando responsabilità e senso di colpa, pensa, concatena ipotesi, torna indietro e riformula ipotesi opposte, si sforza di intravedere una logica nei minimi segnali, cerca di decifrare il non decifrabile, le contraddizioni, le reazioni attese e inattese, architetta inutili progetti per domare la follia. Cerca, nei gesti e nelle parole del fratello, una coerenza che non c'è. Si sente forte e debole, partecipe e antagonista, amichevole e autoritario, paterno e materno, dolce e violento, diverso e uguale. E questi opposti non trovano soluzione neanche quando interviene la «donna con il cane zoppo », allegoria di una possibile mediazione, di un possibile incontro tra due solitudini incomunicanti (lei che possiede «non due lingue diverse» per la sanità e per la malattia, ma «una lingua sola... ricca di equilibri cangianti, onnivalente»). È una donna misteriosa, in cui il fratello malato si imbatte durante una delle vertiginose uscite che i due protagonisti sono soliti fare nella città anonima e grigia. E che non sono liberazione dalla claustrofobia della casa: sono il precipizio dentro un altro labirinto, perché favoriscono un gioco crudele, le fughe del malato che accrescono l'angoscia del narratore o al più ripropongono in lui l'effimera tentazione di andarsene: «In linea teorica potrei farlo. Ed è importante che possa pensarlo; è importante che possa fantasticare di vivere altrove, preparandomi alla partenza, anche nei più minuti dettagli, raffigurandomi case limpide e sobriamente addobbate... Naturalmente rimango». La presenza enigmatica della donna (prodiga di regali: una mela, una cintura, un bracciale...) accanto al fratello demente fa nascere nell'io narrante una insana gelosia, poi la curiosità di conoscerla, infine la speranza. Finché la morte violenta (e altrettanto indecifrabile) del cane infrangerà quell'ultima illusione, e il nebuloso ricordo che ne rimane lascia sospeso quell'episodio in una zona d'ombra molto inquietante. E a tratti si avverte come la strenua difesa del confine tra normalità e anormalità abbia qua e là ceduto al contagio.
Il densissimo saggio di Francesco Orlando, collocato in postfazione, dà conto dell'urgenza autobiografica che sta alla base del tormentato percorso narrativo di Samonà, ma individua soprattutto alcuni «momenti» che lo rendono estremamente unitario ( Fratelli
è il solo romanzo uscito in vita, cui seguiranno Il custode, Casa Landau
e un paio di racconti) e sicuramente irripetibile.
La prosa
Qui ogni parola è sempre al posto giusto e non potrebbe occuparne un altro I «Fratelli» (1845 circa) di Francis G. Mayer (Corbis)

Corriere della Sera 3.2.09
Un volume spiega come l'arte, la letteratura, il teatro possano curare
La «follia gentile» negli atelier degli ospedali
di Franco Tettamanti


A Mantova il manicomio venne abolito in pratica ancor prima dell'entrata in vigore della Basaglia (la 180). Sono passati più di trent'anni da quel giorno di maggio del 1978 quando la legge venne approvata. Di psichiatria, di salute mentale, di disagio, di follia, di recupero però non si è mai smesso di parlare.
Follia gentile di Cinzia Migani, Giuseppina Nosé, Giordano Cavallari (Negretto Editore, pp. 126, e 10) è uno di quei libri (non a caso nasce a Mantova) che possono aiutare a capire e a trovare le soluzioni anche contro paure, indifferenza e luoghi comuni. È un libro che raccoglie le esperienze di medici e volontari. Che racconta di lotte quotidiane, di idee, di progetti. Che spiega come l'arte, il teatro, la letteratura, la fantasia possono scendere in campo e fare davvero la differenza. Un volume che raccoglie le testimonianze dirette di quanti ogni giorno si confrontano con una realtà difficile che è fatta di solitudini, emarginazione, amarezze e tenacia. Che raccoglie anche alcuni dei dipinti e dei disegni eseguiti nell'atelier di pittura dell'Ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere a dimostrazione che, spesso, oltre il tunnel più buio ci sono colori e poesia.
Parole, ricordi e proposte sempre più di attualità visto che integrazione e recupero rimangono all'ordine del giorno. Non a caso l'Organizzazione mondiale della Sanità ha lanciato una proposta perché i servizi siano rivolti alla promozione della salute mentale e non solo alla prevenzione o alla riparazione dei danni che la sofferenza mentale produce.
Una strada spesso in salita, ma da percorrere. E anche libri come
Follia gentile offrono l'occasione per confrontarsi e non lasciare soli malati, medici, famiglie, artisti e volontari. Saggi, proposte, opere d'arte che insegnano (se ancora ve ne fosse bisogno) che non c'è spazio per la resa e che nessuno, di fronte al disagio e alla salute mentale, può permettersi di tirarsi indietro o di stare a guardare.

Corriere della Sera 3.2.09
Futurismo
Voglia di distruggere e fiducia in se stessi Questi sono artisti davvero rivoluzionari
di Antonio Gramsci


Il campo della lotta per la creazione di una nuova civiltà è (...) assolutamente misterioso, assolutamente caratterizzato dall'imprevedibile e dall'impensato. Una fabbrica, passata dal potere capitalista al potere operaio, continuerà a produrre le stesse cose materiali che oggi produce. Ma in qual modo e in quali forme nasceranno le opere di poesia, del dramma, del romanzo, della musica, della pittura, del costume, del linguaggio? Non è una fabbrica materiale quella che produce queste opere: essa non può essere riorganizzata da un potere operaio secondo un piano, non può esserne fissata la produzione per la soddisfazione di bisogni immediati controllabili e fissabili dalla statistica. In questo campo nulla è prevedibile che non sia questa ipotesi generale: esisterà una cultura (una civiltà) proletaria, totalmente diversa da quella borghese, anche in questo campo verranno spezzate le distinzioni di classe, verrà spezzato il carrierismo borghese: esisterà una poesia, un romanzo, un teatro, un costume, una lingua, una pittura, una musica caratteristici della civiltà proletaria, fioritura e ornamento dell'organizzazione sociale proletaria.
Cosa resta a fare? Nient'altro che distruggere la presente forma di civiltà. In questo campo «distruggere » non ha lo stesso significato che nel campo economico: distruggere non ci significa privare l'umanità di prodotti materiali necessari alla sua sussistenza e al suo sviluppo; significa distruggere gerarchie spirituali, pregiudizi, idoli, tradizioni irrigidite; significa non aver paura delle novità e delle audacie, non aver paura dei mostri, non credere che il mondo caschi se un operaio fa errori di grammatica, se una poesia zoppica, se un quadro assomiglia a un cartellone, se la gioventù fa tanto di naso alla senilità accademica e rimbambita. I futuristi hanno svolto questo compito nel campo della cultura borghese: hanno distrutto, distrutto, distrutto, senza preoccuparsi se le nuove creazioni, prodotte dalla loro attività, fossero nel complesso, una opera superiore a quella distrutta: hanno avuto fiducia in se stessi, nella foga delle energie giovani, hanno avuto la concezione netta e chiara che l'epoca nostra, l'epoca della grande industria, della grande città operaia, della vita intensa e tumultuosa doveva avere nuove forme di arte, di filosofia, di costume, di linguaggio: hanno avuto questa concezione nettamente rivoluzionaria, assolutamente marxista, quando i socialisti non si occupavano neppure lontanamente di simili questioni, quando i socialisti certamente non avevano una concezione altrettanto precisa nel campo della politica e dell'economia, quando i socialisti si sarebbero spaventati (e si vede dallo spavento attuale di molti di essi) al pensiero che bisognava spezzare la macchina del potere borghese nello Stato e nella fabbrica.
I futuristi, nel loro campo, nel campo della cultura, sono rivoluzionari; in questo campo, come opera creativa, è probabile che la classe operaia non riuscirà per molto tempo a fare più di quanto hanno fatto i futuristi.
Tratto da «Marinetti rivoluzionario» pubblicato su «Ordine Nuovo» il 5 gennaio 1921. Il testo completo è inserito nel libro «Ritratto di Marinetti» (Edizioni Mudima, pagg. 301, 40 euro)
Visioni limpide
«I futuristi hanno avuto la concezione chiara che l'epoca della città operaia doveva avere nuove forme di linguaggio»

Corriere della Sera 3.2.09
Futurismo
L'intervento Il movimento di rottura e il conformismo
Dalla condanna alla nostalgia Nell'Italia di cent'anni dopo quel diritto alla ribellione rischia di affogare nella retorica
di Philippe Daverio


C ‘è una domanda tutt'altro che retorica che gira per l'Italia versione 2009. Proviene dall'incertezza del momento, dalla vertigo esistenziale collettiva, ma sembra anche un segno di presa di coscienza. Come tale niente male. La domanda è: si può essere futuristi oggi? Il dato stesso della domanda è curioso in quanto per la prima volta il paese del vivere alla giornata pensando sostanzialmente solo all'allegria dei consumi immediati si sta ponendo dinnanzi a un tema intellettuale. Ve la immaginate una questione tipo: si può essere veristi, scapigliati, neorealisti? Mai successo!
Nel 1951 gli eredi Vasari, quelli del commediografo futurista finito a Berlino negli anni dello spartachismo, vendettero al Moma di New York «La Città Sale » di Umberto Boccioni per un milione di lire, che era allora il prezzo di una masseria in Sicilia, non certo il suo valore d'oggi che sarebbe quello di tre palazzi in Canal Grande a Venezia, proprio quello che Marinetti avrebbe voluto asfaltare.
L'esportazione del capolavoro ebbe luogo senza opposizione degli istituti di tutela patrimoniale perché il Futurismo non interessava nessuno, era appena finita la guerra e la confusione fra fascismo e arte condannava chiunque avesse avuto relazioni con il regime defunto, dai futuristi a Sironi passando dall'architettura aulica di Piacentini, considerata oggi geniale. Mezzo secolo è passato da allora, lunghe le fatiche per riscoprire e revisionare. Sicché l'esaltazione d'oggi potrebbe sembrare una corretta riparazione, se non fosse che sull'orizzonte del sonno della ragione, quello che genera mostri e mostre, riappare in chiave invertita lo stesso equivoco d'allora. Oggi i nostalgici vorrebbero far capire che quella condanna d'allora va rivista, proponendo una sequela di artisti minori che trovarono negli anni Trenta un ambiente di protezione dove fare germogliare la loro modestia creativa. Vedremo decine di decoratori da saloni pubblici, pittori per sottoprefetture e maniaci attardati del volo aereo trasformati in protagonisti della marginalità. D'altronde l'Italia è il paese dove l'innovazione è faticosa e il codismo virtù premiata, dai neorealisti d'avanspettacolo che scimmiottavano Rossellini agli artisti poveri della seconda e terza ondata che avevano come unico scopo lo smettere d'essere poveri. Torna quindi fondamentale la necessità d'una analisi rigorosa delle estetiche, dell'ambiente, delle motivazioni e dei comportamenti.
È possibile oggi esaltare la macchina con le strade intasate d'automobili e l'aria definitivamente inquinata? Apparentemente no! Ma la situazione, se ripulita dagli orpelli pittoreschi, è la medesima di quella del 1909: anche oggi sarebbe necessario un movimento di stimolo alla ricerca della modernità, d'una modernità che assume valenze diverse, quelle della ricerca scientifica che abbiamo abbandonato. Non erano futuristi gli aeropittori degli anni Trenta, lo erano allora Enrico Fermi e i ragazzi di via Panisperna.
Marinetti futurista lo era sempre rimasto, nel senso che rimase sempre alla ricerca delle alternative di rottura e lo comprova in modo esemplare il suo sostegno nella Quadriennale romana d'un giovane anarco-comunista come Osvaldo Licini, errante, eretico e erotico, piazzato proprio fra gli aeropittori già obsoleti, dei quali era stata invece felice inventrice già negli anni 20 Benedetta Marinetti, sua moglie. Alla radice del movimento che incendia le coscienze prebelliche di cent'anni fa sta una capacità di protesta che guardiamo oggi con autentica nostalgia. Le condizioni esplosive del paese, la crescita industriale, i movimenti sociali in corso dovevano sfociare nel bene e nel male.
L'interventismo, la passione per la guerra non s'immaginavano per nulla il fango gelato delle trincee. Il militarismo esaltato si volle anzitutto antiborghese e vitalista. Appena sentito l'odore della morte programmata Boccioni scrisse guerra=insetti+noia e poi cascò da cavallo, quello che Carrà aveva dipinto nei lancieri che caricavano la folla nel 1904 durante i funerali dell'anarchico Galli, quello che lui stesso aveva posto come protagonista della forza nel dipinto finito al Moma. Il diritto alla protesta, alla ribellione, al vitalismo, è proprio ciò che il genetliaco del Futurismo rischia di affogare nella retorica delle celebrazioni.
«Gli artisti morti sono ben pagati. I vivi non raccolgono che scherni, insulti, calunnie, e patiscono la fame.(...) Sotto il regno di questi sfruttatori del passato, si uccide ogni giorno un poeta di genio. (...) Noi dobbiamo difenderci oggi contro gli abili assalti degli opportunisti, degli spiriti grettamente mercantili che abbondano nel mondo dell'arte». Lo proclamava Marinetti durante la prima serata futurista a Trieste nel 1910, prima del giro di sberle e pugni. Tuttora vero nel conformismo paludato d'oggi.