giovedì 5 febbraio 2009

l’Unità 5.2.09
5 risposte da Stefano Rodotà
di Ludovica Jona


1 Vicenda Englaro
È un esempio di lotta per il diritto, il cui protagonista è il padre di Eluana. Peppino Englaro ha scelto di agire pubblicamente, chiedendo il rispetto della legge come è logico in uno Stato di diritto. Ha modificato l’agenda politica italiana come già aveva fatto Welby.
2 Pacchetto sicurezza
Sono in discussione in Parlamento norme che negano agli stranieri irregolari il diritto alle cure mediche e al matrimonio, violando principi fondamentali della Costituzione italiana. Se approvate, spero che laCorte Costituzionale intervenga per modificarle.
3 Reato di clandestinità
Oltre a costituire un’involuzione del diritto italiano, è un reato inutile in quanto le finalità che si prefigge sono già perseguibili con altre norme.
4 Giustizia diseguale
Con il pacchetto sicurezza si afferma un doppio standard nel giudicare i comportamenti, una gerarchia di reati distinti per tipo d’autore.
5 Obama
Il nuovo presidente Usa non si è trincerato dietro la drammatica crisi economica, come invece fanno quasi tutti i politici italiani. Dall’ambiente a Guantanamo, ha ribaltato la concezione secondo cui i diritti non sono un lusso.

Repubblica 5.2.09
Il dovere del medico davanti al paziente
di Ignazio Marino


Eluana è entrata nei pensieri di tutti noi, si è insinuata nelle nostre coscienze, ha scosso le nostre anime e ci ha posto di fronte a interrogativi che non hanno risposte definitive. Ricoprendo in questo momento un doppio ruolo, di uomo politico e di medico, non nascondo che è proprio la mia professione di chirurgo che mi porta a riflettere maggiormente.
È compito del medico assistere una persona che chiede aiuto, qualunque sia il suo problema di salute. Il medico non può abbandonare un paziente, nemmeno nel caso in cui non vi sia più la possibilità di guarigione.
Il dovere dell´assistenza vale sempre, nella gioia, impagabile, della guarigione e nel dramma delle situazioni che non hanno speranza. È scritto nel cuore di ogni buon medico ed è esattamente con questo spirito che, un giorno dopo l´altro, la maggior parte degli uomini e delle donne che hanno scelto questo particolare mestiere affrontano le loro giornate, in ospedale o in qualunque altra struttura sanitaria dove mettono le proprie conoscenze e capacità al servizio di chi soffre. Non è un lavoro facile, ma ogni medico sa che è questo il suo dovere e che non si può scegliere di curare solo chi guarirà, non si possono fare distinzioni, non è lecito tirarsi indietro quando le cose si complicano. A volte si ha la consapevolezza di correre dei rischi, e i medici hanno paura come tutti, perché sono esseri umani, e non eroi o martiri. Negli anni �80 quando l´Aids dilagava e sembrava non esistesse terapia, molti medici erano a disagio, avevano paura di infettarsi, di ammalarsi anche loro, eppure con mille difficoltà, e qualche defezione, i pazienti non furono abbandonati.
Oggi in medicina le conoscenze tecniche e tecnologiche rappresentano una componente importante del lavoro: l´aggiornamento non finisce mai e con esso l´apprendimento di terapie sempre nuove. Ma quando si passa dallo studio degli esami e delle carte al rapporto con la persona ammalata, entrano in campo i sentimenti, le emozioni, il rapporto di empatia con un altro essere umano che vive un momento di paura e di difficoltà. Non può essere un caso che in tutti i paesi del mondo via sia un´abbondanza di medici che scelgono di specializzarsi in pediatria, per occuparsi della vita che cresce, mentre sono pochi coloro che scelgono di lavorare in una rianimazione, dove spesso la vita sfugge. Per certe specialità bisogna essere attrezzati anche psicologicamente. Servono nervi saldi, tenere a bada i sentimenti di onnipotenza e avere sempre in mente che si è al servizio di qualcuno.
Ricordo un episodio che segnò la mia vita professionale e che avvenne tanti anni fa negli Stati Uniti. Un paziente arrivò in ospedale per essere sottoposto ad un trapianto di fegato, prima di entrare in sala operatoria mi fece avere il testamento biologico che aveva preparato tempo prima e mi disse come voleva essere assistito nel caso in cui le cose non fossero andate nel verso giusto. In particolare, sottolineò che non voleva essere sottoposto alla dialisi e alla nutrizione artificiale se fosse rimasto in coma e mi fece promettere che lo avrei assistito solo con le terapie per il dolore. Entrai in sala operatoria lasciando fuori questi pensieri, il trapianto doveva servire a salvare quel paziente e tutto sarebbe andato bene. L´intervento infatti andò bene, ma purtroppo il paziente non si risvegliò subito, come talvolta può accadere in questa chirurgia. Avevo una ragionevole speranza che nonostante tutto ce l´avrebbe fatta, avevo l´esperienza per immaginare che con il tempo sarebbe migliorato. Ma mi ricordai delle sue volontà, avevo stretto un patto con quell´uomo e lo aveva stretto anche il suo unico fratello, che si sentiva altrettanto vincolato. In balia di sentimenti contrastanti e difficili da dominare chiesi aiuto al comitato etico dell´ospedale che non ebbe dubbi: la volontà del malato andava rispettata e io non potevo farci nulla, non potevo cambiare quelle volontà, il mio dovere era di accompagnare il paziente nella direzione da lui indicata. Ci vollero alcuni giorni perché io mi arrendessi, tentai di posticipare quella decisione che non volevo prendere, sperai che il paziente si risvegliasse come io desideravo. Ma non accadde nulla e, alla fine, dovetti arrendermi e lo accompagnai nel miglior modo possibile negli ultimi giorni.
Chi si assume l´arduo compito di assistere malati che, come Eluana, non hanno più una ragionevole speranza di recupero e non possono esprimere direttamente le proprie volontà, di fronte a interrogativi e dubbi quotidiani, immagino facciano prevalere il senso della missione: studiare, informarsi, valutare ogni possibile soluzione, consigliare e poi ascoltare, dialogare, capire e non imporre mai nulla. È proprio questo il difficilissimo esercizio di equilibrio che il medico è chiamato a fare: agire secondo scienza e secondo la propria coscienza ma senza mai trascurare le convinzioni di chi gli sta di fronte e la sua visione della vita, che non sempre corrisponde alla nostra.
Nella maggior parte dei casi, fortunatamente, si crea tra i medici ed i pazienti o con i loro familiari, una comunione di intenti, ci si capisce, si converge insieme sulla soluzione migliore per il bene dell´ammalato. Se non fosse così, se non si stabilisse un sincero sentimento di rispetto e di alleanza reciproca, una forma che non esito a definire di amore verso un essere umano indifeso e da difendere, non vi sarebbe più la medicina, resterebbe solo la tecnica.
L´autore è parlamentare del Pd e presidente della Commissione parlamentare d´inchiesta sul Servizio Sanitario Nazionale

l’Unità 5.2.09
I ragazzi dell’onda nascosta
di Marco Rossi Doria


Nel mezzo dell'autunno italiano, mentre un'onda di ragazzi riempiva le strade a difesa di istruzione e formazione pubblica, altre migliaia di ragazzi continuavano a lavorare nei bar e nelle officine; servivano a tavola, fabbricavano pantaloni, camicie e borse in piccole manifatture nascoste nei vicoli o in periferia. Per sei o settecento euro al mese. O decidevano di prendere il treno come avevano fatto i loro nonni per entrare in una fabbrica lontana, tornando ogni sera in un appartamento diviso con gli amici del quartiere con cui si erano dati reciproco coraggio per partire. Diciassette, diciannove, ventuno anni. Pochi parlano di questa onda silenziosa, fatta da ragazzi e ragazze di un'altra Italia.
Nel mezzo dello stesso autunno, una sera veniva fatto fuoco su quattro ragazzini davanti a una sala giochi, a cinque chilometri dal centro della terza città italiana, probabilmente da parte di altri ragazzi, legati alla malavita organizzata. E qualcuno per un giorno si è chiesto come mai. Ma né i giornali né le tv si sono interrogati più di tanto sulle persone dell'età dei ragazzi dell'onda o più piccoli che sono parte di tribù adolescenziali e giovanili senza rete e fuori controllo e troppe volte già in balia dei miti e dei comportamenti ispirati al crimine organizzato. Fatti di modelli e riti che tanto più attraggono quanto più forniscono una sponda identitaria, un'appartenenza.
C'è un mare fatto da centinaia di migliaia di ragazzi italiani che hanno lasciato presto la scuola o l'hanno fatta male o comunque sono andati presto a lavorare. Spesso in regime di precarietà, di bassi salari, con mansioni a basso contenuto di sapere e di apprendimento e con quasi nessuna prospettiva di futura formazione. Al Nord come al Sud, questi nostri giovani concittadini producono ricchezza. Senza avere in cambio alcuna reale prospettiva di «sviluppo umano» che ogni paese civile dovrebbe dare ai suoi figli nati meno fortunati. Ve ne sono, inoltre, alcune migliaia che ogni giorno vivono nella immediata vicinanza di mercati illeciti o criminali, in prossimità di armi da fuoco e di alcool. E di sostanze che generano comportamenti incontrollabili e danni duraturi, ottenibili a costi irrisori.
Di chi sono figli questi nostri giovani concittadini con poca scuola? Sono quasi tutti figli di famiglie che vivono sotto la soglia di povertà. E non sono pochi. Secondo l'Istat i minori poveri in Italia sono 1 milione e 809 mila, il 17% del totale; ma di questi, 1 milione e 245 mila risiede nel Mezzogiorno. E' il 70 percento del totale dei bambini e ragazzi poveri italiani, uno su tre dei minori meridionali, concentrati nelle grandi aree urbane.
La nostra scuola o non li conquista o comunque non riesce a favorire la loro emancipazione dall'esclusione precoce. Proprio no. E' fatta per gli altri. Nonostante i molti sforzi di tanti di noi. E la scuola pubblica, per essere tale, non può essere più difesa così com'è. Deve cambiare. Sono i fatti ad esigerlo. Il «Social situation report 2007» della Unione Europea ce lo conferma: la nostra scuola rimane di classe. Più che altrove. I figli di chi ha fatto l'università e ha un lavoro sicuro hanno sempre più possibilità di completare bene l'intero corso degli studi. Tale possibilità va moltiplicata per 2,1 per la Germania, per 2,4 per il Regno Unito, per 2,8 per l'Olanda, per 3,3 per Spagna e Francia, per 3,6 per la media dei 25 paesi dell'Unione Europea. Ma in Italia la possibilità del figlio di chi ha studiato e ha un buon lavoro di finire bene scuola e università è di ben 7,7 volte quella del figlio di chi ha in tasca la terza media! E l'istruzione ancora serve a vivere meglio. E' il primo fattore a determinare buon lavoro e guadagno. E' il primo antidoto alle dipendenze, alle malattie mal curate, alla violenza recata e subita, alle povertà.
L’Italia subito dopo la vittoria della Repubblica, mostrò di esistere anche perché la sua parte migliore, di ogni colore politico, del Nord e del Sud, riconobbe nel libro di Carlo Levi - «Cristo si è fermato ad Eboli» - che vi era una parte d'Italia chiusa nella miseria, esclusa dalle possibilità, che doveva ricevere risposte. Oggi le risposte le si devono ai bambini e ai ragazzi figli di poveri. E del Mezzogiorno in particolare. Ci vuole una grande politica. Che metta insieme le esperienze migliori di scuola, volontariato, banche, imprese. Che ripristini, certo, la forza della legge. Che deve tornare a difendere i diritti e a presidiare i limiti e a essere visibile ai ragazzi di tanti quartieri pieni di rischi. Ma che offra anche scuola innovata, vera formazione. E lavoro dove si produce, si guadagna e si impara anche.
Dov'è questa politica?

l’Unità 5.2.09
Il Vaticano corre ai ripari: «Williamson ritratti la negazione della Shoah»
di Roberto Monteforte


Il negazionista Williamson ritratti le sue affermazioni sulla Shoah e la Fraternità san Pio X accetti per intero il Concilio Vaticano II. In una nota della Segreteria di Stato le condizioni per «sanare» la frattura con Roma.
«Il vescovo Williamson deve in modo inequivocabile ritrattare le sue dichiarazioni sulla Shoah». È questa una delle condizioni poste dalla Santa Sede per una riammissione nella Chiesa di Roma del vescovo negazionista lefebvriano cui Benedetto XVI ha revocato la scomunica. Non l’unica. L’altra, che riguarda tutti e quattro i vescovi della Fraternità san Pio X, è la piena e completa accettazione del Concilio Vaticano II e del magistero dei pontefici che si sono succeduti alla guida della Chiesa cattolica, dal concilio sino ad oggi.
I paletti ai lefebvriani
Incalzata dal montare delle proteste esterne, durissima quella del mondo ebraico, sino a quella «formale» del cancelliere tedesco Angela Merkel e dalle critiche interne alla stessa Chiesa, la segreteria di Stato ha deciso di prendere posizione. L’intenzione è di chiarire e mettere alcuni punti fermi sulla vicenda. Se ne riscostruiscono i passaggi: la remissione della scomunica da parte di Benedetto XVI, un atto di misericordia che veniva incontro alle «reiterate richieste da parte del Superiore Generale della Fraternità San Pio X». L’intenzione del Papa di «togliere un impedimento che pregiudicava l’apertura di una porta al dialogo» per raggiungere l’unità dei cristiani. Si chiarisce che ora ci si attende «uguale disponibilità» da parte dei quattro vescovi lefebvriani. Quindi «la totale adesione alla dottrina e alla disciplina della Chiesa». È la condizione per la riammissione nella Chiesa di Roma, perché, lo si chiarisce, al momento anche se «liberati» da una «pena canonica gravissima», la loro situazione giuridica non è cambiata, come non lo è quella della Fraternità San Pio X. Non vi è stato alcun riconoscimento canonico da parte della Chiesa Cattolica e ai quattro vescovi «non è riconosciuta una funzione canonica nella Chiesa» e «non esercitano lecitamente un ministero in essa». Per arrivare al pieno riconoscimento, si puntualizza, «è condizione indispensabile il pieno riconoscimento del Concilio Vaticano II e del magistero dei papi Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo I, Giovanni Paolo II e dello stesso Benedetto XVI». Il Vaticano, quindi, conferma la disponibilità del Vaticano ad approfondire «nei modi giudicati opportuni» le questioni ancora aperte. Ma sulla Shoah e il negazionismo di Williamson il giudizio è secco. Le sue posizioni sono definite «assolutamente inaccettabili e fermamente rifiutate dal Santo Padre». Al vescovo viene chiesta una formale «ritrattazione». E si assicura che Ratzinger, al momento della remissione della scomunica, non conosceva tali posizioni. Un modo per riconoscere che qualcosa in curia non ha funzionato. Oggettivamente è stata inadeguata l’istruttoria per un provvedimento di questa portata. Sono le critiche mosse nei giorni scorsi da molti ambienti cattolici, da intere conferenze episcopali ed anche dal cardinale responsabile vaticano per l’ecumenismo ed i rapporti con il mondo ebraico, cardinale Walter Kasper. Il Concilio Vaticano II non può essere messo in discussione. Posizioni negazioniste sulla Shoah non possono avere cittadinanza nella Chiesa: sono puntualizzazioni importanti quelle della Segreteria di Stato, forse tardive, che hanno rassicurato.

l’Unità 5.2.09
Il 12 febbraio cadono 200 anni dalla nascita e 150 anni dalla sua teoria
Rivoluzioni Come Galileo, il naturalista ha segnato un prima e un poi nella storia della scienza
Caro Mr. Darwin, dopo di lei non siamo più gli stessi
di Pietro Greco


Il 12 febbraio Charles Darwin «compie» 200 anni, ma le celebrazioni sono già iniziate a Milano. Seguirà Roma. Ecco perché la sua teoria è stata una vera e propria rivoluzione per il genere umano.
Buon compleanno, Mr. Darwin! Il suo, quest’anno, è un compleanno davvero speciale. Persino doppio. Cadono, infatti, 200 anni esatti dalla sua nascita, avvenuta il 12 febbraio 1809. E cadono 150 anni esatti dalla pubblicazione del suo On the Origin of Species, avvenuta il 24 novembre 1859 e che costituisce un autentico spartiacque tra due ere: prima e dopo Darwin.
In tutto il mondo si terranno celebrazioni per questo suo specialissimo compleanno. E anche in Italia non saremo da meno. È iniziato ieri, per esempio, a Milano il Darwin Day, il sesto organizzato dal Museo di Storia Naturale meneghino e che questo volta, per via del bicentenario, ha un carattere davvero speciale. Le feste e le riflessioni sull’importanza, sia strettamente scientifica sia culturale nel suo senso più ampio, si protrarranno fino a domenica, 8 febbraio.
Poi il pallino passerà a Roma, dove mercoledì 12, al Palazzo delle Esposizioni, verrà inaugurata la mostra Darwin 1809/2009, la più grande al mondo per dimensioni e ricchezza di oggetti esposti. La mostra è quella itinerante organizzata dall’American Museum of Natural History di New York, passata anche per Londra, e curata da due tra i più accreditati evoluzionisti, Niles Eldredge e Ian Tattersall. Ma in questa sua versione italiana, curata da Telmo Pievani e dalla sua équipe, ha due sezioni inedite: una dedicata all’evoluzione umana e l’altra ai rapporti che lei, Mister Darwin, ha intrattenuto con l’Italia.
Prima dell’inaugurazione della mostra, nei giorni 11 e 12, di parlerà di Lei, Mr. Darwin, anche all’Accademia dei Lincei. Sì quella che, a partire dal 1611, ebbe tra i suoi membri Galileo Galilei. E proprio quest’anno cade un’altra ricorrenza storica per la scienza che ha per protagonista quello che John Milton, poeta da Lei molto amato, ha definito l’«artista toscano». Nel 1609, infatti, Galileo puntò il cannocchiale verso il cielo e scoprì «cose mai viste prima». Anche il libro, il Sidereus Nuncius, che Galileo diede alle stampe il 12 marzo 1610, costituisce, per dirla con Ernest Cassirer, uno spartiacque tra due ere. Non capita a molti di dividere in due la storia. E per singolare coincidenza temporale, a Lei è capitato di farlo esattamente 250 anni dopo Galileo. Ma perché Lei, Charles Darwin, ha posto, come Galileo, una pietra miliare così importante da segnare un confine nella storia? I motivi sono molti. Ma, se ce lo concede, proviamo a metterne in luce alcuni.
Il primo, il più importante, sta nell’aver elaborato una teoria che costituisce ancora oggi la base con cui vengono spiegati nella maniera più economica tutti i fatti noti in biologia. La migliore metafora per illustrare la grandezza della sua opinione (come amava chiamarla Lei) ce l’ha fornita, di recente, un altro grande evoluzionista: Stephen Jay Gould. La struttura della teoria dell’evoluzione biologica così come la possiamo definire oggi è costituita da un albero con un grande tronco, tre rami principali e una miriade di fronzuti ramoscelli.
AGLI ALTRI LE FOGLIE
Ebbene Lei, Mister Darwin, di questo grande albero ha creato sia il tronco che i tre rami portanti. Tutti gli altri biologi dopo di Lei hanno aggiunto foglie, rametti e qualche innesto. Il tronco è costituito dall’evoluzione per selezione naturale del più adatto. I rami portanti sono: la «potenza», ovvero il luogo ove agisce la selezione naturale; l’«efficacia», ovvero la capacità creatività della selezione naturale; la «portata», ovvero la capacità della selezione naturale di determinare l’evoluzione biologica a grande scala. Dopo 150 anni, il tronco è più saldo che mai. Ma anche i tre grandi rami, sebbene più volte innestati negli ultimi quarant’anni, sono solidi e vitali. On the Origins of Species, dunque, rappresenta per la biologia moderna ciò che gli Elementi di Euclide rappresentano per la geometria: un libro fondativo che contiene l’essenziale di tutto ciò che si conosce in quel campo. Con una differenza, dopo Euclide abbiamo conosciuti geometrie che non sono euclidee. Dopo di Lei non abbiamo conosciuto - non ancora - biologie che non siano darwiniane.
NÉ RE NÉ BACO
Sul piano culturale più generale, la sua teoria contiene almeno tre grandi proposte a loro volta spartiacque. La prima è l’estensione del principio copernicano. Con la sua teoria eliocentrica, avvalorata dalla scoperte di Galileo, l’astronomo polacco aveva tolto la Terra dal centro dell’universo, riducendola a pianeta tra i pianeti. Con la sua teoria dell’evoluzione, Lei non solo ha tolto l’uomo dal centro del creato, riducendolo a specie tra le specie. Ma ha tolto la «necessità di Dio» dalla spiegazione del mondo naturale. Per questo, hanno detto di Lei, che in un colpo solo ha detronizzato l’uomo e Dio. Per questo è inviso ancora a molti. La seconda proposta, discende dalla prima. Grazie a Lei è finita la cesura tra uomo e natura. Tra artificiale e naturale. L’uomo non è fuori dalla natura - non è né il suo re, né il suo baco. Dopo di lei l’uomo è del tutto interno alla natura.Con lei, infine, la storia ha fatto irruzione nella spiegazione scientifica. Come diceva Mario Ageno, non c’è possibilità di spiegazione in biologia al di fuori della storia. Per quanto a molti sembrino tuttora indigeste, dopo queste sue tre proposte nulla nella percezione che l’uomo ha di sé e del mondo è come prima. Buon compleanno, Mister Darwin.

l’Unità Roma 5.2.09
Dai fascio-chic ai cinghiatori: il modello «nuova destra»
di Mariagrazia Gerina


All’ombra del «Campidoglio Alemanno» cresce una inedita forma di progetto politico-culturale. Cementato nelle urne e nei blitz di piazza

Da Casa Pound a Forza Nuova: «faccette nere» all’ombra del Campidoglio
Da una parte il cranio rasato e la stazza da wresteling di Gianluca Iannone. È il capostipite della galassia Casa Pound, che nella «Roma alemanna» alterna blitz muscolari e provocazioni «culturali», concerti a base di «cinghiamattanza» e spedizioni punitive alla sede Rai di via Teulada («passeggiata futurista», l’ha ribattezzata lui), presenza nelle curve e assalti al mondo studentesco dove il «blocco» - nato per gemmazione da Casa Pound - cerca di imporsi ora a colpi di elezioni ora con i bastoni tirati fuori a piazza Navona.
Dall’altra parte, la faccia più moderna e casual chic della destra italiana, Angelo Mellone, testa d'uovo di An, cantore di Alemanno come «Sarkozy de noantri», commentatore del Messaggero e del berlusconiano Il Giornale, politicamente diviso tra la fondazione Fare Futuro di Fini, di cui è direttore editoriale, e la Fondazione Nuova Italia di Alemanno, di cui ha diretto il Centro studi. Come dire: la destra moderna, a cui il sindaco di Roma più esplicitamente sembra rifarsi, che dallo strappo di Fiuggi in poi ha preferito definirsi in assonanza con il Sarkozy di turno piuttosto che con Mussolini, accantonando il problema delle radici fasciste. E la destra muscolare che torna a imporre simboli e richiami del Ventennio, rivisti e corretti in chiave fascio-pop: l'altra faccia del dopo-Fiuggi, che pure prospera nella Roma di Alemanno, moltiplicando blitz e spazi occupati.
Iannone e Mellone. Gemelli diversi: l’uno ostenta il tatuaggio «Me ne frego», l’altro nasconde la croce celtica sotto la camicia al pari di Alemanno. Entrambi politicamente nati dopo il piombo degli anni Settanta, divisi da Fiuggi e riuniti dal nuovo vento che soffia nella capitale. Tanto che domani saranno insieme, proprio a Casa Pound, quartier generale di Iannone, ad ascoltare niente di meno che l’ex Br Valerio Morucci, l’uomo del commando che in via Fani uccise la scorta di Moro. È l’ultima provocazione di Iannone: dare voce al terrorista rosso, che per ragioni di opportunità (rilanciate violentemente dallo stesso Alemanno) non ha potuto tenere il suo seminario a La Sapienza. E ancora di più, cercare sponda nell’ex nemico che all’indomani degli scontri di piazza Navona ha teso la mano ai militanti del blocco studentesco e a Casa Pound. Obiettivo: cercare in lui una legittimazione della galassia fascista. E mandare in soffitta l’antifascismo. Non mancherà oltre al contributo di Mellone quello di un esponente della maggioranza di Alemanno, Luca Gramazio, figlio di Mimmo, formalmente rampollo del dopo-Fiuggi, ma molto legato al mondo dell’ultradestra romana.
Le due destre - ma a guardare bene nel passato e nelle parentele di ciascuno spesso è difficile distinguere chi stia da una parte e chi dall’altra - si sono strette la mano nell'urna, consegnando la vittoria ad Alemanno. E ora proseguono i loro giri di valzer all’ombra del Nuovo Campidoglio. Con più di un rischio per la destra di governo. E vantaggi per la destra di lotta che non tarderanno ad arrivare.
Basta passare in rassegna eventi e ospiti dei luoghi occupati dalla destra per capire il grado di affinità tra la classe dirigente “alemanna” e la base “nera” della capitale. Gli intellettuali organici al partito finiano sembrano frequentare con un certo gusto i luoghi di ritrovo dei neofascisti del terzo millennio. Filippo Rossi di Fare Futuro, e Luciano Lanna, direttore responsabile del Secolo d’Italia, sono ormai habitué di Casa Pound. Fin dalla presentazione del loro Fascisti Immaginari, un’operazione firmata dall’attuale assessore alla Cultura, Umberto Croppi, allora responsabile di Vallecchi. Nostalgia delle radici? Bisogno di sentirsi a casa? Ancora più saldo è il rapporto con i consiglieri comunali saliti in Campidoglio con Alemanno grazie anche ai voti dell’estrema destra. Il luogo più coccolato è il Foro 753: Angelo Cassone, consigliere del Pdl, viene da lì. Al pari di Marco Veloccia, da dicembre consulente di Croppi. Ma ce ne è anche per gli altri. Giuliano Castellino, già Fiamma Tricolore, con i suoi militanti di Area identitaria romana, nuova costola nera del Pdl, ha rinforzato la platea del cinema Adriano dove Alemanno aveva convocato i suoi per rinverdire le radici identitarie del Pdl. E in cambio ne ha ricevuto spazi e sedi alternative allo stabile occupato di via Valadier, da restituire alla Siae.
Poi c’è il soccorso nero, sempre pronto a intervenire. Casa Pound occupa con un blitz uno stabile? Luca Gramazio e Cassone corrono a portare la loro solidarietà. Il Blocco studentesco impugna i bastoni a piazza Navona? E Cassone quasi viene alle mani con il Pd Smedile per difendere i nipotini di Iannone.
Il 2 gennaio Iannone è salito in Campidoglio, insieme a Foro 753 e al resto della galassia. Un incontro con il capo-segreteria di Alemanno, Antonio Lucarelli (anche lui un passato nell’estrema), per spiegare la linea già sposata da Gramazio e Cassone: «Niente stranieri nelle case popolari». Forza Nuova sembra esclusa dal giro. Ma Fiore ha festeggiato la vittoria di Alemanno come una «svolta». E a settembre Fn ha celebrato il suo primo Campo d’Azione dentro ai confini della capitale. In uno dei casali abbandonati che Alemanno avrebbe dovuto censire e mettere in sicurezza.

l’Unità Roma 5.2.09
Nuove strategie: domani sera l’ex Br Morucci a Casa Pound


A invitarlo poche settimane fa era stato un professore di letteratura angloamericana, Giorgio Mariani. Gasparri fu il primo a sparare a zero sull’iniziativa. E Alemanno rilanciò attaccando direttamente l’università «in mano a 300 piccoli criminali»: «Vengono invitati i terroristi rossi e al Papa è impedito di parlare».
Il leader di Casa Pound ha colto la palla al balzo per invitare l’ex terrorista rosso Valerio Morucci - killer nel commando di via Fani e postino delle lettere di Moro durante la prigionia - a parlare nei locali occupati di via Napoleone III. Spunto: la presentazione del libro «Patrie galere». Ma il dialogo tra i due è nato nei giorni degli scontri di piazza Navona su altri temi: il diritto dei fascisti di prender parte al movimento studentesco. Per l’occasione Iannone ha messo insieme un parterre di ospiti che va da Ugo Maria Tassinari, storico della «Fascisteria» contemporanea, a Giampiero Mughini, ex Lotta continua, il primo a portare in Rai, nel 1980, le storie dei neofascisti, con una puntata a tema: «Nero è bello». E chissà se tra il pubblico si manifesterà anche l’ex Terza posizione, Gabriele Adinolfi, che della galassia nera romana continua ad essere intellettuale di riferimento. E con Casa Pound ha un legame di sangue: suo figlio Carlomanno, tra i relatori della serata di domani.

Repubblica 5.2.09
Il premier: al Pci rubli sporchi di sangue. Cossutta: taccia


ROMA - Intervento durissimo di Berlusconi a Canale 5 contro la sinistra. «Non c´è mai stata una presunta superiorità della sinistra che per anni ha vissuto in Italia grazie ai rubli sporchi di sangue dell´Unione Sovietica. Oggi si è dimostrato come alcuni personaggi non sanno nemmeno dove sta di casa la moralità». L´allusione è alle inchieste che hanno coinvolto esponenti del centrosinistra, «una conferma che quando nel �94 fui mandato a casa per un´iniziativa dei giudici che hanno cambiato il risultato elettorale avevo ragione e ho ragione quando dico che i giudici devono fare i giudici perchè sono un ordine dello Stato e non un potere». Sulle accuse al vecchio Pci di aver preso soldi dall´Urss insorge Cossutta: «La moralità di quei comunisti presenti in ogni parte d´Italia a compiere il loro dovere in modo nobile e disinteressato in difesa dei lavoratori e della causa della libertà e della democrazia è ancora oggi motivo di ammirazione profonda e di acuto e generale rimpianto. Taccia chi concepisce la politica, in primo luogo, come strumento in difesa dei propri interessi personali». Oltre alla sinistra, il premier è tornato per il secondo giorno di seguito ad attaccare Soru. «La ricetta da mettere in campo - sostiene Berlusconi - è il contrario di quello che ha fatto Soru che negli ultimi cinque anni ha creato solo vincoli isolando la Sardegna. Io mi chiedo come fa questo signore a ripresentarsi ancora oggi dopo aver fallito come imprenditore, come politico e come governatore. Sono sicuro che i sardi non cadranno in questo tranello». Ma per Soru gli attacchi del premier sono come «la strategia del giocatore di poker che più perde e più rilancia, ma è possibile che la partita termini prima che la sua capacità di rilancio funzioni». Berlusconi, incalza Soru, «mi ricorda Caligola anche per le modalità con cui sceglie i suoi collaboratori. Mi fa una pena infinita perchè nemmeno a 73 anni, riesce a raggiungere quella maturità, quella serietà e quel minimo di distacco dalle cose».
(g. l.)

Repubblica 5.2.09
D'Alema: per le Europee era meglio il 3%
di Giovanna Casadio


L´ira di Bersani: non ci sono vincitori e vinti. Gli ex Ppi: via i Radicali dal Pd
Il ministro ombra chiama Veltroni: "Io lavoro per l´unità e tu dici che io e Massimo abbiamo perso"

ROMA - Code polemiche nel Pd dopo l´ok della Camera alla soglia del 4% alle europee. La linea-Veltroni ha vinto, i dissidenti hanno scelto la ritirata e si sono allineati, ma ieri Massimo D´Alema torna ad attaccare: «C´era bisogno di una riforma più radicale e più profonda» che intervenisse anche sulle circoscrizioni «perché sono così ampie da rischiare di non garantire rappresentanza a tutte le regioni» e «la soglia del 3% a me sembrava più appropriata». Non è il solo rilievo dell´ex ministro degli Esteri. Anche sul federalismo - su cui i Democratici al Senato si sono astenuti lanciando un ponte a Bossi e alla Lega - frena, a conclusione del convegno di "Italianieuropei" con Gianfranco Fini e Roberto Calderoli: «Non possiamo parlarne senza mettere in discussione l´attuale legge elettorale fortemente centralistica. Va completato con una legge elettorale di tipo tedesco». E aggiunge che il dialogo per il dialogo tra maggioranza e opposizione non è una discussione appassionante ma deve servire a dare «risposta ai complessi problemi del paese». Non critica invece il metodo usato nel gruppo parlamentare del Pd per decidere, cioè contarsi: «Un partito democratico può anche votare, comunque è un problema dei dirigenti del partito».
Ad adirarsi per i commenti che hanno accompagnato quel voto nell´assemblea piddì, è invece Pierluigi Bersani. Appena letti i giornali, di prima mattina Bersani - tra i capofila del dissenso, e indicato come lo sfidante di Veltroni alla segreteria quando sarà il momento - chiama il segretario e il vice. Sia a Veltroni che a Franceschini dice che non si gioca a vincitori e vinti e che si sarebbe aspettato ben altro atteggiamento: «Io ho avuto senso di responsabilità, non alimento le divisioni, lavoro per la ditta», e invece «avete detto che io e D´Alema abbiamo perso...». Una sfuriata. «Quando sollevo delle questioni mi chiamate complottista, se ho senso dell´unità, semplicemente ho perso...». A cercare di calmare le acque arriva il comunicato stampa del partito: «È stato nel gruppo un dibattito serio, non ci sono né vincitori né vinti». E Veltroni, nella riunione del governo-ombra, si sfoga: «Basta, non facciamoci prendere dallo spleen della sinistra».
Nel Pd si apre anche il fronte Radicali. Questa volta sono gli ex Ppi a chiedere di cacciare fuori i Radicali dal gruppo parlamentare. Antonello Giacomelli, capo della segreteria politica di Franceschini, fa partire una raccolta di firme tra i deputati: «Con le dichiarazioni in aula di Rita Bernardini, che ci ha accusato di essere "ladri di democrazia e moralità pubblica, di denaro e di roba", di volere "il regime", si è chiuso il percorso con i Radicali che non doveva mai iniziare. Sono incompatibili con il Pd, la rottura è irrimediabile». Quindi, neppure a parlarne di metterli nelle liste democratiche per le europee. Di rimando, Roberto Giachetti, ne prende le difese: «Sì alla candidatura di Pannella. Se siamo divisi, il partito voti». Il capitolo candidature per le europee è aperto. Veltroni ha incontrato il leader dei socialisti, Riccardo Nencini, che però pensa a liste con Verdi e Radicali. Discussione breve durante il governo-ombra sui malumori del partito, da archiviare come «ginnastica interna», per Beatrice Magnolfi. Due trasferte in vista per il governo-ombra (a Monza e a Melfi) e novità sulla conferenza programmatica.

Repubblica 5.2.09
Il giudice alla Asl: dare la pillola del giorno dopo
Boom di richieste dalle adolescenti, i medici genovesi si rivolgono alla magistratura
di Marco Preve


I magistrati: ma occorre valutare i casi che possono nascondere disagi sociali o familiari

GENOVA - Un numero sempre maggiore di adolescenti, anche ragazzine di tredici anni, si presenta in ospedale per chiedere la pillola del giorno dopo. Che fare? Si chiedono i medici genovesi assillati non tanto da dubbi di natura religiosa, quanto piuttosto riguardanti la sfera etico-legale. Così, in assenza di leggi chiare, chiedono lumi alla magistratura. E i giudici rispondono: la pillola deve essere prescritta. Ma si aprono ad un confronto perché, ammettono, è un fenomeno che può nascondere disagio sociale e famigliare.
«Richiesta di parere in merito alla liceità della prescrizione di Norlevo, pillola del giorno dopo a minorenni in assenza dei genitori o di chi ne detiene la patria potestà». Comincia così la lettera del 21 gennaio con cui la responsabile del Presidio ospedaliero metropolitano Bruna Rebagliati si rivolge al presidente del Tribunale dei Minori Adriano Sansa e al Giudice Tutelare della sezione famiglia Francesco Mazza Galanti.
I vertici della Asl3 si sono mossi a seguito delle sempre più frequenti richieste di chiarimenti da parte dei medici dei pronto soccorso e dei reparti di ginecologia e ostetricia. «La minore età, nella prescrizione dei contraccettivi pone il medico di fronte a dubbi e resistenze» scrive Rebagliati. Gli interrogativi sono di natura medico legale e deontologica, «non esistendo nella legislazione italiana una norma specifica che disciplini la contraccezione nella minore età». I punti centrali riguardano la liceità della prescrizione in assenza o all´insaputa dei genitori e l´esistenza di un´età minima per la contraccezione. Negli ultimi mesi, diversi medici genovesi hanno sollevato obiezioni di opportunità legale di fronte all´aumento vertiginoso di adolescenti a caccia della pillola.
Nell´aprile scorso, anche a seguito di polemiche per il rifiuto di alcuni medici, obiettori per motivi religiosi, di prescrivere la pillola a donne maggiorenni, la Regione Liguria aveva dato precise disposizioni per far sì che il diritto previsto dalla legge fosse davvero garantito. Il Norlevo è infatti considerato un farmaco di contraccezione e non abortivo. E´ addirittura definita «uno strumento di prevenzione dell´aborto» e deve essere assunta «nelle 12 ore e non oltre le 72 successive, ponendo di fatto ristretti limiti di tempo per la prescrizione» ricordano i medici. L´Asl 3 sottolinea però un vuoto normativo visto che la disposizione regionale «non si esprime sull´età dell´utente». E quindi chiede un´indicazione univoca a fronte di «interpretazioni medico legali difformi» derivanti da disposizioni e norme di varia provenienza.
La magistratura, pur ribadendo che per la pillola del giorno dopo non può valere l´obiezione di coscienza, riconosce la particolarità del problema e si è detta disponibile ad essere interpellata nei casi dubbi. Inoltre, i giudici stanno verificando con le strutture sanitarie e i servizi sociali la possibilità di intervenire, pur nel rispetto della riservatezza della persona, quando dietro la richiesta della pillola esista il sospetto di un disagio della minore o della totale assenza di controllo famigliare.

Repubblica 5.2.09
Negazione
di Stefano Bartezzaghi


In ogni gruppo di ragazzini ce n´è sempre uno che proprio non sa giocare a pallone. Al culmine della disistima per quest´ultimo lo si chiama "negato". Sei la negazione del gioco del calcio! In effetti, con la sua esistenza, nega una verità universale, e cioè che i ragazzini, specialmente i maschi, siano inclini a tirare calci a una palla e imparano quasi naturalmente a farlo.
La carriera che porta da negato a negativo e quindi a negazionista è però tutt´altro che lineare, ed è felice il lapsus che ha portato un telegiornale a parlare della «affermazione negazionista del sacerdote lefevbriano». Il negazionismo, infatti, non nega affatto: afferma, e ci costringe a pensare che lo studio della storia, l´accettazione di prove sempre ri-verificabili, la consapevolezza che deriva non da un´emozione o da un´idea fissa ma dall´elaborazione personale dei testi non porta a una semplice credenza, ma a schiette certezze. Certezze innegabili, appunto, se non per ideologia malintenzionata. Chi nega la Shoah, abroga la storia a favore di un mito. Del suo modo di ragionare, non a caso, si è occupata una semiologa, Valentina Pisanty, che aveva già proficuamente studiato il linguaggio delle fiabe.

Repubblica 5.2.09
Egitto. Viaggio tra i tesori nascosti dal mare
Da sabato a Torino nella reggia di Venaria cinquecento reperti tra oggetti, sculture, monete e gioielli provenienti da Alessandria e dal tempio di Canopo
La stupenda statua lucida e nera di una regina nuda sotto un velo bagnato


TORINO. Una reggia barocca ospita testimonianze provenienti da una città regale ellenistica nella mostra Egitto. Tesori sommersi, che s´inaugura sabato. Cinquecento reperti, rivelati da una campagna archeologica subacquea effettuata al largo delle coste di Alessandria, arrivano a Venaria dopo un trionfale giro d´Europa. Si tratta di un enorme campionario di opere d´arte, oggetti di uso quotidiano, sculture, monete, anfore e gioielli che offrono un quadro delle varie civiltà che si sono susseguite su un tratto di costa relativamente breve, ma che ha subito rivolgimenti straordinari.
Lì, tra paludi e laghi salmastri, ben prima che Alessandro fondasse la sua capitale egiziana, sorgevano gli avamposti del regno dei Faraoni, le città doganali dove i mercanti cretesi e micenei gestivano i loro empori. Lì il Nilo si divideva in molteplici rami e, anno dopo anno, le piene primaverili modificavano l´incerta linea costiera. Alessandro non vide mai finita la città che aveva disegnato sulla sabbia usando, secondo la leggenda, manciate di farina. Ma dopo la sua morte fu sepolto lì, alla foce del grande fiume, in un tomba di alabastro.
Alessandria è stata la capitale dei Tolomei, gli ultimi faraoni: Greci che si erano calati con entusiasmo nella millenaria cultura egizia. Per secoli fu la più grande metropoli del Mediterraneo. Era una città pianificata grandiosamente, con strade porticate larghe trenta metri e lunghe chilometri e un intero quartiere occupato dallo sterminato palazzo reale. C´erano strutture per la diffusione e la raccolta dell´arte e della cultura: il Museo, la Biblioteca, primi nella storia, un porto per le gigantesche navi cerimoniali dei re, giardini decorati con opere d´arte e giochi d´acqua attivati da meccanismi ingegnosi. Infine, collegato alla terra ferma da un ponte-strada lungo sette stadi, quasi un chilometro e mezzo, la meraviglia più grande: il Faro. Una gigantesca torre che segnalava l´ingresso dei vari porti della città.
La fama di Alessandria era legata ad un vicino sobborgo: un villaggio le cui origini leggendarie riconducevano ai miti omerici. Si narrava che qui fosse morto Canopo, il nocchiero di Ulisse. E Canopo era il nome della cittadina che era nota per l´offerta di divertimenti lussuriosi e di sfrenati godimenti nell´intero mondo mediterraneo. Questo luogo particolare è spesso raffigurato nei cosiddetti "mosaici del Nilo": un mondo fluido abitato da ippopotami, coccodrilli e uccelli acquatici, dove galleggiano zattere ornate di fiori e cariche di musici e ballerine che allietano gli spettatori che banchettano sulle rive. Tanto era famosa Canopo che Adriano, l´imperatore architetto, volle costruire nella villa di Tivoli un triclinio estivo che chiamò con quel nome.
Ma a lungo di questa sentina di ogni vizio si sono perse le tracce. Nel corso dei secoli invasioni, incendi e maremoti l´hanno cancellata, hanno modificato la costa e deviato un braccio del grande fiume. Dove i contemporanei di Cleopatra e di Adriano s´erano abbandonati a danze lascive e a banchetti sfrenati, dapprima arrivarono i cristiani. Nel tentativo di purificare un luogo cosi terribile, lo dedicarono ad un santo eremita. Poi ai monaci e ai pellegrini fecero seguito i conquistatori islamici. Infine un cataclisma naturale fece sprofondare Canopo nel mare senza lasciare traccia.
Solo grazie alle prospezioni fatte negli ultimi anni, in mezzo alla baia di Abukir sono stati trovati i resti dell´antica capitale del peccato. E dal tempio di Canopo proviene, insieme ad oggetti, offerte ed ex voto legati a molte diverse credenze, la stupenda statua lucida e nera di una regina, che conclude trionfalmente il percorso della mostra. Altera, acefala e praticamente nuda sotto un velo bagnato che ne accentua piuttosto che nasconderne le forme, non ha nome, potrebbe essere una qualsiasi delle tante Cleopatre, Berenici o Arsinoe che divisero incestuosamente trono e potere con i propri fratelli. Ma la sensualità del soggetto e la morbidezza delle sue grazie richiamano irresistibilmente la storia della più terribile delle regine egizie. Una certa Arsinoe II, bellissima, crudele, avida e sensuale, che fu divinizzata ed equiparata ad Afrodite, dea dell´amore e protettrice dei naviganti. Binomio perfetto per una città dedicata al sesso e al commercio.

Repubblica 5.2.09
"Religiolus film amorale" crociata degli ultracattolici
A Roma oscurati i manifesti della pellicola, che esce il 13. Il regista: "Tutta pubblicità"
di Silvia Bizio


Censura cattolica scatenata sui manifesti del film Religiolus di Larry Charles, il regista di Borat. Strisce nere adesive li hanno coperti con le scritte "Ateo no" e "Vergogna". La Eagle Pictures che distribuirà il film il 13 febbraio denuncia come responsabili gli appartenenti all´associazione cattolica VeraLibertà: «Sulle pagine del loro blog chiedono anche l´abolizione della campagna promozionale e pretendono da generiche autorità competenti di vigilare sui contenuti del film. Lo accusano anche» aggiunge la Eagle «di veicolare messaggi empi e amorali». La campagna pubblicitaria rappresenta tre scimmiette che ironicamente simboleggiano le tre maggiori fedi monoteiste.
Risponde pronto, dagli Stati Uniti, il regista Larry Charles: «Ringrazio i dilettanti dell´Inquisizione per il loro aiuto nel promuovere Religiolus». Ma se è ironico il messaggio del regista, più duro è il segretario dell´Uaar, l´associazione degli atei, Raffaele Carcano. «Non conosco VeraLibertà ma queste associazioni spuntano come funghi e diventano sempre più invasive. È una gravissima violazione della libertà di espressione. Sembra normale che non si debba parlare di ateismo, non si deve fare concorrenza alla religione cattolica. La Chiesa in pesante crisi di consensi» continua Carcano «si chiude in se stessa, diventa intollerante. Questo papato ha messo una pietra tombale sul Concilio, è tornata indietro di 50 anni».
Interviene nella polemica in tono leggero anche il protagonista di Religiolus, Bill Maher. «C´è un sacco di gente che mi ringrazia per quello che dico» commenta «ma i cattolici in genere mi trattano come un ragazzino cretino. Però basterebbe che gli agnostici si organizzassero, come fanno i religiosi, per scoprirsi in lieta compagnia». Quello che in Italia hanno fatto gli aderenti all´Uaar. «Questa faccenda dei manifesti» commenta Carcano «è la continuazione di quanto è successo a noi con la campagna sugli autobus dove le concessionarie alla pubblicità hanno censurato lo slogan "La cattiva notizia è che Dio non c´è, quella buona è che non ne hai bisogno". Don Livio Fanzaga dalla seguitissima Radio Maria affermava che quelli sarebbero diventati gli autobus del demonio. La situazione peggiora» prevede Carcano «gruppi di persone hanno tentato di bloccare, alla clinica di Lecco, l´ambulanza che doveva portare Eluana Englaro a Udine. Fino a oggi questo era patrimonio dei fondamentalisti americani che assaltavano le cliniche dove si praticava l´aborto. Ora queste cose succedono anche da noi».

l’Unità Roma 5.2.09
Accademia di Spagna. Da domani la retrospettiva sul periodo della «formazione» dell’artista
Paesaggi romani. Il soggiorno nella Capitale tra ’47 e ’48 ispirò diverse delle sue creazioni
Guerrero, l’astrazione a caldo tra Picasso e Paul Klee
di Flavia Matitti


«Los años primeros» fino al 24 marzo nelle sale espositive della Real Academia de España. Oltre cinquanta opere tra dipinti e disegni che ripercorrono i 25 anni di carriera di un astrattista tra i più audaci.
«Ho conosciuto due mesi fa il pittore José Guerrero di Granata in una trattoria romana e, durante la cena, si accese tra lui ed altri amici spagnoli una vivacissima discussione pittorica. Neanche a dirlo, la discussione s’infiammò quando venne fatto il nome di Pablo Picasso. Non sto a dire in quali termini di vilipendio sempre maggiore veniva definita quella pittura a mano a mano che la discussione si svolgeva, e, divenuta generale, investiva il prode José che teneva peraltro testa a tutti valorosamente». Così il critico Benso Becca, nel presentare la personale di José Guerrero allestita nel marzo 1948 alla Galleria del Secolo, ricorda il suo primo incontro col pittore, che tra il 1947 e il 1948 è a Roma ospite dell’Accademia di Spagna. Un soggiorno ricco di incontri e di riconoscimenti, come dimostra l’invito a esporre al Secolo, galleria in cui esponevano anche altri, Mafai, Pirandello, Guttuso e Afro.
potenza popolaresca
Su questi anni di formazione si concentra la mostra «José Guerrero. Los años primeros» (fino al 24/03), aperta da domani al pubblico nelle sale espositive della Real Academia de España. Curata da Yolanda Romero e Francisco Baena, rispettivamente direttrice e coordinatore del Centro Guerrero di Granada, la retrospettiva riassume, tra dipinti e disegni, la produzione di circa venticinque anni di attività, a partire dal 1945, data cui risalgono i primi lavori in mostra, eseguiti ancora in Spagna, paese che Guerrero lascerà nel 1947 per recarsi prima in Svizzera e poi a Roma. «Questa mostra – spiegano i curatori – ha un significato particolare perché per la prima volta alcuni quadri, come la grande ‘Veduta di Roma’ del 1948, tornano nel luogo in cui furono dipinti». Il quadro è tra quelli che Guerrero espose al Secolo, riscuotendo giudizi assai favorevoli. La sua pittura, infatti, nutrita di Matisse e di Klee, oltre che di Picasso, colpì il pubblico romano per la veemenza quasi popolaresca delle immagini, per l’accensione fauves dei colori, i toni caldi. Un critico osservò perfino che Guerrero era «il più audace dei pittori astratti»: una definizione profetica. Dopo questa sezione, infatti, le successive illustrano le tappe del cammino di Guerrero verso l’astrazione, prima attraverso forme biomorfe, poi passando a un’astrazione esplosiva, che appare placarsi però alla fine degli anni Sessanta, periodo con cui si conclude l’itinerario espositivo, ma non la carriera dell’artista, molto attivo nei due decenni successivi tra Spagna e Usa.

mercoledì 4 febbraio 2009

l’Unità 4.2.09
Il silenzio e le bugie
di Concita De Gregorio


Solo in un Paese che abbia smarrito il rispetto degli uomini, la capacità di tollerare la diversità fra simili, di coesistere in libertà nel rispetto del diritto. Solo in un Paese che non CONOSCA più il senso dello Stato la tragica storia della famiglia Englaro può diventare pretesto per una indecente gazzarra fra sostenitori di diverse fazioni (politiche, ideologiche, partitiche o di frammenti di partito, ecclesiastiche) che - perduta l’umanità e la capacità di far posto al pensiero nel silenzio - si avversano in una fragorosa pubblica battaglia a colpi di accuse, menzogne, ricatti, minacce e private personali convenienze. Certamente il fatto di contenere lo stato del Vaticano all’interno del proprio corpo di nazione non favorisce la necessaria distanza da posizioni - quelle della Chiesa - sempre legittime anche quando estreme ma di parte: le posizioni di una parte che alza la sua voce gridando oggi all’omicidio. Tuttavia lo stesso cardinale Tettamanzi, arcivescovo di Milano, dice: «Vorrei che il clamore cessasse, che si aprisse lo spazio della preghiera, della riflessione». Accanto alla legge di Dio sta la coscienza di ciascuno. C’è poi la legge dello Stato che è la legge di tutti, credenti e atei, musulmani e indu. Per la legge comune e per le sentenze non vale il principio dell’obiezione di coscienza. Chiunque, altrimenti, potrebbe opporre la sua personale convinzione per ignorarle o infrangerle. Allora l’unica parola dotata di grande valore e di definitivo senso, fra quelle ascoltate ieri, torna ad essere la parola del Capo dello Stato che chiede: si faccia una legge sul testamento biologico. Il vero delitto, oggi in Italia, è l’incapacità di uscire dallo scontro fra bande e darsi insieme un orizzonte che delle fazioni regoli l’agire. Ci vorrebbe un colpo di reni di residua laicità. Di rispetto reciproco, di libertà. Ci vorrebbero coraggio e altruismo.
Questo giornale ha chiesto silenzio su Eluana molte settimane fa. Ha scritto "Libera" in prima pagina quando la giustizia ha dato al padre la facoltà di agire. Libera senza punto esclamativo, senza enfasi e senza entusiasmo come hanno malignamente mentito alcuni. Libera e basta. Chiunque abbia vissuto il calvario di Beppino Englaro capisce. Abbiamo poi assistito ai tristi ricatti di governo e agli anatemi. Di nuovo oggi il padre chiede silenzio, lo fanno i medici, alcuni illuminati politici. Gli altri continuano a gridare e ad esibire cartelli e pagnotte, ad assaltare le ambulanze. Si prevedono sit in. Dibattiti. Noi ripetiamo: silenzio. Non potendo ignorare le cronache - d’altro non si parla - abbiamo pensato almeno di rendere un servizio. Dire che cosa non è vero. Si rispetti la realtà dei fatti se non si riesce a farlo col dolore degli uomini. Allora: non è vero che Eluana soffrirà, non percepisce il dolore. Non è vero che «morirà di sete e di fame», lo spiegano i medici. Non è vero che interrompere il trattamento medico sia un «omicidio». Al contrario. Il padre di Eluana ha percorso tutto l’iter giudiziario che il nostro sistema consente per essere autorizzato a interrompere l’alimentazione coatta. «Per una volta - scrive Luigi Manconi - il diritto si è espresso in modo inequivocabile: la famiglia Englaro solo a esso si è appellata e solo di esso si è fatta scudo». Adesso, se chi urla è capace anche di agire, si faccia una legge.

l’Unità 4.2.09
Le sei bugie sul caso Englaro. Ecco come stanno le cose
di Luca Landò


Le sue condizioni. Eluana non ha più parola, percezione di dolore, fame o sete
La sua volontà. Una vita artificiale grazie a trattamenti sanitari. Che rifiutava

Il cervello di Eluana è stato irrimediabilmente compromesso la notte del 18 gennaio 1992 quando la sua auto slittò sul terreno ghiacciato e andò a sbattere contro un muro. L’incidente lasciò intatte le parti del cervello che controllano le funzioni fisiologiche primarie, come la respirazione e il battito cardiaco, che si trovano nel cosiddetto tronco encefalico. I danni più gravi riguardarono invece la corteccia cerebrale, una sorta di “cuffia” che avvolge il cervello e nella quale vengono elaborate funzioni più complesse come la parola, la visione, la percezione del dolore ma anche la fame e la sete. Quando i medici della clinica di Udine inizieranno a ridurre progressivamente l’idratazione e l’alimentazione artificiale, Eluana non si accorgerà di nulla, così come è da 17 anni che non avverte né fame, né sete, né dolore.
Dire che Eluana si possa riprendere dalla situazione in cui si trova (stato vegetativo permanente) è come dire che il treno su cui viaggiamo deraglierà sicuramente o che la casa in cui ci troviamo crollerà tra cinque minuti: tutto è possibile, ma le probabilità che simili eventi accadano sono talmente basse da non poter essere prese in considerazione ai fini delle nostre decisioni (altrimenti non viaggeremmo sui treni o non abiteremmo dentro case).
Eluana è stata definita la Terry Schiavo italiana, con riferimento alla giovane americana su cui si è accesa una violenta battaglia giuridica. Come scrive Maurizio Mori nel suo libro («Il caso Eluana Englaro», Pendragon Editore), «l’analogia è corretta per quanto riguarda l’aspetto clinico (in entrambi i casi si parla di stato vegetativo permanente), è invece sbagliata per quanto riguarda i risvolti giuridici». La vicenda di Terri Schiavo divenne una “caso” per via della fortissima divergenza tra i famigliari. Il marito asseriva che lei non avrebbe mai voluto restare in stato vegetativo e chiedeva la sospensione dell’alimentazione e idratazione artificiali; al contrario, il padre, la madre e il fratello della donna sostenevano che quella non era la volontà di Terri.
«Il caso Eluana - ricorda Mori, che ben conosce la famiglia - non ha mai presentato alcun contrasto tra i famigliari. Anzi, la situazione è diametralmente opposta: i genitori Englaro sono perfettamente concordi circa la sospensione dei trattamenti».
Il caso Terri Schiavo, semmai, insegna un’altra cosa: l’autopsia eseguita subito dopo la morte della donna rivelò che il cervello si era irrimediabilmente atrofizzato al punto da pesare soltanto 615 grammi (circa la metà del normale). Quell’esame stabilì senza ombra di dubbio che le sue condizioni erano «irreversibili e che nessun tipo di terapia o cura riabilitativa avrebbero potuto cambiare le cose», come disse il dottor John R. Thogmartin, patologo del sesto distretto giudiziario della Florida che condusse l’autopsia.
Dicono: interrompere l’idratazione e l’alimentazione artificiale ad Eluana è come togliere il pane e l’acqua a una persona. L’analogia fa effetto ma è sbagliata: si tratta infatti di trattamenti sanitari che richiedono un intervento del medico sia per quanto la modalità di somministrazione (nel caso di Eluana un sondino nasogastrico) sia per il tipo sostanze inserite (non un frullato di frutta preparato in cucina ma una miscela di proteine, vitamine e quant’altro indicate dietro rigorosa prescrizione medica). Se si decide di interrompere ogni forma di accanimento terapeutico, come in questo caso, è giusto sospendere anche questi trattamenti artificiali.
Maurizio Gasparri, presidente dei Senatori PdL, ha detto ieri che «è iniziato l’omicidio di Eluana», frase che si accompagna a quella di Enrico La Loggia, vicepresidente del Gruppo PdL alla Camera («A Udine si sta per compiere un vero e proprio omicidio») e a quella del cardinale Barragan («Fermate quella mano assassina»). Infine l’associazione cattolica «Scienza & Vita», lo scorso anno, ha lanciato un appello che iniziava con queste parole: No alla prima esecuzione capitale della storia repubblicana».
Prima di usare simili espressioni, pronunciate al solo scopo di stimolare emozioni e attirare attenzione, sarebbe bene riflettere su alcuni punti:
1) l’articolo 32 della Costituzione dice che «Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario» e che «La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». Proprio di recente, una donna a cui si è prospettata la necessità di amputare un arto, ha deciso di rifiutare l’intervento anche se questa scelta le è costata la vita;
2) il padre di Eluana ha percorso tutto l’iter del nostro sistema giudiziario prima di ottenere l’autorizzazione a interrompere i trattamenti artificiali di alimentazione e idratazione che da 17 anni tengono in vita il corpo di Eluana. I giudici hanno riconosciuto: a) che il padre ha svolto il ruolo di tutore delle volontà della figlia (che non avrebbe voluto vivere in condizioni di stato vegetativo); b) che i trattamenti artificiali di alimentazione e idratazione sono trattamenti medici e, come tali, rientrano in questo caso nella fattispecie di accanimento terapeutico
3) l’omicidio, il più grave dei reati, è punito con le pene più alte: il medico che interrompe, dietro volontà del paziente o del suo tutore, una situazione di accanimento terapeutico non è punito dalla legge; al contrario, lo sarebbe se si ostinasse a curare il paziente contro la sua volontà (abuso di ufficio).
4) a parte la scelta di ignorare il dramma di una famiglia (ma anche quello di altre 2500 nella stessa condizione) gli esponenti di Scienza & Vita hanno deciso di non riconoscere la figura dei giudici della Corte di Appello e della Corte di Cassazione che hanno sentenziato sul caso Englaro. La condanna capitale in Italia è infatti vietata dalla Costituzione (art. 27): cosa intendevano sostenere gli autori dell’appello, che in Italia i giudici non rispettano la Costituzione?
La Cei ha detto ieri che «togliere idratazione e alimentazione ad Eluana è eutanasia».
Va notato come nella frase, ripresa dalle agenzie, manchi l’aggettivo “artificiale”: come spiegato sopra, l’alimentazione e l’idratazione artificiali sono, in questo caso, trattamenti sanitari e, dunque, da interrompere per volontà del padre che, come riconosciuto dalla legge, rappresenta quella della figlia.
L’eutanasia viene praticata in alcuni Paesi, l’Olanda ad esempio, per alleviare le sofferenze di pazienti terminali. La morte viene indotta con la somministrazione, prima di un sedativo, poi di una sostanza che blocca il battito cardiaco o interrompe la respirazione: è dunque un intervento attivo che viene effettuato dietro volontà del paziente e dopo la decisione di un giudice. Eluana non è una paziente terminale: non ha un male che la consuma giorno dopo giorno. Nessuno, inoltre, ha mai parlato di interrompere il suo battito cardiaco ricorrendo a farmaci. Eluana si trova invece in una situazione vegetativa permanente che si protrae nel tempo solo per i trattamenti di idratazione e alimentazione artificiali. Secondo quanto detto dal padre e dai giudici dopo 12 anni di valutazione del caso, questi trattamenti sono stati sempre effettuati contro la sua volontà.

l’Unità 4.2.09
La forza potente del dolore
di Luigi Manconi


Ora che la vicenda di Eluana Englaro – una sorta di parabola per credenti e laici – si avvia all’epilogo, risultano più nitide le figure dei diversi protagonisti. Da una parte, sgangherate manifestazioni di fanatismo: quello di chi grida «assassini» verso l’ambulanza che porta via Eluana e quello di chi (qualche prelato e molti politici) definisce «un omicidio» la pietosa scelta dei suoi familiari. Dall’altra, il volto nobilissimo, nella sua scavata essenzialità, di Beppino Englaro che ha saputo fare del solo sentimento che lo muove, l’amore per la figlia, una testimonianza civile e morale.
UNA NOVITÀ CULTURALE
Sullo sfondo, una straordinaria novità culturale e religiosa: a favore del diritto all’autodeterminazione come espressione della libertà di coscienza e della “libertà dei cristiani” si sono espresse le intelligenze più acute del cattolicesimo italiano: Vito Mancuso e Roberta De Monticelli, Vittorio Possenti e Giovanni Reale.
Tutto ciò ha lasciato traccia persino all’interno della Conferenza episcopale italiana, le cui più recenti parole sono state diverse da quelle precedenti: si parla di eutanasia, ma precisando che ciò accade “al di là delle intenzioni” e ci si affida “alla preghiera” (che è dimensione propria dell’espressione di fede più di quanto lo sia l’accalorato dibattito pubblico-politico).
IL DIRITTO RICONOSCIUTO
Ma ciò si deve al fatto che l’intera giurisprudenza ha riconosciuto il diritto di Beppino Englaro a decidere sulla sorte ultima della figlia.
Per una volta il diritto si è espresso in modo limpido e inequivocabile: e questo è accaduto perché la famiglia Englaro solo a esso si è appellata e solo di esso si è fatta scudo. Come nelle tragedie greche e come nella storia delle vittime di tutti i tempi, il dolore più intimo – se trova il coraggio di manifestarsi nello spazio pubblico – può farsi forza potente, capace di fondare nuove norme e di tutelare le libertà collettive.

Liberazione 4.2.09
Stefano Rodotà giurista ex garante dei dati personali:
«Governo recidivo, violata ancora la legalità costituzionale»
intervista di Vittorio Bonanni


Il ministro Sacconi che minaccia interventi formali del governo per fermare la mano dei medici che dovrebbero interrompere l'alimentazione artificiale che tiene in vita Eluana; il cardinale Barragan, presidente del Pontificio consiglio per gli operatori sanitari, che chiede di fermare «la mano assassina». Mentre la vicenda della giovane in coma vegetativo da 17 anni sembra volgere al termine, c'è chi non si rassegna e tenta in tutti i modi di ignorare le diverse sentenze della magistratura che hanno detto sì alla volontà espressa dai genitori di Eluana e dalla stessa ragazza. Abbiamo chiesto a Stefano Rodotà, giurista autorevole, attento ai temi della laicità e dei diritti della persona, un parere su questo scenario. «E' in atto non da oggi - dice l'ex garante della protezione dei dati personali - un gravissimo e pericoloso conflitto sul tema della legalità e il rispetto dei diritti. Queste invocazioni, questi tentativi di impedire che si dia esecuzione ad una sentenza passata in giudicato non vengono da soggetti che fanno appello a dei criteri morali. In tal senso figuriamoci se sono d'accordo sul contenuto e ancor meno sulle parole del cardinale Barragan».
Ma almeno agisce senza avere un ruolo istituzionale. Ma quando dichiarazioni di questo genere e annunci di comportamenti vengono da responsabili politici investiti da ruoli particolarmente rilevanti come un ministro qui si apre un conflitto».

Che certamente non è nuovo, vero professore?
Sì, si tratta di un conflitto aperto da molto tempo. Gli atti precedenti, dichiarati assolutamente illegittimi, si sono esplicitati con tre tentativi di bloccare attraverso strade più o meno corrette dal punto di vista legale l'attuazione della sentenza: primo tentativo, il Parlamento che ha sollevato appunto un conflitto tra magistratura e Parlamento stesso dicendo che non spettava ai giudici dare indicazioni in materia. La Corte Costituzionale ha liquidato molto rapidamente questo come un atteggiamento non corretto e ha valutato che la magistratura si è mossa nell'ambito dei propri poteri e delle proprie competenze.
Secondo tentativo, Formigoni, governatore della Lombardia, che dice "non in casa mia". Questo atto è stato impugnato davanti al Tribunale amministrativo della Lombardia, che ha annullato il provvedimento del presidente. Terzo, il cosiddetto atto di indirizzo di Sacconi, che più passa il tempo, più è stato studiato da chi ha conoscenza di grammatica giuridica, più si è rivelato un provvedimento legalmente improponibile. Tant'è che lo stesso governatore del Friuli Venezia Giulia, che come sappiamo è una regione amministrata dal centro-destra, non ha ritenuto vincolante qull'atto di invito. Quindi noi siamo di fronte ad un conflitto che ci viene riproposto di nuovo dopo che in tutte le sedi istituzionali questi tentativi della maggioranza di governo o del governo in quanto tale sono stati ritenuti assolutamente illegittimi.

Un grave strappo istituzionale...
E una gravissima violazione della legalità costituzionale perché sono in gioco contemporaneamente i poteri dello Stato e i diritti individuali e fondamentali delle persone. Questo come valutazione d'insieme. Sicché trovo stravagante per non usare altre parole, la richiesta di Buttiglione di organizzare una riunione immediata del Consiglio dei ministri perché sia approvata una legge che dovrebbe avere come obiettivo quello evidentemente di bloccare l'attuazione di una sentenza. Ne ho viste di tutti i colori in questo paese ma dire che con un decreto legge si possa impedire che una sentenza possa avere attuazione viola la stessa logica della politica costituzionale.

Professore, non siamo di fronte anche ad una grave violazione della sfera personale?
Non userei in questo caso la parola privacy . Qui c'è la fine del rispetto della dignità delle persone. Un principio che deve guidarci in ogni momento. Qui la dignità del morire non può essere evidentemente considerata qualcosa sulla quale ci si accanisce con una certa violenza. Anche da questo punto di vista in altri tempi si sarebbe detto che c'è una spaventosa mancanza di carità cristiana. Oggi dobbiamo dire laicamente, anche se quell'espressione della carità cristiana continua a piacermi, che il principio di dignità, che è uno dei principii fondativi di uno stato democratico, è violentamente aggredito. E non si dica che la dignità è quella di chi deve vedere la propria sopravvivenza resa obbligatoria ma di chi invece deve essere rispettato nelle sue decisioni e nel suo essere persona.

Quando si affrontano questi temi si parla sempre di vuoto legislativo. Ma non si rischia, visto lo scenario che offre il Parlamento, di "colmare" questo vuoto peggiorando la situazione?
Anzitutto non enfatizzerei il profilo "vuoto legislativo". Non c'è infatti questo vuoto tant'è che i giudici, con alcune decisioni, in particolare con la sentenza cardine di tutta questa vicenda, quella della Corte di Cassazione dell'ottobre 2007, hanno potuto ricostruire con molto rigore il sistema giuridico italiano mettendo in evidenza tutti gli elementi che già oggi, senza bisogno di una legge, consentono di arrivare alla conclusione che si è delineata, e cioè il diritto di rifiutare le cure e di morire con dignità. Quindi io uso con prudenza, e anzi tendo a non accettare l'argomento del vuoto legislativo perchè significa che qualcuno lo ha riempito più o meno illegittimamente. Quello che hanno fatto i giudici è assolutamente legittimo, conforme ai principi del nostro sistema e della nostra Costituzione, perché hanno letto tutta una serie di norme, come ci è stato insegnato dalla stessa Corte Costituzionale, secondo un'interpretazione costituzionalmente orientata. Oggi dunque non c'è un vuoto. Ci possono essere degli aspetti operativi che hanno bisogno di una disciplina più puntuale. Per esempio la forma del testamento biologico o la possibilità di nominare un fiduciario di un amministratore di sostegno per evitare che ci siano ancora dei dubbi. Ma il mio timore è che si voglia usare l'argomento "dobbiamo fare una legge" sul testamento biologico o sulla tutela della vita fino alla sua fine "naturale", per una vera e propria restaurazione e per tornare indietro rispetto a ciò che già oggi è possibile per i cittadini italiani, ovvero poter rifiutare le cure in diverse forme.

l’Unità 4.2.09
«Questo centrodestra è formato da un branco di arroganti e ignoranti»
Maria Zegarelli intervista Margherita Hack, astrofisica


Non parla soltanto come scienziata, parla come cittadina di un paese che fatica a riconoscere. E non fa sconti, Margherita Hack.
Non si spengono i riflettori su Eluana Englaro, si annunciano marce su Udine. Che ne pensa?
«Intanto vorrei dire che apprezzo molto l’atteggiamento del presidente del Friuli Renzo Tondo, un uomo del Pdl che ha assunto una posizione laica e di grande rispetto».
Ha visto il video choc, le persone che gridavano a Eluana sull’ambulanza: «Ti vogliono uccidere»?
«È una vergogna. Se non ci fossero stati i progressi della medicina Eluana sarebbe morta 17 anni fa, questa è la verità».
C’è chi accusa di omicidio i medici che sospenderanno i trattamenti artificiali. La Chiesa parla di eutanasia.
«Qui non siamo di fronte alla difesa della vita, siamo di fronte a posizioni ideologiche. C’è qualcuno che vuole far vincere le proprie idee senza considerare Eluana. Eluana è già morta, di fatto. È un corpo tenuto in vita da macchine, non in grado di soffrire o di capire cosa le sta accadendo intorno. È come fosse sotto anestesia da 17 anni».
Forse la Chiesa e i cattolici hanno paura che si crei un precedente con l’applicazione di questa sentenza, in vista della legge sul testamento biologico?
«Ma una legge sul testamento biologico è indispensabile e deve tutelare le volontà del paziente».
È questo il punto. C’è chi sostiene che idratazione e alimentazione artificiale non siano cure mediche e quindi nessuno può sospenderle.
«Sarebbe innaturale imporre una cosa del genere: stiamo parlando di trattamenti medici. Qui non c’è più alcun sentimento cristiano verso chi soffre, c’è soltanto la volontà di imporre il proprio punto di vista. Se vogliono fare una legge del genere è meglio che lascino stare, significherebbe togliere diritti alle persone sulla propria vita e il proprio corpo. È inammissibile».
Davanti al caso di Eluana come ci si dovrebbe muovere?
«Con il massimo del rispetto. L’ingerenza della Chiesa e la debolezza della politica sono due cose veramente insopportabili. La politica solo una cosa deve fare: una legge per il testamento, che poi deve essere eseguito secondo le volontà di chi lo ha sottoscritto».
Secondo lei c’era un altro modo di raccontare il caso Englaro?
«Credo che finora tutto si sia mosso con una grande irrazionalità, con grande voglia di prevaricare la volontà degli individui. È incivile».
Nel centrodestra c’è chi ha chiesto un decreto d’urgenza per bloccare tutto.
«Questo centrodestra è formato da un branco di politici arroganti e ignoranti che pretende di bloccare una decisione della magistratura. Ma il Pd dovrebbe essere più coraggioso».

l’Unità 4.2.09
Benvenuti nella tribù
Violenza e protezionismo
È la crisi che genera i nostri nuovi mostri
di Loretta Napoleoni


Un filo rosso lega il branco di Nettuno agli inglesi che scioperano
contro gli italiani

Cosa lega la crisi economica che si è abbattuta sul villaggio globale e le manifestazioni xenofobiche degli ultimi giorni? Un filo diretto e invisibile accomuna il gesto incomprensibile di tre ragazzi che per provare una forte emozione danno fuoco ad un barbone nella stazione di Nettuno e gli scioperi selvaggi che imperversano in Inghilterra contro i lavoratori stranieri; e questo legame, paradossalmente, lo ritroviamo anche nelle stanze del potere della nuova amministrazione americana, che propone un programma di salvataggio economico condizionato all’acquisto di prodotti «esclusivamente» americani. Ben tornati nella tribù! Poiché questo è lo slogan con il quale si apre il recessivo 2009.
Di fronte ai primi veri problemi economici la globalizzazione si sgretola. Tendenze protezioniste minano il WTO, gli accordi faticosamente stipulati dall’organizzazione mondiale del commercio sembrano ormai carta straccia, anche i fondamenti dell’Unione Europea sono messi a durissima prova dagli scioperi in Gran Bretagna. A Davos, tempio sacro della globalizzazione, Russia e Cina apertamente accusano l’America di non saper «guidare il mondo» ed a Washington le fronde protezioniste fanno stragi di liberal al congresso.
Alla base di queste reazioni, che soltanto sei mesi fa’ sarebbero state reputate assurde, c’è la paura. La paura della disoccupazione spinge un sindacato laburista a schierarsi con la destra nazionalista e antieuropea britannica e la paura che l’America precipiti nella seconda Grande depressione convince il primo presidente afro-americano a proporre riforme protezioniste. E infine la paura, non la noia o la droga, motiva i giovani italiani a commettere un crimine da Arancia Meccanica.
Il mondo globalizzato è un pianeta che spaventa, popolato da gente terrorizzata dal diverso e dalla diversità. Ce ne stiamo accorgendo solo adesso che la recessione ci accomuna nella disgrazia, ma da vent’anni chi vive ai margini del villaggio globale - dove il processo di omogeneizzazione non ha portato pace e prosperità ma il proliferarsi delle guerre o il dilagare della povertà - convive con questa paura. Molti, specialmente i giovani, si sono protetti ricreando la struttura tribalista dei branchi.
Dalle Maras centro americane alle gangs britanniche, dalle bande di adolescenti Nigeriane fino alle cellule jihadiste, il branco è la risposta ai timori ed alla minaccia della globalizzazione. E la matrice comune del nuovo tribalismo è, naturalmente, la violenza. Le bande oggi come ieri combattono la paura con la violenza, e la violenza è ormai diventata uno stile di vita. In un documentario britannico, Gang Wars (guerre tra bande), il leader di una banda londinese, Taba, sostiene che la violenza «durerà per sempre, perché è la gente a essere violenta».
La violenza simboleggia anche l’onore e l’orgoglio, l’identità del singolo e il metro per decidere l’appartenenza o il rifiuto di entrare in una banda. Per essere ammessi nelle moderne tribù è necessario superare un duro rito di passaggio. Gli aspiranti mareros si sottopongono a una complessa e dolorosa prova, che ricorda quelle imposte dalle sette sataniche medievali. Devono uccidere un membro di una banda rivale o assistere a un’esecuzione. «La prima volta che ho visto una decapitazione avevo dieci anni. Per un mese intero sognai il morto che veniva verso di me con la testa tra le mani. Poi, con il tempo, ci si abitua agli omicidi e quando capita che un tuo amico uccida uno di un’altra banda sei contento, anzi lo tormenti pure mentre sta morendo. Ti diverti». Racconta Necio un ventenne membro di Mara Salvatrucia, una banda di El Salvador. La violenza è dunque anche sinonimo di divertimento, ed il comportamento dei tre delinquenti italiani ne è la riprova.
La paura del diverso serpeggia da anni anche nel villaggio globale, la ritroviamo nel lessico della guerra contro il terrorismo. La politica della paura del presidente Bush ce lo ripropone, anzi lo catapulta nell’arena politica internazionale. Pensate al suo famoso discorso all’indomani dell’11 settembre. Bus divide il mondo in due gruppi: «chi è con noi e chi è contro di noi». Una frase che secondo il Guardian è la più cruda espressione della politica tribale mai concepita». Come possiamo definire loro e noi se, ad esempio, gli attentatori suicidi di Londra erano cittadini britannici? La nazionalità, il vecchio nazionalismo quindi, non è più l’unica causa determinante né una categoria valida. Il tribalismo sembra adattarsi meglio al nuovo scenario.
Anche senza volerlo noi finiamo per assimilare il lessico tribale e quando ci sentiamo minacciati, a reagire sono i nostri istinti tribali. Cosi chi sciopera in Scozia contro i lavoratori italiani e portoghesi dichiara apertamente che sciopererebbe anche se questi fossero inglesi o gallesi, lo sciopero mira infatti a proteggere la forza lavoro locale. E la solidarietà manifestata da altri lavoratori nel territorio di sua maestà ha gli stessi obbiettivi: proteggere il proprio orticello. Il pericolo è quindi che anche il tessuto nazionale delle organizzazioni sindacali, già seriamente indebolito dal governo Thatcher, si sgretoli completamente.
Sono scenari questi agghiaccianti, che ci devono far riflettere sull’involuzione in atto in un pianeta in preda alla recessione. Poco meno di un secolo fa’, il crollo di Wall Street fece precipitare il mondo nella Grande depressione, preludio della follia nazista che sfociò nella seconda guerra mondiale. Anche allora a guidare l’ascesa del nazismo sulle ceneri della repubblica di Weimar fu la paura del diverso, uomini donne e bambini con in petto una stella di Davide gialla. Anche a casa nostra c’erano i diversi, appartenevano al movimento operaio perseguitato dalle camicie nere. La simbologia cambia ma la sostanza resta: la paura è un grandissimo strumento di manipolazione collettiva, e quindi è solo questo che dobbiamo temere perché domani i diversi potremmo essere proprio noi.

l’Unità 4.2.09
«L’identità d’Italia la dobbiamo cercare pure in Tolstoj e Brecht»
intervista a Alberto Asor Rosa di Maria Serena Palieri


Da solo. Alberto Asor Rosa, dopo quasi vent’anni spesi nel dirigere il lavoro collettivo della Letteratura italiana, grande opera Einaudi, arriva in libreria con le duemila pagine di una Storia europea della letteratura italiana (3 volumi, euro 30 ciascuno), ancora per la casa di via Biancamano. Stavolta si devono tutte alla sua penna. E l’omaggio da rendere non è all’impresa olimpionica in sé, ma al costante - splendido - livello d’indagine e stilistico. Pagine tutte di suo pugno, dunque, salvo l’ospitalità accordata a una serie di schede linguistiche firmate da Sabine Koesters Gensini. Intanto, diciamo che nel titolo il peso specifico maggiore lo riveste quell’aggettivo: questa è una storia della nostra letteratura in chiave «europea». Nel primo volume convivono Dante e Swift, nel secondo Manzoni e Chateubriand, nel terzo Calvino, Dickens, Brecht... Freschi di stampa, ci guardano da un tavolo nell’appartamento romano di Asor Rosa, in Borgo, spolverati di tanto in tanto dalla coda di Pepe, golden retriever enorme ma cocciutamente cucciolo.
Con un ventennio di ritardo sul mondo anglosassone, a inizio anni ‘80 nelle nostre università ha trovato spazio la comparatistica, che getta uno sguardo a 360° sulle «storie» narrate nel pianeta, esplorando ciò che può unirle. Disciplina perfetta per tempi di globalizzazione. Perché da noi è arrivata tardi?
«Per il residuo di pregiudizio idealistico-crociano, una mentalità avversa a forme disciplinari mescolate, al mettere insieme, in questo caso, universi linguistici diversi per farne una storia unica. E spesso la comparatistica italiana non è andata al di là di accostamenti un po’ meccanici. Da noi circola, più che per spinte autoctone, sull’esempio di modelli stranieri, come Starobinski».
Parlare di Milton o Tolstoj in una storia della letteratura italiana è un modo di renderle omaggio?
«No, io sono stato ispirato, al contrario, da una ricerca dell’identità italiana, un’identità che si è costruita nei secoli, però, in uno scambio imprescindibile con la letterature europee contemporanee. Da un certo momento in poi, “occidentali”. L’interscambio in qualche caso è andato dall’Italia a fuori, diciamo dalle origini al Cinquecento, in qualche caso al contrario, dal Seicento a oggi. Ma non in modo così univoco».
L’Italia è un Paese che, prima di esistere come Stato, è esistito per sette secoli come lingua e come letteratura. E questo l’abbiamo imparato al liceo, da Francesco De Sanctis...
«Prima, da un gesuita, Girolamo Tiraboschi, autore nel Settecento di una Storia della letteratura italiana che rimane come un archetipo. De Sanctis laicizza la questione e la collega alle istanze risorgimentali».
In questo raffronto europeo l’unicità spicca: siamo l’«unico» paese europeo vecchio di novecento anni ma giovane d’appena un secolo e mezzo. Visto il crollo identitario che attraversiamo, vale la pena ragionarci. E questa «Storia» ci racconta appunto che la «questione della lingua» - questione di identità - per noi, è carsica. L’analisi del Neorealismo in questa chiave - chiusi il fascismo e la guerra, come recupero della freschezza della lingua quotidiana - è, in effetti, uno dei passaggi più belli di queste pagine.
«Io mi ancoro alla lezione di De Mauro, alla sua Storia linguistica dell’Italia unita. E cimentandomi in proprio in due momenti in particolare, nel primo Cinquecento, dove c’è la normalizzazione “bembesca”, ma anche fenomeni di radicamento nella lingua parlata, come nelle commedie del Ruzante, che ci rivelano un’altra lingua e, quindi, un’altra Italia. E nel Neorealismo, appunto, dove l’invenzione letteraria è anche linguistica, e viceversa».
Alcuni anni fa Asor Rosa diagnosticava la scomparsa d’una lingua letteraria italiana. Orazione funebre, per un Paese che, appunto, su di essa è nato. È questa, oggi, la nuova, e apocalittica, «questione della lingua»?
«Sulla base degli ultimi due o tre decenni di analisi direi che non c’è più una lingua letteraria nel senso tradizionale del termine. Intendo nel senso di Calvino, Pasolini, Morante, Ginzburg. Che, con innovazioni anche enormemente sorprendenti, si muovevano dentro un solco. Il solco è stato distrutto. Gli autori più giovani - io qui mi fermo ai quarantenni - vanno tutti alla ricerca di un modo diverso di esprimersi, in cui il parlato ha una preminenza molto maggiore. La lingua letteraria è quella che si distacca dall’uso comune cercando di raggiungere risultati di alta formalizzazione, tenendo conto delle esperienze precedenti o contemporanee. E questo vale per l’italiano come per i dialetti: Belli e Porta non si limitavano a un ricalco del parlato dialettale, né lo ha fatto Meneghello. Questo s’è enormemente attenuato nei narratori italiani vicini a noi. Molto meno nella poesia».
Si deve all’egemonia che dalla fine degli anni Ottanta comincia a esercitare il mercato?
«Non solo. Io chiamo “esploratori del magma” anche narratori non così mercatistici, per esempio Mazzucco, Veronesi, Ammaniti. Sono quelli in cui gli elementi della tradizione si stemperano fino quasi a scomparire. Ma dove ermerge il tentativo di ricostruire un universo letterario su basi nuove. Sono personalità, cioè, che il mercato lo fronteggiano dialetticamente».
E questo cosa dice, in senso più largo, sulla possibilità di superare il baratro in cui ci troviamo come Paese?
«Ci sono tante possibilità di superare positivamente questo passaggio letterario quante di superare questo passaggio storico.
Rischiamo contemporaneamente di perdere la nostra letteratura e la nostra identità nazionale, in questi anni calamitosi».

Repubblica 4.2.09
Sì allo sbarramento del 4% esplode la protesta dei partitini
Intesa bipartisan alla Camera. Salta il voto segreto
A favore 517, due gli astenuti, 22 i voti contrari di dissidenti di Idv, repubblicani, radicali, liberaldemocratici e minoranze linguistiche
di Silvio Buzzanca


ROMA - La pioggia cade insistente sui silenziosi manifestanti arrivati davanti al Quirinale per protestare contro l´introduzione dello sbarramento del 4% alle Europee. Bagna quelli della Destra che protestano davanti a Montecitorio. Intanto planano simpatici manifestini dalle tribune della Camera su Gianfranco Fini seduto alla presidenza che aveva appena ridotto a 20 i quasi 2 mila emendamenti e sub emendamenti. Seduta sospesa per cinque minuti. Ma una vera e propria valanga travolge le speranze e i sogni del "Comitato per la democrazia": la Camera approva in serata, dopo poche ore di dibattito, la nuova legge che porta in alto la soglia da scavalcare per portare un deputato in Europa: 517 sì su 542 presenti. Due gli astenuti, Scilipoti e Porfidia, 22 i voti contrari. Da cercare fra gli autonomisti del Mpa, 6, i 3 dissidenti di Italia dei Valori, Barbato, Giulietti e Pisichhio, i 4 repubblicani e liberaldemocratici e i 3 deputati delle minoranze linguistiche. 5 radicali e Furio Colombo. A favore, come da accordo sottoscritto la settimana scorsa, Pdl, Pd, Lega, Idv e Udc. La pratica passa ora al Senato. A risarcimento dei piccoli, Ugo Sposetti, ex tesoriere dei Ds, aveva presentato un emendamento che concedeva il finanziamento pubblico a tutti i partiti che superano l´1 per cento. Fini lo ha giudicato inammissibile, ma molti giurano che la proposta potrebbe passare. Magari alzando la soglia al 2 per cento.
Un "contentino" che potrebbe rendere meno amaro un risultato che era scontato. A maggior ragione dopo che l´assemblea del gruppo dei Democratici in mattinata aveva dato il via libera allo sbarramento. Anche se dopo tre ore di confronto teso, dove i mal di pancia erano venuti allo scoperto. Ma alla fine era passata la linea Veltroni. Con l´unica incognita di un voto segreto che si poteva trasformare in una conta nel Pd. Ma anche l´ultimo atto è stato privato da questo pathos. Gianfranco Fini, infatti, era ben disposto a concedere il segreto dell´urna ai deputati e fino ad un certo c´erano le 30 firme richieste dal regolamento. Ma all´ultimo minuto i democratici Furio Colombo e Oriano Giovannelli e i pidiellini Giustina Destro, Giancarlo Lehner e Basilio Catanoso hanno ritirato l´adesione alla richiesta di voto segreto. Fini ha dovuto constatare che le 31 firme erano diventate 26 e che quindi si doveva procedere a scrutinio palese.
Quello che alla fine rimane impresso è la stretta di mano fra Walter Veltroni, Elio Vito e lo stesso Verdini e il commento del leader del Pd: «Almeno una cosa insieme in questa legislatura l´abbiamo fatta». Gli altri possono solo inondare la Camera di un ritocco della locandina del film di Totò venditore della Fontana di Trevi. Al posto del comico napoletano c´è Berlusconi, mentre la regia del film viene attribuita a Veltrusconi. Veltroni incassa una marea di critiche, ma continua ad invitare la sinistra ad unirsi. E rivela che Franco Giordano, allora segretario del Prc, gli avrebbe chiesto la soglia del quattro per cento. Come risposta riceve l´accusa di essere un bugiardo. Quanto ad unirsi la sinistra è in alto mare. Oliviero Diliberto si dice pronto ad accettare la sfida della soglia e pensa di allearsi con Ferrero. Ma Ferrero polemizza ferocemente con Nichi Vendola. A scatenare la furia di Rifondazione un ordine del giorno del Pd, accolto, che permetterebbe al movimento di Vendola di presentare le liste senza raccogliere le firme. Per Ferrero è la prova provata che la scissione da Rifondazione è stata istigata dal Pd e da Veltroni per soffocare Rifondazione.

Liberazione 4.2.09
Il congresso costituente del Parti de Gauche francese:
nessun "oltrismo" e Fronte della sinistra alle europee
di Bruno Steri


«Ci dicono: prima di redistribuire, occorre produrre la ricchezza. Loro! Che hanno ingrassato le multinazionali e un pugno di ricchi nel mondo!», «Concittadini, vogliamo cambiare radicalmente la società: non siamo disposti a ricominciare a produrre non importa cosa, non importa come…», «Noi crediamo alle rivoluzioni dove si vota, come in Venezuela, come in Bolivia», «La nostra filosofia è quella dei lumi, della repubblica, della sinistra; con un obiettivo concreto: unire la sinistra per battere il neoliberismo», «E al Partito socialista dico: non agitate il voto utile. L'unico voto utile è quello che porterà nel Parlamento europeo deputati nettamente contrari al Trattato di Lisbona». Sono queste alcune delle battute con cui Jean-Luc Mélenchon ha concluso il congresso del suo partito: lo ha fatto con una dialettica scaltra e vivace, che coniuga il furore iconoclasta con richiami illuministici e repubblicani (di quelli che scaldano i cuori del patriottismo francese); e che, al contempo, colloca questo transfuga del Ps nel campo della sinistra anticapitalista.
In una struttura periferica situata a sud di Parigi, da venerdì a domenica scorsi, il Parti de Gauche (PdG) ha celebrato il suo "congresso costituente": una forza politica che, appena nata, conta sul contributo di 4mila militanti (ma il trend è in ascesa) e che, essendosi staccata solo un paio di mesi fa dal Partito socialista, ha trovato un suo spazio nella gauche anticapitalistica francese. Nell'ampia sala congressuale, il clima è quello dei grandi momenti. Ma, in generale, è la situazione politica transalpina che mostra chiari segnali di risveglio e offre alle forze della sinistra consistenti opportunità. La Francia ha appena visto mobilitarsi due milioni e mezzo di persone, chiamate allo sciopero generale da tutti i principali sindacati, di nuovo uniti, contro i tagli di Sarkozy e la sua gestione della crisi: come è stato rilevato anche sulla nostra stampa, erano presenti nelle piazze tutti i settori della società. Non a caso, la relazione introduttiva del congresso ha reso omaggio a questa formidabile giornata di sciopero, ringraziando esplicitamente le forze sindacali per la loro determinazione e la loro inequivoca volontà di lotta. Per comprendere quanto il quadro politico francese sia oggi spostato a sinistra rispetto al nostro, è sufficiente considerare la presenza nel corteo parigino della stessa segretaria del Ps, Martine Aubry. Da noi, al contrario, un pezzo di sindacato firma accordi separati con padroni e governo; e il segretario del maggior partito di centro-sinistra tace davanti ad un'operazione regressiva che tenta di isolare e mortificare il più grande sindacato italiano.
Ma è il tema dell'Europa a marcare la più visibile distanza. Mentre in Italia, al livello dell'opinione diffusa, tale questione è sostanzialmente evanescente, in Francia essa coincide con il nervo scoperto di un referendum tradito. In Francia si è votato; e si è votato "No" al Trattato europeo. Ciò ha consentito alle forze della sinistra di radicare questa tematica nel vivo del dibattito politico. Ed oggi la consapevolezza maturata in quella battaglia referendaria è pienamente disponibile, per dare nerbo all'imminente contesa elettorale («L'80% delle leggi francesi sono trascrizioni di direttive europee!»). Così - accanto alla proposta politica di un Fronte delle sinistre per la prossima scadenza elettorale continentale - sul piano analitico-programmatico, la crisi del capitalismo e l'Europa hanno del tutto naturalmente costituito l'asse centrale della discussione e dei documenti congressuali; e l'intransigente rifiuto del Trattato di Lisbona («copia conforme del Trattato costituzionale rigettato nel 2005») ha orientato l'intero dibattito. Di qui passa eminentemente la stessa critica al Partito socialista, "complice" nell'approvazione del suddetto Trattato-fotocopia. Come detto, la radicale critica a questa Europa, «costruzione liberista e autoritaria», si è intrecciata con quella del vigente sistema capitalistico e con la necessità storica di un suo superamento: necessità resa ancor più inderogabile dalle drammatiche urgenze (sociali, democratiche, ambientali) indotte dal precipitare della crisi. Su questo, la posizione del PdG è parsa molto netta: «Non si esce dalla crisi rilanciando il capitalismo, ridando fiato ai meccanismi che hanno condotto al disastro sociale e ad una spaventosa crisi ambientale». Occorre proporre un'alternativa al capitalismo, un altro orizzonte, «precisando le transizioni che vi conducono». Non sarà una passeggiata: «La sinistra non convincerà il capitale finanziario a rendere quel che ha estorto attraverso un'amabile discussione tra gente di buona compagnia». Ma deve essere la sovranità popolare a determinare la realizzazione di ciò che corrisponde all'"interesse generale": precisamente come sta accadendo in America Latina, in Venezuela, in Bolivia.
Sulla base di tali orientamenti generali, i documenti presentati alla discussione hanno articolato il programma del partito (da proporre successivamente ad un'eventuale coalizione elettorale). Innanzitutto, sul versante interno, quello delle concrete risposte alla crisi sociale. La ricchezza c'è: tant'è che le imprese francesi, nel 2007, hanno incamerato 650 miliardi di utili. Contrariamente a quello che fa il Ps, occorre intervenire con decisione e presto sugli squilibri di classe, proponendo misure strutturali a livello nazionale ed europeo. Anche sul versante esterno, il PdG non sembra fare sconti: neanche ad Obama. Gli Stati Uniti - ha infatti osservato la responsabile del dipartimento sui problemi internazionali - si sono resi responsabili dell'azzeramento del diritto internazionale; e le teorie dello Scontro di civiltà e della Guerra al terrorismo hanno di fatto "fornito un nuovo abito" all'imperialismo. Pur essendo diverso da Bush, Obama non smentisce tali pseudo-teorie: e rafforza le truppe in Afghanistan.
Al grido di "Unità, unità!", il congresso ha approvato l'appello per un Fronte della sinistra alle prossime europee. Il Pc francese ha già accolto l'invito: e l'ovazione tributata dai delegati alla segretaria comunista Marie-George Buffet ha simbolicamente sigillato l'intesa. La decisione tocca ora al sin qui riluttante Olivier Besancenot, leader del Nuovo Partito Anticapitalista (Npa), che ha raccolto e rinnovato l'eredità della Ligue Comuniste Révolutionnaire, il quale celebrerà il suo congresso nel prossimo week-end. A Besancenot si è direttamente rivolto Mélanchon: «Non ti chiediamo di sciogliere il tuo Npa. Tu dici che ci sono cose che vi distinguono da noi. Confermo: anche noi su alcune cose divergiamo da voi. Ma, appunto, non vogliamo una fusione, bensì un'unione tra forze distinte». Niente oltrismi, dunque; niente superamenti. E niente scissioni. Così si prova a costruire l'unità. E la si costruisce su punti ben determinati. Mélanchon ne indica due, in particolare: rifiuto netto del Trattato di Lisbona e gruppo parlamentare collocato a sinistra del Ps europeo. Unità nel rispetto delle identità e nella chiarezza dei contenuti: questa è la strada maestra che prova a percorrere la sinistra francese. E un sondaggio dà l'eventuale ressemblement al 14,5%...

Repubblica 4.2.09
Visita all'Istituto Gramsci per comunicare che c'è la nuova sede della fondazione. "Quanti documenti, il Msi quando cambiò casa buttò via tutto"
E Alemanno si siede sulla poltrona di Togliatti
di Alessandra Longo


ROMA - Gianni Alemanno prende posto dietro la scrivania. Gli fanno cenno di sedersi e lui lo fa con il massimo della solennità, ad uso dei flash. Ecco, è successo: «Mi sto sedendo sulla sedia di Togliatti! Lo trovo profondamente emozionante...». Roma, martedì 3 febbraio 2009: un´altra prima volta. Il sindaco di Roma varca la sede della Fondazione Gramsci, tempio della cultura italiana, già sede di lavoro dell´archivista Linda Giuva D´Alema. Sulla porta lo attendono i vertici dell´Istituto, il presidente Beppe Vacca, il direttore Silvio Pons, il vicedirettore Roberto Gualtieri, che è anche motore di Italianieuropei, creatura dalemiana.
Che ci fa Alemanno nel santuario gramsciano? Viene a portare la buona notizia: dopo una via crucis durata anni, la Fondazione avrà una nuova sede, sempre nel quartiere Portuense, adeguata al suo prestigio, con gli archivi sopra il livello del Tevere e non, come adesso, esposti all´umidità e separati dal corpo centrale. La visita non gli costa fatica, anzi, è proprio contento di superare il confine non scritto, gli sembra «doveroso», «nel nome di una memoria condivisa», portare a termine la delibera ereditata dai suoi predecessori, trova quasi incredibile sedersi, lui, ragazzo nero degli Anni Settanta, su quella sedia illustre che faceva parte degli arredi arrivati da Botteghe Oscure. I fotografi gli chiedono di stare in posa, accanto al professor Vacca, sotto il busto di Gramsci: «Ecco, sindaco, si metta là». C´è anche il capogruppo Pd al consiglio comunale, Umberto Marroni.
Sotto la pioggia, la piccola delegazione raggiunge gli archivi. E qui c´è lo stordimento, lo stupore dell´allievo della scuola di Pino Rauti, (uno che, a destra, i libri li ha sempre letti), di fronte ai microfilm della Pravda, ai centomila faldoni ordinati con certosina passione dagli archivisti del Gramsci: «Sembra di entrare nella cripta di una chiesa». Silvio Pons gli spiega che lì c´è tutta la storia del Pci, ci sono i documenti ricostruiti dall´archivio (non fruibile) di Mosca fino alla guerra, lettere e testi originali dal '43 al '91. «Che differenza! Il Msi, quando cambiò sede, buttò via tutto». Risata collettiva. Si risale per la cerimonia ufficiale, per la firma che garantisce una sede finalmente dignitosa alla Fondazione. C´è anche il buffet con le tartine e l´inevitabile domanda su Gramsci. Alemanno l´ha letto: «Lo considero uno dei grandi pensatori politici del Novecento, per la sua capacità di creare un ponte tra marxismo e cultura nazionale. Lo apprezzo profondamente anche dal punto di vista umano per il suo senso del sacrificio».
Musica di violino per i vertici dell´Istituto. Il sindaco conosce Vacca da una vita, da quegli anni Ottanta in cui cominciarono gli annusamenti con l´avversario: «Eravamo interessati ad approfondire la cultura di sinistra. Con il professore, anche attraverso Giano Accame, ci siamo già confrontati». Cita Marco Tarchi, Umberto Croppi, quel «gramscismo di destra» affascinato dall´analisi dell´egemonia culturale. No, Gramsci non è più uno straniero, appare anche nelle tesi fondative di Fiuggi, nella nuova biblioteca di An, non estranee le conversazioni che Pinuccio Tatarella ebbe allora con il professor Vacca.
«So che lei è un curioso, un cultore di certe cose», dice al sindaco il presidente dell´Istituto. E gli fa trovare sul tavolo, solo per visione, una lettera di Marinetti a Sibilla Aleramo, un autografo di Napolitano (che ha donato il suo archivio personale alla Fondazione), lo scambio epistolare tra De Gasperi a Togliatti e i verbali della direzione del Pci nel giorno del sequestro Moro. Alemanno legge l´elenco dei presenti: Amendola, Pajetta, Napolitano, D´Alema...». Ammette: «Sono emozionato, qui c´è un pezzo importante della storia della nostra comunità nazionale».

Corriere della Sera 4.2.09
Biagio de Giovanni «Si inseriscono nel vuoto terribile che si è aperto tra politica e società»
«Partito democratico inesistente, governano i clan»
di Mario Porqueddu


MILANO — «È un fatto di brutalità sanguinaria, che addolora». Ma questo non basta, è scontato, bisogna sforzarsi di dire altro. Il professor Biagio de Giovanni, filosofo della politica, ci prova. E a poche ore dall'omicidio di un consigliere comunale a Castellammare di Stabia, quello che gli viene in mente è radicale: «In questa terra viviamo un vuoto in cui può succedere di tutto. Pensare di colmarlo mettendo per strada altri uomini delle forze dell'ordine, altri soldati, è assurdo: non possono riempirlo loro. Tocca ad altri soggetti e a un altro tipo di controllo democratico. Quello che è andato perduto».
A cosa si riferisce, professore?
«Sono interrotte le comunicazioni tra società e politica. I partiti non ci sono più. Il Pd, per parlare di quello che conosco da vicino, di fatto non esiste: è virtuale, aereo».
Manca quello che per anni è stato l'anello che metteva in comunicazione società e istituzioni.
«Sì, e quando questi collegamenti si spezzano si apre uno spazio, un vuoto terribile, nel quale le istituzioni non sono più protette da un pensiero comune, da idee condivise, da gruppi sociali, politici e umani che partecipano a un dibattito pubblico. E, anzi, sono esposte al contatto con una "vita immediata" che in una regione come la nostra può assumere l'aspetto della criminalità. La camorra si è inserita nella crisi dello spazio pubblico democratico come mai aveva fatto prima d'ora. Governa interi quartieri, questo è un fatto noto».
Appunto, non è una novità....
«Ma l'impressione è che le cose siano peggiorate. Il Pil della camorra è molto più alto di un tempo. Questo deve dirci qualcosa, indicarci quale sia la capacità di aggregazione sociale della camorra. E ancora: il miscuglio tra economia legale e illegale è sempre più evidente. I confini sono sottili. Oggi la camorra non vive più con il pizzo o con attività clandestine, ma è impegnata negli appalti e nell'attività economica ufficiale. È un tarlo dell'economia legale. Altro segnale che la qualità del fenomeno è cresciuta».
E questo è colpa della politica?
«Non voglio, come si usa dire, buttarla in politica. Ma il ceto politico si è separato, sta in un mondo a parte, non avverte più lo spirito critico. Così, attorno alle istituzioni viene a mancare il tessuto che solo può garantire controllo democratico. E anche le forze dell'ordine non hanno più una missione che vada al di là della repressione».
Che fare?
«Le classi dirigenti dovrebbero favorire la costruzione di un tessuto aggregativo nella società. Il problema delle nostre società è lo svuotamento dell'aggregazione, i sensi di vuoto, le noie nichilistiche che conducono a episodi di violenza come quelli delle scorse settimane, che non c'entrano con il razzismo. Però non si è avvertito lo sforzo politico della costruzione di quel tessuto di cui abbiamo bisogno. I partiti sono camarille di potere nelle quali girano inimicizie, odi. Invece le aggregazioni devono essere comunità».
Quindi?
«Le forze politiche devono recuperare il senso dello Stato, collaborare alla restaurazione di una auctoritas, invece di dare vita a questa guerra giornaliera. Le responsabilità sono di tutti, maggioranza e opposizione. L'odio cresce invece di diminuire, c'è mancanza di riconoscimento reciproco. Questo non aiuta, non dà il senso dell'unità di una nazione».
Se i partiti «non esistono» come possono affrontare simili sfide?
«Possono correggersi, anche se non saranno più i vecchi partiti che conoscevamo. E poi forse è il momento di quelle che Giuseppe De Rita chiama minoranze attive, che nelle società in disgregazione sono importanti. Penso a minoranze non politicamente organizzate ma che sappiano stimolare il dibattito pubblico e far valere progetti sul territorio. A Napoli abbiamo visto il fallimento di Bagnoli o di Napoli-Est. Se si riuscisse a realizzare qualcosa diminuirebbe la possibilità di incidenza della criminalità organizzata, per il solo fatto che avrebbe più ostacoli da superare».

Corriere della Sera 4.2.09
La polemica. Inusuale intervento della Cancelliera tedesca
La Merkel critica il Papa «Il Vaticano chiarisca che non si nega la Shoah»
La replica: «Abbiamo già spiegato tutto»
Il cardinale Kasper: «Ci sono state incomprensioni ed errori di gestione nella Curia»
di D. Ta.


BERLINO - La cancelliera tedesca critica il Papa tedesco. Con un'iniziativa non usuale e inattesa, Angela Merkel è entrata con nettezza nella disputa apparentemente solo religiosa che si è aperta intorno alla decisione di Benedetto XVI di sollevare la scomunica ai vescovi lefebvriani e con essa a Richard Williamson, che ha negato l'Olocausto. La cancelliera ha così portato la questione su un terreno politico.
«Se la decisione del Vaticano solleva l'impressione che l'Olocausto possa essere negato, ciò non può restare senza conseguenze - ha detto ai giornalisti -. Si tratta di affermare molto chiaramente da parte del Papa e del Vaticano che non ci può essere negazione». Ha spiegato che di solito non giudica le decisioni interne alla Chiesa ma, ha aggiunto, il dibattito in corso tocca una questione fondamentale.
«A mio parere - ha affermato - non è una questione tra le comunità cristiane, cattoliche ed ebraiche in Germania ma il Papa e il Vaticano dovrebbero chiarire in modo non ambiguo che non ci può essere negazione e che ci devono essere relazioni positive con la comunità ebraica in generale». Perché «questi chiarimenti, a mio parere, non sono ancora stati sufficienti ». Presa di posizione decisa e richiesta esplicita: in questo modo, Frau Merkel si mette alla testa dei critici del Vaticano che in Germania nei giorni scorsi si sono moltiplicati.
Il Vaticano ha risposto alla critica con una nota del portavoce, padre Federico Lombardi. Vi si ricorda che il Papa si è sempre pronunciato contro il negazionismo, l'ultima volta durante l'udienza di mercoledì scorso. «La condanna di dichiarazioni negazioniste dell'Olocausto sostiene Lombardi - non poteva essere più chiara e dal contesto risulta evidente che essa si riferiva anche alle posizioni di monsignor Williamson e a tutte le posizioni analoghe».
Lunedì sera, il cardinale Walter Kasper, responsabile del dipartimento vaticano per gli affari ebraici, aveva però ammesso che in questi giorni a Roma si sono fatti degli errori. «Osservo il dibattito con grande preoccupazione - ha detto al servizio tedesco della Radio Vaticana Ci sono state incomprensioni e errori di gestione nella Curia» dovuti a suo parere a «mancanza di comunicazione nel Vaticano ».
Nei giorni scorsi l'iniziativa di Benedetto XVI di porre termine alla scomunica della Fraternità di San Pio X aveva sollevato un'onda di proteste con pochi precedenti: nell'opinione pubblica, tra le comunità ebraiche ma anche tra numerosi vescovi cattolici che sono intervenuti contro le scelte vaticane. La signora Merkel si è fatta interprete della voce di buona parte del Paese.

Corriere della Sera 4.2.09
Dossier La malattia costa quanto il 4-5% del Pil
Allarme depressione In Europa ne soffre una donna su sei
Seconda causa di morte dopo la strada
In 10 anni sarà la malattia più diffusa. La Ue: serve un piano d'azione per la salute mentale dei cittadini
di Luigi Offeddu


BRUXELLES — L'Europa politica si allarga, e si allarga anche il suo «male oscuro»: la depressione e altri disturbi correlati, con le giornate che rubano al lavoro, causano ormai un danno pari al 3-4% del prodotto interno lordo, nei ventisette Paesi dell'Unione Europea; la depressione colpisce oggi una donna su sei; e in dieci anni sarà la malattia più diffusa fra entrambi i sessi, la seconda causa di invalidità, in tutto il mondo sviluppato. Una persona su quattro, secondo queste proiezioni, soffrirà almeno una volta nella vita di un disturbo mentale.
Sono dati dell'Eurostat e dei governi, sui quali si basa l'allarme appena lanciato dal Parlamento europeo. La Commissione ambiente e sanità pubblica ha approvato una risoluzione sulla «salute mentale» che sarà votata in seduta plenaria a metà febbraio.
La cartina di tornasole del fenomeno sono le statistiche sui suicidi: il novanta per cento dei 59.000 suicidi compiuti ogni anno nella Ue è attribuibile a un disordine mentale; per gli europei fra i venti e i quarantaquattro anni il suicidio è diventato, insieme con gli incidenti stradali, la causa più frequente delle morti che non sono collegate a una malattia.
L'Italia (10,3 suicidi maschi ogni centomila abitanti, e 2,6 femmine) è fortunatamente fra gli ultimi Paesi, insieme con Grecia e Spagna. Se oggi si può parlare di un'epidemia di depressione in Europa, è anche perché la malattia si riconosce prima: «D'altro canto, però — spiega lo psichiatra Mario Savino — un disturbo è il risultato dell'interazione fra un soggetto geneticamente predisposto e l'ambiente in cui cresce e vive: traumi antichi o recenti, ritmi di vita insostenibili, precarietà economica sono fattori che possono anche scatenare la depressione nei soggetti predisposti. E in questo senso, è una anche "figlia dei tempi": l'invalidità da depressione è una condizione di estrema sofferenza per il malato e la sua famiglia, è una delle più importanti sfide della medicina di questo millennio».
Per vincerla, l'Europarlamento chiede ora un «piano d'azione per la salute mentale dei cittadini». E un emendamento proposto dagli eurodeputati liberaldemocratici Vittorio Prodi e Beniamino Donnici — quest'ultimo psichiatra di professione — propone di puntare sulla riabilitazione nelle «piccole strutture pubbliche, private, o miste ».

il manifesto 4.2.09
Storie normali e poco normali
Auschwitz 2009
di Paolo Nori


Il viaggio della memoria di uno scrittore da Fossoli verso i lager tedeschi. Tra due rom con i cappelli da cow boy e un ragazzo con una spilletta con croce celtica sullo zaino, modello Gianni Alemanno
Se due anni fa mi avessero detto Vuoi venire ad Auschwitz?, io avrei risposto, probabilmente, Non ci penso nemmeno. E quando l'anno scorso Silvia Mantovani, della fondazione Fossoli, mi ha proposto di fare il viaggio con loro, di partire in treno da Carpi e arrivar fino ad Auschwitz, in occasione del giorno della memoria, insieme a seicento o settecento tra studenti e professori e politici e scrittori e cantanti, ripercorrendo la strada che avevano fatto settant'anni prima cinquemila italiani, che dal campo di concentramento di Fossoli erano stati tradotti, come si dice, in quei due campi là, Auschwitz e Auschwitz due (così chiamavano Birkenau), io le ho detto Guarda, Silvia, non lo so, io a queste cose come il giorno della memoria sono un po' contrario. E mi aspettavo che lei mi dicesse Ah, va bene, grazie, scusa, e mettesse giù. Invece, mi ricordo, mi ha detto Ma sai che anch'io, sono un po' contraria a queste cose come il giorno della memoria? Ne possiamo parlare sul treno. Allora sono andato. Anche se, l'anno scorso, io ho preteso, in un certo senso, di ripartire poi subito, fare il viaggio con loro, fermarmi una notte a Cracovia e poi prendere un aereo e tornare indietro. Questo per diversi motivi.
Dovevo finire un lavoro, lo dovevo consegnare nei giorni immediatamente successivi, e questo era il motivo principale e la scusa, principale, che queste scadenze, queste date di consegna, per i lavori che faccio io non sono quasi mai rigide, se avessi chiesto di consegnare due o tre giorni dopo mi avrebbero probabilmente detto che andava bene lo stesso. Valeva forse di più il fatto che, tornando il mattino del terzo giorno, non sarei dovuto andare, fisicamente, né ad Auschwitz né a Birkenau, e quindi è vero, avrei fatto il cosiddetto viaggio della memoria, ma non mi sarei trovato di fronte a quella roba lì, ai campi di concentramento che son diventati musei che era una cosa sulla cui opportunità avevo dei dubbi, e in parte li ho ancora. I due giorni di visita ai campi, che volevo schivare, rischiavano di essere, nella mia immaginazione, un estratto di retorica che avrei fatto fatica a sopportare. Poi c'era anche, devo dir la verità, la paura. Un po' mi faceva paura, quella roba lì, che è una roba rispetto alla quale ti viene l'istinto di voltare le spalle. Ma soprattutto, credo, c'era il fatto che io, quelli della fondazione Fossoli, non li conoscevo bene. Non sapevo che atmosfera avrei trovato, in quel viaggio, e avendo provato, qualche volta, andando in giro per l'Italia a presentare dei libri, l'impressione di essere ostaggio di quelli che mi avevano invitato, solo, in una città sconosciuta, a sostenere, e subire, lunghissime conversazioni sulla crisi del mercato editoriale, o sul fatto che in Italia la gente non legge, o su come siano importanti i libri, la prospettiva di trovarmi in una condizione del genere, per cinque giorni, e non Italia, in Polonia, tra Cracovia, Auschwitz e Birkenau, e non a parlare della crisi dell'editoria, ma dell'olocausto e del male assoluto e dell'importanza della memoria e del piantare un seme che crescerà un albero, era una prospettiva che, con tutto che Silvia Mantovani mi era simpatica, farmi tutti e cinque i giorni devo dire che mi sembrava rischioso. Invece poi l'anno scorso, nei due giorni in cui son rimasto, mi son trovato così bene che a quelli di Fossoli ho detto Se mi invitate anche l'anno prossimo vengo anche l'anno prossimo. E loro mi hanno invitato. E questa volta sono stato via cinque giorni, son partito in treno, son tornato in treno, e ho partecipato a tutte le serate e a tutte le visite, son stato ad Auschwitz e a Birkenau e è stato un viaggio talmente strano, son tornato contento, mi vien perfino da dire che mi son divertito, ma cerco di non dirlo, che se dicessi così la gente chissà cosa penserebbero, Sei stato ad Auschwitz e ti sei divertito? Non lo dico, anzi, ero ancora in treno che mi hanno cercato sul cellulare per una cosa e io ho risposto Sto tornando dalla Polonia, mandami una mail per cortesia, che ti rispondo stasera, e nel dire così mi son ricordato che già prima di partire, io andavo ad Auschwitz, e dicevo a tutti Vado in Polonia, e adesso, che stavo tornando, tornavo da Auschwitz e dicevo a tutti Norm dalla Polonia. Che Auschwitz è un nome che si fa fatica a farci dei ragionamenti intorno, a raccontare le cose come le si è viste, perché una cosa che succede ad Auschwitz uno ha l'impressione che debba sempre e comunque essere una cosa che ha, in sé, un qualche orrore, la faccia automaticamente si atteggia al dispiacere, come se Auschwitz non fosse anche, prima di tutto, mi vien da dire, un posto, dove vive della gente come noi, normale, o meglio, come noi, sia normale che poco normale. Come se uno che, per esempio, nasce, ad Auschwitz, dovesse portare per sempre, con la sua carta d'identità, quel marchio lì: te sei nato lì, e quindi devi portare con te sempre un po' di orrore.
Per via del viaggio di quest'anno, è vero, ci sono stati dei momenti, in questo viaggio, che mi veniva da voltare le spalle, come quando, alla fine della visita a Birkenau, con una guida che senza nessuna enfasi ti racconta com'era organizzato il campo, e ti dice che quelli che vedi, quella distesa di camini, è quel che è rimasto delle baracche, e ogni baracca ne aveva due, e non funzionavano quasi mai, perché non c'era niente con cui accenderli, e sembra che li abbiano fatti per dimostrare che i detenuti venivano trattati bene, che stavano al caldo, e non lo sai se è vero, ma se fosse vero sarebbe stranissimo il fatto che quel che è rimasto, quel che è durato più a lungo, la testimonianza, per così dire, è la cosa che non serviva, la cosa finta, mentre la cosa vera, il legno delle baracche, il legno dei letti a castello, per la maggior parte è marcita. Alla fine di questa visita, stavo dicendo, dopo che ti hanno spiegato come era organizzato il campo, e da dove arrivavano i deportati, dove si fermavano, e le strade che prendevano, la maggior parte verso le camere a gas, gli altri verso le baracche, dopo che hai visto le foto dei deportati in divisa, quella famosissima, a strisce, con i triangoli di colori diversi a seconda delle categorie, dopo che hai visto i forni crematori, che erano gli strumenti per lo smaltimento dei rifiuti, in un certo senso, dopo che hai in testa tutta questa metafisica dell'orrore, in un certo senso, tu ti trovi davanti a un muro con le fotografie dei deportati, quelle che si erano portati loro da casa, fotografie della vita di prima, e ti accorgi che quella gente lì era della gente che fumavan la pipa, e andavano al mare, e stavano sopra le sdraio con degli accappatoi bianchi, e guardavano in macchina, trattenendo un sorriso, e si vestivano bene per andar dal fotografo, e guardavano in macchina come se fossero sicuri, come per dire Fotografami, che mi son preparata. Ecco io, lì, ancora, mi è venuto l'impulso di voltare le spalle, e una volta uscito ho guardato lontano, fuori dai confini del campo, e ho visto una casa, che sembrava recente, costruita al massimo negli anni sessanta, e ho pensato Ma questa gente qua come fa, a vivere qui? E dopo, uscito dal campo, è passato un autobus, polacco, pieno di polacchi, com'è naturale, che abitavano lì, e che usavan quell'autobus per andare a casa, o per andare in città, e mi guardavano, e io li guardavo e mi sembrava stranissima, la loro tranquillità. Solo che il giorno dopo, quando siamo tornati a Birkenau dopo essere stati ad Auschwitz, ad Auschwitz uno, che è tutto diverso, un museo, e dove mi era successo ancora di voltare le spalle dopo che la nostra guida polacca ci aveva indicato una specie di baldacchino di legno e ci aveva detto, in ottimo italiano, e con un tono deciso che tradiva una certa soddisfazione, che l'ex direttore nazista del campo, Rudolf Franz Höss, dopo essere stato arrestato in Germania, dove si era nascosto sotto falso nome, era stato trasferito in Polonia e lì processato e condannato all'impiccagione e la sentenza era stata eseguita ad Auschwitz ed era stata costruita appositamente una forca Che è quella lì, ci aveva detto la nostra guida indicando il baldacchino, quel pomeriggio, quando siamo tornati poi a Birkenau, io mi sono trovato a entrare nel campo di Birkenau parlando con un mio amico e senza far caso per niente al posto in cui eravamo, l'avevo visto il giorno prima e era già un paesaggio abituale, e io mi meravigliavo dei polacchi.
È vero, dicevo, ci son stati quei momenti lì, che ti veniva da voltare le spalle, ma ce ne son stati degli altri uguali e contrari, quando per esempio, durante la cerimonia ufficiale, i primi che si sono avvicinati al monumento che c'è alla fine del viale di Birkenau, per deporre le loro corone di fiori, era un gruppetto di dieci-dodici ex deportati, dei vecchietti, e delle vecchiette, con i fazzoletti bianco-azzurri al collo, e uno camminava con le stampelle, e facevan fatica, e uno ha fatto cadere il lumino che aveva, e a me è venuto da pensare che bisognava far delle fotografie a quelle facce lì e metterle in tutte le case e negli uffici pubblici. E quando poi, tra tutte le altre delegazioni ufficiali degli stati che si son succedute, rappresentanti dei paesi che hanno avuto delle vittime ad Auschwitz, armeni, croati, ungheresi, francesi, slovacchi, maltesi, cechi, serbi, svedesi, tedeschi, sloveni e altri ancora (l'Italia non era rappresentata), si sono avvicinati due signori, rappresentanti del popolo rom, che avevan due cappelli a tesa larga, come si dice, un po' da cow boy, e uno dei due aveva il pizzetto e il codino, e un'aria un po' da puttaniere, e uno si immaginava una Mercedes un po' impolverata che l'aspettava fuori, e vedere la proprietà con la quale quei due stavan lì dentro, era una cosa che riempiva gli occhi, e non ti stancavi mai di guardarli.
E, per esempio, mi viene in mente adesso, c'era un ragazzo partito con noi che aveva una spilla con una croce celtica sullo zaino. E prima di entrare a Birkenau gli han fatto notare che forse non era il caso. E lui ci ha pensato poi ha detto Va bene, la tolgo.

Arci report 4 2009
Il Treno della memoria da Torino ad Auschwitz e a Birkenau dove è avvenuto l’indicibile

Il 28 gennaio il Treno della memoria con 700 ragazze e ragazzi delle scuole superiori di Torino, organizzato dall’associazione Terra del fuoco, dopo un viaggio di quasi 25 ore è arrivato a Cracovia. Ad accompagnare i ragazzi, oltre agli insegnanti, il Presidente nazionale delle Acli Andrea Olivero, il responsabile immigrazione della Cgil Piero Soldini, il sindaco di Torino Sergio Chiamparino e Walter Massa in rappresentanza della presidenza nazionale dell’Arci, che ha scritto un ‘diario di viaggio’ del quale riportiamo alcuni stralci
Siamo partiti il 29 gennaio al mattino presto alla volta prima di Auschwitz e poi di Birkenau. A Birkenau si è tenuta la parte conclusiva del viaggio, la commemorazione ufficiale e poi, alla sera, il percorso sulla memoria si è concentrato sulla propaganda nazista e fascista che costruì, nel più totale silenzio della popolazione, l'orrore dell'Olocausto. La sensazione di mettere un piede nella storia, tragica, della Seconda guerra mondiale è forte, così come è forte ancora l'odore di morte che aleggia tra le baracche. Passiamo in rassegna i volti dei prigionieri, volti di uomini e donne impauriti, increduli e fieri. Il giro prosegue; numeri impressionanti, il progresso tedesco al servizio della morte, una razionalità che non può essere liquidata come follia. Mentre si percorrevano gli spazi museali che provavano a descrivere i numeri dell'Olocausto, Andrea Olivero ci informava che proseguivano le dichiarazioni farneticanti di alcuni pezzi della Chiesa sulla Shoa: «l'ultima - disse Andrea - è che quelle che oggi vediamo nei campi-museo sparsi per l'Europa in realtà non erano camere a gas ma camere per la disinfestazione». Il pugno allo stomaco è stato forte, ancora di più mentre si attraversavano gli anfratti bui delle celle di punizione. Il percorso guidato è stato inframmezzato da letture nei luoghi della morte fatte con grande intensità da una giovane compagnia teatrale torinese. La visita si è chiusa al blocco degli Italiani, che si dice sia il più artistico dei blocchi dei Paesi; e infatti si è presentato come una mostra centrata sui colori, l'unica cosa non grigia di questa giornata. Dopo un pranzo veloce, siamo partiti per Birkenau. Qui il freddo, lo sgomento, la rabbia si sono fusi quando siamo entrati nella prima baracca di legno, che durante la guerra ospitava fino a 400 persone: si tratta di baracche di 50 metri x 10, costruite per ospitare 40 cavalli. Lo sgomento ben presto si è trasformato in rancore: iniziamo le discussioni in piccoli gruppetti e i paragoni con la situazione attuale non sono mancati. Abbiamo parlato dei rom, dei migranti, di quelli che oggi molti considerano bestie, forza lavoro e non persone. Il 30 gennaio è stato il giorno della riflessione su quanto visto, che probabilmente, a quei ragazzi, non è mai stato raccontato a dovere: che sensazioni? che impegno? che significato dare a tutte le persone che sapevano e non hanno fatto e a tutte quelle che non hanno voluto sapere? I ragazzi si sono mostrati più che disponibili a mettersi in gioco; così ci siamo interrogati su ciò che avremmo fatto noi se avessimo vissuto quei momenti e anche su ciò che stiamo facendo oggi di fronte alle ingiustizie quotidiane. Dall'opportunismo dei nostri genitori, ai valori per cui vale la pena vivere. Dalla ricerca incessante di un mondo più giusto, alle contraddizioni che animano le democrazie occidentali. La mattinata è passata in attesa della plenaria del pomeriggio e del dibattito serale sul razzismo. A questo è stato dedicato il Treno della memoria del 2009.

il Riformista 4.2.09
Revisionismi Esce da Laterza un saggio che farà discutere
Italiani in Russia. Invasori sconfitti, non vittime
di Francesco Longo


Il Corpo di spedizione non era una truppa dell'Ottocento attrezzata male, come "al tempo di re Pipino"

Thomas Schlemmer. Lo storico tedesco rilegge una vicenda militare che non fu una tragica fatalità, ma un'opzione valutata e fortemente voluta, con tutti i mezzi necessari disponibili, da Mussolini. Una necessaria revisione del processo di "stilizzazione" del soldato italiano, ridotto e riscattato come ostaggio della Storia. Contro il meccanismo autoindulgente e autoassolutorio tipico della nostra memoria collettiva.

Non c'erano solo scarpe di cartone e nevicate sovietiche. Quando si offrono nuove interpretazioni della storia, non sempre si prende la deriva del revisionismo. Un nuovo studio sulla campagna di Russia (1941-1943), per esempio, porta luce su alcuni lati ignorati di quel celebre conflitto. Spesso gli storici oggi si occupano di grattare sotto l'immaginario collettivo per scoprire quanto di ciò che viene tramandato sia realtà e quanto racconto edulcorato della realtà. Esce in questi giorni il libro di Thomas Schlemmer intitolato Invasori, non vittime. La campagna italiana di Russia 1941-1943 (Laterza pp. 346, euro 22) che sicuramente farà discutere. Lo storico tedesco ridefinisce i ruoli della campagna di Russia per decostruire alcuni miti che oggi appaiono fatti assodati. Scopo dichiarato del volume, che contiene nella seconda parte numerosi documenti, è quello di mostrare come quella vicenda non fu una «tragica fatalità». I soldati italiani furono sempre narrati come vittime di quell'evento. Vittime della politica criminale del regime fascista, vittime delle forze russe, vittime di un territorio incredibilmente esteso, vittime di una natura spietata, e vittime, più di ogni altra cosa, dei tedeschi. I tedeschi, così vuole l'adagio che da allora ad oggi viene ripetuto, erano gli unici veri responsabili delle perdite italiane. Tutto il resto fu amaro destino.
Thomas Schlemmer lavora al contrario, per mostrare il modo in cui si arrivò a questa "stilizzazione" del soldato italiano come vittima, per ripristinare un quadro storico capace di chiarire il ruolo e la consapevolezza del contributo italiano in quella vicenda. Per prima cosa: «fu taciuto il fatto che i propri soldati combattevano una guerra offensiva e non difensiva».
Secondo punto: la decisione sembrò tutta di Hitler, come un fatto compiuto che Mussolini accettò quasi contro la sua volontà, mentre la notizia dell'attacco russo non lo colse affatto di sorpresa.
Terzo: Mussolini aveva molte ragioni per partecipare a quella campagna (non ultimo il cruccio che la guerra "parallela" combattuta tra Grecia e Albania fosse terribilmente fallita). Una delle dimostrazioni che offre il libro a sostegno di tale nuova lettura del conflitto orientale è la scelta dei mezzi selezionati per portarlo avanti. Scrive l'autore: «Il Corpo di spedizione non era assolutamente una truppa dell'Ottocento che era stata trascinata in uno dei più orribili conflitti del Novecento, composta da soldati con divise di tela, scarpe di cartone e armi "del tempo di re Pipino"».
Si può aggiungere, e questo testo lo fa, una breve rassegna delle violenze che i soldati italiani portarono in quella aggressione, tipici dell'invasione. Rastrellamenti, perquisizioni personali, controspionaggio. Ci furono stragi, puntualmente riportate nel saggio: «Nella città di Krasnyj Luc occupata il 18 luglio 1942, le truppe italiane scatenarono un terrore spietato contro la popolazione (…) Li costrinsero a spogliarsi e a correre verso il pozzo della miniera: subito dopo spararono facendo cadere i morti nel pozzo. In questo modo hanno giustiziato 1700 cittadini sovietici inermi, uomini, donne, vecchi e bambini».
Diari, testimonianze e rapporti dal fronte forgiarono un'immagine diversa, più umana e indulgente verso gli stenti, le difficoltà, i sentimenti. Ma il motivo del cliché degli italiani «brava gente» è chiaro. Autoindulgenza verso un risultato negativo sul fronte, autoassoluzione dopo la guerra persa, dalla parte sbagliata della storia. In Russia non si vide solo, come il libro pure ricostruisce, paura, nostalgia dell'Italia e umanità, ma anche soldati che esaltavano la guerra sul fronte, armi buone, volontà di Mussolini di prendervi parte. La memoria collettiva ha sempre bisogno di essere riesaminata. Che a farlo sia uno storico tedesco, di una nazionalità che non fa sconti al passato, lo rende evidentemente solo più doloroso.