venerdì 6 febbraio 2009

Repubblica 6.2.09
La nuova civiltà dell’odio
di Giuseppe D’Avanzo


Quel che è accaduto al Senato con l´approvazione delle nuove leggi per la sicurezza è elementare nella sua barbarie. Per un atto di ossequio politico ai desideri xenofobi della Lega, si sono dichiarati inattuali e fuori legge i diritti degli uomini, delle donne, dei bambini che non sono nati qui da noi, che non sono cittadini italiani; che non hanno il permesso di soggiorno anche se nati in Italia; che non vivono in una casa ritenuta igienicamente adeguata dal sindaco; che non conoscono l´italiano; che stanno come una mosca sul naso della "guardia nazionale padana" (ora potrà collaborare con le polizie). La notizia è allora questa: le nuove leggi inaugurano una nuova stagione della civiltà del nostro Paese.
È una stagione livida, odiosa, crudele, foriera di intolleranze e conflitti perché esclude dall´ordine giuridico e politico dello Stato i diritti della nuda vita naturale di 800 mila residenti non-cittadini, migranti privi di permesso di soggiorno, un´esclusione che si farà sentire anche sulle condizioni di vita e di lavoro degli oltre tre milioni di immigrati regolari.
Lo stato di eccezione, che la destra di Berlusconi e Bossi ha adottato fin dal primo giorno come paradigma di governo, diventa così regola. Con un tratto di penna, centinaia di migliaia di non-cittadini, in attesa di permesso di soggiorno � che spesso già vivono nelle nostre case come badanti, che puliscono i nostri uffici, cucinano nei nostri ristoranti, lavorano nei nostri cantieri e fabbriche � perderanno ogni diritto protetto dalla Costituzione, dalla Carta dei diritti fondamentali dell´uomo, dalle convenzioni internazionali (il diritto all´uguaglianza, il diritto alla salute, il diritto alla dignità della persona). Nemmeno i bambini potranno curarsi in un ospedale pubblico senza essere denunciati (abolito il divieto di denuncia per i medici). I migranti senza carta troveranno sempre più difficoltà nel trovare un alloggio. Non potranno spedire a casa alcuna rimessa, il denaro guadagnato qui. Dovranno mostrare i documenti alle "ronde", improvvisate custodi di un privato ordine sociale. Vivranno nelle nostre città con il fiato sospeso, con il terrore di essere fermati dalle polizie, in compagnia dell´infelice pensiero di essere scaraventati da un´ora all´altra in un vuoto di diritto, da un giorno all´altro rimpatriati in terre da dove sono fuggiti per fame, povertà, paura.
Sono senza cittadinanza, sono senza "visto", saranno senza diritti: questo è il nucleo ideologico che la Lega ha imposto alla maggioranza che lo ha condiviso. I diritti "nostri" diventano gli strumenti per cancellare i diritti degli altri, di quelli che sono venuti «in casa nostra». Si sapeva da tempo � lo ha scritto qui Stefano Rodotà � che questo "pacchetto" di norme avrebbe creato un vero e proprio «diritto penal-amministrativo della disuguaglianza» in contrasto con i precetti della Costituzione. è accaduto di più e di peggio. Quel profilo di legalità costituzionale, il precetto che impegna la Repubblica «a riconoscere e garantire i diritti inviolabili dell´uomo», ad «adempiere ai doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale», è apparso a una destra spavaldamente xenofoba null´altro che «un fantasma senz´anima». Più che di incostituzionalità bisogna parlare di anticostituzionalità, come ha già fatto Gustavo Zagrebelsky. Bisogna prendere oggi atto del passaggio da una Costituzione a un´altra. Va registrato questo salto nel vuoto, uno slittamento che � con il cinico progetto di trasformare la paura in utile politico � prepara una condicio inhumana per il popolo dei "senza": dei senza permesso, dei senza casa, dei senza patria. è una nuova Costituzione, non ancora scritta o discussa, che disegna una società di diseguali, «premessa dell´ingiustizia, della discriminazione, dell´altrui disumanizzazione».
è una deriva coerente con quanto il governo Berlusconi e la sua destra ci hanno mostrato in questi mesi. L´indifferenza per l´universalità dei diritti della nuova legge si connette alla distruzione della funzione parlamentare, prepara la dipendenza della funzione giudiziaria, annuncia la fine della separazione dei poteri. Lo scambio tra Berlusconi e Bossi è manifesto anche per chi non ha voglia di vederlo o fronteggiarlo. Alla Lega, federalismo e leggi xenofobe contro i non-cittadini. Al Capo, la vendetta sulla magistratura e la concentrazione del potere. Così, passo dopo passo, legge dopo legge, la nostra democrazia liberale cambia pelle per diventare democrazia autoritaria.
Non ci si deve rassegnare a quest´esito. Non ci si può rassegnare. La bocciatura del governo al Senato in tre votazioni dimostra che qualche mal di pancia c´è nella maggioranza. Svela che non tutti, in quel campo, accettano che la politica dell´immigrazione diventi, nelle mani della Lega, esclusiva questione di polizia e dispositivo di esclusione e non di integrazione. Si può, si deve credere con disincanto che qualche argomento, nel prossimo dibattito alla Camera, possa far leva sui più ragionevoli e pragmatici. è vero, psicologia sociale e cinismo politico tendono a ingrassare, con la complicità dei media, la diffidenza nelle relazioni tra le persone e tra le comunità. Come è vero che l´appello alla legalità costituzionale suona impotente e inutile in ampie aree del Paese. E tuttavia a quel ceto politico, a quell´opinione pubblica si può dimostrare come il registro disumano delle nuove leggi non protegge la sicurezza del nostro Paese. La minaccia. Come la persecuzione degli immigrati non conviene al Paese. L´esercito di badanti che oggi accudisce i nostri anziani (sono 411.776 colf e badanti in attesa del "visto") consente un welfare privato, dopo il tracollo di quello pubblico, anche a famiglie non privilegiate, dal reddito modesto. Chi può ignorare che quelle braccia che oggi dichiariamo fuori legge consentono al nostro sistema delle imprese di competere su mercati internazionali o di tenersi a galla in tempi difficili? O chi può dimenticare che il contributo al prodotto interno lordo della manodopera straniera sostiene il pagamento delle pensioni di tutti? Anche chi volesse ignorare tutto questo dovrebbe fare i conti con una constatazione concreta. Le nuove leggi di uno Stato punitivo e «cattivo», come piace dire al ministro dell´Interno Maroni, consegneranno una massa crescente di non-cittadini migranti a organizzazioni criminali che si occuperanno del loro alloggio, dei loro risparmi, finanche della loro salute rendendo più insicuro e fragile il Paese. è un´illusione � e sarà presto un pericolo � credere che «noi» cittadini possiamo negare ogni riconoscimento, anche di una nuda umanità, a «loro», ai non-cittadini. Questa strategia persecutoria per quanto tempo credete che sarà accettata in silenzio? Il nostro Paese, già diviso da ostinate contrapposizioni domestiche, non ha bisogno anche di conflitti razziali.

l’Unità 6.1.09
Sì alla legge sicurezza: clandestini senza cure
di C. Fus.


Votato dal Senato il ddl sicurezza. Un insieme di norme repressive tese a colpire gli immigrati. A partire dall’obbligo dei medici di denunciare gli stranieri clandestini quando si recano al Pronto soccorso.
La Lega sventola vessilli verdi, esultano dai banchi del Carroccio. Il capogruppo Bricolo sorride: «Dedicato ai nostri militanti». Ore 14,01, aula di palazzo Madama, sul tabellone elettronico sono stampati 154 sì e 114 no, nessun astenuto, una maggioranza netta approva il disegno di legge numero 733 «Disposizioni in materia di pubblica sicurezza».
Immagini che segnano la storia
Ci sono immagini che segnano la cronaca. Forse la storia. Questa è una di quelle. Perché il testo uscito ieri dal Senato, e che ora andrà alla Camera, cambia radicalmente due aspetti importanti della cultura del paese. Cambia l’approccio al grande tema dell’ordine pubblico. Soprattutto cambia radicalmente l’approccio alla questione immigrati. I 55 articoli voluti dai ministri Alfano e Maroni, e via via corretti in otto mesi di iter parlamentare segnato dai ricatti della Lega, contengono cose buone e utili come l’inasprimento della lotta ai boss di mafia (41 bis più duro) e una maggiore efficacia nel sequestro e nella confisca dei beni dei mafiosi. Ma in generale certificano per legge l’inizio dell’intolleranza per il diverso e per il povero e la “caccia” allo straniero. «Siamo alla persecuzione, il germe della paura prolifera nel paese», dice Anna Finocchiaro, capogruppo del Pd. Ma parole simili arrivano anche dai banchi della maggioranza, prova provata di un dissidio che il premier farà fatica a tenere a bada. «E’ un errore fondamentale, indegno di un paese civile» accusa Francesco Nucara, segretario del Pri. Attaccano, dalla Camera, Alessandra Mussolini («sono indignata, saranno esclusi dalle cure anche i bambini») e Margherita Boniver. Beppe Pisanu dà l’allarme per la «pericolosa deriva». Gli altri devono trincerarsi dietro l’anonimato, come mercoledì quando hanno bocciato alcuni emendamenti, tra cui il divieto di trattenere i clandestini nei Cie per 18 mesi, grazie al voto segreto. Alcune norme danno i brividi più di altre. Una più di tutte: i medici d’ora in poi potranno denunciare gli stranieri clandestini. E’ stato abolito il divieto di non segnalazione dell’immigrato irregolare che si reca al Pronto Soccorso. Bisogna pensare alla cattiveria della norma: colpire una persona nel momento di massima debolezza, quando non sta bene. Proprio per questo, invece, per la Lega, sarà una buona arma contro i clandestini. Il presidente del Senato Renato Schifani, seconda carica dello Stato, commenta così: «La Costituzione è rispettata perché la norma non impedisce l’accesso alle cure». Come dire: la forma è salva. Si ribellano i medici, no della Cgil, della Cei, dall’Anaao, e poi tutte le sigle. L’articolo 44 fa nascere, presso il Viminale, «il registro nazionale dei senza fissa dimora». Entro 180 giorni dall’approvazione della legge le forze dell’ordine faranno la schedatura di barboni e senza fissa dimora. L’articolo 46 istituisce le «ronde di cittadini»: un sindaco può ingaggiare gruppi per vigilare sul territorio. Un emendamento di Casson (Pd) evita che siano anche armati e che «possano cooperare nello svolgimento dell’attività di presidio del territorio». Insomma, spuntate ma le ronde ci saranno. E chi le controlla? Preoccupati i funzionari di polizia: «Norma molto pericolosa che non farà diminuire i reati».

Repubblica 6.2.09
Medici in rivolta: "Sarà obiezione di coscienza"
di Marina Cavallieri


"È contro l’etica, rischi per la salute pubblica". La Cei: non denunceremo nessuno
Il presidente dell´Ordine Bianco: così si creerà una sanità clandestina

ROMA - Fanno appello al codice deontologico, invitano a praticare il dissenso, chiamano all´obiezione di coscienza. Un fronte ampio e trasversale di camici bianchi si è schierato contro la norma votata al Senato che prevede la denuncia da parte dei medici degli stranieri irregolari. Non è un dissenso formale, quello che esprimono, è una preoccupazione che assedia i luoghi della salute e le coscienze. Si rischia, dicono, una catastrofe sanitaria, una sanità clandestina gestita da gruppi etnici e religiosi, una deriva giuridica.
Spiega preoccupato Amedeo Bianco, presidente della Fnomceo, Federazione degli ordini dei medici: «È una norma che va contro l´etica e la deontologia e va contro il principio base della tutela della salute pubblica». Gli irregolari, temendo la denuncia, potrebbero «non curarsi più in strutture riconosciute, creando fenomeni clandestini di cura molto rischiosi». Di «grave rischio» parla anche il segretario della Federazione dei medici di famiglia, Giacomo Milillo: «Un clandestino potrebbe non rivolgersi alla struttura sanitaria per paura di essere denunciato». Con la possibilità che si diffondano malattie come scabbia, tbc, malaria. No anche dal fronte dei medici cattolici, sostenuti dalla Cei: «Alla Chiesa competerà sempre di aiutare le persone in pericolo di vita e non sono obbligato a denunciare nessuno», ha detto Domenico Segalini, segretario della commissione Cei per le migrazioni.
Circola tra le file dell´opposizione e dei sindacati un invito ad esercitare l´obiezione di coscienza. Carlo Podda, segretario generale della Fp Cgil, annuncia che «verranno valutate le iniziative più efficaci per scongiurare l´applicazione di questa norma, prime tra tutte la disobbedienza civile e l´obiezione di coscienza». Anche Vittorio Agnoletto e Giusto Catania, eurodeputati del Prc, propongono «all´Ordine dei medici di avviare una campagna per l´obiezione di coscienza». E l´immunologo Fernando Aiuti, del Partito della Libertà, presidente della Commissione Speciale Politiche Sanitarie del Comune di Roma dice chiaramente: «Mi auguro che i medici disobbediscano». Dicono no alla norma voluta dalla Lega anche i medici che da sempre combattono in prima linea. «Siamo sconcertati - dichiara Kostas Moschochoritis, direttore generale di Medici senza frontiere Italia - È una scelta che sancisce la caduta del principio del segreto professionale». «Delusi e preoccupati» i pediatri. In una nota la Società italiana di pediatria ricorda che «la denuncia da parte del medico degli immigrati clandestini mette in pericolo soprattutto i bambini». Che rischiano di diventare invisibili. Ed è stata una pediatra di Modena, Maria Catellani, a diffondere, già da dicembre, un appello su internet contro la norma. «Abbiamo raccolto 78 mila firme, c´è veramente una differenza di sentire tra la cosiddetta società civile e la politica». Anche su Facebook è stato aperto un gruppo che in pochissimo tempo ha raccolto centinaia di adesioni.

l’Unità 6.1.09
Camici bianchi in rivolta: «Non denunceremo nessuno»
di Paola Natalicchio


I medici del San Gallicano di Roma: tra gli immigrati si diffonderanno paura e diffidenza
Al Policlinico Umberto Igli operatori contro «una legge razzista. Non saremo spie»

«Per tutto il giorno, i migranti sono arrivati in ospedale ansiosi. La notizia si è diffusa. Abbiamo dovuto tranquillizzarli. Ripetere che noi non li denunceremo, non chiederemo il permesso di soggiorno a nessuno. Perché la salute è un diritto di tutti gli individui. La nostra Costituzione dice così: individui, non cittadini». Parla a testa bassa. Sottovoce. Guarda spesso per terra, composto. Si interrompe, attento a pesare ogni singolo aggettivo. Come a indicare nei modi, nella postura, che una cosa molto seria è successa. Rimbalzando dalle stanze agitate della politica nella vita reale di chi fa il suo lavoro. Il professor Aldo Morrone non è un dermatologo qualsiasi. Dirige l'Istituto Nazionale per la promozione della salute delle popolazioni migranti e per il contrasto delle malattie della povertà. Lavora all'assistenza dei migranti di Lampedusa, per dire. Il suo ufficio ha sede nell'ospedale San Gallicano, nel cuore di Trastevere, a Roma, dove 10 mila migranti, ogni anno, trovano un luogo di accoglienza e di cura. Anche qui, ieri pomeriggio, è arrivata la notizia dell’approvazione, al Senato, di un emendamento della Lega Nord al Ddl Sicurezza, che fa cadere una norma di civiltà: quella per cui nessun medico che si fosse trovato a curare un immigrato senza permesso di soggiorno lo avrebbe potuto denunciare. «Vivo questa notizia con forte preoccupazione. Nemmeno nella Bossi-Fini si era arrivati a questo punto». Rassicura, Morrone. Lo ripete: per i medici non cambia niente. «L’obbligo di denuncia non c’è. Cade il divieto, che è diverso». Il problema, però, è l'ansia che rischia di scoraggiare i migranti senza permesso di soggiorno a ricorrere alle cure. «Ci abbiamo messo anni per conquistare la fiducia di queste persone. Adesso la sola ipotesi che la denuncia sia possibile, che non ci sia un freno, potrebbe spaventarli. Tenerli lontani dai circuiti della sanità pubblica. Alimentando il mercato clandestino delle cure».
Gli fa eco il professor Luigi Toma, infettivologo del San Gallicano: «Questa decisione pone soprattutto problemi di salute pubblica. Se chiudiamo l'accesso alla cura a queste fasce di popolazione, più deboli e svantaggiate, e quindi più esposte a malattie contagiose, aumentiamo i fattori di rischio per tutta la popolazione, immigrata e non, “regolare” e non». Su questo aspetto insiste un'altra infettivologa dell’Istituto, la dottoressa Ilaria Uccello, che aggiunge: « È in corso una deriva preoccupante. Una violazione dei diritti umani e di tutte le normative europee. E poi c'è altro: assicurare l'accesso alla salute ai migranti significa anche creare presidi sociali e politici. Strutture di contatto. Se si svuotano, perdiamo il polso di una realtà con cui è importante restare in relazione». Anche al Policlinico Umberto I c'è grande tensione, soprattutto tra il personale del pronto soccorso, avamposto dell'assistenza agli stranieri. «Questa è discriminazione razziale. Si colpiscono i più deboli, chi ne ha più bisogno. Noi non siamo pubblici ufficiali. Il nostro lavoro non è denunciare, ma tutelare la salute dei pazienti. Di tutti i pazienti. Non trasformeremo i nostro ospedali in luoghi di detenzione», protesta il dottor Stefano Calderale, responsabile del Pronto Soccorso Trauma. «Viene escluso il nostro dovere di curare chiunque in qualsiasi momento. E questo crea un altro problema: la gente arriverà a curarsi più tardi. In condizioni peggiori o solo in condizioni gravi, quando per noi è anche più difficile intervenire. Salterà, insomma, il lavoro sulla prevenzione», aggiunge il dottor Sergio Tibaldi, del Dipartimento Emergenza. Sconcerto, anche da Medici senza frontiere. «È stato ignorato il grido di allarme lanciato dagli ordini professionali di medici, infermieri e ostetriche e da centinaia di associazioni e rappresentanti della società civile», dichiara Kostas Moschochoritis, direttore generale di MSF Italia.

l’Unità 6.1.09
Gino Strada: norma stolta e perversa
La cura è un diritto


Secondo Gino Strada, fondatore di Emergency l’emendamento sui “medici-spia” mette «gli individui nella condizione di scegliere fra l'accesso alle cure e il rischio di una denuncia». «Secondo tutti i medici che ho conosciuto e apprezzato - dice Strada - l’unico modo giusto e civile per fare medicina è garantire a tutti la miglior assistenza possibile, senza distinzione alcuna riguardo a colore della pelle, sesso, convinzioni politiche, religiose o culturali, nazionalità o status giuridico». «Anche di fronte all’inciviltà sollecitata da una norma stolta prima ancora che perversa, sono certo che i medici italiani agiranno nel rispetto del giuramento di Ippocrate, nel rispetto della Costituzione e della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani».

Repubblica 6.2.09
Via libera ai rambo delle ronde il "bastone padano" entra nel codice
Il disegno di legge le autorizza ma senza armi. Da Miglio a Borghezio la mitologia leghista dell’autodifesa
di Filippo Ceccarelli


Negli anni ´90 nasce la Guardia Padana: uniformi, giuramenti, alzabandiera
Nel 2000 a Mestre fu perfino ideata la macchina "acchiappa-clandestini"

Ronde sì, dice il disegno di legge approvato dal centrodestra, ma senza armi. Eh, troppo buoni: ci mancava solo che se ne andassero in giro, a caccia di malintenzionati, con la pistola, la doppietta caricata a pallettoni e magari pure il fucile mitragliatore.
Qualche ragionevole controversia, a questo punto, può sorgere semmai a proposito del bastone. «Per la delinquenza criminale ci vuole il bastone padano» disse nel gennaio del 1999 l´onorevole Borghezio, che di ronde senza dubbio se ne intende. Era allora il ministro dell´Interno del governo separatista del Nord, detto anche governo-sole: «E se ci chiameranno squadristi non importa, ce ne fotteremo» continuò graziosamente Borghezio. L´attuale ministro dell´Interno del governo vero, cioè Maroni, trovatosi a parlare subito dopo, cercò di ridimensionare il proposito contudente: «Non credo che ce ne sarà bisogno».
E tuttavia - ironia della sorte e ancor più delle parole - al comando delle già ben operose ronde padane c´era a quel tempo un signore che si chiamava proprio così: Max Bastoni. Candidato alle elezioni in Lombardia aveva come slogan: «Bastoni contro l´immigrazione». Un giorno, in un mercato di Milano, incrociò una candidata ds di origine eritrea, e avvenne un parapiglia.
Questo a proposito di Bastoni, e di eventuali legni, mazze e randelli. Vero è che qualche anno prima, lo stesso Borghezio, che di ronde ne ha fatte così tante da essersene inventata addirittura una di tabaccai contro i contrabbandieri, ecco, sempre in un comizio, ma stavolta rivolgendo il pensiero alla mafia nel nord, Borghezio evocò le virtù della «signora Beretta». In quel caso il raffreddamento del clima toccò in sorte a Bossi in persona, cui non venne di meglio che far lo spiritoso sulla «berretta» che ci si deve mettere in testa, anche a letto, quando fa molto freddo, ah- ah- ah...
Eppure non è questo un giorno allegro per chi, temerariamente, si attardi a rileggere la storia leghista secondo le categorie del poema eroicomico, o delle chiacchiere da bar. Sempre riguardo alla vigilanza di volontari anti-criminalità sul territorio, ieri istituzionalizzata in un ddl: nel 1993 il professor Miglio, che con il Senatùr ha poi sanguinosamente litigato, ma che ancora funziona come un faro nel buio della visceralità leghista, disse che il linciaggio - sì, il linciaggio - era «la forma di giustizia nel senso più alto del termine». Ebbene, e posto che i linciaggi non prevedono armi di sorta, con il dovuto pessimismo un po´ viene pure da chiedersi come si regoleranno, queste benedette ronde, di fronte a qualche efferato delitto. Ma poi, di slittamento in slittamento, anche in prossimità dei campi rom, sulle strade della prostituzione, nei terreni destinati a moschee, intorno ai bivacchi dei punkabestia, sulle spiagge battute dai vu´ cumprà, altrimenti detti abusivi.
E´ vero: le ronde padane esistono già da parecchio tempo. Nate su base volontaria in prossimità della svolta secessionista come «camicie verdi», a metà degli anni novanta, si pensò di organizzarle entro un corpo almeno all´apparenza abbastanza militare, la Guardia Nazionale Padana (Gnp): con abbozzo di uniforme, giuramento, alzabandiera, comandante in capo (con relativi e immediati impicci di potere). Forse giova ricordare che nel 1996 l´allora ministro dell´Interno Giorgio Napolitano definì le ronde: «Velleità fuorvianti» e «iniziative strumentali e inacccettabili». La magistratura, con il procuratore Papalia, cominciò a volerci veder chiaro: e a quel punto gli aspiranti Rambo del Volk padano parvero cautamente riconvertirsi in Protezione civile: medici, cinofili, pompieri e donatori di sangue. La Gnp fece comunque a tempo a compiere due grandi manovre, nel 1999, finalizzate a contrastare ipotetici sbarchi di immigrati a Pietra Ligure e a Iesolo. Durante la guerra dei Balcani qualche camicia verde dovette anche partire per la Serbia: o almeno così si trova scritto con qualche vaghezza sulla stampa dell´epoca.
In verità si trova anche traccia di storie a loro modo buffe, o drammatiche: invocazione e formazione di ronde, ad esempio, dopo fatti e fattacci di cronaca indebitamente attribuiti a stranieri, per lo più albanesi. La più grottesca fu la chiamata leghista alle armi dopo la storia boccaccesca degli «amanti di Capriolo», che erano tutti italianissimi: un lui si era trovato con una sbarra in testa dopo aver beccato una lei che se la spassava con l´altro. La vicenda più terribile riguarda invece dei volontari che gettarono una fiaccola su un accampamento di poveracci a Torino, e solo per miracolo in quel caso non ci scappò il morto.
I sindaci-sceriffi accompagnano il presente revival. Ma c´è una foto che più di ogni altra certifica come le ronde possano costituire esse stesse un problema, anziché la soluzione. E´ un´immagine stralunata, un sogno di natura incubatica: la macchina «acchiappa-clandestini», cioè un furgone bianco che nel 2000 i leghisti di Mestre addobbarono con simboli e manifesti. C´era montato sopra una specie di bidone-aspiratutto, sul modello di Ghost-buster, e l´equipaggio in posa, la tuta bianca, la maschera, il berrettino verde, la più pacifica e sincera incoscienza che di lì a qualche anno quella loro stramba allegoria sarebbe quasi diventata una legge dello Stato.

il Riformista 6.2.09
Maroni e lo Stato di polizia
di Andrea Romano


La misura dell'autolesionismo leghista è tutta nella nuova norma fatta approvare ieri al Senato. Una norma da stato di polizia, che insulta la dignità dei medici italiani e introduce una clamorosa disparità di diritti nell'accesso al bene primario della salute. Ma soprattutto una norma inutile. Che nella migliore delle ipotesi non produrrà alcun effetto di contenimento sull'immigrazione clandestina e nel peggiore (e più probabile) degli scenari nasconderà sotto il tappeto un buon numero di patologie ormai di massa, sottraendole al servizio sanitario nazionale e mettendo a rischio la salute di chiunque si trovi a vivere in Italia.
Il cattivismo produce dunque un altro autogol. E lo fa per la stessa ragione di sempre: il voler rispondere alla nostra percezione di insicurezza con provvedimenti essenzialmente dimostrativi, di nessuna rilevanza reale sui fenomeni criminali ma di forte impatto propagandistico su quelle che si considerano le attese del proprio elettorato. Ma la vittoria della volontà di dimostrazione sulla capacità di repressione è poco lungimirante, crea nell'opinione pubblica aspettative di rassicurazione totale che nessun governo (per quanto cattivista) può seriamente garantire.
È una trappola nella quale il centrodestra si è messo con le proprie mani, avendo scelto di declinare i temi della sicurezza nel linguaggio dell'emergenza ideologica piuttosto che in quello della ricerca dell'efficacia. Il rischio è grande soprattutto per la Lega, la cui più recente crescita elettorale è dovuta agli effetti di buona amministrazione nelle aree in cui è da anni forza di governo locale e non certo al volume della sua retorica etnica e sicuritaria. E se questi ultimi provvedimenti di governo ispirati dal suo risveglio propagandistico non produrranno effetti tangibili, com'è del tutto probabile, la credibilità politica di un partito che è ormai molto lontano dalla sua prima versione chiassosa e sovversiva rischia di uscirne frantumata. Perché se la Lega è cambiata, ancor di più è cambiato il suo elettorato. Che oggi chiede risultati molto più che identità. Ed è meno disposto del passato a tollerare, ad esempio, che una norma di puro senso dimostrativo come quella sui medici delatori si traduca nell'emergenza sanitaria paventata ieri con molto realismo dal governatore del Veneto Giancarlo Galan.
D'altra parte le difficoltà politiche in cui si dibatte la Lega sono evidenti già a livello parlamentare, se solo facciamo un passo indietro e ricordiamo che il giorno prima Maroni era stato clamorosamente battuto dalla propria maggioranza sui "Centri di identificazione ed espulsione". Segno che il nuovo cattivismo leghista comincia d essere temuto da consistenti settori del centrodestra, come una strada senza uscita che può forse servire al gruppo dirigente di Bossi e Maroni per resistere ai rischi di omologazione berlusconiana ma di certo non promette niente di buono per i risultati di governo. Resta da vedere se questo duello tutto interno alla maggioranza produrrà effetti deleteri sulla nostra qualità della vita, com'è il caso di quest'ultima norma, o se potrà essere ricondotto entro i confini di una ragionevole disputa politica.

Repubblica 6.2.09
Distinguere il possibile dall’impossibile
di Umberto Veronesi


La forte ondata emotiva che accompagna la vicenda di Eluana rischia di sviare l´attenzione dal cuore del problema. L´ordinamento del nostro Paese prevede per tutti il diritto di rifiutare i trattamenti.
Anche i trattamenti cosiddetti "di sostegno", come la nutrizione artificiale o la trasfusione di sangue, ma ora si vorrebbe calpestare questa norma fondamentale, violando il diritto di autoderminazione delle persone, che è sacrosanto per ognuno di noi. Capisco e intimamente condivido la commozione profonda che pervade in queste ore tutto il Paese, ma a questo punto il sentimento non deve impedire di capire cosa si può fare e cosa non si può fare. Cancellare la morte? Non si può fare. Evitare la sofferenza ai familiari o a chi assiste a una morte? Non si può fare. Abolire il diritto dei medici di decidere secondo scienza e coscienza? Ancora, non si può. Spazzare via con un colpo di spugna i diritti fondamentali delle persone e dei malati, conquistati con fatica e difesi per decenni? Neppure. Mettere governo e giustizia l´uno contro l´altra, con provvedimenti in cui la politica nega ciò che le Corti hanno deciso? Davvero non si può; e soprattutto non si deve. E io credo che il governo e il Parlamento non lo faranno. Nessuno oggi, se non in un momento di smarrimento e confusione, può davvero pensare di ignorare i trecento anni di storia e di grandi progressi civili che ci hanno permesso di godere di un livello di vita accettabile e di disporre della libertà personale necessaria per costruire il proprio progetto di vita. Una legge che obbliga chi cade in coma ad una vita artificiale, senza coscienza e senza risveglio per decenni, anche contro la sua volontà, va contro i principi di libertà e non verrebbe mai sottoscritta da nessun presidente di una democrazia avanzata. E tanto meno dal nostro Presidente della Repubblica, che è il custode della Costituzione e dei suoi più alti valori. Inoltre le leggi non dovrebbero mai essere fatte sull´onda delle emozioni, ma su una pacata e lucida analisi della realtà. Penso di essere in Italia, per età e per professione, uno fra coloro che maggiormente ha lottato sul campo per la vita, la sua qualità e per il diritto di viverla nella sua pienezza, e credo anche di essere fra coloro che più da vicino hanno vissuto accanto alla sofferenza, al dolore e alla morte. Così ho imparato a distinguere il possibile dall´impossibile. Ciò che si può fare, è, da parte della scienza, lottare fino all´ultimo per la salute del malato e annullare il dolore fisico, e, da parte della società, aiutare le persone nel momento di massima debolezza, quando sono colpite da malattie gravi, senza calpestare mai i loro diritti. Ora, se il Paese applica le conclusioni della Cassazione – che confermano che la volontà di Eluana era di rifiutare la vita artificiale e che questa volontà va rispettata – fa ciò che umanamente e civilmente è possibile fare di fronte al terribile dramma di questa donna e della sua famiglia. Se non lo fa, non risolve la tragedia e condanna Eluana a invecchiare incarcerata nel suo letto, senza vedere, senza sentire, senza parlare e soprattutto senza avere coscienza. In questo caso il Paese metterebbe anche pericolosamente in gioco gli stessi principi su cui ha fondato la sua esistenza e il suo straordinario sviluppo. Si tratterebbe di violare il principio della separazione dei poteri, quello giudiziario e quello politico esecutivo, che dal 1700, dalla Rivoluzione francese in poi, ha scritto la storia delle democrazie nel mondo e segnato la fine degli imperi e i governi assoluti. è importante che la gente, che oggi è comprensibilmente confusa dalle tematiche toccanti e incerte della morte, sappia comunque che se vedessimo che la politica prevarica la giustizia , sarebbe davvero preoccupante per il futuro.
Ciò che rassicura noi "ottimisti della ragione" è che un caso analogo si è già verificato negli Stati Uniti per Terry Schiavo quando era presidente George Bush. Anche Bush pensò allora di impedire che fosse interrotta la vita artificiale di Terry sospendendo una sentenza di Tribunale; tuttavia la Corte Suprema levò gli scudi in difesa dei principi fondamentali degli Stati Uniti d´America e Terry, il cui cervello all´autopsia apparve poi del tutto devastato, ha potuto così concludere la sua disumana avventura.

Repubblica 6.2.09
La politica gregaria
di Ezio Mauro


Fermiamoci un momento a ragionare, se possibile, sull´azione del governo nei confronti di Eluana Englaro. La ragazza è dentro una stanza a cui guarda tutta l´Italia, con i dubbi profondi e la trepidazione che questa tragedia provoca in ogni persona non accecata dall´ideologia, e con lei c´è il padre che non chiede affatto silenzio, ma anzi sollecita una discussione pubblica, accompagnata dal rispetto per quella particolare vicissitudine: come quando in ospedale si tira una tenda intorno alle ultime ore di un malato morente. In quella stanza, dopo rifiuti e ricatti, Beppino Englaro chiede allo Stato di poter porre fine ad un´esistenza vegetativa, dopo che per 17 anni si è registrata una situazione irreversibile. Lo fa in nome di una convinzione di sua figlia, di una sentenza della Corte d´Appello di Milano e della Cassazione, e soprattutto lo fa in nome dell´amore e del dolore che lui più di ogni altro prova per Eluana.
Fuori, passando definitivamente dalla testimonianza dei valori cristiani alla militanza, la Chiesa muove fedeli e obiettori, proteste contro l´ "omicidio" e l´ "assassinio", invocazioni ad Eluana perché si "risvegli", come se questa non fosse purtroppo una superstizione, e come se la scienza che dice il contrario fosse falsa, anzi complice, dunque colpevole. Questo governo pagano, figlio di una cultura che ha paganizzato l´Italia, è diviso dalla religione dei sondaggi (i quali danno ragione alla scelta del padre di Eluana che vuole infine liberare il corpo di sua figlia da questo simulacro di vita) e il richiamo della Chiesa, che con quel corpo totemico vuole ribadire non solo i suoi valori eterni, ma anche il suo controllo della vita e della morte.
La strada più semplice per l´esecutivo è la più vile, quella dei provvedimenti amministrativi, cioè di un diktat camuffato. Si minacciano ispezioni alla clinica, si chiedono informazioni ufficiali, si cavilla sulla convenzione tra la Regione e la casa di cura, immiserendo la grandezza della tragedia, che impone a tutti il dovere di essere chiamata col suo nome, e di essere affrontata con la responsabilità conseguente, nel discorso pubblico dove la famiglia Englaro l´ha voluta portare: probabilmente per rendere quella morte non inutile agli altri, meno priva di significato.
Quando la pressione aumenta, nella sera di mercoledì, il governo pensa ad un decreto. Uno strumento legislativo di assoluta necessità ed urgenza, che in questo caso sarebbero determinate da un caso specifico, da una singola persona. E soprattutto, contro una sentenza della magistratura passata in giudicato. Tutto ciò si verificherebbe per la prima volta nella storia della Repubblica, con un´anomalia che configurerebbe una vera e propria rottura dell´ordinamento costituzionale. Vediamo perché.
La sentenza della Cassazione non impone la fine della vita di Eluana Englaro: stabilisce che si può procedere con "l´interruzione del trattamento di sostegno vitale artificiale realizzato mediante alimentazione di sondino nasogastrico". Questo atto di interruzione chiesto da un padre-tutore per una figlia in stato vegetativo permanente dal 1992, per la giustizia italiana non rappresenta dunque un omicidio ma l´esecuzione di un diritto previsto dall´articolo 32 della Costituzione, il diritto a rifiutare le cure.
Con questa pronuncia, la Cassazione afferma con chiarezza che l´alimentazione forzata artificiale è un "trattamento sanitario", secondo la formula della Costituzione: mentre il decreto in un unico articolo che il governo ha pensato di varare nega proprio questo principio, e dunque non consente di seguire l´articolo 32, vincolando quindi il malato a quell´alimentazione artificiale per sempre. Per aggirare la Costituzione, si cambia il nome e la natura ad un trattamento praticato nelle cliniche e negli ospedali, lo si riporta dentro l´ambito del cosiddetto "diritto naturale", fuori dalla tutela dei diritti costituzionali.
Ma in questo modo, attraverso il decreto, saremmo davanti ad un aperto conflitto tra due opposte pronunce non solo sulla medesima materia, ma sullo stesso caso: una sentenza della magistratura e un provvedimento d´urgenza del governo con vigore immediato di legge. Solo che nel nostro ordinamento il legislatore può cambiare il diritto finché una sentenza non diventa irrevocabile, cioè non più impugnabile, vale a dire passata in giudicato. Non siamo dunque soltanto davanti ad un conflitto: ma al problema dell´ultima parola in democrazia, al principio dell´intangibilità del giudicato, alla regola stessa della separazione dei poteri. Senza quel principio e questa regola, una qualunque maggioranza parlamentare a cui non piace una sentenza "definitiva" la travolge con una nuova legge, modificando il giudicato, intervenendo come supremo grado di giudizio, improprio, dopo la Cassazione.
Naturalmente il Parlamento è sovrano nel potere di legiferare su qualsiasi materia, cambiando qualsiasi legge, qualunque sia stato il giudizio in merito della magistratura. Ma questo vale per il futuro, non per i casi in corso, anzi per un singolo caso, per un solo cittadino, e proprio per vanificare una sentenza. Si tratterebbe di un decreto contro una sentenza, definitiva: e mentre la si attua. Nemmeno nell´era di Berlusconi, dove si è cambiato nome ai reati, e si è creata un´immunità speciale del Premier, si era giunti fino a questo punto, che rende il legislatore giudice di ultima istanza � quando lo ritiene � e viola l´autonomia della funzione giudiziaria.
Per queste ragioni di patente incostituzionalità è molto probabile che il capo dello Stato abbia frenato ieri sia la necessità che l´urgenza del governo, invitandolo a riflettere. La falsa rappresentazione che vuole la destra capace di parlare della vita e della morte, e gli altri, i laici, prigionieri dei diritti e del diritto, si rovescia in questo cavillare anticostituzionale del berlusconismo gregario, che riprenderà da oggi la strada della viltà amministrativa, usando qualsiasi invenzione strumentale per bloccare la volontà del padre-tutore di Eluana.
Se il decreto salta, si salva il principio dell´autonomia tra i poteri dello Stato. Resta da chiarire, purtroppo, la capacità di autonomia della politica italiana, del suo governo, del Parlamento e di questa destra davanti alle pretese della Chiesa. Che ha tutto il diritto di dispiegare la sua predicazione e di affermare i suoi valori, ma non di affermare una sorta di idea politica della religione cristiana, trasformando il cattolicesimo italiano da religione delle persone a religione civile, con forza di legge.

l’Unità 6.1.09
Scuole obbligate a tagliare i docenti
Depliant Gelmini pro maestro unico
di Maristella Iervasi


Circolare a sorpresa detta i criteri ai presidi sulla stima degli organici di prof e maestre
Iscrizioni Il tempo pieno non verrà aumentato. Via le compresenze anche nelle classi in corso

A sopresa scatta l’ora dell’ammazzacattedre: i tagli ai docenti li devono fare le scuole, entro domani. Circolare degli uffici regionali nel caos iscrizioni. E la Gelmini manda depliant pro maestro unico.
L’ultimo modello di persuasione occulta della Gelmini maestra unica - si potrebbe dire - è la lavagna nana. Basta aprire il depliant del ministero dell’Istruzione in distribuzione nelle scuole elementari d’Italia, per trovarsi di fronte ad una lavagna che quasi si rimpicciolisce sotto gli occhi del genitore che cerca il tempo pieno. Le iscrizioni per le future prime classi sono al via ed ecco il ministero che invia la propria «propaganda» agli istituti per orientare le famiglie. Modello di base a scelta: 24 ore (maestro unico) e 30 ore, scritto col gessetto bianco su una lavagna grande. Mentre il tempo pieno «bollato» come «modello a richiesta» (che la scuola potrà attivare solo in base all’organico) compare invece su una lavagna molto, molto più piccola. A a mo’ di scoraggiamento.
Depliant tautologico E non finisce qui. La Gelmini cerca di convincere le famiglie anche con giochetti linguistici: «In tutti i paesi europei - si legge nel depliant - esiste il modello dell’insegnante unico di riferimento che ha la responsabilità della classe e degli apprendimenti degli alunni». Perché ricorrere ad una tautologia? E perché solo per il maestro unico? Il tutto mentre dagli uffici scolastici regionali, in primis il Lazio, arriva un aut-aut ai direttori e presidi sugli organici del personale docente. Che suona così: «Fate i vostri tagli». Un fai-da-te sull’ammazzacattedre in formato elettronico, con tanto di criteri per la compilazione delle schede e un’imposizione sull’inoltro da tempi da record: il 7 febbraio, domani.
Proprio in questi giorni le scuole stanno raccogliendo le domande dei genitori, i termini per le iscrizioni scadono a fine mese. Non è esclusa una richiesta di tempo pieno più alta rispetto al maestro unico. Ma nel depliant della Gelmini non si parla di potenziamento: «Il tempo pieno - c’è scritto - è confermato almeno nel numero delle classi funzionanti nel 2008/2009». Le scuole hanno quindi un gran da fare e l’imposizione ad ogni scuola di «calcolare automaticamente la propria dotazione organica» con procedure «aritmetiche di calcolo» non è propizia. Invece è scattata l’ora dell’ammazzacattedre, frutto della cura dimagrante imposta da Tremonti sull’istruzione, proprio nel bel mezzo del disorientamento delle famiglie. Ma andiamo con ordine. Iscrizioni. I «tranelli» sui moduli ministeriali sono stati smascherati proprio dai genitori, che si rifiutano di indicare con ordine di preferenza tutte le scelte orarie: 24, 27, 30 e 40 ore. Ma lo spauracchio che a settembre chi ha scelto un modello si trovi invece il figlio con il maestro unico resta in piedi. Giorni di scuole aperte per sciogliere dubbi che non trovano risposte e i dirigenti scolastici sono «assaliti» anche dalle mamme dei bambini che frequentano le altre classi: «Mia figlia andrà in 3°a avrà le stesse maestre»? «Quando ho iscritto mio figlio ho firmato un contratto con la scuola e quindi con il ministero, voglio il mantenimento di quella offerta formativa. Lo metto per iscritto o vado dall’avvocato?».
Tagli, simulazione alle scuole Una doccia fredda la circolare sugli organici del personale docente. Che nessun preside e dirigente si aspettava. E invece proprio a loro tocca fare l’elenco dei prof e maestre che dal prossimo anno non saranno più in cattedra: vuoi perchè supplenti annuali o precari; vuoi perché quelli di ruolo sono troppi e una volta segnalati potrebbero finire impiegati ad altro incarico o a coprire spezzatini di ore in più classi, magari nell’ex modulo. Criteri per il calcolo sulla stima del «contigente» docente a 22 ore e senza compresenze che riguarda non solo il primo ciclo ma anche le superiori, dove invece la controriforma Gelmini partirà solo nel 2010-2011. Eppure anche qui tagli simulati, calcolando le cattedre a 18 ore.

l’Unità 6.1.09
Rosa Cantoni, partigiana
nome di battaglia «Giulia»
sopravvissuta al lager


Mi chiamo Rosa Cantoni, sono nata a Pasiani di Prato, vicino Udine, il 25 luglio 1913. Sono stata arrestata i primi di dicembre del 1944 dai fascisti, mentre andavo a un appuntamento con un compagno. Dovevo dargli delle cose e ritirarne da lui delle altre.
Mi hanno portata alla caserma della Milizia. A mezzanotte circa mi hanno accompagnato in carcere a Udine. Una mattina chiamano il mio nome. Una compagna mi tira via il fazzoletto rosso che avevo intorno al collo, un’altra mi fa il segno della croce come gesto affettuoso. «Non parlare». «No, no, non parlo, non so niente».
Entro e vedo un signore alla scrivania che mi guarda. «Buongiorno Giulia!». Il mio nome di battaglia era Giulia. Da tempo era stata segnalata una Giulia di Udine che aiutava la Resistenza, ma pensavo che non avessero fatto ancora il nome vero. «No - ho detto - mi chiamo Rosa Cantoni». Mi chiede se conosco la persona con la quale dovevo trovarmi. Rispondo che non l’ho mai visto e non so chi sia. Chiama un secondino: «Fai venire qui Tizio».
Tizio arriva a testa bassa e non mi guarda. «E questo lo conosci?» Io ormai dovevo dire di no e ho detto di no. Alla stessa domanda lui invece risponde di sì. «Come si chiama?». «Rosa Cantoni». «Che nome di battaglia ha?». «Giulia». «Come vi trovavate?» Insomma: tutto, era il compagno con cui scambiavo settimanalmente pacchi.
Le feste le abbiamo passate tutte là, in carcere. Eravamo quattordici donne. Una mattina - era il 10 gennaio 1945 - sentiamo leggere un elenco di nomi, anche i nostri. Era venuto un treno da Trieste. È stata dura, durissima. Siamo state sempre in piedi oppure accovacciate a turno. Non saprei se abbiamo fatto tre giorni e tre notti, ma sono stati un’infinità: sembrava di essere nate sul treno. Così siamo arrivate a Ravensbrück.
Come a tutti quelli che arrivavano in un campo ci tocca la spoliazione, via i vestiti e via tutto, orecchini, tutto. Io avevo un bellissimo orologio. Poi tutto il resto: i capelli e la doccia. C’erano dei mucchietti già pronti di vestiti, se così si potevano chiamare, orribili, coi pidocchi. Dicevano che erano disinfestati, ma quando siamo entrate nelle baracche che ci avevano assegnato, dalle cuciture uscivano i pidocchi come foglie secche che andavano a cercare il nutrimento: noi. Ci hanno dato un paio di zoccoli di legno, spaiati. Dopo la vestizione ci hanno immatricolate. Il numero di matricola era stato stampigliato su un pezzettino di tela bianca che dovevamo sistemare sotto il triangolo rosso. La mia matricola era 97.323. Questo ero io.
Eravamo circa centoventi, fra slovene, istriane e noi. C’erano anche due zingare. Ci hanno divise in due gruppi, tirando a sorte, e hanno cercato dove metterci. In un grande cortile c’era una tenda, dentro cui è stata un po’ di ore una compagna di Treviso, la Moimas, una tenda come di circo, grande e nera. Ci dicono «Entrate lì, tra poco verremo a prendervi per portarvi a destinazione». Entriamo e nella penombra vediamo un mucchio di donne messe a cono. Probabilmente sotto erano già tutte morte, vestite di nero, sopra alcune galleggiavano, si muovevano ancora un poco, particolarmente due. Erano bianche come la carta, con gli occhi infossati e neri. Facevano impressione. Poco dopo arrivano due inservienti, prigionieri che facevano dei lavori all’interno, con un recipiente di patate lesse. Allora queste sopra la catasta si sono allungate, una che dalla sagoma sembrava molto alta ha messo la mano sull’orlo del recipiente. Le patate sono finite sul pavimento, correvano rotonde. Si sono chinate - non stavano in piedi - per prenderle e portarle subito alla bocca. Quello spettacolo era una cosa spaventosa. Già quasi morte, aprivano appena un po’ la bocca e cercavano col dito di mandare dentro la patata. La tenevano stretta, ma non riuscivano a ingoiarla e quelle che erano sotto di loro, che ancora capivano un po’, per istinto di conservazione cercavano di portargli via il pezzettino che avevano sulla bocca. Era una cosa spaventosa.
Dopo febbraio ci hanno adunate ed è venuto un capitano delle SS, piccolo e rabbioso, con le gambe storte e la voce stridula. Ho pensato che non rappresentava tanto bene la razza forte. Questo ci ha fatto un discorso e ha detto che chi voleva andare a lavorare in fabbrica poteva venire fuori. Nessuna è uscita. Eravamo partigiane, come potevamo andare a lavorare volontarie un una fabbrica tedesca, sotto i bombardamenti americani? Siamo rimaste ancora nel campo, poi ci hanno mandato via perché a poco a poco i Russi si avvicinavano a Ravensbrück. Hanno tenuto le vecchie, che sono morte. Altre le hanno mandate a Bergen Belsen e sono quasi tutte morte. Le poche che sono rimaste e non sono morte sono state liberate dai Russi. Io con quelle del mio gruppo abbiamo avuto come destinazione Buchenwald.
Ormai tutte soffrivamo di dissenteria. Oltre ai pidocchi e alla scabbia c’era anche la dissenteria. Se veniva forte si moriva. Siamo arrivate ad Abteroda, una fabbrica vicino a un bosco. Era lunga, con tutte le macchine e in fondo una poltrona. Seduta lì c’era una matrona tedesca, vestita di scuro, tutto il giorno stava a guardare in giro. C’erano i servizi, con water e tutto quanto. Quelle che lo hanno scoperto per prime ci hanno passato la voce, che in bagno ci si poteva sedere comodamente. Quando si aveva bisogno del bagno si doveva dire una frase che si era imparata lì, «bitte frau, ich bin krank, in abort» e ci si teneva la pancia. Vicino alla matrona c’era un soldatino biondo, i capelli color pannocchia e un fucile della guerra 1915-1918 con la baionetta in canna. Quando toccava a me, dovevo presentarmi di fronte alla matrona, io piccola, con la croce sulla schiena. «Bitte frau ich bin krank, in abort» questa faceva cenno al soldato tedesco vestito da SS di seguirmi, così lui mi veniva dietro con la baionetta in canna e io su per le scale andavo al bagno. Lì si stava fino a quando lui non cominciava a battere alla porta.
Gli americani avanzavano. Una mattina siamo partite per un viaggio senza fine. Avrebbe dovuto essere un viaggio della morte, perché non sapevano più dove metterci. Abbiamo camminato solo un po’, poi ci hanno messo in un piccolo campo in mezzo alla campagna. C’erano solo ebree ungheresi, saranno state cinquecento, tutte coi loro vestiti sbrindellati. Una notte verso le due di notte ci svegliano e ci mettono nuovamente in viaggio per non si sa dove. Si girava di qua e di là, si andava in su e in giù, da una parte e dall’altra, non ci davano da mangiare, erano due giorni che non mangiavamo niente, solo erba, radicchio, come i conigli. Non so come abbiamo fatto. Si partiva e poi avanti in un altro campo, non so quale perché la debolezza era ormai tanta. C’erano anche uomini, eravamo una grande fila di donne e di uomini, mentre per aria c’erano i combattimenti, e per la strada carri armati che bruciavano. C’era stata battaglia e un aereo inglese che si abbassava per vedere per poco non ci ha toccato. Hanno capito che eravamo dei prigionieri, una colonna di disgraziati, di fantasmi. Così abbiamo continuato un giorno intero e una notte, un altro giorno e un’altra notte, poi sorgeva di nuovo un altro giorno.
Un giorno ho rimuginato tutto il tempo, decido che non vado più avanti, così quella notte sono scappata con una compagna di Udine. Non ci vedeva nessuno, siamo andate di nascosto in una casa bombardata. Lì abbiamo trovato un’altra friulana e due belghe, madre e figlia ebree, e ci siamo fermate. Abbiamo aspettato l’alba poi siamo uscite perché la guerra non era ancora finita. Abbiamo cercato un posto sicuro e siamo andate in un cimitero.
Poi sono arrivati i Russi. La storia si è conclusa bene perché sono qui a raccontarla. Sono rientrata in Italia il 27 ottobre 1945, sempre in vagone bestiame.

l’Unità Roma 6.1.09
Partigiani e repubblichini? Per il Pdl sono la stessa cosa
E l’Anpi domani si mobilita
di Luca Del Fra


Alle ore 10, al Teatro Italia, l’Associazione Nazionale Partigiani ha organizzato un’assemblea popolare. «Vogliono riabilitare il fascismo: non c'è niente da fare» spiega Massimo Rendina, presidente dell’Anpi di Roma e Lazio.
Un assemblea popolare al Teatro Italia indetta domani mattina alle 10 dall’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia per rivendicare il no di Roma, città medaglia d’oro per la Resistenza, alla proposta di legge 1630. Firmata da 42 parlamentari del centrodestra, il provvedimento prevederebbe la creazione di un ordine del Tricolore per tutti coloro che hanno partecipato alla guerra di Liberazione. Tutti, indipendentemente dalla parte in cui hanno combattuto. Dunque partigiani e repubblichini equiparati, con la speranza che i primi ingoino il rospo vista la prebenda di 200 euro al mese. «Una vergogna! - dice senza mezzi termini Massimo Rendina, presidente dell'Anpi di Roma e Lazio - E lasciamo perdere gli errori che sono contenuti in quel testo, come per esempio dire che il riconoscimento va a tutti i partigiani e ai Gap, come se i Gap non fossero stati partigiani. Qui il problema è di sostanza: si parla di pacificazione, ma la pacificazione l’ha fatta Togliatti con l'amnistia nel 1946, e si potrebbe anche parlare dei ragazzi di Salò cercando di comprenderne le motivazioni personali, ma con questa legge si equipara la Resistenza alla Repubblica Sociale ed è tutt'altra cosa. La verità è che vogliono riabilitare il fascismo: non c'è niente da fare».
L’iniziativa
Ecco allora l'iniziativa di un assemblea popolare: «Per ribadire le ragioni della storia, perché non c'è un revisionismo buono e uno cattivo. Con le parole revisionismo e pacificazione vogliono tartufescamente esasperare gli animi – spiega ancora Rendina­, in un momento terribile per il nostro paese e il parlamento è ridotto a una mera facciata di democrazia. È per questo che abbiamo invitato anche un giudice, un giornalista come Furio Colombo che ci parlerà dello stata dell'informazione, ma anche i ragazzi dell'Onda, per spiegare da dove nasce il loro rifiuto dei partiti che restano uno dei mattoni della democrazia».

Repubblica 6.2.09
Cinque protagonisti degli anni di piombo nel documentario di Gianfranco Pannone
Il terrificante racconto delle Br
di Paolo D’Agostini


Oggetto delicato questo realizzato dal regista Pannone con il giornalista Giovanni Fasanella. Si parla di storie che hanno ferito (e ucciso) e possono ancora fare male. Intorno al ritrovarsi nella Reggio Emilia di oggi di cinque ex giovani che tra il '69 e il '70 dettero vita al cosiddetto gruppo dell´Appartamento, si snoda la memoria di sessant´anni di comunismo a Reggio. Dove «il Pci prendeva il 74 per cento e la Dc il 6». Dove non c´è quasi famiglia che non abbia avuto uno zio o un nonno nei partigiani rossi. Dove (a Cavriago, «nel paese dove è nata Orietta Berti») c´è ancora una piazza intitolata a Lenin con un busto regalato dai "compagni sovietici". Chi sono i cinque? Alberto Franceschini, famiglia partigiana, operaia, comunista (al cimitero la sola tomba «che abbia la falce e martello al posto della croce» è quella di suo padre), co-fondatore delle Br, arrestato nel '74, diciotto anni dentro, dissociato nell´83, oggi direttore di una cooperativa di servizi sociali. Paolo Rozzi, dopo l´Appartamento entra nel Pci, oggi presidente del IV Municipio a Reggio, crede nella "possibilità" del partito democratico: «mettere insieme i migliori comunisti con i migliori democristiani». Tonino Loris Paroli, operaio, brigatista nel '74, arrestato l´anno dopo, sedici anni dentro, né pentito né dissociato, oggi pittore. Annibale Viappiani, già operaio e delegato Fiom, oggi sindacalista, mai sfiorato dalla tentazione Br. Roberto Ognibene, Br nel '72, arrestato nel '74 e condannato a trent´anni, dissociato nell´86, oggi lavora in una cooperativa bolognese. Si riuniscono e rievocano. Altre due testimonianze fanno (con le note, usate per spezzare i capitoli, dei "Morti di Reggio Emilia" di Fausto Amodei) da contrappunto. L´anziano Corrado Corghi, all´epoca segretario regionale della Dc, che lasciò ritenendo «inconcepibile» appoggiare la politica Usa in Vietnam. E Adelmo Cervi, figlio di Aldo, uno dei sette Fratelli Cervi: dal '68 al '70 studente in Russia, sempre nel Pci, pensionato e dirigente Anpi.
Quello che si dice è che dalla Resistenza al mito della Resistenza tradita e al biennio di regolamenti di conti nel "triangolo della morte", ai moti del luglio '60, fino al rinascere dell´estremismo prima e della "lotta armata" poi (l´Appartamento ne fu il laboratorio, a Reggio) fu una storia sola. Quella di un´anima (non l´unica e per fortuna non la più forte) della famiglia comunista italiana. Potrà disturbare qualcuno sentir parlare cameratescamente di certe vicende. Ma lo stesso qualcuno non potrà che trarre materia di riflessione da quell´inaspettato passaggio in cui, seduto a tavola, l´esuberante Paroli dice senza fronzoli due cose. La prima è «noi non siamo stati terroristi, terrorismo era piazza Fontana», e l´altra è «sono stati commessi delitti politici, crimini. Soprattutto in carcere quando ammazzavamo i pentiti». Come quella volta che il "condannato" - e qui si rompe la voce di chi parla - disse soltanto: «cercate di fare in fretta, di farmi meno male possibile». Terrificante. Vale più di un milione di discorsi.

Corriere della Sera 6.2.09
Ottant'anni fa, l'11 febbraio 1929, la firma del Concordato Un assetto giuridico, poi riformato nell'84, che si è dimostrato vitale
Quando il Papa non fu più prigioniero
I Patti che posero fine alla Questione romana
di Ernesto Galli Della Loggia


«Non vi è mai stata, non vi è, e presumibilmente non vi sarà mai, la possibilità di separazione assoluta tra i due poteri in un Paese dell'Occidente europeo e in Italia in modo speciale. Non vi è mai stata e non vi sarà mai perché l'europeo non è divisibile. La Chiesa si può combattere; la Chiesa si può perseguitare; con la Chiesa si può patteggiare; ma la Chiesa non si può ignorare; è questo un dato di fatto che 19 secoli di storia confermano».
Queste parole, pronunciate alla Costituente in occasione della discussione sui Patti Lateranensi da un illustre parlamentare cattolico, Stefano Jacini — antico esponente del modernismo, deputato popolare dichiarato decaduto per antifascismo, infine membro del Cln dell'Alta Italia — possono riassumere abbastanza bene il senso con cui oggi guardare a quel Trattato di cui sta per ricorrere l'ottantesimo anniversario il prossimo 11 febbraio.
In realtà all'inizio — cioè subito dopo la presa di Roma nel 1870 e la fine del potere temporale del Papa che ne era seguito, apice dell'aspro scontro accesosi tra la Chiesa e il movimento liberal-nazionale italiano nel corso del Risorgimento — proprio la strada della separazione più o meno assoluta era stata quella che il neonato Regno d'Italia aveva deciso di battere. Lo aveva fatto attraverso la cosiddetta «legge delle guarentigie» (1871): le garanzie in questione erano per l'appunto quelle che in modo del tutto unilaterale l'Italia riconosceva al Pontefice dichiarandolo sottratto ad ogni sua giurisdizione, equiparando la sua persona a quella del re, assicurandogli il possesso indisturbato dei Palazzi Apostolici e di altri edifici e luoghi di Roma, riconoscendogli il diritto di legazione attiva e passiva, interdicendosi la possibilità d'intralciare in qualsiasi modo l'attività sia della Curia e della Santa Sede che del relativo personale ecclesiastico. L'Italia insomma, e sia pure con certi limiti, dichiarava l'organizzazione centrale della Chiesa di Roma, che pure aveva sede nella sua capitale, una sorta di corpo estraneo, un totalmente altro da sé.
Anche se fondato su un solido impianto ideologico di stampo liberale, fatto sinceramente proprio da tanti protagonisti del Risorgimento, il separatismo che allora l'Italia adottò fu tuttavia in buona parte una scelta obbligata. Infatti, l'esitazione di Pio IX e dei suoi successori a rinunciare ufficialmente ad un'eredità storica plurisecolare, e dunque la loro pervicacia nel considerarsi vittime di una pura e semplice sopraffazione, non le lasciarono altra via. Per sessant'anni il Papa, insomma, preferì considerarsi «prigioniero» nel Vaticano anziché riconoscere il fatto compiuto addivenendo ad un qualche compromesso.
La «questione romana » rimase così un problema aperto, anche se vissuto sempre meno drammaticamente da ambo le parti. Con il passare del tempo, peraltro, il mancato riconoscimento del nuovo regno da parte della Santa Sede finì per rappresentare non tanto un potenziale pericolo per la legittimazione internazionale del Paese, come invece si era assai temuto all'inizio da parte italiana, quanto piuttosto la causa permanente di un rapporto difficile tra il nuovo Stato e molti suoi cittadini di fede cattolica.
Quelli, per esempio, che attenendosi alle disposizioni della Chiesa non partecipavano per protesta alle elezioni politiche.
Fu questo un ulteriore aspetto del caso singolare che aveva visto l'Italia unico Paese d'Europa conseguire la propria indipendenza nazionale in contrasto con la religione della stragrande maggioranza dei suoi abitanti.
Il nodo, come si sa, si sciolse solo con il fascismo, nel 1929. Non a caso, dal momento che solo la dittatura mussoliniana era in grado di concedere alla Santa Sede ciò che a qualunque altro governo inserito nella tradizione liberale italiana sarebbe stato invece assai difficile concedere. Vale a dire, oltre al Trattato del Laterano vero e proprio — con la soluzione (già peraltro messa a punto in molte trattative precedenti) della questione della sovranità territoriale grazie all'«invenzione » dello Stato della Città del Vaticano— anche la garanzia politica aggiuntiva, il «necessario complemento» di un Concordato, come si legge nella premessa di questo. Un Concordato che, benché sempre modificabile con il consenso delle parti (infatti è stato poi modificato nel 1984), almeno nella sua primitiva versione del '29 era oltremodo comprensivo delle ragioni della Chiesa cattolica, a scapito vuoi dell'autorità dello Stato vuoi dell'eguaglianza dei cittadini. Proprio l'accettazione di un Concordato siffatto era tuttavia la prova, agli occhi della Santa Sede che l'Italia ufficiale aveva rotto inequivocabilmente con il passato e che, come ebbe a dire Pio XI con mal riposta enfasi polemica, essa era ormai intenzionata a «regolare debitamente le (sue) condizioni religiose per sì lunga stagione manomesse, sovvertite, devastate in una successione di Governi settari od ubbidienti e ligi ai nemici della Chiesa, anche quando forse nemici essi medesimi non erano».
In realtà, a partire dal 1929, Trattato e Concordato hanno cominciato a vivere una vita largamente autonoma, dal momento che la costituzione della Città del Vaticano si è dimostrata una soluzione di per sé felice e vitale, dotata di una forza e validità sue proprie. Si può anzi dire, a ben pensarci, che quella soluzione ha rappresentato un grande vittoria postuma del Risorgimento, dimostrando nel modo più chiaro che la fine del potere temporale dei Papi, lungi dall'impedire alla Chiesa di svolgere il suo magistero universale, è stata la premessa, viceversa, per un esercizio di tale missione ancora più vigoroso, vasto ed influente.
Tutto ciò, come dicevo, indipendentemente poi dall'esistenza tra la Chiesa e lo Stato italiano di un Concordato. Ormai, tra l'altro, la ragione d'essere di questo non può più essere fatta risalire all'antico contenzioso tra l'Italia laica e l'Italia clericale degli anni del Risorgimento né può più consistere in qualche sogno di «restaurazione cristiana della società» come quello che pure sognava La Civiltà Cattolica all'indomani dell'11 febbraio. Esso risponde palesemente ad altri motivi, ad altri sentimenti pubblici. Primo fra tutti al superamento del liberalismo ottocentesco per quanto riguarda il riconoscimento del carattere istituzionale della Chiesa. Finite le antiche dispute, e ammaestrato dalle sanguinose pretese totalitarie del Novecento, oggi lo Stato democratico-costituzionale può tranquillamente ammettere anche al proprio interno l'esistenza di altri ordinamenti originari con cui stabilire accordi e intese. E può farlo senza che debba necessariamente scapitarne in alcun modo né il confronto e magari anche lo scontro tra le idee, né l'irrinunciabile libertà per chiunque di credere o non credere. Ma ancor prima di ciò vi è un debito che ogni Paese ha con la propria storia. Quella italiana appare troppo inestricabilmente intrecciata alla vicenda del Cristianesimo e della Chiesa romana perché sia realmente plausibile immaginare un reciproco disinteresse, una reale indifferenza dell'una rispetto all'altra all'insegna dell'unilateralità. Alla fine, nella sua essenza e al di là di ogni possibile, anche necessaria, disputa sui suoi contenuti, il Concordato non è che la presa d'atto di questo dato.

Corriere della Sera 6.2.09
Il partito del no Da Gioacchino Volpe a Riccardo Bauer
Il Duce «più bravo di Cavour» ma molti dissensi furono fascisti
di Dino Messina


Un Benito Mussolini convinto di essere «più bravo di Cavour», dopo la firma dei Patti Lateranensi, la sera dell'11 febbraio non andò al ricevimento offerto dal principe Marcantonio Colonna. Volle godersi in privato quel momento di gloria e dall'appartamento di via Rasella chiamò donna Rachele, che ancora abitava a Milano, in via Mario Pagano. Dall'altro capo del filo la moglie ironizzò: «Gli hai anche baciato le pantofole a questo tuo Papa?». L'aneddoto famigliare dice quanto i primi oppositori della Conciliazione si nascondessero negli ambienti più vicini a Mussolini, nel partito, nel governo, nelle file degli intellettuali amici. Per i rappresentanti della vecchia guardia, che avevano condiviso lo slogan marinettiano «svaticanare l'Italia», accettare i Patti era difficile: da Roberto Farinacci, che aveva fomentato aggressioni fisiche contro i cattolici per intralciare le trattative, a Italo Balbo, capo delle squadre ferraresi che avevano eliminato il 23 settembre 1923 don Giovanni Minzoni, a Leandro Arpinati.
Ma l'opposizione fascista che si fece sentire di più fu quella degli intellettuali con un passato liberale. Innanzitutto Giovanni Gentile, teorico dello «Stato etico», il filosofo che nel 1925 pubblicò il manifesto degli intellettuali fascisti, condusse un'aperta campagna contro la Conciliazione. Come racconta Renzo De Felice nel secondo tomo di Mussolini il fascista, Gentile uscì più di una volta in campo aperto: «Chi parla di "conciliazione" — dichiarò il 18 ottobre 1926 alla casa del fascio di Bologna — o non ama lo Stato o non ama la Chiesa». In un articolo sul Corriere della Sera il filosofo scrisse poi che «la conciliazione giuridica sarebbe sì la fine di un dissidio... ma sarebbe pure il principio di nuovi dissidi...», così come «la separazione dello spirituale dal temporale è... un'utopia». Ma dopo l'11 febbraio il filosofo fece «una mezza palinodia», definita da De Felice «tipica e triste».
Nel febbraio 1929 sulla rivista Gerarchia lo storico vicino al fascismo Gioacchino Volpe avvertì tra l'altro che con i Patti c'era il «pericolo che si rimettano in discussione beni ormai acquisiti dallo spirito moderno; pericolo che, per reazione, si determini nuovamente quel diffuso stato d'animo da cui, in altri tempi, trassero alimento anticlericalismo e massoneria, cose che vorremmo considerare pur esse superate».
Ugo Ojetti espresse i suoi dubbi sulla rivista Pegaso in una lettera aperta al direttore della Civiltà Cattolica, padre Enrico Rosa, dicendosi però certo che il capo del governo avrebbe saputo superare le difficoltà. Gabriele d'Annunzio, nell'eremo di Gardone, non volle fare dichiarazioni pubbliche, ma in privato lanciò una delle sue battute: «Ne vedremo delle belle, col Papa mercatante e col primo ministro cristianissimo ».
Perfino il re Vittorio Emanuele III, che dal Concordato aveva tutto da guadagnare vedendo cadere l'ultima opposizione formale al regno sabaudo, ancora nel 1927 aveva confidato all'amico Vittorio Scialoja il suo scetticismo: «Io non credo affatto che s'arrivi a qualche cosa. Quelli in tonaca hanno il braccio lungo e Mussolini vuole un successo per parte sua. Le pare che stando così le cose si possa stringere?». Lo stesso dittatore nella Storia di un anno scrisse che «il re non credeva nella possibilità della soluzione della "questione romana" » e che «in un secondo tempo mise in dubbio la sincerità del Vaticano».
Invece le trattative, avviate in gran segreto nel 1924 in casa del senatore Carlo Santucci, si conclusero positivamente cinque anni dopo. I Patti vennero approvati dalla Camera dei deputati con 357 voti favorevoli e due contrari e al Senato la discussione di tre giorni, dal 23 al 25 maggio, si concluse con 316 voti a favore e sei contro (Albertini, Bergamini, Croce, Paternò, Ruffini e Sinibaldi). L'unico discorso di opposizione fu quello di Benedetto Croce, che parlò anche a nome di alcuni colleghi: «Non già che io tema — disse il filosofo— il risorgere in Italia dello Stato confessionale... ma certo ricominceranno spasimanti e sterili lotte su fatti irrevocabili, e pressioni e minacce e paure, e i veleni versati nelle anime dalle pressioni, dalle minacce, dalle paure». Croce ammonì infine che «accanto o di fronte agli uomini che stimano Parigi valer bene una messa» per altri «l'ascoltare o no una messa è cosa che vale infinitamente più di Parigi». A Croce replicò lo stesso Mussolini: «Che cosa ha detto il senatore Croce? Non è il fatto della Conciliazione in sé, ma è il modo che ancor l'offende! Ma allora qual è il suo modo? Non basta dire "il vostro modo non mi piace"; bisognava che si trovasse un altro modo con cui la questione romana doveva essere risolta». Croce per il capo del fascismo era «un imboscato della storia».
Sul fronte cattolico le dichiarazioni positive furono superiori a quelle di dissenso, anche tra gli oppositori del fascismo. Alcide De Gasperi confidò a don Simone Weber: «Il dolore dei cattolici è legittimo, ma chi potrà mettere in dubbio che la S. Sede salvaguarderà in modo meraviglioso gli interessi della Chiesa?». E l'ex direttore del Popolo Giuseppe Donati, in esilio a Parigi, sul Pungolo non esitò a scrivere che i Patti, «anche se portano la firma di alcuni assassini emeriti come Mussolini e Giunta e come Rocco», rappresentavano «un trionfo delle idee liberali». Diversa la posizione dell'ex popolare passato a Giustizia e Libertà, Francesco Luigi Ferrari, che dall'esilio scrisse una «lettera ai parroci» in cui prevedeva dopo la Conciliazione il «prosperare delle comunità protestanti ». Un certo dissenso si manifestò anche nelle comunità diocesane, come quello espresso da un gruppo di cattolici milanesi in una lettera all'arcivescovo Ildefonso Schuster: «Né il Papa né l'Italia possono benedire il fascismo».
Naturale l'opposizione compatta da parte dei comunisti e dei fuoriusciti, anche se un antifascista come Rodolfo Mondolfo avrebbe definito la Conciliazione «il punto più alto della parabola fascista ». Se Palmiro Togliatti sullo Stato Operaio
ironizzava: «Giovanni Gentile ha ragione di sentirsi a disagio. Lo spirito santo caccia di nido lo spirito assoluto» e Antonio Gramsci vedeva negli accordi tracce di «un nuovo sistema spartitorio tra regime e Chiesa», Carlo Sforza e Gaetano Salvemini espressero una dura condanna dall'esilio americano. Per Salvemini, il primo atto di un governo dell'Italia libera sarebbe stato dichiarare nullo il Concordato. Riccardo Bauer, sul foglio clandestino Nuova libertà, scrisse che il fascismo, sfociato nella teocrazia, «risolve definitivamente il problema della sovranità temporale in senso negativo». Per Ernesto Rossi i Patti erano «un'alleanza tra il manganello e l'aspersorio». Critico anche Francesco Saverio Nitti, che pure, quando era al governo, aveva tentato un accordo con il Vaticano.
Arturo Carlo Jemolo in Chiesa e Stato in Italia ricorda che dopo il duello al Senato fra Croce e Mussolini un gruppo di intellettuali torinesi raccolti attorno a Umberto Cosmo, professore di Piero Gobetti e Antonio Gramsci, mandò al filosofo napoletano un messaggio di solidarietà che fu intercettato dalla censura: «No, voi non siete un imboscato della storia». A Cosmo toccò il confino, la germanista Barbara Allason perse la cattedra.

il Riformista 6.2.09
Mostro. Mistero sulla morte di Heim, il super criminale nazista
di Anna Mazzone


Due giorni fa la tv tedesca "Zdf" e il "New York Times" hanno diffuso la notizia del ritrovamento della documentazione sulla vita e le attività di Albert Heim in Egitto, dove sarebbe morto di cancro nel 1992. Nato in Austria nel 1914 e di cittadinanza tedesca, Heim è nella lista dei super-ricercati nazisti ed è stato soprannominato «dottor Morte» per l'efferatezza delle sue uccisioni seriali. Si calcola che più di 300 prigionieri ebrei siano morti sotto le sue "cure" nei campi di concentramento di Mauthausen e Buchenwald, dove il medico nazista conduceva i suoi sadici esperimenti, amputando arti senza nessuna anestesia e iniettando benzina, acqua e altre sostanze tossiche direttamente nel cuore delle sue vittime. Arrestato dall'esercito americano nel 1945, fu però rilasciato due anni e mezzo dopo e da allora fino al 1962 condusse indisturbato l'attività di ginecologo in Germania, a Baden-Baden. Quando il cerchio attorno alla sua identità cominciò a chiudersi e sentì sul collo il fiato dei cacciatori di nazisti del centro Simon Wiesenthal, Heim abbandonò la Germania. Da allora si sono perse le sue tracce. Ieri la notizia della sua morte. Secondo l'inchiesta del "New York Times", si era convertito alla fede islamica e si faceva chiamare Tareq Hussein Farid, o Zio Tareq per gli amici più intimi. Ma Ephraim Zuroff, direttore del centro Simon Wiesenthal a Gerusalemme, resta scettico e chiede di poter rintracciare il cadavere, dal momento che non esiste alcuna prova della effettiva morte del capolista dei criminali nazisti ricercati in tutto il mondo. Dal Cairo le autorità sostengono che Heim è stato sepolto in un cimitero per poveri, dove le tombe negli anni vengono utilizzate per corpi diversi e quindi è praticamente impossibile ritrovare la sua salma. E spunta anche l'ipotesi di un'eredità di circa 2 milioni di euro che i figli potrebbero riscuotere solo se dichiarata legalmente la sua morte, il che - secondo Zuroff - spiegherebbe la «tempestività» della notizia proprio adesso.

Liberazione 6.2.09
Unità del Prc per ricomporre la diaspora
di Claudio Grassi


A distanza di pochi mesi dal congresso nazionale di Rifondazione Comunista tutto è più chiaro. Ciò che appariva avvolto nelle nebbie dell'indefinito (il «processo costituente», «la sinistra senza aggettivi», «la nuova soggettività politica») oggi ha un nome («Movimento per la Sinistra») e un primo gruppo dirigente votato da un'assemblea.
L'obiettivo immediato è dare vita ad un nuovo partito che si presenti alle prossime elezioni (europee e amministrative) in concorrenza con il Prc. Quello a medio termine, per esplicita ammissione di suoi autorevoli esponenti, è disarticolare il Partito democratico e costruire un nuovo soggetto politico con a capo Massimo D'Alema.
Da questi dati di fatto evinco alcune riflessioni.
La prima: per mesi siamo stati accusati di agitare fantasmi e siamo stati inchiodati ad un dibattito nominalistico alquanto stucchevole sulle differenze tra scioglimento, superamento e dissoluzione del Prc. Durante il congresso molti compagni hanno sostenuto il documento di Nichi Vendola proprio perché rassicurati in ordine alla persistenza politica e organizzativa del partito. Oggi possiamo dire che, per raccogliere consensi tra la "base", non si è voluto esplicitare chiaramente e limpidamente il proprio progetto politico. E' quindi del tutto naturale che molti iscritti, che nei congressi avevano votato la mozione Vendola, oggi non abbiano nessuna intenzione di uscire dal partito.
La seconda: il progetto scissionista che prende corpo in questi giorni è profondamente debole, perché fondato sul paradosso di voler unificare la sinistra separandosi da Rifondazione Comunista che comunque resta, pur con tutti i suoi limiti, il partito più rappresentativo della sinistra stessa e spaccando tanto l'area congressuale che si era raccolta a Chianciano intorno al documento «Rifondazione per la Sinistra», quanto l'assemblea che si era convocata allo scopo di formalizzare la scissione.
La terza riflessione è forse la più semplice, perché emerge con tutta evidenza dai propositi di chi è uscito da Rifondazione. La costruzione di un nuovo partito della sinistra (a maggior ragione nella variante che lo vedrebbe scaturire direttamente dalle contraddizioni interne del Partito democratico) è funzionale alla definizione di un quadro di rapporti che vedrebbe gravitare la nuova formazione politica nell'orbita del Partito democratico e del Socialismo Europeo. Con il carico di subalternità strutturale che sarebbe facile prevedere. Ma allora perché avere investito vent'anni nella rifondazione comunista? Perché avere investito nel progetto di rifondare un partito comunista respingendo all'epoca le sirene occhettiane di un soggetto della sinistra socialdemocratica?
Anche il recente esperimento elettorale dell'Arcobaleno (che alludeva implicitamente al superamento del Prc qualora l'esperimento avesse funzionato) non fa, inoltre, che confermare il destino fallimentare di qualsiasi impresa affine: moderata sul piano politico (non a caso al fondo di quell'impresa si continua a rimuovere la ragione principale della nostra sconfitta e cioè la nostra esperienza di governo) e post-comunista sul terreno dell'identità (con l'aggravante che per giustificare tutto questo si è voluto denigrare il Prc usando argomenti talmente grossolani da rendere scarsamente credibili coloro che li hanno proposti prima ancora di quanti sono stati i destinatari di quelle critiche).
Proviamo a pensare cosa sarebbe successo se, invece che produrre sei scissioni in diciotto anni, le ragioni di dissenso che le hanno motivate si fossero ricomposte all'interno di una dialettica del Partito della Rifondazione Comunista. Sarebbe oggi più debole o più forte la sinistra nel suo complesso? Sarebbe più lontana o più vicina la prospettiva di unificare la sinistra politica e sociale del nostro Paese?
Ciò di cui abbiamo bisogno è altro. Dismettere la supponenza di chi ritiene di essere Dio in terra. Di essere il depositario della "innovazione" (i cui risultati, però, non si accetta mai di sottoporre a verifica) e in nome di ciò poter perennemente denigrare i percorsi altrui. Rifondazione Comunista - che può essere criticata per mille motivi e che negli ultimi anni ha teso ad emarginare le minoranze (chi scrive ne sa qualcosa) - ha comunque un funzionamento democratico ed è attraverso un congresso democratico che si è dotata di una linea politica che è il frutto di un dibattito e, alla fine, di una sintesi tra posizioni differenti che, appunto democraticamente, si confrontano.
È un presupposto che vale per quei compagni che ancora sono esposti nel limbo che si è creato dall'ambigua oscillazione tra intenti scissionisti e propositi di restare nel nostro partito e, ancor di più, per noi e per quei compagni che hanno scelto di investire nel Prc. La storia politica italiana degli ultimi vent'anni dimostra che non c'è unità della sinistra senza unità del suo partito più forte. Noi siamo disposti a ribadirlo proponendo a tutta la diaspora della sinistra anticapitalista e comunista di entrare o rientrare nel Prc, disponibili a costruire assieme il suo nuovo profilo e proponendo a tutte e a tutti la gestione unitaria e la direzione collegiale del Partito.
*segreteria nazionale Prc

giovedì 5 febbraio 2009

l’Unità 5.2.09
5 risposte da Stefano Rodotà
di Ludovica Jona


1 Vicenda Englaro
È un esempio di lotta per il diritto, il cui protagonista è il padre di Eluana. Peppino Englaro ha scelto di agire pubblicamente, chiedendo il rispetto della legge come è logico in uno Stato di diritto. Ha modificato l’agenda politica italiana come già aveva fatto Welby.
2 Pacchetto sicurezza
Sono in discussione in Parlamento norme che negano agli stranieri irregolari il diritto alle cure mediche e al matrimonio, violando principi fondamentali della Costituzione italiana. Se approvate, spero che laCorte Costituzionale intervenga per modificarle.
3 Reato di clandestinità
Oltre a costituire un’involuzione del diritto italiano, è un reato inutile in quanto le finalità che si prefigge sono già perseguibili con altre norme.
4 Giustizia diseguale
Con il pacchetto sicurezza si afferma un doppio standard nel giudicare i comportamenti, una gerarchia di reati distinti per tipo d’autore.
5 Obama
Il nuovo presidente Usa non si è trincerato dietro la drammatica crisi economica, come invece fanno quasi tutti i politici italiani. Dall’ambiente a Guantanamo, ha ribaltato la concezione secondo cui i diritti non sono un lusso.

Repubblica 5.2.09
Il dovere del medico davanti al paziente
di Ignazio Marino


Eluana è entrata nei pensieri di tutti noi, si è insinuata nelle nostre coscienze, ha scosso le nostre anime e ci ha posto di fronte a interrogativi che non hanno risposte definitive. Ricoprendo in questo momento un doppio ruolo, di uomo politico e di medico, non nascondo che è proprio la mia professione di chirurgo che mi porta a riflettere maggiormente.
È compito del medico assistere una persona che chiede aiuto, qualunque sia il suo problema di salute. Il medico non può abbandonare un paziente, nemmeno nel caso in cui non vi sia più la possibilità di guarigione.
Il dovere dell´assistenza vale sempre, nella gioia, impagabile, della guarigione e nel dramma delle situazioni che non hanno speranza. È scritto nel cuore di ogni buon medico ed è esattamente con questo spirito che, un giorno dopo l´altro, la maggior parte degli uomini e delle donne che hanno scelto questo particolare mestiere affrontano le loro giornate, in ospedale o in qualunque altra struttura sanitaria dove mettono le proprie conoscenze e capacità al servizio di chi soffre. Non è un lavoro facile, ma ogni medico sa che è questo il suo dovere e che non si può scegliere di curare solo chi guarirà, non si possono fare distinzioni, non è lecito tirarsi indietro quando le cose si complicano. A volte si ha la consapevolezza di correre dei rischi, e i medici hanno paura come tutti, perché sono esseri umani, e non eroi o martiri. Negli anni �80 quando l´Aids dilagava e sembrava non esistesse terapia, molti medici erano a disagio, avevano paura di infettarsi, di ammalarsi anche loro, eppure con mille difficoltà, e qualche defezione, i pazienti non furono abbandonati.
Oggi in medicina le conoscenze tecniche e tecnologiche rappresentano una componente importante del lavoro: l´aggiornamento non finisce mai e con esso l´apprendimento di terapie sempre nuove. Ma quando si passa dallo studio degli esami e delle carte al rapporto con la persona ammalata, entrano in campo i sentimenti, le emozioni, il rapporto di empatia con un altro essere umano che vive un momento di paura e di difficoltà. Non può essere un caso che in tutti i paesi del mondo via sia un´abbondanza di medici che scelgono di specializzarsi in pediatria, per occuparsi della vita che cresce, mentre sono pochi coloro che scelgono di lavorare in una rianimazione, dove spesso la vita sfugge. Per certe specialità bisogna essere attrezzati anche psicologicamente. Servono nervi saldi, tenere a bada i sentimenti di onnipotenza e avere sempre in mente che si è al servizio di qualcuno.
Ricordo un episodio che segnò la mia vita professionale e che avvenne tanti anni fa negli Stati Uniti. Un paziente arrivò in ospedale per essere sottoposto ad un trapianto di fegato, prima di entrare in sala operatoria mi fece avere il testamento biologico che aveva preparato tempo prima e mi disse come voleva essere assistito nel caso in cui le cose non fossero andate nel verso giusto. In particolare, sottolineò che non voleva essere sottoposto alla dialisi e alla nutrizione artificiale se fosse rimasto in coma e mi fece promettere che lo avrei assistito solo con le terapie per il dolore. Entrai in sala operatoria lasciando fuori questi pensieri, il trapianto doveva servire a salvare quel paziente e tutto sarebbe andato bene. L´intervento infatti andò bene, ma purtroppo il paziente non si risvegliò subito, come talvolta può accadere in questa chirurgia. Avevo una ragionevole speranza che nonostante tutto ce l´avrebbe fatta, avevo l´esperienza per immaginare che con il tempo sarebbe migliorato. Ma mi ricordai delle sue volontà, avevo stretto un patto con quell´uomo e lo aveva stretto anche il suo unico fratello, che si sentiva altrettanto vincolato. In balia di sentimenti contrastanti e difficili da dominare chiesi aiuto al comitato etico dell´ospedale che non ebbe dubbi: la volontà del malato andava rispettata e io non potevo farci nulla, non potevo cambiare quelle volontà, il mio dovere era di accompagnare il paziente nella direzione da lui indicata. Ci vollero alcuni giorni perché io mi arrendessi, tentai di posticipare quella decisione che non volevo prendere, sperai che il paziente si risvegliasse come io desideravo. Ma non accadde nulla e, alla fine, dovetti arrendermi e lo accompagnai nel miglior modo possibile negli ultimi giorni.
Chi si assume l´arduo compito di assistere malati che, come Eluana, non hanno più una ragionevole speranza di recupero e non possono esprimere direttamente le proprie volontà, di fronte a interrogativi e dubbi quotidiani, immagino facciano prevalere il senso della missione: studiare, informarsi, valutare ogni possibile soluzione, consigliare e poi ascoltare, dialogare, capire e non imporre mai nulla. È proprio questo il difficilissimo esercizio di equilibrio che il medico è chiamato a fare: agire secondo scienza e secondo la propria coscienza ma senza mai trascurare le convinzioni di chi gli sta di fronte e la sua visione della vita, che non sempre corrisponde alla nostra.
Nella maggior parte dei casi, fortunatamente, si crea tra i medici ed i pazienti o con i loro familiari, una comunione di intenti, ci si capisce, si converge insieme sulla soluzione migliore per il bene dell´ammalato. Se non fosse così, se non si stabilisse un sincero sentimento di rispetto e di alleanza reciproca, una forma che non esito a definire di amore verso un essere umano indifeso e da difendere, non vi sarebbe più la medicina, resterebbe solo la tecnica.
L´autore è parlamentare del Pd e presidente della Commissione parlamentare d´inchiesta sul Servizio Sanitario Nazionale

l’Unità 5.2.09
I ragazzi dell’onda nascosta
di Marco Rossi Doria


Nel mezzo dell'autunno italiano, mentre un'onda di ragazzi riempiva le strade a difesa di istruzione e formazione pubblica, altre migliaia di ragazzi continuavano a lavorare nei bar e nelle officine; servivano a tavola, fabbricavano pantaloni, camicie e borse in piccole manifatture nascoste nei vicoli o in periferia. Per sei o settecento euro al mese. O decidevano di prendere il treno come avevano fatto i loro nonni per entrare in una fabbrica lontana, tornando ogni sera in un appartamento diviso con gli amici del quartiere con cui si erano dati reciproco coraggio per partire. Diciassette, diciannove, ventuno anni. Pochi parlano di questa onda silenziosa, fatta da ragazzi e ragazze di un'altra Italia.
Nel mezzo dello stesso autunno, una sera veniva fatto fuoco su quattro ragazzini davanti a una sala giochi, a cinque chilometri dal centro della terza città italiana, probabilmente da parte di altri ragazzi, legati alla malavita organizzata. E qualcuno per un giorno si è chiesto come mai. Ma né i giornali né le tv si sono interrogati più di tanto sulle persone dell'età dei ragazzi dell'onda o più piccoli che sono parte di tribù adolescenziali e giovanili senza rete e fuori controllo e troppe volte già in balia dei miti e dei comportamenti ispirati al crimine organizzato. Fatti di modelli e riti che tanto più attraggono quanto più forniscono una sponda identitaria, un'appartenenza.
C'è un mare fatto da centinaia di migliaia di ragazzi italiani che hanno lasciato presto la scuola o l'hanno fatta male o comunque sono andati presto a lavorare. Spesso in regime di precarietà, di bassi salari, con mansioni a basso contenuto di sapere e di apprendimento e con quasi nessuna prospettiva di futura formazione. Al Nord come al Sud, questi nostri giovani concittadini producono ricchezza. Senza avere in cambio alcuna reale prospettiva di «sviluppo umano» che ogni paese civile dovrebbe dare ai suoi figli nati meno fortunati. Ve ne sono, inoltre, alcune migliaia che ogni giorno vivono nella immediata vicinanza di mercati illeciti o criminali, in prossimità di armi da fuoco e di alcool. E di sostanze che generano comportamenti incontrollabili e danni duraturi, ottenibili a costi irrisori.
Di chi sono figli questi nostri giovani concittadini con poca scuola? Sono quasi tutti figli di famiglie che vivono sotto la soglia di povertà. E non sono pochi. Secondo l'Istat i minori poveri in Italia sono 1 milione e 809 mila, il 17% del totale; ma di questi, 1 milione e 245 mila risiede nel Mezzogiorno. E' il 70 percento del totale dei bambini e ragazzi poveri italiani, uno su tre dei minori meridionali, concentrati nelle grandi aree urbane.
La nostra scuola o non li conquista o comunque non riesce a favorire la loro emancipazione dall'esclusione precoce. Proprio no. E' fatta per gli altri. Nonostante i molti sforzi di tanti di noi. E la scuola pubblica, per essere tale, non può essere più difesa così com'è. Deve cambiare. Sono i fatti ad esigerlo. Il «Social situation report 2007» della Unione Europea ce lo conferma: la nostra scuola rimane di classe. Più che altrove. I figli di chi ha fatto l'università e ha un lavoro sicuro hanno sempre più possibilità di completare bene l'intero corso degli studi. Tale possibilità va moltiplicata per 2,1 per la Germania, per 2,4 per il Regno Unito, per 2,8 per l'Olanda, per 3,3 per Spagna e Francia, per 3,6 per la media dei 25 paesi dell'Unione Europea. Ma in Italia la possibilità del figlio di chi ha studiato e ha un buon lavoro di finire bene scuola e università è di ben 7,7 volte quella del figlio di chi ha in tasca la terza media! E l'istruzione ancora serve a vivere meglio. E' il primo fattore a determinare buon lavoro e guadagno. E' il primo antidoto alle dipendenze, alle malattie mal curate, alla violenza recata e subita, alle povertà.
L’Italia subito dopo la vittoria della Repubblica, mostrò di esistere anche perché la sua parte migliore, di ogni colore politico, del Nord e del Sud, riconobbe nel libro di Carlo Levi - «Cristo si è fermato ad Eboli» - che vi era una parte d'Italia chiusa nella miseria, esclusa dalle possibilità, che doveva ricevere risposte. Oggi le risposte le si devono ai bambini e ai ragazzi figli di poveri. E del Mezzogiorno in particolare. Ci vuole una grande politica. Che metta insieme le esperienze migliori di scuola, volontariato, banche, imprese. Che ripristini, certo, la forza della legge. Che deve tornare a difendere i diritti e a presidiare i limiti e a essere visibile ai ragazzi di tanti quartieri pieni di rischi. Ma che offra anche scuola innovata, vera formazione. E lavoro dove si produce, si guadagna e si impara anche.
Dov'è questa politica?

l’Unità 5.2.09
Il Vaticano corre ai ripari: «Williamson ritratti la negazione della Shoah»
di Roberto Monteforte


Il negazionista Williamson ritratti le sue affermazioni sulla Shoah e la Fraternità san Pio X accetti per intero il Concilio Vaticano II. In una nota della Segreteria di Stato le condizioni per «sanare» la frattura con Roma.
«Il vescovo Williamson deve in modo inequivocabile ritrattare le sue dichiarazioni sulla Shoah». È questa una delle condizioni poste dalla Santa Sede per una riammissione nella Chiesa di Roma del vescovo negazionista lefebvriano cui Benedetto XVI ha revocato la scomunica. Non l’unica. L’altra, che riguarda tutti e quattro i vescovi della Fraternità san Pio X, è la piena e completa accettazione del Concilio Vaticano II e del magistero dei pontefici che si sono succeduti alla guida della Chiesa cattolica, dal concilio sino ad oggi.
I paletti ai lefebvriani
Incalzata dal montare delle proteste esterne, durissima quella del mondo ebraico, sino a quella «formale» del cancelliere tedesco Angela Merkel e dalle critiche interne alla stessa Chiesa, la segreteria di Stato ha deciso di prendere posizione. L’intenzione è di chiarire e mettere alcuni punti fermi sulla vicenda. Se ne riscostruiscono i passaggi: la remissione della scomunica da parte di Benedetto XVI, un atto di misericordia che veniva incontro alle «reiterate richieste da parte del Superiore Generale della Fraternità San Pio X». L’intenzione del Papa di «togliere un impedimento che pregiudicava l’apertura di una porta al dialogo» per raggiungere l’unità dei cristiani. Si chiarisce che ora ci si attende «uguale disponibilità» da parte dei quattro vescovi lefebvriani. Quindi «la totale adesione alla dottrina e alla disciplina della Chiesa». È la condizione per la riammissione nella Chiesa di Roma, perché, lo si chiarisce, al momento anche se «liberati» da una «pena canonica gravissima», la loro situazione giuridica non è cambiata, come non lo è quella della Fraternità San Pio X. Non vi è stato alcun riconoscimento canonico da parte della Chiesa Cattolica e ai quattro vescovi «non è riconosciuta una funzione canonica nella Chiesa» e «non esercitano lecitamente un ministero in essa». Per arrivare al pieno riconoscimento, si puntualizza, «è condizione indispensabile il pieno riconoscimento del Concilio Vaticano II e del magistero dei papi Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo I, Giovanni Paolo II e dello stesso Benedetto XVI». Il Vaticano, quindi, conferma la disponibilità del Vaticano ad approfondire «nei modi giudicati opportuni» le questioni ancora aperte. Ma sulla Shoah e il negazionismo di Williamson il giudizio è secco. Le sue posizioni sono definite «assolutamente inaccettabili e fermamente rifiutate dal Santo Padre». Al vescovo viene chiesta una formale «ritrattazione». E si assicura che Ratzinger, al momento della remissione della scomunica, non conosceva tali posizioni. Un modo per riconoscere che qualcosa in curia non ha funzionato. Oggettivamente è stata inadeguata l’istruttoria per un provvedimento di questa portata. Sono le critiche mosse nei giorni scorsi da molti ambienti cattolici, da intere conferenze episcopali ed anche dal cardinale responsabile vaticano per l’ecumenismo ed i rapporti con il mondo ebraico, cardinale Walter Kasper. Il Concilio Vaticano II non può essere messo in discussione. Posizioni negazioniste sulla Shoah non possono avere cittadinanza nella Chiesa: sono puntualizzazioni importanti quelle della Segreteria di Stato, forse tardive, che hanno rassicurato.

l’Unità 5.2.09
Il 12 febbraio cadono 200 anni dalla nascita e 150 anni dalla sua teoria
Rivoluzioni Come Galileo, il naturalista ha segnato un prima e un poi nella storia della scienza
Caro Mr. Darwin, dopo di lei non siamo più gli stessi
di Pietro Greco


Il 12 febbraio Charles Darwin «compie» 200 anni, ma le celebrazioni sono già iniziate a Milano. Seguirà Roma. Ecco perché la sua teoria è stata una vera e propria rivoluzione per il genere umano.
Buon compleanno, Mr. Darwin! Il suo, quest’anno, è un compleanno davvero speciale. Persino doppio. Cadono, infatti, 200 anni esatti dalla sua nascita, avvenuta il 12 febbraio 1809. E cadono 150 anni esatti dalla pubblicazione del suo On the Origin of Species, avvenuta il 24 novembre 1859 e che costituisce un autentico spartiacque tra due ere: prima e dopo Darwin.
In tutto il mondo si terranno celebrazioni per questo suo specialissimo compleanno. E anche in Italia non saremo da meno. È iniziato ieri, per esempio, a Milano il Darwin Day, il sesto organizzato dal Museo di Storia Naturale meneghino e che questo volta, per via del bicentenario, ha un carattere davvero speciale. Le feste e le riflessioni sull’importanza, sia strettamente scientifica sia culturale nel suo senso più ampio, si protrarranno fino a domenica, 8 febbraio.
Poi il pallino passerà a Roma, dove mercoledì 12, al Palazzo delle Esposizioni, verrà inaugurata la mostra Darwin 1809/2009, la più grande al mondo per dimensioni e ricchezza di oggetti esposti. La mostra è quella itinerante organizzata dall’American Museum of Natural History di New York, passata anche per Londra, e curata da due tra i più accreditati evoluzionisti, Niles Eldredge e Ian Tattersall. Ma in questa sua versione italiana, curata da Telmo Pievani e dalla sua équipe, ha due sezioni inedite: una dedicata all’evoluzione umana e l’altra ai rapporti che lei, Mister Darwin, ha intrattenuto con l’Italia.
Prima dell’inaugurazione della mostra, nei giorni 11 e 12, di parlerà di Lei, Mr. Darwin, anche all’Accademia dei Lincei. Sì quella che, a partire dal 1611, ebbe tra i suoi membri Galileo Galilei. E proprio quest’anno cade un’altra ricorrenza storica per la scienza che ha per protagonista quello che John Milton, poeta da Lei molto amato, ha definito l’«artista toscano». Nel 1609, infatti, Galileo puntò il cannocchiale verso il cielo e scoprì «cose mai viste prima». Anche il libro, il Sidereus Nuncius, che Galileo diede alle stampe il 12 marzo 1610, costituisce, per dirla con Ernest Cassirer, uno spartiacque tra due ere. Non capita a molti di dividere in due la storia. E per singolare coincidenza temporale, a Lei è capitato di farlo esattamente 250 anni dopo Galileo. Ma perché Lei, Charles Darwin, ha posto, come Galileo, una pietra miliare così importante da segnare un confine nella storia? I motivi sono molti. Ma, se ce lo concede, proviamo a metterne in luce alcuni.
Il primo, il più importante, sta nell’aver elaborato una teoria che costituisce ancora oggi la base con cui vengono spiegati nella maniera più economica tutti i fatti noti in biologia. La migliore metafora per illustrare la grandezza della sua opinione (come amava chiamarla Lei) ce l’ha fornita, di recente, un altro grande evoluzionista: Stephen Jay Gould. La struttura della teoria dell’evoluzione biologica così come la possiamo definire oggi è costituita da un albero con un grande tronco, tre rami principali e una miriade di fronzuti ramoscelli.
AGLI ALTRI LE FOGLIE
Ebbene Lei, Mister Darwin, di questo grande albero ha creato sia il tronco che i tre rami portanti. Tutti gli altri biologi dopo di Lei hanno aggiunto foglie, rametti e qualche innesto. Il tronco è costituito dall’evoluzione per selezione naturale del più adatto. I rami portanti sono: la «potenza», ovvero il luogo ove agisce la selezione naturale; l’«efficacia», ovvero la capacità creatività della selezione naturale; la «portata», ovvero la capacità della selezione naturale di determinare l’evoluzione biologica a grande scala. Dopo 150 anni, il tronco è più saldo che mai. Ma anche i tre grandi rami, sebbene più volte innestati negli ultimi quarant’anni, sono solidi e vitali. On the Origins of Species, dunque, rappresenta per la biologia moderna ciò che gli Elementi di Euclide rappresentano per la geometria: un libro fondativo che contiene l’essenziale di tutto ciò che si conosce in quel campo. Con una differenza, dopo Euclide abbiamo conosciuti geometrie che non sono euclidee. Dopo di Lei non abbiamo conosciuto - non ancora - biologie che non siano darwiniane.
NÉ RE NÉ BACO
Sul piano culturale più generale, la sua teoria contiene almeno tre grandi proposte a loro volta spartiacque. La prima è l’estensione del principio copernicano. Con la sua teoria eliocentrica, avvalorata dalla scoperte di Galileo, l’astronomo polacco aveva tolto la Terra dal centro dell’universo, riducendola a pianeta tra i pianeti. Con la sua teoria dell’evoluzione, Lei non solo ha tolto l’uomo dal centro del creato, riducendolo a specie tra le specie. Ma ha tolto la «necessità di Dio» dalla spiegazione del mondo naturale. Per questo, hanno detto di Lei, che in un colpo solo ha detronizzato l’uomo e Dio. Per questo è inviso ancora a molti. La seconda proposta, discende dalla prima. Grazie a Lei è finita la cesura tra uomo e natura. Tra artificiale e naturale. L’uomo non è fuori dalla natura - non è né il suo re, né il suo baco. Dopo di lei l’uomo è del tutto interno alla natura.Con lei, infine, la storia ha fatto irruzione nella spiegazione scientifica. Come diceva Mario Ageno, non c’è possibilità di spiegazione in biologia al di fuori della storia. Per quanto a molti sembrino tuttora indigeste, dopo queste sue tre proposte nulla nella percezione che l’uomo ha di sé e del mondo è come prima. Buon compleanno, Mister Darwin.

l’Unità Roma 5.2.09
Dai fascio-chic ai cinghiatori: il modello «nuova destra»
di Mariagrazia Gerina


All’ombra del «Campidoglio Alemanno» cresce una inedita forma di progetto politico-culturale. Cementato nelle urne e nei blitz di piazza

Da Casa Pound a Forza Nuova: «faccette nere» all’ombra del Campidoglio
Da una parte il cranio rasato e la stazza da wresteling di Gianluca Iannone. È il capostipite della galassia Casa Pound, che nella «Roma alemanna» alterna blitz muscolari e provocazioni «culturali», concerti a base di «cinghiamattanza» e spedizioni punitive alla sede Rai di via Teulada («passeggiata futurista», l’ha ribattezzata lui), presenza nelle curve e assalti al mondo studentesco dove il «blocco» - nato per gemmazione da Casa Pound - cerca di imporsi ora a colpi di elezioni ora con i bastoni tirati fuori a piazza Navona.
Dall’altra parte, la faccia più moderna e casual chic della destra italiana, Angelo Mellone, testa d'uovo di An, cantore di Alemanno come «Sarkozy de noantri», commentatore del Messaggero e del berlusconiano Il Giornale, politicamente diviso tra la fondazione Fare Futuro di Fini, di cui è direttore editoriale, e la Fondazione Nuova Italia di Alemanno, di cui ha diretto il Centro studi. Come dire: la destra moderna, a cui il sindaco di Roma più esplicitamente sembra rifarsi, che dallo strappo di Fiuggi in poi ha preferito definirsi in assonanza con il Sarkozy di turno piuttosto che con Mussolini, accantonando il problema delle radici fasciste. E la destra muscolare che torna a imporre simboli e richiami del Ventennio, rivisti e corretti in chiave fascio-pop: l'altra faccia del dopo-Fiuggi, che pure prospera nella Roma di Alemanno, moltiplicando blitz e spazi occupati.
Iannone e Mellone. Gemelli diversi: l’uno ostenta il tatuaggio «Me ne frego», l’altro nasconde la croce celtica sotto la camicia al pari di Alemanno. Entrambi politicamente nati dopo il piombo degli anni Settanta, divisi da Fiuggi e riuniti dal nuovo vento che soffia nella capitale. Tanto che domani saranno insieme, proprio a Casa Pound, quartier generale di Iannone, ad ascoltare niente di meno che l’ex Br Valerio Morucci, l’uomo del commando che in via Fani uccise la scorta di Moro. È l’ultima provocazione di Iannone: dare voce al terrorista rosso, che per ragioni di opportunità (rilanciate violentemente dallo stesso Alemanno) non ha potuto tenere il suo seminario a La Sapienza. E ancora di più, cercare sponda nell’ex nemico che all’indomani degli scontri di piazza Navona ha teso la mano ai militanti del blocco studentesco e a Casa Pound. Obiettivo: cercare in lui una legittimazione della galassia fascista. E mandare in soffitta l’antifascismo. Non mancherà oltre al contributo di Mellone quello di un esponente della maggioranza di Alemanno, Luca Gramazio, figlio di Mimmo, formalmente rampollo del dopo-Fiuggi, ma molto legato al mondo dell’ultradestra romana.
Le due destre - ma a guardare bene nel passato e nelle parentele di ciascuno spesso è difficile distinguere chi stia da una parte e chi dall’altra - si sono strette la mano nell'urna, consegnando la vittoria ad Alemanno. E ora proseguono i loro giri di valzer all’ombra del Nuovo Campidoglio. Con più di un rischio per la destra di governo. E vantaggi per la destra di lotta che non tarderanno ad arrivare.
Basta passare in rassegna eventi e ospiti dei luoghi occupati dalla destra per capire il grado di affinità tra la classe dirigente “alemanna” e la base “nera” della capitale. Gli intellettuali organici al partito finiano sembrano frequentare con un certo gusto i luoghi di ritrovo dei neofascisti del terzo millennio. Filippo Rossi di Fare Futuro, e Luciano Lanna, direttore responsabile del Secolo d’Italia, sono ormai habitué di Casa Pound. Fin dalla presentazione del loro Fascisti Immaginari, un’operazione firmata dall’attuale assessore alla Cultura, Umberto Croppi, allora responsabile di Vallecchi. Nostalgia delle radici? Bisogno di sentirsi a casa? Ancora più saldo è il rapporto con i consiglieri comunali saliti in Campidoglio con Alemanno grazie anche ai voti dell’estrema destra. Il luogo più coccolato è il Foro 753: Angelo Cassone, consigliere del Pdl, viene da lì. Al pari di Marco Veloccia, da dicembre consulente di Croppi. Ma ce ne è anche per gli altri. Giuliano Castellino, già Fiamma Tricolore, con i suoi militanti di Area identitaria romana, nuova costola nera del Pdl, ha rinforzato la platea del cinema Adriano dove Alemanno aveva convocato i suoi per rinverdire le radici identitarie del Pdl. E in cambio ne ha ricevuto spazi e sedi alternative allo stabile occupato di via Valadier, da restituire alla Siae.
Poi c’è il soccorso nero, sempre pronto a intervenire. Casa Pound occupa con un blitz uno stabile? Luca Gramazio e Cassone corrono a portare la loro solidarietà. Il Blocco studentesco impugna i bastoni a piazza Navona? E Cassone quasi viene alle mani con il Pd Smedile per difendere i nipotini di Iannone.
Il 2 gennaio Iannone è salito in Campidoglio, insieme a Foro 753 e al resto della galassia. Un incontro con il capo-segreteria di Alemanno, Antonio Lucarelli (anche lui un passato nell’estrema), per spiegare la linea già sposata da Gramazio e Cassone: «Niente stranieri nelle case popolari». Forza Nuova sembra esclusa dal giro. Ma Fiore ha festeggiato la vittoria di Alemanno come una «svolta». E a settembre Fn ha celebrato il suo primo Campo d’Azione dentro ai confini della capitale. In uno dei casali abbandonati che Alemanno avrebbe dovuto censire e mettere in sicurezza.

l’Unità Roma 5.2.09
Nuove strategie: domani sera l’ex Br Morucci a Casa Pound


A invitarlo poche settimane fa era stato un professore di letteratura angloamericana, Giorgio Mariani. Gasparri fu il primo a sparare a zero sull’iniziativa. E Alemanno rilanciò attaccando direttamente l’università «in mano a 300 piccoli criminali»: «Vengono invitati i terroristi rossi e al Papa è impedito di parlare».
Il leader di Casa Pound ha colto la palla al balzo per invitare l’ex terrorista rosso Valerio Morucci - killer nel commando di via Fani e postino delle lettere di Moro durante la prigionia - a parlare nei locali occupati di via Napoleone III. Spunto: la presentazione del libro «Patrie galere». Ma il dialogo tra i due è nato nei giorni degli scontri di piazza Navona su altri temi: il diritto dei fascisti di prender parte al movimento studentesco. Per l’occasione Iannone ha messo insieme un parterre di ospiti che va da Ugo Maria Tassinari, storico della «Fascisteria» contemporanea, a Giampiero Mughini, ex Lotta continua, il primo a portare in Rai, nel 1980, le storie dei neofascisti, con una puntata a tema: «Nero è bello». E chissà se tra il pubblico si manifesterà anche l’ex Terza posizione, Gabriele Adinolfi, che della galassia nera romana continua ad essere intellettuale di riferimento. E con Casa Pound ha un legame di sangue: suo figlio Carlomanno, tra i relatori della serata di domani.

Repubblica 5.2.09
Il premier: al Pci rubli sporchi di sangue. Cossutta: taccia


ROMA - Intervento durissimo di Berlusconi a Canale 5 contro la sinistra. «Non c´è mai stata una presunta superiorità della sinistra che per anni ha vissuto in Italia grazie ai rubli sporchi di sangue dell´Unione Sovietica. Oggi si è dimostrato come alcuni personaggi non sanno nemmeno dove sta di casa la moralità». L´allusione è alle inchieste che hanno coinvolto esponenti del centrosinistra, «una conferma che quando nel �94 fui mandato a casa per un´iniziativa dei giudici che hanno cambiato il risultato elettorale avevo ragione e ho ragione quando dico che i giudici devono fare i giudici perchè sono un ordine dello Stato e non un potere». Sulle accuse al vecchio Pci di aver preso soldi dall´Urss insorge Cossutta: «La moralità di quei comunisti presenti in ogni parte d´Italia a compiere il loro dovere in modo nobile e disinteressato in difesa dei lavoratori e della causa della libertà e della democrazia è ancora oggi motivo di ammirazione profonda e di acuto e generale rimpianto. Taccia chi concepisce la politica, in primo luogo, come strumento in difesa dei propri interessi personali». Oltre alla sinistra, il premier è tornato per il secondo giorno di seguito ad attaccare Soru. «La ricetta da mettere in campo - sostiene Berlusconi - è il contrario di quello che ha fatto Soru che negli ultimi cinque anni ha creato solo vincoli isolando la Sardegna. Io mi chiedo come fa questo signore a ripresentarsi ancora oggi dopo aver fallito come imprenditore, come politico e come governatore. Sono sicuro che i sardi non cadranno in questo tranello». Ma per Soru gli attacchi del premier sono come «la strategia del giocatore di poker che più perde e più rilancia, ma è possibile che la partita termini prima che la sua capacità di rilancio funzioni». Berlusconi, incalza Soru, «mi ricorda Caligola anche per le modalità con cui sceglie i suoi collaboratori. Mi fa una pena infinita perchè nemmeno a 73 anni, riesce a raggiungere quella maturità, quella serietà e quel minimo di distacco dalle cose».
(g. l.)

Repubblica 5.2.09
D'Alema: per le Europee era meglio il 3%
di Giovanna Casadio


L´ira di Bersani: non ci sono vincitori e vinti. Gli ex Ppi: via i Radicali dal Pd
Il ministro ombra chiama Veltroni: "Io lavoro per l´unità e tu dici che io e Massimo abbiamo perso"

ROMA - Code polemiche nel Pd dopo l´ok della Camera alla soglia del 4% alle europee. La linea-Veltroni ha vinto, i dissidenti hanno scelto la ritirata e si sono allineati, ma ieri Massimo D´Alema torna ad attaccare: «C´era bisogno di una riforma più radicale e più profonda» che intervenisse anche sulle circoscrizioni «perché sono così ampie da rischiare di non garantire rappresentanza a tutte le regioni» e «la soglia del 3% a me sembrava più appropriata». Non è il solo rilievo dell´ex ministro degli Esteri. Anche sul federalismo - su cui i Democratici al Senato si sono astenuti lanciando un ponte a Bossi e alla Lega - frena, a conclusione del convegno di "Italianieuropei" con Gianfranco Fini e Roberto Calderoli: «Non possiamo parlarne senza mettere in discussione l´attuale legge elettorale fortemente centralistica. Va completato con una legge elettorale di tipo tedesco». E aggiunge che il dialogo per il dialogo tra maggioranza e opposizione non è una discussione appassionante ma deve servire a dare «risposta ai complessi problemi del paese». Non critica invece il metodo usato nel gruppo parlamentare del Pd per decidere, cioè contarsi: «Un partito democratico può anche votare, comunque è un problema dei dirigenti del partito».
Ad adirarsi per i commenti che hanno accompagnato quel voto nell´assemblea piddì, è invece Pierluigi Bersani. Appena letti i giornali, di prima mattina Bersani - tra i capofila del dissenso, e indicato come lo sfidante di Veltroni alla segreteria quando sarà il momento - chiama il segretario e il vice. Sia a Veltroni che a Franceschini dice che non si gioca a vincitori e vinti e che si sarebbe aspettato ben altro atteggiamento: «Io ho avuto senso di responsabilità, non alimento le divisioni, lavoro per la ditta», e invece «avete detto che io e D´Alema abbiamo perso...». Una sfuriata. «Quando sollevo delle questioni mi chiamate complottista, se ho senso dell´unità, semplicemente ho perso...». A cercare di calmare le acque arriva il comunicato stampa del partito: «È stato nel gruppo un dibattito serio, non ci sono né vincitori né vinti». E Veltroni, nella riunione del governo-ombra, si sfoga: «Basta, non facciamoci prendere dallo spleen della sinistra».
Nel Pd si apre anche il fronte Radicali. Questa volta sono gli ex Ppi a chiedere di cacciare fuori i Radicali dal gruppo parlamentare. Antonello Giacomelli, capo della segreteria politica di Franceschini, fa partire una raccolta di firme tra i deputati: «Con le dichiarazioni in aula di Rita Bernardini, che ci ha accusato di essere "ladri di democrazia e moralità pubblica, di denaro e di roba", di volere "il regime", si è chiuso il percorso con i Radicali che non doveva mai iniziare. Sono incompatibili con il Pd, la rottura è irrimediabile». Quindi, neppure a parlarne di metterli nelle liste democratiche per le europee. Di rimando, Roberto Giachetti, ne prende le difese: «Sì alla candidatura di Pannella. Se siamo divisi, il partito voti». Il capitolo candidature per le europee è aperto. Veltroni ha incontrato il leader dei socialisti, Riccardo Nencini, che però pensa a liste con Verdi e Radicali. Discussione breve durante il governo-ombra sui malumori del partito, da archiviare come «ginnastica interna», per Beatrice Magnolfi. Due trasferte in vista per il governo-ombra (a Monza e a Melfi) e novità sulla conferenza programmatica.

Repubblica 5.2.09
Il giudice alla Asl: dare la pillola del giorno dopo
Boom di richieste dalle adolescenti, i medici genovesi si rivolgono alla magistratura
di Marco Preve


I magistrati: ma occorre valutare i casi che possono nascondere disagi sociali o familiari

GENOVA - Un numero sempre maggiore di adolescenti, anche ragazzine di tredici anni, si presenta in ospedale per chiedere la pillola del giorno dopo. Che fare? Si chiedono i medici genovesi assillati non tanto da dubbi di natura religiosa, quanto piuttosto riguardanti la sfera etico-legale. Così, in assenza di leggi chiare, chiedono lumi alla magistratura. E i giudici rispondono: la pillola deve essere prescritta. Ma si aprono ad un confronto perché, ammettono, è un fenomeno che può nascondere disagio sociale e famigliare.
«Richiesta di parere in merito alla liceità della prescrizione di Norlevo, pillola del giorno dopo a minorenni in assenza dei genitori o di chi ne detiene la patria potestà». Comincia così la lettera del 21 gennaio con cui la responsabile del Presidio ospedaliero metropolitano Bruna Rebagliati si rivolge al presidente del Tribunale dei Minori Adriano Sansa e al Giudice Tutelare della sezione famiglia Francesco Mazza Galanti.
I vertici della Asl3 si sono mossi a seguito delle sempre più frequenti richieste di chiarimenti da parte dei medici dei pronto soccorso e dei reparti di ginecologia e ostetricia. «La minore età, nella prescrizione dei contraccettivi pone il medico di fronte a dubbi e resistenze» scrive Rebagliati. Gli interrogativi sono di natura medico legale e deontologica, «non esistendo nella legislazione italiana una norma specifica che disciplini la contraccezione nella minore età». I punti centrali riguardano la liceità della prescrizione in assenza o all´insaputa dei genitori e l´esistenza di un´età minima per la contraccezione. Negli ultimi mesi, diversi medici genovesi hanno sollevato obiezioni di opportunità legale di fronte all´aumento vertiginoso di adolescenti a caccia della pillola.
Nell´aprile scorso, anche a seguito di polemiche per il rifiuto di alcuni medici, obiettori per motivi religiosi, di prescrivere la pillola a donne maggiorenni, la Regione Liguria aveva dato precise disposizioni per far sì che il diritto previsto dalla legge fosse davvero garantito. Il Norlevo è infatti considerato un farmaco di contraccezione e non abortivo. E´ addirittura definita «uno strumento di prevenzione dell´aborto» e deve essere assunta «nelle 12 ore e non oltre le 72 successive, ponendo di fatto ristretti limiti di tempo per la prescrizione» ricordano i medici. L´Asl 3 sottolinea però un vuoto normativo visto che la disposizione regionale «non si esprime sull´età dell´utente». E quindi chiede un´indicazione univoca a fronte di «interpretazioni medico legali difformi» derivanti da disposizioni e norme di varia provenienza.
La magistratura, pur ribadendo che per la pillola del giorno dopo non può valere l´obiezione di coscienza, riconosce la particolarità del problema e si è detta disponibile ad essere interpellata nei casi dubbi. Inoltre, i giudici stanno verificando con le strutture sanitarie e i servizi sociali la possibilità di intervenire, pur nel rispetto della riservatezza della persona, quando dietro la richiesta della pillola esista il sospetto di un disagio della minore o della totale assenza di controllo famigliare.

Repubblica 5.2.09
Negazione
di Stefano Bartezzaghi


In ogni gruppo di ragazzini ce n´è sempre uno che proprio non sa giocare a pallone. Al culmine della disistima per quest´ultimo lo si chiama "negato". Sei la negazione del gioco del calcio! In effetti, con la sua esistenza, nega una verità universale, e cioè che i ragazzini, specialmente i maschi, siano inclini a tirare calci a una palla e imparano quasi naturalmente a farlo.
La carriera che porta da negato a negativo e quindi a negazionista è però tutt´altro che lineare, ed è felice il lapsus che ha portato un telegiornale a parlare della «affermazione negazionista del sacerdote lefevbriano». Il negazionismo, infatti, non nega affatto: afferma, e ci costringe a pensare che lo studio della storia, l´accettazione di prove sempre ri-verificabili, la consapevolezza che deriva non da un´emozione o da un´idea fissa ma dall´elaborazione personale dei testi non porta a una semplice credenza, ma a schiette certezze. Certezze innegabili, appunto, se non per ideologia malintenzionata. Chi nega la Shoah, abroga la storia a favore di un mito. Del suo modo di ragionare, non a caso, si è occupata una semiologa, Valentina Pisanty, che aveva già proficuamente studiato il linguaggio delle fiabe.

Repubblica 5.2.09
Egitto. Viaggio tra i tesori nascosti dal mare
Da sabato a Torino nella reggia di Venaria cinquecento reperti tra oggetti, sculture, monete e gioielli provenienti da Alessandria e dal tempio di Canopo
La stupenda statua lucida e nera di una regina nuda sotto un velo bagnato


TORINO. Una reggia barocca ospita testimonianze provenienti da una città regale ellenistica nella mostra Egitto. Tesori sommersi, che s´inaugura sabato. Cinquecento reperti, rivelati da una campagna archeologica subacquea effettuata al largo delle coste di Alessandria, arrivano a Venaria dopo un trionfale giro d´Europa. Si tratta di un enorme campionario di opere d´arte, oggetti di uso quotidiano, sculture, monete, anfore e gioielli che offrono un quadro delle varie civiltà che si sono susseguite su un tratto di costa relativamente breve, ma che ha subito rivolgimenti straordinari.
Lì, tra paludi e laghi salmastri, ben prima che Alessandro fondasse la sua capitale egiziana, sorgevano gli avamposti del regno dei Faraoni, le città doganali dove i mercanti cretesi e micenei gestivano i loro empori. Lì il Nilo si divideva in molteplici rami e, anno dopo anno, le piene primaverili modificavano l´incerta linea costiera. Alessandro non vide mai finita la città che aveva disegnato sulla sabbia usando, secondo la leggenda, manciate di farina. Ma dopo la sua morte fu sepolto lì, alla foce del grande fiume, in un tomba di alabastro.
Alessandria è stata la capitale dei Tolomei, gli ultimi faraoni: Greci che si erano calati con entusiasmo nella millenaria cultura egizia. Per secoli fu la più grande metropoli del Mediterraneo. Era una città pianificata grandiosamente, con strade porticate larghe trenta metri e lunghe chilometri e un intero quartiere occupato dallo sterminato palazzo reale. C´erano strutture per la diffusione e la raccolta dell´arte e della cultura: il Museo, la Biblioteca, primi nella storia, un porto per le gigantesche navi cerimoniali dei re, giardini decorati con opere d´arte e giochi d´acqua attivati da meccanismi ingegnosi. Infine, collegato alla terra ferma da un ponte-strada lungo sette stadi, quasi un chilometro e mezzo, la meraviglia più grande: il Faro. Una gigantesca torre che segnalava l´ingresso dei vari porti della città.
La fama di Alessandria era legata ad un vicino sobborgo: un villaggio le cui origini leggendarie riconducevano ai miti omerici. Si narrava che qui fosse morto Canopo, il nocchiero di Ulisse. E Canopo era il nome della cittadina che era nota per l´offerta di divertimenti lussuriosi e di sfrenati godimenti nell´intero mondo mediterraneo. Questo luogo particolare è spesso raffigurato nei cosiddetti "mosaici del Nilo": un mondo fluido abitato da ippopotami, coccodrilli e uccelli acquatici, dove galleggiano zattere ornate di fiori e cariche di musici e ballerine che allietano gli spettatori che banchettano sulle rive. Tanto era famosa Canopo che Adriano, l´imperatore architetto, volle costruire nella villa di Tivoli un triclinio estivo che chiamò con quel nome.
Ma a lungo di questa sentina di ogni vizio si sono perse le tracce. Nel corso dei secoli invasioni, incendi e maremoti l´hanno cancellata, hanno modificato la costa e deviato un braccio del grande fiume. Dove i contemporanei di Cleopatra e di Adriano s´erano abbandonati a danze lascive e a banchetti sfrenati, dapprima arrivarono i cristiani. Nel tentativo di purificare un luogo cosi terribile, lo dedicarono ad un santo eremita. Poi ai monaci e ai pellegrini fecero seguito i conquistatori islamici. Infine un cataclisma naturale fece sprofondare Canopo nel mare senza lasciare traccia.
Solo grazie alle prospezioni fatte negli ultimi anni, in mezzo alla baia di Abukir sono stati trovati i resti dell´antica capitale del peccato. E dal tempio di Canopo proviene, insieme ad oggetti, offerte ed ex voto legati a molte diverse credenze, la stupenda statua lucida e nera di una regina, che conclude trionfalmente il percorso della mostra. Altera, acefala e praticamente nuda sotto un velo bagnato che ne accentua piuttosto che nasconderne le forme, non ha nome, potrebbe essere una qualsiasi delle tante Cleopatre, Berenici o Arsinoe che divisero incestuosamente trono e potere con i propri fratelli. Ma la sensualità del soggetto e la morbidezza delle sue grazie richiamano irresistibilmente la storia della più terribile delle regine egizie. Una certa Arsinoe II, bellissima, crudele, avida e sensuale, che fu divinizzata ed equiparata ad Afrodite, dea dell´amore e protettrice dei naviganti. Binomio perfetto per una città dedicata al sesso e al commercio.

Repubblica 5.2.09
"Religiolus film amorale" crociata degli ultracattolici
A Roma oscurati i manifesti della pellicola, che esce il 13. Il regista: "Tutta pubblicità"
di Silvia Bizio


Censura cattolica scatenata sui manifesti del film Religiolus di Larry Charles, il regista di Borat. Strisce nere adesive li hanno coperti con le scritte "Ateo no" e "Vergogna". La Eagle Pictures che distribuirà il film il 13 febbraio denuncia come responsabili gli appartenenti all´associazione cattolica VeraLibertà: «Sulle pagine del loro blog chiedono anche l´abolizione della campagna promozionale e pretendono da generiche autorità competenti di vigilare sui contenuti del film. Lo accusano anche» aggiunge la Eagle «di veicolare messaggi empi e amorali». La campagna pubblicitaria rappresenta tre scimmiette che ironicamente simboleggiano le tre maggiori fedi monoteiste.
Risponde pronto, dagli Stati Uniti, il regista Larry Charles: «Ringrazio i dilettanti dell´Inquisizione per il loro aiuto nel promuovere Religiolus». Ma se è ironico il messaggio del regista, più duro è il segretario dell´Uaar, l´associazione degli atei, Raffaele Carcano. «Non conosco VeraLibertà ma queste associazioni spuntano come funghi e diventano sempre più invasive. È una gravissima violazione della libertà di espressione. Sembra normale che non si debba parlare di ateismo, non si deve fare concorrenza alla religione cattolica. La Chiesa in pesante crisi di consensi» continua Carcano «si chiude in se stessa, diventa intollerante. Questo papato ha messo una pietra tombale sul Concilio, è tornata indietro di 50 anni».
Interviene nella polemica in tono leggero anche il protagonista di Religiolus, Bill Maher. «C´è un sacco di gente che mi ringrazia per quello che dico» commenta «ma i cattolici in genere mi trattano come un ragazzino cretino. Però basterebbe che gli agnostici si organizzassero, come fanno i religiosi, per scoprirsi in lieta compagnia». Quello che in Italia hanno fatto gli aderenti all´Uaar. «Questa faccenda dei manifesti» commenta Carcano «è la continuazione di quanto è successo a noi con la campagna sugli autobus dove le concessionarie alla pubblicità hanno censurato lo slogan "La cattiva notizia è che Dio non c´è, quella buona è che non ne hai bisogno". Don Livio Fanzaga dalla seguitissima Radio Maria affermava che quelli sarebbero diventati gli autobus del demonio. La situazione peggiora» prevede Carcano «gruppi di persone hanno tentato di bloccare, alla clinica di Lecco, l´ambulanza che doveva portare Eluana Englaro a Udine. Fino a oggi questo era patrimonio dei fondamentalisti americani che assaltavano le cliniche dove si praticava l´aborto. Ora queste cose succedono anche da noi».

l’Unità Roma 5.2.09
Accademia di Spagna. Da domani la retrospettiva sul periodo della «formazione» dell’artista
Paesaggi romani. Il soggiorno nella Capitale tra ’47 e ’48 ispirò diverse delle sue creazioni
Guerrero, l’astrazione a caldo tra Picasso e Paul Klee
di Flavia Matitti


«Los años primeros» fino al 24 marzo nelle sale espositive della Real Academia de España. Oltre cinquanta opere tra dipinti e disegni che ripercorrono i 25 anni di carriera di un astrattista tra i più audaci.
«Ho conosciuto due mesi fa il pittore José Guerrero di Granata in una trattoria romana e, durante la cena, si accese tra lui ed altri amici spagnoli una vivacissima discussione pittorica. Neanche a dirlo, la discussione s’infiammò quando venne fatto il nome di Pablo Picasso. Non sto a dire in quali termini di vilipendio sempre maggiore veniva definita quella pittura a mano a mano che la discussione si svolgeva, e, divenuta generale, investiva il prode José che teneva peraltro testa a tutti valorosamente». Così il critico Benso Becca, nel presentare la personale di José Guerrero allestita nel marzo 1948 alla Galleria del Secolo, ricorda il suo primo incontro col pittore, che tra il 1947 e il 1948 è a Roma ospite dell’Accademia di Spagna. Un soggiorno ricco di incontri e di riconoscimenti, come dimostra l’invito a esporre al Secolo, galleria in cui esponevano anche altri, Mafai, Pirandello, Guttuso e Afro.
potenza popolaresca
Su questi anni di formazione si concentra la mostra «José Guerrero. Los años primeros» (fino al 24/03), aperta da domani al pubblico nelle sale espositive della Real Academia de España. Curata da Yolanda Romero e Francisco Baena, rispettivamente direttrice e coordinatore del Centro Guerrero di Granada, la retrospettiva riassume, tra dipinti e disegni, la produzione di circa venticinque anni di attività, a partire dal 1945, data cui risalgono i primi lavori in mostra, eseguiti ancora in Spagna, paese che Guerrero lascerà nel 1947 per recarsi prima in Svizzera e poi a Roma. «Questa mostra – spiegano i curatori – ha un significato particolare perché per la prima volta alcuni quadri, come la grande ‘Veduta di Roma’ del 1948, tornano nel luogo in cui furono dipinti». Il quadro è tra quelli che Guerrero espose al Secolo, riscuotendo giudizi assai favorevoli. La sua pittura, infatti, nutrita di Matisse e di Klee, oltre che di Picasso, colpì il pubblico romano per la veemenza quasi popolaresca delle immagini, per l’accensione fauves dei colori, i toni caldi. Un critico osservò perfino che Guerrero era «il più audace dei pittori astratti»: una definizione profetica. Dopo questa sezione, infatti, le successive illustrano le tappe del cammino di Guerrero verso l’astrazione, prima attraverso forme biomorfe, poi passando a un’astrazione esplosiva, che appare placarsi però alla fine degli anni Sessanta, periodo con cui si conclude l’itinerario espositivo, ma non la carriera dell’artista, molto attivo nei due decenni successivi tra Spagna e Usa.