domenica 8 febbraio 2009

Liberazione 8.2.09
Battere l'offensiva clerico-fascista
di Paolo Ferrero


Ieri è stata una grande giornata di mobilitazione contro il governo Berlusconi e l'offensiva clerico fascista che il presidente del consiglio ha aperto. Berlusconi non è rimasto con le mani in mano e ha puntato dritto all'obiettivo dicendo a proposito della Costituzione quello che lui considera l'insulto peggiore e cioè che è sovietica.
Berlusconi ha cioè deciso una offensiva in grande stile, in cui il destino della povera Eluana è evidentemente un puro pretesto. L'obiettivo di Berlusconi è lo sfondamento del quadro di regole in cui vive il nostro paese; questo al fine di poter modificare in modo duraturo i rapporti di forza tra le classi e determinare una uscita da destra dalla crisi. L'offensiva di questi giorni va ad aprire nuovi contenziosi in una situazione che vede già numerosi fronti aperti. Principalmente quattro.
In primo luogo, in sintonia con Confindustria, ha aperto il fronte sindacale, come nel 2002, puntando ad isolare la Cgil e a distruggere il sindacato come espressione autonoma della classe.
In secondo luogo Berlusconi ha aperto il fronte con la Magistratura cercando di metterle la mordacchia, sia sulla riforma della giustizia che sulla vicenda delle intercettazioni.
In terzo luogo il governo ha approvato un decreto sicurezza che radicalizza l'estremismo della Bossi Fini e costruisce sul piano legislativo il migrante come capro espiatorio.
Da ultimo, in sintonia con il Vaticano, ha aperto l'offensiva contro il Presidente della Repubblica, mettendo definitivamente in discussione ogni parvenza di laicità dello Stato e l'equilibrio dei poteri che ci consegna la nostra Costituzione. Nella concezione fascista che caratterizza la cultura di Berlusconi, il potere derivante dal popolo deve essere assoluto, privo di vincoli e di regole: un potere sovrano per l'appunto, come ci ha insegnato il teorico Carl Schmitt, tanto caro ai nazisti.
Il tutto avviene in un contesto di crisi economica pesantissima, destinata a durare a lungo, in cui milioni di persone vedono peggiorare la propria condizione di vita e guardano al futuro con paura.
La mia opinione è che Berlusconi abbia aperto troppi fronti e che le reazioni ad ognuno di questi si possano sommare. Taluni pensano che Berlusconi stia facendo una manovra diversiva, per nascondere i problemi della crisi economica. A me non pare. Sia perché la logica che lo guida è una linea politica compiuta, espressione aggiornata del Piano di Rinascita democratica di Licio Gelli. Sia perché mi pare possibile nella concreta situazione italiana lavorare a sommare questi fronti, facendo si che le questioni democratiche non nascondano quelle sociali e viceversa.
E' del tutto evidente che il principale vantaggio di cui gode Berlusconi è dato dall'ignavia dell'opposizione parlamentare. Il PD guidato da Veltroni ha nei confronti di Berlusconi un atteggiamento a dir poco schizofrenico: oggi dice che è un fascista ma ieri ci si è accordato per riscrivere le regole del Paese, dalla legge elettorale contro la sinistra alla riscrittura dei regolamenti parlamentari per permettere al governo di operare in modo più spedito. Come se non bastasse, sui contenuti sociali, il PD chiama alla mobilitazione contro il governo ma parallelamente lascia completamente isolata la Cgil, una cosa che non era mai accaduta nell'Italia repubblicana. Da parte sua, Di Pietro agisce il suo populismo giustizialista unicamente per lucrare sulla crisi del PD, ma non costruisce nulla a positivo. E' una forma di estremismo di centro che ci presenta un Berlusconismo rovesciato. Si può affermare con chiarezza che la principale forza di Berlusconi è data dall'inconsistenza dell'opposizione. Va anche registrato che tra le forze della sinistra ex parlamentare il grado di consapevolezza dei problemi non mi pare altissimo se è vero com'è vero che le nostre proposte di costruire un coordinamento delle opposizioni di sinistra è regolarmente caduto nel vuoto.
In questo contesto noi dobbiamo fare due cose. La prima è lavorare a massimizzare il conflitto, la denuncia, l'aggregazione su ogni singolo problema. Dalla questione sociale alla giustizia alla laicità dello stato alla democrazia. Costruire su ognuno di questi terreni il massimo di iniziativa politica, culturale, di mobilitazione, sia nazionale che sui territori. Tutti i fronti vanno agiti cercando il massimo di allargamento dei medesimi, il massimo di coinvolgimento di tutti gli interlocutori disponibili, il massimo di efficacia.
La seconda è costruire una opposizione efficace, che padroneggi i diversi fronti di lotta e proponga una alternativa complessiva, evitando ogni scorciatoia frontista che in nome della difesa della democrazia lasci indietro le altre questioni, a partire dalla questione sociale. Non può essere il PD la spina dorsale di questa opposizione. Oggi per difendere la democrazia occorre difendere i salari e per battere il razzismo occorre bloccare i licenziamenti e generalizzare gli ammortizzatori sociali.
Agire consapevolmente su due livelli evitando cortocircuiti frontisti è la vera sfida che oggi devono ingaggiare i comunisti per sconfiggere il clericalismo fascistoide di Berlusconi.

Repubblica 8.2.09
Quelle minoranze senza diritti
di Gad Lerner


«È un lungo applauso, accompagnato da uno sventolio di fazzoletti verdi, quello che accoglie il voto finale al provvedimento sulla sicurezza», riferisce la cronaca dal Senato del quotidiano La Padania.
Gli spavaldi portavoce leghisti, con quel fazzoletto-distintivo bene in vista nel taschino, lanciano attraverso i telegiornali la buona novella della padronanza recuperata sul "nostro" territorio. Basta col lassismo. Mantenuta la promessa elettorale. E´ finita la cuccagna. Ma quale cuccagna?
Troviamo la risposta sempre sul giornale padano, nel titolone sarcastico del giorno prima. "Bossi: ormai i clandestini siamo noi. Al Pronto Soccorso noi diamo le generalità, loro sono esenti". Falso, ma funziona. E´ la narrazione di una maggioranza di cittadini perbene oppressa da una minoranza straniera pretenziosa di vivere a spese nostre, esente da vincoli. La fotografia di un´Italia a rovescio, dove l´immigrato la fa da padrone e assoggetta il nativo.
Con sapienza propagandistica la Lega esibisce come innocenti i suoi emendamenti. Ma come, di ciascuno si può dire che è vigente nella legislazione di un altro Paese europeo. In effetti, cogliendo fior da fiore, la nuova normativa introduce d´un colpo tutte le regole più severe che altrove, ma non in Italia, vengono abbinate a percorsi certi e codificati di regolarizzazione. Per esempio viene resa più onerosa la tassa sul permesso di soggiorno (oggi di 72 euro) senza ovviare alle lungaggini per cui, quasi sempre, esso viene rilasciato quando ne è ormai prossima la scadenza.
Si complica la procedura con test e punteggi, si disincentivano i ricongiungimenti familiari, s´introduce il reato di clandestinità, senza fornire in cambio un trattamento "europeo", cioè dignitoso, agli aventi diritto.
Al contrario, non solo i medici ma tutti i cittadini che lo vogliano sono sollecitati a una partecipazione volontaria – con le ronde – nel setaccio territoriale degli irregolari. Poco importa se abbiano varcato la frontiera con un visto poi scaduto, o se siano vittime della nostra inadempienza burocratica: tutti clandestini. E guai ai senza fissa dimora, agli abitanti delle baraccopoli, ai minori emarginati, tutte categorie minacciose da contenere mediante pubblica schedatura.
La débacle della politica democratica, consumatasi nella resa alla paura di un´invasione criminale, ha già da tempo ridotto le scelte sull´immigrazione a false categorie primitive: noi e loro; buoni (sti) e cattivi. Giungono così tardive e inefficaci le proteste del Pd, le resipiscenze di settori moderati del Pdl; oggi travolti insieme dalla vittoriosa cavalcata leghista perché a suo tempo rinunciarono alla necessaria contrapposizione di valori civili e religiosi. Con la solita, vile motivazione confidata sottovoce: il popolo non ci capirebbe, la sicurezza è un bisogno dei più deboli.
Il progressivo cedimento culturale alla xenofobia, lo slittamento semantico verso il linguaggio della pura forza, produce ora una novità imprevista dagli stessi leader leghisti. Perché è vero che in tutti i governi, di destra e di sinistra, al ministro dell´Interno tocca sempre il ruolo del duro, del "cattivo". Ma solo nell´Italia del 2009 un ministro come Maroni si ritrova ad assumere la funzione politica di capo dei cattivi. Cioè di un movimento d´opinione che, facendo leva su diffusi istinti popolari, teorizza la disuguaglianza dei diritti come difesa della nazione. Ormai chi fa politica si ritrova mutilato perfino nel vocabolario. Davanti a una telecamera sarebbe controproducente esprimere disagio per la dimensione umana degli sbarchi a Lampedusa, l´eccidio quotidiano, la tragedia di una nuova frontiera epocale. Quelli lì non ce li possiamo permettere, punto e basta. Paghiamo la Libia purché li rinchiuda in lager lontani dalla nostra vista. I difensori della vita recano inutili pagnotte e bottiglie d´acqua al capezzale di Eluana Englaro, non tra i naufraghi africani, essendo anche la bontà ridotta a ideologia.
E´ questo formidabile capovolgimento della realtà che consente di presentare il decreto sicurezza come la fine di una inesistente cuccagna: la bieca favola di un´Italia permissiva, paese del bengodi per gli stranieri. Dunque non si illudano, gli immigrati residenti sul nostro territorio. Come insegnano perfino gli operai inglesi, nella crisi bisognerà riservare il sostegno pubblico ai nativi. E pazienza se anche "loro" pagano le tasse: sono paria destinati a un´eterna condizione provvisoria, subalterna.
Costretto dai suoi stessi, insperati successi a premere sull´acceleratore della separazione fra aventi e non aventi diritti, ben presto il ministro dei cattivi sarà chiamato a spiegare come intenda regolarsi con i circa 800 mila cittadini stranieri privi di documento regolare che risiedono sul nostro territorio. Persone che vivono nelle nostre case, lavorano al nostro servizio, vengono ospitate nelle strutture sociali, sono curate dal servizio sanitario, bambini che frequentano la scuola primaria. Nell´ottobre scorso Maroni ha reso noto un incremento del 28,1% delle espulsioni (percentuale su cui fare la tara, visto che il 2007 segnò l´ingresso di Romania e Bulgaria nell´Ue). Con ciò, la cifra è salita a 6553 espatriati. Stiamo parlando di circa 2 espulsi ogni 100 irregolari. Vogliamo ipotizzare che il ministro dei cattivi riesca a raddoppiare, triplicare tale cifra nei prossimi anni? Difficile, ma ammettiamo che sia possibile. Cosa ne faremo del restante 90% e passa di irregolari che continueranno a vivere in Italia? Tutti gli altri paesi mirano a regolarizzarli, per ovvi motivi di civiltà, convenienza economica, ordine pubblico. E noi?
Temo che queste domande resteranno a lungo senza risposta. Ma nel frattempo è facile intuire quale possa essere la percezione di quattro milioni di stranieri residenti in Italia, posti di fronte a un decreto sicurezza architettato come percorso minato, a rendere sempre più complicata la loro integrazione. Una destra sottomessa alla Lega sta facendo di tutto per farli sentire ospiti indesiderati, cittadini di serie B destinati al lavoro ma esclusi da un futuro di pari opportunità. Subiscono la beffa di chi li addita come tenutari di privilegi. Le istituzioni non sanzionano i mass media che diffondono il pregiudizio e l´ostilità nei loro confronti, anche perché spesso sono di proprietà del capo del governo. Il clima è propizio a sempre nuovi soprusi nei rapporti di lavoro, nell´erogazione di servizi, nell´affitto di case.
Ci troviamo così a un bivio. O i cittadini stranieri riusciranno a dare vita a una tutela democratica dei loro diritti - nella quasi totale latitanza di una politica timorosa di rappresentarli e coinvolgerli - oppure chineranno il capo lasciando i loro figli preda di leadership radicali e integraliste. L´Italia non ha niente da guadagnare dallo sventolio dei fazzoletti verdi sulla faccia di milioni di persone con cui è destinata a convivere. Non ci troviamo nella condizione di chi ha ottemperato ai suoi impegni e perciò attende che il contraente si adegui. Con il combustibile delle appartenenze incivili, ronda contro branco, la Lega ha già incenerito la nozione di cittadinanza universale, ma ora si appresta a bruciare l´idea che le minoranze abbiano dei diritti.

l'Unità 8.2.09
Il governo della Sharìa
di Furio Colombo


Molti italiani si sono resi conto della gravità di ciò che sta accadendo in queste ore in Italia quando hanno visto Emma Bonino al tavolo di TV7, davanti al direttore del Tg1 Riotta e accanto a Eugenia Roccella, che da scrupolosa impiegata, raccontava - per conto del suo principale Sacconi - fatti e circostanze inesistenti su Eluana Englaro, offriva dati che avrebbero indignato non solo uno scienziato ma anche un medico condotto. La vicepresidente del senato Emma Bonino, di solito fredda e rigorosa argomentatrice di fatti veri e verificati, non nascondeva una disperazione che andava molto al di là della facile, istantanea negazione del tentativo della sottosegretaria di fare apparire vivo un cadavere. La Bonino, quando ha superato tormento ed emozione ed è riuscita a parlare, ha svelato la parte più misera di ciò che sta squassando le Istituzioni con la cupa violenza di un colpo squilibrante alla più alta carica dello Stato: l'ordine Vaticano è di impedire qualsiasi legge di tipo europeo sul testamento biologico, detto, nel giro dei cardinali e di Berlusconi, "eutanasia", o "cultura della morte".
Dunque si trova d'urgenza un rimedio o con un decreto illegale - che il Presidente della Repubblica ha impedito - con una legge da fare in tre giorni che sia la pietra tombale ad ogni tentativo di testamento biologico. Qui di internazionale non c'è nulla. C'è un mondo pericoloso, in cui il rischio di distruzione della delicata struttura giuridica del Paese non ferma la convulsione che Berlusconi sta infliggendo alle Istituzioni nel suo vendicativo furore contro il presidente della Repubblica. Tutto è misero, locale. Ma immensamente pericoloso.
Nella drammatica edizione del programma "Linea notte" del Tg3, che il direttore Antonio Di Bella, la sera del 6 febbraio, ha presentato come "il momento più grave della nostra storia", due importanti notisti politici, Massimo Franco del "Corriere della Sera" e Federico Geremicca de "La Stampa, sono stati attenti a definire il comportamento di Berlusconi "legittimo" (Geremicca) e a far notare l'indebita intrusione del presidente della Repubblica (Franco). La prudenza non è mai troppa.
Intanto altri deputati Radicali avevano organizzato un sit-in con Pannella davanti a Palazzo Chigi per impedire che si perdesse il filo del grandissimo evento: una povera donna in coma usata contro il presidente della Repubblica secondo le istruzioni della Autorità religiosa, nel tentativo di imporre all'Italia un modello di sharìa vaticana.
Ma cerchiamo di mettere in prospettiva il tetro evento. Il mondo attraversa una crisi profonda, dall'esito incerto con cui si confrontano i leader e le teste pensanti del mondo.
L'Italia, come se non fosse parte della crisi del mondo, è improvvisamente stravolta da una violenta guerra intestina lanciata da un uomo che del mondo non sa e non vuole sapere e si annoia del mestiere di governare. Il presidente del Consiglio si è trincerato in un Paese piccolo piccolo stretto fra le imperiose istruzioni del Vaticano da un lato, la stanza di una povera morta dall'altro ("non vi rendete conto che è morta da diciassette anni?", ha detto il primario anestesista che l'ha accompagnata a Udine), il decreto illegale contro una sentenza che è un po' delirio ("Eluana Englaro può procreare") un po' colpo di potere politico fondato sul progetto di resuscitare Eluana per farne omaggio al Papa. E il tutto messo in movimento, nella microstanza dei bottoni di Berlusconi, da una caparbia volontà di scansare l'ostacolo legale costituito dal Capo dello Stato, per occupare tutto lo spazio, spossessare il Parlamento e affermare il diritto di governare da solo, per decreto, come Peròn e Pinochet, ma con la benedizione vaticana e la immaginetta falsa della povera morta.
Sul fondo, non dimentichiamo, ci sono le esemplari elezioni in Sardegna. Si deve a Marco Pannella la notizia della strana "par condicio" in quella campagna elettorale. Pochi secondi ogni giorno sono concessi a Soru, intere mezze ore a Berlusconi. "Fra poco chiuderanno Radio Radicale" ha detto ieri Pannella. Adesso sappiamo che un evento del genere è possibile. E non è una consolazione per chi aveva visto e denunciato il pericolo istituzionale Berlusconi da alcuni anni. Ora il pericolo non è più una denuncia azzardata. Berlusconi conferma.

l'Unità 8.2.09
«Il Berlusconi-Bonaparte può vincere perché è franato il blocco sociale della sinistra»
Intervista a Luciano Canfora di Bruno Gravagnolo


Il degrado antropologico di questa Italia è evidente. Ma discende in primo luogo - oltre che dalla crisi economica mondiale - dallo sfaldamento di quello che un tempo era il blocco sociale della sinistra. È in questa breccia che si fa strada la decadenza del paese. In una con l’offensiva di destra. Che viceversa si è dotata di un blocco forte di interessi e punta a una Nuova Repubblica, plebiscitaria e ostile alla divisione dei poteri». Analisi gramsciana sui mali del paese quella di Luciano Canfora, 67 anni, ordinario di filologia classica a Bari e studioso del mondo antico, nonché del pensiero politico. Una diagnosi allarmata, soprattutto sulla «sfida bonapartista» di Berlusconi, e poi sul «ruolo retrivo di questo papato» di cui disinvoltamente il «cavaliere laico sposa le istanze». Ma è tempo di reagire dice Canfora. Con le idee, la mobilitazione. E anche con qualcosa di irrinunciabile: l’identità. Senza di cui non ci sono né programmi né controrepliche efficaci.
Professor Canfora, Italia lacerata, pervasa da violenze di branco e in recessione. E per di più con un conflitto istituzionale acutissimo, che vede Berlusconi candidarsi platealmente a decisore populista. Che impressione le fa tutto questo?
«Una delle cose più gravi intanto è l’avvenuto spostamento a destra di gran parte del lavoro dipendente, al nord e sul versante leghista. La Lega è ormai più in grande, come Le Pen a Marsiglia. La sinistra invece è stata incapace di tenere legati a sé i ceti che formarono il suo insediamento di sempre. Di qui discendono alcune conseguenze. Come l’intolleranza verso i nuovi arrivati, che scatta nei ceti popolari “leghistizzati”, privi a questo punto di quei valori che la sinistra, con il suo radicamento e la sua pedagogia, riusciva a trasfondervi. Dunque guerra tra poveri...».
La liquefazione del blocco sociale di sinistra comporta a suo avviso un degrado antropologico?
«Degrado a catena. Anche il fascismo sorse dallo scontento e riuscì a dimostrare di essere il vero interprete degli interessi popolari e nazionali, ingannevolmente ovviamente. Un piccolo partito come la Lega, mutatis mutandis, ricorda molto certi esordi del fascismo. E d’altra parte un grande partito liberalconservatore come Forza Italia - che inizialmente ammiccava soltanto alla Lega - oggi sembra volerne incarnare interamente il ruolo, dislocandosi al contempo su un terreno nazionale e di massa più vasto, e inglobando anche An. Si badi, sono solo dei paralleli che servono a indicare delle dinamiche, non a stabilire identità. E le dinamiche sono queste, a fronte di uno sfilacciamento della sinistra».
Anche sulle questioni di coscienza Berlusconi si propone ormai come capo carismatico e pontefice secolare...
«Una volta nel 2001 dissi a Radio 2 che Berlusconi era un “bolscevico della borghesia”. La giornalista che mi intervistava ebbe delle grandi difficoltà, e anch’io non potei parlare in radio per molto tempo. Credo che oggi si abbia la riconferma di quel che dicevo allora. Il premier si è avventato sul caso Englaro cavalcando il pretesto giusto. Per aggredire Napolitano custode della Costituzione e della divisione dei poteri, a cui vuole infliggere un colpo mortale. E il tutto dopo aver simulato a lungo laicità e agnosticismo».
Ma può resistere il patto civico costituzionale sotto i colpi della sfida carismatica, oppure andrà in frantumi?
«Il rischio di cedimento c’è eccome, specie nel quadro delle tante emergenze italiche, che possono indurre ad affidarsi al decisore. Il punto è che non si riesce a intravedere una ripartenza di “sinistra”, nel senso più ampio del termine. Una ripresa egemonica in senso effettivo, ovvero la capacità di persuadere e farsi credere. Ma su tutti i temi all’ordine del giorno. Una cosa difficile, poiché l’attuale mélange “liberal-fascistico” che abbiamo di fronte è proteso a mostrarsi di destra e di sinistra, contemporaneamente. E come da manuale. Oggi come ieri, e fatte le debite differenza, lo straniero in quanto portatore di globalizzazione impoverente, diventa il nemico. L’agente consapevole o inconsapevole del capitalismo cosmopolita (ieri erano gli ebrei). E all’interno di quel “socialismo degli idioti” che August Bebel in Germania attribuiva ai reazionari populisti del suo tempo. Del resto la guerra tra poveri in Inghilterra - inglesi contro italiani - la dice lunga su questo fenomeno: guerra dentro una stessa classe».
Italia come anello debole della globalizzazione e banco di prova per una nuova democrazia autoritaria in Europa?
«Questo mi pare troppo presto per dirlo, perché il nostro paese per fortuna ha ancora molti anticorpi. La Costituzione repubblicana innanzitutto, con la sua partizione e ramificazione di poteri. E poi l’eredità popolare del movimento operaio e del Pci, o almeno quel che ne resta. Difficile per ora spazzarle via avventandosi sul caso Englaro. Ma il rischio c’è eccome».
È in grado la sinistra, o ciò che ne rimane, di fare anima e legame sociale sul territorio, di «fare comunità» contro questo rischio?
«Non ha ancora dimostrato di esserne capace. Certo il modello “maggioritario” di partito trasversale e leggero adottato, è tutto in perdita a riguardo. Invece di cercare un radicamento capillare sul territorio, per raggiungere la vita e l’esistenza degli individui, si preferisce una maniera aerea e svincolata dalla realtà. Al più in questo modo si può apparire brillanti e persuasivi in Tv. Ma solo occasionalmente. È solo una scorciatoia...».
Il «lavoro» può essere ancora il nucleo vitale identitario di una sinistra aggregante come quella a cui lei allude?
«Sì, ma il lavoro in tutte le sue innumerevoli ramificazioni. Produttive e riproduttive. Colpisce constatare come i quadri alti del lavoro, non si rendano conto di subire anch’essi ormai lo sfruttamento. Sfruttamento della mente, subalternità psicologica. Più in generale comunque la dimensione lavorativa riguarda il 90% del paese. E si tratta appunto di recuperare la fiducia di tutti i ceti produttivi, non solo di quelli che pensano di star peggio».
Non bastano dunque la cittadinanza e i nuovi diritti laici a definire la sinistra, sia pur intesa in senso ampio?
«No, è uno schema debole e formalistico. La cittadinanza è il contenitore di qualcosa, non il contenuto. Mentre il contenuto restano i diritti sociali e sostanziali. Che si traducono in cittadinanza, ma ne sono il prerequisito. Il rischio invece, con l’idea della astratta cittadinanza, è quello di difendere alcuni e non altri. Alcuni e non tutti. Il risultato è la divisione dei cittadini».

l'Unità 8.2.09
Un sovversivo a Palazzo Chigi
di Nicola Tranfaglia


Il presidente del Consiglio Berlusconi non accetta la presa di posizione del Capo dello Stato che ha annunciato di non esser disposto, per motivi costituzionali, a firmare il decreto del potere esecutivo sulla vicenda di Eluana Englaro. Berlusconi prova invece a far approvare in tre giorni un disegno di legge con lo stesso contenuto.
Occorre sottolineare, innanzi tutto, che è la prima volta che si verifica un simile scontro istituzionale nell’Italia repubblicana. In tutti gli altri casi negli ultimi trent’anni (con il presidente Pertini il 24 giugno 1980 e il 3 giugno 1981, con il presidente Cossiga il 10 luglio 1989 e il 6 febbraio 1990, con il presidente Scalfaro il 7 marzo 1993) i presidenti del Consiglio, rispettivamente i democristiani De Mita e Andreotti, decisero di rinunciare ai loro provvedimenti. Rispettarono, insomma, con il loro comportamento le funzioni di garante della costituzione che ha nel nostro ordinamento il presidente della repubblica. Ma questa volta il capo del governo, rappresentante del potere esecutivo, ha voluto forzare la situazione, mostrando di rifarsi a quel “sovversivismo dall’alto” o “delle classi dirigenti” che Antonio Gramsci aveva già segnalato nei suoi Quaderni del Carcere e che ha costituito, nella nostra storia, una pericolosa anomalia da cui è nato il fascismo e ogni altro tentativo di autoritarismo antidemocratico.
Non sappiamo come la vicenda si concluderà nelle prossime ore ma dobbiamo segnalare il diverso comportamento della seconda e della terza carica dello Stato. Il presidente del Senato onorevole Schifani si è schierato nettamente al fianco del capo dell’Esecutivo, ignorando la lettera e lo spirito della costituzione, e il presidente della Camera onorevole Gianfranco Fini, al contrario, ha rispettato il testo costituzionale in vigore e, in una sua dichiarazione, ha esortato il capo del governo a rinunciare al provvedimento.
I due opposti atteggiamenti da parte delle due massime cariche parlamentari mostrano gli effetti negativi di una condotta come quella di Berlusconi che di fatto nega le prerogative attuali del Capo dello Stato e ignora la costituzione vigente. C’è da chiedersi se un simile comportamento non si configuri di fatto in un attentato alla Costituzione repubblicana con le conseguenze che l’atto potrebbe comportare sul piano costituzionale.
Se poi ricordiamo che proprio questo capo dell’Esecutivo non ha risolto il grave conflitto di interessi da cui è investito e continua a imporre leggi ad personam come il lodo Alfano e altri lodi in via di fabbricazione, ci rendiamo conto in maniera sempre più chiara che lo Stato di diritto corre in Italia gravi pericoli e che il rischio di una via autoritaria è sempre più vicino.

l'Unità 8.2.09
Pericolo pubblico
di Concita De Gregorio


Anche nelle tragedie sono sempre i dettagli a dare la misura del disastro, a rivelare l'inganno. Uno sguardo, un gesto, una scarpa slacciata. Qualcosa che rompa l'ipnosi e illumini d'improvviso la scena per quello che è. Ieri, per Berlusconi, è stato il linguaggio. Sì certo il bonapartismo. Sì l'attentato alla Costituzione, l'aggressione al capo dello Stato, la democrazia in pericolo, Eluana che fa da pretesto per una partita di potere. La corsa al Quirinale, lo scardinamento delle regole, l’arbitrio assoluto di uno solo: sì certo, tutto questo saliva in un crescendo omeopatico segnato ogni tanto da un sussulto. Poi quelle parole: «Eluana mi dicono ha un bell'aspetto, funzioni attive, il ciclo mestruale». Il ciclo mestruale, ha detto il presidente del consiglio ai microfoni. Poi: da parte di suo padre «non c'è altro che la volontà di togliersi di mezzo una scomodità». Togliersi di mezzo? Una scomodità? Ma come parla. Di cosa parla. Ecco cosa fa veramente paura, cosa sveglia decine di migliaia di persone: l'assenza di freni inibitori, il delirio di onnipotenza che fa straparlare senza controllo proprio come chi abbia perso definitivamente il senso di realtà, di misura e di rispetto. Un pericolo pubblico, collettivo: guida a folle velocità senza freni, l'Italia è a bordo. Bisogna scendere. Non c'è tempo da perdere.
Che accusi Napolitano di voler uccidere, che giudichi la Costituzione «bolscevica» e che prometta di cambiarla lui da solo, che i regolamenti gli sembrino antiquati dunque anche questi da spazzar via sono solo altri sintomi dello stato di alterazione. L’onnipotenza è del resto in buona misura reale: le leggi che si è costruito su misura glielo permettono. Potrebbe far irruzione a Sanremo, se gli garba, e dall'Ariston parlare al paese per giorni: raccontare barzellette, irridere il capo dello Stato. In veste istituzionale, naturalmente. Come ieri a Cagliari, a una settimana dal voto: «visita istituzionale» hanno spiegato docili i tg.
Beppino Englaro, maschera tragica di un'Italia sommersa dalla melma, gli si è rivolto direttamente: venga a vedere mia figlia, ha detto. A Berlusconi e a Napolitano ha chiesto: venite da padri, venite a vedere com'è adesso. Gli sarebbe bastato, in questi mesi, scattarle una foto e mostrarla per zittire chi grida: non l'ha fatto, un esempio maestoso di amore paterno. Chi abbia assistito un malato terminale sa cosa intenda dire. Non servono le parole.
Per tutto il giorno al giornale abbiamo fatto ieri da telefonisti e dattilografi. Hanno chiamato e scritto per dare sostegno a Napolitano gente comune e premi Nobel, ministri e presidenti stranieri, studenti e scienziati. Il francese Pierre Moscovici, già ministro per l'Europa, lo spagnolo Enrique Barón Crespo, ex presidente del Parlamento Europeo, il tedesco Martin Schultz presidente del Pse (il kapò, ricordate? Ma allora il linguaggio era più controllato) hanno firmato il nostro appello. Rita Levi Montalcini e Dario Fo, premi Nobel, Umberto Veronesi e Ignazio Marino, Roberto Benigni e Pedrag Matvejevic hanno messo le loro firme sotto quelle di Furio Colombo e di Umberto Eco, di Pietro Ingrao e di Andrea Camilleri. A notte continuavano a chiamare. Trascriveremo ogni nome. Esiste un'altra Italia. Non faremo silenzio.

l'Unità 8.2.09
Ma dove comincia il fascismo?
di Beppe Sabaste


Da tempo, nelle discussioni pubbliche e private, si oppone questo argomento all’espressione linguistica di un’indignazione politica considerata iperbolica: non siamo in un regime, non è giusto abusare della parola «fascismo», altrimenti cosa diciamo di fronte alla sopraffazione fisica, alla violenza, al confino, alla deportazione che caratterizzarono il ventennio fascista? A parte che il fascismo storico non fu una «parentesi», e il concetto di fascismo è stato poi ampiamente usato da sociologi, politologi e filosofi in ogni parte del mondo, la mia replica è che, per designare un Paese in cui le libertà individuali sono ridotte o negate, la verità manipolata e falsificata, la Storia rivisitata, una parte crescente della popolazione discriminata, in una dimensione di propaganda permanente, non occorre che «fascismo» rimandi a modelli del passato. Può anche, in attesa di nuove, efficaci parole (sempre difficile coniarle in presa diretta), designare una realtà contemporanea con caratteristiche nuove. All’epoca di Mussolini i mass-media si riducevano alla radio e ai cinegiornali, oggi, lo ha insegnato perfino James Bond, si conquista il mondo col controllo delle tv e dell’informazione, col monopolio di parole e immagini. La neo-lingua del governo si caratterizza da anni con un rovesciamento del senso delle parole - e le dittature cominciano sempre col violare la lingua, prima di violare le persone. Controllare le parole, «fare cose» con le parole, si coniuga oggi col peggiore potere, quello bio-politico. Il controllo del corpo, della vita, della morte, della cura. «Dannare» Eluana Englaro a una morte vivente si dice «salvare», anche se è solo i cinico e barocco pretesto a un attacco all’equilibro dei poteri, alla democrazia, alla Costituzione. La mia domanda, oggi come ieri, è questa: ma allora, dove «comincia» il fascismo?

l'Unità 8.2.09
Tecnica di un colpo di Stato
di Marco Travaglio


A lui non frega nulla di Eluana. A lui interessa affermare il principio che una sentenza definitiva può essere ribaltata per decreto, o per legge ordinaria, o per legge costituzionale. A lui non frega nulla della vita e della morte. A lui interessa compiacere il Vaticano con un decreto impopolare ma a costo zero, fatto già sapendo che il Quirinale non lo firmerà, dunque senza pagare alcun prezzo di impopolarità. A lui non frega nulla delle questioni etiche. A lui interessa coprire il colpo di mano contro la giustizia e la civiltà: i medici trasformati in questurini e delatori contro i malati clandestini; le ronde illegali legalizzate; le intercettazioni legali proibite; gli avvocati promossi a padroni del processo, che faranno durare decenni convocando migliaia di testimoni inutili per procacciare ai clienti ricchi l'agognata prescrizione; i pm degradati ad «avvocati dell’accusa», come negli stati di polizia, dove appunto la polizia, braccio armato del governo, fa il bello e il cattivo tempo senza controlli della magistratura indipendente; dulcis in fundo, abolito l'appello del pm contro l'assoluzione o la prescrizione in primo grado, ma non quello del condannato (non hai vinto? Ritenta, sarai più fortunato), sempre all'insegna della «parità fra difesa e accusa». Tutte leggi incostituzionali che, dopo il no del Quirinale al decreto contra Eluanam, hanno molte possibilità in più di passare. Per giunta, inosservati. Parlare di colpo di Stato è puro eufemismo. E poi, che sarà mai un colpo di Stato? Se la Costituzione non lo prevede, si cambia la Costituzione.

l'Unità 8.2.09
5 risposte da Dario Fo Franca Rame
di Gabriella Gallozzi


1Eluana
Ormai la volgarità di Berlusconi non ha limiti. E non si ferma di fronte a niente. Ma come si fa a dire che «ipoteticamente» Eluana è viva al punto da poter mettere al mondo un bambino?
2La trivialità del premier
Stai a vedere che ora la questione diventa se quella povera donna riesca pure a fare l’amore... Poi si sveglia e dice: «chi è il padre di mio figlio?». Berlusconi è di una trivialità talmente incredibile che per stupire si attacca persino ad argomentazioni pseudo scientifiche.
3Epater les simples
Il nostro premier è disposto a qualunque cosa pur di stupire ed incantare l’immaginazione della gente semplice. In francese si dice épater les simples... È questo il suo modo di fare. Sempre.
4Gioca coi sentimenti
Non ha rispetto per nessuno. Neanche per la famiglia di Eluana. È abituato a giocare coi sentimenti più profondi. Uno così dovrebbe contare fino a dieci prima di parlare.
5Un momento tragico
È davvero un uomo senza qualità. E per il nostro paese è un momento tragico. Berlusconi sta giocando il tutto per tutto perché il suo obiett
ivo è arrivare al posto di Napolitano. E per questo sta usando anche la Chiesa.

l'Unità 8.2.09
4 domande a Gino Strada
«Ora Eluana viene usata per fare le prove di un golpe»


Gino Strada, fondatore di Emergency, ieri era in piazza a Milano contro l’intervento del governo sul caso Englaro.
Perché è andato in piazza?
«Il caso di Eluana è stato preso a pretesto per una prova di forza e una dimostrazione di oscurantismo clericale. Si annuncia un golpe, si disegna un percorso per uscire dalla Costituzione. Berlusconi usa questa vicenda per dire “in questo Paese il padrone sono io”. Non mi sorprende, ma non si era mai arrivati a un livello così esplicito».
Nel merito come valuta la discussione intorno al caso Eluana?
«Ho sentito tanta ignoranza, non c’è nulla di razionale in quello che viene detto. Dalla Chiesa c’è una ingerenza continua nella vita e nella coscienza delle persone. Le decisioni di una persona, di una famiglia, non interessano. La Chiesa pretende di decidere quando una vita va salvata e quando no: di volta in volta benedicono massacri o dittatori, come hanno fatto per centinaia di anni, poi si ricordano della vita quando fa comodo per imporre la loro forza».
La sua opinione sul caso Englaro?
«Ognuno ha diritto di di decidere se e come vivere. E se il soggetto non può esprimersi, c’è comunque una storia, una famiglia e dei medici. Pensare che questioni così delicate siano affrontate un governo che istiga i medici a denunciare gli immigrati mi fa orrore. Queste due vicende hanno lo stesso denominatore: l’ignoranza. Ma se siamo arrivati così in basso la colpa è di tutta la casta politica, nessuno escluso».
Cosa pensa dell’eutanasia?
«Ognuno deve avere il diritto di decidere sulla propria vita e i medici dovrebbero assecondare questa volontà. Sono a favore dell’eutanasia». A.C.

il Riformista 8.2.09
La vita, la Costituzione e il cinismo di Berlusconi
di Claudia Mancina


Il caso Englaro continua a cambiare contorni. Da tragedia privata a drammatica questione bioetica, quale è diventata per una lucida scelta del padre, che ha voluto impegnarsi in una battaglia civile quasi per dare un senso a quella tragedia; a questione costituzionale, in seguito allo scontro tra il presidente del Consiglio e il presidente della Repubblica. Oggi, nei commenti e nelle reazioni a questo scontro, si delinea un ulteriore aspetto del caso: quello culturale. Quando nelle parole di Berlusconi, ma anche in tante lettere e in tanti blog, si usa l'argomento: che cosa valgono i formalismi giuridici quando si tratta di salvare una vita?, è tutta una cultura che parla, una cultura sostanzialistica tipicamente italiana. Sostanzialistica, perché contrappone ai cosiddetti formalismi la sostanza: salvare una vita. E tipicamente italiana, perché è comune a tutte le più profonde correnti di pensiero che hanno definito l'identità nazionale e che tuttora, nonostante le trasformazioni subite, la innervano in modo più o meno carsico: quella cattolica, quella comunista e quella fascista.
Per tutte e tre queste correnti di pensiero l'attenzione alle forme, il rispetto delle regole è sempre stato un capriccio liberale, un lusso forse buono per altri popoli, ma certo non adatto a una politica sempre sull'orlo dell'emergenza come quella italiana. E invece bisognerebbe rovesciare il discorso: è proprio il sostanzialismo, la sottovalutazione delle forme giuridiche, che determina lo stato di emergenza continua. Che valgono gli articoli della Costituzione di fronte a una vita?! Ma sono proprio gli articoli della Costituzione che proteggono la vita dei cittadini.Non si può essere con la Costituzione quando rispettarla va a sostegno della nostra opinione, e considerarla un optional quando le cose vanno nell'altro senso. Da questa elasticità dipende la difficoltà di gestire i conflitti etici e quindi la durezza dello scontro su temi che, pur difficili e divisivi, possono essere affrontati senza lacerazioni irrimediabili se ci si attiene alla Costituzione. So che questo punto di vista sarà tacciato di insensibilità alla vita, ma ripeto: solo la Costituzione, cioè il sistema di valori politici che reggono la convivenza politica, può difendere veramente la vita di tutti. Se fosse solo la sovranità popolare, tanto volentieri evocata dal centrodestra, a determinare le decisioni legislative, nulla impedirebbe, per esempio, di introdurre la pena di morte o di limitare la libertà religiosa o la libertà di opinione. In un regime costituzionale, per fare questo ci vuole un mutamento della Costituzione nei suoi principi fondamentali, dunque in realtà una rottura della forma dello Stato. In un regime costituzionale, le decisioni dipendono dalla sovranità popolare nei limiti definiti dalla Costituzione.
Ciò comporta accettare che il presidente della Repubblica abbia dei poteri e dei doveri da esercitare. Berlusconi ha deciso di lanciare un attacco frontale a questi poteri-doveri, e proprio sul caso Englaro, perché ha intuito che si trattava di un terreno favorevole. Per le ragioni dette sopra, il quasi generale allineamento della cultura sostanzialistica era scontato; e il presidente Napolitano è accusato di anteporre vacue forme alla vita di una donna. Ma chi oggi crede di difendere la vita e nient'altro, dovrebbe chiedersi qual è la strategia del presidente del Consiglio. Difficile credere che voglia soltanto acquistarsi meriti oltretevere, visto che nella campagna elettorale aveva affermato la sua autonomia ideologica. È più probabile che abbia visto lo spazio per iniziare quella ridefinizione degli equilibri costituzionali che ha in mente da sempre. Non c'è niente di male a considerare invecchiata la Costituzione del 1948 e a proporre dei cambiamenti, anche nella direzione di un rafforzamento dei poteri del premier. Ma il nostro presidente del Consiglio va molto più in là. Quel che ha in mente è una visione post-politica della democrazia, che si fondi solo sul consenso, facendo a meno del confronto parlamentare e del dibattito pubblico che questo consente e garantisce. Il braccio di ferro sulla decretazione d'urgenza è illuminante: Berlusconi ha sempre espresso chiaramente la sua convinzione che essa sia uno strumento normale e non eccezionale dell'attività di governo, e per questo rifiuta di sottometterla al controllo del capo dello Stato. Idea molto diversa dal riconoscimento che l'eccesso di parlamentarismo rende difficile governare, sulla quale anche molti costituzionalisti e politici democratici sono d'accordo.
Lo scontro, dunque, è precisamente sulla concezione della politica e della democrazia. La sorte di Eluana Englaro è un pretesto eccezionalmente adatto per questo scontro, perché è un detonatore di pulsioni extra-costituzionali e extra-politiche. Al Cavaliere, mentre recita la parte del buon samaritano, non fa certo difetto il cinismo.

Corriere della Sera 8.2.09
Berlusconi attacca la Costituzione «Filosovietica, ora un chiarimento»
E su Eluana: da padre non staccherei la spina, si vuole togliere di mezzo una scomodità
Il Cavaliere e la lettera di Napolitano: implica l'eutanasia. Poi si corregge. Veltroni: si inchini alla Carta
di Lorenzo Fuccaro


CAGLIARI — Il «caso Englaro » continua a suscitare tensione tra il capo del governo e il presidente della Repubblica. E il nodo è a chi spetti decidere sui requisiti di necessità e urgenza dei decreti legge, un nodo che a giudizio di Silvio Berlusconi necessita di un «chiarimento sulla lettura della Carta costituzionale».
Una carta da rivedere, insiste, sulla quale «occorre avviare una riflessione» allo scopo di accertare se sia necessario mettervi le mani e riformarla dato che è stata fatta «sotto l'influenza della fine di una dittatura e con la presenza al tavolo di forze ideologizzate che guardavano alla Costituzione russa come a un modello dal quale prendere indicazioni». Insomma, sostiene il Cavaliere, la nostra Magna Charta va adattata ai tempi. Una tesi, questa, contro la quale si scaglia il leader del Pd. Walter Veltroni non solo difende l'operato dell'attuale inquilino del Quirinale accusando il capo del governo «di volere mettere in crisi il sistema istituzionale», ma esorta poi lo stesso presidente del Consiglio «a inchinarsi davanti alla Costituzione sulla quale ha giurato». I toni salgono e c'è il rischio di un'escalation ecco perché Daniele Capezzone rivolge «un appello a tutti ad abbassare i toni, comunque la si pensi».
Il confronto a distanza muove appunto dalla triste vicenda della ragazza costretta da diciassette anni in un letto d'ospedale e giunta ora alla vigilia della sospensione dell'alimentazione e dell'idratazione. Una decisione contro la quale venerdì l'esecutivo avrebbe voluto opporsi con un decreto legge. Iniziativa resa impossibile dalla scelta di non controfirmare l'atto da parte del Presidente Giorgio Napolitano.
Ebbene Berlusconi, il giorno dopo, a margine di alcuni incontri in vista delle regionali sarde di domenica prossima, torna sulla questione per riaffermare che dal Quirinale si sarebbe aspettato «un passo indietro ». Non solo. Rileva che «per una questione di bon ton istituzionale il governo aveva chiesto un parere alla Presidenza della Repubblica», non certo l'invio di una lettera. Entrando poi nel dettaglio, il Cavaliere fa notare che la lettera giunta nel corso della riunione del Consiglio dei ministri, ricca di considerazioni giuridiche, «implica l'eutanasia» dato che introduce di fatto senza che sia stata adottata con uno specifico provvedimento.
Questo passaggio sull'eutanasia è al centro di una fitta serie di contatti tra il Quirinale e l'entourage del premier. E infatti, nel primo pomeriggio, Berlusconi corregge il tiro. «Mi fate dire cose che non ho mai detto», si difende. Subito dopo, parlando della lettera giunta dal Quirinale, chiarisce che «non c'era alcun riferimento all'eutanasia». E poi con un'espressione per certi aspetti enigmatica, alludendo allo stesso Napolitano, rileva che «è stato preso da tutto l'intorno », per allontanare dall'inquilino del Quirinale ogni responsabilità.
Berlusconi, in ogni caso, difende la sua scelta «figlia di una cultura della vita e della libertà, contrapposta a quella morte e all'intervento dello Stato sempre e comunque, anche negli ambiti privati dei cittadini ». Io, incalza, «da padre non staccherei mai la spina ad una persona che, dicono, abbia ancora il ciclo mestruale attivo e il cervello che trasmette segnali elettrici». Insomma, è il suo ragionamento, «non vorrei che dietro questa fretta ci sia la voglia di togliersi di mezzo una scomodità». Rispondendo implicitamente a Veltroni, Berlusconi nega che «sotto tutto questo ci sia un disegno». Insiste nel sostenere che spetti al governo decidere sui requisiti per adottare un decreto legge, altrimenti «uno va a casa».

Corriere della Sera 8.2.09
OLTRE LA MISURA
prima pagina, non firmato


Dopo la giornata nera di uno dei più duri scontri istituzionali del dopoguerra repubblicano, avremmo auspicato il momento della ricucitura.
Purtroppo il presidente del Consiglio ha scelto la strada opposta, e ha finito per parlare della nostra Costituzione come di un documento in parte ispirato da chi aveva l'Unione Sovietica come «modello». Un giudizio oltre ogni misura. Le circostanze storiche che hanno dato vita alla Costituzione repubblicana sono note. E la nostra Carta costituzionale è ovviamente emendabile nelle sue parti che più sono esposte all'usura del tempo (come il Corriere ha sempre sostenuto). Ma non si può sottacere l'apprezzamento che le è riconosciuto in modo pressoché unanime. La speranza è che l'enormità imprudentemente formulata dal nostro premier non comprometta il tentativo di ricreare un clima meno tempestoso nei rapporti tra Palazzo Chigi e il Quirinale. Questi sono i giorni in cui ci si deve responsabilmente adoperare per sanare una grave frattura tra le istituzioni. Strapazzare la memoria della Costituzione otterrebbe il risultato contrario.

Corriere della Sera 8.2.09
Andreotti: la Carta? Grande equilibrio, durerà altri 50 anni
di M. Antonietta Calabrò


ROMA — Cambiare la Costituzione per governare a colpi di decreti-legge? «No grazie», dice Giulio Andreotti, pluripresidente del Consiglio, ministro e deputato dell'Assemblea costituente. Ma aggiunge anche «Berlusconi per la Englaro non va criticato».
Senatore Andreotti, la nostra è una Costituzione «sovietica»? Influenzata dal modello dell'ex Urss che ispirava gli esponenti del vecchio Pci?
«Certamente lo sforzo che fu fatto allora, nonostante le divisioni internazionali dei due blocchi, fu proprio di tenere insieme situazioni diverse. La nostra Costituzione comunque fu fatta per durare ed in effetti è durata».
Sessant'anni ma li dimostra tutti, dice però Berlusconi.
«Chi è al governo ha spesso la tentazione di fare di più. Di guadagnare tempo, di avere più potere. La Costituzione esprime invece un grande equilibrio, proprio perché uscivamo da un regime e da una dittatura e quindi volevamo salvaguardare lo spirito della libertà».
Il premier ha fatto l'esempio del prossimo G8 di luglio che dovrà affrontare il problema della crisi economica internazionale. Ha detto che è difficile prendere impegni con gli altri capi di governo: perché le misure che verranno decise da noi devono essere approvate con un meccanismo parlamentare vecchio e lento...
«Il nostro è un sistema equilibrato che impedisce sia fughe in avanti sia lunghe attese: le cose si fanno. Ha dimostrato di funzionare anche in momenti difficili, con il terrorismo. Funzionerà ancora. Mi creda, per i prossimi cinquant'anni non c'è proprio la necessità di modificare la nostra Carta costituzionale. Poi i posteri vedranno... In ogni caso il decreto legge è un istituto valido, previsto proprio dalla Costituzione. Va usato sempre giustamente, non se ne deve abusare, ma fu voluto con lucidità proprio dalla Costituzione».
Veltroni dice che Berlusconi ha preso la palla al balzo del decreto legge per la Englaro, per poi chiedere di modificare la Costituzione. Se lei fosse stato capo del governo il decreto legge per «salvare» questa donna l'avrebbe fatto?
«Non voglio insegnare il mestiere a nessuno. Non voglio esprimere un giudizio. Ma se Berlusconi ha ritenuto di dover presentare un decreto legge non va criticato: è nella responsabilità del governo. Non bisogna dimenticare che chi governa spesso ha elementi che altri non hanno. E poi quello per Eluana Englaro era un decreto legge che non faceva male a nessuno. Come dicono i medici?
Primum non nocere, per prima cosa non nuocere».

Corriere della Sera 8.2.09
Dietro lo scontro
Tutti i perché di un affondo che svela due culture
di Massimo Franco


Non è più un conflitto istituzionale, ma un'offensiva in piena regola. Silvio Berlusconi non si ferma. Anzi, avanza e alza il tiro.
Continua a bersagliare Giorgio Napolitano, e intanto punta sulla Costituzione «approvata con i filo-sovietici»: quel Pci di cui il capo dello Stato è un figlio.
I toni lasciano capire che lo scontro con il Quirinale si incattivirà. Nella scia del «caso Eluana» Napolitano si limita a replicare che nessuno ha «un monopolio» della vicinanza ai malati; e che comunque lui «confida nei cittadini». Sembra una risposta al premier e alle critiche del Vaticano. Ma appare sulla difensiva; e con lui le sinistre e i radicali che lodano il suo «no» al decreto del governo.
Il «caso Englaro» si sta rivelando l'occasione scelta da Berlusconi per riequilibrare a proprio favore i poteri fra Palazzo Chigi e presidenza della Repubblica. Importa relativamente la virulenza con la quale tende a delegittimare la Carta fondamentale. È più interessante chiedersi perché lo faccia; perché abbia deciso l'affondo contro il presidente della Repubblica. A favorire l'accelerazione è stato probabilmente l'uso politico della lettera dal Quirinale che anticipava la bocciatura del decreto sul «caso Eluana» mentre il Consiglio dei ministri stava ancora decidendo; e forse, la convinzione che il Paese sia più diviso di quanto non appaia su una vicenda inizialmente sottovalutata.
La campagna della Chiesa cattolica ha modificato la percezione dell'agonia della ragazza in coma da diciassette anni. Ha seminato dubbi sulle sentenze della Cassazione e sulle procedure scelte. E Berlusconi ha colto questi umori e deciso di cavalcarli, sicuro di avere dietro il Vaticano e i vescovi italiani; e di potere con un colpo solo spiazzare Napolitano, opposizione, avversari interni e magistratura. Sostenere che la prassi delle lettere preventive del Colle al governo «è ridicola» significa liquidare una prassi mal sopportata; e vedere «un'implicazione dell'eutanasia» nella nota arrivata venerdì accentua il fossato fra governo e presidenza della Repubblica.
Il risultato è quello di accreditare uno schema bipolare non solo in termini politici, ma quasi esistenziali. Berlusconi sembra deciso a intensificare una pressione insieme culturale e istituzionale; a contrapporre «cultura della vita e della morte», nelle sue parole. Da una parte il centrodestra, appoggiato dalle gerarchie cattoliche. Dall'altra la sinistra, sulla quale Palazzo Chigi cerca di schiacciare Napolitano e il suo profilo di imparzialità; e i radicali, con le loro posizioni a favore dell'eutanasia. Affiora qualche ammissione sulla debolezza della sinistra e della cultura laica come una delle cause di quanto sta accadendo. Ma prevale la polemica contro le «ingerenze vaticane».
È un fantasma evocato a intermittenza: fra l'altro, i vescovi italiani hanno attaccato il governo di recente per la legge che permette ai medici di denunciare gli immigrati clandestini in cura da loro; ma nessuno ha protestato. Eppure, l'intervento doveva rientrare nella tesi dell'ingerenza. Probabilmente, nel «caso Eluana» lo scontro fra Palazzo Chigi e Quirinale ha reso inevitabile un'attenzione inedita; e ha portato a rimarcare la convergenza fra governo e Santa Sede e il contrasto inaspettato con Napolitano. Comincia a prendere corpo il sospetto che sia lui o meglio la Presidenza della Repubblica, il bersaglio grosso berlusconiano.
Se è così, le polemiche di questi giorni sono destinate ad avere un lungo seguito. E, purtroppo, ad accompagnare la vicenda di Eluana Englaro come una colonna sonora stonata, modulata inevitabilmente su massicce dosi di strumentalità da entrambe le parti. A fermare l'offensiva del premier potrebbe essere solo un difetto nella tenuta del centrodestra. Ma osservando l'esito del Consiglio dei ministri di venerdì che ha confermato il decreto, per ora Berlusconi sembra in grado di governare la propria maggioranza: con la carota o col bastone.

Corriere della Sera 8.2.09
Il filosofo Emanuele Severino
«Scontro tra due violenze. Vincerà la più forte»
intervista di Daniela Monti


Per ora dobbiamo rassegnarci a quello che è sempre successo: è stata chiamata verità, giustizia, legge la forza vincente

MILANO — «Mi fa schifo». Emanuele Severino è uno dei maggiori pensatori contemporanei. Ha il linguaggio dei filosofi: denso, arguto (a volte oscuro). «Mi fa schifo» è un'espressione che suona stonata. Eppure ora la usa: «Non ho dubbi, appena posso farò il testamento biologico in cui rifiuto tutto. Ma si tratta di vedere se la mia volontà riuscirà a iscriversi in una legislazione che la rispetti. Mi fa schifo pensarmi in una situazione in cui non posso nutrirmi da solo, in cui non posso pensare».
Ha chiaro da che parte stare. Una legge giusta, sul tema della fine della vita, sarebbe dunque quella che riconosce il diritto a scegliere?
«Non è così semplice» e, chiusa la parentesi privata, Severino comincia a parlare di filosofia. «Quello che vedo è lo scontro tra due forme di violenza. Le intenzioni possono essere le migliori, anzi diamolo per scontato, ma la sostanza non cambia: da una parte c'è la Chiesa, e il governo la segue, che intende difendere la vita umana ad ogni costo, impedendo precedenti pericolosi; dall'altra le istanze laiche. Anche se non intenzionali, sono comunque due forme contrapposte di fede».
È uno scontro ideologico, aspro, ma ancora nei termini della legalità. Perché parla di violenza?
«Né una parte né l'altra dispongono di verità assoluta. Il problema si può impostare così: è bene che si sospenda la vita di questa donna? Ma che cosa significa "bene": la nostra cultura è in grado di dire che cos'è "bene"? E poi: è giusto sospendere questa vita? Ma daccapo: la nostra cultura è in grado di indicare il vero senso della giustizia? Certo è più visibile il desiderio di alcuni di mostrare la propria adesione agli insegnamenti della Chiesa, che non il significato di bene e giustizia. Come pure è più visibile la volontà di mostrare il proprio dissenso. In questa situazione, anche se può sembrare cinico, l'esito non può essere dato che dal prevalere di una parte sull'altra».
È una visione cupa. Ma in un modo o nell'altro dovremo pure uscirne.
«Per ora dobbiamo rassegnarci a quello che è sempre successo: che è stata chiamata verità, giustizia, legge la forza vincente. Per cui è patetico invocare un bene assoluto. Oggi la cultura dominante non è in grado di risolvere questi problemi. Si risolvono in modo pratico, politico».
E la politica ha fallito. Dopo il decreto del governo, siamo allo scontro istituzionale.
«È un braccio di ferro, si tratta di vedere chi è più forte, ma essere più forte non vuol dire essere più vero, più giusto. D'altra parte quando si rimproverano i cattolici di imporre le loro convinzioni a chi non è cattolico ci si dimentica che in democrazia chi ha la maggioranza fa le leggi. Però sembra più democratica una legge che non impone anche ai non credenti le convinzioni dei credenti».
Torniamo al caso di Eluana, c'è il problema della volontà presunta. Cosa ne pensa?
«Il padre di Eluana sostiene che la figlia non avrebbe mai sopportato una vita come quella di ora».
Ma — obietta qualcuno — non si può sapere se questo è ancora il volere di Eluana.
«Mi sembra una gigantesca contraddizione. Se infatti si è d'accordo sul fatto che a Eluana la coscienza è venuta a mancare, non si può dire quale sarebbe oggi la sua intenzione, appunto perché lei non è più cosciente. Quindi non ha intenzioni. Tutte queste considerazioni — ha o non ha coscienza, cosa sente, cosa prova — sono ipotesi. È con questo che abbiamo a che fare: solo ipotesi. Vedo molti atteggiamenti tartufeschi in questa vicenda. Che ci siano persone attaccate ai principi lo credo, ma che ci siano persone così grondanti amore per Eluana lo metterei in dubbio. A contare, qui, è piuttosto la volontà che la vita pubblica sia regolata in una certa direzione».
Chi può dire una parola di verità su Eluana, e sulla fine della vita. La filosofia?
«La filosofia comincia a mettere in discussione il contesto in cui si gioca lo scontro fra volontà. Le cose più grandi non avvengono dall'oggi al domani. Se tramontasse la volontà che le cose siano nulla (e qui siamo nel cuore della critica di Severino alla cultura dell'Occidente, perché se le cose nascono, muoiono, sporgono provvisoriamente dal nulla, tirate le somme, spiega il filosofo, sono di per sé nulla)
allora sì ci sarebbero le condizioni perché anche la violenza delle tesi contrapposte venga meno. Ma bisogna risalire molto più indietro del limite a cui riescono a portarsi le forze culturali e pratiche delle nostre civiltà, si tratta di un impegno infinitamente più radicale. La modestia da parte della filosofia sarebbe fuoriluogo».

Corriere della Sera 8.2.09
Voto di coscienza per i cattolici pd Appoggio teodem


BOLOGNA — Votare il disegno di legge di Berlusconi, quello in difesa della vita (o di ciò che resta) di Eluana?
Oppure no, votare contro, allineandosi così alla volontà di papà Englaro e di chi ritiene giusto e inevitabile, a questo punto, staccare la spina? È un passaggio strettissimo, da brividi, quello dal quale dovranno transitare domani i parlamentari cattolici del Pd. Questione di coscienza, ma con pesanti implicazioni politico e istituzionali: perché dire sì a quel ddl significherebbe sposare la crociata sferrata dal premier in contrasto con le posizioni del Quirinale e vissuta dal Pd come un attentato alla democrazia. Dilemma lacerante. Che ha pesato, ieri a Bologna, sui lavori dell'assemblea nazionale degli amministratori del Pd. Come uscirne? «Libertà di coscienza». Il compito di indicare la strada per uscire dall'angolo viene affidato, a metà mattina, al vicesegretario Dario Franceschini: «I cattolici voteranno secondo coscienza: ascolteranno le parole della Chiesa, ma non accetteranno indicazioni di voto da nessuno, che comunque, sono certo, non arriveranno». Poi aggiunge, quasi a voler trasmettere al partito un senso di sicurezza: «I parlamentari cattolici conoscono da almeno 100 anni la lezione dell'autonomia delle scelte politiche e della laicità dello Stato». Tutto risolto? Naturalmente no. Gli unici ad avere le idee chiare sembrano essere i teodem, che, pur con qualche disagio per il fatto di doversi accodare a una battaglia berlusconiana, hanno già fatto sapere che voteranno a favore del ddl: «Anche se rammaricati per il conflitto istituzionale, considerata la situazione di reale emergenza, siamo a favore di un disegno di legge che salvi Eluana dalla morte per fame e per sete». Dal resto del Pd, silenzi e mezze parole. Anna Finocchiaro fa capire di essere contraria al ddl, quando afferma che «sarebbe grave un intervento della politica che frantumasse la forza di tre sentenze». L'ulivista Franco Monaco parla di «guerra di religione che lacera il Paese». Pierluigi Castagnetti si confida in un angolo della sala con Pierluigi Bersani. Tocca a Walter Veltroni, al teatro Testoni, cercare di tenere insieme le mille sensibilità del Pd. «Dividere laici e cattolici è esercizio facile, ma pericoloso» dice, accorato. «Noi stiamo cercando di dimostrare che possono convivere culture e religioni diverse» prosegue convinto. Succede anche tra i democratici «che ci siano posizioni differenti su Iraq e aborto», si consola. Ma ci vuole un punto fermo: «Il dovere della laicità quando si prendono decisioni politiche e istituzionali».

Corriere della Sera 8.2.09
Sacconi: le mie scelte sono laiche Ma oggi sono un credente
«Venerdì è stato il giorno più bello: finito il nichilismo del '68»
intervista di Aldo Cazzullo


Non ho avuto pressioni dalla Chiesa. Ho avuto, dopo il decreto, alcune telefonate di apprezzamento

ROMA — «Venerdì scorso è stata la più intensa giornata politica che abbia mai vissuto e la ricorderò finché campo. Intensa non solo perché ci siamo confrontati su contenuti drammatici, ma per il pathos e alla fine per la condivisione. Berlusconi ha concluso il Consiglio dei ministri con un discorso bellissimo. Ma tutti i colleghi si sono espressi, con interventi di alto livello; e tutti sono giunti alla stessa conclusione. La Prestigiacomo ha manifestato i suoi dubbi, però ha votato con noi. Bossi ha affrontato l'aspetto della sofferenza. Finito il consiglio, a margine, Bondi ha commentato: "Oggi è nato davvero il Pdl". E comincia a morire, aggiungo io, il nichilismo tardosessantottino, di cui Berlusconi rappresenta l'antitesi. Finisce quella deriva che da quarant'anni mette in discussione valori profondi, a cominciare dal senso della vita».
Maurizio Sacconi, ministro del Welfare e della Salute, è l'uomo politico che ha avuto il ruolo chiave nel caso Eluana.
«Ma non ho mai dato interviste. Questa è la prima e spero sia anche l'ultima. Lo faccio perché i lettori di un grande giornale laico sappiano che tutte le scelte del governo, dalla mia circolare al decreto, sono state ispirate dalla ragion laica. Una laicità intesa in una dimensione più alta del passato, che non può non includere principi fondamentali cristiani come la centralità della persona. La dicotomia tra credenti e non credenti, che ha segnato la Prima Repubblica, è stata superata».
Lei è credente?
«Oggi sì. Ma la mia storia politica è socialista e laica. Laica è la logica in cui ci siamo mossi, e che ha unito gli interventi del laicissimo Brunetta e del cattolico Rotondi ».
Venerdì è stato anche un giorno di scontro istituzionale senza precedenti, però.
«Noi non l'abbiamo vissuto così e non credo lo sia stato. Era doveroso assumerci la nostra responsabilità e comunque tentare, anche perché avevamo ancora la speranza che Napolitano alla fine firmasse. E poi le due firme in fondo a un decreto legge hanno valenza diversa, perché diverse sono la responsabilità del capo del governo e quella del presidente della Repubblica. Napolitano ha fatto rilievi formali e non poteva essere diversamente. In quanto politico di lungo corso, lo conosco da tempo, lo rispetto e lo stimo. Penso però che in generale dobbiamo cominciare a ridimensionare il formalismo giuridico. Ho sempre presente la lezione di Marco Biagi, uno dei "migliori nemici" del formalismo giuridico, che spesso porta alla negazione di fatto di diritti o di libertà anche fondamentali. Come non vedere nei requisiti di necessità e urgenza un formalismo, di fronte al diritto sostanziale alla vita? Come non vedere che necessità e urgenza sono più che mai presenti se da una norma dipende la salvezza non solo di Eluana ma anche di altri cittadini?».
Con Napolitano vi siete parlati?
«No».
Con i prelati?
«Non ho avuto nessuna pressione dalla Chiesa. Ho avuto, ma solo dopo il decreto, alcune telefonate di apprezzamento, da cui emergeva una positiva sorpresa».
E con il signor Englaro, ha parlato?
«No. Io lo capisco. A differenza di altri, capisco la sua scelta di rendere pubblica la vicenda: è uno dei modi di reagire al dolore. Spero che lui capisca me. Non mi permetto di dare giudizi perché non mi sono mai trovato in situazioni del genere, se non per una decina di giorni al capezzale di mio suocero. Ma in questi giorni ho parlato con molte persone che hanno vissuto esperienze come quella del signor Englaro. E che mi hanno incoraggiato. L'altro giorno, sul volo Roma- Venezia, mi ha avvicinato un uomo che mi ha raccontato la sua storia. Per cinque anni ha avuto la moglie nelle stesse condizioni di Eluana, in stato vegetativo persistente. Però dormiva, si svegliava, si stiracchiava, reagiva se le infilavano un ago. Quell'uomo ha sofferto moltissimo, diviso com'era tra l'assistenza alla moglie e il pendolarismo tra il Veneto e Roma; però, mi ha detto, neppure per un secondo ha pensato di spegnere quella vita. Fino a quando un'infezione non se l'è portata via».
La conversazione con Sacconi è interrotta dalle telefonate da Udine degli ispettori del ministero.
«Io non mi arrendo. Credo ancora che salvare Eluana sia possibile, che si possa interrompere questo assurdo percorso di morte. Le strade sono due. Un disegno di legge che recepisca il decreto respinto da Napolitano; e apprezzo molto l'impegno in questo senso del presidente del Senato ».
Fini invece l'ha delusa?
«Rispetto comportamenti che sono in parte legati alla "vestizione", quando da leader di parte si diventa figura istituzionale ».
E la seconda strada?
«E' la verifica delle corrette condizioni in cui avviene l'accompagnamento alla morte. Se ne stanno occupando la procura di Udine, i Nas e appunto gli ispettori del ministero. I giudici hanno previsto che tutto avvenga in un "hospice", in una struttura sanitaria dalle caratteristiche particolari, che non sono certo quelle di una casa di riposo. Laicità significa civiltà del dubbio e principio di precauzione. E in questa vicenda i dubbi sono molti, troppi. I dubbi sulla reversibilità dello stato vegetativo persistente, che come ha ricordato il direttore del centro nazionale trapianti Costa è ben lontano dalla morte cerebrale. I dubbi sulla reale percezione del dolore da parte di Eluana, che ha tutte le funzioni vitali, compresa la deglutizione, al punto che forse potrebbe essere alimentata direttamente. I dubbi sulla sua stessa volontà. E' evidente che la legge sulla fine della vita ora si farà; ebbene, tutti i disegni di legge, anche quello presentato da Ignazio Marino del Pd, prevedono che la volontà sia espressa, non presunta come nel caso di Eluana. E poi i dubbi sul luogo e sulle modalità dell'accompagnamento alla morte: perché nessun centro sanitario in Italia, tanto meno una casa di riposo, ha regole o modalità operative idonee a un protocollo di morte lenta, che non ha nulla a che fare con la rinuncia all'accanimento terapeutico. Applichiamo il principio di precauzione all'ambiente, agli animali, ai palazzi da abbattere. Non possiamo non applicarlo alla vita di Eluana».
E con Berlusconi, come è stata la discussione?
«Ne abbiamo parlato molte volte. Ma fin dall'inizio il presidente del Consiglio non ha avuto dubbi. Del resto anche i suoi critici concordano che Berlusconi è uomo di straordinaria vitalità. Lui è il contrario del nichilismo. E in Italia in questi quarant'anni abbiamo vissuto una deriva nichilista, cominciata all'inizio degli anni 70, quando il '68 altrove finiva e da noi cominciava, quando — come De Michelis diceva già allora — ci si illudeva di intravedere i bagliori dell'alba e invece guardavamo i fuochi di un mondo che finiva. Un fenomeno largamente decadente. Qualcosa che ricorda l'inquinamento agricolo: non si vede subito ma penetra in profondità, deposita germi, inquina la falda, avvelena le acque. Ora la vocazione all'annichilimento va declinando e si riscopre il senso della vita, che ha valenza non solo civile ma è la premessa dello stesso vitalismo economico e sociale. E si dice con ragione che in questa grande crisi dei mercati finanziari e dell'economia reale è necessario ripartire dai valori più profondi».
Nel nichilismo rientra anche l'aborto?
«La giusta risposta è applicare la legge per intero. A cominciare dalla prevenzione ».

Corriere della Sera 8.2.09
Il vescovo lefebvriano. Il prelato insiste: Olocausto? Non intendo abiurare
Williamson: «Ritratterò solo di fronte a nuove prove»
di Lorenzo Cremonesi


ROMA — Santa Sede e Israele almeno su di un punto sono d'accordo: lavorare al meglio per mantenere valida la visita del Papa in Terra Santa tra l'11 e il 15 maggio superando le ipotesi di un possibile rinvio a dopo l'estate. «Nonostante i problemi sorti negli ultimi giorni sulla questione dell'Olocausto e le tensioni generate con l'operazione militare a Gaza, resta chiaro l'impegno per garantire il viaggio del Papa in Israele. Anche nel momento più grave dei bombardamenti su Gaza i contatti per definire i dettagli tecnici sono continuati sulla falsariga degli impegni presi a dicembre. L'annuncio ufficiale della visita dovrebbe venire dalla sala stampa Vaticana tra fine febbraio e i primi di marzo», confermano le due diplomazie. Con un particolare: i diplomatici della Chiesa vorrebbero ritardare il più possibile l'annuncio nel timore che eventuali riprese dello scontro con Hamas costringano poi a rinviare la visita. «Il Papa non potrebbe essere a Gerusalemme mentre a Gaza scoppiano le bombe», commentano.
Un impegno che viene comunque mantenuto anche dopo le ultimissime tempeste. Ancora ieri il vescovo lefebvriano Richard Williamson ha ribadito che non abiura le sue posizioni negazioniste. «Ritratterò il mio punto di vista sull'Olocausto solo se troverò nuove prove», ha dichiarato al giornale tedesco
Der Spiegel riferendosi alle sue tesi circa l'«invenzione» delle camere a gas naziste.
C'è però una considerazione meno positiva che accomuna i due campi. Il pellegrinaggio di Benedetto XVI si svolgerà in un clima senz'altro migliore di quello di Paolo VI il 5 gennaio 1964, quando il Papa rimase solo undici ore nel Paese senza mai pronunciare la parola «Israele » e rifiutando di incontrare l'allora presidente Zalman Shazar.
Pure, facilmente, sarà molto peggiore di quello di Papa Wojtyla nel Duemila. «Anche grazie alle sue qualità di gran comunicatore, la visita di Giovanni Paolo II fu un enorme successo. Gli israeliani si innamorarono di lui. Nessuno pensa ciò possa avvenire con il Pontefice tedesco. Wojtyla era l'apertura nello spirito del Concilio Vaticano II. L'attuale Papa è invece la chiusura, l'espressione più evidente della lettura conservatrice del Concilio», dicono al ministero degli Esteri di Gerusalemme e al quotidiano
Yediot Aharonot. Lo stesso parere arriva, sebbene in toni più sfumati, anche dalla Santa Sede: «Non ci illudiamo di poter riscontrare lo stesso successo di nove anni fa. Questo sarà più un pellegrinaggio personale, una visita di basso profilo».
Il Papa dovrebbe volare prima ad Amman con Alitalia. Poi raggiungere Tel Aviv con la compagnia di bandiera giordana e infine tornare a Roma con El Al. Giovanni Paolo II raccolse ben oltre 100 mila persone sulle sponde del lago di Galilea. Oggi si pensa a un luogo più raccolto, magari a Nazaret, con meno di 60.000 posti a sedere. Allora le televisioni israeliane commossero il Paese con le immagini del Papa polacco in preghiera al Muro del Pianto. E piacque la sua preghiera sofferente allo Yad vaShem, il museo dell'Olocausto. Adesso si sta ancora negoziando come trattare questo capitolo, che negli ultimi tempi è diventato una vera mina vagante. «Resta del tutto controversa la questione della didascalia alla foto di Pio XII, che del tutto gratuitamente lo accusa per i silenzi durante l'Olocausto. Si cerca un compromesso. Magari Benedetto XVI si limiterà a pregare all'ingresso del Museo», dicono alla Santa Sede. Non aiuta la polemica che ancora accompagna i lavori della commissione bilaterale per l'applicazione dell' «Accordo Fondamentale» per l'avvio dei rapporti diplomatici del 1993. Il tema più controverso riguarda il regime fiscale. La Chiesa chiede l'esenzione totale, come ai tempi dell'Impero ottomano e del mandato britannico. Israele non ci sta.
Potrebbe invece aiutare l'udienza che il Papa avrà giovedì prossimo con i presidenti delle maggiori organizzazioni ebraiche americane. «Ciò contribuisce a facilitare il dialogo», ci dice monsignor Pietro Parolin, sottosegretario alla Segretaria di Stato. Anche Mordechai Lewy, ambasciatore israeliano presso la Santa Sede, ci tiene a sottolineare gli elementi positivi: «Un secolo fa il padre del movimento sionista, Theodor Herzl, fu invitato dal Papa a convertirsi al cristianesimo e a rinunciare all'idea di uno Stato ebraico. Oggi il Papa benedice Israele».

Corriere della Sera 8.2.09
In Basilicata premiato chi sceglie i due nomi
E la Fiamma dà 1.500 euro ai piccoli Benito e Rachele
di Emanuele Buzzi


MILANO — Una pioggia di euro, nel nome di Benito e Rachele.
L'idea di dare nel 2009 un bonus di 1.500 euro a chi promette di chiamare i propri figli come il Duce e sua moglie trova un inaspettato appeal mondiale. E arrivano più donazioni che richieste. L'iniziativa, lanciata a novembre dal segretario lucano del Movimento Sociale Fiamma Tricolore, Vincenzo Mancusi, sta raccogliendo fondi oltre le previsioni: «Abbiamo a disposizione per questo progetto 516 mila euro — spiega al
Corriere Mancusi —: ci arrivano offerte da ogni parte del mondo.
Una signora da Madrid ha versato 16 mila euro e ci ha comunicato di essere pronta a vendere anche parte del proprio patrimonio per sostenere l'iniziativa». Un successo oltre le attese, perché «l'aspettativa era di garantire una copertura per dieci, venti bambini». Donazioni che arrivano anche copiose dalla Carinzia e dalla Francia, tanto da suscitare l'interesse della Bbc e della Tv di Stato russa. Intanto, giungono le prime richieste per i bonus dai cinque comuni a rischio spopolamento a cui è dedicata l'iniziativa. «Sei coppie ci hanno contattato, due di queste hanno aderito a patto di poter devolvere in beneficenza il bonus». Tra loro qualche nostalgico militante di partito?
Macché: «Sono nomi del tutto sconosciuti al movimento, non sono mai stati tesserati da noi».
Si tratta di coppie tra i 25 e i 35 anni, «con un tenore di vita medio-basso». I futuri beneficiari non provengono da altre regioni né vi sono extracomunitari, ma sono «tutti lucani». E le richieste, ora, giungono da una dozzina di paesi della Basilicata: «Alcuni abitanti si sentono discriminati: probabilmente estenderemo il progetto a tutta la regione fra qualche mese». E forse, oltre al territorio, verrà ampliata anche la rosa di nomi: «Certo, democrazia vuol dire possibilità di scelta: proporrei Giorgio come alternativa a Benito e Assunta per Rachele». Ma Pino Rauti, già leader del Msi e della Fiamma e ora segretario del Movimento Idea Sociale, boccia il bonus bebè lucano: «Trovo che speculare sul nome o sul puro nostalgismo sia incredibile. Sono iniziative fuori dal tempo».

Corriere della Sera 8.2.09
La scomparsa della tristezza
di Vittorino Andreoli


Il romanzo di Françoise Sagan, Bonjour tristesse, esce nel 1954. Un successo strepitoso, l'autrice aveva 18 anni. Il film, diretto da Otto Preminger, è del 1958. Tutto accade appena in tempo, se si pensa che l'imipramina, il primo antidepressivo, nasce nel 1957-8. Questione di pochi mesi e si sarebbe potuto scrivere al posto di Bonjour tristesse, Bonjour Imipramine.
La tristezza è stata ammazzata: i tristi amori, scomparsi. Non esiste più nemmeno come parola, cancellata dall' uso corrente. Morti anche termini come "inquietudine" (l'"inquieto è il mio cuore finché non riposa in Te" di Agostino); come "anelito", "disperazione" (disperata attesa). Tutto è stato buttato dentro depressione e depressione si coniuga necessariamente a antidepressivo. Il demone sconfitto dal Bene dei farmaci, dalla chimica dalle formule magiche uscite dai laboratori scientifici delle grandi industrie farmaceutiche. La lotta tra il male, la depressione e il bene, l'imipramina o gli SSRI (Inibitori della ricaptazione della serotonina).
Sarebbe tempo di occuparsi della uccisione delle parole, delitti che andrebbero puntiti severamente. E' capitato anche per l'angoscia, l'angustia, la trepidazione, il timore, il tremore (interiore). Il grande capolavoro di Kierkegaard
Timore e tremore nasce nel 1843, lontano per fortuna dal 1961: anno della nascita delle benzodiazepine. Soren lo avrebbe dovuto chiamare Anxiety and Benzodiazepines e lo avrebbe dovuto pubblicare sul New Scientist. Nemmeno più regge la distinzione tra ansia e angoscia ( Angst di Freud) che trasmette, anche in immagine, il trovarsi dentro un vicolo stretto che si chiude, come pare accadere per la trachea che non lascia più passare aria e si avverte la fine, la morte.
La tristezza sembra non esistere più, non far parte dei nostri sentimenti, di quella sequela di vissuti esistenziali che pur vicini tra loro hanno caratteristiche differenti, capaci di distinguere ciò che viviamo con partecipazione differente, con un dolore che sa di pietà o di disperazione.
Sono un vecchio psichiatra ormai e mi pare di appartenere alla categoria dei rulli compressori, quelli che rendono tutto piatto: un rullo compressore dei sentimenti. Per semplificare tutto e per rendere possibili i rapporti automatici tra sintomi e farmaci, bisogna certo semplificare. Anche perché qualcuno non si metta a cercare e a trovare il farmaco contro la trepidazione e poi uno specifico per la tristezza .
Tutto è anxiety e depression. Tutto è antidepressivo e ansiolitico.
La vita dei sentimenti si è impoverita e ormai per essere certi di non avere una prescrizione di psicofarmaci bisogna non avvertire più niente, essere sentimentalmente vuoti. Aveva ragione Benedetto Croce: se eliminiamo le parole scompaiono i concetti e oggi — egli direbbe — persino i sentimenti. Forse anche per questo i poeti tacciono, temono di essere tutti curati per anxiety and depression.
Bisognerebbe ripartire dall'uomo, e non dai sintomi e dai farmaci, per fare una nuova psichiatria.

Corriere della Sera 8.2.09
Sanità Le differenze Italia-Spagna: parla il ministro Bernat Soria
«Il caso Eluana? Da noi non sarebbe possibile»
Già raccolti circa 50 mila testamenti biologici


Il testamento biologico in Spagna è realtà dal 2002: il ministro della Sanità racconta i casi più controversi
intervista di Elisabetta Rosaspina

MADRID — I catalani sono stati i primi, e i più numerosi. Da quando la legge sull'Autonomia del Paziente, il 14 novembre del 2002, ha riconosciuto agli spagnoli il diritto di rifiutare l'accanimento terapeutico, 23.000 testamenti biologici sono già stati depositati soltanto al dipartimento della Sanità di Barcellona. E, in 365 occasioni, gli ospedali si sono collegati al registro della Catalogna per consultare le volontà eventualmente espresse da malati terminali non più in grado di manifestarle. A Madrid confluiscono i dati raccolti in tutta la Spagna, e ormai dovrebbero essere quasi 50.000 i testamenti che indicano ai medici la frontiera da non oltrepassare in caso disperato; anche se le statistiche ufficiali, aggiornate a novembre dell'anno scorso, ne segnalano appena 37.500. «Sembrano pochi? Siamo ancora in fase di avvio — spiega il Ministro della Sanità, Bernat Soria — . Nella cultura latina non si pensa volentieri alla morte o allo stato vegetativo, almeno finché non tocca a qualcuno della propria famiglia o agli amici».
O, in Italia, a una ragazza come Eluana...
«Sì, conosco la vicenda. E sicuramente ci sono state anche in Spagna situazioni molto simili, che si sono risolte legalmente senza clamore, senza finire sui giornali, senza dibattiti spettacolari».
Come?
«Limitando lo sforzo terapeutico, come richiede il malato. O un famigliare, se lui non ha più il livello di coscienza necessario per prendere una decisione. In Spagna è illegale solamente il suicidio assistito. Un'iniezione letale, per esempio. Ma tutte le terapie di supporto, dai farmaci alla ventilazione meccanica e all'alimentazione artificiale possono essere interrotte a richiesta. Il problema è che il progresso medico è più rapido di quello legislativo e molti casi non sono contemplati dalla normativa. Per questo è importante poter disporre di volontà scritte lasciate dal paziente, che può modificarle in qualunque momento, anche all'ultimo. Attraverso l'unità centrale del ministero, il suo testamento sarà consultabile da qualunque ospedale spagnolo, nel caso dovesse essere ricoverato in un centro di una comunità autonoma diversa da quella cui appartiene».
Eppure anche la Spagna ha avuto casi controversi, come quello di Ramon Sampedro, tetraplegico per 30 anni, che ha ispirato il film «Mare dentro » di Alejandro Amenabar. O di Inmaculada Echevarria che la distrofia muscolare ha obbligato per 9 anni a vivere attaccata a un respiratore.
«Il caso di Inmaculada Echevarria, che era cosciente e chiedeva l'eutanasia, fu discusso da un comitato etico, di cui io facevo parte come tecnico, e che si pronunciò infine a favore della decisione di staccarla dal respiratore artificiale. Era un comitato composto da specialisti, medici e giuristi, e da profani, perché è importante anche il giudizio dell'uomo della strada. C'era pure un sacerdote e non si oppose».
Restano dilemmi comuni come l'assistenza sanitaria agli immigrati e ai clandestini: che strada segue la Spagna?
«Fin dagli anni Ottanta il sistema nazionale sanitario si è convertito in pubblico e universale. Inizialmente era riservato ai lavoratori stranieri di società estere, ora chiunque riceve assistenza medica. Non chiediamo la nazionalità per un trapianto di cuore, né a chi lo dà né a chi lo riceve. La sanità si finanzia con le tasse, che pagano anche gli immigrati. E il saldo si è rivelato positivo: gli stranieri contribuiscono per il 6,2 per cento e lo utilizzano per il 4,6».
Strano
«No. Gli immigrati sono giovani, si collocano nella fascia d'età più produttiva, tra i 20 e i 40 anni, quella che paga le tasse e richiede poche cure mediche ».
E i clandestini?
«Al pronto soccorso i medici, da noi, non chiedono i documenti. Ma chi è irregolare spesso evita la sanità pubblica per paura di rendersi visibile».

il Riformista 8.2.09
Leggere Darwin per far evolvere la sinistra
di Anna Meldolesi


BICENTENARIO. Marx relegava l'evoluzione all'aspetto fisico, Singer esortava a riconoscere che ciò che è naturale non è sempre giusto. La sinistra dovrebbe applicare alle ideologie un sano evoluzionismo empirico. Così la competizione politico-darwiniana può conservare solo ciò che è socialmente utile. E si perdono per strada false emozioni e verità intellettualmente disoneste.
Sono passati dieci anni da quando il filosofo australiano Peter Singer ha esortato la sinistra a diventare darwiniana, tenendo un seminario alla London School of Economics che poi è confluito in un imperdibile pamphlet (A darwinian left, pubblicato in Italia da Einaudi). Nel frattempo nel nostro paese Darwin è diventato l'icona più bella della resistenza laica, tanto che a volte viene da chiedersi se finirà stampato sulle magliette come Che Guevara. Ma siamo sicuri che a 200 anni dalla sua nascita e a un secolo e mezzo dall'Origine delle specie, la sinistra abbia fatto davvero i conti con il grande Charles? Ne abbiamo parlato con alcuni studiosi - Gilberto Corbellini, Orlando Franceschelli, Giovanni Jervis, Michele Luzzatto e Simone Pollo - e la conclusione è che c'è ancora molta strada da fare.
Una premessa è necessaria: il darwinismo non è di destra né di sinistra. Tant'è vero che accanto alla sinistra darwiniana invocata da Singer c'è la destra darwiniana teorizzata dal filosofo americano Larry Arnhart. Ma l'empirismo darwiniano è un antidoto al velleitarismo e la sinistra apparirebbe meno marziana se iniziasse a considerare l'uomo per quello che è anziché per quello che vorremmo che fosse. A sentire il nome di Darwin affiancato alla parola politica qualche lettore avrà provato un brivido: le metafore della lotta per la sopravvivenza e della selezione del più adatto hanno trovato applicazioni aberranti e hanno finito per proiettare su Darwin un'ombra sinistra (anzi destra). Certi sospetti, però, sono ingenerosi - ad esempio quello di un legame diretto tra darwinismo ed eugenismo - e per rendersene conto non c'è bisogno di ricorrere a raffinate analisi storiche. La convinzione che tutti gli uomini sono uniti da una comune discendenza, tanto per cominciare, è intrinsecamente antirazzista. E poi qualcuno può davvero credere che i nazisti, impegnati com'erano a inseguire il loro ideale di purezza ariana, potessero vedere di buon occhio la parentela con le scimmie? Darwin è stato il primo a escludere che la sua teoria potesse essere usata per giustificare delle politiche sociali di sopraffazione e nel frattempo le nostre conoscenze in campo evoluzionistico sono diventate abbastanza solide da resistere meglio ai tentativi di strumentalizzazione. Cacciamo i fantasmi, dunque, e proviamo a misurarci con la sfida.
Secondo Singer una sinistra darwiniana, che sia capace di vedere l'uomo come un animale evoluto, dovrebbe ammettere innanzitutto che la natura umana non è necessariamente buona e neppure indefinitamente malleabile. Non dovrebbe illudersi che una migliore educazione, i cambiamenti sociali o le rivoluzioni politiche possano mettere fine a ogni conflitto e a ogni problema. Non dovrebbe assumere che tutte le disuguaglianze siano dovute a discriminazioni, pregiudizi, oppressione o condizionamento sociale. Una sinistra darwiniana, semmai, dovrebbe essere interessata a capire la nostra natura più profonda, quella biologicamente determinata, per mettere a punto politiche in grado di funzionare nel mondo reale. Respingere al mittente l'idea che naturale significhi giusto. Aspettarsi che la realizzazione degli obiettivi di giustizia sociale che si prefigge sarà ostacolata dalla tendenza degli uomini a competere, affermarsi individualmente, raggiungere il potere. Dunque dovrebbe provare a stimolare la nostra naturale tendenza a ingaggiare forme di cooperazione reciprocamente benefiche e incanalare la competizione verso obiettivi socialmente desiderabili.
La psicologa inglese Anne Campbell è andata al cuore del problema con una dichiarazione rilasciata recentemente all'Economist: è come se tutti quanti pensassimo che l'evoluzione si è fermata all'altezza del collo, come se riguardasse la nostra anatomia ma non il nostro comportamento. Il filosofo Orlando Franceschelli - autore di Dio e Darwin e La natura dopo Darwin (entrambi pubblicati da Donzelli) - ci ricorda che si tratta di una deformazione antica, che possiamo far risalire agli albori del marxismo ed è particolarmente radicata a sinistra. L'idea che Darwin abbia scoperto le leggi della storia naturale mentre Marx ha spiegato la storia umana è già presente in Engels ma è una concezione che ritroviamo ancora oggi sottotraccia in parte della comunità scientifica e in Italia rischia di essere debordante. Chi parla di basi biologiche dei comportamenti umani (dagli orientamenti sessuali alle devianze sociali) infrange il sogno di perfettibilità dell'uomo e, in genere, la rottura del tabù è accompagnata da un coro di critiche. Eppure negare che abbiamo delle predisposizioni innate, cablate nel nostro cervello dalla selezione naturale, significa ragionare in termini antidarwiniani. Tanto più che persino la nostra libertà rispetto a questi vincoli biologici può essere letta in chiave darwiniana: se fare previsioni sul comportamento umano è tanto difficile è perché il nostro cervello usa le sue intuizioni per acquisire nuove strategie e la sua plasticità ne fa un sistema fondamentalmente evolutivo. A ricordarcelo è Gilberto Corbellini, che ha scritto un libro sull'evoluzionismo in medicina (Ebm. Evolution Based Medicine, Laterza) e ha curato l'edizione italiana di prossima uscita di La cattedrale di Darwin (Fioriti), il testo di riferimento sull'evoluzione della religione scritto da David Sloan Wilson.
Il cuore del darwinismo sta nel principio secondo cui ciò che funziona viene conservato e progredisce, ciò che non funziona va incontro all'estinzione. Vale per le congiunzioni sinaptiche tra i neuroni, per la produzione di anticorpi da parte del sistema immunitario, per i comportamenti animali che possono essere più o meno adattativi. Ed è proprio questo principio di empirismo, basato su tentativi ed errori, che secondo lo psichiatra Giovanni Jervis, andrebbe esteso su scala universale. Anche per scegliere le regole di convivenza più funzionali, specialmente in un'epoca in cui nessuno sa bene a quali principi generali appellarsi. Essere darwiniani in politica significa anche smettere di ragionare per ordini tipologici e categorie immutabili, come sostiene Michele Luzzatto che ha scritto Preghiera darwiniana (Cortina). Un peccato in cui cade spesso la destra, ma anche la sinistra, ad esempio quando assume che gli oppressi siano buoni per definizione.
Fare i conti con Darwin vuol dire anche modificare l'approccio classico alla bioetica, perché la psicologia morale e le neuroscienze hanno dimostrato che i nostri giudizi morali si basano più sulle intuizioni innate che ci portiamo dietro come retaggio evolutivo che su calcoli razionali di danni e benefici. Se il nostro obiettivo politico è massimizzare i secondi e minimizzare i primi, dobbiamo diffidare delle emozioni. Una sinistra darwiniana, infine, dovrebbe ripensare profondamente il proprio rapporto con l'ambiente. Singer, che è considerato uno dei padri del movimento di liberazione degli animali, mette nel suo decalogo il riconoscimento di maggiori diritti per gli altri esseri senzienti e il raggiungimento di una visione meno antropocentrica della natura. Sicuramente nei dieci anni trascorsi dalla pubblicazione del suo libro molte parole d'ordine ecologiste sono entrate nel vocabolario politico di sinistra, ma ha ragione Simone Pollo - autore di La morale della natura (Laterza) - quando nota che questo ambientalismo sacralizzante non è lo stesso invocato da Singer e in un certo senso è persino antidarwiniano.
In definitiva se potessimo mettere un po' più di Darwin nel nostro Dna, probabilmente ci troveremmo con una sinistra migliore. Anche su questo Corbellini, Franceschelli, Jervis, Luzzatto e Pollo sono d'accordo: il padre dell'evoluzione ha dimostrato un'onestà intellettuale quasi eroica, grandi capacità di analizzare le ragioni degli avversari, attenzione per le evidenze empiriche prima che per le interpretazioni ideologiche, instancabile dedizione. Tutte qualità senza le quali una sinistra non può considerarsi evoluta.

sabato 7 febbraio 2009

Assalto al Quirinale
Berlusconi usa Eluana
per muovere un attacco
senza precedenti
Avanti Presidente!

Attacco allo Stato
di Concita De Gregorio

Eluana non c’entra. Questo pregio almeno ha avuto la terribile giornata di ieri. Sgombrare il campo da un residuo per quanto improbabile dubbio: che fosse un’umana convinzione o una fede a guidare l’azione del presidente del Consiglio. Non è così. È convenienza. È una spaventosa battaglia di potere che viene giocata sulla carne di una donna in coma. Eluana è un pretesto. È doloroso, quasi impossibile dirlo. Eppure è così. Eluana non c’entra.
Silvio Berlusconi ha sferrato ieri un definitivo assalto al Quirinale, ha aggredito la più alta delle istituzioni repubblicane, ha minacciato di cambiare la Costituzione se essa sarà di ostacolo alla sua volontà, ne ha additato il custode, Giorgio Napolitano, come si fa col responsabile di un delitto. E ha commesso la più ignobile delle mistificazioni: usare la sofferenza di una persona e di una famiglia come leva emotiva e demagogica per attaccare la più alta carica del Paese e scardinare le regole di uno Stato di diritto: ignorarle, irriderle. Ha trattato come strumenti del suo potere il Vaticano, il governo, il Parlamento. Ha cacciato via con un colpo di mano mesi e mesi di calvario trascorsi da una famiglia tra appelli e ricorsi ad aspettare la decisione definitiva della giustizia. La giustizia ha parlato, ma più forte parla lui. E se qualcuno si oppone, via con un gesto del braccio anche costui, chiunque egli sia.
Non è l’ansia di popolarità che sempre lo guida attraverso il suo strumento-feticcio, i sondaggi, questa volta a muoverlo. I sondaggi dicono: pace per Eluana, rispetto. La maggior parte degli italiani è con Beppino Englaro e condivide la sua pena. La partita è un’altra, molto più grande e decisiva: il potere che lo aspetta, le regole del gioco da scrivere o da riscrivere, la posta in palio il Quirinale. Con qualunque mezzo. Pazienza se la tremenda partita a scacchi di queste ore, una vera corsa contro il tempo, si traduce in un supplizio, in una tortura fisica su un corpo inerme: la fine dell’alimentazione forzata è stata avviata, l’organismo esanime si sta abituando, domani con una legge potrebbe riprendere, poi magari diminuire di nuovo e poi aumentare ancora. Una manopola che cambia le dosi seguendo i singulti della politica. Orribile.
Ha detto, ieri: Eluana potrebbe avere figli. Come, da chi? Ha detto: un’indagine veloce che abbiamo commissionato a un istituto di ricerca - un sondaggio, sì - ci dice che gli italiani pensano che suo padre dopo 17 anni possa essere stanco. Un fior di sondaggio. E dunque? Dunque il padre si faccia da parte, saranno le suore ad occuparsi di sua figlia. Parole irricevibili, inascoltabili. Ma la partita è altrove, appunto. Questi sono dettagli, è l’occasione che si è presentata per la prova di forza. Lo scontro è definitivo e ci riguarda tutti, ci mette tutti in pericolo di vita: vita democratica. Il capo dello Stato si erge con coraggio, con la forza semplice del richiamo alle leggi, come baluardo di un sistema di convivenza fondato sulle regole di tutti e non sulla parola di uno solo. Viviamo un tempo oscuro di violenza sorda. Siamo tutti con Napolitano. I nomi qui accanto sono i primi di una lunghissima serie di persone che hanno cercato questo giornale, ieri, per dirlo. Siamo con lei. Avanti, presidente.

Sit in, appelli e messaggi: l’Italia si schiera con il Quirinale
di Virginia Lori

Il Paese si ribella. Subito in piazza contro il governo e applausi per Napolitano. Sit-in spontaneo di 500 persone sotto Palazzo Chigi. Cori e slogan contro Berlusconi e il Vaticano. «Fini, vieni con noi».
Cori e fischi al governo. Lunghi applausi per Napolitano. E c’è chi grida dal megafono: «Fini, vieni con noi». Contro l’approvazione del decreto sul caso Eluana, l’Italia si mobilita. Palazzo Chigi è «assediato» da un sit-in spontaneo di 500 persone. Donne, uomini, ragazze e ragazzi, delusi, arrabbiati, sgomenti. Ci sono i Radicali e le bandiere del Pd, della Cgil, della Fiom. Simpatizzanti dell’Uaar, l’Unione Atei per lo sbattezzo, l’Associazione Luca Coscioni. Marco Pannella quasi indossa le vesti di vigile urbano e si arrabbia con chi occupa via del Corso, la strada dello shopping vicina al Palazzo dove Silvio Berlusconi ha convocato un Consiglio dei ministri d’urgenza: «Vi sentite rivoluzionari occupando la strada - rimprovera i manifestanti -. Se non tornate sui marciapiedi, lascio il sit-in». Ed ecco che accorrono alcuni sventolando un tricolore listato a lutto.
Le proteste
Non solo Roma. Altre manifestazioni sono state annunciate per oggi in altre città: a Milano alle 17 in piazza San Babila ci sarà il Pd e la sinistra. A Catania è previsto nel pomeriggio con un sit-in della Cgil in difesa della laicità dello Stato. Presidi sono previsti anche davanti alle Prefetture d’Italia, fa sapere il Partito dei Comunisti italiani. In Liguria il segretario regionale del Pd, Mario Tullo, ha convocato una manifestazione davanti alle prefetture di Genova e La Spezia. A Napoli è nato un comitato di sostegno al capo dello Stato: «Io sto con Napolitano» e a Bologna liberi cittadini e il sindacato Cgil hanno organizzato per lunedì due presidi.
Il tam tam
Sms e interventi su Facebook, che solo nel primo pomeriggio di ieri ha raggiunto 6000 contatti fino a sforare oltre i mille: ecco il tam tam. Il gruppo «Rispettiamo la vita di Eluana Englaro», è amministrato da Mina Welby, che dall’altra notte ha cominciato uno sciopero della fame.
Gli slogan
Cantano «Bella ciao» i manifestanti guardati a vista dalle forze dell’ordine e confinati dietro le transenne della piazza. Gridano «Sciacalli, sciacalli: governo italiano, governo vaticano». «Ma quale cura, per Eluana, volete la tortura!». Appesi al collo hanno cartelli che attaccano la scelta «vergognosa» del governo. Su quello di Pannella c’è scritto: «Banda di torturatori». «Pdl, partito dei lefevriani» su quello di Marco Cappato. E grande è il sostegno al presidente della Repubblica che non ha firmato il decreto: «Napolitano non mollare, vai avanti così». Critiche invece al ministro per le Pari Opportunità, Stefania Prestigiacomo, che si era detta contraria ad un intervento dell’esecutivo sul caso Eluana: «Voto all’unanimità, Prestigiacomo dov’eri?». Il leader radicale commenta: «Il decreto annunciato da Berlusconi è una misura penosa e allucinante, corrisponde agli interessi e alla cultura di questo presidente del Consiglio». Gli fa eco Bobo Craxi: «Il governo è entrato a gamba tesa su questa materia così delicata. Hanno trasformato Palazzo Chigi in un ospedale, dove si parla della salute dei cittadini». Rincara la dose Angelo Bonelli (Verdi): «Da parte del governo un comportamento golpista che minaccia il capo dello Stato: o si fa il decreto oppure cambiamo la Costituzione».
Palazzo Chigi
Mentre la protesta monta arriva a piedi Andrea Ronchi, il ministro delle politiche Ue che sottolinea: «Tutti hanno il diritto di manifestare, però considero questi slogan truculenti contro il governo ignobili e falsi. Da questa manifestazione si capisce chi ha a cuore la cultura della vita. Non discutono del decreto legge o del ddl. Cosa c’entra “Bella ciao” con la vita di Eluana? È una brutta speculazione politica», commenta il ministro prima di scomparire nel Palazzo. Ileana Argentin: «Qualunque sia la posizione del partito andrò avanti contro l’arroganza di Berlusconi».

Repubblica 7.2.09
La svolta bonapartista
di Ezio Mauro

Una questione di vita e di morte, una tragedia familiare, un caso di amore e di disperazione tra genitori e figlia che cercava di sciogliersi nella legalità dopo un tormento di 17 anni, è stato trasformato ieri da Silvio Berlusconi in un conflitto istituzionale senza precedenti tra il governo e il Quirinale, con il Capo dello Stato che non ha firmato il decreto d´urgenza del governo sul caso Englaro, dopo aver inutilmente invitato il Premier a riflettere sulla sua incostituzionalità, e con Berlusconi che ha contestato le prerogative del Presidente della Repubblica, annunciando la volontà di governare a colpi di decreti legge senza il controllo del Quirinale. Pronto in caso contrario a "rivolgersi al popolo" per cambiare la Costituzione.
Il Presidente del Consiglio non era mai intervenuto in questi mesi nel dibattito morale, politico e culturale sollevato da Beppino Englaro con la scelta di chiedere la sospensione della nutrizione artificiale per sua figlia, ponendo fine ad un´esistenza vegetativa di 17 anni, giudicata irreversibile da 14. Ma ieri l´istinto populista ha consigliato al Premier di scegliere proprio il dramma pubblico di Eluana, giunto al culmine della sua valenza emotiva sollecitata dalla cornice di sacralità guerresca del Vaticano, per sfidare Napolitano su una questione di fondo: il perimetro e la profondità del potere del suo governo, che Berlusconi vuole sovraordinato ad ogni altro potere, libero da vincoli e controlli, dominus incontrastato del comando politico.
È uno scontro che segna un´epoca, perché chiude la prima fase di un quindicennio berlusconiano di poteri contrastati ma bilanciati e ne apre un´altra, che ha l´impronta risolutiva di una resa dei conti costituzionale, per arrivare a quella che Max Weber chiama l´"istituzionalizzazione del carisma" e alla rottura degli equilibri repubblicani: con la minaccia di una sorta di plebiscito popolare per forzare il sistema esistente, disegnare una Costituzione su misura del Premier, e far nascere infine un nuovo governo, come fonte e risultato di questa concezione tecnicamente bonapartista, sia pure all´italiana.
Il caso Eluana, dunque, nel momento più alto della discussione e della partecipazione del Paese, si è ridotto a pretesto e strumento di una partita politica e di potere. Berlusconi aveva infine ceduto alle pressioni del Vaticano e all´opportunità di dare alla sua destra senz´anima e senza tradizione un´identità cristiana totalmente disgiunta dalle biografie e dai valori, ma legata alla precettistica e alle politiche concrete della Chiesa: così ieri mattina ha annunciato al Consiglio dei ministri la volontà di varare un decreto legge di poche righe, per vanificare la sentenza definitiva della magistratura che accoglie la richiesta di Beppino Englaro, e per impedire la sospensione già avviata ad Udine dell´alimentazione e dell´idratazione per Eluana.
Il Presidente della Repubblica, che già aveva spiegato giovedì al governo l´insostenibilità costituzionale del decreto, ha deciso di assumersi su un caso così delicato una pubblica responsabilità, che non si presti ad equivoci davanti all´esecutivo, al Parlamento, alla pubblica opinione. Dando forma e sostanza all´istituto della "moral suasion", ha scritto una lettera a Berlusconi in cui spiega le ragioni che rendono impossibile il decreto, se si guarda – come il Capo dello Stato deve guardare – soltanto alla Costituzione, ai suoi principi, ai criteri che stabilisce per la decretazione d´urgenza. C´è una legge sul fine-vita davanti al Parlamento, dice Napolitano nel messaggio, c´è la necessità di rispettare una pronuncia definitiva della magistratura, se non si vuole violare "il fondamentale principio della separazione e del reciproco rispetto" tra poteri dello Stato, c´è la norma costituzionale dell´uguaglianza tra i cittadini davanti alla legge, quella sulla libertà personale, quella sulla possibilità di rifiutare trattamenti sanitari. Ci sono poi i precedenti di altri inquilini del Quirinale – Pertini, Cossiga, Scalfaro – che non hanno firmato decreti-legge, e soprattutto c´è la funzione di "garanzia istituzionale" che la Costituzione assegna al Capo dello Stato. Da qui l´invito al governo di "evitare un contrasto", riflettendo sulle ragioni del no del Presidente.
Con ogni probabilità è stato questo richiamo al ruolo di garanzia del Quirinale, unito al gesto pubblico di rendere nullo il decreto del governo, rifiutandosi di emanarlo, che ha convinto Berlusconi a sfruttare l´occasione per aprire la contesa suprema sul potere al vertice dello Stato. In conferenza stampa il Premier ha spiegato la sua scelta sul caso Englaro con motivazioni morali («Non mi voglio sentire responsabile di un´omissione di soccorso per una persona in pericolo di vita») ma anche con giudizi medico-scientifici approssimativi («Lo stato vegetativo potrebbe variare»), e con affermazioni incongrue e sorprendenti: «Eluana è una persona viva, che potrebbe anche avere un figlio».
Ma il cuore del ragionamento berlusconiano è un altro: la lettera di Napolitano è impropria, perché il giudizio sulla necessità e urgenza di un decreto spetta per Costituzione al governo e non al Quirinale, mentre il giudizio di costituzionalità tocca al Parlamento. Non solo, ma il decreto d´urgenza è l´unico vero strumento di governo in un sistema costituzionale antiquato. E se il Capo dello Stato «decidesse di caricarsi della responsabilità di una vita», non firmando il decreto, il governo si ribellerebbe invitando il Parlamento «a riunirsi ad horas» per approvare «in due o tre giorni» una legge stralcio che anticipi il testo in discussione al Senato, bloccando così l´esito della vicenda Englaro. Eluana, tuttavia, è già sullo sfondo, ridotta a corpo ideologico e a pretesto politico. Ciò che a Berlusconi interessa dire è che non si può governare il Paese senza la piena e libera potestà governativa sui decreti legge. «Si può arrivare ad una scrittura più chiara della Costituzione. Senza la possibilità di ricorrere a decreti legge, tornerei dal popolo a chiedere di cambiare la Costituzione e il governo».
La sfida è esplicita, addirittura ostentata. Quirinale e Parlamento devono capire che il governo assumerà il potere legislativo attraverso i decreti legge, della cui ammissibilità sarà l´unico giudice, con le Camere chiamate ad una ratifica automatica di maggioranza e il Capo dello Stato costretto ad una firma cieca e meccanica. Berlusconi vuole decidere da solo, in un´aperta trasformazione costituzionale che realizza di fatto il presidenzialismo, aggiungendo potestà legislativa all´esecutivo nella corsia privilegiata della necessità e dell´urgenza, criteri di cui il governo è insieme beneficiario e giudice unico, senza lasciar voce in capitolo al Capo dello Stato. Un Capo dello Stato minacciato pubblicamente dal Premier, se non firma il decreto per un deficit costituzionale, di «caricarsi della responsabilità di una vita». Qualcosa che non era mai avvenuto nella storia della Repubblica, per i toni politici, per i modi istituzionali, per la sostanza costituzionale: e anche per la suggestione umana.
La risposta di Napolitano poteva essere una sola: con rammarico, il Presidente non firma, perché il decreto è incostituzionale. L´assunzione di responsabilità del Quirinale rende nullo il decreto, e costringe Berlusconi a imboccare la strada parlamentare, sia pure con le forme improprie annunciate ieri. Ma la lacerazione rimane, il progetto di salto costituzionale anche. È un progetto bonapartista, con il Premier che chiede di fatto pieni poteri in nome del legame emotivo e carismatico con la propria comunità politica, si pone come rappresentante diretto della nazione e pretende la subordinazione di ogni potere all´esecutivo. Avevamo avvertito da tempo che qui portavano le leggi ad personam, i "lodi" che pongono il Premier sopra la legge, la tentazione continua di sovraordinare l´eletto dal popolo agli altri poteri. Ieri, Napolitano ha saputo opporsi, in nome della Costituzione. La risposta del Premier è stata che il Capo dello Stato non potrà mai più opporsi, e la Costituzione cambierà.
Ecco perché la data di ieri apre una fase nuova nella vita del Paese, una Terza Repubblica basata su una nuova geografia del potere, una nuova legittimità costituzionale, un nuovo concetto di sovranità, trasferito dal popolo al leader. Si può far finta di non vedere cosa sta accadendo, con l´immorale pretesto della tragedia di Eluana? Ieri la voce più forte a sostegno di Napolitano è stata quella del Presidente della Camera, che sembra ormai muoversi in un perimetro laico e costituzionale, da destra repubblicana. Dall´altra sponda del Tevere, mai così stretto, è venuto il plauso a Berlusconi del Cardinal Martino, presidente del pontificio consiglio Giustizia e Pace, e la sua "profonda delusione" per la scelta di Napolitano di non firmare il decreto. Come se insieme alle chiavi di San Pietro il Vaticano avesse anche la golden share del governo italiano e delle sue libere istituzioni. Certo, sotto gli occhi attoniti del Paese e sotto gli occhi che non vedono di Eluana Englaro ieri è andato in scena uno scambio di favori al ribasso, col Dio italiano consegnato alla destra berlusconiana, come un protettorato, in cambio di una difesa di valori disincarnati e precetti vaticani, da parte di un paganesimo politico servile e mercantile. Dal caso Eluana non nasce una forza cristiana: ma un partito ateo e clericale insieme, che è tutta un´altra cosa.

Repubblica 7.2.09
Giornata nera per la Repubblica
di Stefano Rodotà

È una pessima giornata per la Repubblica. Siamo di fronte ad un conflitto costituzionale davvero senza precedenti.
E cioè ad un governo che sfida il Presidente della Repubblica che si era fatto fermo difensore delle ragioni della Costituzione e dei diritti fondamentali delle persone. La gravissima decisione del Governo di intervenire con un decreto nella vicenda di Eluana Englaro, dopo che Giorgio Napolitano aveva pubblicamente motivato le ragioni del suo dissenso, sovverte gli equilibri istituzionali, apre una fase in cui si va ben oltre quella "tirannia della maggioranza", di cui ci ha parlato in modo eloquente il liberale Alexis de Tocqueville, e si entra in una "terra incognita" dove la partita politica è dominata non dal senso dello Stato, ma dalla brutale volontà del presidente del Consiglio di offrire rassicurazioni agli esponenti di una potenza straniera a qualsiasi costo, anche quello dello sconvolgimento della stessa democrazia costituzionale.
È così, anche se una affermazione tanto netta può sembrare brutale. Con una sola mossa vengono colpiti molti bersagli. La Costituzione, unica carta dei valori democraticamente legittimata, vera "Bibbia laica", viene travolta per porre al suo posto un´etica di Stato attinta ai diktat delle gerarchie vaticane (non a un sentire diffuso nello stesso mondo cattolico, che alla vicenda di Eluana Englaro si è avvicinato con rispetto e pietà). La sovranità del Parlamento viene ulteriormente mortificata, perché ad esso si nega la prerogativa d´essere il luogo privilegiato per discutere e decidere quando si tratta di diritti fondamentali. L´autonomia della magistratura scompare nel momento in cui si cancellano le sue decisioni con un atto d´imperio, creando un precedente devastante per la sopravvivenza stessa di un brandello di Stato di diritto. I diritti fondamentali delle persone non sono più affidati alla garanzia della legge, ma alle pulsioni delle maggioranze.
Ma il bersaglio maggiore è proprio il Presidente della Repubblica, che mai come in questo momento incarna limpidamente la sua funzione di massimo garante della Costituzione. Ispirandosi al principio della "leale collaborazione" tra gli organi dello Stato, Giorgio Napolitano aveva nei giorni scorsi manifestato al governo le sue perplessità su un decreto che, rendendo impossibile l´esecuzione di una decisione della magistratura, si esponeva evidentemente al rischio dell´incostituzionalità. Quando è stato reso noto il possibile contenuto del decreto, che alcune contorsioni interpretative rendevano ancor più inaccettabile (la sentenza n. 334 del 2008 della Corte costituzionale ha chiarito che la competenza in materia spetta alla magistratura), il Presidente della Repubblica ha inviato una lettera al presidente del Consiglio per ribadire il suo punto di vista, con un atto di straordinaria trasparenza e responsabilità, reso necessario proprio dall´eccezionalità della situazione e dall´emozione con la quale viene seguita una vicenda così drammatica. Mai come in questo momento l´opinione pubblica ha bisogno di chiarezza, di comportamenti istituzionali immediatamente decifrabili, e non dell´eterno gioco dei sotterfugi, dei percorsi obliqui. Dopo la forzatura dell´atto di indirizzo del ministro Sacconi, rivelatosi privo di una pur minima base giuridica, diveniva ancor più evidente la necessità di seguire percorsi costituzionalmente impeccabili. La lettera di Napolitano è la testimonianza di un scrupolo istituzionale raro, di un rigore argomentativo al quale nessuno dovrebbe sottrarsi.
Nelle sue dichiarazioni, invece, il presidente del Consiglio rivela una distanza abissale dalla logica costituzionale, una concezione proprietaria della decretazione d´urgenza che, a suo dire, sarebbe completamente sottratta a qualsiasi valutazione da parte del Presidente della Repubblica. Tesi costituzionalmente non proponibile, come nella sua lettera aveva già chiarito il Presidente della Repubblica con indicazioni che Berlusconi volutamente ignora, passando addirittura alle minacce: dichiara, infatti, che, se non gli viene consentito di usare i decreti legge a suo piacimento, cambierà la Costituzione. Così, com´è sua collaudata abitudine, schiera se stesso e le sue troppo docili truppe per un nuovo e devastante assalto alla legalità, seguendo il suo collaudato copione plebiscitario che lo porta addirittura ad ignorare quali siano le procedure per la revisione costituzionale, visto che afferma che ritornerebbe "dal popolo a chiedere un cambiamento della Costituzione". Mai dichiarazione fu più rivelatrice di questa. La Costituzione non è la regola delle regole, ma un impaccio di cui ci si può tranquillamente liberare. La rottura costituzionale è dichiarata.
Così Berlusconi gioca il governo contro il Presidente della Repubblica e si prepara a rendere concreta un´altra minaccia. Visto che il Presidente della Repubblica ha già dichiarato che non firmerà un decreto "incostituzionale", porterà in Parlamento un disegno di legge sul testamento biologico da approvare in tre giorni. Così gioca il governo anche contro il Parlamento, esplicitamente declassato dal Principe a buca delle lettere, a luogo dove la sua volontà dev´essere ratificata senza discussione.
Si apre, dunque, una fase in cui al grande tema del morire con dignità si affianca quello, grandissimo, della difesa della Costituzione. Immediata, allora, diventa la responsabilità di tutte le forze politiche, degli organi istituzionali chiamati ad una pubblica assunzione della responsabilità loro propria, come ha già fatto, dimostrando senso dello Stato e della legalità, il Presidente della Camera, Gianfranco Fini. Responsabilità tanto maggiore in quanto, sia pure attraverso il discutibile strumento dei sondaggi, l´opinione pubblica si è espressa, dichiarandosi per il 79% a favore del morire dignitoso di Eluana Englaro e addirittura per l´83% a favore di una Chiesa che parli alle coscienze e non pretenda di imporre la fede attraverso gli atti del legislatore. Torna qui alla memoria il diverso spirito dei cattolici democratici, che si coglie nelle parole dette da Aldo Moro al consiglio nazionale della Dc all´indomani della sconfitta nel referendum contro la legge sul divorzio, nel 1974, con le quali si metteva in guardia contro le forzature «con lo strumento della legge, con l´autorità del potere, al modo comune di intendere e disciplinare, in alcuni punti sensibili, i rapporti umani»; e si consigliava «di realizzare la difesa di principi e valori cristiani al di fuori delle istituzioni e delle leggi, e cioè nel vivo, aperto e disponibile tessuto della nostra vita sociale». Ma il limite all´intervento del legislatore non trova il suo fondamento solo in ragioni di opportunità. Ricordiamo le parole alte e forti con le quali si chiude l´articolo 32 della Costituzione, dedicato al fondamentale diritto alla salute, dunque al governo della propria vita: «La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». È proprio questo il caso di Eluana Englaro e di tutti coloro che vorranno liberamente decidere sul loro morire. Vi è un confine costituzionale che il legislatore non può varcare � né con decreti legge, né con altri strumenti normativi � oltre il quale compare la persona con la sua autonomia e la sua libertà.
Quei sondaggi, allora, sono un monito e una risorsa. Un monito alle forze politiche, che di quei cittadini dovrebbero essere consapevoli interlocutori. E si tratta di una risorsa che sono gli stessi cittadini a dover utilizzare, levando forte la voce perché la forzatura istituzionale non passi. Nessun dialogo, nessuna collaborazione politica possono svilupparsi in panorama disseminato da macerie istituzionali.

Repubblica 7.2.09
La scelta sofferta di Napolitano "Io devo difendere le istituzioni"
Il capo dello Stato ha appreso del dl dalle agenzie di stampa
di Massimo Giannini

«L´avevo detto subito a Gianni Letta: non vedo proprio le condizioni per un decreto legge. Non ne hanno tenuto conto. Ma io, Costituzione alla mano, non potevo fare altrimenti».
È tardo pomeriggio, e nel suo studio Giorgio Napolitano riflette a voce alta, sul corpo di Eluana trasfigurato in totem simbolico, e ora svilito in vessillo ideologico di un conflitto che non ha precedenti nella storia italiana. Il presidente della Repubblica lo vive con dolore personale, ma anche con la consapevolezza di aver fatto solo il suo dovere istituzionale. «Quel decreto non potevo firmarlo», ripete. Se non al prezzo di «snaturare le funzioni che la Carta costituzionale mi assegna». Non è stata una scelta a cuor leggero. Prima ancora che Capo dello Stato, Napolitano è padre e nonno. Conosce cos´è «il dono dei figli». Cos´è «la scoperta del sentimento più tenero, quello che si prova per i bambini dei propri figli». Cos´è «il senso profondo della famiglia». E dunque sa cosa costa il suo diniego alla firma del provvedimento d´urgenza varato dal governo per impedire la sospensione dell´alimentazione di Eluana. Ma sa anche quanto vale «la natura di garanzia istituzionale» della sua carica. Quanto vale il rispetto dei principi che reggono il nostro Stato di diritto. Quanto vale una corretta dialettica tra l´esecutivo, il giudiziario e il legislativo.
Napolitano aveva capito che il governo avrebbe tentato l´affondo già da giovedì pomeriggio, quando cominciavano a trapelare le prime voci su un possibile decreto d´urgenza. A questo si riferisce il Capo dello Stato, quando dice «l´avevo detto subito a Gianni Letta». Era stato proprio il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, su incarico di Berlusconi, a telefonare al Quirinale nel pomeriggio di due giorni fa, per sondare l´orientamento del presidente su una «prima bozza» del provvedimento. «Non vedo le condizioni», era stata la risposta immediata di Napolitano. Ma il premier non aveva desistito. Poco più tardi gli sherpa di Palazzo Chigi erano tornati alla carica, ipotizzando addirittura una possibile visita di Berlusconi a Napolitano. «Se volete venite pure - era stata la risposta di rito degli uffici del Colle - ma sappiate che il presidente su questo punto è irremovibile: c´è una sentenza della Cassazione, e un decreto legge che stabilisca il contrario costituirebbe una lesione palese dei vincoli costituzionali che legano l´esecutivo al rispetto del principio di intangibilità del giudicato». Ma neanche questo era bastato. E così, alle undici di sera, sul Colle era arrivata l´ultima telefonata di Letta, quasi trionfante, che parlando con il segretario generale del Colle Donato Marra sventolava un parere informale del presidente emerito Valerio Onida come «la soluzione definitiva del problema».
A quel punto Napolitano ha capito che il governo non si sarebbe più fermato, e che sarebbe arrivato fino allo strappo istituzionale. Così, già dalla nottata di giovedì, ha messo al lavoro i suoi tecnici e i suoi collaboratori dell´ufficio legislativo, Salvatore Sechi e Loris D´Ambrosio, per stendere un testo motivato e tirare fuori i precedenti di decreti legge non controfirmati dai suoi predecessori. Così è nata la lettera che ieri mattina il Quirinale ha recapitato a Palazzo Chigi. Una lettera inequivocabile. Che giudica «inappropriato» lo strumento del decreto legge in una materia del genere, ribadisce la mancanza dei requisiti di necessità e di urgenza e il contrasto con gli articoli 3, 13 e 32 della Costituzione, e ricorda i precedenti di Pertini, Cossiga e Scalfaro.
Una lettera indirizzata personalmente al presidente del Consiglio. Una lettera che doveva restare riservata, perché fin dall´inizio del confronto Quirinale e Palazzo Chigi avevano operato all´interno della cosiddetta «moral suasion», che presuppone una collaborazione leale ma informale tra le due istituzioni. Una lettera che, secondo gli obiettivi di Napolitano, poteva offrire «per tempo» al Cavaliere una «via d´uscita» dignitosa. Ma Berlusconi ha deciso di rompere gli equilibri, di rendere pubblica la lettera del Capo dello Stato e di andare alla guerra aperta. C´è un dettaglio che la dice lunga sul fairplay del premier e sulla sua volontà di rompere: il Capo dello Stato ha appreso la notizia dell´avvenuta approvazione del decreto solo dalle agenzie di stampa. «Ho fatto il possibile per evitare tutto questo», riflette ora il presidente. E la chiave di questo suo tentativo di conciliazione preventiva, fa notare, sta nelle ultime tre righe della sua lettera: «Confido che una pacata considerazione delle ragioni da me indicate valga ad evitare un contrasto formale in materia di decretazione d´urgenza, che finora ci siamo congiuntamente adoperati per evitare».
Questa era la «via d´uscita». Il premier ha preferito non imboccarla. Così è deflagrato qualcosa di più di un «contrasto formale». «Ma io non potevo cedere», è il ragionamento di Napolitano. Ne va della sua funzione costituzionale. E ne va della difesa della democrazia parlamentare. E´ questo, soprattutto, che adesso il Capo dello Stato non riesce a tollerare. Berlusconi che dopo il Consiglio dei ministri dice in conferenza stampa «sono pronto a cambiare la Costituzione sul tema dei decreti legge». In questa affermazione c´è lo stravolgimento del dettato costituzionale. E c´è anche la violazione di un «patto» che Napolitano e il premier, proprio sulla decretazione d´urgenza, avevano raggiunto nell´autunno scorso. Era il 7 ottobre 2008, quando il presidente della Repubblica, rispondendo sulla «Stampa» ad un articolo del costituzionalista Michele Ainis che denunciava la trasformazione del Parlamento in votificio, affermava con forza: «Sui decreti legge vigilerò con rigore».
Un´uscita che fece scalpore, e che spinse Berlusconi a recarsi sul Colle il giorno stesso per un chiarimento. Ora Napolitano ricorda che a fine colloquio il premier uscì raggiante, dettando testualmente alle agenzie: «Sui decreti legge il Capo dello Stato non si troverà mai più di fronte a un fatto compiuto». Sono passati solo quattro mesi, e il fatto compiuto è arrivato. Il presidente della Repubblica non poteva lasciar passare quello che chiama «l´ennesimo vulnus» al fondamentale principio della «distinzione e del reciproco rispetto tra poteri e organi dello Stato». È chiaro che nel rapporto tra i due presidenti molto si è consumato e molto è andato perduto, in questa dissennata battaglia sul corpo di Eluana. «Non voglio portare la responsabilità di lasciar morire quella ragazza», ha detto ieri il Cavaliere, quasi a voler scaricare quella responsabilità sul Capo dello Stato. E´ l´ultima offesa che ha voluto «dedicargli». Napolitano non replica. Né ai veleni del Cavaliere, né agli anatemi della Chiesa. Ripete solo una frase: «Mi rammarico molto per quel che ha fatto il governo». E in quel rammarico c´è tutto. L´amarezza di un uomo, ma anche l´asprezza di un politico che, d´ora in avanti, non farà più sconti a nessuno.

Corriere della Sera 7.1.09
Lite istituzionale che divide anche Colle e Santa Sede
di Massimo Franco

Col senno di poi, l'espressione «braccio di ferro» è un eufemismo. Il caso di Eluana Englaro ha provocato una frattura fra Quirinale e palazzo Chigi che delinea una crisi istituzionale grave e dagli esiti imprevedibili. Sancisce qualcosa di più di un'incrinatura nei rapporti fra Giorgio Napolitano ed il Vaticano, finora ottimi. E lascia intravedere una spaccatura parlamentare che ricorda tanto i fronti referendari del passato sull'aborto e sul divorzio. Con il centrosinistra ed i radicali contrari a sospendere le procedure che porteranno alla morte della ragazza; ed il centrodestra di Silvio Berlusconi in lotta con il tempo per approvare una legge che le sospenda.
Il conflitto era in incubazione dall'altra sera, quando sono trapelate le perplessità del presidente della Repubblica sul decreto studiato dal governo. Ma le voci ufficiose secondo le quali Napolitano in realtà non si era pronunciato l'aveva congelato. Ieri mattina, però, la situazione è precipitata. Berlusconi, incalzato dalle gerarchie cattoliche, ha deciso che il decreto andava comunque presentato in Consiglio dei ministri. E mentre il governo stava decidendo, è arrivata la lettera del capo dello Stato che preannunciava il rifiuto di firmare il provvedimento. Doveva essere l'estremo tentativo per evitare lo scontro; e invece ha finito per drammatizzarlo.
Il premier ha sospeso la riunione, e mostrato una missiva che nelle intenzioni era riservata. E alla ripresa, pretendendo e ottenendo l'unanimità, Berlusconi è andato avanti, respingendo la lettera al mittente. Evidentemente, la speranza di bloccare l'iniziativa del governo con un altolà era mal riposta. Quella nota nel bel mezzo della riunione è stata interpretata come un tentativo di «commissariare» il governo. Ed ha permesso a Berlusconi di lanciare una sfida che si è appena iniziata ed accenna a salire di tono.
Finora il premier non aveva mai reagito frontalmente alle critiche di Napolitano. La diplomazia informale fra i due palazzi aveva sempre scongiurato contrasti. Ed erano stati costruiti in tre anni rapporti istituzionali più che cordiali e corretti. Berlusconi ha sferrato l'offensiva scegliendo lui il terreno, meno scivoloso di quello della riforma della giustizia. Il fatto che ad una domanda rivoltagli in conferenza stampa abbia risposto che non è sua intenzione promuovere la messa in stato d'accusa del capo dello Stato è rassicurante a metà. Soltanto affacciare questa ipotesi rende l'idea della piega che rischia di prendere il conflitto istituzionale.
La difesa compatta di Napolitano che proviene dal centrosinistra insiste sulla correttezza della lettera; e sul calcolo a freddo del premier di scontrarsi col Quirinale. Perfino Antonio Di Pietro, che nelle scorse settimane non ha esitato ad attaccare pesantemente il presidente della Repubblica, adesso si schiera con lui insieme all'estrema sinistra ed ai radicali. Ma tanta solidarietà politica dell'opposizione, alla quale si aggiunge quella del presidente della Camera, Gianfranco Fini, potrebbe risultare a doppio taglio. Invece di puntellare e rilanciare il profilo sopra le parti offerto sempre da Napolitano, minaccia di farlo diventare l'icona degli avversari del governo. Un epilogo paradossale, che può aggravare e radicalizzare il conflitto.

Repubblica 7.2.09
Il regista e lo sciopero "anti-italiani" "È ora di pensare a un sindacato europeo"
"Gli operai inglesi? Hanno fatto bene"
"Il razzismo non c´entra nulla in questa storia, siamo un Paese multietnico"
intervista di Carlo Moretti

È il cantore del mondo operaio, il regista socialista e impegnato di Riff Raff, il film che nel 1991 offrì un impietoso ritratto dell´Inghilterra devastata da dieci anni di politica thatcheriana. Ken Loach, 73 anni, figlio di un elettricista, diplomato ad Oxford e con un passato da attore teatrale, valuta a modo suo quanto accaduto a Grimsby, dopo gli scioperi selvaggi degli operai inglesi e il difficile accordo che nei giorni scorsi ha sbloccato il lavoro nella raffineria della Total.
Signor Loach, cosa pensa di quanto avvenuto nel Lincolnshire?
«Sono assolutamente solidale con gli operai inglesi. Il loro sciopero non era affatto un´iniziativa protezionistica contro i lavoratori italiani e portoghesi, come hanno invece tentato di farci credere i media inglesi e il nostro governo. La loro giusta rivendicazione si pone come un invito al mondo politico e sindacale e riguarda la necessità di trovare nuove regole che siano condivise in tutta Europa. È folle e profondamente ingiusto che i lavoratori, da qualunque parte essi arrivino, lascino le loro famiglie nei paesi di origine per accettare contratti meno garantiti e salari inferiori rispetto a quelli in vigore nel paese in cui arrivano per lavorare».
Sta parlando della necessità di nuove regole comunitarie e di una contrattazione del lavoro europea?
«È ormai assolutamente necessaria. I sindacati in Gran Bretagna hanno dimostrato di non avere la minima capacità di analisi politica di quanto sta avvenendo nel mondo del lavoro. Ci sono individualità capaci, sindacalisti bravi anche qui in Inghilterra, ma nel complesso le Unions dimostrano gravissimi limiti di intervento».
Per la verità, nei giorni dello sciopero gli operai inglesi hanno fatto loro lo slogan lanciato qualche mese fa da Gordon Brown: "Lavori inglesi ai lavoratori inglesi".
«Mi lasci dire che quando ha pronunciato quella frase Gordon Brown si è comportato come un pazzo. I lavoratori qui in Inghilterra hanno le idee chiare e hanno capito benissimo qual è invece la posta in gioco: le regole del mondo del lavoro devono essere le stesse per tutti. Il comportamento di qualche operaio isolato non cambia la questione di fondo».
Negli anni Ottanta lei girò una serie di documentari sulla risposta dei sindacati inglesi alle sfide lanciate dal Primo ministro dell´epoca Margareth Thatcher. La debolezza dei sindacati di oggi è un effetto di quella difficile stagione?
«Direi di sì ma non solo, perché quanto accade ricade anche sotto la responsabilità delle politiche sociali e sul lavoro praticate da Tony Blair prima e ora dal Primo ministro Gordon Brown. In Inghilterra il problema delle capacità di leadership non può ancora dirsi risolto».
Quanto è accaduto ha fatto dubitare molti sull´antica vocazione inglese a proporsi come modello di società aperta, solidale e multietnica. È forse finita un´era?
«Non credo affatto che sia finita un´era. L´Inghilterra, e non solo una città cosmopolita come Londra, è e resterà aperta e solidale, e continuerà a proporsi per molto tempo come modello di società multietnica. Lo ripeto, il problema è che l´Europa è ufficialmente unita nelle istituzioni attraverso le quali si rappresenta ma resta nei fatti ancora troppo divisa per ciò che riguarda le regole, soprattutto quelle che devono valere nel mondo del lavoro».
Farebbe un film sul caso della Total di Lindsay?
«Ci sono tanti altri temi che al momento mi appassionano ma forse sì, potrei raccontarlo in un film».
A cosa lavora in questo momento?
«Ho appena terminato la post-produzione di una commedia molto divertente sul mondo del calcio e sui suoi fan ossessivi in cui recita l´ex calciatore del Manchester United, il francese Eric Cantona, un uomo davvero speciale, molto simpatico. C´è anche una descrizione del mondo marginale dei tifosi più radicali ma per una volta ho voluto dedicarmi a un tema leggero, del resto sarebbe troppo stressante affrontare sempre temi impegnativi. Soprattutto, non si può assolutamente fare sempre lo stesso film».

Più concentrate o più creative, le nostre facoltà dipendono anche dalle tonalità di cui ci circondiamo L´ultimo studio, dopo Aristotele, Newton e Goethe, arriva dalla British Columbia. E dal marketing

Repubblica 7.2.09
Rosso o blu, così reagisce la mente
Pubblicata su Science, la ricerca ha utilizzato anche gli spot pubblicitari
di Elena Dusi

La bottega di un orologiaio dovrebbe avere pareti rosse. Per scrivere un nuovo romanzo occorre iniziare dipingendo la stanza di blu. Il colore che ci avvolge riesce infatti a cambiare il modo in cui il cervello funziona. Come in un gioco di specchi, un ambiente color cielo senza nubi predispone la mente a creatività, pensiero positivo, ricerca della novità. Il rosso favorisce invece l´attenzione: un pericolo è forse incombente. Meglio concentrare le risorse del cervello per cogliere ogni dettaglio ed evitare distrazioni.
Più accurate o più creative, le nostre facoltà dipendono anche dalle tonalità che ci circondano. L´ultimo studio su mente e colori ci arriva da una studiosa di marketing, la professoressa dell´università canadese della British Columbia Juliet Zhu. I suoi esperimenti sul rosso e sul blu si concentrano sulle capacità di concentrazione e di inventiva di un gruppo di studenti. Le misurazioni sono state condotte attraverso dei test su computer. Ma l´articolo appena pubblicato su Science è solo l´appendice di un fenomeno naturale che ha intrigato giganti come Aristotele, Newton, Schopenhauer e Goethe. Lom scrittore tedesco, che era anche pittore, nella sua Teoria dei colori se la prese molto con Newton che aveva ridotto la luce in tutte le sue vesti a un fenomeno fisico, smontabile e ricomponibile con un semplice prisma. "Il suo errore - scrisse Goethe riferendosi al rivale - è stato quello di fidarsi della matematica anziché delle sensazioni degli occhi".
Dall´800 a oggi lo spettro dei colori è finito nel prisma di molti esperimenti scientifici. Nel 2007 una ricercatrice dell´università di Newcastle pubblicò su Current Biology che il blu è in assoluto il colore preferito dal genere umano, ma le donne preferiscono una tonalità tendente verso il rosa. Nell´ateneo di Durham contarono le vittorie degli atleti impegnati nei match di pugilato, tae kwon do e lotta greco romana delle Olimpiadi di Atene. Chi indossava la maglietta rossa era riuscito a sconfiggere l´avversario vestito di blu nel 60% degli incontri: percentuale troppo alta per essere casuale, conclusero i due antropologi inglesi autori dello studio apparso su Nature nel 2005. Inevitabile che si arrivasse a toccare il tema dell´attrazione sessuale. Infatti Andrew Elliot dell´università di Rochester misurò il colore che più è in grado di favorire l´eccitazione negli uomini. Senza troppe sorprese, a ottobre del 2008 scrisse sul Journal of Personality and Social Psychology che le donne più attraenti sono quelle vestite di rosso. E che gli uomini sono del tutto inconsapevoli di essere guidati nelle loro scelte dalla tonalità di un vestito.
Che i colori abbiano un potere di condizionamento subliminale è anche la tesi di Juliet Zhu, che non a caso fra i test da sottoporre ai suoi volontari ha inserito una serie di messaggi pubblicitari. Lo spot sul dentifricio capace di prevenire la carie (che permette cioè di sfuggire un rischio) si è rivelato più efficace con uno sfondo rosso. Se invece la promessa era quella di ottenere denti più bianchi (previsione di un´azione positiva) i volontari lo trovavano più convincente con il contorno blu.
Gli altri test che hanno coinvolto gli oltre 600 volontari (quasi tutti studenti della stessa British Columbia) prevedevano per esempio la correzione di alcune bozze o la memorizzazione di una lista di parole. In questo caso, lo sfondo rosso del computer si è rivelato in grado di migliorare il punteggio degli studenti del 31%. Quando si trattava invece di escogitare tutti i possibili usi di un mattone simile al Lego, o di progettare un nuovo giocattolo partendo da un gruppo di forme geometriche, gli studenti con gli occhi nel blu hanno raggiunto performance migliori. «Certo - ha ammesso alla fine la Zhu - non tutti i popoli associano il rosso al pericolo. In Cina, che è il paese da cui vengo, è legato all´idea della gioia. Ed è probabile che i risultati dell´esperimento possano risultare molto diversi da luogo a luogo».

Corriere della Sera 7.1.09
Il reportage Il governo di Kabul ammette: «Le figlie restano proprietà delle tribù»
La prigione delle ragazze afghane: schiave, spose forzate, suicide
di Andrea Nicastro

HERAT — Sorride dolce Leilah, l'assassina. Arrossisce Fatemeh, l'adultera. Si nasconde Guldestan che in un paio di settimane ha perso tutto: papà, mamma, tre sorelle, l'intera rete familiare, probabilmente il futuro. Ha visto il padre uccidere la madre perché sospettava che sotto il burqa covasse il tradimento; ha visto lo zio uccidere il padre per vendicare l'onore della sorella; lei stessa è diventata assassina sparando a quello stesso zio che aveva adottato lei e le sorelle. L'uomo dormiva dopo averla stuprata. Guldestan è in prigione, le sorelline, dai 3 agli 11 anni, in orfanotrofio.
La maggior parte delle detenute del carcere minorile di Herat non sono arrivate a tanto. Sono colpevoli di aver disobbedito alla legge tribale e alla tradizione. Ragazze in fuga da matrimoni forzati con uomini che non avevano mai visto, più o meno vecchi, danarosi o poligami, comunque decisi a portarsi a casa manodopera gratuita e compagnia notturna. Sono ragazze pagate al padre-padrone 5-6 mila dollari oppure tre tappeti, otto capre e due paia di scarpe, come nel caso di Sarah. Ragazze che a 13-14 anni si sono trovate una mattina il mullah in casa che chiedeva loro se volevano fidanzarsi, il padre che le minacciava e l'aspirante sposo che le blandiva con un vestito nuovo in mano. «La famiglia prepara tutto in segreto — racconta Chiara Ciminello, cooperante per l'Ong italiana Intersos — e senza capire quel che succede le bambine si ritrovano fidanzate. A quel punto dire "no" diventa reato».
Se l'adulterio viene consumato, in teoria, la condanna è ancora la lapidazione prevista dalla Sharia, ma il governo di Kabul ha imposto una moratoria. Gli ospedali funzionano abbastanza da verificare la verginità e, se non c'è stato tradimento, la condanna per la ribellione di una minorenne varia da 3 mesi a un anno di carcere. Il peggio viene dopo. Le famiglie non vogliono riaccogliere chi, con la disobbedienza, ha portato il disonore. La Ong inglese World Child lavora a Herat per aiutare proprio il reinserimento delle reprobe. Ma il problema è enorme. Lo stigma della rivolta mette queste ragazze ai margini della società. Chi non ha una rete familiare attorno non può lavorare, affittare casa, vivere sola. L'esito della ribellione per amore o libertà diventa così la prostituzione.
Meglio morire. Lo pensano in tante. Così a Kabul le fidanzate a sorpresa o le giovani spose si danno fuoco al ritmo di due-tre a settimana. In tutto l'Afghanistan si calcola che le suicide siano minimo una al giorno. Herat, forse la provincia più sviluppata del Paese, non fa eccezione. Nel 2006, una (rara) Commissione governativa ha contato una media di 7 torce umane al mese. «Il nodo è che le figlie sono considerate una proprietà. Prima dalla famiglia del padre poi da quella del marito — spiega ancora Ciminello —. A Herat la situazione è particolare a causa della vicinanza all'Iran. Mentre tra i sunniti, soprattutto se pashtun, le cifre sono importanti, tra gli sciiti di influenza iraniana l'uso di pagare la moglie è quasi simbolico. A volte lo sposo firma una sorta di caparra, la shirbaha,
per cui in caso di divorzio si impegna a risarcire la donna con una buona uscita che le permetta di tirare avanti. Ma quel che manca in entrambi i gruppi è il rispetto della volontà delle ragazze». In attesa di un piano dalla nuova Casa Bianca di Barack Obama, per sopravvivere all'Afghanistan la comunità internazionale si affida alla triade «sicurezza, ricostruzione, governabilità ». L'ordine non è casuale: consistente è l'impegno mi-litare, scarsi i soldi per la ricostruzione, insufficienti i risultati in materia di legalità. La supremazia resta alle tradizioni tribali più ancora che religiose. A Herat il riformatorio è una delle principali realizzazioni in sette anni di presenza internazionale. Costruito nel 2007 dagli ingegneri militari del Prt italiano (Provincial Recostruction Team) con 2 milioni di euro, all'80 per cento europei. E' una bella scatola con alcuni problemi, il riscaldamento per dirne una, ma le mura da sole non incidono sui rapporti sociali.
«Il nostro è un impegno a lungo termine — dice il generale Paolo Serra, comandante della Nato per la Regione Occidentale afghana —. I successi ci sono. Abbiamo costruito 34 scuole, convinto molti capi villaggio a far studiare anche le bambine, aumentato del 20 per cento le elettrici per le prossime presidenziali. Però le condizioni di partenza sono quelle che sono. Dubito sceglieranno da sole chi votare, piuttosto seguiranno le indicazioni dei capi clan. La strada per una democrazia come la intendiamo noi è lunga».