lunedì 9 febbraio 2009

l'Unità 9.2.09
Credenti e non credenti
di Francesco Piccolo


Per cercare di allontanare lo sguardo, bisogna dire che tra non credenti e credenti (per metterla nel modo più morbido possibile) c’è una differenza fondamentale: i non credenti hanno la capacità di accettare e comprendere il punto di vista di chi non la pensa come loro, e cioè un pensiero su cui non sono assolutamente d’accordo; non difendono meno la propria posizione, ma si sforzano di capire quella altrui. E capire vuol dire una cosa semplice: analizzare, cercare di spiegarsi un altro punto di vista. Che porta, di conseguenza, ad argomentare. Un atteggiamento, questo, molto «cristiano». I credenti, invece, non coltivando alcun dubbio e avendo la certezza non soltanto di essere dalla parte giusta, ma che chi sta dalla parte sbagliata deve essere riportato sulla retta via, non hanno bisogno di argomentare, ma tendono all’anatema, all’urlo verso gli infedeli. Questo non comporta mai un senso umano verso chi non è tuo simile, e nella discussione non mette in atto persuasioni filosofiche pacate, ma un sermone sopra le righe, in cui è difficile vedere un barlume di coscienza. In fondo, la differenza che viene fuori risulta essere la seguente: che nella folla, il non credente sa vedere il dolore e i diritti di un uomo solo tra tutti, e cioè di chi è coinvolto in prima persona. Il credente sa parlare solo alla folla. Cosa è più umano? (Tutto ciò, non comprende il sondaggio su favorevoli e contrari alla sospensione dell'alimentazione, che è una delle cose più aberranti lette negli ultimi anni).

l'Unità 9.2.09
In piazza per la Costituzione
il Pd unito senza i teodem
di A.C.


Piazza Santi Apostoli, domani sera alle 18. È qui che il Pd si ritroverà unito, dopo essersi con tutta probabilità diviso in Parlamento sul merito del ddl sul caso Eluana. Parlerà solo Oscar Luigi Scalfaro, in difesa della Costituzione e in solidarietà al suo successore Giorgio Napolitano. Dalla piazza salirà un fermo no ai colpi di mano di Berlusconi sulla Costituzione. Una piattaforma che tiene insieme tutti i democratici, anche quelli che voteranno sì al ddl del governo che vuole impedire l’interruzione dell’alimentazione ad Eluana. Rosy Bindi sarà in piazza, come lei Pierluigi Castagnetti, Luigi Lusi e Enzo Carra. Spiega Bindi: «È fondamentale tenere separate le due vicende, la manifestazione e il ddl. In piazza ci vado per difendere la Costituzione ed esprimere solidarietà al Capo dello Stato». Così anche Castagnetti: «Nel Pd siamo tutti d’accordo su un punto: Berlusconi ha utilizzato questo caso drammatico per creare un conflitto istituzionale e delegittimare il Capo dello Stato. Per questo bisogna reagire, senza riserve». Enzo Carra è prudente: «Se la manifestazione entrasse nel merito del caso Englaro avrei i miei dubbi, ma visto che non è così non vedo ragioni per non partecipare: siamo sotto un bombardamento costituzionale, intanto bisogna uscirne. Poi ricominceremo a cercare una posizione comune nel Pd sul merito delle questioni etiche...». Anche Lusi è tiepido: «Se è indifesa della Costituzione mi sembra lodevole...». Paola Binetti probabilmente non andrà: «Sono totalmente d’accordo con la solidarietà al Quirinale e contraria all’idea di Berlusconi di cambiare la Costituzione. Ma su Eluana il premier ha fatto la cosa giusta». Luigi Bobba, anche lui teodem, non sarà in piazza: «Sono fuori Roma, e penso che corriamo il rischio di tirare Napolitano per la giacca, di farlo apparire di parte. Ma Berlusconi sbaglia a usare un caso così doloroso per tentare di stravolgere la Costituzione».

l'Unità 9.2.09
Il paese si ribella
Sit-in nelle città con la Costituzione


In mano la Costituzione e decine di persone raccolte in silenzio per Eluana, per suo padre Beppino e il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Il paese si ribella e scende in piazza. A Bologna un sit-in spontaneo di 150 persone. Un tam tam partito via e-mail e su facebook e tutti in piazza con in mano un frammento dell’articolo 32 della Costituzione italiana: «La legge non puo’ in nessun caso violare i limiti posti dal rispetto della persona umana». Nessun coro ma tante proteste fra le parole dei presenti. Su tutti è uno il bersaglio preferito: Silvio Berlusconi, reo di «andare contro la nostra Carta, pronto a qualsiasi conflitto per i scopi più biechi».
A Firenze su alcuni tazebao del sit-in c’era scritto: «La nostra Costituzione non ha bisogno di lifting. Ogni suo articolo non fa una piega». Tra i manifestanti, esponenti locali Pd, Ps, radicali, Associazione Coscioni, Sinistra universitaria, Unaltracittà/unaltromondo (gruppo consiliare in Palazzo Vecchio), Sinistra e Cgil di Firenze.
La Consulta di bioetica onlus promuove per martedì un sit-in nazionale «per Eluana Englaro e lo stato di diritto». I promotori hanno già raccolto centinaia di adesioni e spiegano: «Vogliamo far sentire la voce di chi ritiene che l’autonomia delle persone è inviolabile, così come la laicità dello Stato».

l'Unità 9.2.09
Con Napolitano. Sono migliaia le adesioni


Migliaia e migliaia di adesioni continuano ad arrivare a sostegno dell’appello lanciato dall’Unità «Siamo con il Presidente della Repubblica». Primi firmatari Furio Colombo, Umberto Eco, Pietro Ingrao, Umberto Veronesi, Rita Levi Montalcini. Nell'appello si denuncia la «situazione senza precedenti nella vita giuridica e politica italiana» che si è creata dopo l'attacco del premier Berlusconi a Napolitano. Per aderire basta collegarsi al sito dell’Unità.

«Per la prima volta nella vita di questa Repubblica libera, democratica e garantita dalla Costituzione il potere esecutivo, per iniziativa del presidente del Consiglio, ha deciso di abolire una sentenza legittima, definitiva, non modificabile della giurisdizione al suo più alto livello. Il Capo dello Stato ha fatto sapere al governo che l’atto sarebbe stato incostituzionale, e ciò per ragioni obiettive, palesi, verificabili nella nostra Costituzione e tipiche di ogni ordinamento democratico. Il governo ha deciso di ignorare l’obiezione. Il presidente della Repubblica, in nome della Costituzione di cui è garante, non ha firmato il decreto. Ciò determina una situazione senza precedenti nella vita giuridica e politica italiana. Il governo Berlusconi ha deciso di aggravarla annunciando che, in luogo del decreto, presenterà una legge, chiedendo al Parlamento di votarla subito. La legge, anche se approvata, avrà la stessa natura anti-costituzionale. Tutto ciò su una materia delicata come la condizione di Eluana Englaro , con una violenta invasione di campo nel dolore di una famiglia e nei diritti civili delle persone coinvolte. Sentiamo perciò il dovere di essere accanto al presidente della Repubblica, custode e garante della Costituzione. Chiediamo agli italiani di unirsi al Capo dello Stato e alla Costituzione in questo grave momento nella vita della Repubblica».

l'Unità Lettere 9.2.09
Il giuramento del medico
di Michela De Capitani


Io non denuncerò mai di aver prestato la mia assistenza ad un immigrato senza permesso di soggiorno! Giuriamo, noi medici, “di curare tutti i pazienti con eguale scrupolo e impegno indipendentemente dai sentimenti che essi ispirano e prescindendo da ogni differenza di razza, religione, nazionalità, condizione sociale e ideologia politica ... di prestare assistenza d'urgenza a qualsiasi infermo che ne abbisogni"."...In qualunque casa io entri (Ippocrate, V sec A.C) andrò per giovamento del malato, astenendomi da ogni azione dannosa...qualunque cosa io vegga o oda durante la cura...la tacerò, come cosa che non è permesso dire". Sono un medico, il mio lavoro, la mia passione è curare gli ammalati, non verificare se siano o meno regolari.
Elisabetta Errani Emaldi

Repubblica 9.2.09
Il veleno nichilista che anima il regime
di Gustavo Zagrebelsky


Viviamo un momento politico-costituzionale certamente particolare. Questo non è in discussione, sia presso i fautori, sia presso i detrattori del regime attuale. Non sarà fuori luogo precisare che, in questo contesto, la parola regime vale semplicemente a dire – secondo il significato neutro per cui si parla di regime liberale, democratico, autoritario, parlamentare, presidenziale, eccetera – "modo di reggimento politico" e non ha alcun significato valutativo, come ha invece quando ci si chiede, con intenti denigratori espliciti o impliciti, se in Italia c´è "il regime". Ma che tipo di regime? Questa è la domanda davvero interessante.
Alla certezza – viviamo in "un" regime che ha suoi caratteri particolari – non si accompagna però una definizione che dia risposta a quella domanda. Sfugge il carattere fondamentale, il "principio" o (secondo l´immagine di Montesquieu) il ressort, molla o energia spirituale che lo fa vivere secondo la sua essenza. Un concetto semplice, una definizione illuminante, una parola penetrante, sarebbero invece importanti per afferrarne l´intima natura e per prendere posizione.
Le definizioni, per la verità, non mancano, spesso fantasiose e suggestive. Anzi sovrabbondano, a dimostrazione che, forse, nessuna arriva al nocciolo, ma tutte gli girano intorno: autocrazia; signoria moderna; egoarchia; governo padronale o aziendale; dominio mediatico; grande seduzione; regime dell´unto del Signore; populismo o unzione del popolo; videocrazia; plutocrazia, governo demoscopico. Si potrebbe andare avanti. Si noterà che queste espressioni, a parte genericità ed esagerazioni, colgono (se li colgono) aspetti parziali e, soprattutto, sono legate a caratteri e proprietà personali di chi il regime attuale ha incarnato e tuttora incarna.
Ed è una visione riduttiva, come se si trattasse soltanto di un affare di persone; come se, cambiando le persone, potesse cambiare d´un tratto e del tutto la trama della politica. Invece, prassi, mentalità e costumi nuovi si sono introdotti partendo da lontano; sistemi di potere e metodi di governo sono stati istituiti. Un regime non nasce di colpo, va consolidandosi e forse andrà lontano. È un´illusione pensare che ciò che è stato ed è possa poi passare senza lasciare l´orma del suo piede. La questione che ci interroga è quella di cogliere con un concetto essenziale, comprensivo ed esplicativo di ciò che di oggettivo è venuto a stabilizzarsi e a sedimentare nella vita pubblica e che opera e opererà in noi, attorno a noi e, forse, contro di noi. Se, parlando di regime oggi, è inevitabile che il pensiero corra a ciò che si denomina genericamente "berlusconismo", dobbiamo tenere presente che qui non si tratta di vizi o virtù personali ma di una concezione generale del potere che si irraggia più in là.
Colpisce che tutti i tentativi per arrivare a cogliere un´essenza – giusti o sbagliati che siano – si fermino comunque ai mezzi: denaro, televisione, blandizie e minacce, corruzione, seduzione, confusione del pubblico nel privato e viceversa, impunità, sondaggi, eccetera. Ma tutto ciò in vista di quale fine? Proprio il fine dovrebbe essere ciò che qualifica l´essenza di un regime politico, ciò che gli dà senso e ne rende comprensibile la natura. Se non c´è un fine, è puro potere, potere per il potere, tautologia. Ma qui il fine, distinto dai mezzi, è introvabile.
A meno di credere a parole d´ordine tanto generiche da non significare nulla o da poter significare qualunque cosa – libertà, identità nazionale, difesa dell´Occidente, innovazione, sviluppo, o altre cose di questo genere – il fine non si vede affatto, forse perché non c´è. O, più precisamente, il fine c´è ma coincide con i mezzi: è proteggere e potenziare i mezzi. Una constatazione davvero sbalorditiva: un´aberrazione contro-natura, una volta che la politica sia intesa come rapporto tra mezzi e fini, rapporto necessario affinché il governo delle società sia dotato di senso e il potere e la sua pretesa d´essere riconosciuto come legittimo possano giustificarsi su qualcosa di diverso dallo stesso puro potere.
A parte forse l´autore della massima "il potere logora chi non ce l´ha", nessuno, nemmeno il Principe machiavelliano, ha mai attribuito al potere un valore in sé e per sé stesso. «Il fine giustifica i mezzi» è uno dei motti del machiavellismo politico; ma che succede se «i mezzi giustificano i mezzi»? È la crisi della ragion politica, o della politica tout court. È il trionfo della "ragione strumentale" nella politica. Siamo di fronte a qualcosa di incomprensibile, inafferrabile, incontrollabile, qualcosa all´occorrenza capace di tutto, come in effetti vediamo accadere sotto i nostri occhi: un giorno dialogo, un altro scomuniche; un giorno benevolenza, un altro minacce; un giorno legalità, un altro illegalità; ciò che è detto un giorno è contraddetto il giorno dopo. La coerenza non riguarda i fini ma i mezzi, cioè i mezzi come fini: si tratta di operare, non importa come e con quale coerenza, allo scopo di incrementare risorse, influenza, consenso.
Il politico adatto a questa corruzione della vita pubblica è l´uomo senza passato e senza radici, che sa spiegare le vele al vento del momento; oppure l´uomo che crede di avere un passato da dimenticare, anzi da rinnegare, per presentarsi anch´egli come uomo nuovo. È colui che proclama la fine delle distinzioni che obbligherebbero a stare o di qua o di là. Così, si può fingere di essere contemporaneamente di destra e di sinistra o di stare in un "centro" senza contorni; si può avere un´idea, ma anche un´altra contraria; ci si può presentare come imprenditori e operai; si può essere atei o agnostici ma dire che, comunque, "si è alla ricerca"; si può dare esempio pubblico della più ampia libertà nei rapporti sessuali e farsi paladini della famiglia fondata sul santo matrimonio; si può essere amico del nemico del proprio amico, eccetera, eccetera. Insomma: il "politico" di successo, in questo regime, è il profittatore, è l´uomo "di circostanza" in ogni senso dell´espressione, è colui che "crede" in tutto e nel suo contrario.
Questo tipo di politico conosce un solo criterio di legittimità del suo potere, lo stare a galla ed espandere la sua influenza. Il suo fallimento non sta nella mancata realizzazione di un qualche progetto politico. Se egli vive di potere che cresce, anche una piccola battuta d´arresto può essere l´inizio della sua fine. Non sarà più creduto. Per questo ogni indecisione, obbiettivo mancato o fallimento deve essere nascosto o mascherato e propagandato come un successo. La corruzione e la mistificazione della dura realtà dei fatti e della loro verità è nell´essenza di questo regime. Il rapporto col mondo esterno corre il rischio di essere "disturbato". L´uomo di potere, di questo tipo di potere, non vede di fronte a sé alcuna natura esterna, poiché diventa ai suoi occhi egli stesso natura (naturalmente, lo si sarà compreso, si sta parlando di "tipo ideale", cioè di un modello che, nella sua perfezione, esiste solo in teoria).
Abbiamo iniziato queste considerazioni col proposito di cercare una definizione che, in una parola, condensi tutto questo. L´abbiamo trovata? Forse sì. Non ci voleva tanto: nichilismo, inteso come trasformazione dei fatti e delle idee in nulla, scetticismo circa tutto ciò che supera l´ambito (sia esso pure un ambito smisurato) del proprio interesse. Chi conosce la storia di questo concetto sa di quale veleno, potenzialmente totalitario, esso abbia mostrato d´essere intriso. Ciò che, invece, si fa fatica a comprendere è come chi tuona tutti i giorni contro il famigerato "relativismo" non abbia nessun ritegno, addirittura, a tendergli la mano.

Repubblica 9.2.09
Prelati d'attacco e politici in ginocchio a 80 anni il Concordato è "invisibile"
Dall'etica al fisco, l´irresistibile avanzata della Chiesa
Mercoledì ricevimento in ambasciata: cardinali a fianco del governo
Le rivendicazioni ecclesiastiche arrivano a condizionare le nomine nella tv di Stato
di Filippo Ceccarelli


Gli anniversari ballano, gli anniversari scherzano e quindi a volte finiscono precisamente per cadere, certi anniversari, nel momento della verità. Dopodomani 11 febbraio il Concordato compie dunque 80 anni.Ma non è mai apparso così malridotto. Nulla probabilmente cambierà nella rappresentazione della ricorrenza: dicasteri vaticani imbandierati, soporifere cerimonie e dotte articolesse commemorative, bisbigli, tartine e cordiale ipocrisia al ricevimento nella Palazzina Borromeo, sede dell´ambasciata italiana presso la Santa Sede, là dove ogni anno porpore e grisaglie si ritrovano a celebrare, insieme all´antica sapienza del potere, le risorse dello stile diplomatico che vela e camuffa gli eventi, le fatiche, le magagne, le inimicizie.
Ma chi abbia un filo di onestà non può stavolta, nei giorni di Eluana, far finta che tra Cesare e Dio, o per lo meno fra i loro pretesi rappresentanti, le cose filino proprio lisce. Mai come oggi il Vaticano è parte in causa, perciò si scopre, attacca, ripiega, cerca alleati; mai come adesso l´Italia sembra così compiutamente immersa in una turbinosa realtà post-lateranense. Ma quali stati "indipendenti e autonomi"! Non solo sbiadiscono le istantanee di Mussolini e Craxi, la firma antica del 1929 e quella ormai pure remota del 1984, ma di colpo suonano vuote anche espressioni come "laicismo" o "interferenze". L´altro giorno il giornale dei vescovi parlava di "assassinio" e davanti alla chiesa di Gesù operaio hanno fatto scoppiare una bomba carta: cosa si vuole di più per riflettere sulle condizioni del Concordato? Sconcordato, piuttosto: un patto rotto, un accordo in evidente stato di confusione, un attrezzo inservibile, nel migliore dei casi un simulacro. Non lo si dice qui per polemica, al modo dei radicali. Sono i fatti degli ultimi anni che parlano da soli, e danno la misura dello strappo, degli strappi: fecondazione assistita, istruzione privata, astensionismi, vittimismi, aborto, unioni civili, pressioni, anatemi. Il contenzioso si allarga mese dopo mese, c´è sempre chi ci marcia e lo estende all´Ici, alle moschee, o all´immigrazione e a persino a una sorta di franchigia ecclesiale nella legge sulle intercettazioni telefoniche. Le sacre immagini sugli stendardi e i torpedoni al Family day, il Pontefice impedito di entrare all´università, i politici in preghiera e in passerella a piazza San Pietro, l´evocazione di "diavoloni frocioni" a piazza Navona. E baci berlusconiani all´anello pontificio, genuflessioni, commistioni di ruoli: l´altro giorno nella cappella Sistina, per un concerto in onore del fratello del Papa, c´era Gianni Letta - e vai a sapere se stava lì, e poi pure in foto sull´Osservatore romano, come sottosegretario alla presidenza o come Gentiluomo di Sua Santità. Si sono smarriti i confini, ma questo complica le cose. Il sindaco di Roma invoca la benedizione papale sugli atti del Comune; il Cardinale Segretario di Stato celebra all´interno della Camera una messa "d´inizio legislatura"; la Binetti arruola il Signore nei risultati d´aula. E allora dal balcone di Montecitorio si sventola per polemica la bandiera vaticana; al concertone del primo maggio si prende di mira il Papa; al Gay Pride si oltraggiano i sacramenti. Così va, ritorsione dopo ritorsione. E allora ecco Ratzinger nel video di Storace, poi sulle bandiere di Borghezio, "saremo le guardie svizzere del Pd" promettono i teo-dem, e "Il Vaticano tifa Pera" recita, testualmente, un titolo de Il Tempo, giornale tutt´altro che laicista. No, davvero non si invidiano i potenti italiani e i dignitari pontifici che nel bel mezzo della storia angosciosissima di Eluana e dell´aspro conflitto che ne deriva s´incontreranno sotto la loggia del Sansovino per poi sedersi sulle poltroncine di raso rosso e spalliera dorata, come se nulla fosse. Come se davvero al giorno d´oggi bastasse un Concordato inserito a sorpresa da Togliatti nella Costituzione e trionfalisticamente revisionato 25 anni orsono da una partitocrazia già ansimante, per rimettere a posto le cose: là dove il vuoto ideologico sembra già colmato da un pieno di generici e sospetti "Valori" che ognuno, oltretutto, si tira spudoratamente dalla propria parte. Eh no, stavolta è diverso, stavolta non mancano spunti per una quantità e varietà di conflitti. Codice da Vinci, crocifisso nelle aule, presepi identitari e creativi, ora di religione, scritte sui muri, filmati sui preti pedofili, commemorazione degli zuavi, rane crocifisse. Non c´è vicenda che non implichi un disagio, una frizione, un cortocircuito fra Stato e Chiesa. In provincia hanno ricominciato a litigare sulle ore in cui sciogliere le campane; la Littizzetto disturba oltre il Portone di bronzo; le nomine Rai debbono tenere presente i gusti dei tele-prelati; si torna a parlare dei peccati e pure del diavolo; sembra uno scherzo onomastico, una trovata felliniana per far colpo sugli stranieri, ma adesso c´è perfino il segretario della Cei che di cognome fa Crociata: monsignor Crociata, sul serio. Serve a nulla rimpiangere la Dc, che per quasi mezzo secolo ha fatto da cuscinetto alle richieste vaticane. Al corto di idee e di progetti il centrodestra indossa i paramenti, si attacca alla mantella del Papa; mentre fin troppe volte il centrosinistra è paralizzato, subalterno, confuso. Tanti anni fa, per indicare un´auspicabile distanza, Giovanni Spadolini lanciò l´immagine del "Tevere più largo". Oggi non è nemmeno più stretto. Sembra un fiume in piena, grigio, gonfio e anche un po´ pauroso - come quello che s´è visto a Roma nel novembre scorso.

Repubblica 9.2.09
L'arrembaggio alla Costituzione
di Andrea Manzella


Negli ultimi quindici anni, l´unica vera e grande sconfitta del centro-destra avvenne il 25 e il 26 giugno del 2006: quando il 61,7 per cento degli elettori bocciò il progetto di revisione costituzionale del terzo governo Berlusconi.
Uno scarto di voti che non si era mai verificato prima, non si verificherà mai dopo. Chi percorse l´Italia, meno di tre anni fa (non di tre secoli fa) ricorda la modestia di quella campagna per il «no»: passaparola, riunioni mai troppo affollate, partiti distratti. Vi era però anche una accorata partecipazione cittadina, l´attenzione di chi rischia di perdere la propria carta d´identità. Queste qualità si capirono poi, in quella data d´estate che sembrava proibitiva e senza vincolo di quorum: quando andò a votare invece il 53,6% dei cittadini iscritti.
Sarebbe bene che di quei giorni e di quei conti si ricordasse il presidente del Consiglio che dichiara oggi una seconda guerra contro la Costituzione. Momento e terreno sono stati scelti con il consueto istinto. La strapotenza numerica parlamentare non vede flessioni di sondaggi. Il campo è quello vasto delle incertezze bioetiche. È in corso un lacerante dramma di coscienza popolare. Non c´è qui neppure l´ombra del pervasivo conflitto di interessi. Eppure, eppure.
Quando, com´è fatale, il casus belli si sarà allontanato e separato dal conflitto istituzionale di fondo. Quando le alleanze stipulate sulla tragedia di Udine rifiuteranno di estendersi ad un avventuroso disegno di potere senza garanzie. Quando questo, tra poco avverrà, riappariranno allora, con la loro forza impeditiva (al di là di quello che potrà fare l´opposizione parlamentare) le debolezze culturali ed etico-nazionali di un tale progetto di arrembaggio alla Costituzione. Vecchi e nuovi alleati obietteranno. Sarà chiaro a tutti che dal predellino di un´auto si possono cancellare vecchi partiti e inventarne uno nuovo. È più difficile cancellare una Costituzione e imporne una diversa.
Sarebbe bene però che di quelle giornate del giugno 2006 si ricordasse anche chi oggi ha il diritto-dovere dell´opposizione costituzionale (un aggettivo tradizionale che acquista ora una intensità di significato che non aveva prima). Non per cullarsi nell´illusione che alla fine avrà la meglio il radicamento popolare di istituzioni e libertà.
Nell´anno appena trascorso, il grande seminario popolare per i sessant´anni della Costituzione ci ha infatti detto, al di là della inevitabile retorica di certe celebrazioni, che abbiamo a che fare, nella vita politica e di ogni giorno, con una Costituzione problematica, con una Costituzione inquieta che chiede nuove letture: magari più radicali di nuove riscritture. Non è un testo che ci può fare addormentare tranquilli nel suo tran tran, nelle sue formule felici, ma è una «sentinella» che ci impone di stare svegli sui suoi principi e sui suoi equilibri: perché i pericoli sono cresciuti e le antiche difese si sono abbassate.
Ecco perché un´opposizione che voglia far fronte a questa nuova guerra, deve darsi una regola, un programma, un suo pensiero costituzionale, appunto. Che questo debba partire dalle garanzie è cosa da tempo evidente: non per impedire ma per consentire il «governo democratico» dello stato di eccezione permanente in cui viviamo. Di questo programma, di questo pensiero non si è vista finora traccia alcuna.
Da questo punto di vista, il presidente del Consiglio ha reso un servizio utile al paese. Rivelando il suo disegno punitivo della Costituzione, ha forse rotto le uova nel paniere di tanti suoi accorti negoziatori. Ma certo ha ridicolizzato quell´opposizione che, malata di cecità istituzionale, si accingeva a scambi ineguali, a patti leonini (con il leone), a cambiali in bianco.
Da oggi tutto si svolge in clima di grande chiarezza: dopo che il premier ha rovesciato il tavolo degli equivoci, la trattativa sulle regole può ricominciare. Ma da oggi peseranno irreversibilmente: perché legate, per contrappasso, al ricordo irreversibile dell´attuale dramma alcune cose.
La prima cosa è che il premier rifiuta la garanzia del capo dello Stato. La rifiuta nella forma riservata che era ormai consuetudine repubblicana (Luigi Einaudi, chiuso il suo mandato, aveva raccolto, nel 1956, quei suoi «pareri» in un libro famoso: «Lo scrittoio del presidente»). La rifiuta come controllo di legittimità preventiva sul più «pericoloso» dei poteri del governo: decreti per fare norme legislative che entrano in vigore, prima ancora che il Parlamento se ne possa occupare.
La seconda cosa è che il premier ritiene che con un atto normativo urgente di governo sia possibile impedire l´attuazione, su una vicenda umana, di sentenze definitive emesse da tre ordini di giudici (civili, amministrativi, costituzionali) sulla base di principi della Costituzione, dopo un «giusto processo» iniziato nel 1999. Senza che il legislatore sia in tutto questo tempo intervenuto.
La terza cosa è che il premier considera che il metodo naturale per governare sia quello per decreto. Il ruolo del Parlamento viene dopo, a norme fatte e a rapporti giuridici iniziati sulla loro base.
La quarta cosa è che il premier contesta la stessa legittimazione originaria della Costituzione, scritta «con la presenza di forze che hanno guardato alla Costituzione sovietica come a un modello». Certo: si tratta di una vecchia manipolazione, ricorrente come i «protocolli di Sion». Ed è inutile ricordare che l´influenza «sociale» dei cattolici e dei social-comunisti poté manifestarsi solo nei «compromessi» delle norme programmatiche della Costituzione: non certo sulle garanzie istituzionali. È inutile anche ricordare che quando la Costituzione fu votata, i social-comunisti erano già stati espulsi dal governo De Gasperi: e anzi era cominciata la loro esclusione «strutturale» dai governi del paese. È inutile pure ricordare che il 22 dicembre 1947 votarono per la Costituzione: Pietro Nenni e Palmiro Togliatti, ma anche Luigi Einaudi e Alcide De Gasperi; Giorgio La Pira ed Epicarmo Corbino; Aldo Moro ed Amintore Fanfani; Benedetto Croce e Giuseppe Dossetti. È inutile ricordare tutto questo perché sono cose scritte anche nel più elementare dei libri di scuola. Se il premier preferisce invece la contrapposizione del non-vero è perché capisce che solo la collaudata tecnica propagandistica anticomunista può aiutarlo a tirar via dall´aria del paese un elemento, come la Costituzione, che vi è entrata quale fattore costitutivo e vissuto di cittadinanza: anche per chi non l´ha mai letta.
Ecco, con queste avvertenze, il dialogo può anche ripartire. Gli ultimi fatti italiani ci dicono, anzi, quanta misura di sicurezza istituzionale si debba ancora ricercare assieme.

Repubblica 9.2.09
Le paure della Chiesa
Cronache e testimonianze raccontano i problemi aperti fra lo stato italiano e il vaticano. il nuovo libro di Politi
In viaggio fra le tensioni del cattolicesimo
di Edmondo Berselli


Dal referendum sulla fecondazione all´angoscioso dibattito sul caso di Eluana Englaro
L´ammissione di Ratzinger: "Si fa fatica a farsi capire nel mondo odierno"

Basta leggere le primissime pagine del nuovo libro di Marco Politi, La Chiesa del no (Mondadori, pagg. XII-366, euro 19, prefazione di Emma Bonino), per registrare quanto sia ampia la rassegna dei problemi aperti, fra lo Stato italiano e il Vaticano, e quanto siano aspri gli attriti: «A ottant´anni dal Concordato il bilancio è opprimente». Segue l´elenco, che comincia con gli ostacoli sollevati per impedire l´approvazione del divorzio breve, prosegue con «l´invasione di campo» all´epoca del referendum sulla legge relativa alla fecondazione assistita, e tocca tutti gli altri punti caldi (anzi caldissimi, in questi giorni di dibattito angoscioso sul caso Englaro): opposizione al testamento biologico, contrarietà alle regolamentazione delle coppie di fatto, demonizzazione delle unioni gay, sostegno all´obiezione di coscienza sulla pillola del giorno dopo, campagna contro la pillola abortiva Ru-486. Qualche pagina più in là, l´autore concluderà che con papa Ratzinger si è osservata in Italia una «sistematica invasione della sfera politica».
Basterebbero questi argomenti per concludere, come in effetti fa Politi: «Gli italiani chiedono testimonianza, non comandi dal pulpito. Si prova disagio quando il vertice ecclesiastico pretende di dire l´ultima parola su tutto, arrogandosi una triplice corona quale rappresentante di Dio, interprete della Ragione e al tempo stesso della Natura». Tuttavia Politi è un giornalista, e anzi uno studioso, troppo fine per accontentarsi delle recriminazioni. Poche righe oltre, ecco esplicitato il cuore del suo libro: «La verità è che la Chiesa ha paura di una società in cui è esplosa la soggettività di massa, una società in cui si sono andati affermando il gusto, l´abitudine, il diritto di impostare la propria esistenza secondo la propria coscienza e le proprie convinzioni».
Su questo immutabile sfondo morale, l´aborto è sempre un crimine, tanto da indurre Wojtyla a paragonarlo all´Olocausto, suscitando proteste nelle comunità ebraiche, mentre l´omosessualità e gli omosessuali in quanto tali non esistono (si danno soltanto «radicate tendenze omosessuali», che evidentemente si potrebbero sradicare). È proprio questo il punto centrale del lungo reportage di Politi, che affronta la cronaca attraverso testimonianze personali e coinvolgenti racconti diretti. Infatti risulta cruciale il resoconto dell´intervista del 2004 all´allora cardinale Joseph Ratzinger, il quale ammette nella conversazione che «il cristianesimo ha difficoltà a farsi capire nel mondo odierno, specialmente in quello occidentale, americano ed europeo. Sul piano intellettuale, il sistema concettuale del cristianesimo appare molto lontano dal linguaggio e dal modo di veder moderno».
Era questo, per la verità, il tema di fondo su cui si era esercitata, fra grandi speranze e grandi frustrazioni, la riflessione del Concilio. A quasi mezzo secolo di distanza dal Vaticano II, ciò che appare ancora in gioco è il rapporto fra il cattolicesimo, con la sua pretesa di universalità, e la modernità in tutte le su espressioni. Oggi, dice Ratzinger, la Chiesa cattolica, dopo aver attraversato «le onde delle ideologie», dal marxismo al liberalismo, «fino al libertinismo», deve fare i conti con«una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le proprie voglie».
La risposta della Chiesa, sulla scia di Ratzinger, è la dottrina dei «principi non negoziabili», che comporta una totale intransigenza di fronte al mutamento culturale e sociale. In sostanza, di fronte a un passaggio d´epoca, l´antropologia cristiana rifiuta qualsiasi evoluzione. Il matrimonio considerato intoccabile, il celibato sacerdotale, il rifiuto dell´eutanasia (e il ripristino di misure post mortem come il rifiuto della sepoltura cristiana nel caso Welby) hanno comportato fra l´altro una stridente competizione con il governo del «cattolico adulto» Prodi, accusato dal quotidiano della Cei Avvenire di avere lavorato, con i Dico, a favore di nuovi «format sociali».
Ma nelle partecipate, coinvolgenti � e giornalisticamente obiettive � cronache di Politi, più che il dilemma politico di una Chiesa orientata a sostenere chi opportunisticamente la sostiene, si avverte spesso il senso quasi di una disperazione nel cattolicesimo di base, come se fra la chiesa di vertice e l´ecclesia dei fedeli che si interrogano, dei preti sposati, di chi vive in prossimità con la sofferenza, ci fosse ormai un´incomunicabilità che trova scampo soltanto in rari momenti di comprensione umana, e talvolta di superiore carità, fra gerarchie e poveri sacerdoti di periferia, a contatto con il dolore, la mutevolezza dei rapporti sociali e il "peccato". Fino a concludere, con le parole di Enzo Bianchi, che «oggi ci sono più laici che chiedono il confronto con noi cattolici che cattolici che chiedono il confronto con i laici». C´è amarezza in questo finale, ed è l´amarezza di chi dice a se stesso: «Noi cristiani non possiamo non ascoltare il mondo, non ascoltare l´umanità e non rispondere loro».

l'Unità 9.2.09
«Scioperiamo, non si può scaricare la crisi sui lavoratori»
intervista a Carlo Podda di Felicia Masocco


Referendum, Oggi e domani seggi aperti negli uffici pubblici per la consultazione sui contratti del comparto firmati da Cisl e Uil. Se tra i lavoratori, iscritti e non, passasse il sì anche la Cgil si adeguerà.

Le misure varate dal governo contro la crisi «sono quelle di questa estate». «Non siamo in presenza di una sottovalutazione del momento – sostiene il leader di Fp-Cgil Carlo Podda -. Il governo ha deciso di affrontarlo attraverso una riduzione della spesa sociale, dell’occupazione, scaricando il costo sulle spalle dei lavoratori e dei pensionati». Inoltre «sta cogliendo questa occasione per dare un colpo definitivo al mondo del lavoro e alla sua rappresentanza. È una scelta, non un caso». Per questo venerdì Fp e Fiom Cgil scioperano e manifestano a Roma.
Non le sembra un paradosso uno sciopero con questa crisi?
«È una domanda che nasconde il tentativo di mostrare la crisi come una calamità naturale, indipendente dall’agire dei governi e delle forze economiche: quasi si aspetta che passi o che si risolva da sola. Non è possibile. Il governo francese, per avendo varato misure per 20 miliardi, si è preso il più grande sciopero generale unitario degli ultimi 20 anni. Vale anche per gli inglesi che hanno annunciato sciopero e manifestazione a Londra. In Germania hanno già scioperato in vari settori. Non mi pare marginale l’idea che bisogna lottare per ottenere un cambio di indirizzo nella politica economica. Semmai l’eccezione è l’Italia».
L’alleanza tra i lavoratori pubblici e quelli dell’industria è inedita, che cosa li unisce?
«Lo sciopero ha due parole d’ordine recuperate dalla piattaforma Cgil che ci sono sembrate le più unificanti non solo tra pubblico e privato, ma tra lavoro precario e non. La continuità del rapporto del lavoro, innanzitutto: chiediamo di non licenziare i precari e chiediamo ammortizzatori sociali per tutti, che l’indennità di cassa integrazione venga riportata all’80% della retribuzione sapendo che per molti anni questa voce del bilancio Inps è stata lautamente in attivo e ha finanziato altre spese dello Stato. E chiediamo una reale misura di sostegno al reddito, con interventi fiscali sul salario nazionale, aumento delle detrazioni e restituzione del fiscal drag. Peraltro due misure che un anno fa portarono Cgil, Cisl e Uil a dichiarare uno sciopero al governo Prodi. Sono indispensabili ora come allora».
E allora non c’era il disagio sociale che si avverte ora...
«Peraltro... comunque questo non è solo uno sciopero contro, un incrociare il malcontento che pure crescerà. Diamo voce al dissenso, ma lo sciopero è molto sindacale, con una piattaforma moderata volta ad ottenere risultati. Le risorse si possono trovare».
E i nuovi contratti? A detta dei firmatari, daranno grandi risposte al lavoro e al Paese. Voi cosa vedete?
«Due aspetti inquietanti: il primo è il passaggio dallo stato sociale allo stato bilaterale che vuol dire riprodurre un sistema corporativo e diseguale tra realtà lavorative. Per la sanità ad esempio, le aziende più ricche, faranno forme più ricche di sanità e quelle più povere se le faranno più povere. E sotto c’è un’idea di sindacato sempre meno contrattuale e sempre più gestore di servizi. Secondo, la questione della democrazia, con la beffa che si vuole limitare il diritto di sciopero. Si vuole introdurre una soglia del 50% di rappresentatività, mentre per poter validare un contratto non c’è nessuna maggioranza di cui tener conto. Curioso no?».
Eppure anche il Pd fa fatica a starvi dietro e si è diviso. Lei lo ha votato e sostenuto. Che cosa gli chiede?
«Vorrei che avesse un proprio progetto e che decidesse di volta in volta sulla base di quello. Il non averlo li costringe a fare una scelta che è comunque di schieramento: quando si decide di non andare a una manifestazione non è che si è equidistanti, si è d’accordo con quelli che a quella manifestazione non vanno. Penso che il Pd debba cambiare rotta. Lo dico da elettore: non sono affatto soddisfatto di come affronta i temi del lavoro».

l'Unità 9.2.09
Satira e fede. Il nuovo film del regista di «Borat» nelle sale a partire dal 13 febbraio
Censura. Le locandine già coperte da un’associazione cattolica con la scritta «ateo no»
Arriva «Religiolus», il film castiga-bigotti tra crociate annunciate, risate e polemiche
di Gabriella Gallozzi


Arriva nelle sale venerdì prossimo ma - dato il clima - si attendono già polemiche: è «Religiolus», che mette alla berlina tutti gli integralismi, predicatori folli, ebrei, islamici. Si ride, ma qualcuno si arrabbia...
E pensare che a Torino è stato il «caso» del festival morettiano: ha fatto sganasciare il pubblico, soprattutto quello dei giovani, disposti anche a fare la fila per vederlo. Ma senza lasciar traccia di polemiche. Forse gli ultracattolici non leggono i giornali, o magari non seguono le cronache cinematografiche. Oppure sono troppo occupati ad interferire nel dramma privato della famiglia Englaro. Fatto sta che soltanto ora, all’apparire dei manifesti per le strade (l’uscita è il 13 febbraio per la Eagle Pictures) la fantomatica associazione di stampo cattolico, «Vera libertà», ha sferrato la sua crociata ricoprendo i manifesti del film con le scritte «ateo no».
ORGOGLIO LAICO
L’attacco è contro Religiolus, la doc-comedy di Larry Charles, il regista del fenomeno Borat che stavolta se la ride di gusto proprio dei fondamentalismi religiosi, siano essi cattolici, musulmani o ebraici. Nel poster dello «scandalo», infatti, sono rappresentate le tre celebri scimmiette che indossano i simboli delle tre religioni monoteiste. Avendolo già visto al festival di Torino possiamo assicurare che Religiolus non ha davvero nulla di dissacrante nei confronti dei credo religiosi. Anzi, è al contrario un lucido atto di accusa, orgogliosamente laico, nei confronti delle infinite strumentalizzazioni della fede, economiche o «politiche» che siano. Quello, insomma, che proprio in questi giorni è sotto gli occhi di tutti in Italia a proposito del caso Eluana. E che il governo Berlusconi cavalca con sprezzo della democrazia arrivando persino a definire «bolscevica» la nostra Costituzione. Scatenando, così, folle di fanatici capaci di fare muro contro l’ambulanza che dalla clinica di Lecco doveva trasportare Eluana a Udine.
Proprio come ci racconta, nel film, il comico Usa Bill Maher, impietoso castigatore di bigotti e facinorosi della fede, mentre ci conduce in un lungo viaggio - da Gerusalemme fino al cuore del Vaticano in piazza San Pietro - attraverso le credenze, le ipocrisie e i business religiosi. Molto redditizzi soprattutto negli Usa. Dove, lo stesso Bush non ha certo esitato a chiamare in causa il dio dei cattolici come «paladino della libertà» e quindi promotore numero uno dell’occupazione dell’Iraq.
Con piglio alla Michael Moore (producono gli stessi di Fahrenheit 9/11), Maher ci svela l’enorme giro d’affari che ruota intorno agli infiniti predicatori americani. Quelli tutti agghindati d’ori che predicano la povertà svuotando i portafogli dei «poveri di spirito». Esilaranti le interviste a quanti si sentono davvero l’incarnazione dei nuovi messia. Via così nei parchi a tema - molto in voga negli Usa - dove i turisti pagano per veder flagellare un povero cristo che arranca sotto al peso della croce. Proprio come nel fortunatissimo La passione di Mel Gibson. Oppure eccoci nei musei «creazionisti» dove l’obiettivo è quello di negare la teoria evoluzionista di Darwin per «dimostrare scientificamente» la nascita dell’uomo da Adamo ed Eva. Come un novello Candide, Maher davanti a prelati e predicatori propone sempre la stessa domanda: «Ma davvero l’uomo è nato da una costola di Adamo?». Le risposte sono un catalogo di comicità. Si ride molto in Religiolus e non si risparmia nessuno: né ebrei, né cattolici, né musulmani. Per questi ultimi, poi, Maher ha gioco facile nel mettere alla berlina i fanatismi anche più violenti. Mentre per fustigare gli ebrei - le sue radici - bastano le coversazioni con l’anziana madre, rigorosa osservante della fede di Abramo. Il montaggio alla blob rimanda un divertito spirito surreale, politicamente scorretto. Il film, in attesa in questi giorni del visto di censura, è possibile che rischi qualche divieto. Memori però del «caso» Codice da Vinci, c’è da dire che in certi casi avere contro il Vaticano significa contare su pubblicità gratuita a livello planetario.

Corriere della Sera 9.2.09
Inediti. Ritrovata all'Archivio di Stato nelle carte di Renzo De Felice l'inchiesta dell'agente segreto Lada Mocarski
Ordine da Milano: eliminate il Duce
Esecuzione di Dongo, un rapporto Usa smentisce Cadorna
di Dino Messina


«Dopo poche parole scambiate al telefono, Valerio diventò molto eccitato e, senza cerimonie, ordinò che ognuno partisse. Il repentino cambio di atteggiamento di Valerio potrebbe deporre nel senso che la telefonata da Milano aveva alterato la sua originaria missione. È solo una ipotesi ma è molto probabile che Valerio avesse ricevuto, poi, l'ordine di uccidere Mussolini e un certo numero di gerarchi fascisti catturati a Dongo. D'altro canto è difficile spiegare la sua precedente acquiescenza ai piani del Comitato di Como di condurre vivo Mussolini a Milano».
Siamo nel cuore di un racconto sulla fine di Benito Mussolini e della Repubblica sociale italiana sinora sostanzialmente inedito, a parte qualche sporadica citazione. Autore di questa inchiesta lunga cinquecento pagine, scritta quasi in presa diretta per conto dei servizi segreti statunitensi (Oss, Office of Strategic Services, antesignano della Cia) è il colonnello Lada Mocarski, vice presidente della G. Henry Shroder Banking Corporation a New York, che a partire dal 1941 fu inviato come agente segreto in Italia, Medio Oriente e Francia. Al momento della cattura di Mussolini Mocarski si trovava in Svizzera. Nel giorno di piazzale Loreto (29 aprile 1945) si trasferì nel Nord Italia, dove cominciò un lavoro di investigazione durato sei mesi: intervistò l'arcivescovo di Milano Ildefonso Schuster, che aveva promosso l'incontro del 25 aprile tra Mussolini e i rappresentanti della Resistenza, il generale Raffaele Cadorna, comandante del Corpo volontari della libertà, l'azionista Leo Valiani, il partigiano "Pedro", a capo del gruppo che fermò la colonna in cui si nascondeva Mussolini travestito da tedesco, il prefetto di Como e tanti altri testimoni. Gli unici che Mocarski non riuscì a intervistare furono i quattro direttamente coinvolti nell'esecuzione il pomeriggio del 28 aprile 1945 a Giulino di Mezzegra: Giuseppe Frangi, detto "Lino", coinvolto pochi giorni dopo in un fatale «accidente»; Luigi Canali, detto "Neri", scomparso misteriosamente; gli altri due, Walter Audisio ("Valerio") e Aldo Lampredi ("Guido") si rifiutarono di collaborare.
Qualcuno potrebbe obiettare che ci troviamo di fronte all'ennesima versione sulla morte del Duce (se ne contano sinora almeno 22), invece non è così. Quel documento è interessante perché non indulge sugli ultimi istanti della vita di Mussolini e di Claretta Petacci, ma ricostruisce i movimenti del Duce, un uomo che aveva perso la bussola, incapace di giudicare con lucidità i consigli che gli venivano dati, e cerca di capire come si giunse alla decisione dell'esecuzione. Il rapporto di Mocarski è tanto più interessante perché è stato ritrovato nel fondo Renzo De Felice dell'Archivio di Stato. Quelle cinquecento pagine sarebbero servite al maggiore studioso del fascismo come una delle fonti per il volume conclusivo della biografia mussoliniana, che purtroppo uscì incompiuto a causa della prematura scomparsa dello storico, il 25 maggio 1996. Al testo di Mocarski, recuperato dagli archivi della Yale University, De Felice fece riferimento nel 1995 in un passaggio del libro-intervista con Pasquale Chessa, Rosso e Nero
(Baldini&Castoldi): «La vera storia della Repubblica di Salò è, in gran parte, ancora ignota — sostenne De Felice —, perché è anche la storia dei servizi segreti che operarono in Italia durante la guerra... C'erano persino gli svizzeri, oltre agli inglesi, ai tedeschi, agli americani... Questi ultimi un po' più pasticcioni degli altri, di gruppi di agenti segreti, intorno a Mussolini, ne avevano due. Dopo la guerra fu stilata, da uno dei due, una relazione segreta di 500 pagine, che contiene molte nuove verità».
«Verità» di cui è possibile avere un assaggio nel prossimo numero di Nuova Storia Contemporanea:
la rivista diretta da Francesco Perfetti, in uscita il 20 febbraio, pubblica ampi estratti del documento con l'introduzione di Michaela Sapio, ricercatrice dell'università del Molise che ha individuato e studiato le carte Mocarski.
È lo stesso agente segreto a indicare «due importanti aspetti» della sua lunga inchiesta: «Quali fossero i piani di Mussolini nel suo viaggio verso Como e Menaggio nonché nel suo successivo tentativo di raggiungere la sponda orientale del lago di Como»; la «legittimità dell'ordine su cui fu fondata la decisa azione del Colonnello Valerio culminata con l'esecuzione di Mussolini e dei suoi ministri ». Quanto al primo, continua Mocarski, «nessuna prova circa le intenzioni e i piani di Mussolini è stata raggiunta durante l'indagine e forse non esisteva alcun piano definito. È infatti ovvio che i movimenti del Duce fossero il risultato di improvvisazioni non appena le condizioni di fatto cambiavano». Sulla «legittimità dell'ordine di esecuzione » l'agente americano scrive: «Il Clnai decise che Mussolini, se catturato, avrebbe dovuto essere immediatamente ucciso. Questa decisione era in qualche modo informale e la stessa seduta in cui fu deliberata non fu rivestita di alcuna formalità, forse perché l'eventualità del suo arresto sembrava remota... A giudicare dal comportamento di Valerio, non appena costui venne a Como sulla strada per Dongo, sembrerebbe certo che i suoi originari ordini non includevano... di procedere a una immediata esecuzione. Fu solo dopo aver ricevuto una telefonata da Milano... che la sua missione si tramutò in un'esecuzione di morte. La questione ruota intorno a chi fosse dietro al nuovo ordine di Valerio. È ragionevole ipotizzare che il generale Cadorna fosse almeno una delle persone coinvolte». Una ricostruzione che contraddice la versione ufficiale del generale Cadorna, secondo il quale "Valerio" era partito con ordini precisi.
Per capire l'importanza del rapporto Mocarski bisogna considerare le divisioni degli Alleati sulla sorte del Duce: il presidente Franklin D. Roosevelt era per un processo pubblico, mentre il britannico Winston Churchill era più favorevole all'eliminazione immediata, imbarazzato probabilmente dai suoi passati rapporti con il dittatore italiano.
Renzo De Felice (1929-1996). Sotto: busti di Mussolini all'Eur (Ap)

Corriere della Sera 9.2.09
Le lezioni di Emanuele Severino
Identità e destino forme in divenire
di Armando Torno


L'attenzione di Severino si concentra sul termine «tautótes» partendo da Aristotele

Ci sono parole che nel tempo hanno avuto il compito di ingentilire problemi irrisolti, questioni alle quali nessuno mai diede una risposta definitiva. Jean Haudry, professore di sanscrito a Lione, notò che il termine logos cela numerose contraddizioni dello spirito greco. E forse analoga situazione va cercata in un vocabolo carico di storia filosofica e di congetture matematiche: identità. Per i greci era tautótes. Non è semplice narrarne l'odissea, giacché essa iniziò due millenni e mezzo or sono, allorché Parmenide ne propose il concetto per cercare la via che porta alla verità e Platone ruppe all'ombra dell'Acropoli il vaso incantato che la custodiva, rendendola operante attraverso la considerazione del genere che è presente nel molteplice.
Sarà Aristotele, nel V libro della Metafisica, a lasciare una definizione di questa parola che quattro secoli prima di Cristo era già carica di domande e si trascinava appresso questioni enormi: «È chiaro che l'identità è una unità d'essere o di una molteplicità di cose, oppure di una sola cosa, considerata, però, come una molteplicità: per esempio come quando si dice che una cosa è identica a se stessa, nel qual caso essa viene considerata appunto come due cose» (traduzione di Giovanni Reale, Bompiani).
Non è il caso di riferire i dettagli di un dibattito infinito, che continuerà con Leibniz, Hegel, Carnap, Quine o Friedrich Waismann, per citare alcuni protagonisti, diremo semplicemente che Emanuele Severino ha chiuso le sue lezioni veneziane nell'anno accademico 2000-2001 proprio affrontando le problematiche della tautótes, alla quale peraltro aveva dedicato un libro nel 1995, uscito nella «Biblioteca filosofica» Adelphi. E ora quei corsi a Ca' Foscari — 64 lezioni in 32 incontri — vengono raccolti da Giorgio Brianese, Giulio Goggi e Ines Testoni con il titolo L'identità del destino (Rizzoli, pp. 404, e 22). Ma vediamo le cose con ordine.
Durante i mesi di quell'anno accademico, Severino aveva terminato e attendeva l'uscita di Gloria (Adelphi, 2001), opera che avrebbe segnato un passo avanti rispetto ai problemi aperti due decenni prima con Destino della necessità (Adelphi, 1980). Ma sia nella presente raccolta di lezioni, L'identità del destino, che nella precedente, L'identità della follia (Rizzoli, 2007), l'attenzione di Severino si è concentrata sul termine tautótes, partendo proprio da Aristotele. Questi corsi analizzavano il modo in cui è stata intesa la stessa identità e le conseguenze dell'averla considerata come il risultato di un «divenire altro». Le parole di Aristotele mostrano la presenza di un baratro: il sommo greco indica un abisso senza «sapere» di averlo davanti, «trattando l'uno come se fosse due».
Il modo in cui è stata intesa l'identità ha investito l'Occidente in tutti i campi del sapere, tanto che dal suo abbraccio di cultura e prassi non sono stati esclusi — per utilizzare esempi dello stesso Severino — Leonardo, Einstein, Shakespeare, Bach o Gödel: in ogni momento si vuole che una certa cosa divenga altro da ciò che è. Si apre, per dirla in parole più semplici, una questione che sta alle radici del pensiero stesso: quello che si vuol fare diventare altro è creduto un esser altro; ovvero la cosa che dovrebbe essere se stessa, viene all'opposto pensata e trattata come un altro da sé. È come se si strappasse da sé, squartandosi e identificandosi a ciò che essa non è. E codesto squartamento è l'omicidio di fondo che sta alla radice di quanto chiamiamo male e bene.
Sembrano concetti di una dimensione a noi lontana, ma Severino sottolinea che «non si tratta di un argomento tra gli argomenti, ma è ciò su cui si regge l'intera vicenda del mortale e quindi, al culmine di questa storia, dell'intero Occidente». Per codesti e per altri motivi L'identità del destino è un libro che consente, lezione dopo lezione, di comprendere perché l'uomo è convinto che la suprema evidenza siano le cose che diventano altro da sé. Ma proprio qui, per il filosofo Severino, c'è la follia estrema. E a pronunciarla non è l'individuo, un popolo o un dio ma il sapere incontrovertibile che egli chiama de-stino, ovvero l'assolutamente inamovibile e innegabile.

Repubblica 9.2.09
Le confessioni degli insegnanti nel programma "Presadiretta"
"Promozioni a pagamento" ecco il diplomificio Campania
di Paola Coppola


E il preside disse al prof "Mi raccomando non disturbi i ragazzi" Viaggio nei diplomifici. Ecco i titoli di studio a pagamento
A "Presadiretta" su RaiTre un´inchiesta televisiva sui mali del precariato e dell´istruzione

ROMA - Sono 330mila. E sono disposti a tutto pur di non perdere il posto in graduatoria nella scuola. Anche a lavorare gratis o a finire nelle maglie torbide dei "diplomifici". Lo racconta l´inchiesta sui precari della Campania trasmessa dal programma "Presadiretta" di Domenico Iannacone. «Sto barattando punti, non sto lavorando», dice un´insegnante. Lavora in un istituto di Salerno dove basta pagare 4500 euro per avere un titolo, e le lezioni sono un optional così come la presenza degli studenti in classe.
Fabbriche di diplomi, dove basta pagare alcune migliaia di euro per ottenere un titolo di studi, i voti sono alti, la presenza in classe può essere sporadica. Può costare fino 4500 euro fare l´esame di Stato in uno dei tanti diplomifici della provincia campana. Circa 70 persone hanno preso la maturità nell´ultimo anno in uno di questi centri, nessuno è stato bocciato, e così è andata negli ultimi sei anni. In un´altra scuola paritaria - che sforna 120 diplomati ogni anno - agli studenti lavoratori è richiesta la presenza una volta al mese. «Gli scritti glieli facciamo noi» garantisce un responsabile. In un altro istituto lo sforzo richiesto per sostenere gli esami è imparare una tesina di una ventina di pagine.
Un sistema che non viene alla luce perché non è nell´interesse di nessuno denunciarlo, raccontato da Domenico Iannacone, autore dell´inchiesta sui precari della scuola trasmessa ieri ne la puntata "La scuola tagliata" dal programma "Presadiretta" su RaiTre.
Fuori dalle scuole paritarie gli studenti raccontano che i professori non segnano le assenze e «i compiti in classe li facciamo con il libro davanti». Un´università telematica promette a chi paga programmi di studio ridotti a un terzo, esami solo scritti. Una laurea vale 7.900 euro. Le famiglie sborsano i soldi, i ragazzi sono promossi e se non superano l´esame di stato alcune scuole promettono di non far pagare l´ultimo anno per la seconda volta.
Qui il reclutamento degli insegnanti avviene in nero e nessuno denuncia perché che il sistema funzioni conviene a tutti. Racconta una professoressa: «Gli studenti devono avere una media alta, chi vuole in classe può spiegare, se non si oppone il dirigente scolastico, perché i ragazzi non devono essere disturbati». E denuncia: «Non sto lavorando, sto barattando punti». E un´altra dice che quanti più ragazzi riescono a far promuovere tanto più aumenta la possibilità che il suo contratto sia rinnovato.
Gli insegnanti che bussano a queste scuole sono i precari che sono rimasti fuori dagli incarichi statali. Entrano in una giungla dove si lavora gratis: la busta paga c´è, ma la retribuzione è pari zero, se va bene hanno contributi e rimborso spese, se va male pagano anche quelli. Per i professori è l´ultima spiaggia per accumulare punti e non perdere il posto in graduatoria. Fabbriche di schiavi, le definisce l´inchiesta che racconta la vita di questi precari disposti a tutto. In attesa di un posto fisso - che nella scuola può arrivare dopo i 40 anni - si adattano anche a questo. «Con i tagli introdotti dalla riforma Gelmini per loro andrà anche peggio: nessuno li ha ascoltati, lamentano sui blog dove cova e si diffonde la rabbia di chi deve affrontare questa condizione», dice Iannacone. «Esiste un sistema di sfruttamento di questi professori senza un contratto a tempo indeterminato», continua. Passa anche dai master che portano punti per le graduatorie, e sono una scelta obbligata che arricchisce gli istituti che li erogano. E finisce con delle giornate paragonabili a un terno al lotto: da Aversa parte un treno chiamato "treno del provveditorato" che arriva a Roma in tempo per entrare in aula. Lo prende chi fa le supplenze nella capitale, e lo prendono anche quelli che aspettano la "chiamata". Loro sono a disposizione dei circoli didattici, contattati solo se c´è necessità. Si fermano alla stazione, e vanno a lavorare solo se il telefonino squilla.

Repubblica 9.2.09
SIENA. Arte, genio e follia. Il giorno e la notte dell'artista
Complesso museale di Santa Maria della Scala. Fino al 25 maggio.


La rassegna propone un percorso costituito da quattrocento opere, eseguite dai protagonisti dell'arte moderna e contemporanea, come Ludwig Kirchner, Edward Munch, Max Ernst, Otto Dix, George Grosz, Renato Guttuso, Mario Mafai e Antonio Ligabue. Il difficile argomento è affrontato in varie sezioni tematiche. In quella intitolata "Nati sotto Saturno", per esempio, figurano sette busti dello scultore settecentesco Franz Xavier Messerschimdt, attivo alla corte di Vienna, ma divenuto celebre soprattutto per le sue teste di carattere, improntate a una esasperata indagine delle inclinazioni dell'animo. Nella sala riservata ai contemporanei di Nietzsche, da vedere invece l' Ospedale di Saint Remy en Provence e Il giardiniere di Van Gogh , dipinti al tempo del ricovero volontario del maestro. Da segnalare la collezione di Art Brut di Losanna.

Repubblica 9.2.09
POSSAGNO. La mano e il volto di Antonio Canova. Nobile semplicità, serena grandezza
Gipsoteca Canova. Fino al 1 marzo.


In contemporanea con la superba esposizione dedicata all'opera del maestro (in corso fino 21 giugno presso i Musei di San Domenico a Forlì), da vedere la mostra che offre l'occasione di rivisitare la vita dell'artista, anche privata, i rapporti con gli artisti e gli intellettuali contemporanei, con la terra d'origine. Nella bella casa dello scultore, adiacente all'atelier che conserva i modelli in gesso delle sue opere, viene ora proposta una raccolta di ritratti canoviani. Integrano la collezione permanente quaranta ritratti, dipinti o scolpiti, e cinquanta esemplari dei moltissimi ritratti incisi, a testimonianza della maniacale devozione che gli artisti ebbero per Canova. Il maestro fu infatti tra i protagonisti più celebrati del suo tempo.

domenica 8 febbraio 2009

Liberazione 8.2.09
Battere l'offensiva clerico-fascista
di Paolo Ferrero


Ieri è stata una grande giornata di mobilitazione contro il governo Berlusconi e l'offensiva clerico fascista che il presidente del consiglio ha aperto. Berlusconi non è rimasto con le mani in mano e ha puntato dritto all'obiettivo dicendo a proposito della Costituzione quello che lui considera l'insulto peggiore e cioè che è sovietica.
Berlusconi ha cioè deciso una offensiva in grande stile, in cui il destino della povera Eluana è evidentemente un puro pretesto. L'obiettivo di Berlusconi è lo sfondamento del quadro di regole in cui vive il nostro paese; questo al fine di poter modificare in modo duraturo i rapporti di forza tra le classi e determinare una uscita da destra dalla crisi. L'offensiva di questi giorni va ad aprire nuovi contenziosi in una situazione che vede già numerosi fronti aperti. Principalmente quattro.
In primo luogo, in sintonia con Confindustria, ha aperto il fronte sindacale, come nel 2002, puntando ad isolare la Cgil e a distruggere il sindacato come espressione autonoma della classe.
In secondo luogo Berlusconi ha aperto il fronte con la Magistratura cercando di metterle la mordacchia, sia sulla riforma della giustizia che sulla vicenda delle intercettazioni.
In terzo luogo il governo ha approvato un decreto sicurezza che radicalizza l'estremismo della Bossi Fini e costruisce sul piano legislativo il migrante come capro espiatorio.
Da ultimo, in sintonia con il Vaticano, ha aperto l'offensiva contro il Presidente della Repubblica, mettendo definitivamente in discussione ogni parvenza di laicità dello Stato e l'equilibrio dei poteri che ci consegna la nostra Costituzione. Nella concezione fascista che caratterizza la cultura di Berlusconi, il potere derivante dal popolo deve essere assoluto, privo di vincoli e di regole: un potere sovrano per l'appunto, come ci ha insegnato il teorico Carl Schmitt, tanto caro ai nazisti.
Il tutto avviene in un contesto di crisi economica pesantissima, destinata a durare a lungo, in cui milioni di persone vedono peggiorare la propria condizione di vita e guardano al futuro con paura.
La mia opinione è che Berlusconi abbia aperto troppi fronti e che le reazioni ad ognuno di questi si possano sommare. Taluni pensano che Berlusconi stia facendo una manovra diversiva, per nascondere i problemi della crisi economica. A me non pare. Sia perché la logica che lo guida è una linea politica compiuta, espressione aggiornata del Piano di Rinascita democratica di Licio Gelli. Sia perché mi pare possibile nella concreta situazione italiana lavorare a sommare questi fronti, facendo si che le questioni democratiche non nascondano quelle sociali e viceversa.
E' del tutto evidente che il principale vantaggio di cui gode Berlusconi è dato dall'ignavia dell'opposizione parlamentare. Il PD guidato da Veltroni ha nei confronti di Berlusconi un atteggiamento a dir poco schizofrenico: oggi dice che è un fascista ma ieri ci si è accordato per riscrivere le regole del Paese, dalla legge elettorale contro la sinistra alla riscrittura dei regolamenti parlamentari per permettere al governo di operare in modo più spedito. Come se non bastasse, sui contenuti sociali, il PD chiama alla mobilitazione contro il governo ma parallelamente lascia completamente isolata la Cgil, una cosa che non era mai accaduta nell'Italia repubblicana. Da parte sua, Di Pietro agisce il suo populismo giustizialista unicamente per lucrare sulla crisi del PD, ma non costruisce nulla a positivo. E' una forma di estremismo di centro che ci presenta un Berlusconismo rovesciato. Si può affermare con chiarezza che la principale forza di Berlusconi è data dall'inconsistenza dell'opposizione. Va anche registrato che tra le forze della sinistra ex parlamentare il grado di consapevolezza dei problemi non mi pare altissimo se è vero com'è vero che le nostre proposte di costruire un coordinamento delle opposizioni di sinistra è regolarmente caduto nel vuoto.
In questo contesto noi dobbiamo fare due cose. La prima è lavorare a massimizzare il conflitto, la denuncia, l'aggregazione su ogni singolo problema. Dalla questione sociale alla giustizia alla laicità dello stato alla democrazia. Costruire su ognuno di questi terreni il massimo di iniziativa politica, culturale, di mobilitazione, sia nazionale che sui territori. Tutti i fronti vanno agiti cercando il massimo di allargamento dei medesimi, il massimo di coinvolgimento di tutti gli interlocutori disponibili, il massimo di efficacia.
La seconda è costruire una opposizione efficace, che padroneggi i diversi fronti di lotta e proponga una alternativa complessiva, evitando ogni scorciatoia frontista che in nome della difesa della democrazia lasci indietro le altre questioni, a partire dalla questione sociale. Non può essere il PD la spina dorsale di questa opposizione. Oggi per difendere la democrazia occorre difendere i salari e per battere il razzismo occorre bloccare i licenziamenti e generalizzare gli ammortizzatori sociali.
Agire consapevolmente su due livelli evitando cortocircuiti frontisti è la vera sfida che oggi devono ingaggiare i comunisti per sconfiggere il clericalismo fascistoide di Berlusconi.

Repubblica 8.2.09
Quelle minoranze senza diritti
di Gad Lerner


«È un lungo applauso, accompagnato da uno sventolio di fazzoletti verdi, quello che accoglie il voto finale al provvedimento sulla sicurezza», riferisce la cronaca dal Senato del quotidiano La Padania.
Gli spavaldi portavoce leghisti, con quel fazzoletto-distintivo bene in vista nel taschino, lanciano attraverso i telegiornali la buona novella della padronanza recuperata sul "nostro" territorio. Basta col lassismo. Mantenuta la promessa elettorale. E´ finita la cuccagna. Ma quale cuccagna?
Troviamo la risposta sempre sul giornale padano, nel titolone sarcastico del giorno prima. "Bossi: ormai i clandestini siamo noi. Al Pronto Soccorso noi diamo le generalità, loro sono esenti". Falso, ma funziona. E´ la narrazione di una maggioranza di cittadini perbene oppressa da una minoranza straniera pretenziosa di vivere a spese nostre, esente da vincoli. La fotografia di un´Italia a rovescio, dove l´immigrato la fa da padrone e assoggetta il nativo.
Con sapienza propagandistica la Lega esibisce come innocenti i suoi emendamenti. Ma come, di ciascuno si può dire che è vigente nella legislazione di un altro Paese europeo. In effetti, cogliendo fior da fiore, la nuova normativa introduce d´un colpo tutte le regole più severe che altrove, ma non in Italia, vengono abbinate a percorsi certi e codificati di regolarizzazione. Per esempio viene resa più onerosa la tassa sul permesso di soggiorno (oggi di 72 euro) senza ovviare alle lungaggini per cui, quasi sempre, esso viene rilasciato quando ne è ormai prossima la scadenza.
Si complica la procedura con test e punteggi, si disincentivano i ricongiungimenti familiari, s´introduce il reato di clandestinità, senza fornire in cambio un trattamento "europeo", cioè dignitoso, agli aventi diritto.
Al contrario, non solo i medici ma tutti i cittadini che lo vogliano sono sollecitati a una partecipazione volontaria – con le ronde – nel setaccio territoriale degli irregolari. Poco importa se abbiano varcato la frontiera con un visto poi scaduto, o se siano vittime della nostra inadempienza burocratica: tutti clandestini. E guai ai senza fissa dimora, agli abitanti delle baraccopoli, ai minori emarginati, tutte categorie minacciose da contenere mediante pubblica schedatura.
La débacle della politica democratica, consumatasi nella resa alla paura di un´invasione criminale, ha già da tempo ridotto le scelte sull´immigrazione a false categorie primitive: noi e loro; buoni (sti) e cattivi. Giungono così tardive e inefficaci le proteste del Pd, le resipiscenze di settori moderati del Pdl; oggi travolti insieme dalla vittoriosa cavalcata leghista perché a suo tempo rinunciarono alla necessaria contrapposizione di valori civili e religiosi. Con la solita, vile motivazione confidata sottovoce: il popolo non ci capirebbe, la sicurezza è un bisogno dei più deboli.
Il progressivo cedimento culturale alla xenofobia, lo slittamento semantico verso il linguaggio della pura forza, produce ora una novità imprevista dagli stessi leader leghisti. Perché è vero che in tutti i governi, di destra e di sinistra, al ministro dell´Interno tocca sempre il ruolo del duro, del "cattivo". Ma solo nell´Italia del 2009 un ministro come Maroni si ritrova ad assumere la funzione politica di capo dei cattivi. Cioè di un movimento d´opinione che, facendo leva su diffusi istinti popolari, teorizza la disuguaglianza dei diritti come difesa della nazione. Ormai chi fa politica si ritrova mutilato perfino nel vocabolario. Davanti a una telecamera sarebbe controproducente esprimere disagio per la dimensione umana degli sbarchi a Lampedusa, l´eccidio quotidiano, la tragedia di una nuova frontiera epocale. Quelli lì non ce li possiamo permettere, punto e basta. Paghiamo la Libia purché li rinchiuda in lager lontani dalla nostra vista. I difensori della vita recano inutili pagnotte e bottiglie d´acqua al capezzale di Eluana Englaro, non tra i naufraghi africani, essendo anche la bontà ridotta a ideologia.
E´ questo formidabile capovolgimento della realtà che consente di presentare il decreto sicurezza come la fine di una inesistente cuccagna: la bieca favola di un´Italia permissiva, paese del bengodi per gli stranieri. Dunque non si illudano, gli immigrati residenti sul nostro territorio. Come insegnano perfino gli operai inglesi, nella crisi bisognerà riservare il sostegno pubblico ai nativi. E pazienza se anche "loro" pagano le tasse: sono paria destinati a un´eterna condizione provvisoria, subalterna.
Costretto dai suoi stessi, insperati successi a premere sull´acceleratore della separazione fra aventi e non aventi diritti, ben presto il ministro dei cattivi sarà chiamato a spiegare come intenda regolarsi con i circa 800 mila cittadini stranieri privi di documento regolare che risiedono sul nostro territorio. Persone che vivono nelle nostre case, lavorano al nostro servizio, vengono ospitate nelle strutture sociali, sono curate dal servizio sanitario, bambini che frequentano la scuola primaria. Nell´ottobre scorso Maroni ha reso noto un incremento del 28,1% delle espulsioni (percentuale su cui fare la tara, visto che il 2007 segnò l´ingresso di Romania e Bulgaria nell´Ue). Con ciò, la cifra è salita a 6553 espatriati. Stiamo parlando di circa 2 espulsi ogni 100 irregolari. Vogliamo ipotizzare che il ministro dei cattivi riesca a raddoppiare, triplicare tale cifra nei prossimi anni? Difficile, ma ammettiamo che sia possibile. Cosa ne faremo del restante 90% e passa di irregolari che continueranno a vivere in Italia? Tutti gli altri paesi mirano a regolarizzarli, per ovvi motivi di civiltà, convenienza economica, ordine pubblico. E noi?
Temo che queste domande resteranno a lungo senza risposta. Ma nel frattempo è facile intuire quale possa essere la percezione di quattro milioni di stranieri residenti in Italia, posti di fronte a un decreto sicurezza architettato come percorso minato, a rendere sempre più complicata la loro integrazione. Una destra sottomessa alla Lega sta facendo di tutto per farli sentire ospiti indesiderati, cittadini di serie B destinati al lavoro ma esclusi da un futuro di pari opportunità. Subiscono la beffa di chi li addita come tenutari di privilegi. Le istituzioni non sanzionano i mass media che diffondono il pregiudizio e l´ostilità nei loro confronti, anche perché spesso sono di proprietà del capo del governo. Il clima è propizio a sempre nuovi soprusi nei rapporti di lavoro, nell´erogazione di servizi, nell´affitto di case.
Ci troviamo così a un bivio. O i cittadini stranieri riusciranno a dare vita a una tutela democratica dei loro diritti - nella quasi totale latitanza di una politica timorosa di rappresentarli e coinvolgerli - oppure chineranno il capo lasciando i loro figli preda di leadership radicali e integraliste. L´Italia non ha niente da guadagnare dallo sventolio dei fazzoletti verdi sulla faccia di milioni di persone con cui è destinata a convivere. Non ci troviamo nella condizione di chi ha ottemperato ai suoi impegni e perciò attende che il contraente si adegui. Con il combustibile delle appartenenze incivili, ronda contro branco, la Lega ha già incenerito la nozione di cittadinanza universale, ma ora si appresta a bruciare l´idea che le minoranze abbiano dei diritti.

l'Unità 8.2.09
Il governo della Sharìa
di Furio Colombo


Molti italiani si sono resi conto della gravità di ciò che sta accadendo in queste ore in Italia quando hanno visto Emma Bonino al tavolo di TV7, davanti al direttore del Tg1 Riotta e accanto a Eugenia Roccella, che da scrupolosa impiegata, raccontava - per conto del suo principale Sacconi - fatti e circostanze inesistenti su Eluana Englaro, offriva dati che avrebbero indignato non solo uno scienziato ma anche un medico condotto. La vicepresidente del senato Emma Bonino, di solito fredda e rigorosa argomentatrice di fatti veri e verificati, non nascondeva una disperazione che andava molto al di là della facile, istantanea negazione del tentativo della sottosegretaria di fare apparire vivo un cadavere. La Bonino, quando ha superato tormento ed emozione ed è riuscita a parlare, ha svelato la parte più misera di ciò che sta squassando le Istituzioni con la cupa violenza di un colpo squilibrante alla più alta carica dello Stato: l'ordine Vaticano è di impedire qualsiasi legge di tipo europeo sul testamento biologico, detto, nel giro dei cardinali e di Berlusconi, "eutanasia", o "cultura della morte".
Dunque si trova d'urgenza un rimedio o con un decreto illegale - che il Presidente della Repubblica ha impedito - con una legge da fare in tre giorni che sia la pietra tombale ad ogni tentativo di testamento biologico. Qui di internazionale non c'è nulla. C'è un mondo pericoloso, in cui il rischio di distruzione della delicata struttura giuridica del Paese non ferma la convulsione che Berlusconi sta infliggendo alle Istituzioni nel suo vendicativo furore contro il presidente della Repubblica. Tutto è misero, locale. Ma immensamente pericoloso.
Nella drammatica edizione del programma "Linea notte" del Tg3, che il direttore Antonio Di Bella, la sera del 6 febbraio, ha presentato come "il momento più grave della nostra storia", due importanti notisti politici, Massimo Franco del "Corriere della Sera" e Federico Geremicca de "La Stampa, sono stati attenti a definire il comportamento di Berlusconi "legittimo" (Geremicca) e a far notare l'indebita intrusione del presidente della Repubblica (Franco). La prudenza non è mai troppa.
Intanto altri deputati Radicali avevano organizzato un sit-in con Pannella davanti a Palazzo Chigi per impedire che si perdesse il filo del grandissimo evento: una povera donna in coma usata contro il presidente della Repubblica secondo le istruzioni della Autorità religiosa, nel tentativo di imporre all'Italia un modello di sharìa vaticana.
Ma cerchiamo di mettere in prospettiva il tetro evento. Il mondo attraversa una crisi profonda, dall'esito incerto con cui si confrontano i leader e le teste pensanti del mondo.
L'Italia, come se non fosse parte della crisi del mondo, è improvvisamente stravolta da una violenta guerra intestina lanciata da un uomo che del mondo non sa e non vuole sapere e si annoia del mestiere di governare. Il presidente del Consiglio si è trincerato in un Paese piccolo piccolo stretto fra le imperiose istruzioni del Vaticano da un lato, la stanza di una povera morta dall'altro ("non vi rendete conto che è morta da diciassette anni?", ha detto il primario anestesista che l'ha accompagnata a Udine), il decreto illegale contro una sentenza che è un po' delirio ("Eluana Englaro può procreare") un po' colpo di potere politico fondato sul progetto di resuscitare Eluana per farne omaggio al Papa. E il tutto messo in movimento, nella microstanza dei bottoni di Berlusconi, da una caparbia volontà di scansare l'ostacolo legale costituito dal Capo dello Stato, per occupare tutto lo spazio, spossessare il Parlamento e affermare il diritto di governare da solo, per decreto, come Peròn e Pinochet, ma con la benedizione vaticana e la immaginetta falsa della povera morta.
Sul fondo, non dimentichiamo, ci sono le esemplari elezioni in Sardegna. Si deve a Marco Pannella la notizia della strana "par condicio" in quella campagna elettorale. Pochi secondi ogni giorno sono concessi a Soru, intere mezze ore a Berlusconi. "Fra poco chiuderanno Radio Radicale" ha detto ieri Pannella. Adesso sappiamo che un evento del genere è possibile. E non è una consolazione per chi aveva visto e denunciato il pericolo istituzionale Berlusconi da alcuni anni. Ora il pericolo non è più una denuncia azzardata. Berlusconi conferma.

l'Unità 8.2.09
«Il Berlusconi-Bonaparte può vincere perché è franato il blocco sociale della sinistra»
Intervista a Luciano Canfora di Bruno Gravagnolo


Il degrado antropologico di questa Italia è evidente. Ma discende in primo luogo - oltre che dalla crisi economica mondiale - dallo sfaldamento di quello che un tempo era il blocco sociale della sinistra. È in questa breccia che si fa strada la decadenza del paese. In una con l’offensiva di destra. Che viceversa si è dotata di un blocco forte di interessi e punta a una Nuova Repubblica, plebiscitaria e ostile alla divisione dei poteri». Analisi gramsciana sui mali del paese quella di Luciano Canfora, 67 anni, ordinario di filologia classica a Bari e studioso del mondo antico, nonché del pensiero politico. Una diagnosi allarmata, soprattutto sulla «sfida bonapartista» di Berlusconi, e poi sul «ruolo retrivo di questo papato» di cui disinvoltamente il «cavaliere laico sposa le istanze». Ma è tempo di reagire dice Canfora. Con le idee, la mobilitazione. E anche con qualcosa di irrinunciabile: l’identità. Senza di cui non ci sono né programmi né controrepliche efficaci.
Professor Canfora, Italia lacerata, pervasa da violenze di branco e in recessione. E per di più con un conflitto istituzionale acutissimo, che vede Berlusconi candidarsi platealmente a decisore populista. Che impressione le fa tutto questo?
«Una delle cose più gravi intanto è l’avvenuto spostamento a destra di gran parte del lavoro dipendente, al nord e sul versante leghista. La Lega è ormai più in grande, come Le Pen a Marsiglia. La sinistra invece è stata incapace di tenere legati a sé i ceti che formarono il suo insediamento di sempre. Di qui discendono alcune conseguenze. Come l’intolleranza verso i nuovi arrivati, che scatta nei ceti popolari “leghistizzati”, privi a questo punto di quei valori che la sinistra, con il suo radicamento e la sua pedagogia, riusciva a trasfondervi. Dunque guerra tra poveri...».
La liquefazione del blocco sociale di sinistra comporta a suo avviso un degrado antropologico?
«Degrado a catena. Anche il fascismo sorse dallo scontento e riuscì a dimostrare di essere il vero interprete degli interessi popolari e nazionali, ingannevolmente ovviamente. Un piccolo partito come la Lega, mutatis mutandis, ricorda molto certi esordi del fascismo. E d’altra parte un grande partito liberalconservatore come Forza Italia - che inizialmente ammiccava soltanto alla Lega - oggi sembra volerne incarnare interamente il ruolo, dislocandosi al contempo su un terreno nazionale e di massa più vasto, e inglobando anche An. Si badi, sono solo dei paralleli che servono a indicare delle dinamiche, non a stabilire identità. E le dinamiche sono queste, a fronte di uno sfilacciamento della sinistra».
Anche sulle questioni di coscienza Berlusconi si propone ormai come capo carismatico e pontefice secolare...
«Una volta nel 2001 dissi a Radio 2 che Berlusconi era un “bolscevico della borghesia”. La giornalista che mi intervistava ebbe delle grandi difficoltà, e anch’io non potei parlare in radio per molto tempo. Credo che oggi si abbia la riconferma di quel che dicevo allora. Il premier si è avventato sul caso Englaro cavalcando il pretesto giusto. Per aggredire Napolitano custode della Costituzione e della divisione dei poteri, a cui vuole infliggere un colpo mortale. E il tutto dopo aver simulato a lungo laicità e agnosticismo».
Ma può resistere il patto civico costituzionale sotto i colpi della sfida carismatica, oppure andrà in frantumi?
«Il rischio di cedimento c’è eccome, specie nel quadro delle tante emergenze italiche, che possono indurre ad affidarsi al decisore. Il punto è che non si riesce a intravedere una ripartenza di “sinistra”, nel senso più ampio del termine. Una ripresa egemonica in senso effettivo, ovvero la capacità di persuadere e farsi credere. Ma su tutti i temi all’ordine del giorno. Una cosa difficile, poiché l’attuale mélange “liberal-fascistico” che abbiamo di fronte è proteso a mostrarsi di destra e di sinistra, contemporaneamente. E come da manuale. Oggi come ieri, e fatte le debite differenza, lo straniero in quanto portatore di globalizzazione impoverente, diventa il nemico. L’agente consapevole o inconsapevole del capitalismo cosmopolita (ieri erano gli ebrei). E all’interno di quel “socialismo degli idioti” che August Bebel in Germania attribuiva ai reazionari populisti del suo tempo. Del resto la guerra tra poveri in Inghilterra - inglesi contro italiani - la dice lunga su questo fenomeno: guerra dentro una stessa classe».
Italia come anello debole della globalizzazione e banco di prova per una nuova democrazia autoritaria in Europa?
«Questo mi pare troppo presto per dirlo, perché il nostro paese per fortuna ha ancora molti anticorpi. La Costituzione repubblicana innanzitutto, con la sua partizione e ramificazione di poteri. E poi l’eredità popolare del movimento operaio e del Pci, o almeno quel che ne resta. Difficile per ora spazzarle via avventandosi sul caso Englaro. Ma il rischio c’è eccome».
È in grado la sinistra, o ciò che ne rimane, di fare anima e legame sociale sul territorio, di «fare comunità» contro questo rischio?
«Non ha ancora dimostrato di esserne capace. Certo il modello “maggioritario” di partito trasversale e leggero adottato, è tutto in perdita a riguardo. Invece di cercare un radicamento capillare sul territorio, per raggiungere la vita e l’esistenza degli individui, si preferisce una maniera aerea e svincolata dalla realtà. Al più in questo modo si può apparire brillanti e persuasivi in Tv. Ma solo occasionalmente. È solo una scorciatoia...».
Il «lavoro» può essere ancora il nucleo vitale identitario di una sinistra aggregante come quella a cui lei allude?
«Sì, ma il lavoro in tutte le sue innumerevoli ramificazioni. Produttive e riproduttive. Colpisce constatare come i quadri alti del lavoro, non si rendano conto di subire anch’essi ormai lo sfruttamento. Sfruttamento della mente, subalternità psicologica. Più in generale comunque la dimensione lavorativa riguarda il 90% del paese. E si tratta appunto di recuperare la fiducia di tutti i ceti produttivi, non solo di quelli che pensano di star peggio».
Non bastano dunque la cittadinanza e i nuovi diritti laici a definire la sinistra, sia pur intesa in senso ampio?
«No, è uno schema debole e formalistico. La cittadinanza è il contenitore di qualcosa, non il contenuto. Mentre il contenuto restano i diritti sociali e sostanziali. Che si traducono in cittadinanza, ma ne sono il prerequisito. Il rischio invece, con l’idea della astratta cittadinanza, è quello di difendere alcuni e non altri. Alcuni e non tutti. Il risultato è la divisione dei cittadini».

l'Unità 8.2.09
Un sovversivo a Palazzo Chigi
di Nicola Tranfaglia


Il presidente del Consiglio Berlusconi non accetta la presa di posizione del Capo dello Stato che ha annunciato di non esser disposto, per motivi costituzionali, a firmare il decreto del potere esecutivo sulla vicenda di Eluana Englaro. Berlusconi prova invece a far approvare in tre giorni un disegno di legge con lo stesso contenuto.
Occorre sottolineare, innanzi tutto, che è la prima volta che si verifica un simile scontro istituzionale nell’Italia repubblicana. In tutti gli altri casi negli ultimi trent’anni (con il presidente Pertini il 24 giugno 1980 e il 3 giugno 1981, con il presidente Cossiga il 10 luglio 1989 e il 6 febbraio 1990, con il presidente Scalfaro il 7 marzo 1993) i presidenti del Consiglio, rispettivamente i democristiani De Mita e Andreotti, decisero di rinunciare ai loro provvedimenti. Rispettarono, insomma, con il loro comportamento le funzioni di garante della costituzione che ha nel nostro ordinamento il presidente della repubblica. Ma questa volta il capo del governo, rappresentante del potere esecutivo, ha voluto forzare la situazione, mostrando di rifarsi a quel “sovversivismo dall’alto” o “delle classi dirigenti” che Antonio Gramsci aveva già segnalato nei suoi Quaderni del Carcere e che ha costituito, nella nostra storia, una pericolosa anomalia da cui è nato il fascismo e ogni altro tentativo di autoritarismo antidemocratico.
Non sappiamo come la vicenda si concluderà nelle prossime ore ma dobbiamo segnalare il diverso comportamento della seconda e della terza carica dello Stato. Il presidente del Senato onorevole Schifani si è schierato nettamente al fianco del capo dell’Esecutivo, ignorando la lettera e lo spirito della costituzione, e il presidente della Camera onorevole Gianfranco Fini, al contrario, ha rispettato il testo costituzionale in vigore e, in una sua dichiarazione, ha esortato il capo del governo a rinunciare al provvedimento.
I due opposti atteggiamenti da parte delle due massime cariche parlamentari mostrano gli effetti negativi di una condotta come quella di Berlusconi che di fatto nega le prerogative attuali del Capo dello Stato e ignora la costituzione vigente. C’è da chiedersi se un simile comportamento non si configuri di fatto in un attentato alla Costituzione repubblicana con le conseguenze che l’atto potrebbe comportare sul piano costituzionale.
Se poi ricordiamo che proprio questo capo dell’Esecutivo non ha risolto il grave conflitto di interessi da cui è investito e continua a imporre leggi ad personam come il lodo Alfano e altri lodi in via di fabbricazione, ci rendiamo conto in maniera sempre più chiara che lo Stato di diritto corre in Italia gravi pericoli e che il rischio di una via autoritaria è sempre più vicino.

l'Unità 8.2.09
Pericolo pubblico
di Concita De Gregorio


Anche nelle tragedie sono sempre i dettagli a dare la misura del disastro, a rivelare l'inganno. Uno sguardo, un gesto, una scarpa slacciata. Qualcosa che rompa l'ipnosi e illumini d'improvviso la scena per quello che è. Ieri, per Berlusconi, è stato il linguaggio. Sì certo il bonapartismo. Sì l'attentato alla Costituzione, l'aggressione al capo dello Stato, la democrazia in pericolo, Eluana che fa da pretesto per una partita di potere. La corsa al Quirinale, lo scardinamento delle regole, l’arbitrio assoluto di uno solo: sì certo, tutto questo saliva in un crescendo omeopatico segnato ogni tanto da un sussulto. Poi quelle parole: «Eluana mi dicono ha un bell'aspetto, funzioni attive, il ciclo mestruale». Il ciclo mestruale, ha detto il presidente del consiglio ai microfoni. Poi: da parte di suo padre «non c'è altro che la volontà di togliersi di mezzo una scomodità». Togliersi di mezzo? Una scomodità? Ma come parla. Di cosa parla. Ecco cosa fa veramente paura, cosa sveglia decine di migliaia di persone: l'assenza di freni inibitori, il delirio di onnipotenza che fa straparlare senza controllo proprio come chi abbia perso definitivamente il senso di realtà, di misura e di rispetto. Un pericolo pubblico, collettivo: guida a folle velocità senza freni, l'Italia è a bordo. Bisogna scendere. Non c'è tempo da perdere.
Che accusi Napolitano di voler uccidere, che giudichi la Costituzione «bolscevica» e che prometta di cambiarla lui da solo, che i regolamenti gli sembrino antiquati dunque anche questi da spazzar via sono solo altri sintomi dello stato di alterazione. L’onnipotenza è del resto in buona misura reale: le leggi che si è costruito su misura glielo permettono. Potrebbe far irruzione a Sanremo, se gli garba, e dall'Ariston parlare al paese per giorni: raccontare barzellette, irridere il capo dello Stato. In veste istituzionale, naturalmente. Come ieri a Cagliari, a una settimana dal voto: «visita istituzionale» hanno spiegato docili i tg.
Beppino Englaro, maschera tragica di un'Italia sommersa dalla melma, gli si è rivolto direttamente: venga a vedere mia figlia, ha detto. A Berlusconi e a Napolitano ha chiesto: venite da padri, venite a vedere com'è adesso. Gli sarebbe bastato, in questi mesi, scattarle una foto e mostrarla per zittire chi grida: non l'ha fatto, un esempio maestoso di amore paterno. Chi abbia assistito un malato terminale sa cosa intenda dire. Non servono le parole.
Per tutto il giorno al giornale abbiamo fatto ieri da telefonisti e dattilografi. Hanno chiamato e scritto per dare sostegno a Napolitano gente comune e premi Nobel, ministri e presidenti stranieri, studenti e scienziati. Il francese Pierre Moscovici, già ministro per l'Europa, lo spagnolo Enrique Barón Crespo, ex presidente del Parlamento Europeo, il tedesco Martin Schultz presidente del Pse (il kapò, ricordate? Ma allora il linguaggio era più controllato) hanno firmato il nostro appello. Rita Levi Montalcini e Dario Fo, premi Nobel, Umberto Veronesi e Ignazio Marino, Roberto Benigni e Pedrag Matvejevic hanno messo le loro firme sotto quelle di Furio Colombo e di Umberto Eco, di Pietro Ingrao e di Andrea Camilleri. A notte continuavano a chiamare. Trascriveremo ogni nome. Esiste un'altra Italia. Non faremo silenzio.

l'Unità 8.2.09
Ma dove comincia il fascismo?
di Beppe Sabaste


Da tempo, nelle discussioni pubbliche e private, si oppone questo argomento all’espressione linguistica di un’indignazione politica considerata iperbolica: non siamo in un regime, non è giusto abusare della parola «fascismo», altrimenti cosa diciamo di fronte alla sopraffazione fisica, alla violenza, al confino, alla deportazione che caratterizzarono il ventennio fascista? A parte che il fascismo storico non fu una «parentesi», e il concetto di fascismo è stato poi ampiamente usato da sociologi, politologi e filosofi in ogni parte del mondo, la mia replica è che, per designare un Paese in cui le libertà individuali sono ridotte o negate, la verità manipolata e falsificata, la Storia rivisitata, una parte crescente della popolazione discriminata, in una dimensione di propaganda permanente, non occorre che «fascismo» rimandi a modelli del passato. Può anche, in attesa di nuove, efficaci parole (sempre difficile coniarle in presa diretta), designare una realtà contemporanea con caratteristiche nuove. All’epoca di Mussolini i mass-media si riducevano alla radio e ai cinegiornali, oggi, lo ha insegnato perfino James Bond, si conquista il mondo col controllo delle tv e dell’informazione, col monopolio di parole e immagini. La neo-lingua del governo si caratterizza da anni con un rovesciamento del senso delle parole - e le dittature cominciano sempre col violare la lingua, prima di violare le persone. Controllare le parole, «fare cose» con le parole, si coniuga oggi col peggiore potere, quello bio-politico. Il controllo del corpo, della vita, della morte, della cura. «Dannare» Eluana Englaro a una morte vivente si dice «salvare», anche se è solo i cinico e barocco pretesto a un attacco all’equilibro dei poteri, alla democrazia, alla Costituzione. La mia domanda, oggi come ieri, è questa: ma allora, dove «comincia» il fascismo?

l'Unità 8.2.09
Tecnica di un colpo di Stato
di Marco Travaglio


A lui non frega nulla di Eluana. A lui interessa affermare il principio che una sentenza definitiva può essere ribaltata per decreto, o per legge ordinaria, o per legge costituzionale. A lui non frega nulla della vita e della morte. A lui interessa compiacere il Vaticano con un decreto impopolare ma a costo zero, fatto già sapendo che il Quirinale non lo firmerà, dunque senza pagare alcun prezzo di impopolarità. A lui non frega nulla delle questioni etiche. A lui interessa coprire il colpo di mano contro la giustizia e la civiltà: i medici trasformati in questurini e delatori contro i malati clandestini; le ronde illegali legalizzate; le intercettazioni legali proibite; gli avvocati promossi a padroni del processo, che faranno durare decenni convocando migliaia di testimoni inutili per procacciare ai clienti ricchi l'agognata prescrizione; i pm degradati ad «avvocati dell’accusa», come negli stati di polizia, dove appunto la polizia, braccio armato del governo, fa il bello e il cattivo tempo senza controlli della magistratura indipendente; dulcis in fundo, abolito l'appello del pm contro l'assoluzione o la prescrizione in primo grado, ma non quello del condannato (non hai vinto? Ritenta, sarai più fortunato), sempre all'insegna della «parità fra difesa e accusa». Tutte leggi incostituzionali che, dopo il no del Quirinale al decreto contra Eluanam, hanno molte possibilità in più di passare. Per giunta, inosservati. Parlare di colpo di Stato è puro eufemismo. E poi, che sarà mai un colpo di Stato? Se la Costituzione non lo prevede, si cambia la Costituzione.

l'Unità 8.2.09
5 risposte da Dario Fo Franca Rame
di Gabriella Gallozzi


1Eluana
Ormai la volgarità di Berlusconi non ha limiti. E non si ferma di fronte a niente. Ma come si fa a dire che «ipoteticamente» Eluana è viva al punto da poter mettere al mondo un bambino?
2La trivialità del premier
Stai a vedere che ora la questione diventa se quella povera donna riesca pure a fare l’amore... Poi si sveglia e dice: «chi è il padre di mio figlio?». Berlusconi è di una trivialità talmente incredibile che per stupire si attacca persino ad argomentazioni pseudo scientifiche.
3Epater les simples
Il nostro premier è disposto a qualunque cosa pur di stupire ed incantare l’immaginazione della gente semplice. In francese si dice épater les simples... È questo il suo modo di fare. Sempre.
4Gioca coi sentimenti
Non ha rispetto per nessuno. Neanche per la famiglia di Eluana. È abituato a giocare coi sentimenti più profondi. Uno così dovrebbe contare fino a dieci prima di parlare.
5Un momento tragico
È davvero un uomo senza qualità. E per il nostro paese è un momento tragico. Berlusconi sta giocando il tutto per tutto perché il suo obiett
ivo è arrivare al posto di Napolitano. E per questo sta usando anche la Chiesa.

l'Unità 8.2.09
4 domande a Gino Strada
«Ora Eluana viene usata per fare le prove di un golpe»


Gino Strada, fondatore di Emergency, ieri era in piazza a Milano contro l’intervento del governo sul caso Englaro.
Perché è andato in piazza?
«Il caso di Eluana è stato preso a pretesto per una prova di forza e una dimostrazione di oscurantismo clericale. Si annuncia un golpe, si disegna un percorso per uscire dalla Costituzione. Berlusconi usa questa vicenda per dire “in questo Paese il padrone sono io”. Non mi sorprende, ma non si era mai arrivati a un livello così esplicito».
Nel merito come valuta la discussione intorno al caso Eluana?
«Ho sentito tanta ignoranza, non c’è nulla di razionale in quello che viene detto. Dalla Chiesa c’è una ingerenza continua nella vita e nella coscienza delle persone. Le decisioni di una persona, di una famiglia, non interessano. La Chiesa pretende di decidere quando una vita va salvata e quando no: di volta in volta benedicono massacri o dittatori, come hanno fatto per centinaia di anni, poi si ricordano della vita quando fa comodo per imporre la loro forza».
La sua opinione sul caso Englaro?
«Ognuno ha diritto di di decidere se e come vivere. E se il soggetto non può esprimersi, c’è comunque una storia, una famiglia e dei medici. Pensare che questioni così delicate siano affrontate un governo che istiga i medici a denunciare gli immigrati mi fa orrore. Queste due vicende hanno lo stesso denominatore: l’ignoranza. Ma se siamo arrivati così in basso la colpa è di tutta la casta politica, nessuno escluso».
Cosa pensa dell’eutanasia?
«Ognuno deve avere il diritto di decidere sulla propria vita e i medici dovrebbero assecondare questa volontà. Sono a favore dell’eutanasia». A.C.

il Riformista 8.2.09
La vita, la Costituzione e il cinismo di Berlusconi
di Claudia Mancina


Il caso Englaro continua a cambiare contorni. Da tragedia privata a drammatica questione bioetica, quale è diventata per una lucida scelta del padre, che ha voluto impegnarsi in una battaglia civile quasi per dare un senso a quella tragedia; a questione costituzionale, in seguito allo scontro tra il presidente del Consiglio e il presidente della Repubblica. Oggi, nei commenti e nelle reazioni a questo scontro, si delinea un ulteriore aspetto del caso: quello culturale. Quando nelle parole di Berlusconi, ma anche in tante lettere e in tanti blog, si usa l'argomento: che cosa valgono i formalismi giuridici quando si tratta di salvare una vita?, è tutta una cultura che parla, una cultura sostanzialistica tipicamente italiana. Sostanzialistica, perché contrappone ai cosiddetti formalismi la sostanza: salvare una vita. E tipicamente italiana, perché è comune a tutte le più profonde correnti di pensiero che hanno definito l'identità nazionale e che tuttora, nonostante le trasformazioni subite, la innervano in modo più o meno carsico: quella cattolica, quella comunista e quella fascista.
Per tutte e tre queste correnti di pensiero l'attenzione alle forme, il rispetto delle regole è sempre stato un capriccio liberale, un lusso forse buono per altri popoli, ma certo non adatto a una politica sempre sull'orlo dell'emergenza come quella italiana. E invece bisognerebbe rovesciare il discorso: è proprio il sostanzialismo, la sottovalutazione delle forme giuridiche, che determina lo stato di emergenza continua. Che valgono gli articoli della Costituzione di fronte a una vita?! Ma sono proprio gli articoli della Costituzione che proteggono la vita dei cittadini.Non si può essere con la Costituzione quando rispettarla va a sostegno della nostra opinione, e considerarla un optional quando le cose vanno nell'altro senso. Da questa elasticità dipende la difficoltà di gestire i conflitti etici e quindi la durezza dello scontro su temi che, pur difficili e divisivi, possono essere affrontati senza lacerazioni irrimediabili se ci si attiene alla Costituzione. So che questo punto di vista sarà tacciato di insensibilità alla vita, ma ripeto: solo la Costituzione, cioè il sistema di valori politici che reggono la convivenza politica, può difendere veramente la vita di tutti. Se fosse solo la sovranità popolare, tanto volentieri evocata dal centrodestra, a determinare le decisioni legislative, nulla impedirebbe, per esempio, di introdurre la pena di morte o di limitare la libertà religiosa o la libertà di opinione. In un regime costituzionale, per fare questo ci vuole un mutamento della Costituzione nei suoi principi fondamentali, dunque in realtà una rottura della forma dello Stato. In un regime costituzionale, le decisioni dipendono dalla sovranità popolare nei limiti definiti dalla Costituzione.
Ciò comporta accettare che il presidente della Repubblica abbia dei poteri e dei doveri da esercitare. Berlusconi ha deciso di lanciare un attacco frontale a questi poteri-doveri, e proprio sul caso Englaro, perché ha intuito che si trattava di un terreno favorevole. Per le ragioni dette sopra, il quasi generale allineamento della cultura sostanzialistica era scontato; e il presidente Napolitano è accusato di anteporre vacue forme alla vita di una donna. Ma chi oggi crede di difendere la vita e nient'altro, dovrebbe chiedersi qual è la strategia del presidente del Consiglio. Difficile credere che voglia soltanto acquistarsi meriti oltretevere, visto che nella campagna elettorale aveva affermato la sua autonomia ideologica. È più probabile che abbia visto lo spazio per iniziare quella ridefinizione degli equilibri costituzionali che ha in mente da sempre. Non c'è niente di male a considerare invecchiata la Costituzione del 1948 e a proporre dei cambiamenti, anche nella direzione di un rafforzamento dei poteri del premier. Ma il nostro presidente del Consiglio va molto più in là. Quel che ha in mente è una visione post-politica della democrazia, che si fondi solo sul consenso, facendo a meno del confronto parlamentare e del dibattito pubblico che questo consente e garantisce. Il braccio di ferro sulla decretazione d'urgenza è illuminante: Berlusconi ha sempre espresso chiaramente la sua convinzione che essa sia uno strumento normale e non eccezionale dell'attività di governo, e per questo rifiuta di sottometterla al controllo del capo dello Stato. Idea molto diversa dal riconoscimento che l'eccesso di parlamentarismo rende difficile governare, sulla quale anche molti costituzionalisti e politici democratici sono d'accordo.
Lo scontro, dunque, è precisamente sulla concezione della politica e della democrazia. La sorte di Eluana Englaro è un pretesto eccezionalmente adatto per questo scontro, perché è un detonatore di pulsioni extra-costituzionali e extra-politiche. Al Cavaliere, mentre recita la parte del buon samaritano, non fa certo difetto il cinismo.

Corriere della Sera 8.2.09
Berlusconi attacca la Costituzione «Filosovietica, ora un chiarimento»
E su Eluana: da padre non staccherei la spina, si vuole togliere di mezzo una scomodità
Il Cavaliere e la lettera di Napolitano: implica l'eutanasia. Poi si corregge. Veltroni: si inchini alla Carta
di Lorenzo Fuccaro


CAGLIARI — Il «caso Englaro » continua a suscitare tensione tra il capo del governo e il presidente della Repubblica. E il nodo è a chi spetti decidere sui requisiti di necessità e urgenza dei decreti legge, un nodo che a giudizio di Silvio Berlusconi necessita di un «chiarimento sulla lettura della Carta costituzionale».
Una carta da rivedere, insiste, sulla quale «occorre avviare una riflessione» allo scopo di accertare se sia necessario mettervi le mani e riformarla dato che è stata fatta «sotto l'influenza della fine di una dittatura e con la presenza al tavolo di forze ideologizzate che guardavano alla Costituzione russa come a un modello dal quale prendere indicazioni». Insomma, sostiene il Cavaliere, la nostra Magna Charta va adattata ai tempi. Una tesi, questa, contro la quale si scaglia il leader del Pd. Walter Veltroni non solo difende l'operato dell'attuale inquilino del Quirinale accusando il capo del governo «di volere mettere in crisi il sistema istituzionale», ma esorta poi lo stesso presidente del Consiglio «a inchinarsi davanti alla Costituzione sulla quale ha giurato». I toni salgono e c'è il rischio di un'escalation ecco perché Daniele Capezzone rivolge «un appello a tutti ad abbassare i toni, comunque la si pensi».
Il confronto a distanza muove appunto dalla triste vicenda della ragazza costretta da diciassette anni in un letto d'ospedale e giunta ora alla vigilia della sospensione dell'alimentazione e dell'idratazione. Una decisione contro la quale venerdì l'esecutivo avrebbe voluto opporsi con un decreto legge. Iniziativa resa impossibile dalla scelta di non controfirmare l'atto da parte del Presidente Giorgio Napolitano.
Ebbene Berlusconi, il giorno dopo, a margine di alcuni incontri in vista delle regionali sarde di domenica prossima, torna sulla questione per riaffermare che dal Quirinale si sarebbe aspettato «un passo indietro ». Non solo. Rileva che «per una questione di bon ton istituzionale il governo aveva chiesto un parere alla Presidenza della Repubblica», non certo l'invio di una lettera. Entrando poi nel dettaglio, il Cavaliere fa notare che la lettera giunta nel corso della riunione del Consiglio dei ministri, ricca di considerazioni giuridiche, «implica l'eutanasia» dato che introduce di fatto senza che sia stata adottata con uno specifico provvedimento.
Questo passaggio sull'eutanasia è al centro di una fitta serie di contatti tra il Quirinale e l'entourage del premier. E infatti, nel primo pomeriggio, Berlusconi corregge il tiro. «Mi fate dire cose che non ho mai detto», si difende. Subito dopo, parlando della lettera giunta dal Quirinale, chiarisce che «non c'era alcun riferimento all'eutanasia». E poi con un'espressione per certi aspetti enigmatica, alludendo allo stesso Napolitano, rileva che «è stato preso da tutto l'intorno », per allontanare dall'inquilino del Quirinale ogni responsabilità.
Berlusconi, in ogni caso, difende la sua scelta «figlia di una cultura della vita e della libertà, contrapposta a quella morte e all'intervento dello Stato sempre e comunque, anche negli ambiti privati dei cittadini ». Io, incalza, «da padre non staccherei mai la spina ad una persona che, dicono, abbia ancora il ciclo mestruale attivo e il cervello che trasmette segnali elettrici». Insomma, è il suo ragionamento, «non vorrei che dietro questa fretta ci sia la voglia di togliersi di mezzo una scomodità». Rispondendo implicitamente a Veltroni, Berlusconi nega che «sotto tutto questo ci sia un disegno». Insiste nel sostenere che spetti al governo decidere sui requisiti per adottare un decreto legge, altrimenti «uno va a casa».

Corriere della Sera 8.2.09
OLTRE LA MISURA
prima pagina, non firmato


Dopo la giornata nera di uno dei più duri scontri istituzionali del dopoguerra repubblicano, avremmo auspicato il momento della ricucitura.
Purtroppo il presidente del Consiglio ha scelto la strada opposta, e ha finito per parlare della nostra Costituzione come di un documento in parte ispirato da chi aveva l'Unione Sovietica come «modello». Un giudizio oltre ogni misura. Le circostanze storiche che hanno dato vita alla Costituzione repubblicana sono note. E la nostra Carta costituzionale è ovviamente emendabile nelle sue parti che più sono esposte all'usura del tempo (come il Corriere ha sempre sostenuto). Ma non si può sottacere l'apprezzamento che le è riconosciuto in modo pressoché unanime. La speranza è che l'enormità imprudentemente formulata dal nostro premier non comprometta il tentativo di ricreare un clima meno tempestoso nei rapporti tra Palazzo Chigi e il Quirinale. Questi sono i giorni in cui ci si deve responsabilmente adoperare per sanare una grave frattura tra le istituzioni. Strapazzare la memoria della Costituzione otterrebbe il risultato contrario.

Corriere della Sera 8.2.09
Andreotti: la Carta? Grande equilibrio, durerà altri 50 anni
di M. Antonietta Calabrò


ROMA — Cambiare la Costituzione per governare a colpi di decreti-legge? «No grazie», dice Giulio Andreotti, pluripresidente del Consiglio, ministro e deputato dell'Assemblea costituente. Ma aggiunge anche «Berlusconi per la Englaro non va criticato».
Senatore Andreotti, la nostra è una Costituzione «sovietica»? Influenzata dal modello dell'ex Urss che ispirava gli esponenti del vecchio Pci?
«Certamente lo sforzo che fu fatto allora, nonostante le divisioni internazionali dei due blocchi, fu proprio di tenere insieme situazioni diverse. La nostra Costituzione comunque fu fatta per durare ed in effetti è durata».
Sessant'anni ma li dimostra tutti, dice però Berlusconi.
«Chi è al governo ha spesso la tentazione di fare di più. Di guadagnare tempo, di avere più potere. La Costituzione esprime invece un grande equilibrio, proprio perché uscivamo da un regime e da una dittatura e quindi volevamo salvaguardare lo spirito della libertà».
Il premier ha fatto l'esempio del prossimo G8 di luglio che dovrà affrontare il problema della crisi economica internazionale. Ha detto che è difficile prendere impegni con gli altri capi di governo: perché le misure che verranno decise da noi devono essere approvate con un meccanismo parlamentare vecchio e lento...
«Il nostro è un sistema equilibrato che impedisce sia fughe in avanti sia lunghe attese: le cose si fanno. Ha dimostrato di funzionare anche in momenti difficili, con il terrorismo. Funzionerà ancora. Mi creda, per i prossimi cinquant'anni non c'è proprio la necessità di modificare la nostra Carta costituzionale. Poi i posteri vedranno... In ogni caso il decreto legge è un istituto valido, previsto proprio dalla Costituzione. Va usato sempre giustamente, non se ne deve abusare, ma fu voluto con lucidità proprio dalla Costituzione».
Veltroni dice che Berlusconi ha preso la palla al balzo del decreto legge per la Englaro, per poi chiedere di modificare la Costituzione. Se lei fosse stato capo del governo il decreto legge per «salvare» questa donna l'avrebbe fatto?
«Non voglio insegnare il mestiere a nessuno. Non voglio esprimere un giudizio. Ma se Berlusconi ha ritenuto di dover presentare un decreto legge non va criticato: è nella responsabilità del governo. Non bisogna dimenticare che chi governa spesso ha elementi che altri non hanno. E poi quello per Eluana Englaro era un decreto legge che non faceva male a nessuno. Come dicono i medici?
Primum non nocere, per prima cosa non nuocere».

Corriere della Sera 8.2.09
Dietro lo scontro
Tutti i perché di un affondo che svela due culture
di Massimo Franco


Non è più un conflitto istituzionale, ma un'offensiva in piena regola. Silvio Berlusconi non si ferma. Anzi, avanza e alza il tiro.
Continua a bersagliare Giorgio Napolitano, e intanto punta sulla Costituzione «approvata con i filo-sovietici»: quel Pci di cui il capo dello Stato è un figlio.
I toni lasciano capire che lo scontro con il Quirinale si incattivirà. Nella scia del «caso Eluana» Napolitano si limita a replicare che nessuno ha «un monopolio» della vicinanza ai malati; e che comunque lui «confida nei cittadini». Sembra una risposta al premier e alle critiche del Vaticano. Ma appare sulla difensiva; e con lui le sinistre e i radicali che lodano il suo «no» al decreto del governo.
Il «caso Englaro» si sta rivelando l'occasione scelta da Berlusconi per riequilibrare a proprio favore i poteri fra Palazzo Chigi e presidenza della Repubblica. Importa relativamente la virulenza con la quale tende a delegittimare la Carta fondamentale. È più interessante chiedersi perché lo faccia; perché abbia deciso l'affondo contro il presidente della Repubblica. A favorire l'accelerazione è stato probabilmente l'uso politico della lettera dal Quirinale che anticipava la bocciatura del decreto sul «caso Eluana» mentre il Consiglio dei ministri stava ancora decidendo; e forse, la convinzione che il Paese sia più diviso di quanto non appaia su una vicenda inizialmente sottovalutata.
La campagna della Chiesa cattolica ha modificato la percezione dell'agonia della ragazza in coma da diciassette anni. Ha seminato dubbi sulle sentenze della Cassazione e sulle procedure scelte. E Berlusconi ha colto questi umori e deciso di cavalcarli, sicuro di avere dietro il Vaticano e i vescovi italiani; e di potere con un colpo solo spiazzare Napolitano, opposizione, avversari interni e magistratura. Sostenere che la prassi delle lettere preventive del Colle al governo «è ridicola» significa liquidare una prassi mal sopportata; e vedere «un'implicazione dell'eutanasia» nella nota arrivata venerdì accentua il fossato fra governo e presidenza della Repubblica.
Il risultato è quello di accreditare uno schema bipolare non solo in termini politici, ma quasi esistenziali. Berlusconi sembra deciso a intensificare una pressione insieme culturale e istituzionale; a contrapporre «cultura della vita e della morte», nelle sue parole. Da una parte il centrodestra, appoggiato dalle gerarchie cattoliche. Dall'altra la sinistra, sulla quale Palazzo Chigi cerca di schiacciare Napolitano e il suo profilo di imparzialità; e i radicali, con le loro posizioni a favore dell'eutanasia. Affiora qualche ammissione sulla debolezza della sinistra e della cultura laica come una delle cause di quanto sta accadendo. Ma prevale la polemica contro le «ingerenze vaticane».
È un fantasma evocato a intermittenza: fra l'altro, i vescovi italiani hanno attaccato il governo di recente per la legge che permette ai medici di denunciare gli immigrati clandestini in cura da loro; ma nessuno ha protestato. Eppure, l'intervento doveva rientrare nella tesi dell'ingerenza. Probabilmente, nel «caso Eluana» lo scontro fra Palazzo Chigi e Quirinale ha reso inevitabile un'attenzione inedita; e ha portato a rimarcare la convergenza fra governo e Santa Sede e il contrasto inaspettato con Napolitano. Comincia a prendere corpo il sospetto che sia lui o meglio la Presidenza della Repubblica, il bersaglio grosso berlusconiano.
Se è così, le polemiche di questi giorni sono destinate ad avere un lungo seguito. E, purtroppo, ad accompagnare la vicenda di Eluana Englaro come una colonna sonora stonata, modulata inevitabilmente su massicce dosi di strumentalità da entrambe le parti. A fermare l'offensiva del premier potrebbe essere solo un difetto nella tenuta del centrodestra. Ma osservando l'esito del Consiglio dei ministri di venerdì che ha confermato il decreto, per ora Berlusconi sembra in grado di governare la propria maggioranza: con la carota o col bastone.

Corriere della Sera 8.2.09
Il filosofo Emanuele Severino
«Scontro tra due violenze. Vincerà la più forte»
intervista di Daniela Monti


Per ora dobbiamo rassegnarci a quello che è sempre successo: è stata chiamata verità, giustizia, legge la forza vincente

MILANO — «Mi fa schifo». Emanuele Severino è uno dei maggiori pensatori contemporanei. Ha il linguaggio dei filosofi: denso, arguto (a volte oscuro). «Mi fa schifo» è un'espressione che suona stonata. Eppure ora la usa: «Non ho dubbi, appena posso farò il testamento biologico in cui rifiuto tutto. Ma si tratta di vedere se la mia volontà riuscirà a iscriversi in una legislazione che la rispetti. Mi fa schifo pensarmi in una situazione in cui non posso nutrirmi da solo, in cui non posso pensare».
Ha chiaro da che parte stare. Una legge giusta, sul tema della fine della vita, sarebbe dunque quella che riconosce il diritto a scegliere?
«Non è così semplice» e, chiusa la parentesi privata, Severino comincia a parlare di filosofia. «Quello che vedo è lo scontro tra due forme di violenza. Le intenzioni possono essere le migliori, anzi diamolo per scontato, ma la sostanza non cambia: da una parte c'è la Chiesa, e il governo la segue, che intende difendere la vita umana ad ogni costo, impedendo precedenti pericolosi; dall'altra le istanze laiche. Anche se non intenzionali, sono comunque due forme contrapposte di fede».
È uno scontro ideologico, aspro, ma ancora nei termini della legalità. Perché parla di violenza?
«Né una parte né l'altra dispongono di verità assoluta. Il problema si può impostare così: è bene che si sospenda la vita di questa donna? Ma che cosa significa "bene": la nostra cultura è in grado di dire che cos'è "bene"? E poi: è giusto sospendere questa vita? Ma daccapo: la nostra cultura è in grado di indicare il vero senso della giustizia? Certo è più visibile il desiderio di alcuni di mostrare la propria adesione agli insegnamenti della Chiesa, che non il significato di bene e giustizia. Come pure è più visibile la volontà di mostrare il proprio dissenso. In questa situazione, anche se può sembrare cinico, l'esito non può essere dato che dal prevalere di una parte sull'altra».
È una visione cupa. Ma in un modo o nell'altro dovremo pure uscirne.
«Per ora dobbiamo rassegnarci a quello che è sempre successo: che è stata chiamata verità, giustizia, legge la forza vincente. Per cui è patetico invocare un bene assoluto. Oggi la cultura dominante non è in grado di risolvere questi problemi. Si risolvono in modo pratico, politico».
E la politica ha fallito. Dopo il decreto del governo, siamo allo scontro istituzionale.
«È un braccio di ferro, si tratta di vedere chi è più forte, ma essere più forte non vuol dire essere più vero, più giusto. D'altra parte quando si rimproverano i cattolici di imporre le loro convinzioni a chi non è cattolico ci si dimentica che in democrazia chi ha la maggioranza fa le leggi. Però sembra più democratica una legge che non impone anche ai non credenti le convinzioni dei credenti».
Torniamo al caso di Eluana, c'è il problema della volontà presunta. Cosa ne pensa?
«Il padre di Eluana sostiene che la figlia non avrebbe mai sopportato una vita come quella di ora».
Ma — obietta qualcuno — non si può sapere se questo è ancora il volere di Eluana.
«Mi sembra una gigantesca contraddizione. Se infatti si è d'accordo sul fatto che a Eluana la coscienza è venuta a mancare, non si può dire quale sarebbe oggi la sua intenzione, appunto perché lei non è più cosciente. Quindi non ha intenzioni. Tutte queste considerazioni — ha o non ha coscienza, cosa sente, cosa prova — sono ipotesi. È con questo che abbiamo a che fare: solo ipotesi. Vedo molti atteggiamenti tartufeschi in questa vicenda. Che ci siano persone attaccate ai principi lo credo, ma che ci siano persone così grondanti amore per Eluana lo metterei in dubbio. A contare, qui, è piuttosto la volontà che la vita pubblica sia regolata in una certa direzione».
Chi può dire una parola di verità su Eluana, e sulla fine della vita. La filosofia?
«La filosofia comincia a mettere in discussione il contesto in cui si gioca lo scontro fra volontà. Le cose più grandi non avvengono dall'oggi al domani. Se tramontasse la volontà che le cose siano nulla (e qui siamo nel cuore della critica di Severino alla cultura dell'Occidente, perché se le cose nascono, muoiono, sporgono provvisoriamente dal nulla, tirate le somme, spiega il filosofo, sono di per sé nulla)
allora sì ci sarebbero le condizioni perché anche la violenza delle tesi contrapposte venga meno. Ma bisogna risalire molto più indietro del limite a cui riescono a portarsi le forze culturali e pratiche delle nostre civiltà, si tratta di un impegno infinitamente più radicale. La modestia da parte della filosofia sarebbe fuoriluogo».

Corriere della Sera 8.2.09
Voto di coscienza per i cattolici pd Appoggio teodem


BOLOGNA — Votare il disegno di legge di Berlusconi, quello in difesa della vita (o di ciò che resta) di Eluana?
Oppure no, votare contro, allineandosi così alla volontà di papà Englaro e di chi ritiene giusto e inevitabile, a questo punto, staccare la spina? È un passaggio strettissimo, da brividi, quello dal quale dovranno transitare domani i parlamentari cattolici del Pd. Questione di coscienza, ma con pesanti implicazioni politico e istituzionali: perché dire sì a quel ddl significherebbe sposare la crociata sferrata dal premier in contrasto con le posizioni del Quirinale e vissuta dal Pd come un attentato alla democrazia. Dilemma lacerante. Che ha pesato, ieri a Bologna, sui lavori dell'assemblea nazionale degli amministratori del Pd. Come uscirne? «Libertà di coscienza». Il compito di indicare la strada per uscire dall'angolo viene affidato, a metà mattina, al vicesegretario Dario Franceschini: «I cattolici voteranno secondo coscienza: ascolteranno le parole della Chiesa, ma non accetteranno indicazioni di voto da nessuno, che comunque, sono certo, non arriveranno». Poi aggiunge, quasi a voler trasmettere al partito un senso di sicurezza: «I parlamentari cattolici conoscono da almeno 100 anni la lezione dell'autonomia delle scelte politiche e della laicità dello Stato». Tutto risolto? Naturalmente no. Gli unici ad avere le idee chiare sembrano essere i teodem, che, pur con qualche disagio per il fatto di doversi accodare a una battaglia berlusconiana, hanno già fatto sapere che voteranno a favore del ddl: «Anche se rammaricati per il conflitto istituzionale, considerata la situazione di reale emergenza, siamo a favore di un disegno di legge che salvi Eluana dalla morte per fame e per sete». Dal resto del Pd, silenzi e mezze parole. Anna Finocchiaro fa capire di essere contraria al ddl, quando afferma che «sarebbe grave un intervento della politica che frantumasse la forza di tre sentenze». L'ulivista Franco Monaco parla di «guerra di religione che lacera il Paese». Pierluigi Castagnetti si confida in un angolo della sala con Pierluigi Bersani. Tocca a Walter Veltroni, al teatro Testoni, cercare di tenere insieme le mille sensibilità del Pd. «Dividere laici e cattolici è esercizio facile, ma pericoloso» dice, accorato. «Noi stiamo cercando di dimostrare che possono convivere culture e religioni diverse» prosegue convinto. Succede anche tra i democratici «che ci siano posizioni differenti su Iraq e aborto», si consola. Ma ci vuole un punto fermo: «Il dovere della laicità quando si prendono decisioni politiche e istituzionali».

Corriere della Sera 8.2.09
Sacconi: le mie scelte sono laiche Ma oggi sono un credente
«Venerdì è stato il giorno più bello: finito il nichilismo del '68»
intervista di Aldo Cazzullo


Non ho avuto pressioni dalla Chiesa. Ho avuto, dopo il decreto, alcune telefonate di apprezzamento

ROMA — «Venerdì scorso è stata la più intensa giornata politica che abbia mai vissuto e la ricorderò finché campo. Intensa non solo perché ci siamo confrontati su contenuti drammatici, ma per il pathos e alla fine per la condivisione. Berlusconi ha concluso il Consiglio dei ministri con un discorso bellissimo. Ma tutti i colleghi si sono espressi, con interventi di alto livello; e tutti sono giunti alla stessa conclusione. La Prestigiacomo ha manifestato i suoi dubbi, però ha votato con noi. Bossi ha affrontato l'aspetto della sofferenza. Finito il consiglio, a margine, Bondi ha commentato: "Oggi è nato davvero il Pdl". E comincia a morire, aggiungo io, il nichilismo tardosessantottino, di cui Berlusconi rappresenta l'antitesi. Finisce quella deriva che da quarant'anni mette in discussione valori profondi, a cominciare dal senso della vita».
Maurizio Sacconi, ministro del Welfare e della Salute, è l'uomo politico che ha avuto il ruolo chiave nel caso Eluana.
«Ma non ho mai dato interviste. Questa è la prima e spero sia anche l'ultima. Lo faccio perché i lettori di un grande giornale laico sappiano che tutte le scelte del governo, dalla mia circolare al decreto, sono state ispirate dalla ragion laica. Una laicità intesa in una dimensione più alta del passato, che non può non includere principi fondamentali cristiani come la centralità della persona. La dicotomia tra credenti e non credenti, che ha segnato la Prima Repubblica, è stata superata».
Lei è credente?
«Oggi sì. Ma la mia storia politica è socialista e laica. Laica è la logica in cui ci siamo mossi, e che ha unito gli interventi del laicissimo Brunetta e del cattolico Rotondi ».
Venerdì è stato anche un giorno di scontro istituzionale senza precedenti, però.
«Noi non l'abbiamo vissuto così e non credo lo sia stato. Era doveroso assumerci la nostra responsabilità e comunque tentare, anche perché avevamo ancora la speranza che Napolitano alla fine firmasse. E poi le due firme in fondo a un decreto legge hanno valenza diversa, perché diverse sono la responsabilità del capo del governo e quella del presidente della Repubblica. Napolitano ha fatto rilievi formali e non poteva essere diversamente. In quanto politico di lungo corso, lo conosco da tempo, lo rispetto e lo stimo. Penso però che in generale dobbiamo cominciare a ridimensionare il formalismo giuridico. Ho sempre presente la lezione di Marco Biagi, uno dei "migliori nemici" del formalismo giuridico, che spesso porta alla negazione di fatto di diritti o di libertà anche fondamentali. Come non vedere nei requisiti di necessità e urgenza un formalismo, di fronte al diritto sostanziale alla vita? Come non vedere che necessità e urgenza sono più che mai presenti se da una norma dipende la salvezza non solo di Eluana ma anche di altri cittadini?».
Con Napolitano vi siete parlati?
«No».
Con i prelati?
«Non ho avuto nessuna pressione dalla Chiesa. Ho avuto, ma solo dopo il decreto, alcune telefonate di apprezzamento, da cui emergeva una positiva sorpresa».
E con il signor Englaro, ha parlato?
«No. Io lo capisco. A differenza di altri, capisco la sua scelta di rendere pubblica la vicenda: è uno dei modi di reagire al dolore. Spero che lui capisca me. Non mi permetto di dare giudizi perché non mi sono mai trovato in situazioni del genere, se non per una decina di giorni al capezzale di mio suocero. Ma in questi giorni ho parlato con molte persone che hanno vissuto esperienze come quella del signor Englaro. E che mi hanno incoraggiato. L'altro giorno, sul volo Roma- Venezia, mi ha avvicinato un uomo che mi ha raccontato la sua storia. Per cinque anni ha avuto la moglie nelle stesse condizioni di Eluana, in stato vegetativo persistente. Però dormiva, si svegliava, si stiracchiava, reagiva se le infilavano un ago. Quell'uomo ha sofferto moltissimo, diviso com'era tra l'assistenza alla moglie e il pendolarismo tra il Veneto e Roma; però, mi ha detto, neppure per un secondo ha pensato di spegnere quella vita. Fino a quando un'infezione non se l'è portata via».
La conversazione con Sacconi è interrotta dalle telefonate da Udine degli ispettori del ministero.
«Io non mi arrendo. Credo ancora che salvare Eluana sia possibile, che si possa interrompere questo assurdo percorso di morte. Le strade sono due. Un disegno di legge che recepisca il decreto respinto da Napolitano; e apprezzo molto l'impegno in questo senso del presidente del Senato ».
Fini invece l'ha delusa?
«Rispetto comportamenti che sono in parte legati alla "vestizione", quando da leader di parte si diventa figura istituzionale ».
E la seconda strada?
«E' la verifica delle corrette condizioni in cui avviene l'accompagnamento alla morte. Se ne stanno occupando la procura di Udine, i Nas e appunto gli ispettori del ministero. I giudici hanno previsto che tutto avvenga in un "hospice", in una struttura sanitaria dalle caratteristiche particolari, che non sono certo quelle di una casa di riposo. Laicità significa civiltà del dubbio e principio di precauzione. E in questa vicenda i dubbi sono molti, troppi. I dubbi sulla reversibilità dello stato vegetativo persistente, che come ha ricordato il direttore del centro nazionale trapianti Costa è ben lontano dalla morte cerebrale. I dubbi sulla reale percezione del dolore da parte di Eluana, che ha tutte le funzioni vitali, compresa la deglutizione, al punto che forse potrebbe essere alimentata direttamente. I dubbi sulla sua stessa volontà. E' evidente che la legge sulla fine della vita ora si farà; ebbene, tutti i disegni di legge, anche quello presentato da Ignazio Marino del Pd, prevedono che la volontà sia espressa, non presunta come nel caso di Eluana. E poi i dubbi sul luogo e sulle modalità dell'accompagnamento alla morte: perché nessun centro sanitario in Italia, tanto meno una casa di riposo, ha regole o modalità operative idonee a un protocollo di morte lenta, che non ha nulla a che fare con la rinuncia all'accanimento terapeutico. Applichiamo il principio di precauzione all'ambiente, agli animali, ai palazzi da abbattere. Non possiamo non applicarlo alla vita di Eluana».
E con Berlusconi, come è stata la discussione?
«Ne abbiamo parlato molte volte. Ma fin dall'inizio il presidente del Consiglio non ha avuto dubbi. Del resto anche i suoi critici concordano che Berlusconi è uomo di straordinaria vitalità. Lui è il contrario del nichilismo. E in Italia in questi quarant'anni abbiamo vissuto una deriva nichilista, cominciata all'inizio degli anni 70, quando il '68 altrove finiva e da noi cominciava, quando — come De Michelis diceva già allora — ci si illudeva di intravedere i bagliori dell'alba e invece guardavamo i fuochi di un mondo che finiva. Un fenomeno largamente decadente. Qualcosa che ricorda l'inquinamento agricolo: non si vede subito ma penetra in profondità, deposita germi, inquina la falda, avvelena le acque. Ora la vocazione all'annichilimento va declinando e si riscopre il senso della vita, che ha valenza non solo civile ma è la premessa dello stesso vitalismo economico e sociale. E si dice con ragione che in questa grande crisi dei mercati finanziari e dell'economia reale è necessario ripartire dai valori più profondi».
Nel nichilismo rientra anche l'aborto?
«La giusta risposta è applicare la legge per intero. A cominciare dalla prevenzione ».

Corriere della Sera 8.2.09
Il vescovo lefebvriano. Il prelato insiste: Olocausto? Non intendo abiurare
Williamson: «Ritratterò solo di fronte a nuove prove»
di Lorenzo Cremonesi


ROMA — Santa Sede e Israele almeno su di un punto sono d'accordo: lavorare al meglio per mantenere valida la visita del Papa in Terra Santa tra l'11 e il 15 maggio superando le ipotesi di un possibile rinvio a dopo l'estate. «Nonostante i problemi sorti negli ultimi giorni sulla questione dell'Olocausto e le tensioni generate con l'operazione militare a Gaza, resta chiaro l'impegno per garantire il viaggio del Papa in Israele. Anche nel momento più grave dei bombardamenti su Gaza i contatti per definire i dettagli tecnici sono continuati sulla falsariga degli impegni presi a dicembre. L'annuncio ufficiale della visita dovrebbe venire dalla sala stampa Vaticana tra fine febbraio e i primi di marzo», confermano le due diplomazie. Con un particolare: i diplomatici della Chiesa vorrebbero ritardare il più possibile l'annuncio nel timore che eventuali riprese dello scontro con Hamas costringano poi a rinviare la visita. «Il Papa non potrebbe essere a Gerusalemme mentre a Gaza scoppiano le bombe», commentano.
Un impegno che viene comunque mantenuto anche dopo le ultimissime tempeste. Ancora ieri il vescovo lefebvriano Richard Williamson ha ribadito che non abiura le sue posizioni negazioniste. «Ritratterò il mio punto di vista sull'Olocausto solo se troverò nuove prove», ha dichiarato al giornale tedesco
Der Spiegel riferendosi alle sue tesi circa l'«invenzione» delle camere a gas naziste.
C'è però una considerazione meno positiva che accomuna i due campi. Il pellegrinaggio di Benedetto XVI si svolgerà in un clima senz'altro migliore di quello di Paolo VI il 5 gennaio 1964, quando il Papa rimase solo undici ore nel Paese senza mai pronunciare la parola «Israele » e rifiutando di incontrare l'allora presidente Zalman Shazar.
Pure, facilmente, sarà molto peggiore di quello di Papa Wojtyla nel Duemila. «Anche grazie alle sue qualità di gran comunicatore, la visita di Giovanni Paolo II fu un enorme successo. Gli israeliani si innamorarono di lui. Nessuno pensa ciò possa avvenire con il Pontefice tedesco. Wojtyla era l'apertura nello spirito del Concilio Vaticano II. L'attuale Papa è invece la chiusura, l'espressione più evidente della lettura conservatrice del Concilio», dicono al ministero degli Esteri di Gerusalemme e al quotidiano
Yediot Aharonot. Lo stesso parere arriva, sebbene in toni più sfumati, anche dalla Santa Sede: «Non ci illudiamo di poter riscontrare lo stesso successo di nove anni fa. Questo sarà più un pellegrinaggio personale, una visita di basso profilo».
Il Papa dovrebbe volare prima ad Amman con Alitalia. Poi raggiungere Tel Aviv con la compagnia di bandiera giordana e infine tornare a Roma con El Al. Giovanni Paolo II raccolse ben oltre 100 mila persone sulle sponde del lago di Galilea. Oggi si pensa a un luogo più raccolto, magari a Nazaret, con meno di 60.000 posti a sedere. Allora le televisioni israeliane commossero il Paese con le immagini del Papa polacco in preghiera al Muro del Pianto. E piacque la sua preghiera sofferente allo Yad vaShem, il museo dell'Olocausto. Adesso si sta ancora negoziando come trattare questo capitolo, che negli ultimi tempi è diventato una vera mina vagante. «Resta del tutto controversa la questione della didascalia alla foto di Pio XII, che del tutto gratuitamente lo accusa per i silenzi durante l'Olocausto. Si cerca un compromesso. Magari Benedetto XVI si limiterà a pregare all'ingresso del Museo», dicono alla Santa Sede. Non aiuta la polemica che ancora accompagna i lavori della commissione bilaterale per l'applicazione dell' «Accordo Fondamentale» per l'avvio dei rapporti diplomatici del 1993. Il tema più controverso riguarda il regime fiscale. La Chiesa chiede l'esenzione totale, come ai tempi dell'Impero ottomano e del mandato britannico. Israele non ci sta.
Potrebbe invece aiutare l'udienza che il Papa avrà giovedì prossimo con i presidenti delle maggiori organizzazioni ebraiche americane. «Ciò contribuisce a facilitare il dialogo», ci dice monsignor Pietro Parolin, sottosegretario alla Segretaria di Stato. Anche Mordechai Lewy, ambasciatore israeliano presso la Santa Sede, ci tiene a sottolineare gli elementi positivi: «Un secolo fa il padre del movimento sionista, Theodor Herzl, fu invitato dal Papa a convertirsi al cristianesimo e a rinunciare all'idea di uno Stato ebraico. Oggi il Papa benedice Israele».

Corriere della Sera 8.2.09
In Basilicata premiato chi sceglie i due nomi
E la Fiamma dà 1.500 euro ai piccoli Benito e Rachele
di Emanuele Buzzi


MILANO — Una pioggia di euro, nel nome di Benito e Rachele.
L'idea di dare nel 2009 un bonus di 1.500 euro a chi promette di chiamare i propri figli come il Duce e sua moglie trova un inaspettato appeal mondiale. E arrivano più donazioni che richieste. L'iniziativa, lanciata a novembre dal segretario lucano del Movimento Sociale Fiamma Tricolore, Vincenzo Mancusi, sta raccogliendo fondi oltre le previsioni: «Abbiamo a disposizione per questo progetto 516 mila euro — spiega al
Corriere Mancusi —: ci arrivano offerte da ogni parte del mondo.
Una signora da Madrid ha versato 16 mila euro e ci ha comunicato di essere pronta a vendere anche parte del proprio patrimonio per sostenere l'iniziativa». Un successo oltre le attese, perché «l'aspettativa era di garantire una copertura per dieci, venti bambini». Donazioni che arrivano anche copiose dalla Carinzia e dalla Francia, tanto da suscitare l'interesse della Bbc e della Tv di Stato russa. Intanto, giungono le prime richieste per i bonus dai cinque comuni a rischio spopolamento a cui è dedicata l'iniziativa. «Sei coppie ci hanno contattato, due di queste hanno aderito a patto di poter devolvere in beneficenza il bonus». Tra loro qualche nostalgico militante di partito?
Macché: «Sono nomi del tutto sconosciuti al movimento, non sono mai stati tesserati da noi».
Si tratta di coppie tra i 25 e i 35 anni, «con un tenore di vita medio-basso». I futuri beneficiari non provengono da altre regioni né vi sono extracomunitari, ma sono «tutti lucani». E le richieste, ora, giungono da una dozzina di paesi della Basilicata: «Alcuni abitanti si sentono discriminati: probabilmente estenderemo il progetto a tutta la regione fra qualche mese». E forse, oltre al territorio, verrà ampliata anche la rosa di nomi: «Certo, democrazia vuol dire possibilità di scelta: proporrei Giorgio come alternativa a Benito e Assunta per Rachele». Ma Pino Rauti, già leader del Msi e della Fiamma e ora segretario del Movimento Idea Sociale, boccia il bonus bebè lucano: «Trovo che speculare sul nome o sul puro nostalgismo sia incredibile. Sono iniziative fuori dal tempo».

Corriere della Sera 8.2.09
La scomparsa della tristezza
di Vittorino Andreoli


Il romanzo di Françoise Sagan, Bonjour tristesse, esce nel 1954. Un successo strepitoso, l'autrice aveva 18 anni. Il film, diretto da Otto Preminger, è del 1958. Tutto accade appena in tempo, se si pensa che l'imipramina, il primo antidepressivo, nasce nel 1957-8. Questione di pochi mesi e si sarebbe potuto scrivere al posto di Bonjour tristesse, Bonjour Imipramine.
La tristezza è stata ammazzata: i tristi amori, scomparsi. Non esiste più nemmeno come parola, cancellata dall' uso corrente. Morti anche termini come "inquietudine" (l'"inquieto è il mio cuore finché non riposa in Te" di Agostino); come "anelito", "disperazione" (disperata attesa). Tutto è stato buttato dentro depressione e depressione si coniuga necessariamente a antidepressivo. Il demone sconfitto dal Bene dei farmaci, dalla chimica dalle formule magiche uscite dai laboratori scientifici delle grandi industrie farmaceutiche. La lotta tra il male, la depressione e il bene, l'imipramina o gli SSRI (Inibitori della ricaptazione della serotonina).
Sarebbe tempo di occuparsi della uccisione delle parole, delitti che andrebbero puntiti severamente. E' capitato anche per l'angoscia, l'angustia, la trepidazione, il timore, il tremore (interiore). Il grande capolavoro di Kierkegaard
Timore e tremore nasce nel 1843, lontano per fortuna dal 1961: anno della nascita delle benzodiazepine. Soren lo avrebbe dovuto chiamare Anxiety and Benzodiazepines e lo avrebbe dovuto pubblicare sul New Scientist. Nemmeno più regge la distinzione tra ansia e angoscia ( Angst di Freud) che trasmette, anche in immagine, il trovarsi dentro un vicolo stretto che si chiude, come pare accadere per la trachea che non lascia più passare aria e si avverte la fine, la morte.
La tristezza sembra non esistere più, non far parte dei nostri sentimenti, di quella sequela di vissuti esistenziali che pur vicini tra loro hanno caratteristiche differenti, capaci di distinguere ciò che viviamo con partecipazione differente, con un dolore che sa di pietà o di disperazione.
Sono un vecchio psichiatra ormai e mi pare di appartenere alla categoria dei rulli compressori, quelli che rendono tutto piatto: un rullo compressore dei sentimenti. Per semplificare tutto e per rendere possibili i rapporti automatici tra sintomi e farmaci, bisogna certo semplificare. Anche perché qualcuno non si metta a cercare e a trovare il farmaco contro la trepidazione e poi uno specifico per la tristezza .
Tutto è anxiety e depression. Tutto è antidepressivo e ansiolitico.
La vita dei sentimenti si è impoverita e ormai per essere certi di non avere una prescrizione di psicofarmaci bisogna non avvertire più niente, essere sentimentalmente vuoti. Aveva ragione Benedetto Croce: se eliminiamo le parole scompaiono i concetti e oggi — egli direbbe — persino i sentimenti. Forse anche per questo i poeti tacciono, temono di essere tutti curati per anxiety and depression.
Bisognerebbe ripartire dall'uomo, e non dai sintomi e dai farmaci, per fare una nuova psichiatria.

Corriere della Sera 8.2.09
Sanità Le differenze Italia-Spagna: parla il ministro Bernat Soria
«Il caso Eluana? Da noi non sarebbe possibile»
Già raccolti circa 50 mila testamenti biologici


Il testamento biologico in Spagna è realtà dal 2002: il ministro della Sanità racconta i casi più controversi
intervista di Elisabetta Rosaspina

MADRID — I catalani sono stati i primi, e i più numerosi. Da quando la legge sull'Autonomia del Paziente, il 14 novembre del 2002, ha riconosciuto agli spagnoli il diritto di rifiutare l'accanimento terapeutico, 23.000 testamenti biologici sono già stati depositati soltanto al dipartimento della Sanità di Barcellona. E, in 365 occasioni, gli ospedali si sono collegati al registro della Catalogna per consultare le volontà eventualmente espresse da malati terminali non più in grado di manifestarle. A Madrid confluiscono i dati raccolti in tutta la Spagna, e ormai dovrebbero essere quasi 50.000 i testamenti che indicano ai medici la frontiera da non oltrepassare in caso disperato; anche se le statistiche ufficiali, aggiornate a novembre dell'anno scorso, ne segnalano appena 37.500. «Sembrano pochi? Siamo ancora in fase di avvio — spiega il Ministro della Sanità, Bernat Soria — . Nella cultura latina non si pensa volentieri alla morte o allo stato vegetativo, almeno finché non tocca a qualcuno della propria famiglia o agli amici».
O, in Italia, a una ragazza come Eluana...
«Sì, conosco la vicenda. E sicuramente ci sono state anche in Spagna situazioni molto simili, che si sono risolte legalmente senza clamore, senza finire sui giornali, senza dibattiti spettacolari».
Come?
«Limitando lo sforzo terapeutico, come richiede il malato. O un famigliare, se lui non ha più il livello di coscienza necessario per prendere una decisione. In Spagna è illegale solamente il suicidio assistito. Un'iniezione letale, per esempio. Ma tutte le terapie di supporto, dai farmaci alla ventilazione meccanica e all'alimentazione artificiale possono essere interrotte a richiesta. Il problema è che il progresso medico è più rapido di quello legislativo e molti casi non sono contemplati dalla normativa. Per questo è importante poter disporre di volontà scritte lasciate dal paziente, che può modificarle in qualunque momento, anche all'ultimo. Attraverso l'unità centrale del ministero, il suo testamento sarà consultabile da qualunque ospedale spagnolo, nel caso dovesse essere ricoverato in un centro di una comunità autonoma diversa da quella cui appartiene».
Eppure anche la Spagna ha avuto casi controversi, come quello di Ramon Sampedro, tetraplegico per 30 anni, che ha ispirato il film «Mare dentro » di Alejandro Amenabar. O di Inmaculada Echevarria che la distrofia muscolare ha obbligato per 9 anni a vivere attaccata a un respiratore.
«Il caso di Inmaculada Echevarria, che era cosciente e chiedeva l'eutanasia, fu discusso da un comitato etico, di cui io facevo parte come tecnico, e che si pronunciò infine a favore della decisione di staccarla dal respiratore artificiale. Era un comitato composto da specialisti, medici e giuristi, e da profani, perché è importante anche il giudizio dell'uomo della strada. C'era pure un sacerdote e non si oppose».
Restano dilemmi comuni come l'assistenza sanitaria agli immigrati e ai clandestini: che strada segue la Spagna?
«Fin dagli anni Ottanta il sistema nazionale sanitario si è convertito in pubblico e universale. Inizialmente era riservato ai lavoratori stranieri di società estere, ora chiunque riceve assistenza medica. Non chiediamo la nazionalità per un trapianto di cuore, né a chi lo dà né a chi lo riceve. La sanità si finanzia con le tasse, che pagano anche gli immigrati. E il saldo si è rivelato positivo: gli stranieri contribuiscono per il 6,2 per cento e lo utilizzano per il 4,6».
Strano
«No. Gli immigrati sono giovani, si collocano nella fascia d'età più produttiva, tra i 20 e i 40 anni, quella che paga le tasse e richiede poche cure mediche ».
E i clandestini?
«Al pronto soccorso i medici, da noi, non chiedono i documenti. Ma chi è irregolare spesso evita la sanità pubblica per paura di rendersi visibile».

il Riformista 8.2.09
Leggere Darwin per far evolvere la sinistra
di Anna Meldolesi


BICENTENARIO. Marx relegava l'evoluzione all'aspetto fisico, Singer esortava a riconoscere che ciò che è naturale non è sempre giusto. La sinistra dovrebbe applicare alle ideologie un sano evoluzionismo empirico. Così la competizione politico-darwiniana può conservare solo ciò che è socialmente utile. E si perdono per strada false emozioni e verità intellettualmente disoneste.
Sono passati dieci anni da quando il filosofo australiano Peter Singer ha esortato la sinistra a diventare darwiniana, tenendo un seminario alla London School of Economics che poi è confluito in un imperdibile pamphlet (A darwinian left, pubblicato in Italia da Einaudi). Nel frattempo nel nostro paese Darwin è diventato l'icona più bella della resistenza laica, tanto che a volte viene da chiedersi se finirà stampato sulle magliette come Che Guevara. Ma siamo sicuri che a 200 anni dalla sua nascita e a un secolo e mezzo dall'Origine delle specie, la sinistra abbia fatto davvero i conti con il grande Charles? Ne abbiamo parlato con alcuni studiosi - Gilberto Corbellini, Orlando Franceschelli, Giovanni Jervis, Michele Luzzatto e Simone Pollo - e la conclusione è che c'è ancora molta strada da fare.
Una premessa è necessaria: il darwinismo non è di destra né di sinistra. Tant'è vero che accanto alla sinistra darwiniana invocata da Singer c'è la destra darwiniana teorizzata dal filosofo americano Larry Arnhart. Ma l'empirismo darwiniano è un antidoto al velleitarismo e la sinistra apparirebbe meno marziana se iniziasse a considerare l'uomo per quello che è anziché per quello che vorremmo che fosse. A sentire il nome di Darwin affiancato alla parola politica qualche lettore avrà provato un brivido: le metafore della lotta per la sopravvivenza e della selezione del più adatto hanno trovato applicazioni aberranti e hanno finito per proiettare su Darwin un'ombra sinistra (anzi destra). Certi sospetti, però, sono ingenerosi - ad esempio quello di un legame diretto tra darwinismo ed eugenismo - e per rendersene conto non c'è bisogno di ricorrere a raffinate analisi storiche. La convinzione che tutti gli uomini sono uniti da una comune discendenza, tanto per cominciare, è intrinsecamente antirazzista. E poi qualcuno può davvero credere che i nazisti, impegnati com'erano a inseguire il loro ideale di purezza ariana, potessero vedere di buon occhio la parentela con le scimmie? Darwin è stato il primo a escludere che la sua teoria potesse essere usata per giustificare delle politiche sociali di sopraffazione e nel frattempo le nostre conoscenze in campo evoluzionistico sono diventate abbastanza solide da resistere meglio ai tentativi di strumentalizzazione. Cacciamo i fantasmi, dunque, e proviamo a misurarci con la sfida.
Secondo Singer una sinistra darwiniana, che sia capace di vedere l'uomo come un animale evoluto, dovrebbe ammettere innanzitutto che la natura umana non è necessariamente buona e neppure indefinitamente malleabile. Non dovrebbe illudersi che una migliore educazione, i cambiamenti sociali o le rivoluzioni politiche possano mettere fine a ogni conflitto e a ogni problema. Non dovrebbe assumere che tutte le disuguaglianze siano dovute a discriminazioni, pregiudizi, oppressione o condizionamento sociale. Una sinistra darwiniana, semmai, dovrebbe essere interessata a capire la nostra natura più profonda, quella biologicamente determinata, per mettere a punto politiche in grado di funzionare nel mondo reale. Respingere al mittente l'idea che naturale significhi giusto. Aspettarsi che la realizzazione degli obiettivi di giustizia sociale che si prefigge sarà ostacolata dalla tendenza degli uomini a competere, affermarsi individualmente, raggiungere il potere. Dunque dovrebbe provare a stimolare la nostra naturale tendenza a ingaggiare forme di cooperazione reciprocamente benefiche e incanalare la competizione verso obiettivi socialmente desiderabili.
La psicologa inglese Anne Campbell è andata al cuore del problema con una dichiarazione rilasciata recentemente all'Economist: è come se tutti quanti pensassimo che l'evoluzione si è fermata all'altezza del collo, come se riguardasse la nostra anatomia ma non il nostro comportamento. Il filosofo Orlando Franceschelli - autore di Dio e Darwin e La natura dopo Darwin (entrambi pubblicati da Donzelli) - ci ricorda che si tratta di una deformazione antica, che possiamo far risalire agli albori del marxismo ed è particolarmente radicata a sinistra. L'idea che Darwin abbia scoperto le leggi della storia naturale mentre Marx ha spiegato la storia umana è già presente in Engels ma è una concezione che ritroviamo ancora oggi sottotraccia in parte della comunità scientifica e in Italia rischia di essere debordante. Chi parla di basi biologiche dei comportamenti umani (dagli orientamenti sessuali alle devianze sociali) infrange il sogno di perfettibilità dell'uomo e, in genere, la rottura del tabù è accompagnata da un coro di critiche. Eppure negare che abbiamo delle predisposizioni innate, cablate nel nostro cervello dalla selezione naturale, significa ragionare in termini antidarwiniani. Tanto più che persino la nostra libertà rispetto a questi vincoli biologici può essere letta in chiave darwiniana: se fare previsioni sul comportamento umano è tanto difficile è perché il nostro cervello usa le sue intuizioni per acquisire nuove strategie e la sua plasticità ne fa un sistema fondamentalmente evolutivo. A ricordarcelo è Gilberto Corbellini, che ha scritto un libro sull'evoluzionismo in medicina (Ebm. Evolution Based Medicine, Laterza) e ha curato l'edizione italiana di prossima uscita di La cattedrale di Darwin (Fioriti), il testo di riferimento sull'evoluzione della religione scritto da David Sloan Wilson.
Il cuore del darwinismo sta nel principio secondo cui ciò che funziona viene conservato e progredisce, ciò che non funziona va incontro all'estinzione. Vale per le congiunzioni sinaptiche tra i neuroni, per la produzione di anticorpi da parte del sistema immunitario, per i comportamenti animali che possono essere più o meno adattativi. Ed è proprio questo principio di empirismo, basato su tentativi ed errori, che secondo lo psichiatra Giovanni Jervis, andrebbe esteso su scala universale. Anche per scegliere le regole di convivenza più funzionali, specialmente in un'epoca in cui nessuno sa bene a quali principi generali appellarsi. Essere darwiniani in politica significa anche smettere di ragionare per ordini tipologici e categorie immutabili, come sostiene Michele Luzzatto che ha scritto Preghiera darwiniana (Cortina). Un peccato in cui cade spesso la destra, ma anche la sinistra, ad esempio quando assume che gli oppressi siano buoni per definizione.
Fare i conti con Darwin vuol dire anche modificare l'approccio classico alla bioetica, perché la psicologia morale e le neuroscienze hanno dimostrato che i nostri giudizi morali si basano più sulle intuizioni innate che ci portiamo dietro come retaggio evolutivo che su calcoli razionali di danni e benefici. Se il nostro obiettivo politico è massimizzare i secondi e minimizzare i primi, dobbiamo diffidare delle emozioni. Una sinistra darwiniana, infine, dovrebbe ripensare profondamente il proprio rapporto con l'ambiente. Singer, che è considerato uno dei padri del movimento di liberazione degli animali, mette nel suo decalogo il riconoscimento di maggiori diritti per gli altri esseri senzienti e il raggiungimento di una visione meno antropocentrica della natura. Sicuramente nei dieci anni trascorsi dalla pubblicazione del suo libro molte parole d'ordine ecologiste sono entrate nel vocabolario politico di sinistra, ma ha ragione Simone Pollo - autore di La morale della natura (Laterza) - quando nota che questo ambientalismo sacralizzante non è lo stesso invocato da Singer e in un certo senso è persino antidarwiniano.
In definitiva se potessimo mettere un po' più di Darwin nel nostro Dna, probabilmente ci troveremmo con una sinistra migliore. Anche su questo Corbellini, Franceschelli, Jervis, Luzzatto e Pollo sono d'accordo: il padre dell'evoluzione ha dimostrato un'onestà intellettuale quasi eroica, grandi capacità di analizzare le ragioni degli avversari, attenzione per le evidenze empiriche prima che per le interpretazioni ideologiche, instancabile dedizione. Tutte qualità senza le quali una sinistra non può considerarsi evoluta.