mercoledì 11 febbraio 2009

l’Unità 11.2.09
Se la vita diventa un bene della Chiesa
di Giovanni Berlinguer


La vicenda di Eluana mostra quello che accade quando
i confini tra fede e legge svaniscono. Teniamolo presente
ora che riparte la discussione sul testamento biologico.

Come è giusto che sia, ora il dibattito parlamentare ripartirà dal testo della Commissione sanità del Senato sul Testamento biologico. Esso però rischia ulteriori sopraffazioni rispetto alle esigenze e alle volontà delle persone. Con efficacia, Claudio Magris ci ha ricordato che «La qualità della vita può essere valutata solo dall’interessato, l’unico autorizzato a poter decidere della propria vita e della propria morte».
È opportuno rileggersi per intero l’art. 32 della Costituzione, composto di due paragrafi. Il primo afferma che «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti». Non meno significativo il secondo, proprio alla luce delle recenti vicende: «Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana».
Sono principi fondati sulla libertà personale e sulla responsabilità dei medici e della scienza, beni che lo Stato mette a disposizione dei suoi cittadini per garantire il diritto alla salute. E qui sta il grande valore della laicità e della inalienabile distinzione tra fede e legge. Il governo e il centrodestra hanno abbracciato con piglio decisionista la posizione del Vaticano e delle gerarchie cattoliche, sostituendosi alle volontà della povera Eluana e della sua famiglia, alle attenzioni dei medici chiamati al capezzale, alle sentenze della magistratura fino ai rilievi costituzionali del Capo dello Stato.
Ieri sulla procreazione assistita, oggi sul testamento biologico, Governo e Chiesa irrompono nelle vite delle persone dettando norme, stabilendo obblighi, prescrivendo comportamenti, anziché favorire diritti e assicurare tutele. Con il risultato che, in nome del principio secondo cui la disponibilità della vita appartiene alla volontà di Dio anziché agli individui, è lo Stato a determinare come si viene al mondo e come si lascia questa terra. Così si finisce per fare leggi tanto mostruose quanto inapplicate ed inapplicabili (i voli della speranza per le cliniche spagnole dove coppie sterili cercano di avere figli sono aumentati del 300% dopo l’approvazione della legge 40). Oppure, da una parte si condanna l’accanimento terapeutico e gli eccessi di certi abusi tecnologici e poi li si impone per decreto legge.
Il naturale e l’umano vengono usati, fino ad essere vilipesi, in nome della supremazia contingente, sia essa della Chiesa, sempre più incline a espressioni teocratiche, sia della maggioranza politica pro tempore. La quale legifera di morte e dimentica la vita. Come quella legata alla salute dei migranti, da segnalare alle forze dell’ordine se osano usufruire del nostro sistema sanitario. La Chiesa stessa, come ogni buon medico e ogni buon infermiere, ha denunciato i devastanti effetti di questa norma. E alcune regioni (la Puglia, la Toscana, il Lazio) hanno già deciso di non applicarla. La rivolta di tanti medici, cattolici e non cattolici, indica come si può stare dalla parte della vita battendosi contro il furore ideologico di taluni atti legislativi. Le crociate integraliste basate sull’affermazione dei valori cristiani sembrano prevalere sulla libertà di coscienza (e di cure) dei medici e dei cittadini. Contro ogni autodeterminazione delle persone, il governo ha scelto il terreno che più terremota le coscienze e abbatte le barriere di partito: il dolore. Trasformando una complessa e straziante vicenda nell’ennesimo scontro tra dove finisca la vita e dove inizi la morte.

l’Unità 11.2.09
In piazza per la Costituzione


Si svolgerà domani, 12 febbraio, alle 18 la manifestazione in difesa della Costituzione e contro gli attacchi del governo al Presidente della Repubblica promossa dal Partito Democratico. Attacchi che sono proseguiti anche nelle ultime ore da parte degli esponenti del centrodestra. La strategia portata avanti in questi giorni dal governo ha avuto il suo apice lunedì pochi minuti dopo la morte di Eluana: declinare ogni responsabilità, addossarla all'opposizione, ma soprattutto al Presidente della Repubblica, Napolitano, attaccato per non aver firmato il decreto con cui il premier Silvio Berlusconi voleva «salvare Eluana». Ancora una volta però alle provocazioni la risposta di Napolitano è stata secca: «Dinanzi all'epilogo di una lunga tragica vicenda, il silenzio che un naturale rispetto umano esige da tutti può lasciare spazio solo a un sentimento di profonda partecipazione al dolore dei familiari e di quanti sono stati vicini alla povera Eluana». A stigmatizzare però il comportamento della maggioranza è l'opposizione. C'è stata una strumentalizzazione «cinica, selvaggia, spregiudicata», ha afferma il presidente dei senatori Pd, Anna Finocchiaro.
La manifestazione si terrà, com’era già previsto, in piazza Santi Apostoli e vedrà come unico oratore il presidente emerito della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro. Molte le adesioni già annunciate all'iniziativa. Tra queste, numerosi governatori di Regione e sindaci: Vasco Errani, Mercedes Bresso, Claudio Burlando, Claudio Martini, Maria Rita Lorenzetti, Piero Marrazzo, Leonardo Domenici, Massimo Cacciari, Sergio Chiamparino, Sergio Cofferati, Graziano Delrio, Michele Emiliano, Salvatore Perugini, Vito Santarsiero, Marta Vincenzi, Beatrice Draghetti, Fabio Melilli, Filippo Penati, Sergio Reolon, Antonio Saitta, Nicola Zingaretti.

il Riformista 11.2.09
Il Pd non vede il rapporto tra vita e politica
Berlusconi ha colto e cavalcato la dirompente novità delle questioni bioetiche per un affondo decisionista
di Claudia Mancina


L'inaspettata rapida conclusione della vicenda Englaro non segnerà, temiamo, la fine della grave crisi etica oltre che istituzionale nella quale è precipitato il paese. Io non so se sia vero che, come scriveva ieri il nostro direttore, questa crisi ha cambiato le nostre certezze. Ma è certamente vero che ne usciamo con un passo indietro, con un imbarbarimento del dibattito pubblico.
Guardiamo all'opposizione. Quella tradizionale (da Di Pietro a Ferrero, da Micromega ai girotondi) si è prontamente allineata alla classica reazione laica, denunciando l'ingerenza del Vaticano e la subalternità del governo. Una reazione non certo infondata, ma troppo ripetitiva per parlare a qualcuno che non ne fosse già preventivamente convinto. Una reazione che non si propone nemmeno di trovare risposte nuove, perché non ritiene di trovarsi di fronte a domande nuove. Il Partito democratico, invece, ha meritoriamente cercato di non allinearsi puramente e semplicemente a questa posizione, senza però riuscire a delineare una posizione autonoma.
È anche troppo noto che la divisione interna tra laici e cattolici è all'origine di questa difficoltà. Il problema però non si esaurisce qui, e merita una riflessione più distesa. Non si può accettare come ineluttabile la divisione del Pd di fronte ai temi etici, e d'altra parte non si può pensare che la divisione, se si verifica, equivalga a una clausola di scioglimento del partito.
Intanto si deve osservare che il discrimine non passa propriamente tra laici e cattolici, ma tra i due ex-partiti: tanto che i cattolici provenienti dai Ds escludevano di votare sì al ddl del Governo. Questo vuol dire qualcosa, e precisamente che non si tratta solo di questioni di coscienza ma anche, e forse soprattutto, di questioni di identità politica. Del resto l'ha detto chiaramente Marini quando ha affermato di non voler lasciare la rappresentanza dei cattolici alla destra. Allora forse il Pd dovrebbe interrogarsi seriamente, attraverso un autentico dibattito, su che cosa significa oggi rappresentare i cattolici. Molti di noi si chiedono se i cattolici italiani non siano un mondo troppo vasto e composito per essere rappresentato in quanto tale, e se non si faccia qualche confusione tra rappresentare i cattolici o il Vaticano. Nel caso in questione, mentre è comprensibile (sebbene criticabile) che i cattolici del Pd votino il testo della maggioranza sul testamento biologico, era però molto meno comprensibile e accettabile che votassero a favore del ddl sostitutivo del decreto, avallando così l'operazione del governo e implicitamente l'attacco a Napolitano. Queste sono questioni politiche che dovrebbero essere affrontate, senza nessuna prevaricazione ma anche senza erigere recinti identitari.
Ancora più a monte, però, c'è il problema di come il Pd nel suo complesso ha affrontato l'iniziativa berlusconiana sul caso Englaro. Era senz'altro giusto e necessario sottolineare la gravità della crisi istituzionale, intenzionalmente cercata dal governo, e fare scudo al presidente della Repubblica, attaccato in modo vergognoso. Tuttavia, concentrare la risposta solo sull'attacco alla Costituzione, per di più con il riflesso condizionato della retorica resistenziale del tipo "la Costituzione non si tocca", significa mancare il bersaglio. La forza dell'iniziativa di Berlusconi sta infatti nella spudorata, violenta, ma efficacissima connessione tra vita e politica. Berlusconi, insomma, ha colto e cavalcato la dirompente novità delle questioni bioetiche, che proprio perché mischiano insieme l'ambito più strettamente personale e intimo con la dimensione pubblica sono così difficili da gestire e da risolvere. E proprio per questo si prestano meglio di qualunque altra questione a fare un affondo decisionista contro l'equilibrio dei poteri. Solo questo retroterra poteva produrre comportamenti inauditi da parte di un presidente e un vicepresidente di gruppo, come Gasparri e Quagliariello. Se non si comincia col riconoscere questa novità, si è destinati a perdere il rapporto con l'opinione pubblica, che non è né un'assemblea di giuristi né un circolo Anpi, e a restare molto indietro rispetto alla capacità di manovra del premier. Bisogna avere il coraggio di affrontare i temi della vita, scontando che ci siano anche accenti diversi nello stesso partito. Ma interpretare il necessario e giusto pluralismo come una condanna all'afasia è un errore fatale. Non ci dev'essere una verità di partito? D'accordo. C'è però una dimensione politica dei temi etici, che riguarda l'individuazione dei principi sui quali una legge deve fondarsi. Principi politici, che consentano a ciascuno di seguire i propri principi etici. Nel Paese c'è una grande confusione. Quagliariello vorrebbe farne una guerra di civiltà. Sarebbe invece compito del Partito democratico fare la sua parte per avviare un dibattito serio e sereno su quali sono i confini della politica rispetto all'etica, ma anche dell'etica rispetto alla politica. Se un lavoro di questo genere venisse fatto, la risposta a Berlusconi sarebbe più efficace, e anche la difesa del presidente della Repubblica sarebbe più forte.

Liberazione 11.2.09
L'Italia khomeinista di Berlusconi
di Paolo Flores d'Arcais


Tutti gli italiani che ancora conoscono il significato della parola "umanità", in questi giorni si stringono con tutto il loro affetto intorno a Beppino Inglaro, quest'uomo coraggioso e senza retorica, che per amore della figlia (e della moglie) ha sacrificato diciassettenne anni della sua vita, anni che lo segneranno per sempre.
L'Italia della barbarie, invece, ha scatenato contro quest'uomo coraggioso e senza retorica una campagna inqualificabile di odio e di linciaggio morale, arrivando alla mostruosità di dargli dell' "assassino" per l'amore con cui, sacrificando diciassette anni della propria vita, ha voluto tener fede alla volontà di sua figlia.
Questa campagna di odio e di linciaggio morale, questa ingiuria abominevole di "assassino", è dilagata dai pulpiti dei cardinali di santa romana chiesa, dai talk show catodici di neo predicatori fondamentalisti e perfino, con una irresponsabilità che lascia sbigottiti, dal parlamento della Repubblica, che pure nella sua Costituzione garantisce a ciascuno l'inviolabilità del proprio corpo, il rifiuto di qualsiasi intervento sanitario, ne dovesse andare della propria vita. Perché la tua vita non appartiene allo Stato e non appartiene alla Chiesa, la tua vita appartiene solo a te che la vivi.
Ma Sacconi e Berlusconi proprio questo elementare diritto hanno voluto e vogliono calpestare, in una dismisura di servilismo verso la Chiesa gerarchica di Ratzinger. Il decreto legge prima e il disegno di legge poi impongono infatti il sondino obbligatorio al malato che non è in grado di provvedere a se stesso, quale che sia la volontà del paziente. Contro ogni sua espressa, reiterata, solenne, gridata e implorata volontà, dunque.
Per ottenere questo obiettivo khomeinista, che renderà la Chiesa e lo Stato sovrani sul tuo corpo, Berlusconi (e i suoi yes-men and women) è pronto a fare a pezzi la Costituzione. Sovrano infatti è chi decide sullo stato di eccezione, come si sa, e sullo "stato di eccezione" di una situazione come quella di Eluana o di Welby o di una vita terminale, che tragicamente dovesse accaderti, o colpire la persona a te più cara, vita che per te o per lei fosse ormai solo tortura, non sarai tu e non sarà questa persona a decidere, la tua tortura sarà prolungata per legge con la nutrizione artificiale, dalla violenza anticostituzionale di una maggioranza asservita all'oscurantismo ecclesiastico.
Non basta. Berlusconi e i suoi yes-men hanno utilizzato il dramma di Eluana per sovvertire gli equilibri tra i poteri dello Stato garantiti nella costituzione (garantiti a garanzia dei cittadini, tutti e singolarmente presi).
Hanno considerato carta straccia una sentenza della magistratura passata in giudicato (e approdata perfino in una corte europea), hanno diffamato col sanguinoso epiteto di "assassini" non solo Beppino Englaro ma tutti i magistrati che hanno riconosciuto il diritto di Eluana a non essere più un corpo torturato, tutti i medici e gli infermieri che si sono presi cura della sua volontà, e infine tutti gli italiani capaci di umanità e di pietas, che il diritto di Eluana hanno sostenuto. Hanno aggredito con becera violenza la massima carica dello Stato solo perché obbediva alla Costituzione e si comportava coerentemente come il suo "custode". Sono decisi ad andare fino in fondo, cioè a trascinare a fondo il paese, distruggendo ogni "balance of powers" dalla carta costituzionale.
Di fronte a questo disegno sovversivo (una replica da manuale del sovversivismo delle classi dirigenti di cui parlava Gramsci, adattato all'epoca postmoderna) resta solo la mobilitazione repubblicana dei cittadini, la loro passione civile, la difesa intransigente di ogni libertà.
Questa opposizione non si è vista in Parlamento. Speriamo che si veda nelle piazze, nelle università, sui luoghi di lavoro. Nelle chiese, anche, perché sono decine i sacerdoti che stanno aderendo alla manifestazione di sabato 21 gennaio a piazza Navona. Non c'è solo la Chiesa di Ratzinger, infatti. C'è anche una Chiesa che prende sul serio il Vangelo.

Liberazione 11.2.09
Un convegno dell'associazione giuristi democratici sulla crisi della politica. Tra gli interventi quello di Luigi Ferrajoli
Tempi di bonapartismo, democrazia senza partiti
di Tonino Bucci


I partiti non sono più quelli d'una volta. Sembra una boutade . A prima vista sono ancora lì, ai posti di comando. I partiti continuano a raccogliere il consenso. I partiti sono ancora una formidabile macchina politica - magari assieme alla televisione - che funziona benissimo quando si tratta di formare le opinioni nell'agenda del senso comune. Eppure fatta salva la Lega - tra i partiti rappresentati in parlamento - quale formazione politica italiana oggi è in grado di rivendicare una connessione sentimentale con il proprio popolo? Se si richiama a mente l'articolo 49 della Costituzione - «Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale» - non si può fare a meno di notare la discrepanza tra l'affermazione sulla carta del principio e la sua applicazione nella realtà. I partiti attuali sono ben lontani dall'essere i veicoli della partecipazione del popolo alla costruzione della politica nazionale. L'unico "popolo" che conoscono è quello blandito dal linguaggio della strada, dal repertorio del populismo, dal vocabolario del razzismo e dell'odio per gli immigrati, il popolo chiamato al voto una volta ogni cinque anni per consacrare il leader, il capo, il depositario esclusivo della volontà popolare. Ai partiti non restano che le sirene del leghismo per far fronte alla disaffezione nei loro confronti.
Insomma, la crisi della democrazia può essere raccontata come la crisi dei partiti, l'incapacità loro di svolgere il compito prescritto dall'articolo 49 della Costituzione. Ma vale anche il contrario perché la crisi della politica non è solo l'effetto di una "democrazia senza partiti", ma anche lo specchio allargato di "partiti senza democrazia" diventati ormai organismi autoreferenziali. Di questa tesi hanno discusso di recente giuristi, sociologi e politici - quest'ultimi pochi per la verità - in un convegno organizzato a Roma dall'Associazione giuristi democratici con il titolo "La democrazia nei partiti, L'articolo 49 della Costituzione, 60 anni dopo".
Il fatto è che sono scomparsi i partiti tradizionali di massa che avevano scritto la Costituzione. Non ci sono più né la Dc, né il Pci, né il Psi, essendo ognuna di queste forze politiche frantumata nella complessa questione delle eredità. Cosa è cambiato? Che quel che oggi chiamiamo partiti sono in realtà «élites che si riproducono da soli per cooptazione», come dice Cesare Antetomaso, il portavoce della sezione romana di Giuristi democratici. «Dobbiamo rassegnarci alla trasformazione dei partiti in organismi autoreferenziali incapaci di ascoltare e mettersi in rapporto di scambio con i movimenti? E' una pia illusione sperare che i partiti si aprano a una maggiore partecipazione»? C'è un antidoto al leaderismo e al presidenzialismo? E, ancora, si può superare la scissione tra la politica e i conflitti "locali" di questi anni, come dimostrano i casi di No Dal Molin e No Tav?
Luigi Ferrajoli, filosofo del diritto, l'autore di Principia iuris , la spiega così: se da un lato si depotenziano le regole democratiche e i dispositivi di controllo sul potere previsti dalla Costituzione, dall'altro aumenta il peso di oligarchie e ceti politici ristretti. Il fatto è che questo primato dei governanti sui governati, dell'alto sul basso, del potere sulla società è visto, secondo un'opinione molto accreditata, nel significato opposto a quello che ha: viene fatto passare cioè come la riscossa della democrazia rappresentativa in luogo della stantìa Prima Repubblica - quella dei partiti e del proporzionale. Cos'altro è il berlusconismo se non l'esaltazione della maggioranza, del principio "comanda chi piglia più voti", dell'identificazione tra volontà degli elettori e capo eletto? Il vecchio Marx coniò il termine "bonapartismo" per indicare la forma di governo corrispondente alla deriva autoritaria e personalistica della politica. Di fronte a conflitti sociali le classi dominanti scelgono il rafforzamento del potere esecutivo e la delega a un capo carismatico in grado di esautorare il parlamento e mobilitare in forma passiva il consenso delle folle.
Questa che sarebbe, ai giorni nostri, la crisi della politica a tutti gli effetti è spacciata, invece, ironia della sorte, per il coronamento della democrazia rappresentativa. Inquadrata sotto luce distorta il berlusconismo è la vittora degli elettori nei confronti dei partiti della Prima repubblica, degli elettori finalmente in possesso della prerogativa, attraverso il voto, di scegliere chi li comanderà senza più intralci e senza l'assillo di regole "anacronistiche" - tanto più poi se ispirate da una Costituzione "filosovietica". «Questa è una lettura falsa - argomenta Ferrajoli - non è la vittoria della democrazia rappresentativa, è la degenerazione del meccanismo della rappresentanza politica». Ferrajoli ne elenca almeno tre, di motivi, a sostegno della sua tesi. Innanzitutto, la rappresentanza si è verticalizzata. La personalizzazione della politica non solo ha fatto saltare il meccanismo di controllo della base sul vertice all'interno dei partiti, ma ha innescato un processo di delega verso l'alto in tutta la società in una esasperata verticalizzazione della rappresentanza. «Le maggioranze politiche che vanno al governo si autolegittimano come espressione della volontà popolare». Dietro l'enfasi del voto della maggioranza si nasconde il populismo, l'esaltazione del capo, lo sdoganamento dell'avversione anticostituzionalista, l'intolleranza alle leggi e ai limiti del potere. E', nella sostanza, l'incarnazione «di quella concezione politica antirappresentativa che Kelsen rinfacciava polemicamente a Schmitt. Kelsen contro Schmitt respingeva nella maniera più assoluta che si potesse parlare di volontà unica del popolo perché un'idea del genere avrebbe occultato il conflitto di classe che sempre attraversa la società. Lo diceva Kelsen, non un sovversivo».
Ma ci sono anche altre due cause, la commistione tra politica e affari, tra potere politico e potere economico - commistione di cui il conflitto berlusconiano di interessi è la variante più macroscopica, quand'anche non l'unica - e, al cuore di tutto, la degenerazione dei partiti. «Se i partiti sono di fatto oligarchie che si autoriproducono, se ormai c'è completa identificazione tra partiti e Stato possiamo ancora dire di vivere in una democrazia rappresentativa? L'interesse pubblico è tramontato dall'orizzonte del senso comune e tutti pensano che in fondo si fa politica solo per tutelare interessi privati». Come uscirne? Sono sufficienti le due provocazioni di Ferrajoli? Una è obbligare i partiti a osservare statuti democratici, pena l'esclusione a beneficiare dei finanziamenti pubblici. «Se vogliono affidarsi ai leader carismatici, ai capi facciano pure, ma allora rinuncino ai soldi dei contribuenti. L'altro messaggio è indirizzato invece alla sinistra radicale e ai segretari di partito: «rinunciate ad accumulare cariche pubbliche elettive e incarichi di dirigenza nei partiti. Sarebbe già una risposta alla crisi di sfiducia rinunciare a candidarsi. Fate liste civiche, liste aperte, liste di militanti di base, ma voi dirigenti restatene fuori».
Ma la perdita di contatto dei partiti con la società non dipende anche dalla loro incapacità di uscire dalla cultura patriarcale? Possono partiti monosessuati svolgere la funzione rappresentativa, anzi di più, promuovere la partecipazione diretta di donne e uomini alla politica nazionale secondo quanto prescritto dalla Costituzione? Ovvio che no. «I partiti nascono maschili - sostiene Alisa Del Re, docente di partiti politici e gruppi di pressione all'università di Padova - quando si incominciò a introdurre il suffragio universale maschile ci fu uno scombussolamento del sistema politico. Nulla del genere, invece, è accaduto col voto alle donne. Non è cambiato niente nei partiti da allora e i criteri di formazione delle élite dirigenti sono sempre gli stessi». Ma la (mono)sessuazione della politica non è un semplice problema di rappresentanza. Non è solo il fatto che le donne devono essere rappresentate. «Il problema sono le donne in quanto rappresentanti. Da questo punto di vista gli statuti dei partiti sono zone grigie. Non c'è nessun obbligo a comportarsi secondo quanto c'è lì scritto. Si dice rappresentanza paritaria dei sessi, ma poi la pratica è tutt'altra». La domanda può essere formulata anche in quest'altro modo: bastano le quote rosa a risolvere il problema? Forse sì, forse no, «in ogni caso il patriarcato - dice Imma Barbarossa (Prc, dipartimento laicità, differenze e nuovi diritti) - è una cosa molto complessa che non si abolisce per decreto e con le quote. Il patriarcato è un ordine culturale e molto dipende dalla capacità delle donne di portare il conflitto di genere nei partiti. La frase "il personale è politico" continua a essere valida».
Ma c'è un rimedio alla trasformazione dei partiti in organismi d'elite staccati dai conflitti della società e incapaci di richiamarsi agli elettori se non con le sirene seducenti e inquietanti del populismo? Nel loro convegno i giuristi democratici qualche terapia l'hanno indicata. Piaccia o meno questo è un altro discorso. Intanto la capacità della democrazia di rappresentare le istanze sociali dipende anche dalle cosiddette regole del gioco e dal sistema elettorale di cui si dota. La questione è nota perlomeno dai tempi della contesa fra John Stuart Mill e Walter Bagehot, sostenitore il primo del proporzionale, il secondo del maggioritario. E' quasi un leit motiv tra i giuristi, il ritorno al proporzionale è l'atto fondamentale per uscire dalla crisi della politica. Magari non sarà condizione sufficiente, ma necessaria sì. L'ubriacatura per il maggioritario da oltre un decennio a questa parte ha favorito il distacco del ceto politico, la personalizzazione, l'affarismo, l'incapacità di dare rappresentanza ai conflitti sociali. C'è poi chi vuole l'applicazione alla lettera dell'articolo 49 cioè l'imposizione per legge di statuti e norme democratiche interne. Il dibattito non è nuovo, ne discusse già la Costituente, ma questa sarebbe una lunga storia. Resta però il dilemma se i partiti possano trasformarsi in organismi democratici per decreto. Ma chi controlla i controllori?

Repubblica 11.2.09
Zagrebelsky: "Se il potere nichilista si allea con la Chiesa del dogma"
intervista di Giuseppe D’Avanzo


L´Avvenire, il quotidiano della Conferenza episcopale italiana, ha definito Beppino Englaro «un boia». Credo che debba partire da qui, da un insulto atroce, il colloquio con Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Corte Costituzionale.

"Il dialogo sull´etica è impossibile se non si supera lo scontro tra dogmi"

Beppino Englaro, «un boia»?«In un caso controverso dove sono in gioco dati della vita così legati alla tragicità della condizione umana è fuori luogo usare un linguaggio violento, così impietoso, così incontrollato, così ingiusto. Non ho ascoltato, sul versante opposto, che vi sia chi ragiona dell´esistenza di un "partito della crudeltà" opposto a "un partito della pietà". Credo che in vicende così dolorose debbano trovare espressione parole più adeguate e controllate, più cristiane».
E tuttavia, presidente, i toni accusatori, le accuse così aggressive e definitive sembrano indicare che cosa è in gioco o a contrasto nel caso di Eluana Englaro. I valori contro i principi, la verità contro il dubbio. Questioni da sempre aperte nelle riflessioni dei dotti che avevano trovato, per così dire, una sistemazione condivisa nella Costituzione italiana. Che cosa è accaduto? Perché quell´equilibrio viene oggi messo di nuovo in discussione dopo appena sessant´anni?
«Le posizioni in tema di etica possono essere prese in due modi. In nome della verità e del dogma, con regole generali e astratte; oppure in nome della carità e della com-passione, con atteggiamenti e comportamenti concreti. Nella Chiesa cattolica, ovviamente, ci sono entrambe queste posizioni. Nelle piccole cerchie, prevale la carità; nelle grandi, la verità. Quando le prime comunità cristiane erano costituite da esseri umani in rapporto gli uni con gli altri, la carità del Cristo informava i loro rapporti. La "verità" cristiana non è una dottrina, una filosofia, una ideologia. Lo è diventata dopo. Gesù di Nazareth dice: io sono la verità. La verità non è il dogma, è un atteggiamento vitale. Quando la Chiesa è diventata una grande organizzazione, un´organizzazione "cattolica" che governa esseri umani senza entrare in contatto con loro, con la loro particolare, individuale esperienza umana, ha avuto la necessità di parlare in generale e in astratto. È diventata, - cosa in origine del tutto impensabile - una istituzione giuridica che, per far valere la sua "verità", ha bisogno di autorità e l´autorità si esercita in leggi: leggi che possono entrare in conflitto con quelle che si dà la società. Chi pensa e crede diversamente, può solo piegarsi o opporsi. Un terreno d´incontro non esiste. ».
Che ne sarà allora dell´invito del capo dello Stato a una «riflessione comune» ora che il parlamento affronterà la discussione sulle legge di «fine vita»?
« Una legge comune è possibile solo se si abbandonano i dogmi, se si affrontano i problemi non brandendo quella verità che consente a qualcuno di parlare di "omicidio" e "boia", ma in una prospettiva di carità. La carità è una virtù umana, che trascende di gran lunga le divisioni delle ideologie e dei credi religiosi o filosofici. La carità non ha bisogno né di potere, né di dogmi, né di condanne, ma si nutre di libertà e responsabilità. Dico la stessa cosa in altro modo: un approdo comune sarà possibile soltanto se prevarrà l´amore cristiano contro la verità cattolica».
Lo ritiene possibile?
«Giovanni Botero nella sua Della Ragione di Stato del 1589 scriveva, a proposito dei Modi di propagandar la religione: «Tra tutte le leggi, non ve n´è alcuna più favorevole a´ Prencipi, che la Christiana: perché questa sottomette loro, non solamente i corpi e le facoltà de´sudditi, dove conviene, ma gli animi ancora; e lega non solamente le mani, ma gli affetti ancora e i pensieri». Botero era uomo della controriforma. Purtroppo, c´è chi pensa ancora così, tra i nostri moderni "prencipi". Essi potrebbero far loro il motto di un discepolo di Botero che scriveva: "questa è la ragion di stato, fratel mio, obbedire alla Chiesa cattolica». Ora, se l´obbedienza alla Chiesa cattolica è la ragion di stato, è chiaro che i laici non troveranno mai un approdo comune con costoro.
Dobbiamo allora credere che il conflitto di oggi tra mondo laico e mondo cattolico, che ha accompagnato il calvario di Eluana, segnali soprattutto la fine della riflessione del Concilio Vaticano II e, per quel che ci riguarda, la crisi di quella «disposizione costituzionale» che è consistita, per lo Stato, nel principio di laicità contenuto nella Costituzione, e per la Chiesa nella distinzione tra religione e politica?
«Il Concilio Vaticano II ha rovesciato la tradizione della Chiesa come potere alleato dello Stato, ha voluto liberarla da questo legame tutt´altro che evangelico. Non si propose di proteggere o conservare i suoi privilegi, ancorché legittimamente ricevuti, e invitò i cattolici a un impegno responsabile nella società, uomini con gli altri uomini, con la fiducia riposta nel libero esercizio delle virtù cristiane e nell´incontro con gli "uomini di buona volontà", senza distinzione di fedi. Fu "religione delle persone" e non surrogato di una religione civile. Il cattolicesimo-religione civile sembra invece, oggi, essere assai gradito per i vantaggi immediati che possono derivare sia agli uomini di Chiesa che a quelli di Stato».
Ieri mentre finiva l´esistenza di Eluana Englaro e il Paese era scosso dalle emozioni, dalla pietà e, sì, anche da una rabbia cieca, dieci milioni di italiani hanno voluto vedere il Grande Fratello. E´ difficile non osservare che l´artefice della macchina spettacolare televisiva del reality e di ogni altra fantasmagorica vacuità � capace di distruggere ogni identità reale, alienare il linguaggio, espropriarci di ciò che ci è comune, di separare gli uomini da se stessi e da ciò che li unisce � è lo stesso leader politico che pretende di dire e agire in nome dell´Umanità, della Vita, addirittura della Verità e della Parola di Dio. Le appare più tragico o grottesco, questo paradosso? Come spiegarsi la dissoluzione di ogni senso critico dinanzi a questo falso indiscutibile?
«Non è questo il solo paradosso. Non è la sola contraddizione che si può cogliere in questa vicenda. Il mondo cattolico enfatizza spesso il valore della dimensione comunitaria della vita, soprattutto nella famiglia. E´ la convinzione che induce la Chiesa a invocare a gran voce la cosiddetta sussidiarietà: lo Stato intervenga soltanto quando non esistono strutture sociali che possono svolgere beneficamente la loro funzione. Mi chiedo perché, quando la responsabilità, la presenza calda e diretta della famiglia, nelle tragiche circostanze vissute dalla famiglia Englaro, dovrebbero ricevere il più grande riconoscimento, la Chiesa � con una contraddizione patente � chiude alla famiglia e invoca l´intervento dello Stato; alla com-passione di chi è direttamente coinvolto in quella tragedia, preferisce i diktat della legge, dei tribunali, dei carabinieri. Sia chiaro: lo Stato deve vigilare contro gli abusi � proprio per evitare il rischio espresso dal presidente del consiglio con l´espressione, in concreto priva di compassione, "togliersi un fastidio" � ma osservo come la legge che la Chiesa chiede assorbe nella dimensione statale tutte le decisioni etiche coinvolte: questo è il contrario della sussidiarietà e assomiglia molto allo Stato etico, allo Stato totalitario».
Lei è il primo firmatario di un appello che ha per titolo Rompiamo il silenzio. Vi si legge che «la democrazia è in bilico». Le chiedo: può una democrazia fragile, in bilico appunto, reggere l´urto coordinato di un potere politico invasivo e senza contrappesi e di un potere religioso che agita come una spada la verità?
«Oggi la politica è succuba della Chiesa, ma domani potrebbe accadere l´opposto. Se la politica è diventata � come mi pare � mezzo al solo fine del potere, potere per il potere, attenzione per la Chiesa! Essa, la Chiesa del dogma e della verità, può essere un alleato di un potere che oggi ha bisogno, strumentalmente, di legittimazione morale. Il compromesso convince i due poteri a cooperare. Ma domani? Il potere dell´uno, rafforzato e soddisfatto, potrebbe fare a meno dell´altra. ».
Qual è l´obiettivo del suo appello?
«ï¿½Rompiamo il silenzio´ è già stato sottoscritto da centosessantamila cittadini. È la dimostrazione che, per fortuna, la nostra società non è un corpo informe, conserva capacità di reazione. L´appello ha tre ragioni. E´ uno sfogo liberatorio, innanzitutto: devo dire a qualcuno che non sono d´accordo. E´ poi un autorappresentarsi non come singoli, ma come comunità di persone. Il terzo obiettivo è rendersi consapevoli, voler guardare le cose non in dettagli separati, è un volersi raffigurare un quadro. A volte abbiamo la tendenza a evitare di guardare le cose nel loro insieme. E´ quasi un istinto di sopravvivenza distogliere lo sguardo dalla disgrazia che ci può capitare. L´appello prende posizione. Si accontenta di questo. Se mi chiede come e dove diventerà concreta questa presa di coscienza, le rispondo che ognuno ha i suoi spazi, il lavoro, la scuola, il partito, il voto. Faccia quel che deve, quel che crede debba essere fatto per sconfiggere la rassegnazione».

Repubblica 11.2.09
Il documento di Libertà e Giustizia. Bonsanti: "Questo governo ci riporta indietro ai tempi del fascismo"
"Rompiamo il silenzio". Firme a quota 165mila
di Alberto Custodero


ROMA - «Rompiamo il silenzio di chi, sia da destra che da sinistra, vede, ma fa finta di non vedere che il Parlamento è esautorato. E che governare a colpi di decreti legge, come sta facendo questo Governo, ci riporta indietro ai tempi del Fascismo». Così, con questa «citazione del Ventennio politicamente non corretta», Sandra Bonsanti, giornalista, ex deputata, leader del movimento Libertà e Giustizia, spiega lo spirito del manifesto "Rompiamo il Silenzio" che sarà presentato oggi, a Roma, presso la sede della Stampa Estera, ai giornalisti di tutto il mondo. Il documento è già stato sottoscritto (sul sito www.libertaegiustizia.it e su Repubblica.it), da 165 mila persone, «cittadini comuni che - spiega Bonsanti - si rifiutano di accettare il degrado sociale e civile, quello che coinvolge le nostre istituzioni». Il manifesto sarà illustrato dal presidente emerito della Corte costituzionale, Gustavo Zagrebelsky, e dallo storico Paul Ginsborg, ma è stato sottoscritto dai garanti dell´associazione - tra i più rinomati intellettuali del Paese - Umberto Eco, Gae Aulenti, Giovanni Bachelet, Claudio Magris, e Guido Rossi. «Rompiamo il silenzio» è un manifesto che denuncia in particolare, spiega la leader di Libertà e Giustizia - «che la nostra democrazia è in bilico». E ha il fine di «far crescere le forze per contrastare soprattutto le proposte di stravolgimento della Costituzione».
Sandra Bonsanti: «Quando ho letto la pagina 334 della "Storia d´Italia" di Luigi Salvatorelli m´è venuto un colpo. "A che cosa fosse ridotto il Parlamento, si legge, lo dimostrò l´episodio del 14 gennaio del 1925, quando Camera e Senato approvarono 2000 decreti legge. Il Governo fascista sovvertiva così uno dei capisaldi di tutti i moderni stati liberali e democratici: la divisione del potere esecutivo da quello legislativo". Si vede dalla Storia come il dl sia un´arma delicatissima che viene adoperata in modo quasi esclusivo dall´attuale Governo per legiferare». È stata rinviata, intanto, un´altra iniziativa contro il Governo organizzata dalla società civile. La manifestazione in piazza Navona «Ora basta! In piazza contro la dittatura oscurantista», promossa, fra l´altro, da Andrea Camilleri, Furio Colombo e Paolo Flores D´Arcais, prevista per il 14, si terrà il 21 febbraio.

Repubblica 11.2.09
Dopo la norma Maroni, diminuiti del 20% gli irregolari nelle strutture pubbliche
Il medico e il clandestino
di Ettore Boffano


TORINO. Il richiamo della paura, del fuggi fuggi dalla sanità pubblica, lo hanno lanciato i cinesi. «Hanno ricominciato a fornire generalità false» spiegano all´accettazione del pronto soccorso dell´ospedale Molinette di Torino. «Loro sono i più attenti a ciò che si dice attorno agli stranieri: se si nascondono, allora vuol dire che tutti si stanno agitando. Quando c´è allarme, cambiano una, due, tre identità. E ne daranno ancora una diversa quando torneranno per un controllo o per un esame».

Dopo la caduta del divieto di denunciare gli irregolari, viaggio negli ospedali dove i malati rischiano di diventare fantasmi

Il richiamo della paura, del fuggi fuggi dalla sanità pubblica, lo hanno lanciato i cinesi. «Hanno ricominciato a fornire generalità false - spiegano all´accettazione del pronto soccorso dell´ospedale Molinette di Torino - Loro sono i più attenti a ciò che si dice attorno agli stranieri: se si nascondono, allora vuol dire che tutti si stanno agitando. Quando c´è allarme, cambiano una, due, tre identità. E ne daranno ancora una diversa quando torneranno per un controllo o per un esame. Lo fanno anche le donne incinte o che devono partorire». Llukani invece, l´albanese prepotente e paraplegico che girava sulla sedia a rotelle nei reparti del Cto, sono andati ad arrestarlo in corsia. Vecchie storie con la giustizia italiana. Il fatto però che fosse clandestino, un fantasma per il servizio sanitario nazionale, e che in pochi riuscissero a sopportare la sua arroganza, non c´entra nulla: per due anni Llukani è rimasto lì, nell´ospedale traumatologico della città, senza che a nessun medico e a nessun infermiere passasse mai per la testa di chiamare la polizia o i carabinieri. «E non lo faremo neppure dopo, quando sarà entrata in vigore quella norma che abolisce il divieto di denunciare gli irregolari», ripetono gli uomini e le donne con il camice bianco sul quale ora è comparso un adesivo rosso con una frase che pare la rivisitazione dell´antico giuramento d´Ippocrate: «Non siamo spie!».
In via Cottolengo, alle spalle del mercato multietnico di Porta Palazzo e a pochi passi dalla "cittadella della carità" fondata da uno dei santi sociali torinesi, c´è un ambulatorio medico di volontari, oltre cento tra medici, infermieri e impiegati, che è intitolato alla lettera pastorale del cardinale Michele Pellegrino, "Camminare insieme", ma che è stato fondato da Corrado Ferro, socialista, pensionato ed ex segretario regionale della Uil.
Lì, da sempre nella storia della Torino extracomunitaria, si presentano quelli che non hanno il permesso di soggiorno e che hanno più paura degli altri. Venerdì scorso, quando i Tg e i giornali hanno messo in moto il tam tam («I medici dovranno denunciare i clandestini»), la sala d´aspetto è rimasta vuota. «Per la prima volta in 15 anni - racconta Ferro - E dire che abbiamo assistito gratis più di 30 mila persone, fornito 110 mila prestazioni mediche con una media di 50 passaggi al giorno, dal lunedì al sabato mattina, 7.500 ogni anno». Il calo però era già cominciato dopo l´estate, «quasi il 20 per cento in meno, perché da quei giorni sono scattate le voci e la diffidenza». Ora quelli di "Camminare insieme" stanno preparando un cartello («Noi non denunciamo nessuno») da affiggere alla porta. «Lunedì - dice la coordinatrice, Cristina Ferrando - sono arrivati, uno dietro l´altro, un marocchino e una donna albanese. Lui doveva essere mandato in ospedale, per una polmonite: ha voluto andare a piedi perché non si fidava a salire sul tram e temeva di incappare nella polizia. La ragazza è al secondo mese di gravidanza e fa la badante. Ci ha chiesto di poter venire la domenica, quando siamo chiusi: è terrorizzata che nella casa dove lavora scoprano tutto e la caccino».
Ma come sono le notti "clandestine" degli extracomunitari senza volto, nei pronto soccorsi dove la paura dell´espulsione è piombata assieme alla notizia di una legge che in realtà non esiste ancora? Per capirlo, bisogna scendere lungo la rampa che da corso Bramante conduce nel pronto soccorso sotterraneo delle Molinette, uno degli ospedali più grandi d´Italia. Il Cto dove era ricoverato Llukani l´albanese è a un chilometro in linea d´aria, in questa striscia che costeggia il Po e fronteggia la collina con le ville della Torino ricca: una disordinata "città della salute" dall´urbanistica confusa e dall´architettura affastellata, che ospita anche l´ospedale infantile e quello ginecologico. Quattro diversi dipartimenti di pronto soccorso, uno dopo l´altro. Sono le 22,30 di sabato scorso: dentro, nella sala visite di medicina, la dottoressa Stefania Battista gestisce un turno difficile, affollato come non capitava da Natale. Ripete il "mantra" deontologico che lei e i suoi colleghi hanno fatto scattare subito dopo il voto del Senato, per difendere la dignità di una professione. «Per noi non cambia nulla - assicura - non faremo i poliziotti. Medici siamo e medici restiamo: io devo occuparmi solo della salute di chi si affida al pronto soccorso. Non saremo delatori». Qualche ora più tardi, la mattina della domenica, i dati del computer spiegheranno che in quel turno le richieste di cura sono state 62, ma solo tre quelle da parte di extracomunitari. «Non c´è dubbio - commenta il professor Valerio Gay, docente di medicina d´urgenza e responsabile del pronto soccorso - questo è già l´effetto della paura: solo una settimana fa, gli immigrati erano di più. Credono che la nuova legge sia in vigore e non vengono più. Che cosa significa lo capiremo tra qualche mese...». Che cosa capiremo, professor Gay? «Il pronto soccorso - spiega - è la "sentinella" della salute di una città. Qui scattano gli allarmi e si può porre rimedio a rischi improvvisi. Ha presente la tubercolosi? L´Istituto superiore di Sanità parla di 5 mila nuovi casi ogni anno e, perché si diffonda, basta che il malato respiri in un ambiente chiuso. E la meningite? Che cosa capiterà se i genitori clandestini, per paura, non ci porteranno più i loro figli che stanno male? Qui, in queste stanze, abbiamo scoperto il primo caso in Italia di febbre dei Balcani: sarà ancora possibile dopo?».
Su, nel reparto di medicina d´urgenza collegato al pronto soccorso, è passata da poco la mezzanotte. Anche il dottor Franco Riccardini è di turno, come gli succede ormai da 20 anni. Fissa il monitor del computer e controlla i numeri: 48 passaggi, sei gli stranieri in attesa, ma contando anche tre romeni e un bulgaro che non hanno ancora fatto la pratica per l´iscrizione al servizio sanitario. «Mettere paura agli immigrati - dice - è un problema politico e, peggio ancora, lo è cercare di farlo usando noi medici. E siamo sicuri che si ribelleranno anche tutti i medici del Veneto leghista? E che cosa capiterà in Lombardia, dove la sanità pubblica è stata affidata a Comunione e Liberazione?». La dottoressa Battista, negli ultimi quaranta giorni, si è imbattuta in due casi di tubercolosi contratta da extracomunitari: accadrà ancora? Riccardini, invece, sottolinea le tante cose assurde che potrebbero verificarsi: «Nasceranno sanità parallele, clandestine e che sfrutteranno i poveracci. E qui arriveranno malati che per giorni sono rimasti nascosti, aggravando le loro condizioni: lo Stato dovrà spendere ancora di più per curarli».
Di storie come quella di Llukani, invece, al Cto ne vivono periodicamente. Un incidente d´auto, una caduta in un cantiere del lavoro nero, la schiena che si spezza per sempre e una vita segnata da una parola maledetta: paraplegico o tetraplegico. Poi la scoperta che quelli sono clandestini, intrasportabili, che non possono più essere rimpatriati. Falete, un marocchino di 40 anni, ormai vive qui e in quel modo da oltre sei anni. «Sono i veri sfortunati - racconta Virginio Oddone, medico legale - Non hanno parenti in Italia, non possono essere accolti nelle strutture pubbliche destinate per questo tipo di malati, non possono chiedere i danni a chi li ha investiti o ai datori di lavoro, non possono usufruire del fondo di solidarietà per le vittime della strada e neppure della pensione di invalidità». Così restano al Cto, accuditi e salvati da chi li preserva da quella denuncia che i medici ritengono infame: «È un clandestino...». Medici che, tra un reparto e l´altro, adesso si interrogano su che cosa diventerà il loro lavoro e se, un giorno, saranno mai costretti alla disobbedienza civile. «Perché se la clandestinità diventerà un reato - aggiunge Oddone - avremo, oppure no, l´obbligo di denunciarla? L´articolo 365 del codice penale dice che non dobbiamo fare il referto quando esso esporrebbe la persona che stiamo curando a un´incriminazione. Chissà se continuerà a valere. E che giustizia è mai quella che fa diventare colpevole di un reato una ragazza clandestina stuprata o un lavoratore clandestino vittima di un incidente sul lavoro solo perché si presentano in ospedale?». Le stesse cose che pensano Ferro e la dottoressa Laura Sacchi, responsabile sanitaria di "Camminare insieme": «Questa riforma voluta dalla Lega è una pagliacciata. Il reato di immigrazione clandestina prevede una sanzione amministrativa: al massimo produrrà un foglio di via in più. Il risultato, invece, è di alimentare la paura che tiene lontano i malati».
Al pronto soccorso delle Molinette e nel reparto d´urgenza, intanto, il via vai notturno dei pazienti non si ferma. Sono le due passate, il dottor Riccardini dà ancora un´occhiata al computer e poi si alza per andare a fare una visita. «Pensi un po´ - si congeda - negli stessi giorni in cui la maggioranza di governo dice di battersi per la vita, sceglie di varare una legge e di alimentare una paura che rischiano di far morire i clandestini».

Repubblica 11.2.09
"Vi bruciamo", raid contro immigrati
Aggressione a Roma: è allarme nel rione multietnico di Piazza Vittorio
di Paolo G. Brera


All´Esquilino gang fermata da agenti: minacciava con bombole spray ragazzi bengalesi

ROMA - «Il quartiere è mio, andate via, vi brucio! Io sono italiano, vi odio. E se chiamate la polizia vi uccido». Ivan Balzanelli, 20 anni, pluri ripentente all´istituto tecnico, spacciatore per mestiere e "writer" per passione, è finito in cella di sicurezza per aver tentato di dare fuoco a tre bengalesi nel cuore dell´Esquilino, il quartiere multietnico di Roma che da esempio di integrazione sta rapidamente scivolando sul sentiero dell´odio razziale.
Lo hanno bloccato appena in tempo, lunedì alle 22.30, con una bomboletta spray di vernice puntata verso uno dei bengalesi - tre ragazzi di 18 e 21 anni - e con l´accendino nell´altra mano per fare da lanciafiamme. Un attimo più tardi e si sarebbe replicato l´incubo di Navtej Singh Sidho, l´indiano dato alle fiamme da tre teppisti nella stazione di Nettuno e ancora ricoverato in condizioni critiche. Pessimo clima, e in peggioramento: la scorsa settimana l´associazione Dhuumcatu ha distribuito agli indiani dell´Esquilino volantini con consigli su come evitare «situazioni pericolose» con l´invito, per esempio «a non prendere l´autobus da soli, dopo le nove di sera».
Balzanelli non era solo: con lui c´erano altri due giovani - uno certamente italiano, un altro forse straniero, con lineamenti magrebini - fuggiti appena hanno capito che i ragazzi intervenuti per difendere i bengalesi e bloccare Ivan erano agenti in borghese della squadra anti rapina del commissariato Esquilino: «È lui, l´abbiamo preso». Gli davano la caccia da mesi, perché insieme agli altri due bulli da novembre terrorizzava indiani e bengalesi promettendo: «Vi brucio!». Ieri ha provato a farlo davvero.
«Avevamo ricevuto diverse segnalazioni, anche se nessuno aveva voluto sporgere denuncia. Ci descrivevano un giovane alto un metro e settanta, con il naso grosso e i capelli castani», spiega il dirigente del commissariato, Domenico Condello. Aveva in tasca una buona provvista di marijuana ed era completamente «fuori di testa», così lo descrivono gli agenti. Quando sono intervenuti per deviare il getto dal volto del bengalese, Ivan si è voltato minaccioso puntando verso uno di loro la bomboletta e provando a dar fuoco. Gli sono saltati addosso in due, lottando per buttarlo a terra e ammanettarlo. «Non li aveva riconosciuti come poliziotti perché erano in borghese - spiega Condello - e l´agente ha deviato il lancio all´ultimo istante».
Un perdigiorno, dicono ora in commissariato, che ciondolava da mattina a sera imbrattando muri e treni con le sue sigle e i suoi disegni. Viveva col padre in estremo degrado, e in casa gli agenti hanno trovato altra marijuana. Ha precedenti penali per spaccio, danneggiamento e violenza privata aggravata da odio razziale. «Mi auguro che questo demente abbia la dovuta punizione e che non ci sia nessuna clemenza», taglia corto il sindaco di Roma, Gianni Alemanno. «Chi nei giorni scorsi irresponsabilmente aveva indicato nella cattiveria l´atteggiamento da assumere nei confronti degli immigrati, ora si interroghi», dice il presidente della Provincia, Nicola Zingaretti (Pd).

Repubblica 11.2.09
E il governo romeno ora accusa "L´Italia incita alla xenofobia è un comportamento antieuropeo"
di Caterina Pasolini


Veltroni: "Maroni querela Famiglia Cristiana per l´uso di ‘leggi razziali´? Denunci pure me"

Un Paese stretto ormai tra "leggi razziali" e "politici xenofobi". Così accusa un settimanale cattolico e rincara la dose la Romania. Nei giorni delle rapine ad opera di stranieri, di immigrati pestati a sangue e dati alle fiamme per la sola colpa di essere nati altrove, il governo è messo sotto accusa per la sua politica sull´immigrazione. I politici alla guida del Paese si ritrovano sistemati sul banco degli imputati.
Il settimanale cattolico Famiglia Cristiana ha infatti parlato di "leggi razziali", condannando il decreto sulla sicurezza che invita i medici a denunciare i clandestini che si presentano in cerca di aiuto per farsi curare. Tratteggiando un futuro in cui i malati stranieri irregolari rischieranno di morire in strada per non farsi denunciare, e il nostro Paese correrà il pericolo di epidemie per non averli curati in tempo. Parole dure, nette, che hanno trovato subito concorde il leader del Pd Walter Veltroni. «L´Italia - dice - sta precipitando verso leggi razziali. Ora Maroni mi denunci, se vuole». Intanto dall´altra parte dell´Adriatico si muove la diplomazia e sono ancora critiche e accuse. «Quello italiano è un governo che incita alla xenofobia», denuncia il ministro degli esteri romeno Diaconescu.
Il ministro dell´interno Roberto Maroni ha reagito bollando le accuse del settimanale cattolico come «frasi deliranti» e annunciando querela, chiedendo ai suoi avvocati di procedere per via penale e civile. I suoi colleghi della Lega definiscono Famiglia Cristiana un «giornale eversivo». Dalla Farnesina il ministro Franco Frattini rispedisce stupito al mittente il ritratto di un´Italia governata da xenofobi.
Nel giorno delle accuse, il ministro degli esteri romeno non si nasconde i possibili motivi dell´atteggiamento negativo nei confronti dei suoi concittadini. Ha bene in mente gli ultimi recenti episodi in cui alcuni di loro sono stati accusati di stupro e rapina. Non chiede sconti, non cerca scusanti o scappatoie per i colpevoli ma condanne, che siano per le singole persone e non di una nazione intera.
«I reati commessi dai miei connazionali - dice Diaconescu - sono terribili, deplorevoli. Ogni Stato ha il diritto sovrano di sanzionare con la durezza che ritiene necessaria i reati commessi da qualsiasi persona, ma non è giusto lanciare l´anatema contro un´intera comunità». Da qui parte il j´accuse del governo romeno all´Italia: il ministro denuncia come «assolutamente deplorevole» l´atteggiamento di «alcuni rappresentati del governo italiano» che, «attraverso una retorica estremamente aggressiva sino alla provocazione, in pratica incitano alla xenofobia». «Voglio dire molto chiaramente che questo comportamento non è europeo», afferma.
Un popolo non può pagare per tutti, fa eco la showgirl Ramona Badescu, delegata del sindaco di Roma ai rapporti con la comunità romena. «Noi chiediamo pene esemplari per chi commette reati, magari facendo scontare la condanna nelle carceri romene che sono molto più dure di quelle italiane, ma chiediamo anche di non generalizzare. Cosa che ha detto anche Alemanno», afferma, ricordando che i romeni in Italia sono un milione e 200 mila, di cui 80 mila nel Lazio, che contribuiscono all´1,2% del pil italiano.
In serata al cahier de doléances romeno arriva la risposta della Farnesina: Frattini si dice stupito dalle dichiarazioni di Diaconescu e ribadisce che il governo italiano «deplora ogni forma di violenza indipendentemente dalla nazionalità di chi la commette».
Pronto a ribadire che «non risulta in nessun modo che membri dell´esecutivo abbiano utilizzato espressioni che possano essere considerate xenofobe. il nostro Paese è da sempre noto per essere luogo di grande tolleranza ed ospitalità».

Repubblica 11.2.09
Darwin
Che cosa resta di una teoria che sfidò millenni di pregiudizi
di Luigi e Luca Cavalli Sforza


In questo secolo conosceremo il Dna di moltissime dei due milioni di specie vegetali e animali. E potremo ricostruirne l´albero evolutivo
Il fondatore del moderno evoluzionismo nasceva duecento anni fa E centocinquanta anni fa scriveva il libro sull´origine della specie
Altri risultati si otterranno nello studio delle forze che producono la differenziazione, la nascita di nuove e l´estinzione di vecchie specie

Sono passati duecento anni dalla nascita di Darwin, centocinquanta dalla pubblicazione del suo libro sull´origine delle specie. L´idea dell´evoluzione non era completamente nuova. Lamarck l´aveva avanzata più di cinquant´anni prima, ma non aveva dato una spiegazione convincente della causa. Invece, Darwin l´aveva trovata, e la biologia ha potuto crescere, anche e soprattutto grazie a questo riconoscimento fondamentale, che era però in urto con millenni di pregiudizi. In questo secolo abbiamo raggiunto lo stadio in cui la biologia è diventata una scienza esatta, in due modi diversi. Il primo è chimico, perché la chimica degli organismi viventi non è più limitata allo studio di poche, piccole molecole biologiche di secondaria importanza, come era la chimica biologica di cinquant´anni fa. Oggi conosciamo le vere molecole della vita, che sono grandi e complicate. La struttura fondamentale delle specie viventi è contenuta in lunghissimi "libri" che formano il patrimonio ereditario o genoma: una descrizione chimica, scritta in un alfabeto a quattro lettere, i nucleotidi, le unità che attaccate l´una all´altra in lunghissimi filamenti formano il Dna.
In questo secolo conosceremo il Dna di moltissime dei due milioni di specie di piante ed animali che hanno ricevuto un nome dai tassonomi che le studiano, e potremo ricostruirne l´albero evolutivo in forma di una genealogia molto complicata, ma esatta. La tassonomia zoologica e botanica e dei microrganismi diventeranno librerie enormi, ogni specie un libro molto lungo, fatto di tanti capitoli quanti sono i cromosomi (in numero caratteristico di ogni specie: uno nei batteri, 23 nell´uomo). Ogni capitolo è fatto di sezioni, i geni, tanti quante sono le proteine diverse poiché ogni gene contiene le istruzioni per fare una proteina specifica, ognuna con costituzione chimica, forma e funzione speciale. Queste istruzioni dipendono dall´ordine in cui i nucleotidi sono entro il cromosoma, in media una migliaia di nucleotidi per gene, e vi sono decine di migliaia di geni nel nostro genoma. Vi sono anche lunghi tratti di Dna fra i singoli geni di cui sappiamo meno, ma vi è molta attività per imparare se e quale funzione hanno. Tutto insieme il Dna determina la forma e funzione del corpo di ogni organismo vivente e delle sue parti.
Il secondo progresso sarà nello studio delle forze e leggi che producono l´evoluzione, cioè la trasformazione di ogni specie, la loro differenziazione, l´origine di nuove e l´estinzione di vecchie. Questi studi sono cominciati all´inizio del secolo scorso con teorie matematiche che sono paragonabili a quelle della fisica nello studio della materia non vivente. Abbiamo applicato così la raccomandazione di Galileo di ricordare che «la materia è scritta in termini matematici» � ma aggiunge subito, quasi per tranquillizzarci, esempi che ci parlano di forme geometriche che ci sono famigliari. Forse già ai suoi tempi era diffusa una certa paura dei numeri e delle formule.
Quel che Darwin trovò è una spiegazione semplice e universale che ci permette di capire come sono fatti gli organismi viventi e perché devono cambiare, adattandosi sempre meglio al loro ambiente. Noi, come tutti gli altri organismi viventi, abbiamo una certa complessità, e siamo capaci di riprodurre altri individui estremamente simili a noi stessi: la proprietà fondamentale della vita, che la rende possibile, è l´auto-riproduzione. Al tempo di Darwin si pensava che ogni essere vivente fosse stato creato da un Ente soprannaturale e non cambiasse mai. Ne era convinto anche il nostro eroe quando ha cominciato le sue esplorazioni attraverso il mondo: tutte le specie furono create circa 6000 anni fa, secondo la interpretazione letterale della Bibbia, che riassume in sei "giorni" i quasi sei miliardi di anni di vita della Terra. Parlare di "epoche" sarebbe stato un po´ meno erroneo; molte volte una parola ci tradisce - un errore di traduzione della parola "giorni"? Darwin è stato aiutato da varie osservazioni a capire quel che succede, anche se la storia della nostra specie è molto corta ed eravamo poco interessati a scoprirla. Solo recentemente gli archeologi e i paleontologi hanno cominciato a studiare cadaveri molto antichi, pietrificati. Avevano cominciato ai tempi di Darwin ma non vi era accordo sulla loro interpretazione: un grande medico tedesco, Rudolf Virchow, fondatore dell´anatomia patologica, alla cui analisi furono sottoposti i primi scheletri di Neanderthal dichiarò che le anomalie ossee riscontrate erano dovute a fatti patologici. Ma sotto l´influenza dell´addomesticazione, gli animali hanno avuto una profonda evoluzione.
Ieri guardavo i complimenti che si scambiavano due cani, un pechinese e un gran San Bernardo. Sono così diversi, che sarebbe assai difficile a noi riconoscere che sono la stessa specie se non lo sapessimo dalla storia di pochi secoli. Perché la loro apparenza è così differente? Sono i loro padroni che li hanno cambiati come hanno voluto, continuando a scegliere per la riproduzione certi individui strani e diversi. Hanno potuto farlo per molte generazioni, dato che i cani si riproducono assai più rapidamente di noi. Questo processo di scelta volontaria dei riproduttori non ha però modificato la loro capacità di riprodursi fra loro: ha avuto il nome di "selezione artificiale", e le molte osservazioni mostrano che può provocare una rapida evoluzione.
Altro aiuto alle elucubrazioni di Darwin venne dalle osservazioni demografiche dell´economista inglese Thomas Robert Malthus, circa l´insufficienza delle risorse di vita rispetto alla rapida riproduzione degli organismi viventi, che crea situazioni di competizione per cui solo una frazione piccola dei nati riesce a riprodursi. Il titolo della prima opera di Malthus sembra preannunziare la selezione naturale: Un saggio su un principio demografico che influenza il miglioramento futuro della società; in realtà l´economista Malthus si riferiva all´aumento di ricchezza, non di adattamento biologico della popolazione al proprio ambiente di vita. Difatti la selezione naturale è un fenomeno strettamente demografico che agisce automaticamente selezionando i "migliori", che sono coloro che si riproducono di più nell´ambiente di vita. Ma il processo può funzionare solo per i caratteri ereditarii, cioè che si ripresentano sufficientemente immutati nei figli. Sappiamo che un certo tipo ereditario (per esempio, la pelle scura) dà più probabilità di sopravvivere ed avere figli, a confronto con un tipo ereditario diverso (la pelle chiara) in un ambiente tropicale in cui il sole batte forte, perché i raggi ultravioletti solari provocano tumori cutanei, potenzialmente mortali, molto meno frequentemente negli individui di pelle scura. Infatti, il pigmento cutaneo scuro impedisce agli ultravioletti di traversare la pelle e giungere alle cellule capaci di produrre il tumore. È chiaro che in questo modo la popolazione tenderà a diventare più nera di pelle ai tropici, tanto più rapidamente quanto più alta è la mortalità da tumore negli individui di pelle chiara rispetto a quella di pelle scura, limitatamente ai tropici. È necessario, naturalmente, che il colore della pelle sia ereditato, e lo è largamente. L´intensità della selezione naturale dipende dalla differenza di probabilità di sopravvivere fino a riprodursi, e dalla fecondità tra i due tipi ereditarii nell´ambiente comune ai due tipi. Il "teorema fondamentale della selezione naturale" di R.A.Fisher (1930) che prevede la velocità di cambiamento di un carattere ereditario sotto selezione naturale usa appunto le curve di sopravvivenza e di fecondità in funzione dell´età per i diversi tipi ereditarii.
Darwin sapeva che in qualche modo si producono differenze ereditarie per caratteri specifici fra individui, ma non sapeva come. Oggi sappiamo che la riproduzione implica il passaggio dai due genitori a ogni figlio di una copia completa del genoma del padre e di quello della madre. Ma la produzione di una copia del Dna comporta una certa frequenza di "errori di copia", di cui i più semplici e comuni sono l´errore di trascrizione di un singolo nucleotide in un singolo punto di un particolare cromosoma: in pratica, la sostituzione di uno dei quattro tipo di nucleotidi con uno degli altri tre. Questo cambiamento del Dna detto una mutazione è trasmissibile ai figli e tutti i discendenti, poiché la copia con l´errore passata ai figli viene a sua volta copiata per la trasmissione dai figli ai loro figli.
La mutazione è un fenomeno spontaneo, raro, e viene considerato come un fatto "casuale", cioè normalmente non prevedibile se non per la frequenza con cui avviene, e che può essere modificata da condizioni ambientali o anche genetiche, ma non è una risposta adattativa all´ambiente specifico. L´unica forza che aumenta sistematicamente ed automaticamente l´adattamemto di una popolazione al suo ambiente di vita è la selezione naturale. Vi sono altre forze evolutive che influenzano la velocità di evoluzione, e sono anch´esse di natura demografica come la deriva genetica (drift, in inglese) che dipende dal numero di individui che formano la popolazione (o, più esattamente dal numero di riproduttori che formano la generazione successiva), e la migrazione fra popolazioni diverse. La specie umana è più facile da studiare sotto questo profilo di quasi qualunque altra poiché è più facile ottenere informazioni demografiche anche storiche; ed è la specie che ci interessa di più. Però la specie umana ha aggiunto una nuova evoluzione a quella strettamente biologica in modo più importante di qualunque altro organismo: l´evoluzione culturale, intendendo per cultura tutto quanto apprendiamo dalla famiglia e dalla società in cui viviamo. Essa può essere molto più rapida di quella biologica perché ha altri metodi di trasmissione, assai più potenti. Quel che viene trasmesso sono le invenzioni , cioè le idee e la loro applicazione alla vita di ogni giorno.
In pratica oggi l´evoluzione culturale cambia sistematicamente la selezione naturale cui siamo sottoposti. La selezione naturale resta però sotto controllo, dato che la nostra evoluzione culturale influenza probabilità di sopravvivenza e fecondità. Basta pensare agli effetti che una guerra nucleare potrebbe avere � non si può neanche escludere la scomparsa della nostra specie.

Repubblica 11.2.09
In un capitolo dell´"Autobiografia" il suo rapporto col pensiero religioso
Il disegno divino che mise in discussione
Dall´"ortodossia perfetta" degli anni giovanili alla perdita graduale della fede "Un uomo sano di mente non può credere nei miracoli"
di Piergiorgio Odifreddi


Esce in questi giorni da Longanesi "In principio era Darwin" di (pagg. 120, euro 12). Qui ne anticipiamo un brano.
Che cosa pensasse Darwin delle scimmie è noto, ma lo è meno che cosa pensasse di Dio, benché per saperlo basti leggere il capitolo "Opinioni religiose" della sua Autobiografia, nel quale egli descrive l´evoluzione del suo pensiero al riguardo. Sui suoi anni giovanili egli commenta che, «pensando ai violenti attacchi che mi hanno rivolto gli ortodossi, sembra ridicolo che un tempo abbia voluto fare il pastore protestante»: un´idea che gli era stata suggerita dal padre, dopo il suo rifiuto di diventare medico, ma che «morí di morte naturale» quand´egli si imbarcò sul Beagle alla fine del 1831. A quel tempo, comunque, Darwin era di «un´ortodossia perfetta», tanto che persino gli ufficiali credenti lo prendevano in giro per le sue continue citazioni bibliche.
Ma appena cominciò a pensare all´evoluzione, tra la fine del 1836 e l´inizio del 1838, egli si rese gradualmente conto che la Bibbia «non meritava più fede dei libri sacri degli indù o della credenza di qualsiasi barbaro», e che era impossibile per «un uomo sano di mente credere nei miracoli». Il risultato fu una graduale perdita di fede nella religione cristiana in quanto verità rivelata: «L´incredulità si insinuò nel mio spirito, e finì per diventare totale. Il suo sviluppo fu tanto lento che non ne soffersi, e da allora non ho mai più avuto alcun dubbio sull´esattezza della mia conclusione. In realtà non posso capire perché ci dovremmo augurare che le promesse del cristianesimo si avverino: perché in tal caso, secondo le parole del Vangelo, gli uomini senza fede come mio padre, mio fratello e quasi tutti i miei amici più cari, sarebbero puniti per l´eternità. E questa è un´odiosa dottrina».
Tra parentesi, questo brano fu espunto dalla prima edizione (postuma) dell´Autobiografia su esplicita richiesta della bigotta moglie Emma, che lo trovò «troppo crudo»: correttamente, perché esso non lascia scampo alla religiosità istituzionale del cristianesimo. Più sottile è invece il problema di una religiosità elevata ed astratta, ad esempio quella derivata dalla contemplazione della natura, al cui riguardo Darwin nota: «Le condizioni di spirito che un tempo le grandi visioni naturali risvegliavano in me e che erano intimamente connesse con la fede in Dio, non differivano sostanzialmente da ciò che spesso si indica come sentimento del sublime. E ciò, nonostante sia difficile spiegarne la genesi, non può essere preso come prova dell´esistenza di Dio, più di quanto non lo siano i sentimenti analoghi, forti ma indefiniti, suscitati dalla musica».
L´argomento teologico più popolare agli inizi dell´Ottocento era però quello proposto da William Paley nella Teologia naturale del 1802, che faceva appello all´ordine della natura: sostanzialmente, argomentava il vescovo, come l´osservazione di un orologio rimanda a un orologiaio, così l´osservazione del creato rimanda a un creatore. Ma benché il giovane studente Darwin avesse tratto dalla lettura dell´opera di Paley «tanto piacere quanto da Euclide», l´adulto scienziato fu ben conscio che la sua teoria aveva dato il colpo di grazia all´analogia: «Oggi, dopo la scoperta della legge della selezione naturale, cade il vecchio argomento di un disegno della natura secondo quanto scriveva Paley, argomento che nel passato mi era sembrato decisivo. Un piano che regoli la variabilità degli esseri viventi e l´azione della selezione naturale, non è più evidente di un disegno che predisponga la direzione del vento».
E per Darwin non solo l´osservazione della natura non sembrava fornire argomenti a favore dell´esistenza di Dio, ma ne forniva addirittura di contrari: ad esempio, la presenza del dolore, che invece «concorda bene con l´opinione che tutti gli esseri viventi si siano sviluppati attraverso la variazione e la selezione naturale». E fu proprio il dolore per la prematura scomparsa della figlia Annie, il 23 aprile 1851, a convincere Darwin ad abbandonare la pratica religiosa: da quel momento, cessò di andare in chiesa. Ma, nonostante tutto, fino al tempo in cui scrisse L´origine delle specie egli continuò ad attribuirsi l´appellativo di «teista» a causa della «estrema difficoltà, l´impossibilità quasi, di concepire l´universo come il risultato di un mero caso o di una cieca necessità».
Solo «in seguito, dopo molti alti e bassi, questa conclusione si è gradualmente indebolita», dirà in un´aggiunta all´Autobiografia. E in una lettera del 1879, a tre anni dalla morte, a un corrispondente che gli chiedeva la sua posizione nei confronti della religione egli scriveva: «Il mio giudizio è spesso fluttuante, ma anche nelle mie fluttuazioni più estreme non sono mai stato un ateo, nel senso di negare l´esistenza di Dio. Mi pare che generalmente (e tanto più quanto più invecchio), ma non sempre, la miglior definizione del mio pensiero sarebbe: "agnostico"».
L´agnosticismo di Darwin, ribadito nell´Autobiografia, risultava congeniale al suo disimpegno nei confronti dell´anticlericalismo, testimoniato da una lettera del 13 ottobre 1880 a Karl Marx, in cui egli declinava l´offerta di dedica del secondo volume del Capitale: «Benché io sia un fervido sostenitore della libertà di opinioni in ogni argomento, mi sembra (a torto o a ragione) che attacchi diretti contro il cristianesimo e il teismo abbiano assai scarso effetto sul pubblico, e che la libertà di pensiero possa meglio promuoversi con quella illuminazione graduale dell´intelletto umano che consegue al progresso delle scienze. Perciò ho sempre evitato di scrivere sulla religione, e mi sono limitato alla scienza».
Ma come da un lato l´educazione scientifica può avere un effetto positivo e antireligioso, così dall´altro lato l´educazione religiosa può sortire un complementare effetto negativo e antiscientifico. Lo conferma un passo dell´Autobiografia, in cui si può leggere una chiara allusione al Genesi: «Non dobbiamo trascurare la probabilità che il costante inculcare la credenza in Dio nelle menti dei bambini possa produrre un effetto così forte e duraturo sui loro cervelli non ancora completamente sviluppati, da diventare per loro tanto difficile sbarazzarsene, quanto per una scimmia disfarsi della sua istintiva paura o ripugnanza del serpente».

Corriere della Sera 11.2.09
Terrorismo Bloccato il processo in corso alla Corte d'Appello di San Francisco
«Rendition», sì al segreto di Stato «Obama conferma la linea Bush»
Invocata la sicurezza nazionale sui detenuti rapiti all'estero
Mohammed e altri quattro detenuti hanno denunciato di essere stati torturati in una prigione segreta della Cia
di P. Val.



WASHINGTON — Almeno per il momento, sulle rendition Barack Obama conferma la linea di George W. Bush. Il legale che rappresenta la nuova Amministrazione ha detto a una Corte d'Appello di San Francisco che la prosecuzione del dibattimento in un caso di sequestro di presunti terroristi metterebbe a rischio la sicurezza nazionale. È lo stesso argomento usato dal precedente governo americano, per bloccare il processo in prima istanza.
Il caso coinvolge un etiope, Binyam Mohammed, e altri quattro detenuti, che hanno portato in Tribunale una sussidiaria della Boeing, che avrebbe fornito gli aerei a bordo dei quali la Cia li aveva trasportati all'estero, dopo averli rapiti, consegnandoli a Paesi terzi nei quali sarebbero stati torturati.
La decisione conferma la cautela con cui l'Amministrazione Obama si muove sul campo minato delle rendition, nonostante abbia rotto con altri aspetti importanti delle pratiche del governo Bush nella lotta al terrorismo, annunciando la chiusura di Guantánamo e approvando le nuove direttive, che proibiscono l'uso della tortura negli interrogatori.
Lo stop al processo di San Francisco avviene mentre il nuovo ministro della Giustizia, Eric Holder, ha avviato una revisione generale sull'uso del privilegio del segreto di Stato, con lo scopo di evitare che venga opposto per coprire verità che gli americani hanno diritto di conoscere. Ma alle rendition, una pratica che risale già all'Amministrazione Clinton, Obama non sembra intenzionato a rinunciare. La sola modifica allo studio, secondo il Wall Street Journal, sarebbe quella di assicurarsi che, una volta portati all'estero, i sospetti non vengano torturati.
La scelta di invocare la sicurezza nazionale, per ottenere l'archiviazione del caso, ha provocato reazioni negative negli ambienti progressisti. «Questo non è un cambiamento, ma la continuazione di ciò che c'era prima — ha dichiarato Anthony Romero, direttore esecutivo dell'American Civil Liberties Union, che rappresenta i cinque querelanti —, il candidato Obama ha corso contro l'abuso dei segreti di Stato, ma il Dipartimento della Giustizia del presidente Obama ha rinnegato quella promessa. Se questo è un indizio per il futuro, la strada per riavere un Paese del quale siamo fieri si presenta molto lunga e accidentata ». Un portavoce del Dipartimento della Giustizia, Matt Miller, non ha voluto far commenti su un procedimento in corso, ma ha spiegato che il nuovo presidente «intende far ricorso al segreto di Stato solo quando sarà necessario e legalmente appropriato».
Nelle carte del processo di San Francisco, la denuncia parla di durissimi trattamenti in una prigione segreta del Marocco, dove Mohammed sarebbe stato regolarmente bastonato, sfregiato nel corpo con uno scalpello e le ferite cosparse di un liquido caldo irritante.

Corriere della Sera 11.2.09
Decine di casi: maschi, minorenni, creativi
Chiusi in una stanza: gli hikikomori d'Italia
Gli psichiatri: ragazzi isolati per anni, come a Tokio
di Alessandra Mangiarotti


I racconti: «Via dal mondo, niente scuola e amori, ci basta Internet». La studiosa Ricci: dietro a loro madri iperprotettive

MILANO — Alex ha messo un chiavistello alla porta della sua stanza e per oltre sei mesi ha chiuso il mondo fuori. Andrea da nove passa le sue notti su Internet perché la vita vera, dice, è lì. Anna esce dalla camera solo di notte per assaltare il frigorifero. Luca risponde esclusivamente a chi lo chiama con il «nick» perché il suo nome gli suona vuoto come la sua esistenza. Confondono il giorno con la notte, parlano con gli sconosciuti e sono sconosciuti in casa loro. Sono le esistenze rovesciate degli hikikomori, i giovani autoreclusi, non più solo giapponesi.
Per conoscere le loro storie devi parlare con le sentinelle impotenti del loro ritiro. Genitori, fratelli, amici: «Mio figlio per oltre sei mesi mi ha parlato solo attraverso la porta e solo per urlarmi "lasciami in pace"»; «Mia sorella esce quando tutti dormono: mi ruba le sigarette dallo zaino e torna a rinchiudersi ». Ma per incontrarli non puoi che andarli a cercare nel loro regno: Internet. Ecco Chaoszilla, dà un nome agli autoreclusi come lui: «Io sono un hikikomori »; Pavély spiega cos'è, un hikikomori: «È una parola giapponese. Indica il comportamento di quei ragazzi che per anni vivono in casa, senza affrontare la vita e l'amore. Solo Internet e fumetti. Cosa importante: io sono uno di loro»; Miki s'identifica, quindi quantifica il fenomeno: «Ve lo dico: hikikomori è un traguardo, è la frontiera. In Giappone sono circa un milione. In Italia siamo mostruosamente indietro ma la necessità di isolarsi dall'orribile mondo esterno vedo che si diffonde sempre di più».
Su una cosa Miki e il mondo fuori dalla sua stanza sono d'accordo: gli hikikomori, anche in Italia, sono sempre di più. Non esistono statistiche sulla «lost generation » nostrana. Solo le testimonianze di psicologi: oltre 50 i casi che abbiamo registrato. E le storie (nascoste dietro nomi di fantasia) di Alex: 16 anni e una vita in 20 mq scandita dal rombo degli aerei di Malpensa; Andrea: un anno in più di Alex e una «cella » alle porte di Brescia; Valentina: rinchiusa in un appartamento sull'Adriatico; Luca: solo di recente uscito dal suo «guscio» in Gallura. Più maschi che femmine. Quasi sempre «under 18», almeno in Italia. Molto intelligenti, creativi, ma introversi. Letteralmente giovani «in ritiro», ragazzi che senza un apparente motivo si chiudono nella loro stanza. Chi (come Oblomov di Goncarov) per incapacità di affrontare il mondo, chi (è il caso di Miki) per esprimere la sua rabbia. E ancora: chi per mesi, chi per anni. Il record nostrano: tre-quattro anni. Quello nipponico: 15 e più. Per alcuni la clausura è totale, per altri parziale: qualcuno esce dalla propria stanza per cenare con i genitori, per andare in vacanza, chi vive solo è obbligato a farlo per comprare del cibo nel supermercato più vicino.
In Giappone gli hikikomori sono un fenomeno culturale e sociale: sono oltre un milione, l'1% della popolazione, il 2% degli adolescenti. Alcuni ricercatori, tra cui Michael Zielenziger (suo il saggio
Non voglio più vivere alla luce del sole), hanno avanzato l'ipotesi che anche la principessa Masako Owada, ne sia affetta. La colpa della loro autoreclusione è stata data alle pressioni sociali, alla severità del sistema scolastico, alla spinta verso l'omologazione, alle madri oppressive, ai padri assenti, al bullismo. Tamaki Saito è stato il primo psicoterapeuta a studiare quello che viene definito un disturbo («non una patologia»). Ma è stato anche il primo a evidenziare alcuni punti di contatto tra i ragazzi giapponesi e i «mammoni italiani». A ricordarlo è Carla Ricci, antropologa con una vita a Tokyo e autrice del libro Hikikomori: adolescenti in volontaria reclusione.
«Il fenomeno è tipicamente giapponese. Ma da lì si sta allargando in Corea, Usa, Nord Europa, Italia». La prima analogia: «Lo stretto rapporto con la madre. Proprio il suo essere iperprotettiva, spesso entrambi i genitori lo sono, può rendere il figlio narcisista e fragile. E alla prima difficoltà si ritira». Inizia col passare sempre più ore nella sua camera, col disertare le cene in famiglia, niente amici, sport, cinema. «Finché un mattino dice di non voler più andare a scuola perché ha bisogno di riposarsi».
Nell'ultimo anno all'Istituto «Minotauro» di Milano, dove lavorano Gustavo Pietropolli Charmet e Antonio Piotti, si sono rivolti i genitori di oltre 20 ragazzi. Le loro storie sono coperte dal più stretto riserbo. «Cinque i più gravi: vivono chiusi nelle loro stanze da ormai tre anni». Spiega Pietropolli Charmet: «In ogni momento storico e in ogni Paese i giovani hanno dato sfogo al loro malessere: le isteriche di Freud, i tossicodipendenti anni '60-'70, le nostre anoressiche. Gli hikikomori sono figli della cultura giapponese, ma i nostri "autoreclusi" condividono con loro più di un aspetto». Continua Piotti: «Innanzitutto la vergogna narcisistica. Lo scarto tra il loro desiderato e il reale è troppo forte. Colpa anche delle eccessive aspettative dei genitori ». All'origine c'è poi spesso una fobia scolastica. «Ma mentre i ragazzi giapponesi fuggono da regole troppo severe, i nostri scappano dall'incapacità di gestire relazioni di gruppo». Identico il risultato: «Si chiudono in una stanza. Sostituiscono la vita reale con quella virtuale. Ma Internet e i giochi di ruolo sono solo una conseguenza, non una causa», afferma Giuseppe Lavenia, del Centro Nostos di Senigallia, una decina di casi trattati. Spesso, come le anoressiche, negano il proprio corpo. Ultimo passo: l'inversione del ritmo circadiano, vivono di notte e dormono di giorno.
Più il ragazzo vive nel suo guscio, e per questo soffre, più è difficile farlo uscire. «Il problema è entrare in contatto con loro», dice Giovanna Montinari, psicoterapeuta della cooperativa romana «Rifornimento in volo», altri due casi allo studio. Non resta che parlare con i genitori, con gli amici. «Ma a volte il contatto arriva solo grazie a quello che chiamiamo "compagno o fratello maggiore", un giovane psicoterapeuta». È il caso di Alex: la prima persona a cui ha aperto la porta, dopo oltre sei mesi di autoreclusione, è stata la «sorella maggiore» che ha bussato alla sua chat.

Corriere della Sera 11.2.09
Capezzone e la nave della «dolce morte»
di Pier Giorgio Stella


«Il primo voltagabbana della storia fu San Paolo sulla via di Damasco» disse un giorno Francesco Cossiga. «Anche Lutero era cattolico, prima di diventare protestante», spiegò Claudio Martelli per togliersi di dosso l'accusa di aver fatto il salto della quaglia. Sia San Paolo sia Lutero, però, fecero sapere di essersi convertiti. Pubblicamente. Cristallinamente. Nel caso di Daniele Capezzone e delle sue idee su casi come quello di Eluana, invece, dobbiamo esserci persi qualche puntata. Prima che si schierasse al fianco del Cavaliere sentenziando a proposito del decreto non firmato da Napolitano che «il Governo non poteva e non può essere messo sotto tutela» e dunque bene aveva fatto a rivendicare «il diritto-dovere di assumersi le sue responsabilità politiche», avevamo annotato opinioni diverse. Ma non per questo meno bellicose.
Su Eluana, ad esempio, aveva tuonato sette anni fa che «nulla consente di chiamare "vita" le condizioni» in cui versava visto che «non potrà mai riprendere coscienza, essendo necrotizzata la sua corteccia cerebrale» avendo un «corpo senza vita (...) alimentato con un sondino nasogastrico ». Tre anni dopo, era ancora più sicuro: «Mi pare crudele che non si sia dato ascolto a questo papà e a questa mamma, i quali non hanno fatto altro che chiedere il rispetto della volontà della loro figlia». Quanto a chi sollevava dubbi sulla «dolce morte», come Girolamo Sirchia, non aveva dubbi: era un «talebano » che voleva «imporre a tutti quanti la sua fatwa ». Rocco Buttiglione e Carlo Giovanardi, poi! Come potevano denunciare la legge sull'eutanasia olandese che consentiva di avviare a morire anche i bambini al di sotto dei 12 anni, inclusi i neonati, con malattie incurabili? «Se non parlassimo di cose drammatiche ci sarebbe quasi da sorridere di questo comportamento da venditori di Rolex falsi. Ma il guaio è che si va compiendo una sorta di danza macabra nel dolore, di ballo propagandistico intorno a una questione drammatica». Lui sì lo sapeva, cosa bisognava fare: «L'eutanasia clandestina in Italia c'è già e nasce dalla contrattazione oscena e dolorosa tra medici e pazienti». Dunque «è necessario fare un'operazione analoga a quella che a suo tempo si è fatta per l'aborto: l'eutanasia deve essere portata alla luce, regolamentata e controllata». Lo mise anche nella mozione unitaria in 7 punti del Partito Radicale di cui era segretario. Occorreva «la legalizzazione dell'eutanasia».
La Chiesa non era d'accordo? Uffa, sbuffava lagnandosi del governo Prodi e della sinistra della quale faceva allora parte: «Mi pare che, mentre Napolitano deve ancora avviare le sue consultazioni, il cardinale Ruini abbia già avviato le proprie, in modo molto particolare, con una ennesima perentoria indicazione di quello che Governo e Parlamento devono o non devono, possono o non possono fare. Pacs, aborto, eutanasia: siamo dinanzi a un vero e proprio programma di governo...». Un po' di amici radicali dell'epoca ricordano anzi che l'allora grintosissimo segretario laicista arrivò a buttar lì l'idea di allestire una nave che, navigando al di fuori delle acque territoriali, offrisse a chi voleva la possibilità di avere la dolce morte senza intralci clerical-destrorsi. Crociere. Ma senza porto d'arrivo...

Corriere della Sera 11.2.09
Un saggio di Emanuele Narducci sul grande oratore dell'antichità illumina i dilemmi e le tragedie che accompagnano la lotta per il potere
L'illusione della politica: la solitudine di Cicerone
Eventi impossibili da governare, compromessi logoranti Così tramontano le ambizioni di un leader sconfitto
di Luciano Canfora


Cicerone è uno dei pilastri della nostra conoscenza del mondo antico. Se non avessimo la sua imponente opera, le nostre conoscenze sarebbero assai più povere. Cicerone è anche l'uomo antico che conosciamo meglio, poiché è l'unico personaggio di tutta l'antichità sia greca che romana di cui ci siano giunte — in quantità imponente — le lettere, moltissime delle quali private; non certo destinate ai posteri, come sono invece quelle di Seneca a Lucilio, di Plinio, di Simmaco o dei padri della Chiesa. Questa inopinata fonte, che comprende quasi un migliaio di lettere, copre un ventennio, dal consolato (63 a.C.) alla morte (43 a.C.): essa ci consente di conoscere quel decisivo periodo storico meglio di qualunque altro della storia antica. Ma ha anche l'effetto di renderci talmente «familiare » Cicerone, di «svelarlo» in modo talmente indiscreto, da pregiudicare per sempre la sua reputazione presso i moderni. Questo fu l'effetto che si produsse già quando Francesco Petrarca mise le mani sul manoscritto delle Lettere ad Attico, le più intime, le meno «controllate». Talmente si turbò Petrarca nel vedere Cicerone messo a nudo da indirizzargli una lettera durissima, e profondamente delusa, che incluse nella raccolta delle Familiari, una lettera che voleva essere una sconfessione, una rottura di rapporti col personaggio fino a quel momento venerato. (Successivamente però gliene scrisse un'altra, di riconciliazione).
Al di là della stravaganza di queste lettere a trapassati così remoti, l'episodio è sintomatico. Esso aiuta a meglio intendere il massiccio anti-ciceronismo di tanti moderni (tra i più sprezzanti il grande Theodor Mommsen nelle vibranti pagine della giovanile sua Storia di Roma).
A ulteriore riprova però del più generale fenomeno detto «eterogenesi dei fini », va qui rilevato che, almeno in parte, un freno alla demolizione di Cicerone fondata sul suo epistolario lo pose proprio il libro che maggiormente pareva proteso a tale demolizione: I segreti della corrispondenza di Cicerone di Jérôme Carcopino, pubblicato a Parigi subito dopo la guerra (1947). Un libro pieno di forzature e di troppo sistematici teoremi, ma che ebbe il merito di contribuire validamente a spiegare come mai proprio di Cicerone si fosse salvata non già solo quella parte di elaboratissime lettere che egli destinava ai posteri, ma anche l'amplissima silloge di lettere private, privatissime ed occasionali che tanto gli hanno postumamente nociuto. Carcopino intuì e documentò che la decisione di rendere pubbliche quelle centinaia di lettere era maturata nell'entourage augusteo (del quale faceva ormai parte anche Attico): appunto col fine di ridimensionare la figura dell'imbarazzante «martire», vittima delle proscrizioni triumvirali, macchia non facilmente estinguibile del princeps. Che l'operazione fosse consapevole e ben meditata non può sfuggire, se solo si considera la cura quasi maniacale di Augusto per la censura: dalla conservazione in archivio riservato delle lettere di Cesare al divieto di consentire la lettura delle opere poetiche giovanili di quel suo grande congiunto. Un accorto regista della censura quale fu Augusto sapeva quel che faceva se avallava (e forse promuoveva) la pubblicazione delle lettere del «martire» Cicerone. Quantunque definito, non a torto, da Piganiol, «un nemico di Cicerone », Carcopino — cui più tardi Shakleton- Bailey rinfacciò persino un modo di incalzante argomentare «alla Goebbels » — ottenne, con la sua torrenziale ricerca, un risultato durevole: quello di individuare il punto di partenza della storia testuale delle lettere ciceroniane, nonché la matrice politica dell'operazione. Operazione che mise in salvo, pubblicandolo, quel formidabile e inquietante archivio privato di un protagonista del declino della Repubblica.
La suggestione derivante dalla propria esperienza biografica aveva mobilitato, in questo caso più che in altri, la luciferina intelligenza di Carcopino. Ministro a Vichy, ma anche amico dell'Italia fascista ai tempi della sua lunga permanenza ufficiale a Roma, e però via via sempre più urtato dalla campagna mussoliniana antifrancese, in grave imbarazzo (fortunosamente superato) nel dopoguerra, in tempi di epurazione e di drastiche rese dei conti, Carcopino era particolarmente attratto dalla strutturale doppiezza della politica. Trascinare nel fango Cicerone grazie alle sue lettere— celebre la pagina dedicata all'«urlo» di entusiasmo per l'uccisione di Cesare racchiuso, forse, nel telegrafico biglietto indirizzato da Cicerone a Basilo ( Familiari,
VI,15) — era anche un modo di autoassolversi squadernando davanti ai moderni le doppiezze, le contraddizioni, le bassezze e le viltà di un «grande». Ma cosa sarebbe la storiografia dei moderni senza questo incoercibile corto circuito, analogico e catartico, con la materia presa ad oggetto della ricostruzione storica?
Uomini come Cicerone, così trasparenti (per le ragioni dette prima!) da esporsi ogni volta all'esame spietato dei moderni interpreti (alla lor volta alle prese con la loro propria vicenda biografica) finiscono, anche per questo, con l'essere punti di riferimento ritornante e, in verità, inesauribile. In lui si vedono le contraddizioni — che sono di ogni epoca — del politico che è però anche portatore di un universo di pensieri ai quali si illude di poter restare ancorato pur tra i marosi della politica. In lui si vede, meglio che in altri, l'illusione di «guidare», mentre di fatto si è «guidati ». (Sono i due «poli» della politica evocati da Tucidide nientemeno che a proposito di Pericle). In lui si coglie da vicino e quotidianamente il logoramento del politico sospinto verso il compromesso e insidiato dalla domanda costante: fino a che punto ci si può spingere sulla via del compromesso senza snaturarsi o addirittura rinnegarsi? In lui si vede anche lo scatto di ribellione — che talora ci prende — che si traduce poi nel ritiro in se stessi, nella scelta (in realtà coatta) di tornare a pensare e a scrivere perché la politica è diventata impraticabile. E per l'élite dirigente romana — per la quale la politica era tutto, vertice gratificante e totalizzante dell'agire umano — una tale rinuncia, un tale ritiro (per noi posteri così fecondo di risultati) era una rinuncia dolorosissima: sanabile solo con qualche sofisma autoconsolatorio, come osserviamo nelle tormentate e insincere prefazioni delle monografie di Sallustio.
Emanuele Narducci, che è scomparso troppo presto ed ha tuttavia lasciato un grande lavoro storiografico sulla cultura romana, in primis politica, ha dedicato a Cicerone una ricerca di lunga lena, durata tre decenni. Ed è giusto che l'editore Laterza, con l'impegno prezioso e sapiente di Mario Citroni, abbia voluto dare alle stampe postumamente il libro d'insieme su Cicerone che Narducci veniva elaborando nel tempo ( Cicerone, la parola e la politica). Ma cos'è in fondo questo libro — al di là della sua densa dottrina — se non un ripensamento, da parte di Narducci, della politica del tempo in cui egli stesso è vissuto con passione di militante pensante (figura non molto frequente), posto, dagli imprevedibili tornanti della vicenda storico- politica, di fronte a scenari sconcertanti e deludenti? Quando approda al paragone tra il secolo di Cicerone ed il «secolo breve» che abbiamo alle spalle, Narducci, proprio perché adotta quella formula di Hobsbawm (alle prese, quest'ultimo, anche lui con le dure repliche della storia), non fa che pensare il passato attraverso il presente e viceversa: lui che nel presente fu così profondamente involto.
La parola e la politica è dunque un appropriato sottotitolo. Esso mi richiama alla memoria un grande libro al quale stranamente non si fa cenno nella lista bibliografica che correda il volume. Mi riferisco al mirabile ritratto di Cicerone scritto da Concetto Marchesi nel 1924-25 (nel I volume della sua Storia della letteratura latina). «Visse in un tempo — scrisse allora Marchesi sintetizzando la vicenda ciceroniana — di formidabili risoluzioni politiche e di formidabili uomini: tra Silla e Cesare, tra l'uomo che finiva e l'uomo che cominciava davvero una grande epoca. In questo periodo così incerto ed inquieto, ci fu posto per Cicerone, l'uomo della parola. Egli non conosce il silenzio: quando non parla scrive: ma la parola è la dimora del suo spirito. Non fu un artefice nella politica, ma uno strumento». In quest'ultima valutazione Marchesi sbagliava, sbilanciandosi in direzione dei grandi disistimatori di Cicerone politico (da Drumann a Mommsen). Ma Marchesi è nondimeno anche, modernamente e contradditoriamente attratto dalla figura e dalla condotta di Cicerone. E coglie un elemento vero della sua oratoria, che è forse un carattere stabile dell'oratoria politica: «Egli ha bisogno di combattere un avversario di grande importanza, non di grande potenza». E fa l'esempio dell'attacco ciceroniano contro Verre e contro Catilina, e però anche della deludente prestazione nella difesa di Milone (protetto dal potentissimo Pompeo). E soprattutto mette a nudo il vizio di base delle Filippiche, pronunciate tutte contro un assente. «Non ebbe mai innanzi a sé, nel Senato, il volto di Antonio», e quando Antonio fece sapere che gli avrebbe risposto in Senato, «Cicerone non potè dare all'amor proprio suo la gioia tragica e grande di affrontare, con rischio della vita, il pericoloso avversario. La seconda Filippica,
la più atroce e la più bella, non fu pronunciata, fu scritta». Orbene, in una così perfetta descrizione di quel duello parlamentare a distanza, come non ravvisare un'allusione contemporanea, vivente? Marchesi scrive nel '24 ed ha di certo in mente la ben diversa scena dell'antiretorico e indomito Gramsci di fronte ad una Camera ormai dominata dai deputati fascisti, facinorosi ed aggressivi — quella appunto eletta nel '24 —, il quale nondimeno, interrotto continuamente dallo stesso Mussolini, parla con «voce debole e inflessibile » (scrisse un testimone) e parla in difesa della libertà di associazione. E contesta lo scioglimento della massoneria in quanto premessa per altre, non meno gravi, misure liberticide. Ripensare Cicerone significa dunque ripensare la politica come tale, i suoi dilemmi, la sua inesauribile continuità.
Manovra strumentale
Augusto ordinò di pubblicare Il suo epistolario privato per screditare un «martire» delle proscrizioni triumvirali

l’Unità 11.2.09
Gli 80 anni dei «Patti»
L’ordine di Mussolini «Intercettate i preti e i gerarchi del regime»
di Aldo Giannuli


Braccio di ferro Nel gennaio 1929 il gesuita Tacchi-Venturi è incaricato di ammorbidire la posizione del capo del governo, puntando sul prestigio internazionale che sarebbe derivato al regime dall’accordo. Conversazione fra Bottai e De Bono: «Vuol riuscire dove hanno fallito i grandi uomini di prima». «Quelli non davano un baiocco, lui ha versato milioni».
Nel gennaio del 1929, il negoziato tra Stato e Chiesa stava per naufragare per le reciproche impuntature sul tema del riconoscimento di sovranità. Mussolini cercava di ingabbiare il Vaticano concedendo più fumo che arrosto. Del gioco in Curia si resero subito conto e adottarono delle contromisure.
Checché ne dica Berlusconi, le intercettazioni servono. Servono sicuramente agli storici. Per esempio, queste notizie attorno alla trattativa che di lì a un mese avrebbe portato alla firma dei Patti Lateranensi - di cui oggi ricorre l’80° anniversario - le ricaviamo proprio dalle intercettazioni che Benito Mussolini, fin dal 1925, ordinò ai suoi servizi segreti. Il provvedimento riguardava le utenze telefoniche dei più importanti gerarchi del regime e anche quella dello stesso duce che, evidentemente, ritenne opportuno non escludersi. Tra gli incaricati c’era anche tale Ugo Guspini il quale conservò copia delle trascrizioni e, nel 1973, ne ricavò per l’editore Mursia un volume, L’orecchio del regime, che, all’epoca, non fu tenuto in gran conto. Un errore. Proprio quel libro oggi ci consente di ricostruire una parte della complessa partita del Concordato. E anche le contromisure adottate dal Vaticano.
Il 20 gennaio del 1929 il cardinale Granito Pignatelli di Belmonte ne parlò al telefono. Disse: «Le cose hanno subito una battuta d'arresto a causa dell'intransigenza di quel testardo (Mussolini, ndr) ... ma questa volta ha trovato pane per i suoi denti. Si è messo in testa di cavare le castagne dal fuoco con le zampe degli altri, credo che si sia sbagliato». Lo stesso cardinale, il 25 gennaio, dava queste istruzioni a padre Pietro Tacchi-Venturi, un gesuita particolarmente ascoltato da Mussolini: «Il Santo Padre sarebbe dell'avviso di mostrarsi più duttili, allo scopo di agevolare la soluzione che rischia di arrivare alle famose calende. Io ho degli elementi molto importanti e penso sia utile che ne veniate a conoscenza... poi a lavorarvelo ci penserete voi. Dovete fare in maniera che debba essere lui a toccare certi tasti, dovrete limitarvi a gettar giù qualche frase, senza annettervi alcuna importanza. Voi siete particolarmente adatto per questi giochi».
Tacchi-Venturi non deluse le aspettative e «lavorò» bene Mussolini: lo convinse che il guadagno di immagine internazionale che sarebbe venuto al regime dall'accordo con la Chiesa valeva qualche rinuncia. Mussolini - nonostante fosse perfettamente a conoscenza del contenuto di quella telefonata - stette al gioco. Il 27 gennaio, come risulta dal resoconto di una sua telefonata col fratello Arnaldo, considerava ormai superati quasi tutti gli scogli. Il Concordato con la Chiesa, disse, «diverrà uno dei pilastri del Regime».
I gerarchi ne erano meno convinti. Tra loro non mancavano massoni come Giuseppe Bottai ed Emilio De Bono. Quando erano passati appena due giorni dalla firma dei Patti, già commentavano poco favorevolmente l'esito della trattativa. De Bono: «Che te ne pare del famoso accordo?» Bottai: «Trovo che confessionalmente si è concesso troppo». De Bono. «Gliel’ho ripetuto fino alla noia... ed anche altri gli hanno fatto lo stesso discorso. Lui ci ha convinti tutti e ci ha dato, come d'abitudine, ragione. Ma poi ha fatto come ha voluto, "riserve mentali" a parte». Bottai: «Credo che quella famosa rete sia stata tessuta magnificamente dagli "umili" padri gesuiti... Specialmente quell'"amico" Tacchi non me la racconta giusta!» De Bono: «Lui (sempre Mussolini, ndr) mi ha detto che l'importante era di riuscire dove i più grandi uomini del passato non erano riusciti». Bottai: «Bella scoperta! Quelli non volevano cacciare nemmeno un baiocco falso!» De Bono: «Mentre lui ha donato miliardi al Vaticano, quando in tutti i ministeri bisogna stringere la cinghia». Anche Italo Balbo, altro gerarca massone, si sfogava con De Bono, lamentando che il Gran consiglio non fosse stato tenuto in nessun conto: «Questo supera ogni limite di decenza e menoma le prerogative del massimo organo del regime». Ma Mussolini tirò avanti, con la «riserva mentale» di ridimensionare le concessioni in sede di applicazione.
Le cose iniziarono a farsi più chiare due anni dopo la firma dei Patti quando il fascismo decise di porre sotto il suo controllo le organizzazioni giovanili cattoliche. Ci anche furono aggressioni squadristiche contro le loro sedi e la tensione tra il regime e la Chiesa divenne molto aspra. Raggiunse l’acme quando a Milano, il 1° aprile del 1931, il segretario del partito fascista Giovanni Giuriati enunciò in modo esplicito il disegno: «Appellarsi alle linee del Concordato per i fini e per i mezzi dell'Azione Cattolica è vano, perchè non bisogna dimenticarsi del pensiero totalitario e corporativo di chi ha stipulato gli accordi. Infatti uno Stato come quello fascista, non può non riservarsi, almeno come “riserva mentale”, una sfera di formazione spirituale da sottrarre alla legittima influenza della Chiesa».
Così le famose «riserve mentali» vennero allo scoperto. La reazione del papa Pio XI fu immediata: una lettera al Cardinale segretario di Stato in cui si attaccavano il termini piuttosto espliciti le pretese del regime. Il fratello Arnaldo ne informava il duce in una telefonata (21 aprile 1931), provocando uno scoppio di rabbia: «Questo è troppo! Io la chiamerei ingerenza bella e buona... si devono ficcare bene in mente che sono stato io a fare tutto! Se non mi sbaglio, io ti avevo detto che la Chiesa, con la stipulazione del Concordato, doveva divenire un pilastro del regime, e non viceversa! Non penseranno mica che il regime possa divenire servo della Chiesa!»
Le organizzazioni giovanili cattoliche vennero sciolte per decreto nel giugno 1931, ma, successivamente, si giunse a un accordo che ne consentiva la ricostituzione a livello diocesano. Un fatto che segnò una sostanziale sconfitta del regime: la Chiesa aveva messo in campo le sue aderenze a corte, nelle classi dirigenti e nello stesso partito fascista. Soprattutto, aveva fatto valere il suo peso internazionale, un fattore di cui Mussolini non aveva tenuto debitamente conto. Sul lungo periodo, le reciproche «riserve mentali» vennero sciogliendosi ma, a vincere la partita, non fu il regime, e questo fu un bene. Sfortunatamente, però, lo Stato dovette assumere un’eredità che è andata avanti anche dopo il crollo del fascismo.

l’Unità 11.2.09
Luigi e Stefano Pirandello
In un carteggio piccoli grandi segreti


Padre e figlio si scrissero dal 1919 al 1936. In una lettera parigina del ’31
il drammaturgo svela: io firmo gli articoli ma è il mio «Stenù» a scrivere
Caro Stenù mio, cara mia Lietta; caro Fausto mio, è un secolo che non vi scrivo, pur pensando tante volte di scrivervi, cari figli miei, sia per rispondere alle vostre lettere, sia per darvi notizie di me; ma ogni volta o la stanchezza o i fastidii senza fine che mi hanno oppresso e continuano ad opprimermi mi hanno fatto rimandare ad altro giorno la lettera che finalmente v’arriva adesso (...). Tutto il male proviene dal non avere accanto nessuno che badi con onestà e zelo ai miei affari e li guidi con amore intelligente e conservi e tenga in ordine le mie carte. Io le carte non le perdo; ma quando le cerco, non riesco mai a trovarle, tanto è il mio disordine e la confusione: non trovo contratti, non trovo lettere che mi sono state scritte, nelle quali pur ricordo che ci sarebbe una prova in sostegno di quanto affermo, non faccio copia delle lettere che scrivo. Ma come pretendere da me quest’ordine e questa diligenza d’archivista e di contabile? L’altra mia colpa più grave è l’essermi messo senza discernimento con gente incapace e disonesta, o a dir più propriamente, incapace se onesta, e se capace, disonesta.
(...) Caro Stenù mio, il tono è questo, purtroppo, d’un addio che si ripete in ogni mia lettera, con la più grande angoscia; perché non so più proprio quando potremo rivederci per rimpiangere insieme la vita, quale avrebbe potuto essere e l’avversità della sorte e l’inimicizia degli uomini non ha permesso che fosse. Ma bisogna essere forti. Accettare e resistere, non per gusto di vincere, ma per questa coscienza di forza che sempre più s’illumina e si purifica. Andiamo avanti. La lettera per la Melato non te la scrissi, perché costei mancò a tutte le promesse fatte, sia per il Lazzaro sia per le altre mie commedie che avrebbe dovuto riprendere e tenere in repertorio, Così è, Come prima e Vestire gli ignudi; non solo, ma dopo aver proibito alla Abba di dare il Lazzaro perché doveva darlo «nuovo» lei, quando le sarebbe toccata la stagione colà, non lo diede e trovò connivente la Società degli Autori per non pagare la penale per le sue mancate recite e i danni per le mancate recite della Abba, con la susa che le sue presenti condizioni finanziarie non le consentivano di pagarla. L’articolo che mi mandasti perché te lo rimandassi firmato dopo averlo letto e approvato, non te lo rimandai, non perché non lo approvassi, ma perché mi trovo ormai in un bell’imbroglio col contratto che ho stipulato con questa Agenzia Letteraria Internazionale (ALI), a tutti gli articoli dovrebbero essere consegnati. Ho potuto salvare soltanto questi che tu fai sotto il mio nome per «La Nacìon», dicendo allo Schwarz, proprietario dell’Agenzia, ch’era un contratto precedente, che datava ormai da più di dieci anni e col quale perciò la sua Agenzia non aveva nulla da vedere; ma non ho potuto concederti che lo passassi ala Morgan perché cercasse di collocarlo anche altrove. Ho parlato allo Schwarz dell’intenzione che avrei di collocare anche altrove, nell’America del Nord, in Inghilterra, in Germania, questi articoli, e lo Schwarz se ne sta occupando, cosicché spero di poterti dare presto una buona notizia. Ma bisognerebbe trovare argomenti d’interesse generale; pensaci e mandane. La tournée nell’America del Nord e Centrale è tuttora in trattativa; è stata una proposta dello Shubert stesso e sarebbe pagata e senz’alcun rischio; non lo farei io, del resto, ma la Marta, e io vi figurerei soltanto in qualità di «ospite», con un contratto a parte, senza nessuna responsabilità. Ora vorrei, Stenù mio, che tu mi facessi il piacere di raccogliere dal cassetto della scrivania tutti i miei versi perduti e me li mandassi, Mal giocondo, Pasqua di Gea, Zampogna, Fuori di chiave, Elegie renane, e tutti gli altri manoscritti o stampati in giornali. Mi bisognano. Ti ho fatto fare la fatica della ricerca dei volumi; ma costano un occhio, e ti prego di rinviarne per ora la spedizione, perché spero d’averli da Mondadori che finalmente, in seguito a un accordo, ha riscattato tutte le giacenze del Bemporad e si metterà ora a preparare le nuove edizioni. Sento con piacere che sei tornato al romanzo e che conti di finirlo presto. Gli articoli con lo Schwarz (basterebbe un articolo al mese) potrebbero risolvere la tua situazione, naturalmente come un rimedio precario, finchè io vivo. Ho provato molto dolore per la scomparsa del povero Zio Calogero, tanto buono. Ho fatto un telegramma a Zia Lina; spero che lo abbia ricevuto. Ma forse neanche la morte sarà una liberazione!
Basta, figliuoli miei, la lettera è lunghissima! L’ho cominciata il 15 e più volte ripresa partirà oggi che è il 18! Scrivetemi, datemi vostre notizie, e abbiatevi per voi e per tutti i vostri tanti baci forti forti dal vostro Papà
Parigi, 15 maggio 1931

l’Unità 11.2.09
Viaggio intorno al mondo di Charles Darwin:
dai lombrichi all’uomo
di Cristiana Pulcinelli


All’inizio dell’800 in Inghilterra si pensava che la Terra avesse solo 6mila anni, che le specie viventi fossero separate e immutabili fin dalla creazione e che l’essere umano occupasse un posto al di sopra degli altri esseri viventi.
Il mondo era immobile e senza tempo, così come la società vittoriana. Poi, il 12 febbraio del 1809, nacque Charles Darwin.
La mostra Darwin 1809-2009 che si apre domani al Palazzo delle Esposizioni di Roma parte da qui. E questa introduzione fa capire quale sia stata la portata della rivoluzione culturale operata dal naturalista inglese. Poi, il visitatore ripercorre cronologicamente la storia di Darwin. Una storia che non è giocata solo sui dati biografici, ma è pensata per far percepire l’avventura intellettuale che ha portato lo scienziato alla formulazione della teoria dell’evoluzione delle specie. Attraversando le sale, si rivivono gli anni della sua formazione come collezionista e osservatore di insetti e piante, i cinque anni di viaggio intorno al mondo a bordo del Beagle, il periodo di Londra in cui i pezzi della sua teoria si ricomposero e il periodo in cui, rifugiato nella casa di campagna, completò la sua opera. Si possono leggere i taccuini dello scienziato inglese (compreso quello in cui appare per la prima volta l’abbozzo dell’albero della vita in un semplice schizzo introdotto dalle parole “I think”, io penso), si possono vedere le riproduzioni degli animali incontrati nel suo viaggio e anche alcuni esemplari vivi forniti dal Bioparco, i fossili. Poi, percorrendo una ricostruzione del Sandwalk, il sentiero tra gli alberi dove Darwin era solito riflettere, ci si introduce nella parte della mostra dedicata all’evoluzione oggi, ovvero a tutto quello che sappiamo dell’evoluzione dopo la scoperta del Dna. Infine si arriva alla sezione dedicata all’evoluzione dell’uomo e al rapporto tra Darwin e l’Italia.
Da New York a Bari
La mostra si basa su quella dell’American Museum of Natural History di New York che ha girato il mondo. La versione italiana, più ampia rispetto all’originale, è stata curata da Niles Eldredge, uno dei più importanti studiosi dell’evoluzionismo, assieme a Ian Tattersall, esperto di evoluzione umana e a Telmo Pievani ed è organizzata assieme a Codice cultura. A Roma, dove è accompagnata da una serie di incontri, letture e proiezioni, si potrà visitare fino al 3 maggio 2009, poi a giugno sarà a Milano e a novembre a Bari. Informazioni all’indirizzo www.darwin2009.it. Se invece si vuole ascoltare Eldredge e Tattersal, oggi e domani saranno presenti, insieme ad altri studiosi, all’accademia dei Lincei per il convegno Il mondo dopo Darwin.

Materiali:
La Sinistra
un documento di Pietro Folena
ricevuto da Elena Canali


1. La sinistra, nelle forme che si è data lungo il Novecento, è morta nel cuore del popolo. La violenta uscita dal Parlamento italiano, per la prima volta in democrazia, non è solo l’esito di una catastrofica esperienza di partecipazione al Governo e di una confusa aggregazione elettorale gestita da un ceto politico chiuso, mediocre, autistico. E’ il prodotto - l’altra faccia del quale è la crisi dell’ipotesi neomoderata del PD - di una separazione profonda, avvenuta negli anni del neoliberismo globale, tra i “proletari di tutto il mondo” e le loro forme storiche di organizzazione autonoma. Torneremo sulla specificità italiana: sul perché qui, più che in ogni altra parte d’Europa, il processo di disfacimento politico della sinistra è più accentuato. Ma sarebbe un gravissimo errore pensare che il problema si presenti solo o principalmente in Italia. La stagione di Blair, anzi, nata nel cuore della tradizione laburista e operaia europea - non dimentichiamo che nell’Ottocento fu dall’osservazione e dall’analisi dei processi produttivi dell'Inghilterra che prese corpo l’analisi marxista della società - ha rappresentato l’avvio di questo processo di disfacimento. Salvo poche eccezioni, in molti paesi d’Europa la classe operaia, il lavoro privato, il precariato che ha assunto proporzioni immense, salvo qualche eccezione, o non votano o votano in maggioranza, da quasi un ventennio, a destra: per forze populiste, reazionarie, ultraliberiste. Esprimono una distanza abissale con i ceti politici socialisti e comunisti: odiati e spesso ignorati. E’ come se la vita di chi è salariato - con tutti i suoi aspetti materiali e morali - non c’entrasse più col movimento che del riscatto e della liberazione del lavoro salariato ha fatto la propria missione. In Italia il berlusconismo e il leghismo, in Francia il sarkozismo rappresentano i casi più clamorosi di egemonia della destra sui lavoratori e sui ceti meno abbienti. Se resistono una parte delIe strutture socialdemocratiche che hanno dato vita alle esperienze di welfare del Novecento – come in Germania o nei Paesi Bassi e in quelli scandinavi – tuttavia anche alla sinistra della socialdemocrazia si configurano aggregazioni con forti tratti populisti e nazionali.

2. La vittoria di Obama – avvenuta al culmine di una crisi economica e sociale che ha colpito al cuore le classi lavoratrici e i ceti medi della più grande potenza mondiale – è un fatto storico di gigantesca grandezza. L'avvento di un nero alla Presidenza degli USA – pur non discendente dagli schiavi – assume agli occhi dei diseredati di quella nazione, e di quelli di tutto il pianeta (a partire dall'Africa, da cui la famiglia paterna di Obama arriva) una valenza liberatoria senza precedenti. Non sosterremo qui che il socialismo rinasce con Obama, e non ci industrieremo in previsioni sulle politiche (più pacifiche e concilianti nel mondo, più protezionistiche e socialmente consistenti all'interno) del nuovo Presidente americano. Ma, rimeditando le pagine di Gramsci sull'America, e avendo per tempo segnalato come la produzione di senso e l'industria culturale siano stati, nell'ultimo quarantennio, il fattore principale della forza americana (vedi P.Folena e U.Sulpasso, Know global, 2002), il paradigma obamiano - fino a quello comunicativo – fa uscire le idee democratiche e della sinistra dal Novecento, e spariglia le carte nella crisi del mondo. Da un punto di vista storico, si potrà dire nei prossimi anni, come questa vittoria sia stata annunciata dal nuovo corso brasiliano e latinoamericano, e dalla crescita tumultuosa e ricca di contraddizioni di India e Cina. Si vedrà se un new deal potrà permettere agli americani di uscire dal tunnel in cui si trovano: ma in ogni caso non sarà più l'economia del petrolio, leva decisiva per garantire loro un livello di vita insopportabilmente superiore a quello del resto dell'umanità, il motore del benessere. Al contrario la vecchia Europa appare dominata da spettri e fantasmi. La carta spinelliana della sua unità politica è stata bruciata. I burocrati di Bruxelles, contro cui la Lega raccoglie consensi, si sono preoccupati di trasformare l'Unione in una lobby di interessi economici che dettano direttive e leggi, che innervano la giurisprudenza, che smantellano leggi sociali e principi costituzionali. L'Europa appare una società invecchiata e egoista, che non coglie quanto il futuro dell'Africa – cuore dello scontro tra potenze capitalistiche nei prossimi anni – sia indissolubilmente connesso a quello proprio.

3. La destra mondiale ha I suoi leader principali nel mondo religioso. A partire dal più significativo tra questi leader: Papa Raztinger. Mai come ora la Chiesa del Pontefice è potenza temporale, e il suo potere spirituale condiziona il mondo politico, istituzionale, mediatico. So bene quanto nel mondo cattolico, tra i vescovi e nella Curia romana vivano orientamenti conciliari, di segno opposto. Ma l'universalismo di Woytila, che già ruppe con i suoi predecessori, è un vago ricordo. La volontà di affermare la supremazia della fede cristiana sulle altre lacera nei fondamenti il dialogo interreligioso culminato ad Assisi. Il discorso di Ratisbona nei confronti dei musulmani e la reintroduzione della preghiera per la conversione degli ebrei sono passaggi espliciti verso un neofondamentalismo che è speculare rispetto a quello che avviene in altre confessioni religiose. Ciò che è successo negli USA, dove la destra religiosa e la Chiesa cattolica si sono alleate con Bush nell'ultimo decennio, e hanno permesso di costruire consenso in settori sociali già in difficoltà, è eloquente. D'altra parte lo stesso Obama dimostra come un pensiero progressista possa affermarsi se decide di giocare su questo terreno – la spiritualità, il sentimento religioso, i valori, la cultura – e non solo su quello tradizionale della politica. La crisi della sinistra in Europa e in Italia è fortemente connessa alla rinuncia pressocché esplicita al terreno della lotta per l'egemonia e di quella che un tempo, con gergo militaresco, si chiamava battaglia delle idee. Sia la sinistra che ha rinunciato a se stessa diventando moderata sia quella che si proclama antagonista appaiono algide, economiciste, non capaci di trasmettere emozioni, di costruire speranze, di alimentare passioni. Il sol dell'avvenire è tramontato, e il suo posto tra milioni di persone è preso dal sole della pubblicità o, in tempi più grami come quelli correnti, da quello della vita eterna.

4. La sinistra, se vuole rinascere nel nuovo secolo, deve predisporsi a un cammino lungo. Questa nuova fondazione dovrà avere al centro la cultura, la produzione di senso, la lotta per l'egemonia. La fabbrica di una speranza terrena, che concretamente dia lo strumento politico e organizzativo a chi è subalterno, diseredato, sfruttato, di poter costruire un proprio percorso di libertà. Solo tematizzando il divorzio tra il socialismo, nelle sue diverse forme, e la vita di milioni di persone a cui quelle idee si rivolgono, si può aprire uno spiraglio di luce nel buio che ci circonda. Il tema è socialismo versus vita. L'epifenomeno italiano di questo divorzio è l'impossibilità finora a usare con successo la parola socialismo. La fine del PSI e l'89 ne sono stati la ragione apparente. Ma la sostanza è più complessa. Il Novecento ci consegna una sconfitta, proprio quando la rappresentazione del socialismo è la morte, non la vita : morte nei gulag, morte di Ian Palach, morte a Tienanmen, soffocamento e morte delle idee e della cultura. Ma anche la storia socialdemocratica e laburista, che ha al suo attivo pagine importanti di giustizia sociale, a cavallo del secolo ci ha consegnato il nome del suo leader più celebrato, più giovane, più moderno, Blair, legato ad uno dei più spaventosi eccidi degli ultimi decenni, la guerra in Irak. Nessun fascino possono esercitare le idee né di quel socialismo né di questo. E tuttavia non possiamo occultare il fatto che il socialismo nasce nell'Ottocento per sollevare da condizioni di vita inaccettabili milioni di persone. La forma del mutualismo, della cooperazione, della lega sindacale sono forme di tutela e di autorganizzazione di esseri umani privi di diritti, di statuto, di libertà, di istruzione, oltreché di pane. Il socialismo nasce per cambiare la vita, e muore quando produce morte. Solo la consapevolezza sociale, oggi diremmo biologica, dell'insopportabilità dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo, poteva far nascere un moto di quella portata. La lotta per i diritti delle donne, quella per l'istruzione e la salute, la lotta per i servizi hanno accompagnato questo movimento di emancipazione e le più elementari rivendicazioni salariali e economiche. Ma nella storia del comunismo e della socialdemocrazia – pur così distanti tra loro, e diverse nel grado di responsabilità per gli errori commessi - hanno prevalso visioni stataliste, dirigiste, pessimiste sulla possibilità che si possa davvero realizzare un protagonismo sociale e politico di chi è subalterno. E anche per chi viene da quell'animale politico particolare che era il PCI, la sensazione è che questo difetto sia rimasto costitutivo, e che non si sia mai posto al centro – nella critica al comunismo, come in quella alla socialdemocrazia, che per anni è mancata – la questione della democrazia, e cioè della relazione fra governanti e governati, del cambiamento della vita qui ed ora delle persone in rapporto all'azione di governo. Anzi: ancora gli eredi del PCI, una loro grande parte, è dentro quella via liberale che con Blair è stata imboccata nel Regno Unito, e ha l'ossessione di uscire in senso moderato dalla crisi socialdemocratica.

5. Il tema della vita era stato al centro della rottura del 77 fra una generazione di giovani e il PCI. Il vitalismo radicale, il soggettivismo antiautoritario, il privato è politico, non incontrando nella sinistra una rifondazione della politica (la FGCI negli anni 80 propose, ispirata da Berlinguer, la rifondazione di se stessa e della politica) si sono incontrati nei decenni successivi, coi fasti del mercato, incantati dall'egemonia tutta italiana della Tv commerciale. Lo slittamento semantico tra privato-personale e privato-mercato è stato naturale. Fino a Seattle e a Genova, nel 2001, la convinzione che quello liberista fosse il migliore dei mondi (motore della vita, della società, dell'economia) era incrollabile e quasi unanime. Oggi Sarkozy, la Merkel, Blair e Tremonti, riuniti a Parigi sulla crisi, sembrano usciti da una gravure ottocentesca sull'Internazionale socialista. I liberisti radicali, lavate le coscienze e rifatta l'immagine con un pò di cipria teocon, vogliono candidarsi a difensori dei proletari. Lo fanno perchhé I loro progetti politici populisti per vivere hanno bisogno come il pane di sentire gli umori popolari: la destra diventa l'alternativa a se stessa. Il socialismo è fragile, al contrario (ieri con il liberismo e l'individualismo, oggi col fondamentalismo) perché balbetta un discorso sulla vita. Siamo imbevuti di economia: e l'economia (oikòs-nomia, la legge della casa) è imbevuta di mercato. Il mercato e entrato nell'oikòs, ne ha stravolto la legge, è entrato nella vita. E così i parametri di Maastricht, o le rigidità da accademico di Padoa Schioppa, la macroeconomia e la religione della Banca Centrale Europea (proprio quando si vendevano come feticci quei prodotti derivati che hanno causato la crisi attuale) sono state per i socialisti europei, e per gli ex-socialisti nostrani, neo-democratici, più importanti della vita delle persone, a cui parlano la destra radicale, i produttori di odio, il fondamentalismo. Il primo atto è riscoprire la vita, ricollegandosi a un filone “caldo” della storia del socialismo a cui ci possiamo richiamare: penso alla sinistra socialista, al riformismo rivoluzionario di Lombardi; penso al comunismo libertario, aperto e critico, che in Gramsci ha avuto il suo ispiratore; penso al laburismo critsiano, a come sia centrale, anche nella lotta per la giustizia e per la propria condizione sociale la persona. Ma dobbiamo oltrepassare quella storia: la ragione fondamentale di questo oltre sta nell'idea di vita e di politica che viene dal movimento delle donne: non solo nell'affermare l'assoluta centralità della questione di genere, confermata dall'enormità del dato che la cronaca ci consegna (la prima causa di morte delle donne è la violenza sessuale), ma anche nel comprendere che dal genere viene il corpo -si genera la vita -, il corpo si fa storia, diventa intangibile, chiede la fondazione di un programma sulla vita.

6. Questo programma sulla vita , per conquistare fiducia e consenso, deve avere quattro pilastri: il primo è la questione di specie; la specie umana e le specie viventi oggi sono minacciate dal produttivismo, dal petrolio e dal carattere onnivoro del neocapitalismo. Si fonda la nozione di beni comuni, “res communes omnium”, come recita l'art.810 del codice civile, “cose extra commercium”, che non avendo interesse economico non possono formare oggetto di rapporti giuridici; oggi iI biocapitalismo assalta la vita, brevetta e dona l'esistenza, controlla i viventi con i microchip e un nuovo sicuritarismo totalizzante, assale le coscienze, la ragione e i sentimenti di un popolo di bambini consumatori. La merce si espande non solo fuori, nei mercati globali, ma dentro i corpi e le coscienze. Siamo ben al di là delle riflessioni marxiane sull'alienazione e sullo spossessamento. Il corpo e la coscienza diventano il terreno di conquista e di resistenza della libertà umana. Il secondo pilastro, offrendo un'alternativa alla guerra, assume la nonviolenza come indicazione fondativa; dall'ideologia della tolleranza, propria della rivoluzione industriale, e che pressuppone la produzione di intolleranze, si deve passare a quella del reciproco rispetto. La nonviolenza non è solo la scelta di non considerare più la guerra come la prosecuzione della politica con altri mezzi, ma sempre come un crimine contro l'umanità: ma anche di rovesciare il rapporto mezzi-fini e la logica amico-nemico che ha permeato la civiltà umana. Ed è anche uno stile di vita, un modo di resistere alla logica securitaria, un fare dell'altro te stesso, senza soluzione di continuità. Il terzo pilastro è la libera circolazione del sapere: poiché la rivoluzione digitale, motore fondamentale dell'espansione dell'ultimo trentennio, e fattore determinante della crisi odierna, ha scomposto e parcellizzato il lavoro,e propone un'inedita contraddizione tra lo spirito proprietario delle grandi imprese produttrici o distributrici di contenuti, e la domanda di conoscenza, di informazione, di cultura e di svago che ogni momento genera: fare di questo tema il cuore di un programma vuol dire cambiare il lavoro e cambiare la vita di tanti. L'esempio del social network Facebook, e altri analoghi, sono lì a dimostrare la doppia faccia dei mezzi prodotti in questi anni, e delle opportunità gigantesche che offrono a una causa di liberazione umana. Il quarto pilastro è la dignità del lavoro, a partire dal suo prezzo, e quindi di un rinnovato programma di difesa delle condizione economiche e sociali di chi lavora. Anzi: se il lavoro è merce per eccellenza in questa società, e se oggi merce rischiano di diventare il corpo, la coscienza, la vita delle persone, il programma di una nuova sinistra e di una nuova stagione sindacale deve muovere dalla rappresentanza della vita di chi lavora: non può prescindere dalle domande e dalle aspettative sul corpo e sulla sessualità, da quelle sul sapere e sul divertimento, fino a quelle sulla relazione con gli altri. Non è una retorica lavorista o operaista che farà rinascere la sinistra : ma la consapeveolezza politica e morale di dover ripartire da qui, di rappresentare democraticamente la vita e le attività delle persone, di battersi perché la creatività e l'autorealizzazione possano affermarsi, di rompere le catene del precariato e dell'eterna incertezza: tutta la vita, tutte le attività. La sinistra non sarà negatività, catastrofe, morte se saprà promuovere un cambiamento in cui ciascuno pensi di poter realizzare una parte di se stesso e delle proprie aspirazioni.

7. Lo chiamerei provocatoriamente partito della cultura o partito della conoscenza. E cioè non una forza che, constatando lo sfruttamento, fa della lotta allo sfruttamento il proprio simbolo: importante, ma non sufficiente; ma una forza che, consapevole dello sfruttamento, e della violenza sulle donne e sui bambini, e dei rischi per la vita di tanti esseri viventi e dell'ecosistema, e della spirale terrorismo-fondamentalismo-guerra, vede oggi, nella diffusione e nell'accesso di un numero crescente di esseri umani alla cultura e alla conoscenza, un'opportunità straordinaria per cambiare quelle condizioni. Il sol dell'avvenire è una vita e un'organizzazione sociale in cui il tempo per sé, per i propri affetti, per gli altri, per le relazioni sociali possa crescere in quantità e in densità, e in cui le componenti meccaniche, ripetitive, alienanti possano essere progressivamente circoscritte, ridotte, temperate. Un partito che vuole che alla cultura possa accedere chi oggi non può; che vuole moltiplicare i luoghi di produzione, di diffusione
e di condivisione dell'arte, della musica, della danza, del teatro, della letteratura, del cinema. Un partito che fa del bello una visione degli spazi urbani, dei paesaggi naturali e culturali e delle relazioni tra esseri umani. Qui vi è anche una corposa indicazione sulle forme organizzate, oltre quelle sperimentate nel secolo passato, di una nuova forza della sinistra: in cui l'aspetto partecipativo e democratico – nella selezione dei dirigenti e dei candidati – non può prendere la fragile forma di un'occasionale primaria, ma si deve impiantare sull'educazione permanente, sulla riflessione culturale e sull'organizzazione di un tempo per se, sull'organizzazione e sulla promozione di cultura nella società. Una comunità aperta, senza timori del diverso, che aiuta a valorizzare, nella società delle merci e del profitto, i fattori umani.

8. Esistono, al di là delle analisi e delle progettazioni di lungo periodo, condizioni storiche e politiche perché in Italia possa nascere una sinistra popolare, moderna, forte, prestigiosa? La contingenza politica è impietosa. Ci racconta di una sinistra politica che, dopo la sconfitta senza precedenti di aprile, anziché fermarsi, riflettere, aprirsi, ripartire con umiltà, e senza il blocco di un ceto autoreferenziale, è corsa ai congressi, per spartirsi le povere e poche spoglie rimaste. Rifondazione, accantonata la speranza di una forza nuova della Sinistra Europea, cavalca legittimamente l'obiettivo della propria sopravvivenza. E' una posizione comprensibile sia per chi ha osteggiato il cambiamento, e sia per chi lo vorrebbe ma attende tempi migliori. La posizione incomprensibile è di chi sostiene le stesse idee di innovazione anche oggi: come si può pensare che da una scissione e da una rottura, costruendo un piccolo partito con altre frange della sinistra dispersa, possa nascere un corso nuovo? D'altra parte, accanto alle componenti socialiste che si trovano in una crisi non dissimile, la crisi del Partito Democratico è palese. Non si sbaglia a affermare che questo progetto, pur con il fascino che ha esercitato, ha determinato un'asimmetria da cui può uscire travolto il pur fragile bipolarismo italiano . In queste condizioni la destra può governare a lungo, e finire con l'essere l'unica possibile alternativa a se stessa. Ma la situazione ci racconta anche di una CGIL e di un possibile arco di forze sociali che possono rappresentare il cuore di una riaggregazione della rappresentanza. Il recente sciopero generale e il movimento di studenti e di insegnanti dicono molto in questo senso. La crisi del PD è destinata ad acuirsi: può implodere, con rischi devastanti; deve esplodere, con un potenziale di ricostruzione. La convivenza sotto lo stesso tetto di anime così differenti, pur unite nella stagione più recente, da una sciagurata rincorsa moderata, mette a repentaglio gli equilibri democratici e spinge l'Italia verso un presidenzialismo senza contrappesi. E' attorno a un'idea socialista radicalmente rinnovata, lavorando sul programma e sulla visione della vita e della società, che si può mirare ad una riaggregazione di forze – fra un PD che entri nel socialismo europeo, il partito socialista, i radicali e tutte le componenti della sinistra , e con un forte riferimento alla CGIL, al mutualismo e a ai movimenti sociali -, con l'obiettivo di un partito non novecentesco, giovane, coraggioso. Un'Epinay italiana, insomma, spesso annunciata e sempre bruciata dallo scontro sulla leadership, diventa un percorso necessario e perfino obbligato.
Pietro Folena


La Sinistra, che ha dato vita alla manifestazione dell'11 ottobre 2008, convoca un convegno nazionale sulla crisi.
Per quello che sta accadendo la nostra presenza non è solo la partecipazione alla costruzione di importanti indicazioni per una base politico programmatica utile per la sinistra tutta,
ma è anche il dare l'immagine che ci siamo e che intendiamo impedire ogni tentativo di stravolgere le basi democratiche della nostra convivenza. Dare vita a strumenti di difesa delle libertà civili, sociali e democratiche deve essere un impegno che va richiesto a tutti.


CONVEGNO SU CRISI ECONOMICA
ROMA 15 FEBBRAIO 2009
Centro Congressi Cavour (via Cavour).
Ore 10-18.

ore 10
Apertura dei lavori, presentazione del documento, relazioni.
Gli interventi in plenaria sul documento sono di Francesca Re David,
Francesco Garibaldo, Roberto Romano, Guido Viale.

dalle 12 alle 16 3 gruppi di lavoro:

1) COSA dopo il colasso della finanziarizzazione globale

2) COME fermare la disocuppazione e la precarizzazione del lavoro

3) QUALE welfare e politiche pubbliche nella crisi

dalle 16.30 alle 18:
Report dei gruppi
Conclusione
2 gennaio 2009
NON SIANO LAVORO E AMBIENTE A PAGARE LA CRISI
APRIRE LA STRADA AD UN’ALTERNATIVA E’ POSSIBILE E NECESSARIO
L’esplosione della crisi economica a livello mondiale conferma con drammatica evidenza i guasti ed i danni del neoliberismo, impostosi come “pensiero unico” dal tempo della Thatcher e di Reagan. La “globalizzazione” ha favorito le speculazioni, accentuato gli squilibri e le ingiustizie nel mondo ed all’interno dei singoli paesi. Oggi si sommano rallentamento dell’economia e crisi finanziaria; caduta degli investimenti e crescita della disoccupazione. Stanno apparendo ormai chiari i limiti culturali di una concezione “sviluppista” che ha creato enormi disuguaglianze; ha costretto intere popolazioni a migrare; ha alterato l’equilibrio dell’ecosistema planetario.
In Italia ad una limitata capacità innovativa dell’apparato produttivo, con un capitale più rivolto alla finanza che agli investimenti, si sono sommate la crescita di disuguaglianze economiche e sociali, l’aumento della povertà, l’esplodere dei localismi, la crescita della precarietà, l’indebolimento dei diritti. Tutto ciò ha portato ad una profonda crisi della politica, a rischi per la stessa tenuta democratica del Paese.
Per evitare che a pagare – come sempre – siano coloro che non hanno alcuna colpa, è necessario che la sinistra esca dalla afasia e recuperi una capacità di azione unitaria che si ponga al servizio della costruzione di un grande movimento all’altezza della crisi.
Noi che abbiamo dato vita alla manifestazione dell’11 ottobre con il convincimento che fosse necessario contribuire alla rimessa in moto di una opposizione politica e sociale, vediamo con grande soddisfazione e speranza la forte ripresa delle lotte sociali in tutta Italia: dal referendum di Vicenza alla mobilitazione per la ripubblicizzazione dell’acqua; dal movimenti in difesa della scuola pubblica alle lotte dei lavoratori pubblici e privati promosse dalla CGIL e da altre strutture sindacali, tra cui i sindacati di base, sino al recente sciopero generale, che ha aperto una vera e propria nuova fase di mobilitazione sociale. Queste mobilitazioni devono potersi intrecciare e congiungere in un grande progetto di cambiamento e di trasformazione dell’economia e della società.
Il documento che proponiamo non ha l’ambizione di offrire un’interpretazione della crisi, né vuole essere una piattaforma compiuta ma rappresenta un contributo per aprire la discussione. Vi dovranno essere momenti successivi nei quali, nel quadro di una diffusa iniziativa territoriale, gli obiettivi che ci proponiamo saranno approfonditi e precisati. Ora è importante avanzare delle proposte nella convinzione che, dentro la crisi, bisogna innanzitutto dare una risposta immediata agli uomini e alle donne che la subiscono con angoscia e preoccupazione.
E’ per questo che vorremmo che questo contributo fosse colto per quello che intende essere: un’occasione di confronto e di verifica della possibilità di costruire su concrete proposte una convergenza ampia a sinistra in grado di intervenire sull’emergenza ed aprire la strada ad orizzonti alternativi.

Contro la crisi una nuova politica europea ed un piano per la stabilità monetaria
A livello europeo la crisi finanziaria è sopraggiunta a contraddire l’orientamento della BCE – e di gran parte dei Governi europei – che fino a poco tempo fa consideravano l’inflazione il pericolo da contenere con una politica di alti tassi e soprattutto di compressione dei salari. Ora, invece, si interpreta la crisi come una fase di recessione dell’economia (ancora misurata esclusivamente sulla caduta del PIL) da fronteggiare con un aumento del deficit pubblico. Per questo viene meno la rigidità nel considerare inviolabili i vincoli del patto di Maastricht, in particolare per quanto riguarda il possibile superamento del deficit del 3%. E’ stato deciso dal Consiglio Europeo un piano di interventi di 200 miliardi di euro, per stimolare la domanda e gli investimenti, maggiori sussidi di disoccupazione e misure di assistenza sociale. Si tratta di misure minime dettate dall’urgenza della situazione che vede la crisi peggiorare e scaricarsi sui Paesi europei. E’ del tutto assente una scelta politica che rafforzi la coesione comunitaria contro la competizione tra gli Stati e che segni un cambiamento di impostazione delle politiche economiche e sociali. Per questo è importante il segnale che è venuto dal Parlamento Europeo con la bocciatura della direttiva che allungava l’orario di lavoro.
È ora necessaria una ripresa di iniziativa per una nuova politica europea, che dia finalmente valore alla costruzione comunitaria, proponendo soluzioni per le condizioni materiali di vita e per i diritti delle cittadine e dei cittadini, delle lavoratrici e dei lavoratori.
L’Unione Europea può essere l’area del mondo dove portare avanti in una prospettiva di pace un processo di riconversione delle produzioni e dei consumi, di creazione di nuove politiche di welfare universalistiche in grado di dare valore al lavoro di riproduzione della forza lavoro, di salvaguardia dell’ambiente. Ciò richiede una dialettica sociale e politica fondata su principi e pratiche democratiche, nella quale si valorizzi il conflitto sociale e possano misurarsi i diversi punti di vista generali corrispondenti ai differenti interessi, superando così la situazione degli ultimi decenni nei quali il capitale è stato assunto a paradigma fondamentale a cui tutto (lavoro e natura innanzitutto) doveva essere subordinato.
Una delle condizioni per sostenere questo processo è un piano per la stabilità monetaria. Esso va portato avanti in ogni sede internazionale per potere giungere alla convocazione di una conferenza mondiale sulle questioni finanziarie e monetarie, che abbia l’ambizione, come fu per la conferenza di Bretton Woods nel ’44, di porre le basi per un nuovo ordine economico internazionale. La crisi mondiale ha messo, infatti, in luce la totale inadeguatezza dei suoi organi di governo mondiali (come il Wto, il Fmi, La Banca mondiale) e la crisi dell’egemonia del dollaro e degli Stati Uniti sul piano economico. Il baricentro del capitalismo si sta spostando a Est. Se non vogliamo che ciò sia fattore di continue tensioni che possono sfociare in nuovi terribili conflitti distruttivi, bisogna prevedere una sede in cui, sotto l’egida dell’Onu, i Paesi si incontrino su un piano di parità per stabilire un nuovo sistema di cambi stabili, per limitare se non impedire le speculazioni finanziarie, per chiudere i paradisi fiscali, per decidere forme di tassazione dei movimenti di capitale e di intermediazione finanziaria, i cui proventi potrebbero alimentare un fondo per la difesa dell’ambiente e un modello di sviluppo non distruttivo per i Paesi del sud del mondo.

Contro la politica del governo italiano
La politica del Governo Italiano è caratterizzata da interventi socialmente discriminatori; da sottrazione di risorse al Mezzogiorno (aggravandone così la distanza dal resto e del Paese e dell’Europa); da un piano di investimenti in grandi opere che, oltre a essere non sostenibili dal punto di vista ambientale e spesso inutili, produrranno scarsi risultati occupazionali. Oggi servono, invece, interventi in grado di combinare qualità ambientale e creazione di nuovi posti di lavoro.
Ciò che manca in Italia è soprattutto una nuova politica industriale. Il governo persegue una linea di angusta protezione degli equilibri più arretrati dell’industria nazionale senza aprire una reale prospettiva di rinnovamento, come ha dimostrato la resistenza al piano di abbattimento dei gas serra proposto dalla U.E. Questa politica, sollecitata dalla Confindustria, dimostra l’incapacità delle classi dirigenti del paese ad affrontare i cronici problemi dell’innovazione che hanno reso debole la struttura produttiva e hanno provocato la continua perdita di competitività del nostro paese ben prima che le conseguenze della crisi finanziaria arrivassero fino a noi. Il piano deciso dal governo italiano di 80 miliardi è in sostanza la riproposizione di decisioni di spesa già assunte, facenti riferimento ai Fondi europei. La quantità diretta a sostenere le retribuzioni e gli investimenti è del tutto risibile e inefficace.
D’altro canto il solo aiuto alle banche non risolve il problema. In Italia in particolare si deve aggredire la crisi dal lato del lavoro (blocco dei licenziamenti, difesa dei salari e stabilizzazione dei rapporti di lavoro) e da quello della qualificazione del tessuto produttivo, puntando su settori tecnologicamente e socialmente innovativi; dando centralità alla questione della sostenibilità ambientale; affrontando la crisi di coesione del Paese che ha nel Mezzogiorno il suo punto cruciale per il sommarsi di problemi economici, sociali, politici, di funzionamento della P.A. con la questione criminale.

Difendere l’occupazione e valorizzare il lavoro

Le imprese stanno affrontando la crisi con un massiccio ricorso ai licenziamenti, cominciando dai più deboli: i lavoratori immigrati ed i precari. Occorre evitare che la crisi diventi un’occasione per riconfermare e rafforzare il modello che si è imposto negli ultimi decenni, fondato sul primato incontrastato e unilaterale dell’impresa e della subordinazione ad esso dei diritti e della funzione del lavoro.
Non c’è credibilità in nessun piano anti-crisi, che non sia anche l’occasione di una politica industriale tesa a trasformare e qualificare il nostro apparato produttivo, se non si assumono come condizioni:
λ il blocco dei licenziamenti e delle interruzioni dei rapporti di lavoro precari, in vista di una loro progressiva stabilizzazione;
λ la sospensione della Legge Bossi-Fini che in questo momento diverrebbe solo uno strumento di espulsione di extracomunitari che hanno perduto il lavoro;
λ l’estensione degli ammortizzatori sociali a tutto il mercato del lavoro, comprendendovi ogni tipo di precariato, nel quadro di una politica sociale universalistica ispirata all’obiettivo della piena occupazione e tesa a realizzare misure generali di sostegno al reddito per inoccupati e disoccupati .

Sono tutte richieste poste a base dello sciopero generale proclamato dalla CGIL il 12 dicembre e rilanciate negli scioperi e nelle manifestazioni territoriali e nazionali, generali e di categoria (a partire dagli appuntamenti fissati dalla Fiom e dalla Funzione Pubblica della Cgil), che hanno avuto luogo o si svolgeranno nelle prossime settimane. Sono gli stessi contenuti che saranno al centro della manifestazione nazionale che la CGIL ha indetto per il 4 aprile a Roma.
In questo quadro anche un maggior volume di credito bancario è necessario. Vanno attivate linee di accesso al credito sostenute e controllate dallo Stato e dalle Regioni per favorire le attività economiche create dai lavoratori che hanno perso il lavoro a seguito della chiusura delle loro aziende o di chi vuole costruirsi autonomamente un futuro in una fase di scarso assorbimento di manodopera.
Diventa urgente la definizione di un diverso e più favorevole regime fiscale per le “partite IVA” e le imprese fino a tre dipendenti. Serve un progetto di riforma dei mercati finanziari e del sistema bancario che stabilisca divieti precisi su prodotti finanziari rischiosi e offra garanzie per i risparmiatori.
Le misure che debbono accompagnare il blocco dei licenziamenti e la sospensione dell’interruzione dei rapporti di lavoro precari (cassa integrazione a rotazione, orari ridotti, contratti di solidarietà) non debbono contraddire la scelta di una netta e chiara inversione di tendenza nella distribuzione della ricchezza tra salari, profitti e rendite, che contrasti l’impoverimento dei redditi da lavoro e la inammissibile diffusione di retribuzioni minime al di sotto la soglia di povertà .
Contemporaneamente è necessario sviluppare un'iniziativa per un radicale cambiamento delle legislazione sul mercato del lavoro e sull'orario che porti all'eliminazione degli interventi legislativi che hanno determinato l'attuale situazione di flessibilità e precarietà.
Una svolta è necessaria anche nelle relazioni sindacali per quel che riguarda l’irresponsabilità delle imprese a fronte dei problemi occupazionali, lo svuotamento progressivo della contrattazione collettiva e del diritto del lavoro, il continuo ripetersi di accordi separati privi di validazione democratica da parte dei lavoratori e delle lavoratrici, il tentativo di collocare il sindacato in una dimensione cogestionale e neo-corporativa. Si pone il problema urgente di regole democratiche che rendano vincolante il parere dei lavoratori e delle lavoratrici su piattaforme e accordi sindacali.

Programmazione democratica e politiche fiscali

L’attuale offensiva del Presidente del Consiglio sull’ottimismo e sulla tenuta dei consumi privati, oltre a scontrarsi con una crescita delle disuguaglianze nella distribuzione del reddito e l’impoverimento di fasce crescenti della popolazione anche lavorativa, non fa i conti con l’osservazione – ormai consolidata nella riflessione economica – che un Paese non si arricchisce per il semplice fatto che le persone sono indotte a spendere tutto il loro reddito in consumi correnti (che ha portato all’intreccio di acquisto di merci e di loro spreco tipico del consumismo), ma si arricchisce quando si è in presenza di una politica degli investimenti tesa a innovare le strutture produttive e il sistema dei servizi, a cominciare da quelli pubblici.
Interventi economici di questo tipo richiedono il superamento delle politiche neo-liberiste di de-regolazione e la ripresa dell’intervento pubblico in economia in un contesto di programmazione democratica. La graduazione degli interventi nel tempo e per priorità non deve rispondere a logiche di emergenza, ma ai problemi concreti dei territori e delle condizioni materiali di vita delle persone. Il primo e fondamentale, che tocca da vicino i lavoratori dipendenti come i piccoli risparmiatori, è la conferma dell’insicurezza e del rischio come elementi costituenti l’economia di mercato che solo l’intervento pubblico può affrontare con efficacia. L’azione per dare ruolo strategico all’intervento pubblico in economia e per la salvaguardia dei beni e dei servizi pubblici deve basarsi sopra l’ampliamento dell’iniziativa democratica dei cittadini, la riforma della politica ed il rafforzamento delle reti di sicurezza sociale.
Assumono un’importanza sociale ed economica una serie di misure di giustizia fiscale come la tassazione delle rendite finanziarie, una maggiore progressività per i redditi più alti e la restituzione del drenaggio fiscale per i redditi da lavoro e da pensione, la lotta all’elusione ed all’evasione fiscale che è di nuovo in aumento.


Scuola pubblica e Stato sociale

Condizione per il cambiamento del sistema di produzione e di consumo è il riconoscimento della qualità del lavoro e l’utilizzo a pieno delle capacità e delle competenze formate dalla scuola, dall’università e dai centri di ricerca.
L’altra faccia della perdita di efficienza del Paese è proprio l’impossibilità di entrare nel mercato del lavoro di tanti giovani, tra cui molte ragazze e moltissime donne, le cui competenze vengono negate e sottoutilizzare o malamente riconosciute nel circuito del precariato.
La crisi della scuola e dell’università - che nasce dall’appannamento nell’opinione pubblica nazionale della loro funzione di formazione dei cittadini e delle cittadine dotati di una cultura generale e di un pensiero critico che sia a fondamento della libertà delle scelte di ognuno e di ognuna – pregiudica la capacità di rispondere alle domande di mobilità sociale e riconoscimento professionale che l’istruzione di massa attiva. La questione sollevata dal movimento degli studenti e dei ricercatori non si risolve solo con provvedimenti di sostegno economico e può precipitare verso logiche meritocratiche (lesive del riconoscimento vero del merito), se non si accompagna a proposte di riconversione economica, sociale, ambientale che richiedono buona occupazione e valorizzazione dei saperi.
Alla base di una nuova idea di società sta la difesa e la qualificazione dello Stato sociale.
Il Governo, con il suo “Libro verde”, ha proposto un manifesto ideologico che disegna un arretramento delle tutele collettive per il lavoro; la privatizzazione dei servizi pubblici, la negazione dei diritti universali di cittadinanza e della soggettività delle donne. L’idea di fondo è che l’individuo (maschio e occidentale), con le sue forze e con il sostegno della famiglia o della comunità di appartenenza, deve farsi strada nel mondo, mentre al centro dell’economia sta l’impresa che scarica sulla società problemi determinati dalle sue scelte.
Su questa base si sta preparando una nuova aggressione al sistema sanitario ed a quello previdenziale, di cui la proposta di innalzare l’età pensionabile delle donne è il primo avviso.
Per la Sinistra il tema dei diritti, dell’inclusione sociale, del miglioramento delle reti dello Stato sociale deve avere come esclusivo riferimento l’art. 3 della Costituzione: è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini impediscono il pieno sviluppo della persona umana.

Alcune proposte per il cambiamento
Sulla base di questi orientamenti noi proponiamo:
Un piano di riconversione per la sostenibilità ecologica dell’apparato produttivo – a cui finalizzare consistenti aiuti di Stato – ed un piano alternativo per l’energia basato sul rifiuto della scelta disastrosa del nucleare. È matura, tecnologicamente ed economicamente, una scelta a favore del risparmio energetico, dell’efficienza e delle energie rinnovabili. In questo modo è possibile e realistico puntare all’obiettivo di procurare al Paese gran parte dell’energia che gli è veramente necessaria.
Da politiche economiche in grado di risolvere i problemi ambientali e quelli relativi al futuro industriale del paese può venire un contributo decisivo alla soluzione dei drammatici problemi sociali che la crisi sta producendo. La lotta per il lavoro deve collegarsi ad un idea di politica industriale che metta al centro scelte di sistema, come nel caso della mobilità, a cui ricondurre i vari interventi sia di mobilità pubblica che individuale secondo piano intermodali, fuori da una idea di gerarchia e concorrenza tra i vari prodotti, all’interno della quale costruire anche la stessa prospettiva della nostra industria automobilistica.
Un programma di manutenzione delle strutture pubbliche (dagli edifici scolastici al recupero edilizio, dalle reti idriche alla rete stradale e ferroviaria “minore”) e di messa in sicurezza del territorio (valorizzando le produzioni agricole locali oltre che la difesa delle risorse naturali, fermando l’ulteriore consumo di suolo).
Questa è la grande opera pubblica di cui ha bisogno il Paese, può attivare rapidamente un flusso di spesa consistente rivolta ad un esteso sistema di piccole imprese e richiede un consistente utilizzo di lavoro anche qualificato.
Un programma per la individuazione e valorizzazione sociale dei beni comuni in un ambito di gestione e fruizione collettiva (servizi acquedottistici, servizi alla mobilità, residenza popolare, beni demaniali, patrimonio artistico e paesaggistico, formazione permanente, ecc.) da sottrarre alle logiche del mercato (che si sono dimostrate inefficienti e controproducenti esposte al rischio di speculazione finanziaria) a favore di un vero federalismo municipale
Un piano di riqualificazione del lavoro pubblico, per migliorare i servizi, dando più spazio a figure professionali nuove. Il problema della P.A. è la presenza ancora eccessiva di figure professionali burocratiche e/o con compiti “riparativi” o “repressivi”. Il sistema sanitario, ancora centrato sull’ospedale, ne è la prova come lo sono gli interventi nelle periferie urbane, che enfatizzano solo la questione della “sicurezza”. Mancano (o sono mal utilizzate) le figure professionali “preventive” (l’assistente sociale, il maestro di strada, il geologo, l’urbanista, il “team” di professionisti della salute che fa prevenzione sul territorio o interviene a domicilio – si pensi alla condizione di tanti anziani ancora “istituzionalizzati” o lasciati alle famiglie e al mercato). La scelta di diminuire il numero delle e degli insegnanti, sacrificandoli sull’altare dei tagli di spesa (mentre servirebbe un piano di sviluppo dei servizi per l’infanzia e del tempo pieno e di una sua generalizzazione a tutto il Paese), è prova sufficiente dello stato di irresponsabilità del Governo a partire dalla sua campagna sui “fannulloni”. Questa campagna può essere arginata efficacemente se la difesa del salario e del posto di lavoro dei dipendenti pubblici si accompagna ad una riorganizzazione dei servizi in direzione delle esigenze dei lavoratori e dei cittadini utenti. Un buon funzionamento della P.A. è condizione essenziale per il buon governo e lo sviluppo del Mezzogiorno.
Un progetto per il rilancio di una economia autenticamente mutualistica, cooperativa, indivisa, partecipata, noprofit. La pluralità delle forme economiche produttive e degli stili di consumo rappresentano una indispensabile forma di vitalità del sistema paese che va salvaguardata contro ogni “pensiero unico” del capitale e della burocrazia.
Un piano per un’economia declinata secondo una prospettiva di genere, a partire dal riconoscimento dei bisogni e dei desideri delle donne di autonomia economica e di presenza nel lavoro. Si è visto infatti, come questi obiettivi si possano garantire solo attraverso una differenziazione delle condizioni di accesso, di svolgimento, di garanzie nella formazione, nel lavoro, nel credito, e nella costante attività di lotta alle discriminazioni. Una revisione delle attuali strumentazioni per le politiche di genere al fine di incrementarne l’efficacia è dunque necessaria. Ad esempio e in prima battuta vanno ripristinate le condizioni volontarie e reversibili del part-time, anche in un’ottica di più equa ripartizione dei carichi di lavoro all’interno della famiglia, che si può perseguire prevedendo più fondi per le politiche di conciliazione. Va ripristinata la legge che tutela dal licenziamento le lavoratrici in caso di maternità e vanno ripristinati i fondi per i centri anti-violenza contro le donne. E’ inoltre necessario uno specifico programma per la crescita dell’occupazione delle donne nelle aree meridionali e per ridurre la fase di precarietà delle giovani .
Un progetto per l’innovazione, che sostenga la diffusione delle nuove tecnologie nella produzione e nei servizi secondo modelli organizzativi concordati e partecipati, che valorizzino la qualità del lavoro, che superino il divario nel territorio, tra Nord e Sud, tra metropoli e piccoli centri urbani.
Il deficit tecnologico del nostro Paese è ancora collegato all’acquisto di brevetti e sistemi soprattutto dagli USA (in particolare da Microsoft). La diffusione di sistemi “open source” nella P.A. come nelle aziende privare non solo è utile alla nostra bilancia dei pagamenti, ma può mettere al lavoro una rete di università, piccole imprese innovative, “software houses”, consulenti e ricercatori singoli ed associali diffusamente presente nel nostro Paese.
In questa crisi la sinistra deve porsi l’obiettivo di costituire il principale punto di riferimento del mondo del lavoro e di tutti coloro che sono esposti più di altri ai suoi effetti. La convergenza unitaria di tutte le forze di sinistra su proposte comuni attraverso cui affrontare la situazione attuale deve costituire un primo passo. A questo bisogna far seguire la mobilitazione di tutte le energie intellettuali e sociali disponibili, di una vera e propria rete di forze e di competenze capaci di dar vita a un dialogo e a un confronto, basato sul rispetto delle reciproche autonomie, con il mondo sindacale che oggi stenta a trovare interlocutori politici all’altezza delle domande e dei bisogni di questa difficile fase della vita del Paese e del mondo intero.


Seguono firme