venerdì 13 febbraio 2009

l’Unità 13.2.09
Dare voce al lavoro
Lo sciopero di oggi di metalmeccanici e lavoratori pubblici della Cgil segnala, come avviene in tutta Europa, l’allarme sociale per la crisi economica. Una crisi che chiama imprese e sindacati a grandi responsabilità e che dovrebbe spingere il governo a scelte coraggiose e responsabili
«La Cgil non si ferma il 4 aprile ci vediamo al Circo Massimo»
di Felicia Masocco


In piazza per avere risposte. «Il nostro obiettivo è questo, come lo era il 12 dicembre -dice Guglielmo Epifani -. A prescindere dal gradimento al governo, e a noi non piace molto, il nostro problema è ottenere delle risposte. Per questo premiamo, lottiamo, facciamo propaganda come si sarebbe detto un tempo, perché la crisi è destinata a crescere, perché i lavoratori non sanno dove sbattere la testa e non vorremmo che andassero ancora a sbatterla contro qualche manganello. Vogliamo risposte, a meno che il governo non giochi sull’esasperazione del conflitto».
Perché questo sciopero e come si colloca nella strategia della Cgil?
«Nasce dall’esigenza che avevano il sindacato della funzione pubblica e quello dei metalmeccanici di un’iniziativa forte e di lotta di fronte alle politiche del governo nei settori pubblici e all’assenza di una politica industriale e di intervento pubblico in quella che è la più grave crisi nel settore meccanico di tutto il dopoguerra. Due esigenze che poi si sono unificate anche per dare una dimostrazione plastica al tentativo di dividere lavoro pubblico e lavoro privato. L’iniziativa sta dentro il percorso della Cgil cominciato il 27 settembre, proseguito con lo sciopero del 12 dicembre e che continuerà con i pensionati il 5 marzo, con lo sciopero della scuola e con la grande manifestazione che si terrà il 4 aprile al Circo Massimo».
Avanti insomma, non sembra avere grande fiducia nel futuro prossimo. Che cosa teme?
«I nostri timori si stanno purtroppo realizzando, avevamo parlato di una valanga, ebbene sta arrivando e vuol dire fabbriche che chiudono, precari che perdono il lavoro, cassa integrazione che esplode, crisi produttiva. Avevamo chiesto al governo un intervento di qualità e non c’è stato. Tolta una manovra di 5 miliardi fatta per decreto e una, più subita che voluta, di sostegno alla domanda nei settori beni durevoli, il governo non ha fatto altro. Basti pensare che la somma stanziata, 7 miliardi, corrisponde a quella che Sarkozy ha proposto per le due aziende dell’auto francesi. Corriamo il rischio che, grazie anche alle proteste, alla fine il governo finirà per essere tirato a fare scelte di spesa ma di farlo troppo tardi, con le stesse risorse e con effetti minori».
A proposito dei francesi. C’è qualcosa che a dicembre non era accaduto, la mobilitazione dei sindacati in altri paesi. Si disse allora che eravate soli...
«... È così, c’è stato lo sciopero generale unitario in Francia, lo sciopero dei servizi in Germania, una settimana di mobilitazione indetta dalla confederazione europea dei sindacati per metà maggio, ci sarà la manifestazione annunciata a Londra prima del G20 con un 1 milione di persone e scioperi in altri paesi. Quindi all’obiezione che ci è stata fatta, in particolare dal segretario della Cisl, che eravamo gli unici che scioperare dentro la crisi, io rispondo oggi che in realtà uno dei pochi che non sciopera è proprio lui».
Raffaele Bonanni ha definito questo sciopero antagonista.
«È uno sciopero per chiedere un cambiamento della politica economica del governo, per le tutele ai precari e sostegno a occupazione e imprese. Non capisco che cosa ci sia di antagonista. Lui deve dirlo perché se riconoscesse la verità poi dovrebbe giustificare perché non si muove».
Non sarà anche perché lo sciopero è contro l’accordo sui contratti?
«Sulle regole non si possono fare accordi separati. E non dico solo o contro la Cgil. Noi non avremmo fatto un accordo sulle regole senza o contro Cisl e Uil o Confindustria».
Walter Veltroni propone una mobilitazione unitaria di sindacati e imprese per chiedere al governo un piano anti crisi? Si può fare?
«Trovo giusto dire che, come in Francia, c’è bisogno di una mobilitazione dei sindacati. E trovo corretto che un partito dica che anche le imprese debbano rivendicare politiche più adeguate. Occorre però che i soggetti siano d’accordo. Oggi ci stiamo muovendo solo noi. Cisl e Uil non fanno né scioperi né mobilitazioni. Nelle imprese c’è qualcosa in qualche settore, ma ho impressione che la presidenza di Confindustria non ci pensi proprio. Per mobilitarsi contro il governo bisogna avere autonomia nei confronti del governo: la Cgil ce l’ha, sfido gli altri ad averne».
Se è successo nel tessile che sindacati e imprese si siano uniti in difesa del made in Italy, può ripetersi. Non è un buon modello?
«È un’iniziativa rilevante. Settimane fa sindacati e imprese hanno chiesto al governo un tavolo per la crisi del settore, il governo non ha neanche risposto».
Si parla di disgelo tra la Cgil e il Pd. Più di cento parlamentari hanno aderito alla vostra protesta, Veltroni ha espresso vicinanza e comprensione ai lavoratori ma non ha soddisfatto i segretari di Fp e Fiom che gli rispondono “o dentro o fuori”. Concorda?
«No. Un partito può non aderire, ma le parole di vicinanza e comprensione sono comunque un passo in avanti rispetto allo sciopero del 12 dicembre».

Liberazione 13.2.09
Avanti, fino allo sciopero generale
di Paolo Ferrero


Salutiamo gli operai e le operaie, gli impiegati e le impiegate che hanno scioperato e oggi manifestano per le strade di Roma. Li salutiamo e li ringraziamo. Molti di loro sono in cassa integrazione, sono precari, vedono il loro posto di lavoro a rischio. Sono i lavoratori che stanno pagando per primi il prezzo della crisi e stanno pagando il prezzo più alto. A questi lavoratori Berlusconi e Confindustria vogliono ridurre strutturalmente il salario in virtù di un accordo separato firmato da Cisl, Uil e Ugl. Un salario che già oggi è vergognosamente basso a fronte di profitti altissimi e di scandalosi stipendi dei manager e degli alti dirigenti dello stato. La manifestazione di oggi è quindi una grande risposta di massa - dopo quella degli studenti - al tentativo di governo e padroni di scaricare interamente sui più deboli i costi della crisi. Un tentativo che non solo è ingiusto socialmente ma è anche dannoso sul piano economico.
Ogni riduzione dei salari e delle pensioni, ogni riduzione dello stato sociale non fa che aggravare la crisi. Questa non è il frutto di qualche speculazione finanziaria ma proprio il risultato di vent'anni di compressione salariale: i lavoratori non hanno i soldi per comprare i prodotti che fabbricano e gli imprenditori chiudono perché non riescono a vendere le merci e i servizi che le aziende producono.
Per questo l'accordo separato è una porcheria e questa manifestazione è sacrosanta.
La manifestazione di oggi è anche la prima risposta di massa all'offensiva berlusconiana che è andata in scena in questa ultima settimana. E non si dica che la manifestazione è su altri temi. L'attacco al contratto nazionale di lavoro e il tentativo di distruggere il sindacato di classe sono il presupposto dell'attacco alla Costituzione portato avanti dal piduista che abbiamo a Palazzo Chigi.
Berlusconi infatti non vuole solo cambiare la Costituzione formale, vuole distruggere la Costituzione materiale del paese. Così come vuole un potere sovrano incontrastato da realizzarsi con l'elezione diretta del presidente della Repubblica, così vuole consegnare in mano ai padroni il potere assoluto sui lavoratori. Nel progetto di Berlusconi ogni contropotere, ogni opposizione, ogni limitazione del potere - politico o imprenditoriale che sia - deve essere spazzato via.
Berlusconi vuole estendere a tutta la società quell'idea totalizzante di potere sovrano dell'impresa che Romiti ha reintrodotto a suon di casse integrazioni e licenziamenti a partire dalla Fiat negli anni '80. Non esiste oggi nessuna possibile separatezza tra lotta sociale e lotta democratica perché l'offensiva governativa è sui due fronti. La democrazia si difende anche lottando per il salario e una difesa della Costituzione che non chieda l'estensione della cassa integrazione per ogni lavoratore che perde il posto di lavoro rischia di essere completamente inefficace.
Dalla lotta di oggi contro l'accordo separato riparte quindi il movimento di opposizione nel paese e va a merito della Fiom e della FP della Cgil di aver indetto questa iniziativa. Adesso occorre allargare questa lotta, sia sui territori che arrivando allo sciopero generale. La costruzione dell'opposizione al governo Berlusconi e alla Confindustria, sul piano nazionale come su quello locale è infatti lo sbocco obbligatorio di questa manifestazione. L'opposizione è da costruire principalmente nel paese perché l'opposizione parlamentare procede a corrente alternata ed è sostanzialmente inutile. Mentre nel 2003 l'opposizione stava tutta quanta insieme alla Cgil a difendere l'articolo 18, oggi il Pd non ha aderito a questa iniziativa perché nella sostanza condivide i contenuti dell'accordo separato. La linea politica del Pd è oggi assai più in sintonia a quella della Cisl e di Confindustria che a quella della Cgil.
Dobbiamo quindi costruire l'opposizione di massa nel paese, sia sul piano sindacale che sul piano politico, nella piena consapevolezza che il Pd non sarà dalla nostra parte. Lavorare a costruire l'opposizione dal basso: questo è l'impegno che assumiamo come Rifondazione Comunista e in questa prospettiva dobbiamo lavorare nei prossimi mesi, ufficio per ufficio, fabbrica per fabbrica, quartiere per quartiere.

l’Unità 13.2.09
Cambio nel Pd. Una teodem al posto di Marino
di Jolanda Bufalini


Il senatore sostituito da Dorina Bianchi nella commissione sanità
Veltroni: la nostra politica sul testamento biologico non muta
Io non mi tirerò indietro, dice, rasserenante, battagliero, il senatore Marino. «Il mio impegno per una legge sul testamento biologico, che rispetti la libertà di cura e l'autodeterminazione di ogni persona, non è in discussione». La notizia che, nel pomeriggio di mercoledì la commissione Sanità aveva accolto le dimissioni di Ignazio Marino da capogruppo pd e il gruppo eletto alla (quasi) unanimità la senatrice Dorina Bianchi (un passato da teodem ora dell’area Fioroni) ha avuto l’effetto di una deflagrazione. Perché il senatore medico, cattolico e laico, firmatario della proposta di legge del Pd, lascia proprio nel mezzo della battaglia parlamentare sul testamento biologico?
In effetti l’affaire si presenta con molte sfaccettature. Già da ottobre, da quando è diventato presidente della commissione d’inchiesta sull’efficienza servizio sanitario nazionale, Marino aveva chiesto alla presidente del gruppo Anna Finocchiaro di lasciare. Lui stesso lo dice: «Data la mia esperienza di medico e le mie competenze specifiche in sanità, credo di poter essere utile in quel ruolo». Tutto vero, da tre settimane, ovvero dalla ripresa post-natalizia, la questione era all’ordine del giorno. Ma che il nodo si sia sciolto proprio ora e sul nome della senatrice Bianchi assume, «oggettivamente», dicono diversi senatori, un valore simbolico.
Il segretario del Pd però non ci sta. Walter Veltroni rivendica il suo personale impegno e il voto, proprio in Senato, «su una mozione contrapposta a quella del governo in cui si difende il diritto a decidere di sé anche per quello che riguarda la nutrizione e l’idratazione artificiale». «Questa - sottolinea Veltroni - è la posizione prevalente: che poi in un grande partito come il Pd, ci siano anche posizioni personali differenti su motivazioni di coscienza lo considero fisiologico».
La stessa tranquillità esprime la presidenza del gruppo del Senato, e rinvia ai quindici punti della mozione presentata dal Pd, alla quale hanno lavorato, oltre a Marino, Daniele Bosone e Albertina Soliani - entrambi cattolici provenienti dalla Margherita. In quella mozione si prevede - per il principio di autodeterminazione - la sospensione della nutrizione e idratazione artificiale, se anticipatamente espressa. Quella la posizione «condivisa» e la cartina al tornasole sarà il voto sul testo in discussione al Senato.
Fiorenza Bassoli è l’unica a non aver votato il cambio della guardia in commissione sanità. «Era ovviamente comprensibile - dice - l’esigenza di sostituire Marino». Comprensibile pure che vi sia quel lavoro di «bilancino» fra le diverse anime del Pd. «Ma anche così si poteva individuare una figura più dialogante. Bosone avrà pure avuto le stesse posizioni di Baio Dossi e Binetti, però è capace di mediare».
La senatrice neoeletta che ha scatenato la tempesta, intanto, mette in chiaro: «Io in commissione mi sono espressa a favore della legge del governo su Eluana. Ma martedì mattina, quando si sono votate le mozioni sul testamento biologico, ho votato il documento del Pd e non quello del Pdl, come invece hanno fatto altri colleghi del nostro gruppo». E Fioroni: «È della mia area ma è stata votata all’unanimità...fra un po’ siamo alla stella di David».
Però la discussione sul testo Calabrò (del governo), in Senato, prosegue serrata. Per Ignazio Marino è un testo brutto che «prima passa, prima sarà bocciato dalla corte Costituzionale». È un testo che non prevede le cure paliative e le misure in favore dei disabili. Per questo il senatore annuncia un maxi-emendamento. «Il mio impegno in Senato sarà ancora più intenso e continuerò a contrastare l'impostazione anticostituzionale e antiscientifica della legge della destra»,aggiunge.
Ci sarà un relatore di minoranza? A giudicare dagli umori, la presidenza del gruppo non potrà disinteressarsi della questione.

Repubblica 13.2.09
Cosa nasconde il caso Marino
di Miriam Mafai


Il senatore Ignazio Marino è uomo di parola oltre che medico, cattolico, presentatore della proposta del Pd sul "testamento biologico" e difensore della possibilità per il paziente di rifiutare anche l´idratazione e alimentazione forzata.
All´improvviso ha dovuto lasciare l´incarico di capogruppo nella Commissione Sanità del Senato, per andare a presiedere la pur importante Commissione di Inchiesta sul Servizio sanitario nazionale. Al suo posto è stata chiamata la senatrice Dorina Bianchi, cattolica, che tre giorni fa aveva dichiarato: «Nonostante l´orientamento del mio partito avrei votato sì al decreto del governo sul caso Englaro». (Si tratta, per chi non lo ricordasse del decreto che, dopo le osservazioni del presidente della Repubblica, è stato di necessità ritirato).
Il senatore Ignazio Marino è uomo di parola. E quindi saremmo obbligati a credergli anche quando dichiara, come ha già dichiarato, che la sua sostituzione non ha nessun significato politico. Ma su questo mi permetto di avere più di un dubbio. Il passaggio della barra di capogruppo da Marino alla Bianchi (e non, per esempio a un altro autorevole senatore come Umberto Veronesi) rendeva legittimo il dubbio che il Pd, dopo avere condiviso, sia pure con qualche difficoltà, il progetto di legge presentato e difeso da Marino si preparasse a rivedere la sua posizione. O a ulteriormente ammorbidirla.
Deve essere stata questa l´impressione anche di molti elettori del Pd che nella stessa mattinata di ieri hanno espresso (sia benedetta la rapidità del mezzo telematico) il loro dissenso. E finalmente, per rassicurarli (e per rassicurarci) è giunta una lettera di Walter Veltroni al nostro giornale. Con questa lettera il segretario del Pd ha affermato con forza, il suo «no» al disegno del governo in tema di testamento biologico, e garantito che il suo partito difenderà in Commissione e in Parlamento, il testo di legge già presentato da Marino. Un testo di legge che, tra l´altro, prevede che ognuno di noi possa, nel suo testamento biologico (o Dichiarazione anticipata di trattamento) rifiutare la idratazione e alimentazione artificiale ove fosse ridotto nelle condizioni di Eluana.
Walter Veltroni è uomo di parola. E io gli credo. Anche se non mi è chiaro, (forse per la mia scarsa conoscenza dei meccanismi parlamentari) come Dorina Bianchi, appena nominata capogruppo del Pd, possa domani difendere in Commissione e nell´aula del Senato, un testo di legge, quello di Marino, contro il quale si era già espressa tre giorni fa, votando invece il testo della maggioranza.
La politica non può, come talvolta pure è stato autorevolmente detto, fare un passo indietro di fronte a interrogativi e problemi di tanta delicatezza. Certo, deve muoversi, su questo terreno, che si è convenuto chiamare della bioetica, con grande sensibilità, intelligenza e rispetto delle opinioni degli altri. E grande attenzione, non prevenuta, alle acquisizioni della scienza. Sono passati ormai trent´anni dalla faticosa approvazione di quella legge sull´aborto che, per la prima volta proponeva al Parlamento ed alla pubblica opinione un tema di forte valenza etica. Quella legge porta la firma di sei ministri democristiani, tra cui Andreotti (anche se in questi giorni qualcuno dell´attuale maggioranza gliene ha fatto pesantemente carico).
Da allora ad oggi, e nessuno poteva prevederlo, anche in virtù dei progressi della scienza, i problemi che generalmente definiamo di «bioetica» hanno fatto irruzione nella nostra vita quotidiana e nella vita politica. Non è giusto, e non è possibile, tracciare in questa materia una linea di confine e di rottura tra credenti e non credenti, laici e cattolici.
E infatti, anche in questo caso, sul tema del testamento biologico oggi in discussione al Senato, la divisione non passa tra laici e cattolici. Nello stesso Pd infatti non mancano i cattolici «adulti» che, quale che sia la posizione del cardinale Barragan e delle gerarchie vaticane, hanno già espresso la loro adesione al progetto di legge del senatore Marino, cattolico dichiarato.
La lettera che ci ha inviato Veltroni, sgombra il terreno da un altro possibile equivoco. Il diritto di ogni parlamentare di esprimere, su un caso delicato come quello del fine vita (come, del resto, su altri problemi) la propria volontà e la propria opinione, non deve fare immaginare che su quel problema non esista una precisa, meditata opinione del partito al quale si aderisce. Un partito, anche quando nasca, come il caso del Pd, dall´incontro e dalla confluenza di diverse culture, è necessariamente chiamato a definire una propria identità anche quando questo comporti la necessità di operare scelte difficili su questioni controverse. A condizione che questo avvenga nel rispetto delle opinioni diverse che possono manifestarsi e che nel corso del dibattito potrebbero divenire maggioritarie.

l’Unità 13.2.09
Viaggio tra le rovine della sinistra israeliana
«Siamo senza identità»
I laburisti al minimo storico hanno pagato il prezzo della guerra a Gaza
Saltati i legami con i più deboli, persi anche i kibbutz. Il Meretz in declino
di Umberto De Giovannangeli


Tramortita dal voto «utile». Orfana di identità. In deficit di leadership. Socialmente «spiantata». Ha provato a risollevarsi dimostrando di essere più affidabile, almeno il suo capo, nel condurre una guerra. Ma sul quel terreno, i falchi della destra l’hanno battuta. Viaggio tra le macerie della sinistra israeliana, devastata dal voto del 10 febbraio.
Il tracollo. Viaggio tra militanti delusi, dirigenti in fuga, sedi vuote. Viaggio tra giovani attivisti che chiedono una svolta radicale e un recupero di quei principi, quel rigore, quella coerenza che furono a fondamento del pionierismo sionista. Per capire il disastro elettorale del Labour è cosa utile visitare i sobborghi di Tel Aviv, popolati da una umanità sofferente, senza protezione e garanzie sociali.
I deboli tra i deboli hanno voltato le spalle alla sinistra. «Ho perso il lavoro, l’assistenza, ora rischio di essere buttato fuori di casa, io, mia moglie e i miei tre bambini. A offrirmi un aiuto è stata gente del Likud non l’Histadrut (l’organizzazione sindacale legata al Labour, ndr.), racconta Avigdor Verter, 35 anni, da due senza lavoro.
Le ragioni dei più deboli non hanno trovato spazio nella campagna elettorale del Labour, tutta giocata sulle capacità di condottiero militare del «soldato più decorato d’Israele»: Ehud Barak.
Il Labour ha perso nei suoi insediamenti tradizionali. Tra i giovani. Nel ceto medio delle professioni. Tra i lavoratori dei servizi. Nei kibbutz che furono un pilastro sociale su cui i pionieri sionisti fondarono lo Stato d’Israele. Devi salire nel nord d’Israele e visitare il kibbutz Metzer per comprendere cosa significhi, in termini di perdita di consenso, lacerare una storia, violare una identità. Metzer, il «kibbutz pacifista». Una comune fondata nel 1953 da un pugno di attivisti d’origine sudamericana dell’Hashomer Hatzair, movimento della sinistra pacifista che crede nel dialogo. La gente di Metzer non si riconosce più nel Labour e neanche nel Meretz, la sinistra sionista. «Ho visto in televisione Barak gloriarsi per i successi militari a Gaza. Quei “successi” erano centinaia di bambini uccisi nei bombardamenti. Come potevo votare uno così», si lascia andare Lily Ravid, 28 anni e un passato di attivista in «Peace Now», il movimento per la pace israeliano. «Io ho votato Kadima. Perché a guidarlo è una donna e perché era l’unico modo per fermare Bibi» (Benjamin Netanyahu, il leader del Likud, ndr.), s’inserisce Emy Kupfer, un’amica di Lily. «I dirigenti laburisti non hanno saputo parlare ai giovani. Sono sembrati vecchi, indecisi, sulla difensiva rispetto ai vari Netanyahu, Lieberman», aggiunge Roni Singer, 21 anni, studente all’Università Bar-Illan di Tel Aviv.
Nei kibbutz, un tempo imprendibili bastioni elettorali laburisti, Kadima ha conquistato il 31,1% dei voti, scavalcando il Labour (30,6%). Il disastro è ancora più marcato nei moshav – i villaggi collettivi suburbani, popolati dalla media borghesia acculturata -: qui il Kadima di Tzipi Livni ottiene il 28,8% dei voti contro il 16,5% del Labour di Ehud Barak.
Identità cercasi. Torniamo a Tel Aviv per incontrare due personalità controcorrente che hanno fatto la storia dell’Israele del dialogo. La sinistra sionista? «Schiacciata in mezzo ai binari fra il treno di Tzipi e il treno di Bibi». Prova a esorcizzare lo shock con una battuta Yossi Sarid, uno dei fondatori del Meretz, più volte ministro, ora tra gli scrittori più letti d’Israele. Ma la battuta non cancella il bisogno di autocritica per una batosta di portata storica subita alle elezioni del 10 febbraio. Suggellato dal tracollo a 13 seggi dei laburisti, eredi di una tradizione ideologica che, da David Ben Gurion in poi, aveva tenuto per decenni banco sulla scena politica dello Stato ebraico. E completata dal declino del Meretz a quota tre: due in meno delle briciole che aveva raccolto nel 2006, prima della fusione col «movimento degli scrittori» Grossman, Oz e Yehoshua.
Sarid non vede attenuanti e non ne cerca. Guardando ai elettorali, concorda con gli analisti che spiegano il rovescio con un travaso di voti da entrambe le forze tradizionali della sinistra (o di centro-sinistra) verso Kadima, il partito centrista della Livni, in funzione di contenimento del Likud di Netanyahu e delle formazioni di destra radicale.
Uno spostamento che ha consentito in effetti a Kadima di reggere e tenere la maggioranza relativa, ma senza impedire una globale avanzata delle destre. E - nota Sarid - al prezzo d'una decimazione dello schieramento progressista. Il suo giudizio sugli umori prevalenti nel Paese è del resto liquidatorio. E non riconosce sfumature.
Sinistra muta. «Siamo stati investiti da un'ondata nazionalista e fascista», sentenzia, deplorando che «in campagna elettorale la sinistra non abbia saputo farsi sentire, né distinguersi». «Non lo hanno fatto i laburisti - gli fa eco Shulamit Aloni, più volte ministra, fondatrice del Meretz - associandosi a una guerra, quella dell’operazione Piombo Fuso nella Striscia di Gaza, che ha alimentato un odio irrazionale verso gli arabi e ha portato voti solo al signor Lieberman, un anti-democratico della peggior specie, il quale pretende di negare la cittadinanza a chi non è fedele allo Stato». Ma «non lo ha fatto - riprende Sarid - nemmeno il Meretz, incapace di far pesare al dunque i suoi temi forti: i diritti dell'uomo e del cittadino, la difesa della natura, l'istruzione». L’ultimo passaggio è in una sede periferica del Labour. Qui incontriamo Yoni e Yael, 19 e 18 anni, attivisti del movimento giovanile laburista. «È stata una brutta botta – dice Yoni – che deve farci riflettere su cosa significhi negare i principi, i valori, che sono stati alla base della nostra storia». «Sì – aggiunge decisa Yael – è come se ci fossimo vergognati di noi stessi, della nostra identità, delle battaglie che avevamo condotto per la pace, i diritti dei più deboli, la giustizia sociale». «E invece è da qui – conclude Yoni – che dobbiamo ripartire. Orgogliosi di ciò che siamo». Tra le macerie della sinistra germogliano dei fiori.

l’Unità 13.2.09
Caso Englaro. La verità e le menzogne
di Emma Bonino e Gianfranco Spadaccia


La lotta contro il tempo per ottenere in fretta l’approvazione della legge che avrebbe dovuto “salvare” Eluana Englaro è stata condotta a suon di insulti e di menzogne. Gli insulti si qualificano da sé e soprattutto qualificano chi li ha lanciati. Alle menzogne invece risponderemo nel convegno «Verità e menzogne a proposito di “eutanasia”, Luca Coscioni, Piergiorgio Welby, Eluana Englaro» (domani, ore 10, al Piccolo Eliseo di Roma) al quale parteciperanno fra gli altri Ignazio Marino, Furio Colombo e Stefano Rodotà. In attesa che riprenda lo scontro sul merito della legge sul testamento biologico, vorremmo riportare l’attenzione su due argomenti usati contro di noi e che forse non sono stati colti in tutta la loro gravità a causa del concitato clamore politico-mediatico che ha accompagnato gli ultimi giorni di Eluana. Il primo è l’accusa di Berlusconi di essere, noi, degli “statalisti”. Berlusconi ci ha abituato alle barzellette, però faremmo male se passassimo questa sotto silenzio. Non solo perché in materia di vita e di morte c’è poco da scherzare ma perché questa sortita del Premier s’inserisce nella campagna rivolta ad alimentare l’equivoco che con la legge si voglia attribuire allo Stato un potere sulle nostre vite quando è esattamente il contrario: ciò che si vuole difendere è la facoltà della persona di scegliere se sottoporsi o no ad alcune terapie. Ma come: Berlusconi, Sacconi, Eugenia Roccella, l’intero governo e la sua maggioranza si propongono di toglierci questo diritto di scelta e d’imporci, non solo in caso di coma irreversibile, idratazione e alimentazione forzata e poi saremmo noi gli statalisti? E chi sceglierà per noi dal momento che Sacconi ha già annunciato la contrarietà del governo all’indicazione di una persona di fiducia esecutrice della mia volontà?
Il secondo argomento, ancor più grave, è quello che intima al Parlamento e al Diritto di lasciare intorno al malato una “zona grigia” (sono le parole testuali usate da Angelo Panebianco sul Corriere della Sera), in cui a decidere sarebbero la pietà e l’affetto dei familiari supportati, immaginiamo, da qualche centinaio di euro al personale medico o paramedico. Per l’aborto, prima della legge 194, questa zona grigia è sempre esistita: si chiamava “aborto clandestino”. Nel silenzio e nell’ipocrisia dovremmo ora rassegnarci ad una sorta di “fine vita clandestina”? Papà Englaro ha fatto scandalo proprio perché non ha voluto risolvere nel silenzio e nell’ipocrisia il dramma di sua figlia, perché ha creduto nella Costituzione, nella legge e nel diritto. Così facendo ha scosso e turbato le nostre coscienze, ci ha obbligato a interrogarci, a scegliere e a dividerci, mostrando a tutti che la contrapposizione non è fra il partito della vita e quello della morte, ma fra chi difende il diritto di autodeterminazione della persona e chi, invece, lo nega.

l’Unità 13.2.09
Nel nome del corpo
di Lella Ravasi Bellocchio


Passa dalle suore Misericordine il corpo-reliquia, il corpo feticcio di bambola trafitta della amata Eluana.
Amata da chi? Dalle suore che volevano trattenere per sempre, contro la volontà dei genitori, la reliquia? Che scambiavano per messaggi e sorrisi gli spasmi incontrollati?
Amata da chi? Dai genitori, da una madre che si porta nel proprio corpo la ferita, da un padre che la ama di una asciutta dolorosa verità, in una ricerca di senso che ha voluto dire per questi lunghi anni liberarla dall'essere diventata (contro tutti i suoi voleri) una reliquia. Che cosa è il feticcio e che cosa unisce questa storia dolorosa all'uso che Berlusconi ne ha fatto all'interno di una "strategia feticista" da cui è pervaso? Il principio di base della strategia feticista è di trasformare qualcosa di strano e intangibile in qualcosa di familiare e tangibile. Il termine "feticcio" nasce dal portoghese feitiço che vuol dire "falso". La venerazione si sposta su un oggetto dotato di poteri magici, un "falso" che diventa "vero", un corpo feticcio. La perversione non va intesa come pratica sessuale, non si tratta di usare fruste e tacchi a spillo, ma chi è animato come Berlusconi da una strategia feticista sa bene come usare il falso per trasformarlo in vero. L'uso perverso che fa del potere assomiglia sempre più al feticcio del suo proprio corpo. Usa il parlamento come una protesi; il suo mito faustiano di vita eterna passa dal capello falso al tenere in vita l'immagine squallida del grande seduttore, con le sue ciniche e volgari battute. Tutto in lui è reality non realtà. Cioè il falso per il vero. Ma questa volta ha veramente fatto troppo. L'uso del corpo-feticcio di Eluana nella sua fantasia libero di fare un figlio racconta un delirio e una perversione su cui lui non ha più il controllo. I pochi testimoni a cui il padre ha concesso di vedere quel che restava della figlia perduta tanti anni fa ci hanno mostrato con le parole la devastazione. E questo ci ha toccato in corpo anima e psiche, cioè nell'intero di cui siamo fatti. Va da sé che nella sua onnipotenza al signor B. tutto è dovuto e l'attacco a Napolitano gli spetta. Fa parte del suo "pensiero magico". L'onnipotenza maschera l'impotenza e l'angoscia di morte, come sappiamo. Come la strategia feticista maschera la perdita di contatto con la realtà inventando un falso come se fosse vero. Ma l'Italia si sta ribellando, civilmente, e si identifica in buona parte in un suo Presidente che tiene il controllo e la misura, e anche in un padre eroico che è un uomo perbene, che ha una parola e questa spende: dignità e rispetto, sottraendo il corpo della figlia a mani che lo hanno toccato, per anni, lo libera dall'essere reliquia, feticcio, "altro" da un corpo intero fatto di materia e di psiche. Lo lascia andare, nella legge, con rispetto e pudore. Abbiamo a che fare con padri nobili e altri ignobili. A ciascuno il suo.

l’Unità 13.2.09
Il diritto e l’emozione
di Luigi Manconi


La via crucis di Eluana è destinata a lasciare un segno indelebile nella coscienza del nostro Paese. Raramente è accaduto che un viluppo di emozioni e ragioni, di sensibilità e diritto, di dolore e legge diventasse materia tanto incandescente e tanto popolare. Eluana, come si dice, “ha fatto giurisprudenza”: ha prodotto conflitti giuridici e sentenze, proposte di legge e controversie costituzionali. Quel corpo assente è stato fattore destabilizzante in un quadro ideologico e politico istituzionale tendente all’immobilità come quello italiano: e ciò non in ragione di quella che alcuni volevano vita, nonostante il simulacro al quale era ridotta, bensì proprio in virtù della sua non esistenza come vita vitale. Ovvero, non a causa di quel prolungamento artificiale al quale l’ostinazione terapeutica e l’accanimento del legislatore la volevano condannare, bensì in virtù della capacità della sua famiglia di rendere la sua non-vita qualcosa di simbolicamente pregnante e di moralmente ineludibile. In questi casi, si sente spesso dire (da destra come da sinistra, ahimè): non si può decidere “sull’onda dell’emozione”. Si tratta di una truffa bell’e buona. Cos'è la politica, nella sua fondazione più nobile, se non la capacità di cogliere il “fattore umano2 e i bisogni più intensi e di dar loro una trascrizione nella sfera pubblica? Come potrebbe, la politica, non decidere in base all’emozione quando quest’ultima richiama questioni cruciali come quelle “di vita e di morte”, dalla fecondazione assistita al Testamento biologico? Ignorare quell’emozione sarebbe come ignorare l’essenza stessa della soggettività umana e accettare che l’azione pubblica si riduca a mera amministrazione e tecnica di governo.
La giurisprudenza italiana e quella sovranazionale si pronunciano sempre più spesso sui temi sciaguratamente definiti “eticamente sensibili” e lo fanno assumendo, pressoché unanimemente, il punto di vista dell’autonomia individuale come base giuridica fondamentale. Così è successo nella vicenda di Eluana Englaro, dove le sentenze della magistratura hanno posto l’accento sulla soggettività di Eluana, pur attraverso la mediazione rappresentata dalla parola dei genitori. E qui la figura del padre è risultata straordinariamente importante. Bepino mai ha ceduto alla commozione, mai ha versato una lacrima in pubblico, mai ha consentito che i sentimenti rompessero le sue parole. Il suo volto è davvero roccioso, nel significato originario di quel termine ormai banalizzato. La riservatezza fino all’ombrosità poteva essere superata solo dal dolore più atroce: così è stato. È l’emozione più intima quella che fa superare inibizioni e reticenze. Ed è quella stessa emozione che diventa forza per affrontare la politica e il diritto, interloquire con essi, penetrare dentro le stanze della prima e del secondo, determinare le sentenze dei tribunali e l’intervento (tardivo e, temo, disastroso) del Parlamento. È molto probabile, già lo vediamo, che con l’epilogo della vicenda la famiglia Englaro si adopererà per farsi dimenticare. E tuttavia, quei nomi, Eluana e Bepino, sono destinati a rimanere a lungo nella nostra memoria civile.

Repubblica 13.2.09
Se scatta il divieto di pubblica opinione
di Giuseppe D’Avanzo


Con la nuova legge sulle intercettazioni non conosceremo più le storie che spiegano il paese e i comportamenti degli uomini che lo governano

Quante storie, con i nomi, i tempi, le frasi e gli esiti giusti non potrete conoscere mai, se dovesse essere approvata la legge sulle intercettazioni che disciplina anche il diritto di cronaca. Diciamo meglio, che cancella il dovere della cronaca e il diritto del cittadino ad essere informato. Che cosa ha imposto il governo alla sua docile maggioranza?
Con un tratto di penna ha deciso che il regime che oggi regola gli atti giudiziari coperti dal segreto si estenda anche agli atti non più coperti dal segreto. Il governo vuole che non si scriva un rigo fino al termine dell´udienza preliminare (accusa e difesa, con i loro argomenti, dinanzi a un giudice terzo). Si potrà sapere che un pubblico ministero senza nome sta accertando che a Roma le sentenze si vendevano all´incanto. Non si potrà dar conto delle fonti di prova e scrivere che il corruttore di toghe si chiama Cesare Previti e si è messo in testa addirittura di fare il ministro di giustizia. Si potrà scrivere che qualcosa non torna nei bond di una società quotata in Borsa e un´innominata toga se ne sta occupando, ma non si potrà dire del pozzo nero che ha inghiottito i modesti investimenti di migliaia di piccoli risparmiatori che hanno avuto fiducia nelle banche e in Parmalat. Si potrà dar conto di un gestore telefonico che ha "schedato" illegalmente migliaia di persone. Non si potrà raccontare che il presidente della Telecom Marco Tronchetti Provera si è lasciato ingrullire, povero ingenuo, dal capo della sua sicurezza, Giuliano Tavaroli. Né tantomeno si potranno elencare i nomi degli "spiati". Lo si potrà fare soltanto a udienza preliminare conclusa (forse). Con i tempi attuali dopo quattro o sei anni. In alcuni patologici casi, dopo dieci. La pubblica opinione dovrà attendere, anche se quei protagonisti sono personaggi pubblici che chiedono fiducia al Paese per rappresentare chi vota e governare il Paese o amministratori pubblici e privati a cui è stata affidata la nostra salute, i nostri risparmi, la nostra vita. È inutile tediarvi con le tecnicalità. Qui basta forse dire che finora ce la siamo cavata muovendoci lungo il sentiero stretto di un articolo della procedura penale, il 329: «Gli atti d´indagine compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria sono coperti dal segreto fino a quando l´imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari». Come abbiamo scritto e ripetuto spesso, in questo varco hanno lavorato le cronache. Sarebbe uno sciocco errore negare gli abusi, gli eccessi, la smoderatezza in cui pure è caduto il giornalismo italiano. Ma, se si rispettano i confini dell´articolo 329, si possono tenere insieme i tre diritti che il dovere professionale del giornalista è chiamato a tutelare: il diritto della pubblica opinione a essere informata; il diritto dello Stato a non vedere compromessa l´indagine; il diritto dell´imputato a difendersi e a non essere considerato colpevole fino a sentenza. Nel triangolo di questi tre diritti, il giornalista può fare con correttezza il suo mestiere, proporre al lettore le fonti di prova raccolte dall´accusa e gli argomenti della difesa, valutare l´interesse pubblico di quelle storie. Perché non ci sono soltanto responsabilità penali da illuminare in questi affari. Spesso diventano cronache del potere tout court, come è apparso evidente nel racconto dei maneggi della loggia massonica di Licio Gelli; della fortuna della mafia siciliana o dei traffici di Tangentopoli, delle imprese di chirurghi più attenti al denaro che non al malato e alla malattia. Quelle cronache sono un osservatorio che permette di vedere da vicino come funzionano i poteri, lo Stato, i controlli, le autorità, la società. Svelano quale tenuta ha per tutti, e soprattutto per coloro che svolgono funzioni pubbliche, il rispetto delle regole. Indicano spesso problemi che impongono nuove soluzioni. L´incontro ravvicinato con le opacità del potere ha in qualche caso convinto il giornalismo ad andare oltre i confini del codice penale violando il segreto. È il suo mestiere, piaccia o non piaccia. Perché non c´è nessuna ragione accettabile e decente per non pubblicare documenti che raccontano alla pubblica opinione - è il caso di un governatore della Banca d´Italia - come un´autorità di vigilanza, indipendente e "terza", protegge (o non protegge) il risparmio e il mercato. Naturalmente violare la legge, anche se in nome di un dovere professionale, significa accettarne le conseguenze. È proprio sulle conseguenze di violazioni (finora comunemente accettate) che la legge del governo lascia cadere un maglio sulla libertà di stampa. È stato già raccontato da Repubblica che Berlusconi abbia sorriso ascoltando i suoi consiglieri chiedere «più galera per i giornalisti» (fino a sei mesi per un documento processuale; fino a tre anni per un´intercettazione). Raccontano che Berlusconi abbia detto: «Cari, lasciate dire a me che sono editore di mestiere. Se li mandi in galera, ne fai degli eroi della libertà di stampa e magari il giornale per cui lavorano vende anche di più, e questo sarebbe uno smacco. La galera è inutile. So io, da editore, quel che bisogna fare�».
Ecco allora l´idea che sta per diventare legge dello Stato. Efficace, distruttiva. Che paghino gli editori, che sia il loro portafogli a sgonfiarsi. La trovata sposta la linea del conflitto. Era esterna e impegnava la redazione, l´autorità giudiziaria, i lettori. Diventa interna e vede a confronto, in una stanza chiusa, redazioni e proprietà editoriali. La trovata trasferisce il conflitto nel giornale. L´editore ha ora un suo interesse autonomo a far sì che il giornale non pubblichi più quelle cronache. Si porta così le proprietà a intervenire nei contenuti del lavoro redazionale, le si sollecita, volente o nolente, a occuparsi dei contenuti, della materia giornalistica vera e propria, sindacando gli atti dei giornalisti. Il governo pretende addirittura che l´editore debba adottare «misure idonee a favorire lo svolgimento dell´attività giornalistica nel rispetto della legge e a scoprire ed a eliminare tempestivamente situazioni di rischio». Evidentemente, solo attraverso un controllo continuativo e molto interno dell´attività giornalistica è possibile «scoprire ed eliminare tempestivamente situazioni di rischio». Di fatto, l´editore viene invitato a entrare nel lavoro giornalistico e a esprimere un sindacato a propria tutela. Divieto di cronaca per il tempo presente, controllo dell´editore nelle redazioni in tempo reale. Ecco dunque lo stato dell´arte: si puniscono i giornali e i giornalisti; si sospende il direttore dall´esercizio della sua funzione; si punisce l´editore spingendolo a mettere le mani nella fattura del giornale. E quel che conta di più, voi non conoscerete più (se non dopo quattro o sei anni) le storie che spiegano il Paese, i comportamenti degli uomini che lo governano, i dispositivi che influenzano le nostre stesse vite.

Repubblica 13.2.09
Quella Carta del popolo
Una corazza contro la dittatura nata da una guerra di popolo
di Giorgio Bocca


Ci sono due recenti dichiarazioni pubbliche del premier Berlusconi che servono a capire il personaggio e il suo populismo: che Eluana Englaro dopo diciassette anni di vita artificiale potesse partorire, e che i costituenti italiani del ´48 erano degli stalinisti che s´ispiravano alla costituzione dell´unione Sovietica. Due dichiarazioni che sono la negazione dell´impossibilità umana di sopravvivere alla morte della coscienza e dell´intelligenza, e la negazione della dittatura come annullamento della democrazia.
Generazioni di comunisti europei hanno saputo benissimo, sin dalla sua promulgazione nel ´36, che la costituzione staliniana era un sogno e un´impostura per coprire la dittatura, che il socialismo reale era quello dei piani quinquennali e della modernizzazione forzata, ma nella convinzione e nella speranza che quello fosse il solo percorso possibile. Come Togliatti scrisse in risposta alle critiche di Gramsci: «Dobbiamo riconoscere che l´azione del partito comunista russo, la rivoluzione russa sono stati il più grande fatto di organizzazione e di propulsione delle forze rivoluzionarie. Oggi questa propulsione è ancora attiva e crescente nel proletariato mondiale, all´evidenza è ancora attiva nelle classi operaie del mondo, nel mondo intero c´è la convinzione che in Russia, dopo la conquista del potere, il proletariato può costruire il socialismo e sta costruendolo».
Nella generazione dei comunisti dell´era staliniana restava cioè la profonda convinzione che con tutte le sue deviazioni autoritarie Stalin restava nel profondo un socialista, e che la dittatura sovietica, nonostante i suoi spaventosi prezzi, aveva tenuta aperta la via al socialismo, come era stato confermato dalla vittoria contro il nazismo. Siamo cioè di fronte a uno dei grandi paradossi della storia: i comunisti europei sanno che il socialismo in un solo paese si è trasformato in una dittatura spietata, ma pensano che sia ancora possibile riparare l´errore di percorso, costruire un socialismo democratico.
Togliatti è il testimone politico più autorevole di questa ambiguità. Rappresentante del Comintern in Spagna durante la guerra civile, detta i tredici punti di una costituzione repubblicana che entrerà in vigore a guerra vinta contro il franchismo: autonomie regionali, rispetto della proprietà e dell´iniziativa private, e dei diritti civili, libertà di coscienza e di fede religiosa, assistenza alla piccola proprietà, riforma agraria per la creazione di una democrazia rurale, rispetto delle proprietà straniere non compromesse con il franchismo, ingresso della Spagna nella Società delle Nazioni, amnistia per tutti gli spagnoli che hanno partecipato alla guerra di liberazione. In sintesi il progetto di rimettere assieme un paese diviso fra anarchici, socialisti, comunisti e conservatori, un paese, si badi, dove la polizia politica stalinista continuava ad arrestare e fucilare i nemici, presunti o reali.
La costituzione togliattiana fu naturalmente criticata sia dalla sinistra trozkista come un tradimento della rivoluzione, sia dai conservatori come un cavallo di Troia dello stalinismo. Ma essa resta nel 1938 come uno dei punti più alti del rilancio democratico. Aggiungiamo che anche il cinico Togliatti si era illuso sulla possibilità di correggere lo stalinismo: è proprio di quell´anno la svolta machiavellica di Stalin, che cessa gli aiuti alla rivoluzione spagnola per preparare le nuove alleanze con le grandi democrazie minacciate dal nazismo. Sconfitto in Spagna il riformismo togliattiano ritorna nell´Italia democratica dopo il ´45, e questa volta è l´intero arco costituzionale, dai comunisti ai democristiani ai liberali, in un paese che ha conosciuto la ferocia nazista, a volere una costituzione democratica, di cui Piero Calamandrei può dire "lo spirito della Costituzione deve tradursi in questi caratteri essenziali: la democrazia come sistema politico delle libertà, e il lavoro come sostanza di una libertà non solo formale. In sostanza il programma dei fratelli Rosselli e del movimento Giustizia e libertà". Il progetto spagnolo di costituzione scritto da Togliatti deve adattarsi al mutamento della società italiana: il partito comunista e le sue pretese egemoniche sono state fortemente ridimensionate dalle elezioni, il primo partito italiano è il socialista seguito dal democristiano, il peso dei cattolici nella società italiana è determinante, e il partito comunista ne prende atto facendo approvare anche ai compagni più riottosi l´articolo sette, cioè la conferma dei patti lateranensi che riconoscono alla chiesa una posizione di assoluto privilegio.
Due compagni, La Noce e Terracini, negano il loro voto, ma il partito compatto approva. E qui si chiude il mito del partito della rivoluzione o della "terza ondata", che ancora turba i sogni del nostro premier, e che viene ripetuto sino all´ossessione nella sua propaganda elettorale. La Costituzione repubblicana e democratica non è nata solo da un accordo politico fra i partiti. È nata dalla guerra di liberazione, dalla presa di coscienza che il paese era socialmente imperfetto e antico, che l´Italia regia e fascista aveva compiuto una modernizzazione tecnica e in parte economica, ma non aveva risolto le divisioni sociali, restava una società divisa in cui gli operai, i contadini e in genere i poveri restavano diversi anche nel modo di vestire, di parlare, e persino nel pubblico passeggio, oltre che nella giustizia e nei diritti umani. La guerra partigiana non fu una rivoluzione politica, ma come guerra di popolo, a cui partecipavano italiani di ogni ceto, fu una rivoluzione sociale, per fare finalmente del popolo italiano un popolo unito.
I critici della Costituzione si dividono fra quelli che la giudicano troppo prudente e quelli per cui è troppo avanzata. È difficile però disconoscerne i meriti, essa è stata nel dopoguerra una corazza che ha protetto il paese da cedimenti autoritari, da ipocrisie populistiche e demagogiche, cioè dalle tentazioni cui il nostro premier spesso cede.

Liberazione 13.2.09
La Sardegna al voto. Ferrero:
«Con Soru, alla sua sinistra»
di Checchino Antonini


Dal "cortile di casa" di Berlusconi fino al simbolo del declino industriale, di uno sviluppo distorto e devastante. Da Olbia, in Gallura, a Porto Torres e poi fino a Sassari. Le ultime battute della campagna elettorale sarda (si vota domenica e lunedì), Paolo Ferrero le trascorre in una sorta di assemblea itinerante che si conclude in serata, a Sassari, di fronte a oltre cento persone che lo aspettano nel salone di un albergo. I particolari appresi durante il viaggio gli faranno dire che Cappellacci, il candidato ufficiale del Pdl, «non c'entra». La sfida è tutta tra Berlusconi - suo il nome nel simbolo della coalizione - e Soru, il governatore uscente, sostenuto da tutto il centrosinistra.
La parata di ministri che s'è consumata nell'Isola (con le gaffes tipiche del governo, ad esempio sui 500 milioni per il raddoppio della Sassari-Olbia che appaiono e scompaiono dai bilanci) e la presenza assidua di Berlusconi, che ha concreti interessi in Sardegna (anche con la famiglia di Cappellacci), confermano «un'idea della Sardegna vista da fuori, di uno sviluppo "mordi e fuggi" come è accaduto col petrolchimico», dice il segretario nazionale di Rifondazione reduce da un giro ai cancelli del mastodontico impianto di Porto Torres dove nel '77 si lavorava in 13mila e oggi sono appena 2mila (in tutta la Sardegna gli operai sono 7.500) perdipiù rientrati per soli due mesi dalla cassa integrazione.
Una mossa elettorale di Scajola, ministro dell'industria, gli spiegano Mario Satta, segretario provinciale, e Mario Culeddu del Cpn. Enichem, infatti, vuole dismettere senza garanzie per i progetti di risanamento (c'è una montagna di fanghi rossi e altri veleni nascosta lì sotto, l'80% di chi ha lavorato qui non raggiunge i 65 anni di vita), di riconversione dell'area e della riqualificazione dei lavoratori, come dice Mauro Marongiu, metalmeccanico e candidato Prc, mentre le tute blu sciamano veloci verso i pullman che li riportano in città. La chimica ha stravolto l'isola ma ha anche innescato processi virtuosi negli anni passati: «I pastori che andarono a formarsi Porto Marghera per poter aprire Ottana, ritornarono politicizzati», spiega Culeddu.
Lo stesso modello è alla base dell'idea delle destre di puntare sulla speculazione edilizia per promettere posti di lavoro. Ne sa qualcosa chi sta facendo propaganda tra Olbia, la Costa Smeralda e La Maddalena, come Gianpiero Cannas e Giuseppe Dao. Lo slogan di un candidato berlusconiano annuncia con toni intimidatori che «la Gallura deve crescere e nessuno la deve fermare». Quel "nessuno" è Soru, o meglio, il suo piano salvacoste e l'impianto urbanistico alla base delle resistenze trasversali che hanno portato alle sue dimissioni, alla fine di novembre, e a queste elezioni regionali che si preannunciano elezioni dalla doppia valenza. A Ferrero non sfugge che «se Berlusconi prende uno schiaffo in Sardegna» potrebbe essere un passo verso la ricostruzione di un'efficace opposizione.
Le voci bene informate danno per probabile una vittoria del governatore uscente ma non delle liste che lo sostengono. Il rischio è un rigonfiamento del consiglio regionale, previsto in questo caso dalla legge elettorale. Per questo, tutti i candidati di Rifondazione vanno ripetendo l'appello per un voto completo: per il presidente e per la lista del Prc che registra «una buona convergenza sui contenuti con Soru e spesso un dissenso verso il suo dirigismo», riprende Ferrero. «Ma a volte siamo stati capaci di fargli cambiare idea - precisa Pierluigi Mulliri, della segreteria regionale - per esempio sull'inceneritore di Ottana, tanto che sembravamo noi, e non il Pd il partito del governatore».
Nel suo programma Rifondazione insiste sui progetti già avviati nella prima esperienza di governo, «a sinistra di Soru»: reddito di cittadinanza, lavoro buono (del Prc è l'assessora regionale uscente, Romina Congera, ora candidata: è stata lei a promuovere la legge per sostenere economicamente le famiglie dei morti sul lavoro), energia pulita, estensione del diritto allo studio sulla scia di progetti come "Master and back" (che sostiene con 500 euro al mese gli studenti meritevoli che si impegnano a tornare sull'Isola), ripubblicizzazione dell'acqua, chiusura del Cpt di Elmas, smilitarizzazione del territorio devastato dalle servitù militari, riforma della politica. E' lo stesso Ferrero a non sottovalutare le divergenze con Soru. La più visibile è sul G8 ma è una «dialettica fisiologica in coalizioni indotte da un pessimo sistema elettorale».
Tutto ciò dentro una crisi economica che mostra i suoi effetti e una crisi politica che, tuttavia, qui in Sardegna non ha registrato la scissione del Prc. Merito del mancato incontro con la locale Sd ma soprattutto merito dello statuto nazionale che garantisce ampi margini di autonomia al partito sardo «deciso a ricostruire la sinistra ma a partire da Rifondazione».

Liberazione 13.2.09
Tutto il mondo è "notizia"
il culto ideologico del giornalismo
intervista di Tonino Bucci a Peppino Ortoleva autore de "Il secolo dei media", docente di storia dei mezzi di comunicazione


Il Novecento è stato il secolo dei media, il secolo delle tante rivoluzioni nelle forme della comunicazione. Basta pensare al ritmo frenetico delle innovazioni tecnologiche, all'invenzione del cinema, del telegrafo, della radio, della televisione per arrivare all'informatica, a internet, ai lettori portatili, all'i-pod. Ma non bisogna cadere nel determinismo, la comunicazione non è solo un effetto della tecnologia. I media hanno segnato cambiamenti epistemologici, modi diversi di percepire e rappresentare il mondo, persino variazioni antropologiche di come gli esseri umani si collegano tra loro. Un'ampia ricostruzione di questa storia complessa si trova ne Il secolo dei media. Riti, abitudini, mitologie (il Saggiatore, pp. 336, euro 19), il nuovo lavoro di Peppino Ortoleva, già autore di Mediastoria , docente di storia dei mezzi di comunicazione a Torino, nonché fondatore e presidente di mediasfera, una società di ricerca e progettazione sulla comunicazione. Quella dei media nel '900 è uno sviluppo a spirale da cui si irradiano excursus imprevedibili, fenomeni di portata gigantesca, eppure talmente radicati nella routine quotidiana da non attirare l'attenzione, da risultare banali, ovvi e scontati. Ad esempio, la caduta di tabù secolari come quello sulla pornografia oppure l'ingresso massiccio dello sport nell'informazione e il radicamento del tifo calcistico nella vita quotidiana di milioni di persone. Parliamo di fenomeni che, attraverso i media, hanno plasmato le identità personali e collettive.

Non c'è troppa enfasi nel definire i media la rivoluzione del '900? La comunicazione ha addirittura ispirato utopie sociali. C'è chi ha visto nei media la possibilità dell'emancipazione del genere umano dal lavoro materiale e dal bisogno. Un ottimismo ingenuo?
Ci sono state profezie banali come il telelavoro. L'informatizzazione avrebbe risolto il problema dell'inquinamento e dei trasporti... queste sono idee utopistiche della comunicazione. Non so se sia improprio parlare dei media come di una rivoluzione. Certo è che nel '900 ci sono state varie rivoluzioni in cui la comunicazione è cambiata in maniera profonda. Il cinema è stato un'invenzione rivoluzionaria nel senso che ha cambiato il nostro modo di percepire il mondo, ha cambiato le abitudini culturali di milioni di persone, ha creato un'arte dal nulla. Anche l'informatica è una rivoluzione. Comunque la si voglia vedere ha creato macchine che dialogano con noi in tutti i momenti della nostra vita. Ma ci sono state anche delle rivoluzioni invisibili legate ai media sulle quali si è ragionato troppo poco.

Sta dicendo che la rivoluzione dei media si misura più da quel che non si vede, cioè dalla routine e dalle abitudini?
Nel libro mi soffermo molto sulla caduta di alcuni tabù che sono durati millenni, per esempio quelli relativi alla pornografia. Di colpo negli anni Sessanta una visione del corpo umano che era obbligatoria e rigidissima è stata sostituita da un'altra, molto più banalizzata e mercificata. Ma non mi interessa dire se abbiamo perso qualcosa o guadagnato. Il fatto è che c'è stata una rivoluzione che è stata largamente taciuta oppure è stata oggetto di giudizi morali e frettolosi. Non è stata capita. A questo mi riferisco quando parlo di più rivoluzioni dei media. Ci sono stati fenomeni di grande portata relativamente invisibili che hanno cambiato la nostra percezione del mondo e che non nascono dalla tecnologia bensì dalla comunicazione come fenomeno complessivo, fatto anche di abitudini e regole. Il Novecento è stato attraversato da una domanda inesauribile di comunicazione. A ogni nuovo medium che sembrava rispondere a una serie di bisogni se ne sono aggiunti altri. Prima il telegrafo, poi il telefono, poi il fax, gli sms, la posta elettronica, ma nessuno ha ucciso quelli precedenti. Come se ci fosse una domanda quasi isterica di comunicazione che è caratteristica della società contemporanea.

Il giornalismo pensa che l'informazione coincida con la "notizia", che questa sia un modo "naturale" di organizzare gli eventi. Quanto di ideologico c'è nel ritenere la "notizia" come la forma scontata del mondo?
E' uno dei temi su cui mi sono più interrogato in questo libro. Quanto sono "naturali" le forme della comunicazione che ci sembrano più ovvie e scontate? Quello della notizia è un esempio eccellente. La nostra percezione del mondo negli ultimi due secoli si è retta sulla convinzione che ogni giorno il giornale - sintesi di una giornata del mondo, per dirla con Marinetti - ci diceva quello che d'importante dovevamo sapere. Il giornale era un mosaico di informazioni. Perché sentivamo questo bisogno? La risposta l'ha data il vecchio Hegel in una battuta del 1813. «Leggere i giornali all'inizio della giornata è una sorta di laica preghiera del mattino» dell'uomo moderno. Prima ci si collegava con Dio, ora ci si collega con il mondo. La funzione in entrambi i casi è la stessa: orientarsi per sapere cosa fare e dove si sta. Questa sostituzione del mondo a Dio come l'oggetto verso cui orientarsi è quello ha tenuto in piedi il giornalismo di notizie per questi due secoli.

Cosa è cambiato oggi?
Le persone computer oriented che sono una minoranza, ma in via di crescita, si collegano alla posta elettronica prima ancora di sentire le notizie o guardare il telegiornale. Non sentono tanto il bisogno di sapere cosa è successo di importante in politica o nel mondo, ma di collegarsi a una rete fatta di migliaia di persone, magari mai conosciute in viso. Questa è la preghiera mattutina dell'umanità contemporanea. Non ci orientiamo più verso il mondo o Dio.

La rete è un modo di isolarsi dal mondo?
Per un verso sì, ma per l'altro dobbiamo dire che anche il giornalismo di notizie ha dato il peggio di sé negli ultimi vent'anni. Sempre di meno quel che leggiamo nelle notizie, indipendentemente dalla buona volontà dei giornalisti, riflette realmente quel che accade nel mondo e sempre di più è condizionato da alcuni soggetti, i cosiddetti spin doctor il cui mestiere è letteralmente far comparire nei notiziari al momento giusto i loro protetti o i loro clienti in modo da colpire l'opinione pubblica. Anche il terrorismo internazionale si è impossessato alla grande del meccanismo della notizia che è ciò che detta l'agenda al mondo. Io non sono per abolire il giornalismo di notizie. Sono per una maggiore apertura dell'idea di informazione che comprenda la notizia, i sistemi di relazione tra le persone e la comprensione dei processi di lungo periodo che ci stanno accompagnando e stanno cambiando la nostra vita.

Il problema delle redazioni è come organizzare e segmentare gli eventi in notizie. E questo porta a una contrazione dei tempi di scrittura e di fruizione dei giornali a detrimento della conoscenza. Sarà per questo, come lei scrive, che il modello-notizia è in crisi?
E' un tema fondamentale. Uno dei processi legati alla moltiplicazione della comunicazione, è il fatto che il tempo è sempre più spezzettato. Siamo raggiunti da fonti d'informazione differenti ognuno dei quali tenta di attirare la nostra attenzione. Abbiamo una disponibilità sempre minore a un'informazione di respiro. Non mi riferisco all'approfondimento che di per sé è un genere giornalistico, ma all'argomentazione articolata. Come ha dimostrato la vicenda Eluana è difficile fare sui giornali un ragionamento un po' complesso che non sia "viva" o "abbasso". Chiunque provi ad argomentare le proprie posizioni si ritrova non solo aggredito dagli altri che gli urlano in testa, ma rischia di far svanire l'attenzione del pubblico. I tempi dell'informazione si sono ridotti. Il giornalismo dello spin doctoring si fa con la battuta di trenta secondi che non dice niente dal punto di vista dell'argomentazione e riesce però ad attirare l'attenzione. E' poco più di uno slogan pubblicitario che abbassa il livello della discussione. Alcuni politici sono specialisti in queste semplificazioni.

Questo tipo di informazione non produce effetti epistemologici nel nostro modo di percepire la realtà?
Assolutamente sì. I processi di trasferimento di informazioni da un soggetto all'altro vanno studiati e, per quanto possibile, tenuti sotto controllo per mezzo di regole. La tesi che nel libro critico è che gli effetti dell'informazione sul pubblico siano riducibili a un mero effetto di propaganda, come sostiene Chomsky con un certo estremismo.

Questo vale anche per il berlusconismo. Non è solo la sua propaganda a fare egemonia. E' l'organizzazione del discorso televisivo a cambiare la logica del pensare corrente. Possiamo dirla così?
E' evidente. L'influenza del berlusconismo sull'opinione pubblica italiana sta solo in parte nel bombardamento di ideologia liberista. Secondo me sta soprattutto nel sistema di valori associato alla pubblicità commerciale, all'idea di un paese dipinto come un paradiso a partire dagli anni '80 - a differenza dell'Italia cupa del passato. Il berlusconismo ha sì propagandato queste rappresentazioni, ma al tempo stesso le ha trovate e sfruttate. Buona parte del potere dei media sta nel fatto stesso di definire chi conta e chi non conta. Silvio Berlusconi, essendo padrone d'una parte del sistema televisivo, era un candidato naturale al potere prima ancora di scendere in politica. I media danno un diritto automatico al potere per il fatto stesso di dare visibilità ad alcune persone al di là di ciò che queste dicono e al di là della loro ideologia. Le poltrone di Vespa sono piccoli troni. Chi ci sta seduto ha diritto a una quota di potere. I media hanno un effetto politico al di là della propaganda, cioè definiscono agli occhi del pubblico che cos'è il potere e chi lo detiene.

Liberazione 13.2.09
Un confronto sabato 21 febbraio, a Roma, al Rialto Occupato
A sinistra per davvero, ricominciamo da Sinistra Europea


A partire dalla scuola è ripresa la mobilitazione sociale nel paese. La Cgil, con l'adesione di gran parte del sindacalismo di base, ha indetto per il 12 dicembre lo sciopero generale con manifestazioni in tutte le città. Lo slogan "la crisi non vogliamo pagarla noi" vale per il mondo del lavoro e per la gente che non riesce ad arrivare alla fine del mese, indicando un'altra via di uscita dalla crisi in cui è precipitato il capitalismo in Europa e negli Stati Uniti. (…)
La sinistra, con la grande manifestazione a Roma dell'11 ottobre ha dimostrato, attraverso il recupero della sua storica collocazione politica e culturale, di essere quella parte della politica organica al mondo del lavoro e, più in generale, delle vittime del capitalismo e dei suoi alleati, il patriarcato, il razzismo. Il suo compito è di favorire la generalizzazione dei fronti di lotta e metterli in relazione sinergica, far diventare senso comune di massa che il futuro di ciascuno dipende da quello degli altri, che la prospettiva che ci si deve dare è quella di una nuova società fondata sul rilancio del ruolo del pubblico in economia; su un nuovo modello socialmente responsabile di produzione e di consumo; sulla restituzione al popolo dei beni comuni: acqua, territorio, energia pulita, servizi, intelligenza sociale; sulla solidarietà; sulla partecipazione democratica effettiva del popolo alle scelte economiche e politiche. Ciò comporta che la configurazione della sinistra non solo deve comprendere tutta la sua articolazione politica, sociale e di movimento, ma che deve essere difesa da ogni tentativo di centralizzazione organizzativa coatta e autoritaria da parte di frammenti di ceto politico autoreferenziale.
Bisogna smetterla di inquadrare la realtà del Pd partendo dalle dichiarazioni dei suoi esponenti o dai rendiconti dei massmedia dei padroni o ad essi subalterni. Ogni forza politica si giudica primariamente da ciò che fa. E ciò che il Pd (e prima di esso Ds e Margherita) ha fatto al governo nazionale e continua a fare nei principali suoi governi locali, e persino dall'opposizione, lo caratterizza come il partito più organicamente protagonista delle politiche liberiste. Privatizzazione di tutto ciò che è pubblico o bene comune, svendita del territorio, schiacciamento sulle politiche di bilancio restrittive e antisociali dei Trattati europei, precarizzazione del lavoro. Un partito attore di quel processo di controriforma autoritaria che con l'accordo per lo sbarramento elettorale al 4% alla vigilia delle elezioni europee e l'attacco all'autonomia del sindacato, perfeziona quel processo di espulsione di grandi masse di popolazione dalla politica. Ed è in questo contesto che si colloca la necessità e la possibilità, per la sinistra politica di affrontare il progetto del Pd, con una lotta politica aliena da ogni compiacenza, recuperando il suo radicamento sociale perché logorato dalla percezione popolare di una tendenza a integrarsi al Pantheon dei ceti politici pro - sistemici. E questo può avvenire attraverso iniziative, linguaggi, comportamenti soggettivi che diano un segnale opposto, riconfermando l'appartenenza alla propria gente.
La fenomenologia attuale della sinistra politica non è soltanto il risultato di processi culturali, ma soprattutto di processi materiali della società capitalistica contemporanea, tra cui le lotte sociali concrete (…) Insieme al movimento operaio che continua ad essere l'elemento antisistemico decisivo per molti aspetti sostanziali, ci sono molteplici forze sociali, altre tipologie di lotta e di obiettivi, altre elaborazioni critiche del capitalismo. Lo stesso movimento operaio è cambiato nella sua composizione, l'irrompere della presenza di lavoratrici e lavoratori migranti non rappresenta soltanto una modifica formale ma sostanziale. Legislazioni xenofobe e crisi economica hanno accelerato un processo micidiale per cui essere espulsi dal circuito produttivo si traduce nell'espulsione dal territorio nazionale e nella perdita delle già poche garanzie acquisite. Una sinistra anticapitalista non può non porsi come fra i propri obiettivi principali l'innalzamento generalizzato della soglia dei diritti e la rottura delle condizioni di subalternità giuridica in cui sono ormai costretti quasi 4 milioni di persone. Accanto a questo è necessaria una riformulazione dei diritti di cittadinanza che permetta la regolarizzazione delle tante e dei tanti costrette/i alla irregolarità in funzione di maggiori margini di sfruttamento, che impedisca l'avallo di tutte politiche securitarie messe in piedi nel corso degli anni. (…)
L'esperienza di Sinistra Europea aveva raccolto, accanto a Rifondazione Comunista, numerose associazioni sociali e culturali, pezzi importanti di sindacato, collettivi di sinistra antisistemica: il suo disegno, agli antipodi rispetto a ogni idea di partito unico, era quello di una struttura in cui ognuno continuava a disporre della propria indipendenza con l'intento di costruire punti di vista e obiettivi comuni per praticarli unitariamente. Ed essendosi dunque manifestata per sua natura infungibile a ogni idea di partito unico, quindi di scioglimento di chicchessia, Sinistra Europea in vista delle elezioni del 13 aprile è stata tolta di mezzo e sostituita con "La Sinistra-l'Arcobaleno". Questo è stato un errore.
Oggi è necessario riprovarci, evitando accelerazioni e forzature da parte partitica su tempi e modi. Occorrono invece confronto e decisioni democraticamente costruite. (…)
Impariamo dall'esperienza e dalle scelte del Forum Sociale Mondiale di Belem, dal "mondo reale e possibile" della sinistra che lì si è incontrato e da cui molti di noi stanno tornando, dalla sua manifestazione di autonomia, di capacità critica sottoposta alla verifica della pratica, di produrre risposte unitarie, in sintesi dal senso di responsabilità nei confronti dell'intera umanità.
Per confrontarci su tutto questo, ci incontriamo Roma, sabato 21 febbraio, al Rialto Occupato, in Via Sant'Ambrogio, 4, dalle 10 alle 16.
Primi firmatari
Vittorio Agnoletto parlamentare Europeo Gue, Maddalena Berrino Forum Ambientalista Piemonte, Andrea Bonifacio Forum Se Alpeadria, Antonio Bruno consigliere comunale Genova Sinistra Europea, Elio Bonfanti Socialismo XXI, Mario Brunetti Movimento per l'Unità della Sinistra Alternativa, Giorgio Caniglia Sinistra Alternativa Valle d'Aosta, Luca Ciabatti consigliere Regione Toscana, Giacomo Casarino Università di Genova, Anna Cotone Socialismo XXI, Josè Luiz del Roio Presidente Nuestramerica per il Socialismo del XXI Secolo, Sebastiano De Zanchi Sinistra Europea Zerosile, Gianni Foffano portavoce comitati pendolari Veneto, Paolo Favilli direttore dip. Storia, Scienza della comunicazione Genova, Giuseppe Gonnella Socialismo XXI Genova, Roberto Latella formatore sociale, Rita Lavaggi Socialismo XXI, Genova, Dora Maffezzoli Lavoro e Società, Paolo Menichetti Forum Ambientalista Roma, Enrico Moriconi consigliere Ecologisti Uniti a Sinistra Regione Piemonte, Nicola Nicolosi Cgil Area Programmatica Lavoro e Società, Gianni Palumbo Forum Ambientalista Basilicata, Rossano Pazzagli, Direttore Istituto di Ricerca sul Territorio e l'ambiente Leonardo-Pisa, Ciro Pesacane presidente Forum Ambientalista, Simona Ricotti, No Coke Civitavecchia, Giorgio Riolo Presidente Ass. Culturale Punto Rosso, Annamaria Rivera, docente Università di Bari, Giancarlo Saccoman Spi Cgil Lavoro e Società, Raffaele K.Salinari Socialismo XXI Bologna, Luisa Severi Rialto Occupato Roma, Mauro Scroccaro, Assessore all'Ambiente di Macon Venezia, Anita Sonego Libera Università delle Donne, Milano, Gianni Tamino Università di Padova, Josè Luis Tagliaferro Argentina Democratica, Luigi Tamburrino Rialto occupato Roma, Poldo Tartaglia, Lavoro e società Veneto, Fulvio Vassallo Paleologo Università di Palermo.
E' disponibile sul sito www.puntorosso.it il testo integrale dell'appello
Per adesioni inviare una e-mail a: cotone@forumsinistraeuropea.it


l'Unità 12.1.09
Amano soltanto quelli che non pensano
di Paolo Izzo


Diffidenti nei confronti del libero pensiero, gli unti del signore vedrebbero bene intorno a sé una società formata da pre-nati e pre-morti, possibilmente in coma irreversibile, che non pensino e non parlino! Tutela massima per i feti, dunque, anche a scapito di chi li porta in grembo, e promessa di vita eterna per chi è morto e vive. A patto che questi ultimi rimangano avvolti nel “mistero della sofferenza” e non esprimano la loro umanissima volontà di non essere tenuti in vita artificialmente. Se lo fanno (come Welby) le porte delle chiese vengono subito chiuse e la faccia buona dei “paladini della vita” si trasforma nella maschera cattiva dei giudici della morte.

Repubblica.it (Agi) 13.2.09 11.47
Sardegna: Soru, da Berlusconi invasione con cattivo gusto


"Conosco bene la Sardegna, so quanto sia indispensabile proteggerne il territorio, prima di tutto. Nell'idea dei sardi e' legata la consapevolezza che possa nascere uno sviluppo sostenibile, ecocompatibile, capace di consegnare le nostre ricchezze alle generazioni dei nostri nipoti". Cosi' Renato Soru, intervistato dal settimanale 'Left' in edicola oggi. Il candidato Pd alla presidenza della Regione Sardegna parla anche del suo avversario, Ugo Cappellacci: "Non e' scomparso perche' non e' mai apparso. E' l'anomalia di questa campagna elettorale l'invasione continua e violenta da parte del presidente del Consiglio, venuto in Sardegna turbando quello che dovrebbe essere il normale svolgimento di una democratica competizione elettorale, intrattenendo la gente con barzellette spesso anche di cattivo gusto". Soru prosegue affermando che "il centrodestra e' assetato di potere. Ha una concezione personalistica del potere ed e' disposto a qualsiasi compromesso. E' cosi' privo del senso della vergogna e di autocritica da lasciare sgomenti. Il progetto e' quello di annichilire le coscienze della gente, di distrarla perche' non rifletta". Ed a chi lo paragona al premier, Soru replica dicendo: "E' vero, siamo due imprenditori. Ma le differenze tra noi sono assolute. Innanzitutto io mi assumo tutte le mie responsabilita' mentre lui si fa proteggere contro ogni malefatta. Io - conclude - invito la gente a riflettere mentre lui cerca di privarla di quella parte piu' importante di se stessi che e' la consapevolezza ed il senso critico".

giovedì 12 febbraio 2009

Aprile 11.2.09
Un paese che guarda a destra. Elezioni in Israele
di Enrico Campofreda


Vince Kadima di Livni, ma il Likud di Netanyahu potrebbe governare. Il voto israeliano dimostra la polarizzazione fra i due partiti della società, dove ad avanzare è appunto la destra, anche ultra-nazionalista e ultra-religiosa, mentre crolla la sinistra. Ora l'aspirante Golda Meir proverà a formare un governo di unità nazionale con "Bibi" e il Labur oppure aprendo a Lieberman

Vince Livni, ma Netanyahu potrebbe governare. E' la sentenza della notte del voto israeliano dove hanno contato sia gli indecisi, sia il maggior afflusso alle urne (più 2% rispetto al 2006) e le preferenze delle donne.
Il Paese è diviso: un seggio in più per Kadima (28 contro i 27 del Likud), mancano però i voti dei militari e degli espatriati che saranno resi pubblici fra una settimana.
La destra può farsi forza della prevista avanzata dell'ultranazionalista Israel Beiteinu (15 seggi), di Shas (11) e delle pattuglie ortodosse minori con cui può raggiungere 64 scranni alla Knesset e la possibile coalizione di governo.
Ma Livni appellandosi alla consuetudine reclama il diritto di provare a formare il governo, sarà il presidente Peres a dare il via libera. Le consultazioni potrebbero occupare anche tutto il tempo tecnico a disposizione che supera il mese.
Il crollo del partito laburista (13 seggi) non aiuta Livni che della coalizione di centrosinistra era stata agguerrita ministro degli Esteri, ma spregiudicatezza e trasformismo sono tratti peculiari della cinquantenne che vuole a tutti i costi entrare nella storia politica d'Israele come una seconda Golda Meir.
E appunto facendo leva sul successo, pur di misura del suo partito, tenterebbe di formare o un governo d'unità nazionale col Likud e il Labur, soluzione sgradita all'elettorato e improbabile, o aprendosi a tutta la destra compreso Lieberman che, spregiudicato più di lei, potrebbe accettare chiedendo pesanti contropartite ministeriali e ribadendo due sue ossessioni: in politica interna la separazione degli arabo-israeliani dal resto della popolazione col sedicente patto di "fedeltà", in politica estera l'attacco preventivo all'Iran considerato il Paese del Male. Una posizione condivisa peraltro dalla stessa Livni che in più di un'occasione non s'è mostrata contraria a ipotesi di "punizioni" allo Stato degli ayatollah.
Scenari che la nuova politica mediorientale sotto l'influsso di Obama non può sopportare. Perciò la carta Lieberman potrebbe rivelarsi un boomerang. Allora per tradurre in real politik quello che in campagna elettorale è stata propaganda ci sarà bisogno di una riconsiderazione del che fare di più di un partito.
Certo la popolazione israeliana è palesemente spostata ancora più a destra e ne premia le formazioni, mentre la sinistra coi 3 seggi a Meretz e 5 alla Lista araba unita è ridotta al lumicino.
Chi come Livni ha praticato un programma guerrafondaio e criminale con l'aggressione di Gaza ha raccolto a piene mani dall'elettorato. La quasi sconosciuta leader di Kadima ottiene un indiscutibile, personalissimo successo cavalcando i sentimenti di paura e l'indole della più aggressiva tradizione militarista del Paese.
Ha costruito questo successo con pervicacia e cinismo, col macabro calcolo dell'ultimo strazio di palestinesi, coi 1300 cadaveri allineati per mostrarsi agli elettori più pragmatica e sionista dei campioni del sionismo.
Il suo curriculum di agente del Mossad (a vent'anni agiva in diverse capitali europee a caccia di militanti arabi), la tradizione familiare legata allo spietato gruppo Irgoun, devono averne forgiato caratteristiche poco inclini a sentimenti umanitari.
Lei incarna l'emblematica immagine dell'Israele degli ultimi anni che con nonchalance e magari vestendo i profumati abiti della Democrazia parla di pace mentre applica la guerra perenne, pratica stragi di civili tramite un esercito nazionale, stermina preventivamente i leader avversari, attua la politica del terrore accusando altri di terrorismo.
Questo volto della politica israeliana dà ragione al portavoce di Hamas quando dichiara che "Likud, Kadima, Labur o chiunque governi non cambia la condizione del popolo palestinese. Ma se s'illudono di distruggere la nostra organizzazione si sbagliano di grosso". Anche a Ramallah uomini vicini a Fatah non fanno differenze fra Kadima e Likud: "Siamo un popolo occupato, chi governerà Israele dovrà cambiare strategia, noi continueremo a rivendicare il nostro Stato".
Abu Mazen, presente ieri a Roma, si è dichiarato disposto a patteggiare con qualsiasi futuro premier, Netanyahu o Livni, l'importante è che il processo di pace riprenda.
Se il cammino politico della bionda dal sorriso di ghiaccio non sarà esclusivamente un vanto personale, proprio con la questione palestinese e l'equilibrio regionale fatto di Iran, Hezbollah e Hamas dovrà fare i conti. Conti che dovranno archiviare operazioni alla ‘Piombo fuso' che tanta popolarità e consenso le hanno regalato.

Corriere della Sera 12.2.09
Lieberman. L'uomo forte che non serve
Lo storico Tom Segev «Protestammo contro Haider, ora tocca a noi»


Nel febbraio del 2000 Israele richiamò il suo ambasciatore dall'Austria dopo la formazione di un nuovo governo di cui faceva parte anche un partito di estrema destra, quello guidato da Jörg Haider.

Il governo israeliano sosteneva di non poter restare a guardare davanti all'ascesa di formazioni di estrema destra, dopo l'Olocausto. Nove anni dopo, il partito di estrema destra di Lieberman è diventato il terzo partito in Israele, con 15-16 seggi sui 120 della Knesset, un balzo del 50% rispetto al precedente voto. Lieberman invoca nuovi confini per Israele, si prefigge di rinchiudere dietro un muro la maggior parte del suo quasi milione e mezzo di cittadini arabi, per affidarli al governo palestinese. Ci sono varie formule per comporre la prossima coalizione, ma Lieberman potrebbe effettivamente diventare la colonna portante di un governo Netanyahu. Una prospettiva allarmante. Benché vulnerabile, la democrazia israeliana ha saputo superare molte prove. Ma oggi appare duramente colpita, più che in passato.
Il successo di Lieberman arriva in un momento molto delicato nei rapporti tra Israele e Stati Uniti, che si presumono basati su comuni valori democratici. In realtà il divario tra l'improvvisa reazione razzista di Israele e gli ideali del governo Obama potrebbe rivelarsi profondo. I partiti di estrema destra esistono in molti Paesi democratici, Israele compreso. Negli anni Ottanta, il rabbino Meir Kahane, nato in Usa, fu eletto alla Knesset grazie a un programma scandalosamente anti-arabo. Ma Kahane era l'unico membro di quel partito, presto bandito. Lieberman, invece, è stato attento a restare nei limiti della legalità, anche se la sua campagna elettorale ha fatto appello al pregiudizio e alla xenofobia.
Per alcuni di noi, il suo successo è un pugno allo stomaco.
Per anni ci siamo lusingati di essere immuni al razzismo, in quanto ebrei. Abbiamo voluto credere che la continua oppressione dei palestinesi in Cisgiordania non avrebbe scalfito la nostra democrazia. Ci ripetevamo con orgoglio di essere incapaci di odiare: è il nemico che ci odia. Ora pare che l'odio sia diventato legittimo anche per noi. Non è difficile vedere le ragioni di tutto ciò. Dai giorni di Kahane oltre un milione di ebrei è entrato in Israele dall'ex Urss e come Lieberman non ha portato con sé tradizioni democratiche. Molti di loro lo sostengono. Come tanti altri israeliani. La maggioranza degli israeliani appoggia tuttora i partiti democratici, ma in questo momento molti si sentono più che mai abbattuti dal cinismo e dal pessimismo. Abbiamo perso speranza nella pace e fiducia nella classe politica.
Purtroppo, entrambi questi atteggiamenti traggono spunto dalla realtà. Il cosiddetto «processo di pace» con i palestinesi si è rivelato una finzione diplomatica. Il terrorismo libanese e palestinese è continuato imperterrito, provocando negli ultimi anni ben due guerre e ora anche l'Iran si profila come una paurosa minaccia. Il primo ministro Ehud Olmert, costretto a dimettersi per corruzione, ha tolto agli israeliani le ultime illusioni politiche. Non mancano le apprensioni per l'economia. È naturale che molti propendano per l'uomo forte.
Tutto questo non fa che riflettere la classica ascesa di simili movimenti in altri Paesi. Amici e nemici di Israele ne potranno trarre un'utile lezione: gli israeliani non sono diversi dagli altri popoli. Né migliori né peggiori. La buona notizia: è poco probabile che l'Austria richiami il suo ambasciatore da Tel Aviv.
traduz. Rita Baldassarre

l’Unità 12.2.09
Intervista a Zeev Sternhell
«Il risultato delle urne allontana la pace con i palestinesi»
di U.D.G.


Il volto d’Israele uscito dalle urne. Vincitori e vinti. E un futuro nel segno dell’incertezza politica. L’Unità ne ha discusso con il più autorevole tra gli storici israeliani: Zeev Sternhell, docente di Scienze Politiche all’Università ebraica di Gerusalemme, autore di numerosi saggi tra i quali «Nascita di Israele. Miti, storia, contraddizioni» (Baldini Castoldi Dalai). Sternhell - che pochi mesi fa ha subito un attentato da parte di un gruppo dell’estrema destra israeliana - non nasconde il suo pessimismo: «Per quanto riguarda la pace con i palestinesi - afferma - quale che sia il governo che si formerà, non potranno esserci seri progressi». E sul crollo del Labour, annota: «I laburisti continuano a pagare il prezzo di una perdita di identità e del venir meno di quella rendita di posizione elettorale che gli derivava dall’essere percepito come il partito "anti-Likud"».
Professor Sternhell, come è possibile che Israele si trovi di nuovo, il giorno dopo le elezioni, senza una direzione politica sicura?
«Purtroppo questo è un problema strutturale nella democrazia israeliana, aggravato oltretutto dalla poca chiarezza del sistema che – in una situazione come quella scaturita dalle elezioni di ieri (martedì, ndr.) - lascia la possibilità di formare il governo sia a Netanyahu che alla Livni. E né l’uno né l’altro potranno presentare un governo in grado di confrontarsi veramente con le sfide di fronte alle quali si trova Israele. Buona parte di questo risultato è frutto di un sistema problematico e che esiste oggi solo in Olanda. Per quel Paese – dove sono vissuto per un anno e dove ho constatato che in tempo di elezioni i cittadini erano a malapena coscienti del fatto che si doveva andare a votare – va bene. Ma per Israele, no. È un sistema che ha il pregio di voler dare voce a tutti i settori della società ma che crea una frammentazione politica quasi ingestibile. Il sistema della elezione diretta del primo ministro è stato provato e si è visto che non è adatto per Israele, ma ci sono fra questo e il sistema presente, molte possibilità intermedie che vanno seriamente studiate. Il problema è che una riforma elettorale seria e che restringa il numero dei partiti, dovrebbe essere studiata, preparata e approvata da quegli stessi parlamentari che potrebbero poi esserne colpiti. Coloro che sono disposti a mettere in forse una loro futura rielezione alla Knesset, non sono poi molti».
In ogni caso, che significato ha il voto del 10 febbraio per il domani di Israele?
«Per quanto riguarda la pace con i palestinesi, quale che sia il governo che si formerà, non potranno esserci seri progressi: ci saranno sempre quelli che vorranno, quelli che non vorranno e quelli che non potranno. È triste, ma d’altra parte ciò rispecchia la società israeliana odierna: sa di avere grandi problemi, ma non sa decidersi chi dovrà risolverli e come; vuole in grande maggioranza la pace, ma non è disposta a dare carta bianca per far pagare il prezzo necessario per conseguirla. Saremo quindi costretti a continuare a stare nella stessa piccola palude dove lo spazio è molto ristretto. Non che questo sia così diverso da tanti altri Paesi, Italia compresa; ma nessun Paese al mondo si trova di fronte a problemi esistenziali come quelli di Israele.
Si temeva un calo della sinistra, ma è avvenuto un vero e proprio crollo. Come lo spiega?
«Per quanto riguarda il Meretz (la sinistra sionista, ndr.), ha commesso un fatidico errore: quello di volersi presentare come "Nuovo Movimento" laddove non c’era niente di nuovo e sicuramente non si trattava di un movimento. Gli elettori non hanno trovato alcun motivo valido per votare un partito che nella migliore delle ipotesi era la coda del partito laburista. Da parte sua, il Labour continua a pagare il prezzo di una perdita di identità e del venir meno di quella rendita di posizione elettorale che gli derivava dall’essere percepito come il partito "anti-Likud". Al di là della indubbia crisi di leadership, lo spostamento di voti degli ultimi giorni è stato in funzione della volontà di molti di bloccare la crescita della destra, soprattutto di Lieberman. Non è più il Labour ad essere percepito come baluardo contro la destra, bensì il Kadima di Tzipi Livni. Ma al di là del rammarico per il crollo dei partiti di sinistra, devo dire che il ragionamento dell’elettorato è stato del tutto logico: rafforzare Kadima, nella attuale congiuntura politica, è stato l’unico modo per mettere Netanyahu in difficoltà, rendendogli quasi impossibile qualsiasi alternativa di governo che preveda solo la destra. È stato in fondo un calcolo intelligente e maturo di un elettorato di sinistra che ha preferito spostare e concentrare le forze più al centro per arginare la destra rappresentata da Netanyahu. E il Partito laburista è stato quello che ha pagato il prezzo maggiore per questa operazione».

l’Unità 12.2.09
Ramallah pessimista
«Hanno scelto un razzista che vuole distruggerci»
di U.D.G.


In Cisgiordania regna lo sconforto fra la gente e sulla stampa. Il voto in Israele ha gelato la speranza. Ma il premier palestinese non rinuncia a ricordare gli impegni, per primo il congelamento dell’attività edilizia nelle colonie.
«Cosa dobbiamo aspettarci da un Paese che manda al governo un falco e un razzista? Niente di buono». Le considerazioni dell’anziano Faisal danno conto perfettamente dello stato d’animo prevalente tra i palestinesi rispetto ai risultati delle elezioni in Israele. Siamo a Ramallah, capitale della Cisgiordania, venti chilometri da Gerusalemme. Per arrivarci abbiamo dovuto superare tre check-point istituiti dall’esercito Israele. Tre dei 564 che spezzano in mille frammenti territoriali la Cisgiordania. Nessuno si fa illusioni a Ramallah: «Le cose andranno sempre peggio per noi», afferma Kamel, 27 anni, un diploma di perito elettronico e un presente da disoccupato. Il morale della gente si confà a quello atmosferico: plumbeo. «Hanno votato per un razzista che vuole deportare tutti gli arabi e che vorrebbe sganciare su Gaza le bombe atomiche», riflette Kamel riferendosi al leader dell’ultradestra ebraica, Avigdor Lieberman. Con Kamel ci sediamo ad un caffè nella Piazza dei Leoni, cuore di Ramallah. Sul tavolino, troviamo copie dei due maggiori quotidiani palestinesi.
UMORE PLUMBEO
Il pessimismo domina i commenti sul voto israeliano. «Al Quds», il maggiore quotidiano diffuso nei Territori, stima che «ora si assisterà a un proseguimento della paralisi politica che ha caratterizzato il governo Olmert dalla guerra in Libano nel 2006». Per «Al Hayat Al Madida», organo dell’Autorità nazionale palestinese, non c’è in realtà alcuna reale differenza, se non di nome, tra i partiti israeliani e ciò che si può prevedere è perciò il proseguimento della politica israeliana di «morte, distruzioni e colonizzazione». Per questo, a parere del giornale, continueranno l’espansione degli insediamenti, la demolizione di case a Gerusalemme est e gli attacchi nella
Striscia di Gaza. Kamel si ritrova pienamente in queste fosche previsioni. Dall’altro lato del Muro non nascono speranze.
Mai come in questo caso, l’umore della gente coincide con quello della dirigenza palestinese. «Non occorre avere la palla di vetro per vedere il prossimo governo israeliano, non importa chi sarà a guidarlo, rinunciare ai suoi obblighi verso il processo di pace», prevede il negoziatore palestinese Saeb Erekat. «Temo che gli elettori israeliani - aggiunge Erekat - non abbiamo pensato alla pace con palestinesi e i siriani quando hanno inserito le loro schede nelle urne, piuttosto hanno votato per un governo di unità nazionale che dovrà prepararsi a fare la guerra all'Iran». Non meno amare sono le considerazioni di Nemer Hammad, consigliere del presidente Abu Mazen ed ex ambasciatore dell’Olp in Italia: «Dobbiamo essere realisti e spiegare le cose per come stanno - rimarca Hammad - in Israele la destra ha la maggioranza alla Knesset e condizionerà pesantemente le scelte del futuroe esecutivo, sia che a svolgere l'incarico di premier sarà la Livni o un altro esponente politico di diverso colore. Rispetto la democrazia (israeliana) ma allo stesso tempo è assurdo che le scelte del popolo israeliano decidano il futuro di quello palestinese».

Repubblica 12.2.09
Così quelle norme permetteranno ai pedofili di beffare la polizia
di Giuseppe Cascini


Caro direttore, in una cittadina del Nord Italia scompare un bambino di otto anni. Stava tornando da scuola, ma non è mai arrivato a casa. La polizia avvia le indagini. Alcuni testimoni riferiscono di aver visto nei giorni precedenti una persona sospetta nei pressi della scuola. Ne forniscono una descrizione. Corrisponde a quella di un soggetto già condannato in passato per detenzione di materiale pedo-pornografico. La polizia avvia le indagini e scopre che l´uomo non è a casa e non si è presentato al lavoro.
La polizia comunica al magistrato le informazioni acquisite e propone di effettuare indagini tecniche:
a) Acquisizione dei tabulati del telefono intestato al sospetto;
b) Acquisizione dei tabulati del traffico telefonico transitato sulla cella nei pressi della scuola nella settimana precedente al rapimento.
L´acquisizione serve sia per confermare la presenza del sospetto davanti alla scuola sia per individuare altri telefoni nella sua disponibilità;
c) Acquisizione dei tabulati del traffico telefonico della anziana madre del sospetto per individuare altri telefoni nella sua disponibilità;
d) Acquisizione dei tabulati del traffico telefonico sull´utenza della famiglia del bambino e intercettazione delle utenze;
e) Intercettazione del telefono del sospetto;
f) Intercettazione del telefono della madre del sospetto;
Il pubblico ministero ricevuta la comunicazione iscrive il nome del sospetto nel registro degli indagati per il delitto di cui all´art. 605 del codice penale (sequestro di persona: pena massima otto anni) e comincia a studiare le richieste della polizia alla luce delle nuova legge sulle intercettazioni:
a) I tabulati del telefono del sospetto non si possono fare. La legge richiede gravi indizi di colpevolezza che in questo caso mancano. Ci sono indizi, ma non sono gravi.
b) I tabulati del traffico della cella (che potrebbero confermare la presenza del soggetto sul luogo e quindi rendere grave il quadro indiziario) non si possono fare perché la legge consente l´acquisizione dei tabulati solo nei procedimenti contro ignoti e al solo fine di identificare le persone presenti sul luogo del reato o nelle immediate vicinanze di esso. In questo caso perché il procedimento è a carico di una persona identificata; comunque non si potrebbero estrarre i tabulati dei giorni precedenti al rapimento.
c) L´acquisizione dei tabulati della madre è comunque vietata perché sottoposta allo stesso regime delle intercettazioni: si possono fare solo in presenza di gravi indizi di colpevolezza, requisito che per la madre del sospetto certamente manca.
d) L´acquisizione dei tabulati delle utenze della persona offesa è possibile con il loro consenso, ma solo nei procedimenti contro ignoti, non in quelli, come in questo caso, a carico di persone identificate. Per la stessa ragione non possono essere intercettate le utenze.
e) Il telefono del sospetto non è intercettabile perché mancano i gravi indizi di colpevolezza.
f) Il telefono della madre non è comunque intercettabile.
Il pubblico ministero comunica al commissario di polizia il risultato del suo studio. «Dunque non possiamo fare nulla?», chiede il commissario. «Dobbiamo tornare ai vecchi metodi di indagine». «Bene», risponde il commissario, «allora convochiamo qui la madre e le chiediamo dove si trova il figlio e se non ci risponde la arrestiamo per favoreggiamento, così vediamo se lui viene fuori». «Niente da fare, commissario», spiega paziente il pubblico ministero, «i prossimi congiunti dell´indagato non sono obbligati a testimoniare e non rispondono di favoreggiamento».
Una settimana dopo le indagini hanno una svolta. Un testimone ha visto il bambino salire su una macchina, ricorda il modello e i primi numeri di targa. La polizia verifica che il modello e i numeri di targa corrispondono all´auto del sospetto. Gli indizi di colpevolezza ora sono gravi. Il commissario torna dal pubblico ministero a chiedere tabulati e intercettazioni.
Il pubblico ministero emette subito i decreti di urgenza. Poi fa fare copia integrale degli atti di indagine e dispone che un´auto parta immediatamente per portare il tutto nella sede del capoluogo del distretto, a circa 150 km di distanza, perché il provvedimento deve essere convalidato dal tribunale in composizione collegiale entro 48 ore e al tribunale va trasmesso l´intero fascicolo. L´autista del commissario, un agente di polizia, si offre di portare lui il fascicolo che, per mancanza di fondi e di personale, non arriverebbe mai a destinazione in tempo.
I tabulati del telefono confermano la gravità del quadro indiziario. Il sospetto ha passato molte mattine davanti alla scuola. Le intercettazioni non producono però risultati. Probabilmente il sospetto ha cambiato telefono. Il commissario propone di intercettare tutte le persone con le quali il sospetto ha parlato durante gli appostamenti per arrivare al nuovo numero. Il pubblico ministero spiega che la nuova legge non consente l´intercettazione di persone diverse dall´indagato.
Dopo una settimana una nuova svolta. Una impiegata di un negozio di telefonia ha riconosciuto il sospetto dalla foto pubblicata sui giornali e ricorda di avergli venduto un telefono pochi giorni prima del rapimento. Controllando gli archivi del negozio la polizia individua la nuova utenza. Il pubblico ministero emette subito un decreto di urgenza poi guarda l´autista del commissario che senza dire una parola prende il voluminoso fascicolo e parte alla volta del capoluogo del distretto.
L´utenza è quella giusta. Il sospetto parla con la madre e le racconta del rapimento. La madre cerca invano di convincerlo a liberare il bambino. Purtroppo però la zona da cui chiama è piuttosto vasta ed è impossibile individuare il luogo dove si nasconde. Il sospetto riceve poi telefonate da diverse cabine telefoniche da un uomo che vuole "comprare" il bambino. La polizia propone di estrarre il tabulato delle cabine. Se poi l´uomo ha usato una scheda prepagata si potrebbe estrarre il traffico di quella scheda come si è fatto nell´indagine per l´omicidio del professore Massimo D´Antona. Le altre chiamate potrebbero consentire di identificare l´uomo.
Niente da fare: l´uomo non è identificato e a suo carico non ci sono gravi indizi di colpevolezza.
Passano i giorni; siamo a due mesi dall´inizio delle intercettazioni. Il pubblico ministero non ha ancora trovato il coraggio di dire al commissario che a mezzanotte dovranno staccare i telefoni. Lo vede arrivare trafelato e raggiante: «Dottore, ci siamo!» urla. Gli mostra la trascrizione di una telefonata intercettata quella mattina tra l´uomo sconosciuto e il rapitore. Mentre legge la trascrizione il volto del pubblico ministero diventa sempre più bianco: il rapitore ha accettato di consegnare all´uomo il bambino, ma la telefonata si conclude così: «Chiamami domani e ti dirò dove venire».

*L´autore, pubblico ministero a Roma e segretario nazionale dell´associazione nazionale magistrati, ha applicato a un caso concreto la nuova disciplina delle intercettazioni e dimostrato come la nuova legge renda le indagini più difficili e meno efficaci

Repubblica 12.2.09
Il nichilismo e la bellezza dei corpi
di Giorgio Agamben


Così la filosofia si interroga su cosa attragga nel nudo

Nella nostra cultura il viso ha un predominio che si esprime nei modi più vari
Uno speciale disincanto raggiunge lo stadio estremo con le modelle

Anticipiamo un brano da Nudità, il nuovo libro di (Nottetempo, pagg. 168, euro 15). Il volume esce in questi giorni.
Tra la fine degli anni Venti e l´inizio dei Trenta, Benjamin si legò a un gruppo di amiche molto attraenti, tra cui Gert Wissing, Oga Parem ed Eva Hermann, che vedeva accomunate da una stessa, speciale relazione con l´apparenza. Nei diari tenuti in Costa Azzurra fra il maggio e il giugno 1931, egli cerca di descrivere questa relazione, collegandola al tema dell´apparenza che aveva affrontato anni prima nel saggio sul romanzo di Goethe. «La moglie di Speyer», egli scrive, «mi ha riferito queste sorprendenti parole di Eva Hermann, nei giorni della sua più profonda depressione: "Se già sono infelice, non per questo devo andarmene in giro con una faccia piena di rughe". Questa frase mi ha fatto capire molte cose, e prima di tutto che il contatto periferico che negli ultimi tempi ho avuto con queste creature - Gert, Eva Hermann ecc. - è soltanto una debole e tardiva eco di una delle esperienze fondamentali della mia vita: quella dell´apparenza [Schein]. Ne ho parlato ieri con Speyer, che da parte sua ha riflettuto anche lui su queste persone e ha fatto la curiosa osservazione che esse non hanno nessun senso dell´onore o, piuttosto, che il loro codice d´onore è di dire tutto. Questo è molto giusto e prova quanto profonda sia l´obbligazione che esse sentono rispetto all´apparenza. Poiché questo "dire tutto" è inteso innanzitutto ad annullare ciò che è detto o, piuttosto, una volta annullato, farne un oggetto: solo in quanto apparente [scheinhaft] esso diventa per loro assimilabile».
Si potrebbe definire "nichilismo della bellezza" questo atteggiamento, comune a molte belle donne, che consiste nel ridurre la propria bellezza a pura apparenza, e nell´esibire poi, con una sorta di smagata tristezza, questa apparenza, smentendo ostinatamente ogni idea che la bellezza possa significare qualcos´altro che se stessa. Ma è proprio l´assenza di illusioni su se stessa, la nudità senza veli che la bellezza consegue in questo modo, a fornirle la sua più temibile attrattiva. Questo disincanto della bellezza, questo speciale nichilismo raggiunge il suo stadio estremo nelle mannequin e nelle modelle, che imparano innanzitutto ad annullare nel loro volto ogni espressione, in modo che esso diventa puro valore di esposizione e acquista, per questo, un fascino particolare.
Nella nostra cultura, il rapporto viso/corpo è segnato da un´asimmetria fondamentale, che vuole che il viso resti per lo più nudo, mentre il corpo è di norma coperto. A questa asimmetria corrisponde un primato della testa, che si esprime nei modi più vari, ma che resta più o meno costante in tutti gli ambiti, dalla politica (dove il titolare del potere viene detto "capo") alla religione (la metafora cefalica del Cristo in Paolo), dall´arte (dove si può rappresentare la testa senza il corpo - è il ritratto -, ma non - come è evidente nel "nudo" - il corpo senza testa) alla vita quotidiana, dove il volto è per eccellenza il luogo dell´espressione. Ciò sembra confermato dal fatto che mentre le altre specie animali presentano spesso proprio sul corpo i segni espressivi più vivaci (gli ocelli del mantello del leopardo, i colori fiammanti delle parti sessuali del mandrillo, ma anche le ali della farfalla e il piumaggio del pavone), il corpo umano è singolarmente privo di tratti espressivi.
Questa supremazia espressiva del volto ha la sua conferma e, insieme, il suo punto di debolezza nel rossore incontrollabile in cui si attesta la vergogna per la nudità.
È forse per questa ragione che la rivendicazione della nudità sembra mettere innanzitutto in questione il primato del viso. Che la nudità di un bel corpo possa eclissare o rendere invisibile il volto, è detto con chiarezza nel Carmide, il dialogo che Platone consacra alla bellezza. Carmide, il giovane che dà il nome al dialogo, ha un bel viso ma, dice uno degli interlocutori, il suo corpo è così bello che, «se egli consentisse a spogliarsi, credereste che non ha un volto» (Car. 154d) - che egli sia letteralmente "senza volto". L´idea che il corpo nudo possa contestare il primato del volto per porsi esso stesso come volto, è implicita nelle risposte delle donne nei processi di stregoneria che, interrogate sul perché nel Sabba baciassero l´ano di Satana, si difendevano affermando che anche là c´era un volto. In modo simile, mentre, agli inizi della fotografia erotica, le modelle dovevano ostentare nel volto un´espressione romantica e sognante, come se l´obiettivo le avesse sorprese, non visto, nell´intimità del loro boudoir, nel corso del tempo questo procedimento si inverte e il solo compito del volto diventa quello di esprimere la spudorata consapevolezza dell´esposizione del corpo nudo allo sguardo. La sfacciataggine (la perdita del viso) è ora la controparte necessaria della nudità senza veli. Il volto, divenuto complice della nudità, guardando nell´obiettivo o ammiccando allo spettatore, dà a vedere un´assenza di segreto, esprime soltanto un darsi a vedere, una pura esposizione.
Una miniatura in un manoscritto della Clavis physicae di Onorio di Autun mostra un personaggio (si tratta forse dell´autore) che tiene in mano una fascetta dove si legge: «Involucrum rerum petit is sibi fieri clarum», «costui cerca di venire in chiaro dell´involucro delle cose». Si potrebbe definire la nudità come l´involucro nel punto in cui diventa chiaro che non è possibile venirne in chiaro.
È in questo senso che si deve intendere la massima ghoethiana, secondo cui la bellezza «non può mai venire in chiaro di se stessa». Solo perché essa resta fino all´ultimo "involucro", solo perché rimane in senso letterale "inspiegabile", l´apparenza, che raggiunge nella nudità il suo stadio supremo, può dirsi bella. Che della nudità, che della bellezza non si possa venire in chiaro, non significa, però, che vi sia, in esse, un segreto che non si riesce a portare alla luce. Una tale apparenza sarebbe misteriosa ma, proprio per questo, non sarebbe involucro, perché si potrebbe pur sempre continuare a cercare il segreto che in essa si nasconde.
Nell´inesplicabile involucro, invece, non vi è alcun segreto e, denudato, esso si mostra come pura apparenza. Il bel volto, che ne esibisce sorridendo la nudità, dice soltanto: «Volevi vedere il mio segreto? Volevi venire in chiaro del mio involucro? E allora guarda questo, se nei sei capace, guarda questa assoluta, imperdonabile assenza di segreto!» Il matema della nudità è, in questo senso, semplicemente: haecce!, «non c´è nient´altro che questo».
E, tuttavia, è proprio questo disincanto della bellezza nella nudità, questa sublime e miserabile esibizione dell´apparenza oltre ogni mistero e ogni significato, a disinnescare in qualche modo il dispositivo teologico per lasciar vedere, al di là del prestigio della grazia e delle lusinghe della natura corrotta, il semplice, inapparente, corpo umano. La disattivazione del dispositivo retroagisce, cioè, tanto sulla natura che sulla grazia, sia sulla nudità che sulla veste, liberandole dalla loro segnatura teologica. Questa semplice dimora dell´apparenza nell´assenza di segreto è il suo tremito speciale - la nudità, che, come una voce bianca, non significa nulla e, proprio per questo, ci trafigge.


Repubblica 12.2.09
Otello, il sogno segreto di Hopkins così la Bbc fa rivivere Shakespeare
Da domani i video e i libretti con Repubblica e l’Espresso


Anthony Hopkins nei panni di Otello, Bob Hoskins in quelli di Iago, Penelope Wilton è Desdemona. Un trio di grandi interpreti per la prima uscita con Repubblica e L´Espresso della Shakepeare collection prodotta dalla Bbc e curata dalla Rai per le traduzioni (contributi da illustri scrittori come Eugenio Montale e Salvatore Quasimodo) e per i doppiaggi (con le voci, tra gli altri, degli attori Giancarlo Giannini, Gigi Proietti e Valeria Moriconi). L´Otello sarà in edicola per una settimana a partire da domani, a 9,90 euro con Repubblica più L´Espresso.
La Shakespeare collection della Bbc vede impegnati i più grandi attori e registi inglesi sui palcoscenici dei più importanti teatri britannici. I dvd contengono la doppia versione in inglese e in italiano, e sono corredati da un libretto con il commento dello studioso shakespeariano Agostino Lombardo. Le uscite previste dal piano dell´opera sono quindici, a cadenza settimanale: venerdì 20 febbraio sarà la volta dell´ Amleto con Derek Jacobi e Claire Bloom, e a seguire di Romeo e Giulietta, Sogno di una notte di mezza estate, Il mercante di Venezia, Macbeth fino all´ultima, in programma per il 22 maggio, con l´Enrico VIII.
Secondo l´analisi di Agostino Lombardo riportata nel libretto, nell´Otello che Shakespeare compose intorno al 1604, subito dopo l´Amleto, «attraverso uno studio della gelosia che più approfondito e incisivo non potrebbe essere, si giunge a una rappresentazione, tanto vigorosa quanto dolente, dell´operare del male nel mondo».
Anthony Hopkins nei panni di Otello offre una superba prova di attore. Nell´occasione di questa produzione dell´81 confessò: «Otello è la parte che ho sempre voluto interpretare». Del resto il ruolo nel 1955 era già stato del grande Richard Burton, un vero maestro e mentore per Hopkins che, gallese come lui, l´aveva conosciuto e frequentato quando aveva appena quindici anni, e proprio da lui era stato indirizzato verso l´arte della recitazione.

Repubblica 12.2.09
Parla Bill Maher, attore e ideatore del documentario-inchiesta sulle fedi monoteiste
"Religiolus" contro i fanatismi "Usate la ragione, non la religione"
di Silvia Bizio


"Gli attacchi delle chiese? C´è tanta gente che mi ringrazia per quello che dico"
In sala da domani "Voglio mostrare la violenza dei fondamentalisti di ogni fede"

«Smettete di credere o ne soffrirete le conseguenze». Ecco la sintesi di un film-documentario divertente e tosto come Religiolus, che in Italia arriva domani, distribuito in 30 copie dalla Eagle Pictures. Diretto dal regista di Borat, Larry Charles, concepito e interpretato da Bill Maher, noto comico televisivo americano, il film è un´allegra inchiesta tra gli aspetti più controversi, inquietanti e talora ridicoli (da cui il titolo) delle tre religioni monoteiste, cristiana, ebraica e musulmana. L´obbedienza al dogma religioso, il fanatismo sono da anni bersaglio dei talk-show tv di Maher, da Politically Incorrect all´attuale Real time with Bill Maher. «Nel film mi premeva affrontare la demistificazione del tabù religioso - spiega Maher, 52 anni - Parlare di un argomento delicato, per molti addirittura incendiario, facendo al tempo stesso ridere».
Con Religiolus, Maher conduce lo spettatore dal cuore puritano dell´America "redneck" alla libertaria Amsterdam (turbata oggi da nuovi conflitti etnico-religiosi), dalla Terra Santa al Vaticano, intrattenendo conversazioni, spesso ilari, con seguaci di ogni fede e mettendo in discussione qualsiasi "prova" dell´esistenza di Dio, toccando anche temi come l´omosessualità. «C´è un prete - racconta Maher - che per mezz´ora ha proclamato davanti alla cinepresa l´inesistenza dell´omosessualità e poi confessa la propria tendenza sessuale...».
Maher, cosa spera di fare con un film come Religiolus?
«Voglio dimostrare che la religione è nociva alla società e potenzialmente in grado distruggere la nostra civiltà. Io spero che questo film possa sortire un effetto pari se non maggiore di quanto abbia avuto sull´ambiente Una verità scomoda di Al Gore. Spero solo che possa stimolare un dibattito civile e ragionevole».
Nel film lei dichiara esplicitamente che l´Islam è strettamente connesso alla violenza fondamentalista.
«Sì, ma spero che qualcosa possa cambiare in futuro. L´Islam si trova oggi dove il Cristianesimo si trovava nel 1400, quando cominciò gioco forza ad aprirsi e illuminarsi».
Teme che il film possa renderla bersaglio di attacchi da parte degli integralisti?
«Preferisco morire in piedi che vivere in ginocchio. Ma non crediate che tutti ce l´abbiano con me: c´è un sacco di gente che mi ringrazia per quello che dico. Basterebbe che gli agnostici si organizzassero un po´ meglio, come fanno i religiosi».
Lei ha realizzato Religiolus prima delle elezioni presidenziali Usa. È cambiato qualcosa?
«Il cambiamento epocale che tutti ci aspettiamo dal presidente Obama deve ancora avvenire. Detto questo, la tematica religiosa e il concetto di fede sono sempre attuali. Il fanatismo dogmatico non è mutato di una virgola da secoli e la tentazione fondamentalista sembra più forte che mai. Per me nessun fondamentalismo è migliore dell´altro: sono tutti aberranti».
Lei è ateo?
«Preferisco definirmi un realista. Sono figlio di un padre cattolico e di una madre ebrea, ma resto convinto che ai fenomeni della natura ci debba pensare la scienza, non la religione».
Anche col film lei sembra dire che il fondamentalismo avanza in America e nel mondo. Conferma?
«Certo. Mi fa ancora paura pensare che noi americani siamo stati guidati per otto anni da un presidente anti-intellettuale, anti-scientifico, maniaco di Gesù Cristo, che ci ha condotti in una palude putrida e stagnante. La separazione tra Stato e Chiesa promulgata dai nostri padri fondatori s´è persa per strada. E quanti altri paesi si trovano in situazioni simili? Il mio monito è soprattutto ai governanti: ricominciante di nuovo a governare con la ragione. Non con la religione».

Corriere della Sera 12.2.09
Carla Bruni: «L'Italia non è laica Vaticano Stato nello Stato»
di Federico Fubini


La moglie del presidente francese: «Ma non voglio giudicare l'Italia, so quanto conti la religione nel Paese»

OUAGADOUGOU (Burkina Faso) — Prima del suo arrivo, le donne nel cortile hanno già affondato la testa nei loro turbanti e nei grandi abiti a fiori. Alcune piangono. Non vogliono farsi vedere, ma non è vergogna: con Carla BruniSarkozy in visita, in questo centro per madri e bambini toccati dall'Aids, si addensa anche una piccola nube di cameraman locali. E con loro qui, i mariti potrebbero scoprire di avere una moglie contagiata dai tiggì di stasera: l'ultimo notiziario prima del ripudio.
Poi Carla arriva e per un'oretta le pazienti in attesa in cortile vengono lasciate in pace. Tutti gli occhi sono su di lei e sembra quasi che addosso le pesino, anche se si era preparata in ogni dettaglio: sobria in maglia e pantaloni blu scuri sulle ballerine chiare, non un gioiello oltre la fede, niente trucco, appena un filo di mascara e polvere sul viso, al petto la fascetta rossa incrociata simbolo della lotta al virus. Ma quasi subito la perfetta piega dei calzoni è insozzata nella polvere tropicale, il sorriso inizia a apparire forzato, la cipria non basta a nascondere un volto teso e scavato più che seducente.
Normale, per una donna al primo giorno di lavoro. Perché oggi qui lei non rappresenta nessuno dei suoi due Paesi: non l'Italia, che per lei «non è un Paese laico», né la Francia delle istituzioni repubblicane. Carla da gennaio è ambasciatrice mondiale «per la protezione delle madri e dei bambini dall'Aids- Hiv». È lei la nuova arma di Michel Kazatchkine, il direttore del Fondo mondiale per la lotta all'Aids, illuminista del ventunesimo secolo impegnato a trasformare la visibilità in fondi pubblici e donazioni private: è così che da qualche anno le terapie retrovirali sono arrivate anche nei Paesi più poveri.
Carla ad aiutare ci prova davvero, come si fa in un primo giorno di un lavoro di cui si sa ancora poco. In una corsia, chissà se ricordandosi del gesto di Lady Diana, stringe la mano a un uomo nel suo letto. In un'altra si trova di fronte a quattro bebé di pochi mesi, tre sieropositivi, tutti denutriti. «Come sono piccoli!», esclama Carla. Non li carezza, però si volta verso due gemelline infettate e in terapia: «Va meglio ora?».
Mentre la visita del mattino avanza, di sala in sala, la moglie del presidente francese non fa troppe domande. Guarda, ascolta, annuisce, incamera statistiche, chiede di più solo quando si accorge che in una confezione di cibo per bambini c'è del-l'estratto di noccioline. La intrigano i piccoli gesti concreti, non i grandi disegni. «È frequente che i mariti aiutino le mogli infettate?». «No, signora », è la risposta pudica del medico in camice bianco. Probabilmente per l'emozione, Carla infila persino un errore di francese nel libro degli ospiti: « Bravo pour cette travail... Complimenti per questa lavoro». In pubblico ripete che oggi vuole più ascoltare che parlare, vuole imparare, capire. Non appena lascia la prima clinica a metà mattinata, un'infermiera fa il verso al suo elegante saluto, la mano che si agita oscillando con molta misura, e tutti gli altri ridono ancora lì, in piedi sulla scala d'ingresso. «È bene che scopra la realtà e quello che noi viviamo », commenta l'infermiera 28enne, Rose Tiendrebeogo.
Ma quella di Carla non è né estraneità né cinismo. La moglie del presidente sa fin troppo bene cos'è la malattia, da quando ci ha lasciato un fratello. «Il ricordo di Virginio non mi lascia — dirà più tardi, fumando una strettissima e lunghissima Vogue al mentolo —. Ma oggi ho pensato a quanto siamo stati fortunati con lui: ha sempre potuto ricevere tutte le cure. Ora voglio aiutare a togliere lo stigma della vergogna a questa malattia».
Non che Carla Bruni-Sarkozy si sia scelta un mestiere facile. Anche nei capannelli che la circondano i francesi continuano a notare che la sua pronuncia è perfetta, ma i suoi giri di frase suonano esotici. Parte della sua identità resta italiana, assieme a uno dei passaporti (una volta chiarito, non subito, che poteva tenerli entrambi). Il problema è che il governo di Roma, proprio nell'anno della presidenza del G8, rischia di essere estromesso dal «board» del Fondo globale di cui lei è ambasciatrice: in finanziaria sono stati stralciati i 130 milioni promessi e per ora non versati. «Mi spiace che l'Italia abbia scelto così — commenta Carla —. Andrò al G8 della Maddalena per sollecitare che i grandi Paesi diano l'esempio. Bisogna dare un contributo ai più deboli, anche se l'Italia con la crisi ha problemi importanti».
Non vuole commentare, Carla, sull'apparente incoerenza dell'indignazione per Eluana condita dai tagli ai fondi contro l'Aids. Ma sulla morte della ragazza sì: «La sua vicenda mi ha toccato molto. La mia opinione la tengo per me, perché c'è un dibattito aperto. In ogni caso, Eluana ha smesso di soffrire».
Non sarà mica che fra Francia e Italia la differenza è la Chiesa? «Effettivamente bisogna dividere le dimensioni — osserva, attenta come camminasse sulle mine —. Non serve a nulla dire che l'Italia non è laica. È vero: non è laica. Però ci sono altre strade che si possono percorrere per il dialogo per esempio sulla prevenzione dei virus, che non rimettono in questione le credenze. Non voglio giudicare l'Italia, so quanto conti la religione nel Paese. Il Vaticano è uno Stato nello Stato: non è in Francia, non è in Spagna. È in Italia e non è un caso».
Per una donna che studia da «Première Dame» globale, una che il marito metterebbe volentieri in concorrenza diretta con Michelle Obama, più chiaro di così non si può. Michelle ama i colori sgargianti, lei si mette in tailleur celeste per andare dal presidente del Burkina, Blaise Compaoré. Michelle saluta la folla nel gelo di Washington, lei si nasconde impaurita dal sole africano anche solo per fare cinquanta metri a piedi. Michelle ringhia da avvocato, lei legge Lola di Maupassant abbandonata nel Falcon dell'Eliseo che la riporta, finalmente, a Parigi.

il Riformista 12.1.09
Procreazione assistita,
coppie bocciano la legge 40


Insoddisfatte: le coppie italiane che ricorrono alla fecondazione artificiale per avere figli non si sentono tutelate dalla legge 40 sulla procreazione assistita. Il focus su uno dei provvedimenti che ha fatto più discutere durante la sua approvazione nel 2004, è affidato all'indagine sull'infertilità condotta dal Censis per la Fondazione Serono su 606 coppie prese in carico da un centro di fecondazione assistita. A essere penalizzate sono soprattutto le coppie meno preparate culturalmente ed economicamente più modeste. Un divario che emerge, per esempio, nei tempi medi di attesa: 21,3 mesi per le coppie più modeste e 10,4 per le più istruite. Inoltre il 77 per cento delle coppie sono convinte che la legge finisca per penalizzare le persone con minori possibilità economiche. La stessa percentuale (77,4) delle coppie ritiene ridotte con la legge 40 le loro probabilità di diventare genitori e l'80 per cento si sente svantaggiato rispetto a chi vive in altri Paesi europei.

l’Unità 12.2.09
Intervista a Eugenio Borgna
«Ascoltare e capire. Così riusciremo a lasciare andare chi amiamo»


La vita è una malattia mortale che si trasmette per via sessuale» diceva Woody Allen con una sintesi fulminante. Alla morte si cerca di non pensare, spesso cerchiamo di riderci su. Ma quando ci si para davanti - non nelle immagini di guerra oramai meno «vere» di quelle del cinema e dei videogiochi, ma nella sua carnalità e inesorabilità - perdiamo tutti la testa. Chi più chi meno, naturalmente. È qualcosa che colpisce alla pancia, alla parte più intima, profonda e animalesca che è dentro ognuno di noi. In fondo, e in sintesi estrema, è per sfuggire alla morte che ci siamo inventati il linguaggio, l’arte, la filosofia, la politica. È per allontanarla dal nostro orizzonte che ci curiamo dei morti e vediamo i fantasmi. Le tombe sono fatte per i vivi.
È all’oscura paura annidata dentro ognuno di noi che il nostro presidente del Consiglio ha parlato durante la sua campagna contro la famiglia Englaro, la clinica di Udine, le istituzioni democratiche e la Costituzione. È a questa oscura paura che parla la Chiesa.
Le favole ci insegnano che la paura non va chiusa in uno stanzino irraggiungibile dentro di noi, ma sentita, vissuta e affrontata. Come? Comportandoci insieme ad essa, nonostante essa. Un compito non facile. È per questo che ci siamo rivolti a Eugenio Borgna, primario emerito di psichiatria dell’Ospedale Maggiore di Novara e autore di testi divulgativi che esplorano la sofferenza e la follia e cercano di farcela comprendere. «Nella propaganda alla quale lei accenna - dice Borgna - sono stati usate simbologie fortissime: la forza dell’immagine di Eluana, per esempio, la fame e la sete, la “cultura della vita”. Se si lotta contro i simboli, si dice, è molto facile perdere, perché hanno un enorme potere suggestivo. La bellezza e giovinezza “stroncata” di Eluana (che cancellano la sua tragedia, l’incidente, la catastrofe del suo corpo e della sua mente); la fame e la sete, concetti semplici e inconfutabili che si riferiscono a due esperienze basilari di vita».
Professor Borgna, crede che ognuno di noi abbia dentro di sé una Eluana?
«L’immagine che vive in noi è legata alla concezione che abbiamo della vita e anche alla differenza che mettiamo tra il morire e la morte. Sono due esperienze psicologiche diverse: nel termine morire rimane “vivo” anche il vivere; nella parola morte la vita scompare. Quando Eluana è mancata, ha riproposto il dilemma estremo del vivere e del morire sia a chi sosteneva la scelta della famiglia Englaro, sia a chi la contrastava: siamo stati colti tutti dal dolore. Leopardi diceva che il morire, che è il nostro destino fatale, ha comunque in sé una tenace goccia di illusione e trovava la speranza anche nella morte che si sceglie. Speranza e angoscia sono due forze che agiscono dentro di noi e sono essenziali entrambe per capire momenti tragici come quelli della morte per una persona cara. Senza la distinzione tra il vivere e il morire forse non saremmo in grado di capire ciò che può avvenire in noi o in chi abbiamo conosciuto in queste settimane».
Non pensa che le illusioni, se non si vivono come tali ma come certezze, possano diventare pericolose? Penso alle scritte «Eluana svegliati» sui cartelli di chi protestava davanti alla clinica di Udine...
«Il mondo di oggi ha la tendenza a cancellare la morte, non ci pensiamo, la nascondiamo. Rinasce solo quando il cammino del morire oltrepassa i nostri cammini».
Forse è l’ambiguità che sentiamo dentro di noi quando riflettiamo sul tema della vita e della morte a complicare le cose...
«Io non riuscirei a togliere il sondino a un mio familiare. La vita, programmata già per il suo spegnimento, comporta conseguenze non solo per noi ma anche per chi vive intorno a noi. Ed è condizionata anche dal modo in cui noi guardiamo alla nostra morte. Per quanto riguarda l’ambiguità e la contraddizione di cui parla, ogni esperienza umana è ambivalente, siamo immersi continuamente nelle ambivalenze, l’amore e l’odio ad esempio. Ed è ancora più conflittuale quando pensiamo come arrivare alla morte».
Il confine tra vita e morte si è fatto sempre più rarefatto: questo ci complica la vita?
«Il cammino tra la vita e la morte non è un cammino omogeneo assoluto ma è segnato dall’esperienza del morire, che ci rende consapevoli delle nostre illusioni. E qui entra in gioco il tentativo di comprendere le ragioni che stanno dentro la profonda interiorità di ciascuno di noi che ci resta spesso oscura a noi stessi, e la nostra agli altri. Le azioni hanno un senso solo se cerchiamo di coglierne i significati. Abbiamo tenuto conto della terribile angoscia del padre di Eluana quando è stata travolta dalla sua auto? Se tentiamo di comprenderlo non possiamo che arrestarci di fronte alle sue scelte».
Come si fa, oggi, in un mondo in cui la morte ci viene quasi a noia a forza di vederla, a mettersi nello stato d’animo necessario per capire le ragioni dell’altro senza negare le proprie?
«Questo è il problema rovente delle relazioni umane che abbiamo abitualmente. Quanta parte della nostra vita dedichiamo a comprendere i significati delle parole e dei comportamenti degli altri, quanta parte dedichiamo a scoprire i motivi profondi intuibili che agiscono in noi? Vedo purtroppo che siamo portati a di rimuovere questi problemi che nascono dall’interiorità. Ma se si cancella questo cammino lento e faticoso nella comprensione di sé e degli altri non resta che la spada di Damocle così ingiusta e terrificante che è il giudicare. E portare categorie pseudo razionali nel separare in maniera manichea il bene dal male, ciascuno intendendo il bene e il male in maniera diversa e assoluta. Nei giorni in cui Eluana è stata a Udine abbiamo sentito parole di una tale violenza, così assoluta... Parole che erano fondate sul giudizio di azioni che non sono state né interpretate né accolte, né contestualizzate. La stessa violenza espressiva l’abbiamo colta in Senato. Non ci si mette nei panni degli altri, questa è una vera tragedia. Gli italiani sono, in pratica, analfabeti. È un analfabetismo emozionale, che ci impedisce di capire gli altri. Solo ricercando i motivi interiori che ci spingono in ogni momento possiamo capire gli altri. In questo modo non avremmo lanciato fiamme contro questo povero padre che ha vissuto una tragedia enorme».

Una fiction per Basaglia e la sua riforma
RITRATTI Fabrizio Gifuni sarà Franco Basaglia, lo psichiatra ispiratore della legge 180 che nel '78 chiuse i manicomi. Le riprese cominceranno a maggio nei luoghi del lavoro di Basaglia, Gorizia e Trieste soprattutto. La messa in onda è prevista su Raiuno nella prossima stagione televisiva.

Aprile 11.2.09
Legiferare di morte dimenticando la vita
di Giovanni Berlinguer


Legiferare di morte dimenticando la vita Il commento Governo e Chiesa dettano norme e comportamenti anziché favorire diritti e tutele. Così si finisce per varare leggi mostruose ed inapplicabili. Il naturale e l'umano sono usati in nome della supremazia contingente di Vaticano e maggioranza politica pro tempore. La quale legifera di morte e dimentica l'esistere. Come quello dei migranti, il cui diritto alla salute è compromesso dal nuovo ddl sicurezza
Come è giusto che sia, ora il dibattito parlamentare ripartirà dal testo della Commissione sanità del Senato sul Testamento biologico. Esso però rischia ulteriori sopraffazioni rispetto alle esigenze e alle volontà delle persone. Con efficacia, Claudio Magris ci ha ricordato che "La qualità della vita può essere valutata solo dall'interessato, l'unico autorizzato a poter decidere della propria vita e della propria morte".
E' opportuno quindi rileggersi per intero l'art. 32 della Costituzione, composto di due paragrafi. Il primo afferma che "La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti". Non meno significativo il secondo, proprio alla luce delle recenti vicende: "Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana".
Sono principi fondati sulla libertà personale e sulla responsabilità dei medici e della scienza, beni che lo Stato mette a disposizione dei suoi cittadini per garantire loro il diritto alla salute.
E qui sta il grande valore della laicità e della inalienabile distinzione tra fede e legge. Il governo e il centrodestra hanno abbracciato con piglio decisionista la posizione del Vaticano e delle gerarchie cattoliche, sostituendosi in un solo colpo alle volontà della povera Eluana e della sua famiglia, alle attenzioni dei medici chiamati al suo capezzale, alle sentenze della magistratura fino ai rilievi costituzionali del Capo dello Stato.
Ieri sulla procreazione assistita, oggi sul testamento biologico, Governo e Chiesa irrompono nelle vite delle persone dettando norme, stabilendo obblighi, prescrivendo comportamenti, anziché favorire diritti e assicurare tutele. Con il risultato che, in nome del principio secondo cui la disponibilità della vita appartiene alla volontà di Dio anziché agli individui, è lo Stato a determinare come si viene al mondo e come si lascia questa terra.
Così si finisce per fare leggi tanto mostruose quanto inapplicate ed inapplicabili (i voli della speranza per le cliniche spagnole dove coppie sterili cercano di avere figli sono aumentati del 300% dopo l'approvazione della legge 40). Oppure, da una parte si condanna l'accanimento terapeutico e gli eccessi di certi abusi tecnologici e poi li si impone per decreto legge.
Il naturale e l'umano vengono usati, fino ad essere vilipesi, in nome della supremazia contingente, sia essa della Chiesa, sempre più incline a espressioni teocratiche, che della maggioranza politica pro tempore. La quale legifera di morte e dimentica la vita.
Come quella legata alla salute dei migranti, da segnalare alle forze dell'ordine se osano usufruire del nostro sistema sanitario. La Chiesa stessa, come ogni buon medico e ogni buon infermiere, ha denunciato i devastanti effetti di questa norma. E alcune regioni (la Puglia, la Toscana, il Lazio) hanno già deciso di non applicarla, mentre governo e centrodestra sembrano intenzionati a non tenere in alcuna considerazione i rilievi etico-sanitari avanzati, davanti a tanta inumanità, da quanti sono mossi dalla consapevolezza che le malattie epidemiche nascoste dalla legge, finirebbero per riversarsi sulla salute di tutta la popolazione. La rivolta di tanti medici, cattolici e non cattolici, indica come si può stare dalla parte della vita battendosi contro il furore ideologico di taluni atti legislativi.
Le crociate integraliste basate sull'affermazione dei valori cristiani sembrano prevalere sulla libertà di coscienza (e di cure) dei medici e dei cittadini. Contro ogni autodeterminazione delle persone, il governo ha scelto il terreno che più terremota le coscienze e abbatte le barriere di partito: il dolore. Trasformando una complessa e straziante vicenda nell'ennesimo scontro tra dove finisca la vita e dove inizi la morte.

Aprile 10.2.09
Fede: sostanza delle cose sperate. L'analisi
di Randolph Ash


Un recente studio Gallup ha evidenziato come una elevata diffusione del credo si riscontri in paesi e regioni dove maggiore è il sottosviluppo economico-sociale. Colpisce come gli Usa, di solito considerati molto religiosi, si collochino appena sotto la media mondiale. Mentre l'Italia sarebbe largamente al di sopra della media

Parliamo di religione. Non di diritto alla vita o di diritto alla morte. Solo di religione, anzi di religiosità. Poi se qualcuno vorrà trarne delle conseguenze sul rapporto tra religione e grado di sviluppo civile, ovvero tra fede religiosa, tolleranza e rispetto dell'altro, è affar suo. Intanto ecco i dati.
Un recentissimo studio Gallup ha esaminato il grado di religiosità in 143 paesi del mondo -la grande maggioranza di quelli presenti sul pianeta- interpellando un migliaio di persone in ciascun paese e domandando loro quanto importante fosse la fede religiosa nella loro vita. Lo studio non fa distinzioni tra le diverse religioni (cristiani, cattolici, mussulmani, buddisti...) e non mette in discussione la veridicità delle risposte, cioè se all'affermazione dell'importanza della fede seguano poi comportamenti coerenti, come la frequenza alle cerimonie di culto, l'osservanza dei precetti o delle regole di comportamento dettate dal credo cui si aderisce.
Dallo studio emerge un quadro molto complesso e non sempre di facile interpretazione. I ricercatori riconoscono che condizioni storiche e politiche, tradizioni e sistemi valoriali possono influenzare e di fatto influenzano i convincimenti religiosi. Tuttavia alcune generali corrispondenze fra fede e società balzano agli occhi.
La prima è che vi è una forte correlazione tra fede religiosa e grado di sviluppo economico e civile. Ci sono eccezioni, ma generalmente quanto più un paese è arretrato rispetto a questi parametri, tanto più la sua popolazione tende ad essere religiosa. Gli undici paesi più religiosi - tra cui l'Egitto, lo Sri Lanka, il Marocco, il Senegal, gli Emirati Arabi Uniti - che hanno percentuali di religiosità tra 100 e 98 sono anche tra i più poveri e con società civili tra le più deboli.
Per converso, i paesi con la più bassa percentuale di religiosità, tra 14 e 25 per cento, sono generalmente quelli con il più alto tasso di sviluppo industriale e il più alto grado di coesione sociale: non sorprendentemente si tratta di paesi dell'Europa centro-settentrionale come la Svezia, la Danimarca, la Norvegia, la Francia e -in Asia- il Giappone. Fanno eccezione le repubbliche baltiche e alcune altre repubbliche dell'ex impero sovietico dove la bassa religiosità, conseguenza di decenni di indottrinamento antireligioso, non è correlata con un alto di sviluppo economico e sociale.
La sorpresa della ricerca riguarda gli Stati Uniti, di cui solitamente si pensa come di un paese molto religioso. Le cose non starebbero così: con il 65 per cento di religiosità gli Stati Uniti si collocano appena sotto la media mondiale. Ma l'America è un grande paese con grandi differenze regionali. Se guardiamo al suo interno vediamo che gli stati più religiosi (intorno all'80 per cento), come il Mississippi, l'Alabama, il Tennessee, la Louisiana, sono anche tra i più poveri e hanno un tasso di criminalità tra i più alti. Mentre i paesi più ricchi, meno violenti e genericamente "più civili" come il Vermont, il New Hampshire, il Massachusetts, lo stato di Washington, l'Oregon, sono anche quelli che hanno il più basso tasso di religiosità (dal 42 al 53 per cento).
Lo studio mette anche a confronto alcuni stati molto religiosi degli Stati Uniti con paesi che hanno lo stesso tasso di religiosità e ne vengono fuori alcune curiose accoppiate: Mississippi e Libano, Alabama e Iran, Louisiana e Iraq, Georgia e Haiti; mentre all'altro estremo con basso tasso di religiosità troviamo le seguenti "coppie": Vermont e Svizzera, Maine e Canada, Massachusetts e Taiwan, Connecticut e Austria. Quindi non gli Stati Uniti nel loro insieme, ma i singoli stati ricadono nella regola generale: più religiosità uguale meno sviluppo economico e sociale; e meno religiosità uguale più sviluppo e maggiore spirito civico.
Ulteriori indicatori sociali direttamente associati con un'alta religiosità sono: basso grado di istruzione, scarsa coesione sociale, presenza di forti sentimenti razzisti o xenofobi, presenza della pena di morte, ridotta solidarietà e protezioni sociali, scarso rispetto della legalità. I paesi (e gli stati degli Stati Uniti) più religiosi sono insomma più poveri, meno istruiti, più intolleranti, meno solidali, meno rispettosi della legge e praticano spesso la pena di morte.
Lungi da noi affermare che tutte queste cose "provocano" un più diffuso sentimento religioso e neppure che, per converso, sono la conseguenza della maggiore religiosità. Rileviamo soltanto il dato di fatto che dappertutto (con qualche eccezione) un elevato sentimento religioso è associato ad uno scarso sviluppo economico e sociale.
Un'ultima osservazione: a differenza della maggior parte dei paesi europei, l'Italia avrebbe una religiosità largamente al di sopra della media (75 per cento, più o meno come la Louisiana e come il Botswana). Appunto.
*S.Paolo, Ebrei 11:1

Liberazione 12.2.09
Oggi la manifestazione a Roma del Pd in difesa della Costituzione
intervista a Giorgio Galli di Vittorio Bonanni


Oggi la manifestazione a Roma del Pd in difesa della Costituzione. Ieri la presentazione del manifesto di Libertà e Giustizia "Rompiamo il silenzio" presso la sede della Stampa Estera, illustrato dal presidente emerito della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky, e che ha già raccolto 165mila firme di adesione. Insomma qualcosa si muove per evitare che si arrivi a stravolgere la nostra massima legge, considerata tra le più avanzate e democratiche del mondo, attaccata dal governo che ha trasformato la tragica vicenda di Eluana Englaro in un grimaldello per forzare appunto la Carta Costituzionale, un vero intralcio alle smanie autoritarie di Berlusconi. Su questo scenario preoccupante e sui probabili esiti abbiamo intervistato Giorgio Galli, politologo e storico dei partiti. «Berlusconi ritiene che questo sia un momento opportuno per una prova di forza - ha detto lo studioso milanese - nell'ipotesi che probabilmente nel corso dei prossimi mesi la situazione per il governo e la maggioranza sarà più difficile a causa di una crisi economica sempre più grave. Certamente il caso di Eluana Englaro è stato un'occasione e la scelta del momento certamente motivata da questa ragione». Insomma, o adesso o mai più, vero professore?Certamente questo è un momento più favorevole per ottenere un successo, vedremo poi in che misura e in che direzione rispetto alla situazione che si potrebbe determinare in autunno. Ben vengano ora le diverse iniziative dell'opposizione, ma non c'è dubbio che anche sul tema Costituzione l'opposizione presente in Parlamento sia in grave ritardo...L'ha detto Umberto Bossi qualche settimana fa: se il Partito democratico avesse contrastato per esempio il progetto detto "federalista", che peraltro è una scatola vuota come dice D'Alema, quel progetto appunto sarebbe ancora in commissione al Senato e non avrebbe consentito alla Lega e al governo di presentare come un grande successo dell'inizio di legislatura l'approvazione nonché di sperare il via libera anche dalla Camera entro Pasqua. Questo è un esempio molto importante di quello che l'opposizione avrebbe potuto fare, come appunto aveva detto il leader della Lega, e di quello che non ha fatto. Qualcuno potrebbe obiettare che, visti i numeri in Parlamento, la possibilità di bloccare le proposte di legge governative siano minime...Io ho qualche dubbio che i regolamenti parlamentari non consentano un'opposizione molto forte. Intanto, cosa che è sempre opportuno dire, questo governo non ha la maggioranza nel Paese. Ed è altrettanto opportuno ricordare che ha il 46% dei voti e che soltanto una legge elettorale unica in Europa gli dà una solida maggioranza. E in ogni caso io credo che un uso intelligente dei regolamenti parlamentari potrebbe consentire all'opposizione di recitare un ruolo molto più efficace. Faccio un altro esempio: sulla legge Gelmini è stato proposto un voto di fiducia per la prima volta nella storia da quando è in vigore la Costituzione del '48. Non si è mai vista una riforma detta della scuola, che poi riforma non è, approvata con grande rapidità sulla base di voti di fiducia. Non credo dunque che la giustificazione del numero dei parlamentari sia sufficiente per spiegare un'estrema cautela dell'opposizione. Questa estrema cautela credo abbia altre ragioni perché un uso intelligente dei regolamenti parlamentari potrebbe rendere molto più difficile al governo l'attuazione di un programma che peraltro è estremamente vago e insufficiente rispetto alle esigenze del Paese. E credo altresì che l'opinione pubblica avverta con chiarezza che questa opposizione è molto cauta e poco efficace, come dimostra uno degli ultimi episodi: Rutelli, uno dei personaggi di punta del Partito democratico e anche presidente di una delicatissima commissione parlamentare sui servizi segreti, ha votato a favore del governo in una situazione che non concerne un problema etico ma semplicemente la tutela della libertà garantita dalla Costituzione. Secondo lei come se ne esce da questa situazione? La manifestazione di domani (oggi per chi legge ndr) è importante ma certamente non modifica più di tanto il moderatismo del Pd...Il primo passaggio fondamentale, anche se ho qualche dubbio che avvenga, è rendere l'opposizione più combattiva e, ripeto, in grado di usare bene il regolamento parlamentare e di raccontare all'opinione pubblica come lo sta usando. Senza dimenticare che su certi temi, come il problema sicurezza da un lato e il federalismo dall'altro, il governo non ha la maggioranza del paese, viste le preoccupazioni del mondo cattolico. Comunque tutte le mobilitazioni sono tanto più possibili quanto più si vede che l'opposizione in Parlamento è in grado di realizzare delle battaglie che finora non ha fatto. Malgrado la difficoltà di metterle in atto misurandosi su un terreno così difficile come quello della vita e della morte, è abbastanza comprensibile all'opinione pubblica che si voglia far decidere come morire non al singolo cittadino, come la Costituzione garantisce, ma ad una legge dello Stato. Tra l'altro in grande contraddizione con quanto dice Berlusconi. «Noi siamo per la libertà e la vita e contro lo statalismo e la morte». Bene, in questo caso si vuole impedire al singolo cittadino e con una legge dello Stato che violerebbe la Costituzione di scegliere tra un simulacro di vita ed una morte dignitosa. E' un terreno in cui una forte battaglia parlamentare potrebbe ristabilire quel rapporto fortemente indebolito tra rappresentanza parlamentare ed opinione pubblica.

Liberazione 12.2.09
«La laicità è donna, perché dalle donne, in tutte le culture religiose, è venuto l'attacco più centrale al patriarcato»
di Anna Picciolini


«La laicità è donna, perché dalle donne, in tutte le culture religiose, è venuto l'attacco più centrale al patriarcato». Introducendo il Seminario per un'etica pubblica laica, che si è svolto a Firenze la scorsa fine settimana, Imma Barbarossa ha anticipato il filo del dibattito. Si è aggiunto poi che la lotta per la laicità è andata di pari passo con quella contro le discriminazioni, gli stereotipi, soprattutto sessuali, per garantire condizioni di libertà, alle donne e non solo; che una caratteristica di tutti gli integralismi religiosi è di essere contro l'autodeterminazione; che il dominio maschile si esercita attraverso il controllo e l'oppressione sul corpo delle donne. Un protagonismo femminista ha segnato le due giornate: è apparso evidente il di più che dalla riflessione delle donne può venire per costruire una politica che, come dice Arendt, sia «il senso della libertà».I temi affrontati sono sfaccettature dell'unico grande tema, la cui tragica attualità non era prevedibile nel momento in cui il seminario è stato organizzato, ma la cui rilevanza è stata sempre più evidente negli ultimi vent'anni. Un dato storico: la mancanza, nella Carta fondamentale, di un'affermazione esplicita non ha impedito alla Corte costituzionale di affermare che la laicità dello stato è principio supremo del nostro ordinamento, ma questa sentenza è arrivata nel 1989, dopo 40 anni in cui era prevalso un "confessionismo di costume".La laicità oggi è lo strumento che può aiutare la convivenza in una società multietnica, senza diventare però l'alibi per una visione delle diverse culture come realtà immutabili, dai confini netti: in quei confini i soggetti non trovano spazio per autodeterminarsi, e le donne sono ancora una volta un efficace indicatore di questo processo. Allora la laicità va affermata come condizione di possibilità dell'esercizio dei diritti, della libertà, come spazio pubblico di idee e di pratiche che garantisca la crescita di tutte e tutti.Fra i diritti non c'è gerarchia: alla sinistra va fatto carico di aver spesso lottato per quelli sociali, lasciando quelli civili alla "borghesia", ai laici di non cogliere il nesso fra esercizio della libertà e capacità economica. Uno dei nodi del dibattito è stato il senso della laicità di fronte ai temi della vita, della nascita, della morte e del dolore. Siamo al culmine di un processo che ha visto lo stato rinunciare a governare l'economia (salvo pentirsene di fronte alla crisi) e pretendere di governare le vite e le coscienze; siamo davanti, non da oggi, ad un'alleanza fra religione e politica, che dichiarano di voler ricostruire il legame sociale che nelle società secolarizzate si sarebbe allentato, trasformando la libertà in egoismo. Anche su questo la sinistra ha le sue colpe: aver dato per scontato che la religione fosse una risorsa di fronte alla crisi dei valori, aver affrontato certi temi soltanto con un approccio razionale. Ed è ancora la riflessione delle donne a offrire un percorso: l'autodeterminazione vuol dire fare scelte difficili, di fronte alle quali si rivela tutta la nostra fragilità e che vanno quindi sostenute con momenti di socialità, di comunità, di responsabilità condivisa.Ancora dal pensiero delle donne, il richiamo all'esigenza di una "legge leggera" in queste materie, come non è stata quella sulla procreazione medicalmente assistita, come non è quella che si sta preparando sul testamento biologico, per non parlare del ddl che avrebbe inchiodato Eluana Englaro nella non-vita.Come si può costruire un'etica pubblica laica, superare una logica difensiva, leggere i segni dei processi negativi, anticipandone gli effetti più devastanti? Bisogna smascherare il potere del vaticano, della gerarchia cattolica, della santa sede, tre facce con cui lo stesso soggetto, in Italia e nel mondo, conduce la sua offensiva, e operare sul terreno della cultura e della scuola, con la consapevolezza dello stretto intreccio fra concessione di privilegi e avvio di processi discriminatori, fra pacchetto sicurezza e scelte etiche.Un appello «per l'autodeterminazione e la laicità, per un'etica pubblica laica» e la proposta di un Comitato fra le associazioni che hanno indetto il seminario, per proseguire nelle iniziative politiche, hanno chiuso le due giornate.

Liberazione 12.2.09
Parla il docente di Terni che oggi rischia il licenziamento
«Via il crocefisso dalle scuole,è una battaglia necessaria»
di Checchino Antonini


Singolare coincidenza quella di ieri, l'ottantesimo dei patti lateranensi, per la convocazione a Viale Trastevere di un docente di Lettere di Terni che, ogni volta entra in una delle sue quattro classi, rimuove il crocifisso dalla parete, svolge la sua lezione e lo riappende dove l'aveva trovato. Ieri, assistito da Nicola Giua, dell'esecutivo nazionale dei Cobas, è stato sentito dai cinque membri del consiglio di disciplina del Cnpi, il consiglio nazionale della pubblica istruzione. Ora rischia una sanzione: «Da un giorno a un mese di sospensione, fino alla destituzione - così spiega Giua - l'ex provveditore, oggi dirigente dell'Ufficio scolastico provinciale di Terni, ha chiesto al consiglio di disciplina di stabilire l'entità della sanzione. Il consiglio, però, può emettere un parere obbligatorio ma non più vincolante». «Era una battaglia necessaria», dice a Liberazione , il "mostro" Franco Coppoli, 43 anni, che insegna lettere e storia al Casagrande, istituto professionale di stato per i servizi. «Gestire una classe di sedicenni - dice - si può fare o ricorrendo al populismo o costruendo un percorso dialettico sul medio periodo che li faccia ragionare sull'importanza dei simboli e sul pluralismo di approcci».Tutto inizia alla fine di settembre quando entrando in aula dopo quasi un mese Coppoli si accorge di un crocefisso affisso da alcuni studenti senza interpellare i docenti. Chissà chi s'era accorto della mancanza. Nelle altre tre classi non c'è traccia del controverso simbolo. Coppoli sceglie di parlare con i ragazzi della laicità degli ambienti scolastici, della «neutralità dell'aula come precondizione per insegnare e della discriminazione pesante per un laico di dover insegnare con un simbolo sulla testa, non al collo di uno di loro». Per il prof vuole essere una scelta «didattica ed etica» oltre alla denuncia di quanto possa essere discriminante per un lavoratore, sottostare a un simbolo del genere in un luogo pubblico. Dopo quel gesto iniziale, un'assemblea di studenti, a maggioranza (Coppoli esce dall'aula per non influenzare la conta), decide di ripristinare il crocifisso. Da quel momento si scatenerà il preside con circolari, diffide e un esposto. «La presenza del crocefisso in classe viene così legittimata solo dalla volontà di una parte dei ragazzi». Ci sono norme, anzi c'erano, solo per le scuole elementari e medie. Probabilmente suo malgrado, il "delegificatore" Calderoli ha abrogato il regio decreto 965 del 1924 che stabiliva le tabelle per gli arredi scolastici (crocifisso incluso) alle scuole medie. Pure un altro regio decreto del 1928 obbligava l'esposizione della bandiera in ogni edificio scolastico e la foto del re e «l'immagine del crocefisso» ma solo alle elementari. E pure in questo caso si è in via di abrogazione.«La volontà degli studenti - prosegue il docente - non funziona per l'autogestione decisa dall'assemblea degli studenti. E comunque, cosa sarebbe accaduto se avessero votato a maggioranza per mettere una svastica? Non si può delegare alla maggioranza una cosa non prevista da alcuna norma. Non è democrazia, è dittatura della maggioranza».Coppoli riferisce di un rapporto coi colleghi fatto di «confronto aperto nel rispetto delle differenti posizioni»: in un consiglio di classe straordinario ognuno s'è pronunciato ma non c'è stata nessuna delibera. Invece il consiglio d'istituto, alla presenza del preside, ha votato una mozione che chiedeva l'intervento della ministra Gelmini. E' stata redatta senza ascoltare, e senza avvisare, il "mostro" che l'ha saputo dalla stampa a cui la mozione è pervenuta dal fax della scuola. «Una mediatizzazione che ho subito», insiste il professore che ringrazia per la solidarietà e l'appoggio sia i Cobas, sia l'Uaar (atei, agnostici e razionalisti), sia Civiltà laica, un'associazione ternana. Ora è allo studio un ricorso al tribunale di Terni per far rispettare il principio di laicità e la non discriminazione dei lavoratori per motivi religiosi: «La presenza di simbolo non è neutrale. Le sentenze europee vietano - com' è accaduto a Valladolid l'anno scorso - l'esposizione del crocifisso perché rappresenta un elemento troppo forte a livello simbolico che associa stato e religione. Ma in Italia, dove non c'è più la religione di stato,ci si scontra con un indecente presenza della chiesa nella vita pubblica, politica e nella sfera privata».«Sistematiche ingerenze di cui abbiamo avuto eclatanti dimostrazioni in questi giorni con il caso di Eluana - commenta Piero Bernocchi, portavoce nazionale dei Cobas - il modo decisamente migliore per "festeggiare" il concordato è affiancare il sostegno a Franco Coppoli con la partecipazione in massa del "popolo della scuola pubblica" alla manifestazione No Vat del 14 febbraio a Roma».

Liberazione 12.2.09
Dio gli angeli la vergine
ma ci credete davvero?
di Roberta Ronconi


La scena si apre sulla collinetta di Megiddo, nella valle di Jezreel. In piedi su un pietrone archeologico, Bill Maher ci spiega che è proprio lì, secondo i sacri testi, che inizierà l'Armageddon, ovvero la battaglia finale tra forze del bene e quelle del male, con conseguente fine del mondo. Non dieci metri più in qua o in là, ma proprio lì. C'è scritto sulla Bibbia. E' l'incipit della furiosa cavalcata dissacratoria di Religiolus ( Religulos in originale), film che ha suscitato tanto scandalo quanto divertito plauso negli Usa e che si presenta in Italia (da venerdì prossimo, in 30 sale) già carico di scomuniche e abiure da parte degli oltranzisti cattolici. In realtà il film è fatto di poco. Un viaggio, un po' accidentato, cinematograficamente molto "rimediato", del conosciutissimo comico americano Bill Maher (un Daniele Luttazzi con presenza tv fissa da anni) nei luoghi classici dei culti monoteisti: dal muro del pianto di Gerusalemmme, al Vaticano di Roma, passando anche per il Golgota e i luoghi della vita di Gesù perfettamente ricostruiti in un "parco giochi per fedeli" della Florida. Maher è figlio di un cattolico e di un'ebrea, ha frequentato assiduamente la chiesa fino al giorno in cui il padre ha smesso di portarcelo. Perché il parroco aveva detto a lui e agli altri uomini della parrocchia che non erano veri fedeli se usavano i profilattici. Da allora la religione per Maher è diventata motivo di scetticismo e soprattutto di terribile tentazione comica. Scelto come compagno di viaggio il perfido regista di Borat , Larry Charles, i due si sono incamminati in quest'avventura a metà tra il serio e il faceto. Di spunti per il comico, nel mondo del fanatismo religioso (soprattutto nella sterminata e variegata America) ce ne sono un'infinità. Dal reverendo nero convinto che la tonaca di Gesù fosse di lino puro (tanto per giustificare le sue macchine, i vestiti firmati e gli orologi d'oro), al mormone che sostiene che il paradiso terrestre sia nel Missouri e che per entrare in paradiso ci sia bisogno di una password, fino all'ebreo che ha inventato un sistema di carrucole per entrare in casa perché di shabbath non può spingere i tasti dell'ascensore. Questo per citare i fedeli "estremi". Ma ce ne sono anche un'infinità che giurano semplicemente di sentire la voce di Dio che li chiama, di sapere che la vergine era vergine perché sulla Sacra Sindone gli scienziati hanno trovato il dna di sangue di donna e di spirito santo, di essere certi che il secondo avvento di Cristo è già avvenuto («infatti sono io» dice un santone seguito da centinaia di migliaia di uomini e donne). Così all'infinito e ce n'è per tutti. Poi, la parte più dura, le bombe, i morti, gli omicidi (in primis quello del regista Teo Van Gogh), le guerre, le fatwa e le crociate. In mezzo, un mare di ignoranza. Migliaia di fedeli che conoscono i testi sacri per sentito dire, che non sanno che i vangeli vennero scritti diversi decenni dopo la morte di Cristo e da testimoni non-diretti della sua eventuale esistenza, che ignorano che la vergine non era proprio vergine in tutti i testi sacri e che spesso, dei dieci comandamenti, ne ricordano solo due: non rubare e non uccidere (il 15% degli italiani), dimenticando il punto di partenza, ovvero il primo: io sono il dio tuo. Altrimenti, di cosa stiamo parlando?Maher e Charles si divertono un mondo anche a chiedere conferme alla gente comune su come siano andate veramente le cose in passato. Ma davvero lei crede ci sia un vecchio Dio, alto circa un metro e ottanta con la barba che vive nello spazio, poi è sceso sulla terra, ha creato il primo uomo con la polvere e poi gli ha staccato una costola? Crede che ci fosse un serpente parlante? E un Signore che mette incinta una donna ma lei rimane vergine e poi suo figlio cammina sull'acqua e resuscita i morti, ma alla fine viene mandato in missione suicida dal padre per salvare l'umanità? Credete anche a degli esseri che sembrano umani e hanno le ali dietro le spalle? E alla neve a Betlemme e che Gesù sia nato il 25 dicembre come Osiride o Mithra, 2000 anni prima di lui? La risposta è sì, sì e ancora sì. E allora Maher si/ci fa la domanda delle domande: la religione è una vocazione o una malattia mentale? Gesù, Mosé e Maometto erano dei profeti, dei visionari o degli squilibrati? Questo è Religiolus . Dal punto di vista cinematografico un prodotto piuttosto nullo, quanto e forse più dei film di Michael Moore. Dal punto di vista della provocazione, carente di un vero approfondimento. Come film comico, un po' facilone. Rimangono intatti due grandi meriti: un bellissimo cartellone pubblicitario (le tre scimmie che non sentono, non vedono, non parlano) che rallegra le nostre città. E, infine, il fatto di averci regalato, dopo decenni di oscurantismo, una simpatica e scanzonata boccata d'aria atea. Ne sentivamo un profondo bisogno, e sappiamo di non essere le sole.