sabato 14 febbraio 2009

Corriere della Sera 14.1.09
Cgil in piazza: 700mila contro il governo
di Fabrizio Caccia


Berlusconi: sciopero fallito. D'Alema in corteo: il Pd rappresenti i lavoratori
Per la questura erano in 50 mila. Epifani: chi è in cassa integrazione per 6 mesi non sopravvive Scontro con Bonanni

ROMA — Un minuto di silenzio per le morti bianche. Poi, il segretario generale della Cgil, Guglielmo Epifani, dal palco di San Giovanni inizia a parlare: «Il governo ha lavorato per dividere Cipputi e Travet, ma i lavoratori non si fanno dividere». Metalmeccanici e impiegati statali, Cipputi e Travet, ieri in piazza contro la politica economica del governo. Sciopero di otto ore in tutta Italia e tre cortei per le strade di Roma. «Siamo oltre 700 mila», annuncia dal palco il segretario della Cgil-Funzione pubblica, Carlo Podda. Secondo la Questura, invece, appena 50 mila. Così, scoppia la guerra dei numeri: «L'adesione è stata solo del 6 per cento, lo sciopero è fallito — commenta duro Silvio Berlusconi —. La Cgil si è tolta di mezzo da sola, rompendo il fronte sindacale rispetto ad altri sindacati che invece hanno contribuito alle riforme». «Berlusconi non sa di cosa parla — replica Podda —. Il dato del 6 per cento è solo uno dei numeri che dà Brunetta». Dal governo, però, arrivano nuove bordate. «Le forze dell'ordine stimano non più di 50mila persone in piazza. Il leader della Cgil sostiene invece di averne contate 700mila — chiosa il portavoce del ministro della Funzione pubblica —. Non resta quindi che prendere atto dell'ulteriore crescita del coefficiente Veltroni per il calcolo delle presenze alle manifestazioni: mesi or sono era 10, adesso è salito a 14». Reagisce Podda: «L'unica Brunetta di cui mi fido è mia moglie ». «Sciopero dopo sciopero riusciremo a cambiare la politica del governo», grida Epifani dal palco. Bandiere rosse, ma anche qualcuna nostalgica della Cisl. Slogan e striscioni eloquenti: «Bonanni, Angeletti e Marcegaglia, contro il vostro accordo daremo battaglia». Il leader della Cisl, Raffaele Bonanni, si mostra critico: «Quello della Cgil è uno sciopero più politico che sindacale». Epifani gli risponde: «Bonanni dice cose non vere, rispetti il nostro sciopero che è una spinta al governo e non la butti in politica». Sfilano studenti, l'Arci, Emergency, Cento dei Verdi, Ferrero di Rifondazione. Ma anche Bertinotti e Vendola. In testa al corteo principale le tute blu dell'Alfa di Pomigliano. Ci sono con loro i leader della Fiom, Gianni Rinaldini e Giorgio Cremaschi. Si alza il grido: «Pomigliano non si tocca». Ma non solo: «Napolitano non si tocca». Con i manifestanti anche un gruppo del Pd: Damiano, Bindi, Fassino, Bettini, Bersani. E soprattutto, a sorpresa, ecco Massimo D'Alema: «Il Pd deve rappresentare i lavoratori — dice —. Oggi è necessario e urgente garantire chi perde il posto di lavoro». A chi gli chiede dell'assenza di Walter Veltroni, replica seccamente: «Il segretario del partito non è qui perché ha anche altre responsabilità. Comunque non voglio polemizzare con Veltroni. Evidentemente, a voi giorna-listi, dei lavoratori non interessa nulla...». Walter Veltroni è in Sardegna, assente giustificato: «Lui è il segretario di un partito complicato — dice Epifani — e deve tener conto di tutte le posizioni ». Il riferimento è all'ala dell'ex Margherita (Rutelli, Letta) che ha scelto di non venire. Proposta, comunque. Non solo protesta: «I lavoratori che stanno 6-7-8 mesi con 650 euro di cassa integrazione non possono sopravvivere — ammonisce il leader della Cgil —. Propongo di aumentare per due anni le tasse sui redditi sopra i 150 mila euro, destinando così il miliardo e mezzo di gettito al sostegno dei redditi più bassi». Infine, dà appuntamento al 4 aprile. Stavolta al Circo Massimo dove nel 2002, con Cofferati, furono in 3 milioni: 700 mila, secondo la Questura.

Liberazione 14.2.09
Democrazia al lavoro
di Dino Greco


Quello che speravamo e che era sommamente necessario per scuotere l'inquietante atmosfera in cui imputridisce la politica italiana è infine accaduto. Il lavoro, non nella sua astratta espressione sociologica, ma con i volti di donne e uomini "in carne ed ossa" ha fatto sentire la propria voce. Talmente forte e chiara da rendere risibile l'ennesima, stucchevole querelle sul numero dei partecipanti. Il fatto incontrovertibile è che per le vie di Roma è scorso un fiume in piena: lavoratrici e lavoratori sono scesi in sciopero nel bel mezzo di una crisi devastante che mette in gioco i loro posti di lavoro, la loro vita, il loro futuro, disposti a farsi carico di un'ulteriore decurtazione salariale per render chiaro a tutto il Paese, ad un governo imbelle e protervo, ad una tracotante Confindustria, che non sarà facile scaricare sui più deboli i costi del disastro economico. E che quanti hanno stipulato l'accordo separato che li deruba di salario, diritti, democrazia troveranno pane per i loro denti. Merito di Fiom e Fp quello di avere compreso la natura e la profondità di questo attacco. Rivolto, sì, in primo luogo, contro le persone che lavorano, ma luciferinamente organizzato anche per colpire quella parte del sindacato che non intende rinunziare ad un'autonoma rappresentanza del lavoro, che non si piega ad un ruolo servile nei confronti dell'impresa. La storia patria, da quella più antica a quella più recente, come quella continentale e d'oltre oceano, ci rende avvertiti che ogniqualvolta il sindacato è stato sconfitto (i controllori di volo nell'America di Ronald Reagan, i minatori di Arthur Scargill nell'Inghilterra di Margaret Thatcher) è l'insieme dei rapporti sociali che ne è uscito sconquassato, generando povertà, solitudine, disuguaglianza. E una drammatica implosione della democrazia. Oggi, siamo noi a vivere su questo crinale. Reso ancor più ripido dal più organico tentativo mai messo in atto, da sessant'anni a questa parte, di archiviare la Costituzione Repubblicana. Siamo cioè di fronte ad una riedizione di quella che lo storico Giovanni De Luna ha definito come «la latente tentazione antidemocratica della borghesia italiana», che oggi si sposa al sovversivismo clerico-fascista di una classe politica dirigente ignorante, corrotta e aggressiva. Credo che tutto questo abbiano capito - con quell'immediato istinto politico di cui tante volte hanno dato prova - le proletarie, i proletari che ieri sono così in tanti convenuti a Roma. Essi hanno avvertito il pericolo mortale, il bisogno di reagire direttamente, subito, in proprio, senza deleghe. Viene da lì un messaggio che è politico e morale insieme: provare ad ostruire una strada e ad indicarne un'altra, con una intelligenza dei fatti ed una determinazione che altrove latitano. Allora servono due cose: la continuità della lotta sociale, battendo colpo dopo colpo, ancora e poi ancora, finché il ferro è caldo. Ed un ruolo politico della sinistra, a partire dal Prc, sempre più necessario di fronte allo sconfortante cerchiobottismo del Pd.

l’Unità 14.2.09
Laicità, tutte le parole per ritrovarla
di Bruno Gravagnuolo


Inutile girarci attorno. L’Italia è un paese a sovranità limitata. Non in chiave geopolitica, ovviamente, almeno da quando la divisione in blocchi è crollata. Semmai dall’interno, dall’intimo della sua costituzione formale. Limitata com’è da un Concordato - e non già da un semplice Trattato con la Chiesa Romana - che pone argini al dispiegarsi pieno delle sue prerogative sovrane. E stante che quel Concordato implica uno Stato sovrano - la Chiesa - dentro un altro stato, quello italiano. Con tutte le conseguenze del caso, di costume e giuridiche. E che comportano molti vulnera all’eguaglianza religiosa dei cittadini e all’universalismo dei diritti.
Sono verità non smentibili, corroborate da un lunga storia. Pacifiche per il senso comune e per la dottrina, e nondimeno niente affatto pacifiche e innocue, specie quando il paradosso delle «due sovranità» riesplode in modo plateale come oggi. Dai Pacs al testamento biologico negato. Allorché una destra di conio illiberale vecchio e nuovo - opposta alla destra storica - e cioè la nostra destra di governo, sceglie di cavalcare quel paradosso. Per riscrivere di fatto (e di diritto) l’equilibrio delle due sovranità: tutto a vantaggio del lato religioso.
È questa la riflessione centrale a cui ci induce un libro agile e svelto, ma ben documentato, che va in questi giorni in libreria: Da aborto a Zapatero. Un vocabolario laico (Laterza, pagine 205, euro, 15,00). Scritto da Vladimiro Polchi, un giornalista classe 1973, che scrive di politica e cronaca su Repubblica, coautore con Corrado Augias di Aldo Moro, una tragedia italiana (Roma 2007) e versato in drammaturgia storiografica. Come indica il titolo, è un glossario fatto di 63 lemmi, da quelli più concreti di bioetica a quelli più astratti e di dottrina (ma oltre a Teodicea e Guerra, passando per Embrione e Eutanasia, non mancano poi Ici, Opus dei, Otto per Mille, etc.). Il tutto a formare un prontuario laico. Attraverso il quale è possibile formarsi un’idea dei punti più controversi nella disputa «laicità e suo contrario». E anche ripercorrerne la storia minuta, inevitabilmente intrecciata al contesto italiano, dominata da quella che Antonio Gramsci definiva la «Quistione Vaticana». Quanto a storia intanto, storia recente, una prima e proficua indicazione ci viene dalla bella prefazione di Miriam Mafai al Vocabolario. Che ci ricorda come la grande spinta emancipazionista, apertasi in Italia negli ani 70, e culminata con la vittoria sull’aborto nel 1978, sia stata ricacciata indietro già a partire dagli anni 80 (anni edonistici e rampanti. A proposito di paradossi!). Quando, dopo il Nuovo Concordato di Craxi - blanda riforma che cancella l’idea della «religione di stato» ma non del tutto - Giovani Paolo II spegne sul nascere la possibilità di regolamentare civilmente le unioni di fatto.
Da allora - e il Vocabolario stesso in molte sue voci lo richiama - si afferma esplicitamente un principio che neanche negli anni più aspri del dopoguerra e nemmeno nel ventennio era stato teorizzato apertamente: la vera Grund Norm dello stato italiano è la legge naturale coincidente con la legge cristiana. La Chiesa romana in altri termini, riconosce certo la laicità come autonoma sfera dell’agire politico. Ma la assume appunto come sfera distinta e sotto-ordinata. Autonoma sì, ma non sovrana e rispondente alle regole della sovranità secolare. Di fatto quindi eteronoma, e priva di autonoma potestas.
È una rivoluzione teologica all’indietro, che fa saltare il fragile equilibrio tra le due sfere, raggiunto con fatica lungo il dopoguerra e codificato - benché con le contraddizioni del Concordato all’art. 7 - nella carta Costituzionale. E la contronovità via via si aggrava. Non solo per i problemi mondiali legati all’irruzione del conflitto identitario e religioso, dove la teologia planetaria della Chiesa reclama il suo ruolo di tutela globale. Si aggrava perché che salta la cultura sociale del cattolicesimo italiano, argine laico e di massa alle pressioni della Chiesa. Dopo il crollo infatti del popolarismo dc, il cattolicesimo politico è immediatamente esposto al richiamo Vaticano, che ai cattolici si riferisce uti singoli e non come forza politica autonoma. A questo punto è la nuova destra che salta in groppa al fondamento religioso, con un mix di decisionismo e integralismo (cinico e all’italiana). E la sinistra? Incerta anch’essa sul suo laicismo ed ecumenicamente dialogante, dinanzi a un Papa che reputa il dialogo inamissibile e fomite di Relativismo. Perciò consigliamo a questa sinistra la lettura del Vocabolario di Fochi. Contiene molte vitamine per la sua smorta identità.

Repubblica 14.1.09
Quando la psiche è condannata a vegetare
di Franco Cordero


Tristi riflessioni sulla sventurata in stato vegetativo da diciassette anni: lasciamola andare, chiede il padre; niente lo vieta, rispondono i vertici giurisdizionali; andava stabilito se sia lecito interrompere l´alimentazione coatta. Interviene la gerarchia ecclesiastica, soi-disante suprema istanza nelle questioni supreme, de vita ac morte (la dottrina dell´aldilà fonda poteri molto terreni), e sarebbe una questione onestamente discutibile se la campagna non reinnescasse anacronismi d´antica ferocia cattolica nello stile «vivamaria», scatenando conflitti costituzionali. Il pirata re d´affari, padrone de facto del paese, veste livrea ateo-clericale: i preti gli vengono utili nella conquista del poco Stato che rimane; perciò tenta un coup de main dei suoi, cambiare le norme decretando sul tamburo l´obbligo assoluto d´alimentare ogni corpo umano che versi nello stato d´E. E. Fallita la mossa, perché il Presidente delle Repubblica non promulgherebbe tale decreto, e in tal senso l´avverte, l´eversore permanente, truculento analfabeta, minaccia un pandemonio: la Carta era nata sotto insegna filosovietica; chiamerà il popolo a riscriverla. Nell´Italia 2009 l´uso del pensiero è ancora provvisoriamente libero. Approfittiamone distinguendo nel caso de quo idee, fantasie, affetti, interessi, cinismo politico, moti viscerali.
Il mondo è un teatro dagli spettacoli spesso cattivi: tali risultano secondo metri umani evoluti; e se la messinscena corrispondesse al cosiddetto Intelligent Design, sarebbe un´intelligenza alquanto debole o maligna. Tiene banco il caso della donna il cui cervello è inerte, spento da un trauma diciassette anni fa: vegeta, alimentata con una sonda; stato irreversibile; il risveglio ha le probabilità d´una ricrescita della testa al decapitato; non basterebbe un miracolo (Baruch Spinoza, ebreo scomunicato, notava ironicamente come i miracoli stiano sul filo delle cause naturali, nei limiti d´una modesta anomalia); semiviva, non pensa né sente. Che abbia bell´aspetto, come racconta un Eminentissimo testimone, è battuta d´umorismo macabro: dopo gli anni d´immobilità quel povero corpo sa d´albero atrofico; e il padre chiede all´autorità tutelare un provvedimento che permetta la sospensione del nutrimento coatto. Lasciamola andare dove finiremo tutti. Corte d´appello e Cassazione rispondono in termini positivi. Mater Ecclesia lancia anatemi: la paziente (termine improprio, visto che «non patitur», mancandole i sensi) è persona; ha un´anima; toglierle acqua e alimenti costituisce omicidio. Il caso tocca nervi scoperti. L´apparato ecclesiastico è l´ancora ragguardevole resto d´un impero fondato sull´aldilà: sacramenti, suffragi, indulgenze; quando la moneta tintinna nella cassa, l´anima purgante vola in paradiso, annuncia Johann Tetzel, 1517, domenicano, predicando l´indulgenza bandita nei domini tedeschi episcopali e Brandeburgo, i cui proventi Sua Santità Leone X spartisce con Alberto Hohenzollern e l´Imperatore Massimiliano. Lutero, monaco agostiniano, contesta lo pseudocristiano affarismo papale. I cultori del potere non demordono e la Chiesa romana perde mezza Europa. Cinque secoli dopo perdurano logiche profonde: interessi molto terreni spiegano l´anacronismo cattolico; scendono in campo rumorosi vivamaria; sfila l´ateismo clericale e presto piangeranno le Madonne. Ma vediamo la questione teologale.
«Anima», dal greco ánemos, vento. Iliade e Odissea non dicono cosa sia, finché il corpo vive: poi esce dalla bocca o attraverso la ferita mortale; non era il principio vitale; chiamiamo «vita» le operazioni d´un corpo vivo, finite le quali la psyché vola via, ombra o éidolon. Il rogo la separa definitivamente dal mondo: e sono residui fatui quelle che Odisseo evoca alle porte d´Ade; solo dopo avere bevuto il sangue delle vittime riacquistano un´effimera identità cosciente. In dottrina orfica diventa l´autentica persona, chiusa nel corpo (prigione o tomba) e destinata a reincarnarsi finché riti salutari la liberino dal ciclo. Platone insegna un´immortalità individuale: l´anima appartiene al mondo soprasensibile, come le idee (tale parentela costituisce un punto oscuro della fantasmagoria platonica); la filosofia diventa metodo della morte salutare. Aristotele ne distingue tre: vegetativa, sensitiva, intellettiva; le prime due sono un ectoplasma verbale, operazioni dell´organismo vivo (qui l´autore ragiona da fisiologo); l´ultima è indipendente dal corpo; agisce ab extra, immortale, divina, impersonale (secondo Alessandro d´Afrodisia e Averroè). Sant´Agostino la concepisce nel senso platonico, sub-stantia, ma rimane perplesso su come venga al mondo, creata singolarmente da Dio o connessa al processo genetico, «ex traduce».
San Tommaso assimila Aristotele fin dove i dogmi lo permettono: ogni tanto gioca sulle parole; qui postula il «demonstrandum», che l´organismo vivo contenga un quid distinto dallo stesso. Mosse simili violano una regola capitale d´economia del pensiero, formulata dall´inglese Guglielmo d´Occam, francescano ribelle (1280-1349 circa), ma l´applicavano e l´applicano d´istinto tutti i ragionatori seri: mai presupporre più del necessario; se A e B spiegano C, ogni premessa in più confonde i discorsi o produce schiume verbali vaniloque, mai innocue. Il corpo nel quale siano attive date funzioni, ora surrogabili dal lavoro d´una macchina, vegeta: attribuire tale stato all´anima vegetativa è abuso verbale; idem la sensitiva, né le cose stanno diversamente rispetto all´intellettiva; chiamiamo vita psichica date situazioni organiche implicanti midollo, cervello, nervi, ghiandole, organi percettivi. Dal lavoro scientifico emergono quadri causali indefinitamente perfettibili: l´ipotesi cade quando il fenomeno in questione manchi, presente l´asserito fattore; o ricorra sebbene manchi lo stesso; i termini ridondanti la mistificano, tanto più quando non significhino niente o discendano da livelli mentali primitivi, come se, dovendo dire cosa siano i temporali, oltre a vapori, temperatura, cariche elettriche, tirassimo in ballo Jovem pluvium. Così discorre san Tommaso: avendo stabilito che debba esservi un´«anima rationalis», ne disegna la storia: la crea Dio attraverso innumerevoli interventi nel tempo, tanti quanti furono, sono, saranno gli animali umani. In qual modo la crea? Infondendola al corpo: «haereticum est» dire che venga dal seme, un´opinione sfiorata da sant´Agostino in fraterna polemica con san Girolamo. Situata al grado infimo delle «substantiae intellectuales», diversamente dagli angeli «non habet» un´innata «notitiam veritatis»: l´acquista attraverso cognizioni fornite dai sensi; bisognava dunque che fosse legata al corpo, ma «est incorporea», incorruttibile, immortale, i quali ultimi due predicati implicano una scissione dalla materia organica con gravi paradossi; siccome informa l´intero corpo, non risiede in una singola parte; né cambia mai involucro. Tuttavia esistono anime separate: uno stato «quodammodo contra naturam», transitorio perché alla fine i corpi risorgono; e separandosi subisce una mutazione; ormai è fissa nel senso buono o cattivo; «habet voluntatem immobilem» (Summa Theologiae, Commento a Pier Lombardo, Opuscula). Secondo i metri dell´empiricamente plausibile, la fiaba tomista segna un regresso dalla visione omerica degli éidola.
Su tali fondamenti, piuttosto esigui, l´apparato ecclesiastico ha aperto una campagna trovando alta udienza. Non stupisce, visto che governa l´Italia un pirata, re d´affari: ateo come tutti i caimani, veste livrea clericale; da trent´anni spaccia oppio televisivo e aborre l´intelligenza ma non sbaglia un colpo nei calcoli del tornaconto; sostenuto dai preti, occuperà i rimasugli dello Stato; perciò voleva scardinare la res iudicata imponendo il nutrimento coatto con norme penali decretate d´urgenza. Dal Quirinale arriva un avviso: l´eventuale decreto non sarebbe promulgato; e lui minaccia rendiconti plebiscitari. Ventiquattr´ore dopo insulta il padre d´E. E. spiegando a milioni d´italiani che vuol disfarsi della figlia scomoda (l´aveva già detto un monsignore): la proclama idonea a gravidanza e parto; farfuglia torvo d´una Carta da riscrivere; vuol legiferare da solo, mediante decreti, in una corte dei miracoli tra asini che dicano sì muovendo la testa. Siccome siamo in tema d´anime, ripuliamola con l´ultima strofa dei Poèmes antiques: «Et toi, Divine Mort, où tout rentre et s´efface,/ accueille tes enfants dans ton sein étoilé;/ affranchis-nous du temps, du nombre et de l´espace,/ et rends-nous le repos que la vie a troublé». Leconte de Lisle, 1818-1894, aveva gusti fini e sentimento caritatevole.

il Riformista 14.2.09
Testamento biologico
Dorina Bianchi: «Ecco la correzione di rotta del Pd»
di Alessandro Calvi


Nessun cambio di linea sul testamento biologico, assicura il segretario del Pd, Walter Veltroni. Una correzione di rotta, però, questo sì, a partire dal fatto che nutrizione e idratazione non saranno più considerate terapie e dunque la rinuncia diventerà «fatto eccezionale». A spiegarlo, è Dorina Bianchi, neo capogruppo Pd in commissione Sanità al Senato, in questi giorni al centro di un caso per aver preso il posto di Ignazio Marino con una tempistica che qualcuno ha ritenuto sospetta. «Si voleva attendere il voto sul testamento biologico soltanto perché sono cattolica?», contrattacca la Bianchi, annunciando che farà proprio il maxiemendamento anticipato dallo stesso Marino al Riformista sulle cure palliative e ne sarà firmataria.
Allora senatrice, cosa è accaduto?
Nulla che non fosse già previsto. Ignazio Marino è presidente della commissione di inchiesta sul Servizio sanitario nazionale da tre mesi. Ciò significa che sono tre mesi che avrebbe dovuto lasciare il posto in commissione Sanità. Si doveva cambiare prima ma non è stato fatto. Ora però la commissione di inchiesta inizia a lavorare a pieno ritmo e non era più possibile che Marino riuscisse a fare tutto.
Insomma, un normale avvicendamento?
Una conseguenza della necessità di avere un capogruppo nella commissione Sanità e un presidente della commissione sul Ssn nel pieno delle proprie funzioni.
Avrà letto che non tutti la pensano così. Anzi, sui giornali si è scritto di una tempistica sospetta e anche di un cambio di linea del Pd. C'è chi sostiene che la sua elezione è il prezzo pagato da Veltroni per non avere contro Marini e Fioroni.
Senta, allora le voglio chiedere io una cosa: perché Dorina Bianchi pur essendo stata votata a scrutinio segreto da tutti avrebbe dovuto aspettare la fine della discussione sul testamento biologico per entrare in carica? Forse perché sono cattolica? In questi giorni abbiamo assistito a un rovesciamento della realtà, frutto di una visione ideologica. Non si spiega altrimenti perché avrei dovuto attendere ancora.
Dunque, non c'è da attendersi nessun cambio di linea?
Il Pd in passato ha presentato diverse proposte di legge tra le quali quella di Marino. Io non ne ho firmata nessuna, neppure quella Baio. Me ne sono tenuta lontana in tempi non sospetti. Rispetto a questo lavoro, la mozione votata dal Pd in aula - che ricalca il lavoro fatto dal "gruppo dei 6" - è un passo avanti. Vi si sostiene che alimentazione e idratazione sono da considerare come finalizzate al sostegno vitale e non sono assimilabili all'accanimento terapeutico e che, dunque, se ne può disporre soltanto in casi eccezionali. È proprio su questo elemento, l'eccezionalità, che ora si dovrà lavorare. Sebbene il Pd sia stato sinora orientato soprattutto verso il testo Marino, sono sicura che entro pochi giorni presenteremo emendamenti che saranno espressione di tutti.
La sensazione è che, se non un cambio di linea, si sia arrivati a una correzione di rotta.
Forse sì, ma non certo a seguito della mia elezione. Il partito ha votato una mozione.
Lei avrebbe votato il ddl del governo su Eluana. Ora come capogruppo dovrà sostenere una posizione diversa. C'è una contraddizione evidente.
Del ddl su Eluana ho criticato la intempestività perché il Parlamento aveva preso l'impegno ad arrivare a una legge entro il 30 dicembre. Interveniva però in un caso particolare in cui non esisteva la dichiarazione anticipata di trattamento. In ogni caso, la penso come Marini: la libertà di coscienza è alla base dello stare insieme nel Pd.

Repubblica 14.2.09
L’eros spiegato ai bambini
di Jean-Luc Nancy


Un filosofo, Jean-Luc Nancy analizza impulsi e contraddizioni partendo da una celebre filastrocca

La carezza è un gesto sensuale rivolto all´essere dell´altro. È un tocco che esprime affetto speciale
Lui e lei rischiano Ognuno deve fare a meno del ripiegamento su di sé e del proprio narcisismo

Oggi giungerà San Valentino, Internet e le vetrine dei negozi sono pieni di suggerimenti per i regali da offrire a coloro che amiamo. Ma noi sappiamo anche che i regali possono non corrispondere affatto a un amore e addirittura possono mascherare un´assenza d´amore. Il regalo può tradurre la nostra predilezione, ma può anche non tradurre un bel niente, o soltanto la voglia di far vedere che ho fatto immensi sacrifici per poter offrire una collana, un diamante o chissà che altro.
Il gesto d´amore è quindi inevitabilmente la carezza, che non è subito una carezza sensuale, ma il gesto con cui mi rivolgo all´essere dell´altro, alla sua presenza. La carezza è un tocco che esprime un affetto speciale: noi infatti evitiamo di toccare le persone che non conosciamo affatto, quando siamo su un mezzo pubblico evitiamo il contatto con gli estranei a meno che non vi siamo costretti dall´affollamento. E d´altra parte, se noi toccassimo qualcuno deliberatamente questo gesto potrebbe essere visto come un tentativo di rimorchiare, una mimica di approccio amoroso.
La carezza ci insegna che quel che conta nell´amore è la presenza dell´altro, il tocco dell´altro, e in certo modo, nient´altro. Cosa vuol dire questa pura presenza senza niente d´altro? Significa che la sola cosa che conta è che l´essere dell´altro sia in me, inseparabile da me. Nell´amore, l´altro non diventa me, non si identifica con me, ma i due sono inseparabili, non possono fare a meno l´uno dell´altro come si dice, senza però essere uno solo, dato che per l´appunto sono due.
Questo non va esente da rischi, grandissimi rischi. Possiamo sbagliarci e confondere l´immagine dell´altro che portiamo in noi, cioè dell´altro così come noi lo vediamo, con la sua realtà, che è per forza diversa. L´esercizio dell´amore consiste proprio interamente nel compiere un continuo andirivieni fra l´altro reale e l´immagine così potente che abbiamo di lui.
Non è facile e può capitare che non ci si riesca, avete presente anche voi quante canzoni raccontano di storie d´amore finite male. L´amore espone a un rischio grandissimo, ma questo rischio è commisurato all´incredibile valore che diamo a un´altra persona. E noi le diamo questo incredibile valore perché ne abbiamo bisogno, perché ne riceviamo qualcosa.
L´amore ci dice che non stiamo mai veramente bene quando siamo soli, non siamo fatti per essere soli, così come non siamo fatti per stare in grandi gruppi. Ma non è soltanto questione di «star bene» con l´altro: è sapere che «c´è qualcosa fra noi», come si dice. Siamo fatti in modo tale da stabilire rapporti in cui «c´è qualcosa» fra noi e un altro o un´altra - qualcosa che non sarà mai possibile definire, ma un autentico rapporto, nel senso pieno della parola. Non dico che siamo tutti e sempre fatti per trascorrere l´intera vita con una sola persona e sempre con la stessa. Certo, l´amore ci porta ad affermare questo, parliamo di «amore eterno», ci giuriamo di amarci per sempre e poi qualche volta tutto finisce già nel giro di tre giorni: ma ciò fa parte del rischio di questo impegno assoluto.
Ma veniamo alle due ultime tappe della nostra filastrocca, «follemente, per niente». Per quanto riguarda «follemente», in realtà ci siamo già arrivati. C´è come una specie di follia nel rischio, nell´impegno, nel fatto di scegliere di dare all´altro e di ricevere dall´altro un valore al di là di ogni valore.
Esuliamo da tutto quel che è ragionevole nei rapporti fra le persone, ci impegniamo più di quanto potremmo fare altrimenti. Ci apriamo, ci sbilanciamo, e ci esponiamo a molto, è molto difficile sapere a che punto l´altro ci chiederà troppo. Ho ragione di ritenere che lui (lei) stia esigendo troppo o sono io a non saper andare abbastanza lontano? È una faccenda estremamente delicata, pericolosa, difficile. Questo rapporto così forte e unico fra due persone è difficilissimo, ciascuno dei due rischia molto perché ciascuno deve imparare a fare a meno della sua autosufficienza, del ripiegamento su di sé, di ciò che chiamiamo narcisismo.
La mia tranquillità è in pericolo, l´amore non porta quiete. Ma quando la non-tranquillità entusiasta precipita verso l´inquietudine angosciata, allora non va più bene.
Al limite dell´amore si trova persino la possibilità di distruggersi l´un l´altro. Il sogno degli amanti in tutte le grandi leggende è di morire insieme, come Giulietta e Romeo. Capita molto spesso alle anziane coppie che hanno vissuto insieme tutta la vita, di provare il desiderio di morire insieme. È molto penoso per loro pensare che uno sopravvivrà all´altra e dovrà proseguire da solo nella vita. L´idea di morire insieme vuol dire che la morte sarebbe forse l´unico modo di essere completamente insieme, mentre al contrario non esiste nulla di più vivo dell´amore.
Ma c´è anche una specie di follia quando l´amore ci chiede troppo. L´amore entusiasma, esalta, può portarci a chiedere troppo all´altro, a noi stessi, è una follia, ma una follia che dà la sua vera misura, una misura smisurata. L´amore chiede all´altro contemporaneamente una totale libertà e una totale appartenenza. In un certo senso la richiesta dell´amore è contraddittoria. Bisogna saper affrontare questa contraddittorietà.
Nel gioco della margherita speriamo sempre di terminare con «follemente». Appassionatamente, già non è male. Ma subito dopo «follemente», si arriva a «per niente», perché tutto può aver fine, spezzarsi senza ragione, così come ha avuto inizio. Questo non vuol dire che alla prima piccola contrarietà si debba lasciar perdere; se questo accade, allora non era amore. Ma se la contrarietà è più grande e durevole, può darsi che sia necessario e giusto fermarsi.
Il «per niente» della filastrocca vuol dire che l´amore, anche l´amore più vero, si può sempre perdere. Non è mai garantito; se un amore fosse garantito, non sarebbe amore. Noi facciamo solenni promesse, «ti assicuro, ti giuro» - è giusto farlo, in amore, ma noi sappiamo, come diceva un grande filosofo morto qualche anno fa, Jacques Derrida, che le promesse non esisterebbero senza la possibilità di non mantenerle.
La promessa lascia la possibilità di non essere mantenuta, non è un contratto, non esistono i contratti d´amore ma esiste la promessa. Con la promessa mi impegno, il che significa che voglio mantenerla eppure forse non la manterrò e questo non sarà per forza una colpa. Questa è un´altra faccenda ancora, la storia «di chi è la colpa?» se qualcosa va storto... Forse non c´è mai, o raramente, una semplice colpa, né la colpa è semplicemente di uno o dell´altro. Ma c´è solo l´essenziale fragilità, la temibile fragilità e difficoltà dell´amore.
Eppure la parola-simbolo dell´amore è proprio la fedeltà. Ancora una volta, questo non vuol dire che se l´amore finisce o se uno dei due tradisce, questo sia colpa di qualcuno. Ma ciò non impedisce che il simbolo dell´amore sia la fedeltà, parola che viene dalla stessa famiglia di fiducia e fidanzamento. Oggi, le persone si sposano meno di quanto facessero prima, ma ci si continua a fidanzare. In realtà, il fidanzato, la fidanzata, vuol dire colui o colei che promette, che dà la sua fiducia, la fedeltà che appartiene all´ambito della fede. L´anello che rappresenta l´«impegno d´amore» si chiama «fede». Non si tratta di un impegno a fare questo o quello di preciso, ma soprattutto a essere con l´altro, per l´altro, in un rapporto unico con ciò che l´altro è e con il suo stesso esistere.

Corriere della Sera 14.2.09
Anoressia, ora tocca agli uomini
Triplicato il numero di quelli che ne soffrono Un giovane su quattro è ossessionato dal peso
di Simona Ravizza


Identikit Sette su dieci sono diplomati, più della metà ha un reddito da classe media, tra i 19 e i 40 anni i più colpiti
Cause Prima l'attenzione maniacale per il fisico, poi l'odio per il cibo. Le radici in una vita di coppia sbagliata

L' attore hollywoodiano Dennis Quaid c'è cascato durante le riprese del western Wyatt Earp. Per interpretare il ruolo del celebre pistolero Doc Holliday, l'ex marito di Meg Ryan perde venti chili. Ma ben presto il suo dimagrimento si trasforma da esigenza di copione in malattia: l'anoressia. Quando la sua confessione esce sulla rivista Best Life è il 1994, e l'ossessione della bilancia al maschile appare un problema da divi: nella vita quotidiana i disturbi alimentari sono comunemente considerati roba da donne. Acqua passata. Oggi in Italia gli uomini che soffrono di anoressia sono 670 mila sui 3 milioni complessivi di malati (quasi l'80% sono ancora donne). È un numero che si è triplicato dall'inizio del Duemila. Lo dicono i dati dell'Aba, l'Associazione per la ricerca sull'anoressia, la bulimia e i disturbi alimentari (www.bulimianoressia. it, numero verde: 800.16.56.16). «È un fenomeno in crescita esponenziale — denuncia Fabiola De Clercq, fondatrice e presidente di Aba —. Adesso non si possono più chiudere gli occhi. All'origine, come per il sesso femminile, rapporti difficili con i genitori, vita di coppia sbagliata, traumi infantili ».
Uomini in guerra con il cibo
Nell'opuscolo diffuso nel 2005 dal ministero della Salute e da quello delle Pari opportunità, la stima degli anoressici ruota intorno all' 1% della popolazione maschile tra i 10 e i 60 anni (200 mila su un totale di 19 milioni e 500 mila cittadini). Dopo neppure quattro anni la percentuale è salita al 3%. Colpa di un'attenzione sempre più maniacale al fisico. Per le femmine l'obiettivo è entrare nei jeans taglia 36 di Zara, i maschi vogliono un corpo tutto muscoli e addominali. Di qui il termine vigoressia, utilizzato per indicare la fissazione per il fisico iper-palestrato, risultato di ore trascorse ad allenarsi, diete a basso contenuto calorico, occhi fissi sulla bilancia e controlli continui della muscolatura allo specchio. Nonostante la trasformazione del corpo i vigoressici si vedono sempre gracili e flaccidi. Fino a uccidersi di fatica e fame.
Non contano né titolo di studio né ceto sociale: quasi sette pazienti su dieci hanno in tasca il diploma (il 12% addirittura la laurea), il reddito è quello tipico della middle class per il 56,2% (per il 28,5% è alto, solo per il 15,3% basso). I più colpiti sono i maschi tra i 19 e i 40 anni (pari al 55,5% dei casi). Inutile sorprendersi: uno studio condotto nel 2006 dallo Iard, istituto specializzato nello studio dei fenomeni giovanili, mostra che un ragazzo su quattro tra i 15 e i 34 anni è ossessionato dal peso (per intercettare soprattutto i giovanissimi Palazzo Chigi ha appena istituito il sito web www.timshel.it).
Ma non finisce qui. Ormai l'anoressia maschile è diffusa a qualsiasi fascia d'età: il 7% dei malati ha meno di 12 anni, il 21% tra i 12 e i 18, il 16,5% è over 40. La comparsa dei disturbi alimentari avviene sempre prima. Ci sono, infatti, bambini che si ammalano già alle elementari.
Anoressici a dieci anni
Sono le dieci del mattino di ieri quando Stefano Vicari apre la posta elettronica. È il primario di Neuropsichiatria infantile dell'Ospedale Bambino Gesù di Roma (consulenza telefonica 24 ore su 24 allo 06.6859.2265, www.ospedalebambinogesu. it). In arrivo l'email della mamma di un bambino di dieci anni, alto un metro e 50, 31 chili. È una testimonianza che riassume la storia dei quasi 60 mila adolescenti che hanno visto comparire i disturbi alimentari prima di compiere i 15 anni (per l'8,5% dei maschi, infatti, l'esordio dell'anoressia avviene tra le elementari e le medie).
«Mio figlio è pelle e ossa: da novembre a oggi ha cominciato a non prendere più peso nonostante la sua crescita continua — scrive la donna —. Quando mi hanno chiamato a scuola per rinnovare il pagamento della retta per la mensa, ho scoperto che non mangia con la scusa che non gli piace nulla. Quando gli chiedo di cenare mi guarda con aria di sfida. Non vede l'ora di fare calcio, ma non per questo mangia di più. È convinto che magro sia bello. Io sono sempre stata piuttosto attenta alla linea e fissata con le diete. Non ho mai avuto neanche molta simpatia per i bimbi sovrappeso. Ma adesso sono davvero preoccupata ». Spiega Vicari: «In casi simili è indispensabile l'intervento di uno specialista. Il rifiuto del cibo può sfociare in disturbi alimentari gravi. Su 130 ricoveri l'anno per anoressia al Bambino Gesù almeno dieci sono maschi. È una malattia prevalentemente psichiatrica, seppure con un forte coinvolgimento del fisico, di cui si ha una percezione alterata ».
Diagnosi tardive
Le terapie sono prevalentemente psicologiche. «La sfida è riuscire a seguire i pazienti in modo multidisciplinare — sottolinea Giovanni Spera, docente di Medicina interna all'Università La Sapienza e responsabile del Centro dei disturbi alimentari del Policlinico Umberto I di Roma —. Bisogna curare il fisico debilitato, ma anche e soprattutto la psiche».
De Clercq è fiduciosa: «Gli uomini che si curano riescono a guarire almeno in sei casi su dieci. Ma per il sesso maschile il problema è la diagnosi tardiva. Loro si vergognano ancora più delle donne a chiedere aiuto ».
Gabriella Gentile, a capo del Centro dei disturbi del comportamento alimentare del Niguarda di Milano, 800 casi l'anno, il 10% che riguarda uomini (telefono 02.6444.2375, centrodca@ ospedale niguarda. it): «I ritardi nella diagnosi sono dovuti anche all'assenza di amenorrea, tipico disturbo femminile che fa frequentemente da spia per i disturbi alimentari».
Insomma: per gli esperti le statistiche che parlano di 670 mila malati sono riduttive. Ma una cosa è certa, come canta un altro vip che ha fatto i conti con la malattia, Daniel Paul Johns del gruppo australiano Silverchair, sei milioni di album venduti nel mondo: «Ana wrecks your life, Like an Anorexia life» Ana — che sta per la malattia — fa a pezzi la tua vita, come una vita di Anoressia.

Corriere della Sera 14.2.09
Lo psichiatra. L'esercizio fisico portato all'estremo maschera il disturbo alimentare finché non si manifesta chiaramente la malattia
«Il maschio si nasconde dietro comportamenti da atleta»
di Mario Pappagallo


Il padre che vuole imporre al figlio il modello del campione sportivo muscoloso e magro può essere una causa scatenante della patologia Psichiatra Mario Maj

Ma chi ha detto che anoressia e bulimia sono disturbi soltanto femminili? «E' vero, comunemente lo si pensa. Ma così non è». Mario Maj, 55 anni, seconda università di Napoli. E' a Roma per il tredicesimo Congresso della Società italiana di psicopatologia (Sopsi), di cui è presidente come lo è della Società mondiale di psichiatria (Wpa). Maj parla con i numeri. Eccoli: «I dati epidemiologici riportano una percentuale di maschi affetti da anoressia nervosa che varia dal 5% al 10% di tutti i pazienti che soffrono di tale patologia. Per quanto riguarda la bulimia nervosa sono addirittura il 10%-15% del totale dei casi». Ma si stima siano anche di più: circa il 20%.
I maschi anoressici, rispetto alle donne, sono meno preoccupati per il peso corporeo, meno insoddisfatti del proprio corpo e più interessati alla forma fisica in termini di accresciuta muscolosità e perdita di grasso. Gli uomini non presentano particolari preoccupazioni, ad esempio, per la grandezza delle cosce, delle anche e delle natiche, non essendo target adeguati di muscolosità. Sono invece interessati alla dimensione di spalle, vita e braccia. Target diversi. Da modella al femminile, da palestrato al maschile.
Quali i metodi adottati per essere «in forma» nella malattia? «Per controllare peso e forma — risponde Maj —, gli anoressici utilizzano lassativi e altri farmaci in maniera minore rispetto alle anoressiche (25% contro il 50%), ma sono maggiormente coinvolti in attività sportive che enfatizzano la forma fisica e sono più portati a utilizzare l'esercizio eccessivo come condotta di compenso. Sembra anche delinearsi nei maschi la tendenza a "nascondere" il disturbo alimentare dietro regimi alimentari previsti da attività come l'atletica e il jogging, considerate nella collettività espressioni di una sana condotta di vita». Insomma, lo sport «nasconde» la malattia. Non sembrano poi emergere grosse differenze fra i due sessi per quanto riguarda il perfezionismo o i rapporti interpersonali.
E l'identità sessuale? Maj annuisce: «Si stima che la percentuale di maschi anoressici che abbiano avuto esperienze o relazioni omosessuali vari dal 15 al 50% (contro l'1-6% nella popolazione maschile generale) e sia otto volte maggiore rispetto a quella riscontrata nelle donne anoressiche». L'identikit riguarda anche le famiglie. Studi condotti descrivono situazioni di abuso, separazione e divorzio dei genitori non dissimili dal campione femminile, ma presenti in misura maggiore rispetto ai maschi non affetti da disturbo del comportamento alimentare. Maj sottolinea: «L'ambiente familiare pare essere caratterizzato da un'alta richiesta di perfezione: i figli, nel tentativo di rispondere a queste richieste, spesso vivono sentimenti di scarsa autostima ed inadeguatezza». E aggiunge: «I padri dei maschi anoressici chiedono spesso ai propri figli di eccellere nello sport e di raggiungere un fisico muscoloso e mascolino ». Tarda adolescenza, prima età adulta: è il periodo in cui l'anoressia nervosa può colpire il cosiddetto sesso forte. Pressappoco lo stesso che nelle donne. «Anche se alcuni studi riportano la tendenza ad un esordio più tardivo e ad una durata di malattia inferiore — dice Maj —. Nei maschi la diagnosi risulta più difficile soprattutto a causa dell'assenza dell'amenorrea (assenza di mestruazioni), uno dei criteri diagnostici che nelle donne viene considerato indice di malnutrizione prolungata e di facile identificazione. La perdita di interesse sessuale e gli episodi di impotenza possono essere considerati indici altrettanto indicativi di uno stato di malnutrizione prolungata, ma sono di più difficile riconoscimento».
E conclude: «Anche perché i maschi hanno la tendenza a posticipare la richiesta di cure». La visita dallo psichiatra? Da evitare. «Mica siamo pazzi!», pensano e confermano. Così i numeri non tornano.

Corriere della Sera 14.2.09
Ipotesi dai test in laboratorio: il ruolo dell'acido ribonucleico (Rna) per l'origine della biologia
La vita? Un acido l'ha accesa
In provetta le molecole crescono. Sulla Terra trovarono una nicchia
di Giuseppe Remuzzi


In 30 ore l'Rna si replica 100 milioni di volte Ambiente adatto 3-4 milioni di anni fa Le ricerche allo Scripps Institute e ad Harvard

Come è cominciata la vita e perché non provare a farlo in laboratorio? «Fantascienza» dirà qualcuno. E lo era, certo fino a ieri, ma c'è chi sta provando davvero e con diverse prospettive a sciogliere il più affascinante dei misteri. Tre-quattro milioni di anni fa il mondo era fatto di oceani e lande vulcaniche. C'era una temperatura di 60-70 gradi, pochissimo ossigeno, anidride carbonica e azoto. «Chissà — ha pensato Stanely Miller nel '53 — che fra gas e fulmini non si siano create sulla Terra le condizioni per arrivare a composti organici, e poi a proteine, a cellule, in una parola alla vita». Così ha fatto scoccare una scintilla in una camera piena di ammonio, metano e altri gas. Si sono formati composti organici e aminoacidi, i costituenti fondamentali delle proteine. Ma nella miscela di Mill er i gas che c'erano davvero sulla Terra milioni di anni fa non c'erano. Quegli esperimenti sono stati ripetuti agli inizi degli anni Novanta usando i gas giusti ma così aminoacidi non se ne formavano proprio. S'è pensato che Miller avesse preso un abbaglio e per un po' questi studi sono stati abbandonati. Finché James Cleaves e Jeffrey Bada, ultimo studente di Miller, hanno ripreso i vecchi esperimenti con un'idea nuova. Sospettavano che se si parte da anidride carbonica e azoto si formano composti capaci di degradare gli aminoacidi. Così hanno ripetuto gli esperimenti del maestro con certi tamponi capaci di neutralizzare i composti azotati prima che possano danneggiare gli aminoacidi. In quelle condizioni aminoacidi se ne formavano eccome, e ce n'erano perfino di nuovi rispetto a quelli che aveva trovato Miller (Corriere, 17 ottobre 2008). Una volta stabilito che a partire dai gas dell' atmosfera primitiva si può arrivare a composti organici (con o senza l'aiuto dei fulmini, perché formaldeide e aminoacidi ci sono anche nelle meteore) il problema era capire come si passa dalle molecole organiche all'acido ribonucleico (Rna). L'Rna è fatto di nucleotidi legati fra loro. Ciascun nucleotide è composto di tre parti, la base (la lettera dell'alfabeto dei geni) una molecola di zucchero e un aggregato di atomi di fosforo e ossigeno che legano ciascuno zucchero a quello che viene dopo.
I ricercatori hanno provato per anni a sintetizzare Rna in laboratorio producendo basi e zuccheri e poi cercando di legarli fra loro con dei fosfati, ma così non funziona, tanto che qualcuno ha pensato che la vita di organismi fatti di Rna sia un gradino successivo rispetto a molecole più semplici che forse sono comparse sulla terra prima dell'Rna. Ma negli ultimi mesi le cose sono cambiate. Diversi ricercatori sono stati capaci di arrivare all' Rna da molecole semplici, proprio quelle che si trovavano sulla terra milioni di anni fa. I dettagli del percorso che ha portato a questi risultati non sono ancora completamente noti, ma lo saranno presto. Se lo si può fare in laboratorio non sorprende che l'Rna si possa essere formato spontaneamente sulla superficie della Terra dove, allora c'erano condizioni favorevoli. Queste reazioni hanno bisogno di una certa temperatura e un certo pH, proprio quello degli stagni di milioni di anni fa. Forse la vita è cominciata così, ma se tutto parte dall'Rna si dovrebbe ammettere che l'Rna è capace di replicarsi senza l'aiuto di altre proteine.
Proprio qualche settimana fa su Science, Tracey Lincoln e Gerald Joyce, che lavorano a Scripps Research Institute in California, hanno dimostrato che questo teoricamente è possibile. Hanno visto che frammenti di RNA sanno servirsi di nucleotidi liberi per unirsi a formare una molecola di RNA uguale alla molecola stampo già presente nella soluzione. Terminata la prima replicazione, le vecchie e nuove molecole di Rna si separavano divenendo stampi per una nuova replicazione. In 30 ore, la popolazione di Rna diventava 100 milioni di volte più grande.
Questo succede in provetta, ma sulla Terra milioni di anni fa l'Rna dovette trovarsi una dimora appropriata, una cellula insomma. Di questo si sono occupati altri ricercatori (tra questi Jack Szostak dell'Harvard Medical School di Boston) che hanno dimostrato come acidi grassi e altre molecole siano capaci di intrappolare Rna grazie a cicli di alte e basse temperature. Adesso Jack Szostak lavora per capire se si riescono a far evolvere queste protocellule con dentro il loro Rna a forme cellulari più avanzate. Sheref Mansy e David Deamer professori di bioingegneria a Boston e in California sono dell'idea che le strutture che hanno dato origine alla vita fossero molto semplici, acidi grassi fatti di alcol e zuccheri dispersi in un ambiente complesso. Vescicole, non cellule, avvolte da membrane del tutto prive di proteine di trasporto che però avevano imparato a prendere dall' ambiente tutto quello che serviva per sopravvivere e provare nel corso di milioni di anni a diventare cellule. E ci sono riuscite.

Corriere della Sera 14.2.09
Un intellettuale mitteleuropeo giudica il presente: bruciati tutti i valori, prevalgono restaurazione e rimozione del passato scomodo
Matvejevic. Siamo tutti ex
Destra, sinistra, comunisti pentiti, capitalisti delusi
di Predrag Matvejevic


Fino a qualche tempo fa attirava la nostra attenzione in primo luogo l'Est europeo, e un sistema sociale che crollava in quella parte della pianeta. Da meno di un anno, abbiamo iniziato a guardare non solo in quella direzione. I nostri sguardi s'incrociano e si perdono lontano, creando una paura quasi universale. Essa sembra unirci più che una globalizzazione che cercava a modo suo di «avvicinarci» gli uni con gli altri. Oggi, quasi tutto il mondo diventa più o meno «ex». Lo unisce la nostra inquietudine.
La caduta del Muro di Berlino e la fine della guerra fredda hanno visto una parte del mondo vivere un'esistenza in qualche modo postuma: un ex impero, numerosi ex Stati ed ex patti tra Stati, tante ex società ed ex ideologie, ex cittadinanze ed ex appartenenze, e anche ex dissidenze ed ex opposizioni. Era legittimo domandarsi che cosa significasse, in realtà, essere o dirsi «ex». Essere stato cittadino di un'ex Europa più o meno affrancata, di una ex Unione Sovietica disgregata, di una ex Jugoslavia distrutta? Essere diventato un ex socialista o ex comunista, ex tedesco dell'Est, ex cecoslovacco — cioè solo ceco o solo slovacco — , membro di un ex partito o partigiano di un ex movimento?
L'Est non aveva diritto esclusivo allo statuto di «ex». In Occidente e altrove, si conoscono bene degli ex stalinisti, ex colonialisti, ex-sessantottini (tanti, dappertutto), tutta una ex sinistra diventata nuova destra, una vecchia destra convertita al «neo liberalismo», una ex Democrazia Cristiana suddivisa tra destra e sinistra, che ha talvolta impoverito il cristianesimo senza arricchire la democrazia; una ex socialdemocrazia imbastardita sulla quale si sono innestati alcuni ex progressisti pentiti; un ex socialismo occidentale che si è tagliato via dalle sue stesse radici, un ex franchismo o un ex salazarismo diventati «europeisti ». Probabilmente, domani si parlerà di una ex Unione Europea che avrebbe rinnegato un Vecchio continente inerte e indeciso, colpevole per molti motivi. C'è un odore di ancien régime attorno a noi, odore d'infezione o di avaria. La morale sembra si adatti alle mille e una maniera di voltare gabbana, pronta a considerare qualsiasi rigore come una sopravvivenza.
Siamo anche testimoni di tante cose inattese e sorprendenti: quasi nessuno pensava che il «capitalismo finanziario» potesse fare tanto male al capitalismo stesso, metterlo in questione in un modo simile. Si pensava — e si prevedeva una volta — che a ciò avrebbe provveduto la lotta delle classi, radicalmente. Tanti di noi erano ingenui. La «crisi» che stiamo vivendo non permette più ipotesi scolastiche o riferimenti partitici. Dobbiamo viverla, non tutti nello stesso modo, ma sempre coinvolti, spesso malgrado noi stessi.
Dalla nostra esperienza precedente (penso a noi che abbiamo vissuto nell'ex Europa dell'Est), abbiamo appreso che lo statuto di «ex» è più grave di quanto non sembri a tutta prima: quell'«ex» è visto e vissuto come un marchio, talvolta come stimmate. È di volta in volta un legame, involontario, o una rottura, voluta. Può trattarsi di un rapporto ambiguo, quanto di una qualità ambivalente. Essere «ex» significa, da una parte, avere uno statuto mal determinato e, dall'altra, provare un sentimento di disagio.
Tutto ciò concerne tanto gli individui che la collettività, tanto la loro identità quanto le modalità della loro esistenza: una specie di ex istanza, a un tempo retroattiva e attuale. Il fenomeno è nello stesso tempo politico (o geopolitico se si preferisce), sociale, spaziale, psicologico. Pone più di una questione morale e mette in causa una morale precedente.
Non si nasce «ex», lo si diventa. Tanti rinnegamenti, rimaneggiamenti del passato o del presente sono in atto, auto-giustificazioni o aggiustamenti di percorso, fughe in avanti o all'indietro, modi di rifare o di disfare se non la propria vita almeno il nostro sguardo sulla vita.
Lo choc per quanto è accaduto e sta accadendo sembra tanto violento quanto imprevisto. Le transizioni, per quanto male assicurate all'Est, prevalgono ancora sulle trasformazioni. L'Occidente guarda innanzi tutto agli affari suoi. La democrazia proclamata in vari Paesi del mondo appare più spesso con le caratteristiche di una democratura (ho coniato questo termine all'inizio degli anni '90 per definire un ibrido tra democrazia e dittatura, non solo nei Paesi detti dell'Est). Un populismo penoso è sempre stato pronto a sostenere quasi tutti i regimi dubbiosi. La laicità è stata poco popolare in gran parte dell'Est e dell'Occidente, senza parlare del cosiddetto «Terzo mondo». Il «giocattolo nazionale» non ha mai perso la sua attrattiva. La cultura nazionale si converte facilmente in ideologia della nazione e sfocia spesso in progetti nazionalisti. L'idea di emancipazione scompare dall'orizzonte, «invecchiata» o «utopica ». I nostri discorsi sono sfasati, il loro centro di gravità sembra spostato.
Il mondo «ex» è pieno di eredi senza eredità, di svariate mitologie che si escludono reciprocamente: riedizioni del passato e del presente, immagini disparate e rimesse insieme alla leggera, schermi frapposti in fretta o griglie di lettura mal applicate, paradigmi messi in questione dalla loro stessa definizione. Le utopie e i messianesimi si vedono sistemati tra gli accessori di un passato irrecuperabile. Un aggiornamento della fede e della morale non sembra perseguito che in ambienti limitati e occasionalmente. Fino a poco tempo fa un post modernismo cercava, senza troppa fortuna, di imporsi sull'arte e sul pensiero per rimpiazzare ciò che nell'epoca precedente era stato acclamato come «moderno»: un ex modernismo criticabile, certamente, ma non insignificante. Le avanguardie, che hanno proclamato e svolto i loro ruoli, sono ormai «classificate». Le fonti della grande letteratura, generatrice di simboli, sembrano esaurite. Forme di decostruzione tendono a sostituirsi a sintesi poco soddisfacenti. Una nuova storia rifiuta di sottoporre la lunga durata, come la precedente, al vaglio degli avvenimenti. La vecchia università non è riuscita a riformarsi. L'invocazione dell'«immaginazione al potere» è da tempo dimenticata. Tutta una ex cultura non è riuscita, se non con gravi difficoltà, a impadronirsi in modo giusto e utile di quelle innovazioni offerte o richieste non solo dalla tecnologia.
Di alternative non ne sono venute né dalla destra né dalla sinistra. Cerchiamo almeno di vincere la paura. So che questo slogan sembra troppo modesto, ma non ne vedo un altro più affidabile.

Corriere della Sera 14.2.09
Spregiudicati su Darwin ma politically correct
di Dario Fertilio


Insomma, la teoria dell'evoluzione sta a destra o a sinistra? L'interrogativo irriverente viene da due giornalisti di formazione scientifica, Nicola Nosengo e Daniela Cipolloni, in un pamphlet scanzonato ma di impianto serissimo. Anche il titolo è gradevole: Compagno Darwin (edito da Sironi) induce al sorriso, «fa giovane», sdrammatizza piacevolmente lo scontro tra evoluzionisti e creazionisti. Il contenuto, poi, non tradisce le aspettative: la tesi è che l'opera del grande scienziato non sia di per sé né conservatrice né liberal, e tuttavia lo diventi secondo l'angolazione da cui la si affronta. Infatti, quando afferma l'origine naturale e non divina dell'uomo, tributaria soltanto al caso e alla necessità materialistica, il «compagno Darwin» si fa applaudire a sinistra. Ma appena comincia a spiegare il progresso della specie come il risultato di una «normale » selezione in cui emerge il più forte, o quando giustifica le differenze fra i sessi e le etnie, si fa arruolare immediatamente dall'altra parte. Aveva ragione Giorgio Gaber, dunque — ricordano i due autori — quando ironizzava sulla relatività di queste cose, tipo doccia «di sinistra» e vasca da bagno «di destra». Tuttavia, aggiungono, è giusto e inevitabile che ciascuno tiri Darwin per la giacca: la scienza, se non vuol condannarsi alla marginalità, deve accettare di sporcarsi le mani con la politica. Tutto bene, dunque, però il diavolo si nasconde nei dettagli. I due autori, così divertenti e irriverenti nel prendere in giro evoluzionisti bacchettoni e creazionisti imbonitori, si dichiarano nella prefazione infallibilmente certi di discendere dagli oranghi, dal «brodo primordiale » eccetera... insomma anche per rivendicare il diritto a essere irriverenti, sentono il bisogno di qualificarsi come «darwinianamente corretti».

il Riformista 14.2.09
Contemporanei "Storia europea della letteratura italiana": molti assenti
Per Asor Rosa gli ultimi non saranno primi
di Paolo Di Paolo


DE SENECTUDE. All'appello mancano i giovani Saviano e Giordano. Veronesi? «Ho letto solo "Caos Calmo"» Esclusioni motivate o indifferenza ? «È finita la «società letteraria, non si può leggere tutto». Di chi è la colpa?

Una cosa buffa è che nell'indice dei nomi Benigni è "Benigni Roberto Remigio". Una cosa prevedibile è l'assenza di Giulio Ferroni, collega ed eterno rivale. Una cosa tenera è la malinconia che da qualche parte sfugge all'autore. La Storia europea della letteratura italiana di Alberto Asor Rosa, pubblicata per Einaudi in tre volumi di oltre 600 pagine l'uno, si è già prestata a diverse letture: quella intenzionata a verificare l'architettura ideologica; quella mirata al censimento delle esclusioni eccellenti (nè Saviano nè Giordano); quella pregiudizialmente elogiativa.
Ma molte altre sono le possibili letture di quest'opera in ogni caso ammirevole. Una, più amena, potrebbe essere volta a evidenziare come il plurale maiestatis («pensiamo», «diciamo»), ragionevolmente utilizzato per larga parte della Storia, lasci, nelle pagine conclusive, sempre più spazio all'io, e perciò a umori personali più manifesti: «C'è un momento della vita - scrive Asor Rosa - in cui si smette di guardare quelli che camminano davanti a noi e lentamente ci si volge a guardare quelli che camminano dietro di noi: in questo movimento semi-circolare, molte cose si acquistano, ma anche molte se ne perdono. E l'occhio, comunque, non è più lo stesso».
È la zona de senectute, scritta con inchiostri perfino affettuosi (verso ciò che si è perduto). È finita la «società letteraria», dice Asor Rosa, tutto è più complesso e frammentario, magmatico; e poi, come si fa a giudicare uno scrittore di trenta o quarant'anni più giovane del critico? «I destini si sono separati: non abbiamo visto gli stessi film, non abbiamo sentito le stesse canzoni, non abbiamo coltivato gli stessi miti, non abbiamo amato le stesse persone».
Sembra che gli ultimi capitoli di questa Storia siano insomma stati scritti con un'aria parecchio perplessa, se non perfino di rinuncia. I libri che escono sono un'infinità, troppi ce ne sfuggono, e stare dietro a tutto è impossibile e ci carica di ansia, spiega in sostanza Asor Rosa; e qui sembra riecheggiare proprio l'odiato Ferroni di Quindici anni di narrativa, pubblicato nel 2001 - tra «incertezze e angosce» - nell'aggiornamento della Storia della Letteratura italiana Garzanti.
«Oltre le certezze» titola Asor il suo bilancio di fine Novecento. Dopo avere denunciato i limiti del suo percorso, teorizza il suo «personale criterio di lettura»: «c'è letteratura dove uno scrittore rivela un'identità, e c'è identità laddove si manifesta una forma». Che cosa vuole dire? L'assunto non è chiaro, lì per lì. Né tuttavia lo diventa quando Asor ci presenta i suoi autori contemporanei. Se un nome non c'è - avverte - è perché non risponde al criterio appena formulato; oppure perché l'autore della Storia «stava leggendo un gruppo di poeti del Seicento (…) e non ha trovato il tempo di leggere gli "ultimi"». Così diventa un pasticcio, però. Giordano non c'è perché Asor, mentre studiava il Seicento, non si è accorto della Solitudine dei numeri primi? o perché in tale bestseller non si manifestano identità e forma? O forse perché - come il critico ha dichiarato ai giornali - un libro solo è troppo poco? Però poi, quando scrive di Sandro Veronesi, dice «scusate, ma ho letto solo Caos calmo», il terreno comincia a franarci sotto i piedi. Le ampie, solide ricognizioni critiche dedicate a Dante o al verismo, qui si riducono neanche a micro-recensioni: a segnalazioni. Per carità, mica si può pretendere che di Veronesi si parli come di Petrarca; ma per esempio: dire che lo stile di Alberto Bevilacqua è «foriero di un rapporto cordiale di simpatia con il pubblico», ha senso? O ricordare che di Rosetta Loy «molto recente è il bello "Nero è l'albero dei ricordi"», ci aiuta a capire? L'ultimo libro di Dacia Maraini menzionato risale al 1990 (eppure cose molto importanti, per capire l'autrice, sono venute dopo).
Qui è in gioco lo statuto della contemporaneistica (così la chiamano nelle università). La maggioranza (tradizionalista) di docenti la snobba, giudicandola facile, inutile o frivola. Sempre meglio Petrarca. Appaltata quindi ai giornalisti, la volta buona che entra in una storia letteraria, possibile che entri tanto pasticciata? Considerate le difficoltà di messa a fuoco, non sarebbe stato meglio fermarsi ai morti, se il risultato doveva essere questo? Oppure radunare le "segnalazioni" dei contemporanei in un allegato transitorio, con data di scadenza? Un povero dottorando italianista senza borsa come chi scrive, altrimenti, come si raccapezza? Aspetta lumi, invece si confonde. Legge le quattro pagine su Eco in difesa del Nome della rosa e si domanda com'era quella storia di identità e forma.
Urge un ripensamento della contemporaneistica. O la cancelliamo, perché abbiamo deciso che è impossibile, fuori dai giornali, raccontare ciò che vive e in cui viviamo; oppure impariamo, con tutti i disagi del caso, ad accostarci a chi ci scrive accanto con più attenzione. Con più precisione. «Ricreare una "unità" là dove siamo di fronte alla disgregazione più totale»: ecco, ciò che ad Asor Rosa piace dei romanzi della Mazzucco, noi lo aspettavamo da lui, dalla sua Storia.

Liberazione Lettere 14.2.09
E finalmente ritorna la parola "ateo"

Caro direttore, vorrei esprimere un sentito ringraziamento a Roberta Ronconi che nella sua recensione a "Religiolus" di ieri ci ha regalato parole che non sentivo da tempo: "una simpatica e scanzonata boccata d'aria atea". Dopo anni di balbettii sulla profonda spiritualità dei credenti o sulla affermazione dell'assoluta conciliabilità fra essere comunisti e cristiani allo stesso tempo, finalmente torna la parola "ateo". Ora, con un po' di ansia aspetto che qualcuno osi dire perfino "non è dio che crea l'uomo, ma l'uomo che crea dio", frase sparita dal lessico della sinistra (ma quando è stata soppressa? e da chi ?) e poi, forse, un giorno, la mia preferita "la religione è l'oppio dei popoli"! Che sollievo poterla risentire. Non contenta la Ronconi ci aggiunge "la domanda delle domande: la religione è una vocazione o una malattia mentale? Gesù, Mosé e Maometto erano dei profeti, dei visionari o degli squilibrati?", forse è il film recensito a dire questo, ma non importa, lei ce lo ricorda e ce lo scrive. Io questa donna la amo. Domenica scorsa ho partecipato a Firenze alla due giorni dedicata alla laicità e ho dovuto notare che dire "il pensiero religioso è un nemico dell'essere umano, tanto quanto il potere politico delle gerarchie ecclesiastiche" riscuote consensi, ma anche qualche malumore. Pure in quel consesso. Credo proprio che i prossimi scontri sui grandi temi etici, sollevati dal progresso tecnico e scientifico (basti pensare all'ingegneria genetica) ci imponga una riflessione molto più profonda e articolata e lo sviluppo di una intelligenza molto maggiore sui grandi quesiti della vita e della morte, dell'umano e del disumano. Molto più di quanto non si sia fatto finora.
Fabio Della Pergola via e-mail

Oddio, si può arrossire su carta di giornale? Vedi i pomelli sulle mie guance prendere fuoco, caro Fabio? Ok, questo per dirti: grazie dei complimenti e della dichiarazione amorosa. In questi tempi di anoressia sentimentale, prendo e porto a casa. Sai, quando si sta da questa parte di un giornale (dalla parte di chi scrive, non di chi legge) spesso si ha la tentazione di non dirle, certe cose. Le hai ripetute tante e tante volte nella tua testa che ormai ti sembrano scontate. Come quello che ho scritto su "Religiolus". Ma non siamo tutti stanchi, sfranti, incazzati, per i modelli di vita che la nostra religione ci sta imponendo? Ma non è chiaro a tutti che ci stanno prendendo per il culo? Ma che davvero qualcuno crede nelle fiamme dell'inferno e QUINDI non uccide e deruba il prossimo né fa l'amore con chi gli pare altrimenti gli tocca passare un tempo infinito sul braciere? Sai qual è la risposta, Fabio? Sì, la sai. E non c'è nulla da dare supponentemente per scontato. Siamo nella merda, ed è meglio che ogni tanto ce lo ripetiamo l'un l'altro.
Roberta Ronconi
Ps: A proposito, quanti anni hai? ;)

venerdì 13 febbraio 2009

l’Unità 13.2.09
Dare voce al lavoro
Lo sciopero di oggi di metalmeccanici e lavoratori pubblici della Cgil segnala, come avviene in tutta Europa, l’allarme sociale per la crisi economica. Una crisi che chiama imprese e sindacati a grandi responsabilità e che dovrebbe spingere il governo a scelte coraggiose e responsabili
«La Cgil non si ferma il 4 aprile ci vediamo al Circo Massimo»
di Felicia Masocco


In piazza per avere risposte. «Il nostro obiettivo è questo, come lo era il 12 dicembre -dice Guglielmo Epifani -. A prescindere dal gradimento al governo, e a noi non piace molto, il nostro problema è ottenere delle risposte. Per questo premiamo, lottiamo, facciamo propaganda come si sarebbe detto un tempo, perché la crisi è destinata a crescere, perché i lavoratori non sanno dove sbattere la testa e non vorremmo che andassero ancora a sbatterla contro qualche manganello. Vogliamo risposte, a meno che il governo non giochi sull’esasperazione del conflitto».
Perché questo sciopero e come si colloca nella strategia della Cgil?
«Nasce dall’esigenza che avevano il sindacato della funzione pubblica e quello dei metalmeccanici di un’iniziativa forte e di lotta di fronte alle politiche del governo nei settori pubblici e all’assenza di una politica industriale e di intervento pubblico in quella che è la più grave crisi nel settore meccanico di tutto il dopoguerra. Due esigenze che poi si sono unificate anche per dare una dimostrazione plastica al tentativo di dividere lavoro pubblico e lavoro privato. L’iniziativa sta dentro il percorso della Cgil cominciato il 27 settembre, proseguito con lo sciopero del 12 dicembre e che continuerà con i pensionati il 5 marzo, con lo sciopero della scuola e con la grande manifestazione che si terrà il 4 aprile al Circo Massimo».
Avanti insomma, non sembra avere grande fiducia nel futuro prossimo. Che cosa teme?
«I nostri timori si stanno purtroppo realizzando, avevamo parlato di una valanga, ebbene sta arrivando e vuol dire fabbriche che chiudono, precari che perdono il lavoro, cassa integrazione che esplode, crisi produttiva. Avevamo chiesto al governo un intervento di qualità e non c’è stato. Tolta una manovra di 5 miliardi fatta per decreto e una, più subita che voluta, di sostegno alla domanda nei settori beni durevoli, il governo non ha fatto altro. Basti pensare che la somma stanziata, 7 miliardi, corrisponde a quella che Sarkozy ha proposto per le due aziende dell’auto francesi. Corriamo il rischio che, grazie anche alle proteste, alla fine il governo finirà per essere tirato a fare scelte di spesa ma di farlo troppo tardi, con le stesse risorse e con effetti minori».
A proposito dei francesi. C’è qualcosa che a dicembre non era accaduto, la mobilitazione dei sindacati in altri paesi. Si disse allora che eravate soli...
«... È così, c’è stato lo sciopero generale unitario in Francia, lo sciopero dei servizi in Germania, una settimana di mobilitazione indetta dalla confederazione europea dei sindacati per metà maggio, ci sarà la manifestazione annunciata a Londra prima del G20 con un 1 milione di persone e scioperi in altri paesi. Quindi all’obiezione che ci è stata fatta, in particolare dal segretario della Cisl, che eravamo gli unici che scioperare dentro la crisi, io rispondo oggi che in realtà uno dei pochi che non sciopera è proprio lui».
Raffaele Bonanni ha definito questo sciopero antagonista.
«È uno sciopero per chiedere un cambiamento della politica economica del governo, per le tutele ai precari e sostegno a occupazione e imprese. Non capisco che cosa ci sia di antagonista. Lui deve dirlo perché se riconoscesse la verità poi dovrebbe giustificare perché non si muove».
Non sarà anche perché lo sciopero è contro l’accordo sui contratti?
«Sulle regole non si possono fare accordi separati. E non dico solo o contro la Cgil. Noi non avremmo fatto un accordo sulle regole senza o contro Cisl e Uil o Confindustria».
Walter Veltroni propone una mobilitazione unitaria di sindacati e imprese per chiedere al governo un piano anti crisi? Si può fare?
«Trovo giusto dire che, come in Francia, c’è bisogno di una mobilitazione dei sindacati. E trovo corretto che un partito dica che anche le imprese debbano rivendicare politiche più adeguate. Occorre però che i soggetti siano d’accordo. Oggi ci stiamo muovendo solo noi. Cisl e Uil non fanno né scioperi né mobilitazioni. Nelle imprese c’è qualcosa in qualche settore, ma ho impressione che la presidenza di Confindustria non ci pensi proprio. Per mobilitarsi contro il governo bisogna avere autonomia nei confronti del governo: la Cgil ce l’ha, sfido gli altri ad averne».
Se è successo nel tessile che sindacati e imprese si siano uniti in difesa del made in Italy, può ripetersi. Non è un buon modello?
«È un’iniziativa rilevante. Settimane fa sindacati e imprese hanno chiesto al governo un tavolo per la crisi del settore, il governo non ha neanche risposto».
Si parla di disgelo tra la Cgil e il Pd. Più di cento parlamentari hanno aderito alla vostra protesta, Veltroni ha espresso vicinanza e comprensione ai lavoratori ma non ha soddisfatto i segretari di Fp e Fiom che gli rispondono “o dentro o fuori”. Concorda?
«No. Un partito può non aderire, ma le parole di vicinanza e comprensione sono comunque un passo in avanti rispetto allo sciopero del 12 dicembre».

Liberazione 13.2.09
Avanti, fino allo sciopero generale
di Paolo Ferrero


Salutiamo gli operai e le operaie, gli impiegati e le impiegate che hanno scioperato e oggi manifestano per le strade di Roma. Li salutiamo e li ringraziamo. Molti di loro sono in cassa integrazione, sono precari, vedono il loro posto di lavoro a rischio. Sono i lavoratori che stanno pagando per primi il prezzo della crisi e stanno pagando il prezzo più alto. A questi lavoratori Berlusconi e Confindustria vogliono ridurre strutturalmente il salario in virtù di un accordo separato firmato da Cisl, Uil e Ugl. Un salario che già oggi è vergognosamente basso a fronte di profitti altissimi e di scandalosi stipendi dei manager e degli alti dirigenti dello stato. La manifestazione di oggi è quindi una grande risposta di massa - dopo quella degli studenti - al tentativo di governo e padroni di scaricare interamente sui più deboli i costi della crisi. Un tentativo che non solo è ingiusto socialmente ma è anche dannoso sul piano economico.
Ogni riduzione dei salari e delle pensioni, ogni riduzione dello stato sociale non fa che aggravare la crisi. Questa non è il frutto di qualche speculazione finanziaria ma proprio il risultato di vent'anni di compressione salariale: i lavoratori non hanno i soldi per comprare i prodotti che fabbricano e gli imprenditori chiudono perché non riescono a vendere le merci e i servizi che le aziende producono.
Per questo l'accordo separato è una porcheria e questa manifestazione è sacrosanta.
La manifestazione di oggi è anche la prima risposta di massa all'offensiva berlusconiana che è andata in scena in questa ultima settimana. E non si dica che la manifestazione è su altri temi. L'attacco al contratto nazionale di lavoro e il tentativo di distruggere il sindacato di classe sono il presupposto dell'attacco alla Costituzione portato avanti dal piduista che abbiamo a Palazzo Chigi.
Berlusconi infatti non vuole solo cambiare la Costituzione formale, vuole distruggere la Costituzione materiale del paese. Così come vuole un potere sovrano incontrastato da realizzarsi con l'elezione diretta del presidente della Repubblica, così vuole consegnare in mano ai padroni il potere assoluto sui lavoratori. Nel progetto di Berlusconi ogni contropotere, ogni opposizione, ogni limitazione del potere - politico o imprenditoriale che sia - deve essere spazzato via.
Berlusconi vuole estendere a tutta la società quell'idea totalizzante di potere sovrano dell'impresa che Romiti ha reintrodotto a suon di casse integrazioni e licenziamenti a partire dalla Fiat negli anni '80. Non esiste oggi nessuna possibile separatezza tra lotta sociale e lotta democratica perché l'offensiva governativa è sui due fronti. La democrazia si difende anche lottando per il salario e una difesa della Costituzione che non chieda l'estensione della cassa integrazione per ogni lavoratore che perde il posto di lavoro rischia di essere completamente inefficace.
Dalla lotta di oggi contro l'accordo separato riparte quindi il movimento di opposizione nel paese e va a merito della Fiom e della FP della Cgil di aver indetto questa iniziativa. Adesso occorre allargare questa lotta, sia sui territori che arrivando allo sciopero generale. La costruzione dell'opposizione al governo Berlusconi e alla Confindustria, sul piano nazionale come su quello locale è infatti lo sbocco obbligatorio di questa manifestazione. L'opposizione è da costruire principalmente nel paese perché l'opposizione parlamentare procede a corrente alternata ed è sostanzialmente inutile. Mentre nel 2003 l'opposizione stava tutta quanta insieme alla Cgil a difendere l'articolo 18, oggi il Pd non ha aderito a questa iniziativa perché nella sostanza condivide i contenuti dell'accordo separato. La linea politica del Pd è oggi assai più in sintonia a quella della Cisl e di Confindustria che a quella della Cgil.
Dobbiamo quindi costruire l'opposizione di massa nel paese, sia sul piano sindacale che sul piano politico, nella piena consapevolezza che il Pd non sarà dalla nostra parte. Lavorare a costruire l'opposizione dal basso: questo è l'impegno che assumiamo come Rifondazione Comunista e in questa prospettiva dobbiamo lavorare nei prossimi mesi, ufficio per ufficio, fabbrica per fabbrica, quartiere per quartiere.

l’Unità 13.2.09
Cambio nel Pd. Una teodem al posto di Marino
di Jolanda Bufalini


Il senatore sostituito da Dorina Bianchi nella commissione sanità
Veltroni: la nostra politica sul testamento biologico non muta
Io non mi tirerò indietro, dice, rasserenante, battagliero, il senatore Marino. «Il mio impegno per una legge sul testamento biologico, che rispetti la libertà di cura e l'autodeterminazione di ogni persona, non è in discussione». La notizia che, nel pomeriggio di mercoledì la commissione Sanità aveva accolto le dimissioni di Ignazio Marino da capogruppo pd e il gruppo eletto alla (quasi) unanimità la senatrice Dorina Bianchi (un passato da teodem ora dell’area Fioroni) ha avuto l’effetto di una deflagrazione. Perché il senatore medico, cattolico e laico, firmatario della proposta di legge del Pd, lascia proprio nel mezzo della battaglia parlamentare sul testamento biologico?
In effetti l’affaire si presenta con molte sfaccettature. Già da ottobre, da quando è diventato presidente della commissione d’inchiesta sull’efficienza servizio sanitario nazionale, Marino aveva chiesto alla presidente del gruppo Anna Finocchiaro di lasciare. Lui stesso lo dice: «Data la mia esperienza di medico e le mie competenze specifiche in sanità, credo di poter essere utile in quel ruolo». Tutto vero, da tre settimane, ovvero dalla ripresa post-natalizia, la questione era all’ordine del giorno. Ma che il nodo si sia sciolto proprio ora e sul nome della senatrice Bianchi assume, «oggettivamente», dicono diversi senatori, un valore simbolico.
Il segretario del Pd però non ci sta. Walter Veltroni rivendica il suo personale impegno e il voto, proprio in Senato, «su una mozione contrapposta a quella del governo in cui si difende il diritto a decidere di sé anche per quello che riguarda la nutrizione e l’idratazione artificiale». «Questa - sottolinea Veltroni - è la posizione prevalente: che poi in un grande partito come il Pd, ci siano anche posizioni personali differenti su motivazioni di coscienza lo considero fisiologico».
La stessa tranquillità esprime la presidenza del gruppo del Senato, e rinvia ai quindici punti della mozione presentata dal Pd, alla quale hanno lavorato, oltre a Marino, Daniele Bosone e Albertina Soliani - entrambi cattolici provenienti dalla Margherita. In quella mozione si prevede - per il principio di autodeterminazione - la sospensione della nutrizione e idratazione artificiale, se anticipatamente espressa. Quella la posizione «condivisa» e la cartina al tornasole sarà il voto sul testo in discussione al Senato.
Fiorenza Bassoli è l’unica a non aver votato il cambio della guardia in commissione sanità. «Era ovviamente comprensibile - dice - l’esigenza di sostituire Marino». Comprensibile pure che vi sia quel lavoro di «bilancino» fra le diverse anime del Pd. «Ma anche così si poteva individuare una figura più dialogante. Bosone avrà pure avuto le stesse posizioni di Baio Dossi e Binetti, però è capace di mediare».
La senatrice neoeletta che ha scatenato la tempesta, intanto, mette in chiaro: «Io in commissione mi sono espressa a favore della legge del governo su Eluana. Ma martedì mattina, quando si sono votate le mozioni sul testamento biologico, ho votato il documento del Pd e non quello del Pdl, come invece hanno fatto altri colleghi del nostro gruppo». E Fioroni: «È della mia area ma è stata votata all’unanimità...fra un po’ siamo alla stella di David».
Però la discussione sul testo Calabrò (del governo), in Senato, prosegue serrata. Per Ignazio Marino è un testo brutto che «prima passa, prima sarà bocciato dalla corte Costituzionale». È un testo che non prevede le cure paliative e le misure in favore dei disabili. Per questo il senatore annuncia un maxi-emendamento. «Il mio impegno in Senato sarà ancora più intenso e continuerò a contrastare l'impostazione anticostituzionale e antiscientifica della legge della destra»,aggiunge.
Ci sarà un relatore di minoranza? A giudicare dagli umori, la presidenza del gruppo non potrà disinteressarsi della questione.

Repubblica 13.2.09
Cosa nasconde il caso Marino
di Miriam Mafai


Il senatore Ignazio Marino è uomo di parola oltre che medico, cattolico, presentatore della proposta del Pd sul "testamento biologico" e difensore della possibilità per il paziente di rifiutare anche l´idratazione e alimentazione forzata.
All´improvviso ha dovuto lasciare l´incarico di capogruppo nella Commissione Sanità del Senato, per andare a presiedere la pur importante Commissione di Inchiesta sul Servizio sanitario nazionale. Al suo posto è stata chiamata la senatrice Dorina Bianchi, cattolica, che tre giorni fa aveva dichiarato: «Nonostante l´orientamento del mio partito avrei votato sì al decreto del governo sul caso Englaro». (Si tratta, per chi non lo ricordasse del decreto che, dopo le osservazioni del presidente della Repubblica, è stato di necessità ritirato).
Il senatore Ignazio Marino è uomo di parola. E quindi saremmo obbligati a credergli anche quando dichiara, come ha già dichiarato, che la sua sostituzione non ha nessun significato politico. Ma su questo mi permetto di avere più di un dubbio. Il passaggio della barra di capogruppo da Marino alla Bianchi (e non, per esempio a un altro autorevole senatore come Umberto Veronesi) rendeva legittimo il dubbio che il Pd, dopo avere condiviso, sia pure con qualche difficoltà, il progetto di legge presentato e difeso da Marino si preparasse a rivedere la sua posizione. O a ulteriormente ammorbidirla.
Deve essere stata questa l´impressione anche di molti elettori del Pd che nella stessa mattinata di ieri hanno espresso (sia benedetta la rapidità del mezzo telematico) il loro dissenso. E finalmente, per rassicurarli (e per rassicurarci) è giunta una lettera di Walter Veltroni al nostro giornale. Con questa lettera il segretario del Pd ha affermato con forza, il suo «no» al disegno del governo in tema di testamento biologico, e garantito che il suo partito difenderà in Commissione e in Parlamento, il testo di legge già presentato da Marino. Un testo di legge che, tra l´altro, prevede che ognuno di noi possa, nel suo testamento biologico (o Dichiarazione anticipata di trattamento) rifiutare la idratazione e alimentazione artificiale ove fosse ridotto nelle condizioni di Eluana.
Walter Veltroni è uomo di parola. E io gli credo. Anche se non mi è chiaro, (forse per la mia scarsa conoscenza dei meccanismi parlamentari) come Dorina Bianchi, appena nominata capogruppo del Pd, possa domani difendere in Commissione e nell´aula del Senato, un testo di legge, quello di Marino, contro il quale si era già espressa tre giorni fa, votando invece il testo della maggioranza.
La politica non può, come talvolta pure è stato autorevolmente detto, fare un passo indietro di fronte a interrogativi e problemi di tanta delicatezza. Certo, deve muoversi, su questo terreno, che si è convenuto chiamare della bioetica, con grande sensibilità, intelligenza e rispetto delle opinioni degli altri. E grande attenzione, non prevenuta, alle acquisizioni della scienza. Sono passati ormai trent´anni dalla faticosa approvazione di quella legge sull´aborto che, per la prima volta proponeva al Parlamento ed alla pubblica opinione un tema di forte valenza etica. Quella legge porta la firma di sei ministri democristiani, tra cui Andreotti (anche se in questi giorni qualcuno dell´attuale maggioranza gliene ha fatto pesantemente carico).
Da allora ad oggi, e nessuno poteva prevederlo, anche in virtù dei progressi della scienza, i problemi che generalmente definiamo di «bioetica» hanno fatto irruzione nella nostra vita quotidiana e nella vita politica. Non è giusto, e non è possibile, tracciare in questa materia una linea di confine e di rottura tra credenti e non credenti, laici e cattolici.
E infatti, anche in questo caso, sul tema del testamento biologico oggi in discussione al Senato, la divisione non passa tra laici e cattolici. Nello stesso Pd infatti non mancano i cattolici «adulti» che, quale che sia la posizione del cardinale Barragan e delle gerarchie vaticane, hanno già espresso la loro adesione al progetto di legge del senatore Marino, cattolico dichiarato.
La lettera che ci ha inviato Veltroni, sgombra il terreno da un altro possibile equivoco. Il diritto di ogni parlamentare di esprimere, su un caso delicato come quello del fine vita (come, del resto, su altri problemi) la propria volontà e la propria opinione, non deve fare immaginare che su quel problema non esista una precisa, meditata opinione del partito al quale si aderisce. Un partito, anche quando nasca, come il caso del Pd, dall´incontro e dalla confluenza di diverse culture, è necessariamente chiamato a definire una propria identità anche quando questo comporti la necessità di operare scelte difficili su questioni controverse. A condizione che questo avvenga nel rispetto delle opinioni diverse che possono manifestarsi e che nel corso del dibattito potrebbero divenire maggioritarie.

l’Unità 13.2.09
Viaggio tra le rovine della sinistra israeliana
«Siamo senza identità»
I laburisti al minimo storico hanno pagato il prezzo della guerra a Gaza
Saltati i legami con i più deboli, persi anche i kibbutz. Il Meretz in declino
di Umberto De Giovannangeli


Tramortita dal voto «utile». Orfana di identità. In deficit di leadership. Socialmente «spiantata». Ha provato a risollevarsi dimostrando di essere più affidabile, almeno il suo capo, nel condurre una guerra. Ma sul quel terreno, i falchi della destra l’hanno battuta. Viaggio tra le macerie della sinistra israeliana, devastata dal voto del 10 febbraio.
Il tracollo. Viaggio tra militanti delusi, dirigenti in fuga, sedi vuote. Viaggio tra giovani attivisti che chiedono una svolta radicale e un recupero di quei principi, quel rigore, quella coerenza che furono a fondamento del pionierismo sionista. Per capire il disastro elettorale del Labour è cosa utile visitare i sobborghi di Tel Aviv, popolati da una umanità sofferente, senza protezione e garanzie sociali.
I deboli tra i deboli hanno voltato le spalle alla sinistra. «Ho perso il lavoro, l’assistenza, ora rischio di essere buttato fuori di casa, io, mia moglie e i miei tre bambini. A offrirmi un aiuto è stata gente del Likud non l’Histadrut (l’organizzazione sindacale legata al Labour, ndr.), racconta Avigdor Verter, 35 anni, da due senza lavoro.
Le ragioni dei più deboli non hanno trovato spazio nella campagna elettorale del Labour, tutta giocata sulle capacità di condottiero militare del «soldato più decorato d’Israele»: Ehud Barak.
Il Labour ha perso nei suoi insediamenti tradizionali. Tra i giovani. Nel ceto medio delle professioni. Tra i lavoratori dei servizi. Nei kibbutz che furono un pilastro sociale su cui i pionieri sionisti fondarono lo Stato d’Israele. Devi salire nel nord d’Israele e visitare il kibbutz Metzer per comprendere cosa significhi, in termini di perdita di consenso, lacerare una storia, violare una identità. Metzer, il «kibbutz pacifista». Una comune fondata nel 1953 da un pugno di attivisti d’origine sudamericana dell’Hashomer Hatzair, movimento della sinistra pacifista che crede nel dialogo. La gente di Metzer non si riconosce più nel Labour e neanche nel Meretz, la sinistra sionista. «Ho visto in televisione Barak gloriarsi per i successi militari a Gaza. Quei “successi” erano centinaia di bambini uccisi nei bombardamenti. Come potevo votare uno così», si lascia andare Lily Ravid, 28 anni e un passato di attivista in «Peace Now», il movimento per la pace israeliano. «Io ho votato Kadima. Perché a guidarlo è una donna e perché era l’unico modo per fermare Bibi» (Benjamin Netanyahu, il leader del Likud, ndr.), s’inserisce Emy Kupfer, un’amica di Lily. «I dirigenti laburisti non hanno saputo parlare ai giovani. Sono sembrati vecchi, indecisi, sulla difensiva rispetto ai vari Netanyahu, Lieberman», aggiunge Roni Singer, 21 anni, studente all’Università Bar-Illan di Tel Aviv.
Nei kibbutz, un tempo imprendibili bastioni elettorali laburisti, Kadima ha conquistato il 31,1% dei voti, scavalcando il Labour (30,6%). Il disastro è ancora più marcato nei moshav – i villaggi collettivi suburbani, popolati dalla media borghesia acculturata -: qui il Kadima di Tzipi Livni ottiene il 28,8% dei voti contro il 16,5% del Labour di Ehud Barak.
Identità cercasi. Torniamo a Tel Aviv per incontrare due personalità controcorrente che hanno fatto la storia dell’Israele del dialogo. La sinistra sionista? «Schiacciata in mezzo ai binari fra il treno di Tzipi e il treno di Bibi». Prova a esorcizzare lo shock con una battuta Yossi Sarid, uno dei fondatori del Meretz, più volte ministro, ora tra gli scrittori più letti d’Israele. Ma la battuta non cancella il bisogno di autocritica per una batosta di portata storica subita alle elezioni del 10 febbraio. Suggellato dal tracollo a 13 seggi dei laburisti, eredi di una tradizione ideologica che, da David Ben Gurion in poi, aveva tenuto per decenni banco sulla scena politica dello Stato ebraico. E completata dal declino del Meretz a quota tre: due in meno delle briciole che aveva raccolto nel 2006, prima della fusione col «movimento degli scrittori» Grossman, Oz e Yehoshua.
Sarid non vede attenuanti e non ne cerca. Guardando ai elettorali, concorda con gli analisti che spiegano il rovescio con un travaso di voti da entrambe le forze tradizionali della sinistra (o di centro-sinistra) verso Kadima, il partito centrista della Livni, in funzione di contenimento del Likud di Netanyahu e delle formazioni di destra radicale.
Uno spostamento che ha consentito in effetti a Kadima di reggere e tenere la maggioranza relativa, ma senza impedire una globale avanzata delle destre. E - nota Sarid - al prezzo d'una decimazione dello schieramento progressista. Il suo giudizio sugli umori prevalenti nel Paese è del resto liquidatorio. E non riconosce sfumature.
Sinistra muta. «Siamo stati investiti da un'ondata nazionalista e fascista», sentenzia, deplorando che «in campagna elettorale la sinistra non abbia saputo farsi sentire, né distinguersi». «Non lo hanno fatto i laburisti - gli fa eco Shulamit Aloni, più volte ministra, fondatrice del Meretz - associandosi a una guerra, quella dell’operazione Piombo Fuso nella Striscia di Gaza, che ha alimentato un odio irrazionale verso gli arabi e ha portato voti solo al signor Lieberman, un anti-democratico della peggior specie, il quale pretende di negare la cittadinanza a chi non è fedele allo Stato». Ma «non lo ha fatto - riprende Sarid - nemmeno il Meretz, incapace di far pesare al dunque i suoi temi forti: i diritti dell'uomo e del cittadino, la difesa della natura, l'istruzione». L’ultimo passaggio è in una sede periferica del Labour. Qui incontriamo Yoni e Yael, 19 e 18 anni, attivisti del movimento giovanile laburista. «È stata una brutta botta – dice Yoni – che deve farci riflettere su cosa significhi negare i principi, i valori, che sono stati alla base della nostra storia». «Sì – aggiunge decisa Yael – è come se ci fossimo vergognati di noi stessi, della nostra identità, delle battaglie che avevamo condotto per la pace, i diritti dei più deboli, la giustizia sociale». «E invece è da qui – conclude Yoni – che dobbiamo ripartire. Orgogliosi di ciò che siamo». Tra le macerie della sinistra germogliano dei fiori.

l’Unità 13.2.09
Caso Englaro. La verità e le menzogne
di Emma Bonino e Gianfranco Spadaccia


La lotta contro il tempo per ottenere in fretta l’approvazione della legge che avrebbe dovuto “salvare” Eluana Englaro è stata condotta a suon di insulti e di menzogne. Gli insulti si qualificano da sé e soprattutto qualificano chi li ha lanciati. Alle menzogne invece risponderemo nel convegno «Verità e menzogne a proposito di “eutanasia”, Luca Coscioni, Piergiorgio Welby, Eluana Englaro» (domani, ore 10, al Piccolo Eliseo di Roma) al quale parteciperanno fra gli altri Ignazio Marino, Furio Colombo e Stefano Rodotà. In attesa che riprenda lo scontro sul merito della legge sul testamento biologico, vorremmo riportare l’attenzione su due argomenti usati contro di noi e che forse non sono stati colti in tutta la loro gravità a causa del concitato clamore politico-mediatico che ha accompagnato gli ultimi giorni di Eluana. Il primo è l’accusa di Berlusconi di essere, noi, degli “statalisti”. Berlusconi ci ha abituato alle barzellette, però faremmo male se passassimo questa sotto silenzio. Non solo perché in materia di vita e di morte c’è poco da scherzare ma perché questa sortita del Premier s’inserisce nella campagna rivolta ad alimentare l’equivoco che con la legge si voglia attribuire allo Stato un potere sulle nostre vite quando è esattamente il contrario: ciò che si vuole difendere è la facoltà della persona di scegliere se sottoporsi o no ad alcune terapie. Ma come: Berlusconi, Sacconi, Eugenia Roccella, l’intero governo e la sua maggioranza si propongono di toglierci questo diritto di scelta e d’imporci, non solo in caso di coma irreversibile, idratazione e alimentazione forzata e poi saremmo noi gli statalisti? E chi sceglierà per noi dal momento che Sacconi ha già annunciato la contrarietà del governo all’indicazione di una persona di fiducia esecutrice della mia volontà?
Il secondo argomento, ancor più grave, è quello che intima al Parlamento e al Diritto di lasciare intorno al malato una “zona grigia” (sono le parole testuali usate da Angelo Panebianco sul Corriere della Sera), in cui a decidere sarebbero la pietà e l’affetto dei familiari supportati, immaginiamo, da qualche centinaio di euro al personale medico o paramedico. Per l’aborto, prima della legge 194, questa zona grigia è sempre esistita: si chiamava “aborto clandestino”. Nel silenzio e nell’ipocrisia dovremmo ora rassegnarci ad una sorta di “fine vita clandestina”? Papà Englaro ha fatto scandalo proprio perché non ha voluto risolvere nel silenzio e nell’ipocrisia il dramma di sua figlia, perché ha creduto nella Costituzione, nella legge e nel diritto. Così facendo ha scosso e turbato le nostre coscienze, ci ha obbligato a interrogarci, a scegliere e a dividerci, mostrando a tutti che la contrapposizione non è fra il partito della vita e quello della morte, ma fra chi difende il diritto di autodeterminazione della persona e chi, invece, lo nega.

l’Unità 13.2.09
Nel nome del corpo
di Lella Ravasi Bellocchio


Passa dalle suore Misericordine il corpo-reliquia, il corpo feticcio di bambola trafitta della amata Eluana.
Amata da chi? Dalle suore che volevano trattenere per sempre, contro la volontà dei genitori, la reliquia? Che scambiavano per messaggi e sorrisi gli spasmi incontrollati?
Amata da chi? Dai genitori, da una madre che si porta nel proprio corpo la ferita, da un padre che la ama di una asciutta dolorosa verità, in una ricerca di senso che ha voluto dire per questi lunghi anni liberarla dall'essere diventata (contro tutti i suoi voleri) una reliquia. Che cosa è il feticcio e che cosa unisce questa storia dolorosa all'uso che Berlusconi ne ha fatto all'interno di una "strategia feticista" da cui è pervaso? Il principio di base della strategia feticista è di trasformare qualcosa di strano e intangibile in qualcosa di familiare e tangibile. Il termine "feticcio" nasce dal portoghese feitiço che vuol dire "falso". La venerazione si sposta su un oggetto dotato di poteri magici, un "falso" che diventa "vero", un corpo feticcio. La perversione non va intesa come pratica sessuale, non si tratta di usare fruste e tacchi a spillo, ma chi è animato come Berlusconi da una strategia feticista sa bene come usare il falso per trasformarlo in vero. L'uso perverso che fa del potere assomiglia sempre più al feticcio del suo proprio corpo. Usa il parlamento come una protesi; il suo mito faustiano di vita eterna passa dal capello falso al tenere in vita l'immagine squallida del grande seduttore, con le sue ciniche e volgari battute. Tutto in lui è reality non realtà. Cioè il falso per il vero. Ma questa volta ha veramente fatto troppo. L'uso del corpo-feticcio di Eluana nella sua fantasia libero di fare un figlio racconta un delirio e una perversione su cui lui non ha più il controllo. I pochi testimoni a cui il padre ha concesso di vedere quel che restava della figlia perduta tanti anni fa ci hanno mostrato con le parole la devastazione. E questo ci ha toccato in corpo anima e psiche, cioè nell'intero di cui siamo fatti. Va da sé che nella sua onnipotenza al signor B. tutto è dovuto e l'attacco a Napolitano gli spetta. Fa parte del suo "pensiero magico". L'onnipotenza maschera l'impotenza e l'angoscia di morte, come sappiamo. Come la strategia feticista maschera la perdita di contatto con la realtà inventando un falso come se fosse vero. Ma l'Italia si sta ribellando, civilmente, e si identifica in buona parte in un suo Presidente che tiene il controllo e la misura, e anche in un padre eroico che è un uomo perbene, che ha una parola e questa spende: dignità e rispetto, sottraendo il corpo della figlia a mani che lo hanno toccato, per anni, lo libera dall'essere reliquia, feticcio, "altro" da un corpo intero fatto di materia e di psiche. Lo lascia andare, nella legge, con rispetto e pudore. Abbiamo a che fare con padri nobili e altri ignobili. A ciascuno il suo.

l’Unità 13.2.09
Il diritto e l’emozione
di Luigi Manconi


La via crucis di Eluana è destinata a lasciare un segno indelebile nella coscienza del nostro Paese. Raramente è accaduto che un viluppo di emozioni e ragioni, di sensibilità e diritto, di dolore e legge diventasse materia tanto incandescente e tanto popolare. Eluana, come si dice, “ha fatto giurisprudenza”: ha prodotto conflitti giuridici e sentenze, proposte di legge e controversie costituzionali. Quel corpo assente è stato fattore destabilizzante in un quadro ideologico e politico istituzionale tendente all’immobilità come quello italiano: e ciò non in ragione di quella che alcuni volevano vita, nonostante il simulacro al quale era ridotta, bensì proprio in virtù della sua non esistenza come vita vitale. Ovvero, non a causa di quel prolungamento artificiale al quale l’ostinazione terapeutica e l’accanimento del legislatore la volevano condannare, bensì in virtù della capacità della sua famiglia di rendere la sua non-vita qualcosa di simbolicamente pregnante e di moralmente ineludibile. In questi casi, si sente spesso dire (da destra come da sinistra, ahimè): non si può decidere “sull’onda dell’emozione”. Si tratta di una truffa bell’e buona. Cos'è la politica, nella sua fondazione più nobile, se non la capacità di cogliere il “fattore umano2 e i bisogni più intensi e di dar loro una trascrizione nella sfera pubblica? Come potrebbe, la politica, non decidere in base all’emozione quando quest’ultima richiama questioni cruciali come quelle “di vita e di morte”, dalla fecondazione assistita al Testamento biologico? Ignorare quell’emozione sarebbe come ignorare l’essenza stessa della soggettività umana e accettare che l’azione pubblica si riduca a mera amministrazione e tecnica di governo.
La giurisprudenza italiana e quella sovranazionale si pronunciano sempre più spesso sui temi sciaguratamente definiti “eticamente sensibili” e lo fanno assumendo, pressoché unanimemente, il punto di vista dell’autonomia individuale come base giuridica fondamentale. Così è successo nella vicenda di Eluana Englaro, dove le sentenze della magistratura hanno posto l’accento sulla soggettività di Eluana, pur attraverso la mediazione rappresentata dalla parola dei genitori. E qui la figura del padre è risultata straordinariamente importante. Bepino mai ha ceduto alla commozione, mai ha versato una lacrima in pubblico, mai ha consentito che i sentimenti rompessero le sue parole. Il suo volto è davvero roccioso, nel significato originario di quel termine ormai banalizzato. La riservatezza fino all’ombrosità poteva essere superata solo dal dolore più atroce: così è stato. È l’emozione più intima quella che fa superare inibizioni e reticenze. Ed è quella stessa emozione che diventa forza per affrontare la politica e il diritto, interloquire con essi, penetrare dentro le stanze della prima e del secondo, determinare le sentenze dei tribunali e l’intervento (tardivo e, temo, disastroso) del Parlamento. È molto probabile, già lo vediamo, che con l’epilogo della vicenda la famiglia Englaro si adopererà per farsi dimenticare. E tuttavia, quei nomi, Eluana e Bepino, sono destinati a rimanere a lungo nella nostra memoria civile.

Repubblica 13.2.09
Se scatta il divieto di pubblica opinione
di Giuseppe D’Avanzo


Con la nuova legge sulle intercettazioni non conosceremo più le storie che spiegano il paese e i comportamenti degli uomini che lo governano

Quante storie, con i nomi, i tempi, le frasi e gli esiti giusti non potrete conoscere mai, se dovesse essere approvata la legge sulle intercettazioni che disciplina anche il diritto di cronaca. Diciamo meglio, che cancella il dovere della cronaca e il diritto del cittadino ad essere informato. Che cosa ha imposto il governo alla sua docile maggioranza?
Con un tratto di penna ha deciso che il regime che oggi regola gli atti giudiziari coperti dal segreto si estenda anche agli atti non più coperti dal segreto. Il governo vuole che non si scriva un rigo fino al termine dell´udienza preliminare (accusa e difesa, con i loro argomenti, dinanzi a un giudice terzo). Si potrà sapere che un pubblico ministero senza nome sta accertando che a Roma le sentenze si vendevano all´incanto. Non si potrà dar conto delle fonti di prova e scrivere che il corruttore di toghe si chiama Cesare Previti e si è messo in testa addirittura di fare il ministro di giustizia. Si potrà scrivere che qualcosa non torna nei bond di una società quotata in Borsa e un´innominata toga se ne sta occupando, ma non si potrà dire del pozzo nero che ha inghiottito i modesti investimenti di migliaia di piccoli risparmiatori che hanno avuto fiducia nelle banche e in Parmalat. Si potrà dar conto di un gestore telefonico che ha "schedato" illegalmente migliaia di persone. Non si potrà raccontare che il presidente della Telecom Marco Tronchetti Provera si è lasciato ingrullire, povero ingenuo, dal capo della sua sicurezza, Giuliano Tavaroli. Né tantomeno si potranno elencare i nomi degli "spiati". Lo si potrà fare soltanto a udienza preliminare conclusa (forse). Con i tempi attuali dopo quattro o sei anni. In alcuni patologici casi, dopo dieci. La pubblica opinione dovrà attendere, anche se quei protagonisti sono personaggi pubblici che chiedono fiducia al Paese per rappresentare chi vota e governare il Paese o amministratori pubblici e privati a cui è stata affidata la nostra salute, i nostri risparmi, la nostra vita. È inutile tediarvi con le tecnicalità. Qui basta forse dire che finora ce la siamo cavata muovendoci lungo il sentiero stretto di un articolo della procedura penale, il 329: «Gli atti d´indagine compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria sono coperti dal segreto fino a quando l´imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari». Come abbiamo scritto e ripetuto spesso, in questo varco hanno lavorato le cronache. Sarebbe uno sciocco errore negare gli abusi, gli eccessi, la smoderatezza in cui pure è caduto il giornalismo italiano. Ma, se si rispettano i confini dell´articolo 329, si possono tenere insieme i tre diritti che il dovere professionale del giornalista è chiamato a tutelare: il diritto della pubblica opinione a essere informata; il diritto dello Stato a non vedere compromessa l´indagine; il diritto dell´imputato a difendersi e a non essere considerato colpevole fino a sentenza. Nel triangolo di questi tre diritti, il giornalista può fare con correttezza il suo mestiere, proporre al lettore le fonti di prova raccolte dall´accusa e gli argomenti della difesa, valutare l´interesse pubblico di quelle storie. Perché non ci sono soltanto responsabilità penali da illuminare in questi affari. Spesso diventano cronache del potere tout court, come è apparso evidente nel racconto dei maneggi della loggia massonica di Licio Gelli; della fortuna della mafia siciliana o dei traffici di Tangentopoli, delle imprese di chirurghi più attenti al denaro che non al malato e alla malattia. Quelle cronache sono un osservatorio che permette di vedere da vicino come funzionano i poteri, lo Stato, i controlli, le autorità, la società. Svelano quale tenuta ha per tutti, e soprattutto per coloro che svolgono funzioni pubbliche, il rispetto delle regole. Indicano spesso problemi che impongono nuove soluzioni. L´incontro ravvicinato con le opacità del potere ha in qualche caso convinto il giornalismo ad andare oltre i confini del codice penale violando il segreto. È il suo mestiere, piaccia o non piaccia. Perché non c´è nessuna ragione accettabile e decente per non pubblicare documenti che raccontano alla pubblica opinione - è il caso di un governatore della Banca d´Italia - come un´autorità di vigilanza, indipendente e "terza", protegge (o non protegge) il risparmio e il mercato. Naturalmente violare la legge, anche se in nome di un dovere professionale, significa accettarne le conseguenze. È proprio sulle conseguenze di violazioni (finora comunemente accettate) che la legge del governo lascia cadere un maglio sulla libertà di stampa. È stato già raccontato da Repubblica che Berlusconi abbia sorriso ascoltando i suoi consiglieri chiedere «più galera per i giornalisti» (fino a sei mesi per un documento processuale; fino a tre anni per un´intercettazione). Raccontano che Berlusconi abbia detto: «Cari, lasciate dire a me che sono editore di mestiere. Se li mandi in galera, ne fai degli eroi della libertà di stampa e magari il giornale per cui lavorano vende anche di più, e questo sarebbe uno smacco. La galera è inutile. So io, da editore, quel che bisogna fare�».
Ecco allora l´idea che sta per diventare legge dello Stato. Efficace, distruttiva. Che paghino gli editori, che sia il loro portafogli a sgonfiarsi. La trovata sposta la linea del conflitto. Era esterna e impegnava la redazione, l´autorità giudiziaria, i lettori. Diventa interna e vede a confronto, in una stanza chiusa, redazioni e proprietà editoriali. La trovata trasferisce il conflitto nel giornale. L´editore ha ora un suo interesse autonomo a far sì che il giornale non pubblichi più quelle cronache. Si porta così le proprietà a intervenire nei contenuti del lavoro redazionale, le si sollecita, volente o nolente, a occuparsi dei contenuti, della materia giornalistica vera e propria, sindacando gli atti dei giornalisti. Il governo pretende addirittura che l´editore debba adottare «misure idonee a favorire lo svolgimento dell´attività giornalistica nel rispetto della legge e a scoprire ed a eliminare tempestivamente situazioni di rischio». Evidentemente, solo attraverso un controllo continuativo e molto interno dell´attività giornalistica è possibile «scoprire ed eliminare tempestivamente situazioni di rischio». Di fatto, l´editore viene invitato a entrare nel lavoro giornalistico e a esprimere un sindacato a propria tutela. Divieto di cronaca per il tempo presente, controllo dell´editore nelle redazioni in tempo reale. Ecco dunque lo stato dell´arte: si puniscono i giornali e i giornalisti; si sospende il direttore dall´esercizio della sua funzione; si punisce l´editore spingendolo a mettere le mani nella fattura del giornale. E quel che conta di più, voi non conoscerete più (se non dopo quattro o sei anni) le storie che spiegano il Paese, i comportamenti degli uomini che lo governano, i dispositivi che influenzano le nostre stesse vite.

Repubblica 13.2.09
Quella Carta del popolo
Una corazza contro la dittatura nata da una guerra di popolo
di Giorgio Bocca


Ci sono due recenti dichiarazioni pubbliche del premier Berlusconi che servono a capire il personaggio e il suo populismo: che Eluana Englaro dopo diciassette anni di vita artificiale potesse partorire, e che i costituenti italiani del ´48 erano degli stalinisti che s´ispiravano alla costituzione dell´unione Sovietica. Due dichiarazioni che sono la negazione dell´impossibilità umana di sopravvivere alla morte della coscienza e dell´intelligenza, e la negazione della dittatura come annullamento della democrazia.
Generazioni di comunisti europei hanno saputo benissimo, sin dalla sua promulgazione nel ´36, che la costituzione staliniana era un sogno e un´impostura per coprire la dittatura, che il socialismo reale era quello dei piani quinquennali e della modernizzazione forzata, ma nella convinzione e nella speranza che quello fosse il solo percorso possibile. Come Togliatti scrisse in risposta alle critiche di Gramsci: «Dobbiamo riconoscere che l´azione del partito comunista russo, la rivoluzione russa sono stati il più grande fatto di organizzazione e di propulsione delle forze rivoluzionarie. Oggi questa propulsione è ancora attiva e crescente nel proletariato mondiale, all´evidenza è ancora attiva nelle classi operaie del mondo, nel mondo intero c´è la convinzione che in Russia, dopo la conquista del potere, il proletariato può costruire il socialismo e sta costruendolo».
Nella generazione dei comunisti dell´era staliniana restava cioè la profonda convinzione che con tutte le sue deviazioni autoritarie Stalin restava nel profondo un socialista, e che la dittatura sovietica, nonostante i suoi spaventosi prezzi, aveva tenuta aperta la via al socialismo, come era stato confermato dalla vittoria contro il nazismo. Siamo cioè di fronte a uno dei grandi paradossi della storia: i comunisti europei sanno che il socialismo in un solo paese si è trasformato in una dittatura spietata, ma pensano che sia ancora possibile riparare l´errore di percorso, costruire un socialismo democratico.
Togliatti è il testimone politico più autorevole di questa ambiguità. Rappresentante del Comintern in Spagna durante la guerra civile, detta i tredici punti di una costituzione repubblicana che entrerà in vigore a guerra vinta contro il franchismo: autonomie regionali, rispetto della proprietà e dell´iniziativa private, e dei diritti civili, libertà di coscienza e di fede religiosa, assistenza alla piccola proprietà, riforma agraria per la creazione di una democrazia rurale, rispetto delle proprietà straniere non compromesse con il franchismo, ingresso della Spagna nella Società delle Nazioni, amnistia per tutti gli spagnoli che hanno partecipato alla guerra di liberazione. In sintesi il progetto di rimettere assieme un paese diviso fra anarchici, socialisti, comunisti e conservatori, un paese, si badi, dove la polizia politica stalinista continuava ad arrestare e fucilare i nemici, presunti o reali.
La costituzione togliattiana fu naturalmente criticata sia dalla sinistra trozkista come un tradimento della rivoluzione, sia dai conservatori come un cavallo di Troia dello stalinismo. Ma essa resta nel 1938 come uno dei punti più alti del rilancio democratico. Aggiungiamo che anche il cinico Togliatti si era illuso sulla possibilità di correggere lo stalinismo: è proprio di quell´anno la svolta machiavellica di Stalin, che cessa gli aiuti alla rivoluzione spagnola per preparare le nuove alleanze con le grandi democrazie minacciate dal nazismo. Sconfitto in Spagna il riformismo togliattiano ritorna nell´Italia democratica dopo il ´45, e questa volta è l´intero arco costituzionale, dai comunisti ai democristiani ai liberali, in un paese che ha conosciuto la ferocia nazista, a volere una costituzione democratica, di cui Piero Calamandrei può dire "lo spirito della Costituzione deve tradursi in questi caratteri essenziali: la democrazia come sistema politico delle libertà, e il lavoro come sostanza di una libertà non solo formale. In sostanza il programma dei fratelli Rosselli e del movimento Giustizia e libertà". Il progetto spagnolo di costituzione scritto da Togliatti deve adattarsi al mutamento della società italiana: il partito comunista e le sue pretese egemoniche sono state fortemente ridimensionate dalle elezioni, il primo partito italiano è il socialista seguito dal democristiano, il peso dei cattolici nella società italiana è determinante, e il partito comunista ne prende atto facendo approvare anche ai compagni più riottosi l´articolo sette, cioè la conferma dei patti lateranensi che riconoscono alla chiesa una posizione di assoluto privilegio.
Due compagni, La Noce e Terracini, negano il loro voto, ma il partito compatto approva. E qui si chiude il mito del partito della rivoluzione o della "terza ondata", che ancora turba i sogni del nostro premier, e che viene ripetuto sino all´ossessione nella sua propaganda elettorale. La Costituzione repubblicana e democratica non è nata solo da un accordo politico fra i partiti. È nata dalla guerra di liberazione, dalla presa di coscienza che il paese era socialmente imperfetto e antico, che l´Italia regia e fascista aveva compiuto una modernizzazione tecnica e in parte economica, ma non aveva risolto le divisioni sociali, restava una società divisa in cui gli operai, i contadini e in genere i poveri restavano diversi anche nel modo di vestire, di parlare, e persino nel pubblico passeggio, oltre che nella giustizia e nei diritti umani. La guerra partigiana non fu una rivoluzione politica, ma come guerra di popolo, a cui partecipavano italiani di ogni ceto, fu una rivoluzione sociale, per fare finalmente del popolo italiano un popolo unito.
I critici della Costituzione si dividono fra quelli che la giudicano troppo prudente e quelli per cui è troppo avanzata. È difficile però disconoscerne i meriti, essa è stata nel dopoguerra una corazza che ha protetto il paese da cedimenti autoritari, da ipocrisie populistiche e demagogiche, cioè dalle tentazioni cui il nostro premier spesso cede.

Liberazione 13.2.09
La Sardegna al voto. Ferrero:
«Con Soru, alla sua sinistra»
di Checchino Antonini


Dal "cortile di casa" di Berlusconi fino al simbolo del declino industriale, di uno sviluppo distorto e devastante. Da Olbia, in Gallura, a Porto Torres e poi fino a Sassari. Le ultime battute della campagna elettorale sarda (si vota domenica e lunedì), Paolo Ferrero le trascorre in una sorta di assemblea itinerante che si conclude in serata, a Sassari, di fronte a oltre cento persone che lo aspettano nel salone di un albergo. I particolari appresi durante il viaggio gli faranno dire che Cappellacci, il candidato ufficiale del Pdl, «non c'entra». La sfida è tutta tra Berlusconi - suo il nome nel simbolo della coalizione - e Soru, il governatore uscente, sostenuto da tutto il centrosinistra.
La parata di ministri che s'è consumata nell'Isola (con le gaffes tipiche del governo, ad esempio sui 500 milioni per il raddoppio della Sassari-Olbia che appaiono e scompaiono dai bilanci) e la presenza assidua di Berlusconi, che ha concreti interessi in Sardegna (anche con la famiglia di Cappellacci), confermano «un'idea della Sardegna vista da fuori, di uno sviluppo "mordi e fuggi" come è accaduto col petrolchimico», dice il segretario nazionale di Rifondazione reduce da un giro ai cancelli del mastodontico impianto di Porto Torres dove nel '77 si lavorava in 13mila e oggi sono appena 2mila (in tutta la Sardegna gli operai sono 7.500) perdipiù rientrati per soli due mesi dalla cassa integrazione.
Una mossa elettorale di Scajola, ministro dell'industria, gli spiegano Mario Satta, segretario provinciale, e Mario Culeddu del Cpn. Enichem, infatti, vuole dismettere senza garanzie per i progetti di risanamento (c'è una montagna di fanghi rossi e altri veleni nascosta lì sotto, l'80% di chi ha lavorato qui non raggiunge i 65 anni di vita), di riconversione dell'area e della riqualificazione dei lavoratori, come dice Mauro Marongiu, metalmeccanico e candidato Prc, mentre le tute blu sciamano veloci verso i pullman che li riportano in città. La chimica ha stravolto l'isola ma ha anche innescato processi virtuosi negli anni passati: «I pastori che andarono a formarsi Porto Marghera per poter aprire Ottana, ritornarono politicizzati», spiega Culeddu.
Lo stesso modello è alla base dell'idea delle destre di puntare sulla speculazione edilizia per promettere posti di lavoro. Ne sa qualcosa chi sta facendo propaganda tra Olbia, la Costa Smeralda e La Maddalena, come Gianpiero Cannas e Giuseppe Dao. Lo slogan di un candidato berlusconiano annuncia con toni intimidatori che «la Gallura deve crescere e nessuno la deve fermare». Quel "nessuno" è Soru, o meglio, il suo piano salvacoste e l'impianto urbanistico alla base delle resistenze trasversali che hanno portato alle sue dimissioni, alla fine di novembre, e a queste elezioni regionali che si preannunciano elezioni dalla doppia valenza. A Ferrero non sfugge che «se Berlusconi prende uno schiaffo in Sardegna» potrebbe essere un passo verso la ricostruzione di un'efficace opposizione.
Le voci bene informate danno per probabile una vittoria del governatore uscente ma non delle liste che lo sostengono. Il rischio è un rigonfiamento del consiglio regionale, previsto in questo caso dalla legge elettorale. Per questo, tutti i candidati di Rifondazione vanno ripetendo l'appello per un voto completo: per il presidente e per la lista del Prc che registra «una buona convergenza sui contenuti con Soru e spesso un dissenso verso il suo dirigismo», riprende Ferrero. «Ma a volte siamo stati capaci di fargli cambiare idea - precisa Pierluigi Mulliri, della segreteria regionale - per esempio sull'inceneritore di Ottana, tanto che sembravamo noi, e non il Pd il partito del governatore».
Nel suo programma Rifondazione insiste sui progetti già avviati nella prima esperienza di governo, «a sinistra di Soru»: reddito di cittadinanza, lavoro buono (del Prc è l'assessora regionale uscente, Romina Congera, ora candidata: è stata lei a promuovere la legge per sostenere economicamente le famiglie dei morti sul lavoro), energia pulita, estensione del diritto allo studio sulla scia di progetti come "Master and back" (che sostiene con 500 euro al mese gli studenti meritevoli che si impegnano a tornare sull'Isola), ripubblicizzazione dell'acqua, chiusura del Cpt di Elmas, smilitarizzazione del territorio devastato dalle servitù militari, riforma della politica. E' lo stesso Ferrero a non sottovalutare le divergenze con Soru. La più visibile è sul G8 ma è una «dialettica fisiologica in coalizioni indotte da un pessimo sistema elettorale».
Tutto ciò dentro una crisi economica che mostra i suoi effetti e una crisi politica che, tuttavia, qui in Sardegna non ha registrato la scissione del Prc. Merito del mancato incontro con la locale Sd ma soprattutto merito dello statuto nazionale che garantisce ampi margini di autonomia al partito sardo «deciso a ricostruire la sinistra ma a partire da Rifondazione».

Liberazione 13.2.09
Tutto il mondo è "notizia"
il culto ideologico del giornalismo
intervista di Tonino Bucci a Peppino Ortoleva autore de "Il secolo dei media", docente di storia dei mezzi di comunicazione


Il Novecento è stato il secolo dei media, il secolo delle tante rivoluzioni nelle forme della comunicazione. Basta pensare al ritmo frenetico delle innovazioni tecnologiche, all'invenzione del cinema, del telegrafo, della radio, della televisione per arrivare all'informatica, a internet, ai lettori portatili, all'i-pod. Ma non bisogna cadere nel determinismo, la comunicazione non è solo un effetto della tecnologia. I media hanno segnato cambiamenti epistemologici, modi diversi di percepire e rappresentare il mondo, persino variazioni antropologiche di come gli esseri umani si collegano tra loro. Un'ampia ricostruzione di questa storia complessa si trova ne Il secolo dei media. Riti, abitudini, mitologie (il Saggiatore, pp. 336, euro 19), il nuovo lavoro di Peppino Ortoleva, già autore di Mediastoria , docente di storia dei mezzi di comunicazione a Torino, nonché fondatore e presidente di mediasfera, una società di ricerca e progettazione sulla comunicazione. Quella dei media nel '900 è uno sviluppo a spirale da cui si irradiano excursus imprevedibili, fenomeni di portata gigantesca, eppure talmente radicati nella routine quotidiana da non attirare l'attenzione, da risultare banali, ovvi e scontati. Ad esempio, la caduta di tabù secolari come quello sulla pornografia oppure l'ingresso massiccio dello sport nell'informazione e il radicamento del tifo calcistico nella vita quotidiana di milioni di persone. Parliamo di fenomeni che, attraverso i media, hanno plasmato le identità personali e collettive.

Non c'è troppa enfasi nel definire i media la rivoluzione del '900? La comunicazione ha addirittura ispirato utopie sociali. C'è chi ha visto nei media la possibilità dell'emancipazione del genere umano dal lavoro materiale e dal bisogno. Un ottimismo ingenuo?
Ci sono state profezie banali come il telelavoro. L'informatizzazione avrebbe risolto il problema dell'inquinamento e dei trasporti... queste sono idee utopistiche della comunicazione. Non so se sia improprio parlare dei media come di una rivoluzione. Certo è che nel '900 ci sono state varie rivoluzioni in cui la comunicazione è cambiata in maniera profonda. Il cinema è stato un'invenzione rivoluzionaria nel senso che ha cambiato il nostro modo di percepire il mondo, ha cambiato le abitudini culturali di milioni di persone, ha creato un'arte dal nulla. Anche l'informatica è una rivoluzione. Comunque la si voglia vedere ha creato macchine che dialogano con noi in tutti i momenti della nostra vita. Ma ci sono state anche delle rivoluzioni invisibili legate ai media sulle quali si è ragionato troppo poco.

Sta dicendo che la rivoluzione dei media si misura più da quel che non si vede, cioè dalla routine e dalle abitudini?
Nel libro mi soffermo molto sulla caduta di alcuni tabù che sono durati millenni, per esempio quelli relativi alla pornografia. Di colpo negli anni Sessanta una visione del corpo umano che era obbligatoria e rigidissima è stata sostituita da un'altra, molto più banalizzata e mercificata. Ma non mi interessa dire se abbiamo perso qualcosa o guadagnato. Il fatto è che c'è stata una rivoluzione che è stata largamente taciuta oppure è stata oggetto di giudizi morali e frettolosi. Non è stata capita. A questo mi riferisco quando parlo di più rivoluzioni dei media. Ci sono stati fenomeni di grande portata relativamente invisibili che hanno cambiato la nostra percezione del mondo e che non nascono dalla tecnologia bensì dalla comunicazione come fenomeno complessivo, fatto anche di abitudini e regole. Il Novecento è stato attraversato da una domanda inesauribile di comunicazione. A ogni nuovo medium che sembrava rispondere a una serie di bisogni se ne sono aggiunti altri. Prima il telegrafo, poi il telefono, poi il fax, gli sms, la posta elettronica, ma nessuno ha ucciso quelli precedenti. Come se ci fosse una domanda quasi isterica di comunicazione che è caratteristica della società contemporanea.

Il giornalismo pensa che l'informazione coincida con la "notizia", che questa sia un modo "naturale" di organizzare gli eventi. Quanto di ideologico c'è nel ritenere la "notizia" come la forma scontata del mondo?
E' uno dei temi su cui mi sono più interrogato in questo libro. Quanto sono "naturali" le forme della comunicazione che ci sembrano più ovvie e scontate? Quello della notizia è un esempio eccellente. La nostra percezione del mondo negli ultimi due secoli si è retta sulla convinzione che ogni giorno il giornale - sintesi di una giornata del mondo, per dirla con Marinetti - ci diceva quello che d'importante dovevamo sapere. Il giornale era un mosaico di informazioni. Perché sentivamo questo bisogno? La risposta l'ha data il vecchio Hegel in una battuta del 1813. «Leggere i giornali all'inizio della giornata è una sorta di laica preghiera del mattino» dell'uomo moderno. Prima ci si collegava con Dio, ora ci si collega con il mondo. La funzione in entrambi i casi è la stessa: orientarsi per sapere cosa fare e dove si sta. Questa sostituzione del mondo a Dio come l'oggetto verso cui orientarsi è quello ha tenuto in piedi il giornalismo di notizie per questi due secoli.

Cosa è cambiato oggi?
Le persone computer oriented che sono una minoranza, ma in via di crescita, si collegano alla posta elettronica prima ancora di sentire le notizie o guardare il telegiornale. Non sentono tanto il bisogno di sapere cosa è successo di importante in politica o nel mondo, ma di collegarsi a una rete fatta di migliaia di persone, magari mai conosciute in viso. Questa è la preghiera mattutina dell'umanità contemporanea. Non ci orientiamo più verso il mondo o Dio.

La rete è un modo di isolarsi dal mondo?
Per un verso sì, ma per l'altro dobbiamo dire che anche il giornalismo di notizie ha dato il peggio di sé negli ultimi vent'anni. Sempre di meno quel che leggiamo nelle notizie, indipendentemente dalla buona volontà dei giornalisti, riflette realmente quel che accade nel mondo e sempre di più è condizionato da alcuni soggetti, i cosiddetti spin doctor il cui mestiere è letteralmente far comparire nei notiziari al momento giusto i loro protetti o i loro clienti in modo da colpire l'opinione pubblica. Anche il terrorismo internazionale si è impossessato alla grande del meccanismo della notizia che è ciò che detta l'agenda al mondo. Io non sono per abolire il giornalismo di notizie. Sono per una maggiore apertura dell'idea di informazione che comprenda la notizia, i sistemi di relazione tra le persone e la comprensione dei processi di lungo periodo che ci stanno accompagnando e stanno cambiando la nostra vita.

Il problema delle redazioni è come organizzare e segmentare gli eventi in notizie. E questo porta a una contrazione dei tempi di scrittura e di fruizione dei giornali a detrimento della conoscenza. Sarà per questo, come lei scrive, che il modello-notizia è in crisi?
E' un tema fondamentale. Uno dei processi legati alla moltiplicazione della comunicazione, è il fatto che il tempo è sempre più spezzettato. Siamo raggiunti da fonti d'informazione differenti ognuno dei quali tenta di attirare la nostra attenzione. Abbiamo una disponibilità sempre minore a un'informazione di respiro. Non mi riferisco all'approfondimento che di per sé è un genere giornalistico, ma all'argomentazione articolata. Come ha dimostrato la vicenda Eluana è difficile fare sui giornali un ragionamento un po' complesso che non sia "viva" o "abbasso". Chiunque provi ad argomentare le proprie posizioni si ritrova non solo aggredito dagli altri che gli urlano in testa, ma rischia di far svanire l'attenzione del pubblico. I tempi dell'informazione si sono ridotti. Il giornalismo dello spin doctoring si fa con la battuta di trenta secondi che non dice niente dal punto di vista dell'argomentazione e riesce però ad attirare l'attenzione. E' poco più di uno slogan pubblicitario che abbassa il livello della discussione. Alcuni politici sono specialisti in queste semplificazioni.

Questo tipo di informazione non produce effetti epistemologici nel nostro modo di percepire la realtà?
Assolutamente sì. I processi di trasferimento di informazioni da un soggetto all'altro vanno studiati e, per quanto possibile, tenuti sotto controllo per mezzo di regole. La tesi che nel libro critico è che gli effetti dell'informazione sul pubblico siano riducibili a un mero effetto di propaganda, come sostiene Chomsky con un certo estremismo.

Questo vale anche per il berlusconismo. Non è solo la sua propaganda a fare egemonia. E' l'organizzazione del discorso televisivo a cambiare la logica del pensare corrente. Possiamo dirla così?
E' evidente. L'influenza del berlusconismo sull'opinione pubblica italiana sta solo in parte nel bombardamento di ideologia liberista. Secondo me sta soprattutto nel sistema di valori associato alla pubblicità commerciale, all'idea di un paese dipinto come un paradiso a partire dagli anni '80 - a differenza dell'Italia cupa del passato. Il berlusconismo ha sì propagandato queste rappresentazioni, ma al tempo stesso le ha trovate e sfruttate. Buona parte del potere dei media sta nel fatto stesso di definire chi conta e chi non conta. Silvio Berlusconi, essendo padrone d'una parte del sistema televisivo, era un candidato naturale al potere prima ancora di scendere in politica. I media danno un diritto automatico al potere per il fatto stesso di dare visibilità ad alcune persone al di là di ciò che queste dicono e al di là della loro ideologia. Le poltrone di Vespa sono piccoli troni. Chi ci sta seduto ha diritto a una quota di potere. I media hanno un effetto politico al di là della propaganda, cioè definiscono agli occhi del pubblico che cos'è il potere e chi lo detiene.

Liberazione 13.2.09
Un confronto sabato 21 febbraio, a Roma, al Rialto Occupato
A sinistra per davvero, ricominciamo da Sinistra Europea


A partire dalla scuola è ripresa la mobilitazione sociale nel paese. La Cgil, con l'adesione di gran parte del sindacalismo di base, ha indetto per il 12 dicembre lo sciopero generale con manifestazioni in tutte le città. Lo slogan "la crisi non vogliamo pagarla noi" vale per il mondo del lavoro e per la gente che non riesce ad arrivare alla fine del mese, indicando un'altra via di uscita dalla crisi in cui è precipitato il capitalismo in Europa e negli Stati Uniti. (…)
La sinistra, con la grande manifestazione a Roma dell'11 ottobre ha dimostrato, attraverso il recupero della sua storica collocazione politica e culturale, di essere quella parte della politica organica al mondo del lavoro e, più in generale, delle vittime del capitalismo e dei suoi alleati, il patriarcato, il razzismo. Il suo compito è di favorire la generalizzazione dei fronti di lotta e metterli in relazione sinergica, far diventare senso comune di massa che il futuro di ciascuno dipende da quello degli altri, che la prospettiva che ci si deve dare è quella di una nuova società fondata sul rilancio del ruolo del pubblico in economia; su un nuovo modello socialmente responsabile di produzione e di consumo; sulla restituzione al popolo dei beni comuni: acqua, territorio, energia pulita, servizi, intelligenza sociale; sulla solidarietà; sulla partecipazione democratica effettiva del popolo alle scelte economiche e politiche. Ciò comporta che la configurazione della sinistra non solo deve comprendere tutta la sua articolazione politica, sociale e di movimento, ma che deve essere difesa da ogni tentativo di centralizzazione organizzativa coatta e autoritaria da parte di frammenti di ceto politico autoreferenziale.
Bisogna smetterla di inquadrare la realtà del Pd partendo dalle dichiarazioni dei suoi esponenti o dai rendiconti dei massmedia dei padroni o ad essi subalterni. Ogni forza politica si giudica primariamente da ciò che fa. E ciò che il Pd (e prima di esso Ds e Margherita) ha fatto al governo nazionale e continua a fare nei principali suoi governi locali, e persino dall'opposizione, lo caratterizza come il partito più organicamente protagonista delle politiche liberiste. Privatizzazione di tutto ciò che è pubblico o bene comune, svendita del territorio, schiacciamento sulle politiche di bilancio restrittive e antisociali dei Trattati europei, precarizzazione del lavoro. Un partito attore di quel processo di controriforma autoritaria che con l'accordo per lo sbarramento elettorale al 4% alla vigilia delle elezioni europee e l'attacco all'autonomia del sindacato, perfeziona quel processo di espulsione di grandi masse di popolazione dalla politica. Ed è in questo contesto che si colloca la necessità e la possibilità, per la sinistra politica di affrontare il progetto del Pd, con una lotta politica aliena da ogni compiacenza, recuperando il suo radicamento sociale perché logorato dalla percezione popolare di una tendenza a integrarsi al Pantheon dei ceti politici pro - sistemici. E questo può avvenire attraverso iniziative, linguaggi, comportamenti soggettivi che diano un segnale opposto, riconfermando l'appartenenza alla propria gente.
La fenomenologia attuale della sinistra politica non è soltanto il risultato di processi culturali, ma soprattutto di processi materiali della società capitalistica contemporanea, tra cui le lotte sociali concrete (…) Insieme al movimento operaio che continua ad essere l'elemento antisistemico decisivo per molti aspetti sostanziali, ci sono molteplici forze sociali, altre tipologie di lotta e di obiettivi, altre elaborazioni critiche del capitalismo. Lo stesso movimento operaio è cambiato nella sua composizione, l'irrompere della presenza di lavoratrici e lavoratori migranti non rappresenta soltanto una modifica formale ma sostanziale. Legislazioni xenofobe e crisi economica hanno accelerato un processo micidiale per cui essere espulsi dal circuito produttivo si traduce nell'espulsione dal territorio nazionale e nella perdita delle già poche garanzie acquisite. Una sinistra anticapitalista non può non porsi come fra i propri obiettivi principali l'innalzamento generalizzato della soglia dei diritti e la rottura delle condizioni di subalternità giuridica in cui sono ormai costretti quasi 4 milioni di persone. Accanto a questo è necessaria una riformulazione dei diritti di cittadinanza che permetta la regolarizzazione delle tante e dei tanti costrette/i alla irregolarità in funzione di maggiori margini di sfruttamento, che impedisca l'avallo di tutte politiche securitarie messe in piedi nel corso degli anni. (…)
L'esperienza di Sinistra Europea aveva raccolto, accanto a Rifondazione Comunista, numerose associazioni sociali e culturali, pezzi importanti di sindacato, collettivi di sinistra antisistemica: il suo disegno, agli antipodi rispetto a ogni idea di partito unico, era quello di una struttura in cui ognuno continuava a disporre della propria indipendenza con l'intento di costruire punti di vista e obiettivi comuni per praticarli unitariamente. Ed essendosi dunque manifestata per sua natura infungibile a ogni idea di partito unico, quindi di scioglimento di chicchessia, Sinistra Europea in vista delle elezioni del 13 aprile è stata tolta di mezzo e sostituita con "La Sinistra-l'Arcobaleno". Questo è stato un errore.
Oggi è necessario riprovarci, evitando accelerazioni e forzature da parte partitica su tempi e modi. Occorrono invece confronto e decisioni democraticamente costruite. (…)
Impariamo dall'esperienza e dalle scelte del Forum Sociale Mondiale di Belem, dal "mondo reale e possibile" della sinistra che lì si è incontrato e da cui molti di noi stanno tornando, dalla sua manifestazione di autonomia, di capacità critica sottoposta alla verifica della pratica, di produrre risposte unitarie, in sintesi dal senso di responsabilità nei confronti dell'intera umanità.
Per confrontarci su tutto questo, ci incontriamo Roma, sabato 21 febbraio, al Rialto Occupato, in Via Sant'Ambrogio, 4, dalle 10 alle 16.
Primi firmatari
Vittorio Agnoletto parlamentare Europeo Gue, Maddalena Berrino Forum Ambientalista Piemonte, Andrea Bonifacio Forum Se Alpeadria, Antonio Bruno consigliere comunale Genova Sinistra Europea, Elio Bonfanti Socialismo XXI, Mario Brunetti Movimento per l'Unità della Sinistra Alternativa, Giorgio Caniglia Sinistra Alternativa Valle d'Aosta, Luca Ciabatti consigliere Regione Toscana, Giacomo Casarino Università di Genova, Anna Cotone Socialismo XXI, Josè Luiz del Roio Presidente Nuestramerica per il Socialismo del XXI Secolo, Sebastiano De Zanchi Sinistra Europea Zerosile, Gianni Foffano portavoce comitati pendolari Veneto, Paolo Favilli direttore dip. Storia, Scienza della comunicazione Genova, Giuseppe Gonnella Socialismo XXI Genova, Roberto Latella formatore sociale, Rita Lavaggi Socialismo XXI, Genova, Dora Maffezzoli Lavoro e Società, Paolo Menichetti Forum Ambientalista Roma, Enrico Moriconi consigliere Ecologisti Uniti a Sinistra Regione Piemonte, Nicola Nicolosi Cgil Area Programmatica Lavoro e Società, Gianni Palumbo Forum Ambientalista Basilicata, Rossano Pazzagli, Direttore Istituto di Ricerca sul Territorio e l'ambiente Leonardo-Pisa, Ciro Pesacane presidente Forum Ambientalista, Simona Ricotti, No Coke Civitavecchia, Giorgio Riolo Presidente Ass. Culturale Punto Rosso, Annamaria Rivera, docente Università di Bari, Giancarlo Saccoman Spi Cgil Lavoro e Società, Raffaele K.Salinari Socialismo XXI Bologna, Luisa Severi Rialto Occupato Roma, Mauro Scroccaro, Assessore all'Ambiente di Macon Venezia, Anita Sonego Libera Università delle Donne, Milano, Gianni Tamino Università di Padova, Josè Luis Tagliaferro Argentina Democratica, Luigi Tamburrino Rialto occupato Roma, Poldo Tartaglia, Lavoro e società Veneto, Fulvio Vassallo Paleologo Università di Palermo.
E' disponibile sul sito www.puntorosso.it il testo integrale dell'appello
Per adesioni inviare una e-mail a: cotone@forumsinistraeuropea.it


l'Unità 12.1.09
Amano soltanto quelli che non pensano
di Paolo Izzo


Diffidenti nei confronti del libero pensiero, gli unti del signore vedrebbero bene intorno a sé una società formata da pre-nati e pre-morti, possibilmente in coma irreversibile, che non pensino e non parlino! Tutela massima per i feti, dunque, anche a scapito di chi li porta in grembo, e promessa di vita eterna per chi è morto e vive. A patto che questi ultimi rimangano avvolti nel “mistero della sofferenza” e non esprimano la loro umanissima volontà di non essere tenuti in vita artificialmente. Se lo fanno (come Welby) le porte delle chiese vengono subito chiuse e la faccia buona dei “paladini della vita” si trasforma nella maschera cattiva dei giudici della morte.

Repubblica.it (Agi) 13.2.09 11.47
Sardegna: Soru, da Berlusconi invasione con cattivo gusto


"Conosco bene la Sardegna, so quanto sia indispensabile proteggerne il territorio, prima di tutto. Nell'idea dei sardi e' legata la consapevolezza che possa nascere uno sviluppo sostenibile, ecocompatibile, capace di consegnare le nostre ricchezze alle generazioni dei nostri nipoti". Cosi' Renato Soru, intervistato dal settimanale 'Left' in edicola oggi. Il candidato Pd alla presidenza della Regione Sardegna parla anche del suo avversario, Ugo Cappellacci: "Non e' scomparso perche' non e' mai apparso. E' l'anomalia di questa campagna elettorale l'invasione continua e violenta da parte del presidente del Consiglio, venuto in Sardegna turbando quello che dovrebbe essere il normale svolgimento di una democratica competizione elettorale, intrattenendo la gente con barzellette spesso anche di cattivo gusto". Soru prosegue affermando che "il centrodestra e' assetato di potere. Ha una concezione personalistica del potere ed e' disposto a qualsiasi compromesso. E' cosi' privo del senso della vergogna e di autocritica da lasciare sgomenti. Il progetto e' quello di annichilire le coscienze della gente, di distrarla perche' non rifletta". Ed a chi lo paragona al premier, Soru replica dicendo: "E' vero, siamo due imprenditori. Ma le differenze tra noi sono assolute. Innanzitutto io mi assumo tutte le mie responsabilita' mentre lui si fa proteggere contro ogni malefatta. Io - conclude - invito la gente a riflettere mentre lui cerca di privarla di quella parte piu' importante di se stessi che e' la consapevolezza ed il senso critico".