lunedì 16 febbraio 2009

Corriere della Sera 16.2.09
Il Pd e il referendum «Assalto» a Marino
Testamento biologico, richieste di dimissioni e critiche al senatore
di M.D.B.


Attacco incrociato alla proposta di una consultazione popolare. Marini: è una fantasia da scienziato

ROMA — Attacco incrociato a Ignazio Marino. La sua proposta di chiedere un referendum per abrogare la legge sul testamento biologico che ancora non c'è lo ha posto al centro di un fuoco amico. Critiche aspre e pungenti del centrosinistra gli piovono addosso.
Luca Volontè, Udc, vorrebbe addirittura che il senatore lasciasse la presidenza della Commissione parlamentare di inchiesta sul sistema sanitario nazionale: «Si dimetta vista la tanta decantata correttezza. Non può gestire quel lavoro se poi deve organizzare e preparare truppe. Una consultazione popolare su una legge ancora da discutere? Evidentemente non ha buone ragioni per sostenere le proprie idee. Inoltre ha già perso la battaglia sulla legge 40».
Contrario alle dimissioni Luigi Bobba, Pd, che pure definisce improvvida la proposta di Marino: «Certo l'incarico di presidente gli è stato affidato dal presidente del Senato, prescinde dalla posizione politica quindi richiede di mantenere un profilo alto. Ma non è il caso di accendere un'altra miccia. Non radicalizziamo. Chiudiamo qui l'incidente. Cerchiamo piuttosto soluzioni ragionate ». Paola Binetti legge l'annuncio sul referendum, accolto dagli applausi dei radicali, come un chiaro messaggio: «Denota una spinta in senso eutanasico. Marino smetta di accanirsi sul testamento biologico e si concentri sul suo nuovo ruolo nella commissione parlamentare d'inchiesta».
Certo è che il sasso lanciato nelle acque già agitate dal chirurgo senatore ha agitato il fine settimana dei capi democratici. Tra sabato e domenica c'è stato un rincorrersi di telefonate tra Franco Marini, Francesco Rutelli e Walter Veltroni. I due big dell'area cattolica hanno raccomandato al leader del partito di non sposare la linea di Marino, da cui peraltro il segretario aveva già preso le dovute distanze in un'intervista alla Stampa («E' una buona legge che noi vogliamo»).
L'ipotesi referendum spaventa il leader degli ex popolari che teme l'ulteriore riacutizzarsi della spaccatura interna, tra laici e cattolici: «E' una fantasia da scienziato. Serve un confronto tra i due poli. Seguirò la questione più da vicino», si ripromette, sostenuto da Rutelli anche lui convinto di evitare ogni pretesto capace di mettere a nudo le diversità culturali nel Pd. Condivide gli stessi timori uno dei parlamentari più vicini all'ex sindaco di Roma, Renzo Lusetti: «Il referendum è fuori di ogni logica. Non è bastata la batosta sulla legge 40?».
Pierluigi Mantini rafforza il concetto: «Il minoritarismo etico non giova al partito». La proposta di Marino è appoggiata dal segretario socialista Riccardo Nencini. Ma a guardare questa prospettiva con poche illusioni è il più esperto in materia, Marco Pannella, primatista nel promuovere iniziative referendarie: «Rischiamo di utilizzare un'arma spuntata. E' difficile superare il quorum del 50%, specie se dovesse arrivare l'invito all'astensione. E ricordo che i ministri del culto che, nell'esercizio delle loro funzioni, invitano all'astensione rischiano pene gravi».

Corriere della Sera 16.2.09
Il chirurgo «C'è bisogno di gente come me»
«Io isolato? Macché Tanti hanno chiamato da Amato a Pollastrini»
di Margherita De Bac


Da chirurgo, di fronte a una situazione critica, faccio un piano A e un piano B. Il piano A è correggere il testo della legge. Il piano B è il referendum

ROMA — «Isolato? Deluso? Macché. Io vado avanti. Per me la politica è passione. Significa riuscire a realizzare dei progetti utilizzando la propria competenza. Quindi non mi fermo. D'altra parte lasciare adesso sarebbe sbagliato. Ritengo che ci sia molto bisogno di gente come me. Di tecnici». Ignazio Marino ieri pomeriggio è volato a Verona dove stamattina deve operare. Ha passato la giornata a riguardare le cartelle cliniche. Giura che le polemiche che soffiavano da Roma, dopo la sua proposta di indire un referendum per abrogare la legge sul testamento biologico non ancora fatta, non lo hanno investito. «Guardi neppure sapevo che hanno chiesto le mie dimissioni dalla presidenza della Commissione parlamentare d'inchiesta sul sistema sanitario», sdrammatizza.
E adesso che lo sa, come replica?
«Osservazione irrilevante. Punto ».
Però quest'idea sul referendum le ha creato non pochi guai. Attaccato da tutti nel centrosinistra. Marini dice è una trovata da scienziato. Come dire che lei non sa fare il politico. Si sente isolato?
«Affatto. Il mio compito è portare avanti le idee. Inoltre sono stato male interpretato. Da chirurgo di fronte a una situazione critica io sono solito definire un piano A e un piano B. In questo caso il piano A, al quale non rinuncio, è correggere il testo della legge, molto deficitario. Se l'operazione non riesce, passiamo al piano B, il referendum, strumento che la Costituzione ci mette a disposizione».
Quindi lei insiste con il referendum anche se tutti nel Pd hanno messo in atto un unico piano: voltarle le spalle. Ha sentito Veltroni e D'Alema negli ultimi due giorni?
«Nel fine settimana non ci sentiamo mai né con l'uno né con l'altro. E poi chi dice che sono isolato sbaglia. Mi hanno chiamato in tanti. Tra i primi Giuliano Amato, da New York. Guarda Ignazio, condivido il tuo percorso. E poi Gianrico Carofiglio, Marinaro, Cuperlo, Pollastrini».
Perché non torna a fare il chirurgo a tempo pieno, non ne ha piene le scatole della politica?
«Me lo chiedono un giorno sì e l'altro pure di tornare solo a operare. Ma io sono molto soddisfatto di quello che sto facendo qui in Italia. In finanziaria è stato inserito il mio emendamento per il risarcimenti ai danneggiati di sangue infetto. E' un modo molto efficace di assistere i malati no?».
Dove hanno origine le sue certezze sul testamento biologico che, secondo lei, deve dare piena libertà di scelta alla persona e dargli facoltà di rinunciare a ogni cura?
«Hanno origine nella mia esperienza professionale. Pensi, c'è chi mi considera vicino a posizione eutanasiche, soltanto perché sabato scorso sono andato a un convegno dei radicali, e invece nell'ambiente medico vengo giudicato fin troppo rispettoso della vita. Ho lottato per la vita dei miei pazienti anche quando non c'era niente da fare. I colleghi mi dicevano dai Ignazio ora basta e leggevo nei loro occhi l'accusa di accanimento terapeutico».
Racconti, allora...
«Ricordo una donna in coma epatico che decisi di trapiantare di fegato per la seconda volta. Il primo trapianto era andato male. Stava morendo, i miei collaboratori mi dicevano, lasciamola andare. Andai avanti. Dopo alcuni mesi di terapia intensiva il giorno di Natale quella donna baciò suo figlio».
Come si concilia il comportamento del chirurgo Marino con quello del senatore Marino che si batte per rimettere in mano al paziente le decisioni, tutte le decisioni, sul fine vita?
«Proprio perché sono a contatto con dolore a sofferenza credo che il medico, una volta compiuti tutti gli sforzi, debba accettare le richieste del malato. Noi dobbiamo accompagnare non accanirci».

Corriere della Sera 16.2.09
I progetti a confronto. Il testamento biologico


L'iter della legge
In commissione Sanità al Senato sono state presentate 10 proposte sul testamento biologico: sei del Pd, tre del Pdl e una della Lega
Il testo Calabrò
Il testo presentato dal senatore pdl Calabrò, sintesi delle proposte del Pdl e dei cattolici pd, prevede un registro notarile dove depositare il testamento controfirmato dal medico e la figura di un fiduciario non vincolato alle indicazioni del malato. Inoltre, definisce alimentazione e idratazione artificiale «forme di sostegno vitale» da non interrompere
La proposta Marino
Il senatore pd Marino ha presentato lo scorso aprile un ddl sottoscritto da 101 colleghi senatori. Oltre alla «dichiarazione anticipata di trattamento» sulle volontà del paziente, introduce la possibilità di ricorrere a «decisioni sostitutive».
Alimentazione e idratazione sono inoltre equiparate al trattamento sanitario e possono essere sospese
Il referendum
Contro la bozza Calabrò, Marino è pronto ad avviare la raccolta delle firme per il referendum abrogativo. Oltre al nodo dell'alimentazione, Marino contesta l'eccessivo ricorso alla burocrazia e la possibilità che sia ignorata la volontà del paziente

Corriere della Sera 16.2.09
Dopo Eluana meno fiducia in Chiesa e magistratura
di Renato Mannheimer


Quali effetti ha avuto la vicenda di Eluana Englaro sugli orientamenti degli italiani? Sono mutati gli equilibri politici e la fiducia nelle istituzioni? Contrariamente a quanto ipotizzato da alcuni, l'influenza sull'entità del seguito elettorale dei diversi partiti sembra essere stata piuttosto limitata. In realtà, l'ipotesi del manifestarsi di conseguenze rilevanti sulla distribuzione delle scelte politiche e su altri atteggiamenti degli italiani nasceva anche dal fatto che è spesso accaduto in passato che questioni etiche e, comunque, direttamente legate alla vita personale degli individui (ma, proprio per questo, spesso più vicine all'esperienza quotidiana dei cittadini di quanto non siano le posizioni politiche in quanto tali) abbiano operato significativamente sugli orientamenti di voto. Lo si è visto più di trent'anni fa ai tempi del referendum sul divorzio: esso fu, come si sa, la prima occasione in cui si sperimentò concretamente una scelta elettorale difforme dalle appartenenze consolidate. E finì col rappresentare di fatto l'inizio di un periodo di un'intensa mobilità.
Ma, come si è detto, in occasione della vicenda che ha riguardato Eluana — e malgrado la drammaticità e l'intensità del dibattito politico che, specie negli ultimi giorni, è arrivato addirittura a sovrapporsi ed ad offuscare le valutazioni (e le emozioni) legate alla specificità umana del caso — le conseguenze immediate sulle intenzioni di voto parrebbero meno eclatanti e sembrerebbero solo avere accentuato alcuni trend in corso da tempo. Salvo un significativo e rilevante incremento di chi oggi si dichiara indeciso su cosa votare e afferma di essere sempre più scontento della politica — e dei partiti — nel suo complesso.
La vicenda di Eluana ha dunque avuto una influenza non tanto sull'intensità dell'orientamento di voto verso questa o quella forza politica, quanto sul clima complessivo del Paese e sul giudizio nei confronti delle istituzioni. Con un calo di fiducia generalizzato. Nello specifico, si è manifestato negli ultimi giorni un trend particolarmente negativo verso alcune: si è verificata, ad esempio, una diminuzione di fiducia nei confronti della televisione (sia Rai che Mediaset), del Parlamento, della magistratura, della Chiesa. Sono tendenze provenienti spesso da settori diversi della società e dell'opinione pubblica: questo o quel segmento è rimasto in qualche modo scontento o deluso per il comportamento o per le scelte attuati dall'una o dall'altra istituzione. Accentuando gli effetti, già fortemente negativi, della crisi economica sul clima dell'opinione pubblica. Che vede un continuo peggioramento del clima psicologico e una sempre maggiore diffusione del pessimismo e delle valutazioni negative.

Repubblica 16.2.09
La lezione di De Gasperi
di Mario Pirani


Ignazio Marino prima di venir defenestrato nel bel mezzo della discussione sul testamento biologico, fu aspramente redarguito dai suoi referenti di partito, più preoccupati dei loro interni equilibri che della verità, per essersi richiamato al Vangelo di Matteo laddove dice "il vostro parlare sia Sì quando è Sì e No quando è No, tutto il resto viene dal maligno". Con quel richiamo l´autorevole chirurgo, estensore della legge, invitava ad evitare formule pasticciate di compromesso interno, destinate con formulazioni equivoche ad affossare la libertà di scelta dell´individuo qualora si trovasse nelle condizioni estreme di Eluana Englaro. Il prosieguo delle cose dimostra che Marino aveva visto giusto. Sbagliano per contro i capi del Pd quando fingono che non sia avvenuto nulla e che le loro parole di rassicurazione valgano più degli atti che compiono o di quelli che non compiono.
Sbagliano quando ci dicono che nulla cambia, dopo che hanno imposto la nomina a capogruppo nella Commissione sanità di una senatrice, Dorina Bianchi, che si è affrettata a dichiarare la propria contrarietà ad interpretare nella discussione sulla legge la cosiddetta "posizione prevalente" nel partito, essendo invece intenzionata a tenere in considerazione le diverse sensibilità del Pd. Frase che, tradotta in chiaro, significa far propria l´avversione dichiarata non solo dai teodem alla Binetti ma anche da Rutelli ed altri a lui sodali, nei confronti della libera determinazione per quanto riguarda nutrizione e idratazione artificiali. Il problema � si badi bene � non investe solo i firmatari del testamento biologico (i quali, se passerà la normativa voluta dalla destra sul limite di tre anni , salvo rinnovo periodico, alla presenza di un notaio e di un medico, risulteranno una infima minoranza) ma tutti i cittadini. In proposito il testo elaborato e difeso dal senatore Marino, all´art. 4, accettato fino a ieri dalla stragrande maggioranza di centro sinistra, affermava che in tutti i trattamenti di fine vita � (compresa idratazione e nutrizione artificiali) nel caso la persona versi ormai nella incapacità di accordare o rifiutare il proprio consenso � ci si debba basare sulla "volontà espressa" nel testamento biologico. Mentre "in caso di mancata espressione di volontà" vale "la volontà manifestata dal fiduciario, dal tutore o dall´amministratore di sostegno o, in mancanza di questi, nell´ordine; dal coniuge non separato legalmente o di fatto, dal convivente, dai figli, dai genitori, dai parenti entro il quarto grado".
Nulla di tutto questo resta nel documento stilato da Marina Sereni, vice capogruppo del Pd a Montecitorio, a conclusione delle riunioni di una apposita commissione di parlamentari pd, non firmato, però, dagli esponenti delle posizioni più antitetiche (dalla Binetti alla Coscioni). Le conclusioni sono state definite, in una nota riassuntiva della Sereni, "Elementi comuni o a cui si è arrivati a una convergenza" sulla Dat (Dichiarazione anticipata di trattamento). Dalla lettura si evince che i democratici non solo avrebbero fatte proprie le convinzioni sostanziali dei teodem e di Rutelli ma aperto la porta ad un cedimento a quelle espresse dalla destra. Ecco alcuni punti di cosiddetta "convergenza": a)durata di validità temporale nell´ordine di 3-5 anni; b) riconoscimento dell´obiezione di coscienza del personale medico-sanitario (diventerà problematico trovare un dottore o un infermiere deciso a sfidare preti e ministri alla Sacconi, ndr); c) il testamento non si applica quando il soggetto versa in pericolo di vita immediato (ma tutti i malati in coma possono esser considerati in simile condizione, ndr); d) obbligo di somministrare al paziente i trattamenti ritenuti necessari, compresa l´idratazione e l´alimentazione artificiale, in assenza di espressa Dichiarazione anticipata di trattamento (questo è il passaggio chiave che vieta alla stragrande maggioranza dei cittadini, che magari non avranno neppure sentito parlare di Dat, di vedersi sospeso il trattamento artificiale. È l´accettazione della pretesa della Santa Sede e del governo sul caso Englaro con la prospettiva peggiorativa, nel caso prevalga, come è probabile, la formulazione del centro destra e dei teodem, secondo cui il divieto di staccare le sonde va esteso anche a chi avrà firmato la Dat, ndr); e) Collegio sanitario che attesti fino all´ultimo lo stato di incapacità del paziente, con esclusione del medico curante (discriminazione ignobile e offensiva, ndr).
Se questi punti che compromettono il diritto basilare di ogni cittadino ad una fine dignitosa della vita, rappresenteranno davvero la "posizione prevalente" del Pd, dovremmo concludere che questa dizione riflette solo un compromesso di vertice e non certo la volontà della maggioranza degli aderenti e degli elettori del partito riformista. Ne seguirebbe una spaccatura difficilmente sanabile tra vertice e base. Coloro i quali cercano di spiegare una simile torsione come una specie di "stato di necessità" di un partito, nato da una confluenza tra post Dc e post Pci, obbligato quindi a tener conto dei valori dell´una e dell´altra componente, finiranno per mortificare i valori degli uni e degli altri. Il Partito democratico apparirà deludente e inutile per tutti coloro che hanno creduto in un movimento capace di rappresentare le loro speranze e non si riducesse invece a stanza di compensazione per miseri compromessi di una nomenclatura incerta su tutto.
Non siamo, sia chiaro, di fronte ad un dissidio di fondo tra laici e cattolici ma al dilemma se lo Stato italiano possa o no legiferare, anche sulle questioni cosiddette etiche, in uno spirito di neutralità laica che rispetti tutti i suoi cittadini, siano essi cristiani, musulmani, ebrei e non credenti � per dirla con Obama � lasciandoli liberi di comportarsi, ognuno secondo la propria credenza; oppure sia costretto, per la presenza della Chiesa romana in una fase neo integralista, ad imporre a tutti i sudditi � a somiglianza del braccio secolare � l´imperio prescrittivo del Pontefice e dei Vescovi. Questo è il nodo che può strangolare il neonato Partito democratico. Non che i credenti osservanti che in esso militino non abbiano tutto il diritto di comportarsi ascoltando i dettami della loro fede o che, quando siano parlamentari, non possano ricorrere, in casi particolarmente sensibili, alla obiezione di coscienza ed al voto disgiunto. Quel che invece conduce solo, come nel caso in questione, ad indigeribili e avvelenati pasticci è la pretesa di raggiungere un combinato disposto tra dettami integralistici e salvaguardie laico-liberali. E, a scanso di equivoci, intendo come integralismo, sia esso cattolico, islamico o ebraico, l´imposizione teologica secondo cui le leggi dello Stato debbano ispirarsi e sottomettersi, almeno per un largo spettro di questioni, ai principi della religione, dettati e interpretati dalla Gerarchia, faccia essa capo al pontefice, ad un ayatollah o a un rabbino capo.
Paradossalmente il principio di separatezza tra Stato e Chiesa era assai meglio salvaguardato quando l´unità politica dei cattolici s´inverava nella Dc. Sul divorzio e sull´aborto ci furono referendum chiarissimi � Sì, Sì, No, No � senza guerre di religione. Ma ancor più significativo di come un partito, davvero democratico e cristiano, avesse fatto proprio il senso dello Stato, fu nelle elezioni del 1952, quando Alcide De Gasperi rifiutò l´invito di Pio XII e di Gedda, potente capo dell´Azione cattolica, ad allearsi con i missini e i monarchici per "salvaguardare la sacralità della Città eterna, sede del Sommo Pontefice" dal pericolo di una vittoria dei comunisti, appena scomunicati. Si trattava di un tema di grande impatto e non solo elettorale. Per questo il capo storico della Dc non venne mai più ricevuto in Vaticano. Ne soffrì molto ma non sacrificò l´autonomia dello Stato né il suo disegno lungimirante di alleanza centrista con i partiti laici, in attesa del maturare dell´autonomia socialista. Con Moro il discorso si ampliò al Pci berlingueriano. La destra dovette attendere il crollo della Dc per trovare un proprio ruolo.
Oggi della vecchia Dc, come dopo un "fallout" atomico, restano schegge e detriti radioattivi, disseminati lungo tutto l´arco politico, dalla CdL, alla Lega, all´Udc, al Pd e persino ai gruppi minori, tranne i radicali. Tutti sono in gara per assicurarsi benevoli placet vescovili. Tutti si adoperano per escogitare formule e mediazioni bene accette Oltretevere. Con una differenza di fondo. Alla destra tutto ciò conviene, ne trae utilità, ne facilita la coesione (l´unico che se ne distingue in splendida solitudine è Gianfranco Fini). Per Berlusconi, libero dal senso dello Stato e da ogni remora ideale, il catechismo può ben servire da ideologia di pronto uso. Per il centro sinistra la commistione può risultare salvifica o mortale. Salvifica se i cattolici pd ricorderanno l´esempio di De Gasperi e gli insegnamenti di tanti che vennero anche dopo lo statista trentino, da Andreatta a Moro, da Vanoni a Scoppola e in un certo senso anche ad Andreotti. Per contro se Veltroni e Fioroni, Marini e la Finocchiaro, Franceschini e Bersani perderanno tempo e faccia per inseguire compromessi impossibili, la vita del partito, che ha fatto sognare tanti italiani, sarà penosa e forse destinata a declinare in breve tempo. Senza neppure il testamento biologico.

l’Unità 16.2.09
Il vuoto intorno
di Concita De Gregorio


«Meno male che non hai figlie femmine», mi hanno detto ieri. Una frase come uno schiaffo. Non l’avevo mai sentita dire in tutta la mia vita. Avere figlie femmine era una disgrazia ai tempi della mia bisnonna: si racconta in famiglia di una prozia rimasta vedova con quattro figlie. Poveretta. Quattro femmine da crescere, da custodire, da maritare. Vedova della ’15-’18. Un secolo fa. Cent’anni dopo la madre della ragazzina Irene, sedicenne compagna di classe di mio figlio, mi chiede con le lacrime agli occhi se dobbiamo impedire ai ragazzi di uscire il sabato pomeriggio «perché poi quando lei torna a casa è buio e credimi avere una femmina è una disgrazia: viviamo nel terrore». Ecco. La soluzione è tenerle a casa, in quanto femmine. Sottrarle all’inevitabile corso delle cose: la violenza maschile che, secondo natura, si esercita liberamente ai giardinetti sotto casa, al pomeriggio, in centro. Istruirle a difendersi, in quanto femmine. Spray al peperoncino, corsi di karate. Farle coprire e indurle a nascondersi, specie se graziose. Le figlie belle sono la disgrazia suprema. Le bruttine meno.
L’altro adagio corrente, di questi giorni, è la tesi dello scontro di civiltà. Dice più o meno così. Gli stranieri che abitano le nostre città sono portatori di una cultura della violenza sulle donne per loro «naturale». Le trattano così anche a casa. Le picchiano, le umiliano, le abbandonano incinte, le fanno prostituire. Gli africani, i romeni, gli slavi: sono così, non vedete? Non sono loro ad adattarsi ai nostri costumi, al nostro livello «evoluto»: siamo noi a subire la loro inciviltà. Regrediamo, nel contatto. Dobbiamo difenderci. È un argomento emotivo potentissimo contro il quale esercitare la ragione è un esercizio titanico. Dire che ci sono i romeni criminali e gli italiani criminali ma anche no - gli uni e gli altri - sembra un distinguo accademico davanti all’onda mediatica che dipinge le «nostre ragazze» come vittime di marocchini pregiudicati e di slavi accampati al buio sugli argini dei fiumi. È in molti casi anche vero, del resto. L’uomo di origine nordafricana che ha aggredito la ragazza a Bologna avrebbe dovuto essere in galera. Chi ha violentato la quindicenne al parco della Caffarella - non la periferia di Roma, il parco delle ville - era quasi certamente romeno. Molti sono italiani, anche, però. Bravi ragazzi di famiglie tranquille. E poi ci sono le bande di italiani che fanno prostituire le bambine romene e russe. E poi ci sono i fidanzati che ammazzano di botte le ragazza per San Valentino, giusto ieri. È una consolazione dire che lo fanno tutti? Non lo è.
La verità è che la violenza del più forte sul più debole è il metro esatto di questo tempo cupo, esito di un decennio almeno di immiserimento culturale. Un tempo in cui le leggi sono derise, i più forti e i più furbi la fanno sempre franca, unica difesa i gendarmi. Sono le vittime a doversi nascondere perché chi può ruba, rapina, violenta, soffoca e prevarica: va così. Guardatevi attorno: è l’ordine naturale delle cose: per strada, nelle pubblicità patinate, in tv, nei fumetti e nei reality, a palazzo. Si studiava a scuola: lo stato di natura e lo stato di diritto. Ecco cosa stiamo perdendo, dove stiamo tornando. Nessuno che si fermi per strada o si stupisca, del resto. La violenza di una guerra invisibile, e il vuoto intorno.

l’Unità 16.2.09
Violenza senza fine, è psicosi
Raid a Roma contro i romeni
di Massimo Franchi


A Roma quattro stupri in 45 giorni. E Alemanno sa solo gridare contro i rom. Stupri anche a Bologna e Milano, dove una boliviana è stata violentata da un nord-africano.
Una vera escalation. Vittime sempre più giovani, violenza sempre più cieca. A Roma e provincia siamo al quarto caso di stupro in soli 45 giorni. Quello di sabato sera alla Caffarella, parco semi-centrale della città, è l'ultimo di un inizio anno atroce. Si è cominciato a Capodanno con una ragazza di 23 anni picchiata e violentata alla mega festa della Fiera di Roma. Viene arrestato un italiano figlio di un ricco commerciante che aveva appena tirato cocaina. Subito scarcerato. Poi il 21 gennaio una donna di 40 anni viene aggredita e violentata dopo essere scesa da un autobus a Primavalle. La Polizia non ha ancora trovato i colpevoli. Infine il 23 gennaio a Guidonia una giovane coppia si apparta in macchina in un sentiero di campagna. Il branco picchia il ragazzo e lo rinchiude nel bagagliaio,la ragazza viene stuprata. In pochi giorni, grazie alle intercettazioni telefoniche, vengono arrestati quattro romeni. Quando escono dalla caserma rischiano il linciaggio. A due vengono concessi gli arresti domiciliari.
L’escalation ha toccato l’apice a San Valentino. Il giorno dedicato all’amore è diventato quello dell’orrore. È successo a Milano e Bologna. Nel primo caso una studentessa boliviana di 21 anni che lavora per pagarsi l’università ha la sfortuna di trovarsi sola fuori dalla discoteca alle 3 del mattino. Un auto le si affianca, c’è sopra un uomo di origine nord-africana. La fa salire a forza e la porta vicino all’aeroporto di Linate. La stupra e le dice di non dire niente. Poi va a mangiarsi un panino, chiudendo la ragazza in macchina. Lei urla e riesce a dare l’allarme. L’uomo si dilegua. A Bologna invece un tunisino di 33 anni stupra una quindicenne in un parco pubblico nella prima periferia. Era libero nonostante una condanna per spaccio di droga.
La destra contro i rom
Il sindaco Alemanno per il caso della Caffarella ha subito gridato contro i rom: «Forse sono loro, prendeteli e buttiamo via la chiave». Una vera psicosi. Ieri sera quattro cittadini romeni sono stati feriti, due in modo più serio (ne avranno per venti giorni) a Roma all'interno di un locale dove venti giovani a volto coperto sono entrati armati di mazze di legno. Il locale, che si trova nella zona di Porta Furba, sulla via Appia, dista poche centinaia di metri dal luogo dove c’è stato lo stupro. Gli aggressori con il volto coperto da cappellini e passamontagna hanno infranto alcune vetrine sempre usando le stesse mazze di legno.
È psicosi. I dati del Viminale però parlano chiaro. In percentuale le donne romene stuprate sono di più rispetto agli stupratori romeni (9,4% contro 9,2%) e il primato in questo campo appartiene di gran lunga agli italiani: 58 per cento. Prendersela con i rom (partendo pure dall’assunto sbagliato che siano tutti romeni) è demagogia. Ma la psicosi è anche del governo. Che appena si trova davanti ad una serie di episodi criminali pensa di intervenire per decreto.

l’Unità 16.2.09
Nadia Urbinati:
«La paura è merce politica più si alimenta e più cresce il bisogno di autorità»
Intervista a Nadia Urbinati di Bruno Gravagnuolo


C’è una differenza di fondo tra il Partito democratico Usa e il Pd italiano. Oggi quello americano è una formidabile macchina organizzativa di elettori, senza smagliature ideologiche e con una cultura laica e libertaria di fondo. In più l’avversione ai repubblicani è radicale. Nel Pd italiano invece convivono posizioni opposte sui diritti civili e sul dialogo politico, che possono farlo implodere». Conversazione ad ampio raggio quella con Nadia Urbinati, cattedra di «Political Theory» alla Columbia University di New York, studiosa di Hannah Arendt e dell’Individualismo democratico (ultimo suo libro per Donzelli). Tesi politica di Urbinati: il Pd deve coagularsi nella società civile, darsi un riconoscibile linguaggio di sinistra, fondato sul nesso «diritti/emancipazione». Altrimenti? Altrimenti in Italia passerà l’ondata emotiva di destra, che sta sgretolando i fortilizi storici della sinistra. E in virtù di una manipolazione «esistenziale e decisionista», che drammatizza i problemi «per risolverli in chiave autoritaria e potestativa».
Ad esempio, spiega Urbinati, l’attacco alle donne su due fronti: quello quasi quotidiano degli stupri e quello operato dal presidente del Consiglio che parla delle donne nello stesso modo in cui parla degli immigrati. La retorica della politica della sicurezza è come un double bind, dice: «da un lato si mandano i militari nelle strade violando la Costituzione, perché non esiste veramente uno stato di emergenza; dall’altro si fomenta il clima di paura non solo perché la paura genera violenza ma anche perché si giustifica l’impossibilità di garantire la sicurezza usando l’argomento dell’ineluttabilità della natura umana. Ci viene detto cioè che l’uomo è cacciatore e violento per sua natura, come se questo fosse una fatalità. E lo stupro è il riconoscimento della bellezza femminile. Politica e linguaggio che sono una vergogna, una iattura per l’Italia». E non è l’unica vergogna.
Professoressa Urbinati, per «The Economist» quello di Eluana è stato un dramma nazionale che ha rivelato la stabile influenza della Chiesa e l’insofferenza del Premier verso le regole del diritto. È stato questo il «film»?
«The Economist ha capito tutto, concordo totalmente. La situazione è grottesca. Sappiamo benissimo che cos’è lo stato di diritto e ciò che avviene risponde a una logica precisa e a due facce. Da un lato questo pontificato recupera un ruolo teocratico di fondo, insofferente per il rispetto delle sfere autonome di vita, per le scelte del singolo. Dall’altra parte l’esecutivo prevarica la divisione dei poteri in chiave decisionista».
Eppure all’inizio la maggioranza degli italiani era favorevole alla battaglia di Beppino Englaro...
«Sì, ma l’esecutivo rimescola e cavalca l’onda delle emozioni. E il paradosso è che questa maggioranza politica, dai larghi numeri, invece di unire gli italiani, stimola continue divisioni e lacera le coscienze. È un approccio esistenziale ultimativo. Privo di mediazioni politiche. Come del resto accade sul piano della sicurezza, giocata sul filo della paura. Il risultato non può che essere l’appello all’autorità salvifica, come l’unica in grado di dirimere conflitti insolubili in modo imperativo».
È una destra che vuole imporre al paese una sorta di bipolarismo etico? Una destra da stato etico?
«Attenti a non nobilitarla troppo con queste definizioni. Non è nemmeno da stato etico. La verità per ora è più semplice. Berlusconi vuol fare con lo stato quello che ha fatto da imprenditore con le sue aziende. La sua è una scommessa megalomane e narcisistica, per radicare il proprio potere personale e dispotico nelle istituzioni. Forse è la Chiesa cattolica a coltivare l’ambizione di una politica etica, usando l’occasione fornitale da Berlusconi».
Il tutto in un quadro di lacerazioni molteplici, segnato da intolleranze e violenze di branco sul territorio. Da pendolare tra Usa e Italia, che percezione antropologica ha del paese?
«Prima di arrivarci, vorrei tornare alle politiche della sicurezza, il che è già un inizio di risposta. Anche qui c’è come un approccio imprenditoriale. Lo stato incrementa l’ansia di sicurezza, per giustificare mezzi speciali, magari simbolici, come l’uso dell’esercito in strada. E per stimolare la richiesta di autorità. Un circolo vizioso. Quanto al paese reale, mi sembra in preda a una doppia sindrome. Dove convivono fatalismo e angoscia. Per un verso c’è un senso di impotenza e rassegnazione. E al contempo, un vissuto incattivito e da ultima spiaggia. Il paese talvolta pare peggiore di Maroni... Vive con diffidenza e preoccupazione gli stranieri, li teme, benché l’Italia sia un paese di migranti e genti mescolate. E alla fine convive assuefatta con le sue litigiosità e le sue emergenze. Spesso accollandole ai diversi».
In questo clima però si è cristallizato un blocco emotivo e sociale conservatore che può scalzare del tutto la sinistra dalla società civile. È un rischio reale?
«Altroché! E questo per me è un dramma dai tempi lunghi, almeno partire dal 1994. Occorrerebbe fare la storia della sinistra dal 1989 per capire come quel blocco si è formato, e perché non lo si è contrastato con efficacia. La sinistra nel suo insieme - parlamentare e no - ha perso il suo linguaggio specifico, e ha mancato sul piano della leadership. In un sistema rappresentativo questo è un punto essenziale. Senza leader rapppresentativi nei quali identificarsi sul piano emotivo e ideale, c’è il vuoto».
La crisi di leadership non nasce anche dall’aver abbandonato interessi, radicamento e memorie condivise legate all’emancipazione dei subalterni?
«Certo, è innegabile. Almeno da quando la sinistra ha smesso di coniugare governo ed emancipazione sociale. Dopo aver aperto al privatismo nella scuola e al precariato, da Prodi a D’Alema! Sul piano ideale chiusi i libri marxisti, non se ne sono aperti degli altri, e non c’è più stata una seria riflessione teorica. Per liberalismo si è inteso un semplice mercato regolato, e la meritocrazia ha avuto la meglio sull’eguaglianza delle opportunità. Quanto alla “cittadinanza”, la si è declinata in versione legalistica e astratta, senza politiche e progetti sociali. Laddove al contrario, essa è strumento di emancipazione universale, nonché potere democratico di controllo, oltre che terreno inclusivo dell’ospitalità»
Mentre il Pd non sa dove sedersi a Strasburgo, l’americano «Newsweek» titola in copertina: «siamo tutti socialisti». Che c’è di vero?
«È il grande dibattito Usa del momento. Al centro ci sono il ruolo dello stato in economia, i piani di salvataggio per imporre regole alle banche. E gli indirizzi produttivi. Socialismo equivale a spauracchio, ma allude a una necessità di governo economico. Non si può rinunciare a un ruolo forte del pubblico per rilanciare il meccanismo economico. Ecco la verità che si è fatta strada».
Qual è il nocciolo sociale del consenso trainante di Obama, nel mondo produttivo e dei lavori?
«Elettorato ampio, fatto di “professionals” - lavoratori delle professioni libere - sottoclassi, emarginati e precari. E lavoratori dell’industria, comunemente reputati in diminuzione e nondimeno oggetto dell’attenzione di Obama, deciso ad aiutare l’industria automobilistica. La sensazione è quella di una situazione gravissima, dove il mercato si è inceppato e si rivelato incapace di funzionare. Ecco perché lo stato deve intervenire. E l’augurio è che intervenga non solo per far ripartire l’economia, ma per distribuire opportunità e ricchezza. Come ha promesso Obama».

Nadia Urbinati insegna Teoria Politica nel Dipartimento di Scienza politica della Columbia University di New York. Laureata all’Università di Bologna, tra i suoi maestri ci sono stati Norberto Bobbio ed Eugenio Garin. Si occupa di pensiero politico moderno e contemporaneo e di teoria democratica e liberalismo. Sta lavorando a un progetto di studio sull’«antipolitica» moderna, in una chiave critica contro il populismo di destra e contro l’approccio «cognitivista» di Habermas. Una prospettiva «emotiva» quella di Urbinati, ispirata a Hannah Arendt. Tra i suoi numerosi lavori, oltre a «L’individualismo democratico», il recente volume sulla «Democrazia rappresentativa», che sta per uscire in Italia sempre per Donzelli.

l’Unità 16.2.09
Libertà femminile
Senza si arretra tutti
di Susanna Camusso, segretario CGIL


La nostra Repubblica attraversa probabilmente la più grave crisi istituzionale dalla sua fondazione. Una notte buia in cui è messo in discussione l'equilibrio dei poteri e quindi il fondamento della democrazia.
Particolare orrore suscita la strumentalizzazione della vicenda Eluana Englaro, che avrebbe dovuto vedere da parte di tutti fare un passo indietro. Ma il silenzio dovuto non è stato la misura della politica e il presidente del Consiglio ha mostrato disprezzo per la Costituzione e per le donne. Bisognerebbe fare un passo indietro, rispetto alle vicende degli ultimi giorni, e domandarci se il crescere dell'attenzione mediatica e politica sulla violenza maschile contro le donne porti con sé, anche solo simbolicamente, un senso o sia, un'ulteriore regressione. Le statistiche sono note ed ignorate, la violenza contro le donne si esercita prevalentemente tra le mura domestiche, nella cerchia famigliare o dei conoscenti. È un pensiero "molto maschile" quello che distingue per gravità diverse se la violenza è commessa da uno straniero, da un estraneo, o da chi ha un legame affettivo. Se una diversa gravità potesse essere individuata comunque rovescia quell'ordine. Per le donne ogni uomo che violenta è un violentatore, ma forse è ancor peggio (se vale l'idea che al peggio non c'è limite) se è amato, conosciuto, se c'è un legame affettivo. Quella rottura di sé che genera la violenza, la lacerazione della dignità, non può non essere "aumentata" dal vederla compiere da chi pensavi ti conoscesse, amasse, avesse condiviso con te un progetto. Perché allora si opera questa gerarchia, perché si sconfina rapidamente in un razzismo che ha bisogno di vedere il diverso da sé? Perché è più semplice portare fuori e non interrogarsi? Perché non ci si vuole interrogare su una sessualità maschile che dà per scontato che la violenza è connaturata e quindi che noi, le donne, dobbiamo essere vittime per sempre? Questo significato hanno le affermazioni sulle donne belle da proteggere con i soldati, o quando si dice di Eluana: "Potrebbe fare un figlio, ha il ciclo mestruale". Si può dire che la traduzione è stupro, è concepire la donna come puro contenitore, è negare la procreazione come scelta libera e consapevole? Questa è la cultura che legittima la violenza maschile contro le donne, il clima che si respira. Non vogliamo essere vittime per sempre, allora devono tornare nel lessico quotidiano parole e valori che del rispetto, della dignità, della libertà femminile, fanno misura della democrazia e della civiltà del nostro paese.
Per questo, anche nei giorni della crisi, mentre con il presidente della Repubblica difendiamo la Costituzione, non ci possono essere dei non detti o dei temi secondari, senza libertà femminile si arretra tutte e tutti, perciò non ci può essere un tempo della democrazia e un tempo delle donne.

l’Unità 16.2.09
Simone De Beauvoir
Quando la scrittura è donna e rivoluzione
di Adele Cambria


Da oggi al 3 aprile a Roma, a Tivoli e Santa Marinella, nel Lazio, è in calendario una serie di appuntamenti per ripensare e rileggere quella grande pensatrice e scrittrice che sconvolse il mondo con il libro «Il secondo sesso».
Da oggi fino al 3 aprile, tutta Simone De Beauvoir in tanti luoghi della città italiana che più amava, Roma, e quindi nelle Accademie e nei Palazzi ma anche nei Licei delle periferie e in altre due città del Lazio, la Tivoli dell’imperatore Adriano e la graziosa Santa Marinella…. Ma un mese e mezzo non basta, come si fa ad inseguire-afferrare-rileggere-ripensare Simone, a cento anni dalla sua nascita? Lei che diceva di sé, orgogliosamente: «Una donna scrittrice non è una donna di casa che scrive, ma qualcuno la cui intera esistenza è determinata dallo scrivere». Una-donna-che-scrive, dunque, ancora nella prima metà del Novecento era considerata un curioso fenomeno, magari persino sconveniente: e quando Simone - che pure aveva già autorevolezza e prestigio intellettuale - nel ’49 pubblicò il suo libro più esplosivo, frutto di anni di ricerche, e intitolato Il secondo sesso, persino i suoi amici scrittori le rimproverarono le cose più abiette: Albert Camus le fece sapere che aveva ridicolizzato il maschio, mentre il romanziere cattolico François Mauriac trovò il modo di rendere noto ai redattori de Les Temps Modernes che ormai sapeva tutto «della vagina della vostra Direttrice». E nel 1950 Il secondo sesso fu messo all’Indice dal Vaticano.
Per fortuna, e per merito grande di donne come lei, aneddoti del genere non fanno più parte del folklore misogino (almeno è sperabile…) Così Francesca Brezzi, professore ordinario di Filosofia morale a Roma Tre, aprendo la conferenza stampa che nei saloni del Centro culturale francese di Piazza Campitelli presentava il ricchissimo programma della manifestazione, ha usato, per l’opera di Simone, la metafora molto femminile del ventaglio: che allargandosi svela in ogni sua piega una figura, un colore diverso, eppure è un unico oggetto prezioso. Così la varietà dei libri scritti infaticabilmente da Simone. Trascorrendo dalla memorialistica dei quattro volumi magnifici dell’autobiografia ai romanzi ai libri di viaggio - avvincente L’America giorno per giorno, dove la scoperta degli Stati Uniti si intreccia con la passione per lo scrittore americano Nelson Algreen - fino agli scritti filosofici, Per una morale dell’ambiguità. Dove, sottolinea Brezzi, il pensiero della de Beauvoir non si appiattisce sull’esistenzialismo sartriano ma trova un suo percorso originale. «Narrare… è già politica». Questo il logo della lunga celebrazione italiana. E non è un modo di dire qualsiasi, ma il frutto dell’accumulo dell’esperienza della scrittura delle donne negli ultimi decenni. Quando le contraddizioni della politica tradizionale (maschile) si son fatte via via sempre più irresolubili, e a scioglierle, forse, serve meglio la narrazione. Con voce di donna.

Repubblica 16.2.09
"Milioni di atei in Italia" parte oggi il bus-scandalo


GENOVA - Dopo le polemiche e il cambio di slogan, parte oggi l'ateobus. Il messaggio che si legge sulle fiancate è "La buona notizia è che in Italia ci sono milioni di atei. Quella ottima è che credono nella libertà di espressione" che ha sostituito "La cattiva notizia è che Dio non esiste. Quella buona è che non ne hai bisogno", bocciato dalla concessionaria degli spazi pubblicitari perché ritenuto contrario al Codice di autodisciplina pubblicitaria in quanto "lesivo delle convinzioni religiose delle persone". L'ateobus arriva in centro dove è stato allestito un infopoint dell'Uaar che spiega il senso della campagna.

Repubblica 16.2.09
Disordine e caso in politica
Se la legge dell’uomo è diversa da quella di dio
In che modo il disordine minaccia la sovranità e può diventare un incubo per il potere. Intervista a Carlo Galli
"Si tratta di pensare la fine della tradizione cristiana e dell´idealità rinascimentale"
di Antonio Gnoli


Il successo di un uomo politico non dipende solo dall´abilità con cui traduce nell´azione una propria visione del mondo. Un ruolo tutt´altro che secondario riveste la fortuna, come aveva capito nel XV secolo l´autore del Principe Niccolò Machiavelli. La fortuna è imponderabile, cieca, insondabile nei suoi modi di realizzarsi. Essa è perfino ingiusta, sfacciata, nella sua cruda casualità con cui favorisce o sfavorisce qualcuno. Nella politica essa ha un peso a volte determinante. E il politico che improvvisamente vi si imbatte deve saperla afferrare, piegando a proprio vantaggio l´avversità che l´altra faccia della fortuna può scaraventargli contro.
Fortuna, caso, contingenza sono parole equivalenti per misurare l´imponderabilità e i rischi che si nascondono nel tempo presente. Alla contingenza e al suo opposto - ovvero alla necessità, Carlo Galli (che insegna Storia delle dottrine politiche all´Università di Bologna) ha dedicato un libro che ricostruisce una polarità dentro cui la modernità politica, a partire da Machiavelli e Hobbes, si è mossa. Sia Machiavelli che Hobbes sono agli occhi di Galli pensatori della contingenza. Essi intendono limitare, se è possibile ingabbiare e neutralizzare, gli effetti del caso, la virtuale irrazionalità che in esso si nasconde, la sua capacità di produrre disordine e inquietudine.
Non sempre il caso, o la contingenza, ha giocato un ruolo primario nella storia della politica. Prima che tramontasse il modello teocratico le linee dell´azione politica erano per lo più interne a un disegno divino. È soltanto con l´irrompere della modernità che il caso acquista un rilievo e un´importanza sia fattuale che speculativa. Tutto il libro di Galli (Contingenza e necessità nella ragione politica moderna, Laterza, pagg. 256, euro 20) è centrato sul rinnovamento che il Moderno produrrà nelle categorie politiche e sui tentativi di quelle frange, significativamente legate alla Chiesa cattolica, di restaurare un ordine di natura teocratica. Per queste ultime lo choc della Rivoluzione Francese fu enorme. Il pensiero controrivoluzionario di De Maistre, Bonald, Donoso Cortés, imputò al Moderno l´ingresso delle masse in politica, la nascita della democrazia e del socialismo.
In conflitto con il pensiero liberale, questi autori videro nella politica teologizzata, ossia messa al riparo dal disordine e dall´anarchia, il solo modo per ristabilire un ordine che avesse nuovamente nell´obbedienza alla legge divina il punto di riferimento.
Professor Galli perché la contingenza ha così tanta importanza nel pensiero politico moderno?
«Perché diviene l´elemento ineludibile del suo modo di intendere il disordine storico. Si tratta in altre parole di pensare la fine della tradizione cristiana e dell´idealità rinascimentale, consapevoli che certe categorie, certi modi di intendere la sovranità non funzionano più».
Esattamente cosa entra in crisi?
«L´idea, tipica della tradizione cristiana, per cui all´inizio di ogni ragionamento politico, diciamo pure del suo logos, ci fosse la Giustizia riconducibile a un Ordine più o meno divino. La realtà mondana là dove deviava da quell´ordine doveva semplicemente correggersi in funzione extramondana».
Ma in pratica come avveniva la correzione dell´errore?
«Attraverso l´esercizio del buon governo e della giustizia umana. In questo modo era possibile ottenere l´armonica coesistenza della società. Al contrario, il Moderno - con le sue guerre civili, con i conflitti di religione e con l´affermarsi del primo capitalismo - vive in maniera diretta che all´inizio della sua esistenza ci sia il disordine. Scopo della politica dunque non è uniformare la società a un ordine preesistente, ma crearne uno che risolva gli urti, i conflitti, le contraddizioni che lo attraversano. È una vera rivoluzione quella che attueranno alcuni pensatori moderni».
Lei definisce Machiavelli e Hobbes pensatori della contingenza. Ma aggiunge che hanno due modi differenti di rispondere al disordine che la società produce.
«In Machiavelli la contingenza originaria si chiama Fortuna. Essa può essere fonte di pericolo, ma anche un´occasione di virtù, perciò non va completamente neutralizzata. La virtù infatti esalta le energie del principe e del popolo. Sapendo però che il fine della politica per Machiavelli è la gloria. Mentre in Hobbes il fine della politica è la costruzione dell´ordine. Agli occhi dell´autore del Leviatano la contingenza originaria è vista come fonte di pericolo e deve essere quanto più possibile bloccata e sostituita dalle certezze dell´ordine normativo creato dalla ragione umana».
Sia Machiavelli che Hobbes sembrano dirci che Dio non serve nella costruzione del nuovo schema politico del potere. Eppure, soprattutto Hobbes, non riesce a sbarazzarsi completamente dalla figura ingombrante di Dio. Si può affermare che la modernità è fin dall´inizio qualcosa di incompiuto e di contraddittorio?
«Già i polemisti cattolici del Seicento e poi del Settecento avevano compreso che il razionalismo politico moderno, e l´illuminismo che ne è stata la divulgazione, possono essere interpretati come una teologia politica rovesciata che attribuisce al soggetto umano e alla sua ragione il ruolo fondativo, creativo e normativo che nella tradizione era svolto da Dio. Essi vedono la modernità come una sacrilega parodia dell´Ordine e della Giustizia».
È una interpretazione che accentuerà i toni critici dopo la Rivoluzione francese. Il Dio perduto, esiliato, annichilito dalla Modernità occuperà i pensieri dei vari De Maistre, Bonald, Donoso Cortés. Siamo nel cuore nero dell´Ottocento.
«Sono pensatori che riducono il Moderno al nichilismo. Nessuna meraviglia perciò se agli occhi di questi critici la politica moderna realizza esattamente il contrario di ciò che si ripromette: vuole l´ordine e ha la rivoluzione, vuole la fraternità e ha la guerra, vuole il progresso e ha la caduta dell´Europa nella barbarie, vuole lo Stato e ottiene l´instabilità, vuole l´uguaglianza e ha l´oppressione dei borghesi sui proletari, che ben presto si rovescerà, come profetizza Donoso Cortés, nell´oppressione dei proletari sui borghesi».
A spaventare questi pensatori è la nascita delle masse come soggetto politico. Perfino un teorico della democrazia come Tocqueville se ne sente condizionato. C´è una relazione tra loro?
«È dimostrata l´influenza che il pensiero controrivoluzionario cattolico francese ha avuto su Tocqueville. Il quale accolse l´idea che la democrazia è il destino e l´orizzonte del Moderno e che al tempo stesso è perennemente in condizione di crisi. Ma mentre le cause di questa crisi sono per i fondamentalisti controrivoluzionari di natura teologica, Tocqueville ne dà un´analisi storica e sociologica».
È possibile istituire una relazione forte tra quei pensatori cattolici che vedono nel Moderno la dissoluzione della Tradizione e l´attuale politica culturale della Chiesa?
«C´è nell´attuale pontificato un revival tradizionalistico che si veste di aristotelismo. Benedetto XVI ne è la punta teorica più avanzata».
Cosa si deve intendere con tradizionalismo?
«Che c´è una sola retta ragione umana che nasce dal fatto che Dio ha parlato agli uomini in modo razionale, in modo che tutti comprendessero gli ordini e si adeguassero a essi. Esercitare la retta ragione significa dunque uscire dal conflitto con Dio e con la Chiesa gerarchica».
La legge umana va subordinata alla legge divina?
«Se la ragione umana è rettamente utilizzata non può non essere in sintonia con la legge divina. È la posizione dell´attuale Papa. Il Cardinal Martini, per fare un solo esempio, ha una posizione molto più drammatica».

Corriere della Sera 16.2.09
Un’altra Resistenza
I militari internati che dissero no
di Claudio Magris


L'altra Resistenza, dice il titolo di un celebre libro di Alessandro Natta. Di Resistenze - anche di formazione molto diversa, pur nella comune lotta contro il fascismo e soprattutto contro l'occupatore nazista - ce ne furono, come si sa, molte. Quella di Giustizia e Libertà, quella repubblicana, socialista, cattolica, monarchica, comunista; quest'ultima la più rilevante e organizzata, quella che ha dato il maggior contributo di sangue e che si è pure resa più colpevole di criminose violenze eccedenti la terribile logica della Guerra civile. Come è noto, le divergenze politiche all'interno della Resistenza portarono, specie ai confine orientali d'Italia, anche a scontri sanguinosi e a delitti fratricidi, quali ad esempio l'eccidio di Malga Porzús.
I resistenti al fascismo e soprattutto al nazismo e le vittime - furono diversi non solo quanto a posizione politica, ma anche per appartenenza etnica, come soprattutto gli ebrei o gli zingari, e per quel che riguarda l'estrazione sociale. Una di queste categorie di deportati, di resistenti al Leviatano nazista, di cui certo si parla (è stata di recente ricordata e onorata dal presidente Napolitano, col suo forte senso dell'Italia) ma di cui in genere non si parla abbastanza, col rilievo che essa merita, è quella dei militari italiani, massacrati (come a Cefalonia) o catturati dai tedeschi dopo l'8 settembre in seguito a quel pauroso sbandamento e talora pure all'ignavia di alcuni loro comandanti - e deportati in Germania o trattenuti nei Balcani; rispettivamente circa 550.000 e 100.000, come riporta una recente pubblicazione di Nicolino de Roberto.
Qualificati dai nazisti come «internati» e privati dunque dei diritti riconosciuti, secondo le convenzioni internazionali, ai «prigionieri di guerra », questi militari, soldati e ufficiali, rifiutarono, in stragrande maggioranza, di aderire al nazismo e alla Repubblica di Salò sua alleata, scegliendo così il Lager e durissime condizioni di sofferenza e di umiliazione. Questa loro scelta è stata tanto più difficile e meritoria in quanto non era facile specialmente per chi non era ideologicamente inquadrato in una formazione politica - capire, nella confusione e nel caos dell' Italia spaccata in due, quale fosse veramente l'Italia. Vanno parimenti ricordati quei militari che, prigionieri degli inglesi o degli americani, rinunciarono alla libertà per non aderire all'Italia badogliana, spinti da un senso di onore comprensibilmente rafforzato dall'incertezza della situazione e dalla fellonia del re fuggiasco.
L'internato militare in un Lager Tedesco era solo, dinanzi ai suoi oppressori e alla sua scelta; solo con la sua coscienza e il suo sentimento, perlopiù senza il sostegno morale e psicologico di una appartenenza politica, che aiuta a scegliere e a combattere, come l'appartenenza a un reggimento in una battaglia.
Quella scelta, essi l'hanno fatta per amore dell'Italia e per un senso profondo dell'onore, oltre che per l'intelligenza che ha fatto loro capire da che parte stava l'umanità.
Anch'essi sono protagonisti di quel riscatto della patria e della libertà da cui è nata l'Italia democratica, con la sua Costituzione che oggi si vuole non correggere o aggiornare, bensì distruggere nei suoi fondamenti, che rappresentano la base della nostra vita civile. E' sconcertante che questa sovversione provenga da chi governa il Paese fondato sulla Costituzione. Oggi quegli ex internati non rappresentano una forza politica né un movimento ideologico e tanto meno una riserva di voti. Forse per questo non siamo loro grati come dovremmo; questi giorni dedicati alla memoria sono una buona occasione per ricordarci a fondo anche di loro.

Corriere della Sera 16.2.09
La primogenita del teorico di Autonomia mette sotto accusa la maturità di una generazione
Toni Negri, il mio padre bambino
«Anni di piombo, quando si tratta di figli siamo tutti vittime»
di Dino Messina


Ha diretto «Un posto al sole»
Anna Negri, primogenita di Toni Negri, è nata nel 1964.
Regista e sceneggiatrice, ha diretto «In principio erano le mutande», «Nate per sposarsi» e «Riprendimi» (presentato al Sundance Festival) e alcuni episodi della soap tv «Un posto al sole».
L'autobiografia «Con il piede impigliato nella storia» (pp. 272, e 17) uscirà da Feltrinelli


«Nell'estate del '73 si è sciolto Potere Operaio e c'è stata una grande festa in campagna per i quarant'anni di Toni. C'erano tavolate e tavolate piene di gente, un grande fuoco, mio padre molto ubriaco che rideva, circondato dai compagni; sembrava una di quelle feste all'ultima pagina di Asterix. Io li guardavo incuriosita, era il mondo all'incontrario, come in quei vecchi quadretti che aveva mio nonno, dove il capretto faceva arrosto l'uomo: il papà si divertiva molto più di me, come se lui fosse il bambino e io quella seria, in una vita noiosa e senza gioia».
Il mondo all'incontrario lo descrive con rara efficacia Anna Negri, primogenita del filosofo e teorico dell'Autonomia Toni Negri, in un'autobiografia carica di passione e a volte di risentimento che uscirà il 12 marzo da Feltrinelli: Con il piede impigliato nella storia. Metà cronaca famigliare, metà racconto degli anni della contestazione e del terrorismo, visti con gli occhi di una ragazzina costretta a fare troppo presto i conti con la realtà, questo libro confessione va dal 1969, anno della strage di piazza Fontana, al 1983, quando Negri, eletto deputato nelle liste radicali, venne scarcerato e fuggì in Francia per cominciare un esilio di quattordici anni.
Anna, che oggi è un'affermata regista cinematografica, aveva cinque anni e suo fratello Francesco due, quando il 12 dicembre 1969 nella sua casa di Padova arrivò la prima perquisizione. Il papà non c'era, tra i compagni era circolata la voce che quella notte era meglio dormire fuori, e i due bambini non si resero conto di nulla. Assistettero invece all'irruzione degli agenti nell'appartamento milanese all'indomani dell'omicidio Custra, il brigadiere di 22 anni ucciso il 14 maggio 1977 in via De Amicis. Quel giorno, durante la perquisizione in casa Negri, fu fermato Maurice Bignami, che aveva con sé un mazzo di carte di identità bianche. Anna non aveva il coraggio di chiedere che cosa c'entrasse il padre con l'omicidio Custra, «ma non saperlo» scrive, «era molto peggio. Era come la parola "P38": appena qualcuno la diceva mi sentivo chiamata in causa, colpevole, anche se non sapevo bene perché». In realtà il teorico dell'Autonomia operaia non era imputato di quell'assassinio ma trascorse un lungo periodo da latitante e la prima notte, su suggerimento della nonna, i genitori di Anna «sarebbero andati in un night, fino all'alba».
«La casa di Padova era un'isola incasinata e felice » così come sarebbe stata quella di Milano, un grande appartamento nel quartiere borghese tra via Boccaccio, piazza Virgilio e via Monti, un'andirivieni di compagni, intellettuali che spesso si fermavano a dormire. Ma il sogno della bambina Anna era la normalità: nelle «fantasie pastello» prima di addormentarsi «il papà era un mite professore di liceo, quasi timido, la mamma faceva la casalinga e portava le gonne, le calze bianche, i twin-set, e io e mio fratello eravamo bambini tranquilli e ben pettinati». Nella famiglia Negri dominava invece la dimensione politica, «il papà sempre in giro per l'Italia e l'Europa », la mamma impegnata nelle centocinquanta ore. Un impegno che diventava ossessione. Tanto da far scrivere ad Anna: eravamo bambini malati di realtà. Non che mancassero affetto e dimensione giocosa. Anzi, molte pagine descrivono un quadro felice con al centro il padre Toni «come un re e noi la sua corte», la madre innamoratissima, nevrotica e intelligente.
A volte invece si svolgevano scene come questa: durante una festa a Lugano, dove Toni Negri si era rifugiato per qualche mese, un esule cileno disse alla dodicenne Anna: lo sai che in Cile ragazzine della tua età sono state «violate»? «Non ero a mio agio, non volevo saperne di tutto quel dolore, non capivo perché doveva raccontarmi tutte quelle cose, insomma mi sentivo violata anch'io, nel senso italiano del termine». L'ossessione politica disturbava quei bambini: per esempio durante un viaggio a Londra con amici la mamma di Anna si era messa a rubare nei negozi, gettando nel panico i ragazzi.
Il sogno di normalità naufraga totalmente il 7 aprile 1979 quando Toni Negri viene arrestato assieme a Luciano Ferrari Bravo e ad altri compagni dell'Autonomia con l'accusa di «associazione sovversiva» e «insurrezione armata contro lo Stato » che porterà al processo nel 1984 con una condanna a trent'anni. Ma nel racconto di Anna non è tanto centrale la contestazione del «teorema Calogero», dal nome del pubblico ministero che aveva formulato le accuse, quanto l'impegno della famiglia nello stare vicino al padre, seguendolo nella dolorosa peregrinazione carceraria: Roma, Palmi, Trani, Forlì. Una famiglia esplosa ritrova l'unità attorno al padre ferito, una coppia in crisi si riconcilia. Il centro di queste pagine è la madre di Anna, che sacrifica tutta se stessa per aiutare il marito.
Il racconto privato di un'adolescenza inquieta negli anni Settanta a Milano si alterna con la descrizione di fatti e personaggi pubblici legati al padre: dal rapimento Moro all'omicidio di Walter Tobagi. Anna ha parole particolarmente dure per il terrorista pentito Marco Barbone: «C'era qualcosa di molto violento nel diventare pentiti: con la stessa mancanza di scrupoli con cui avevano ammazzato, ora per salvarsi mandavano in galera gente che magari non c'entrava affatto. Per poi, anni dopo, farsi sposare nel Duomo di Milano dal cardinal Martini».
Il libro si chiude con la fuga in Francia del padre, la scoperta che questi a Parigi aspetta una figlia dalla nuova compagna, Donatella Ratti, il dolore della madre. Ma soprattutto con la condanna di una generazione che aveva sacrificato tutto alla politica. Rifacendosi a un discorso pronunciato da Toni Negri in Parlamento Anna scrive: «Pensavo all'Inno di Venere che anche mio padre non aveva saputo ascoltare, non quello filosofico ma quello dei suoi figli che non aveva protetto. Proprio come tutta la classe politica italiana, che è Crono che mangia i suoi figli, e l'Italia è una società dove è impossibile crescere». Anna si sente parte lesa della storia: «Ci sono ferite che non si rimarginano perché è morta tanta gente, sono morti i ragazzi in manifestazione, sono morte le vittime del terrorismo, quelle delle bombe, ma sono morti anche tanti poliziotti, e sono morti tanti operai, come quelli che lavoravano alla Montedison». Figli di Crono anche «i compagni finiti ingiustamente in prigione che sono morti giovani di tumore, e tanti figli di compagni ingiustamente inquisiti che crescendo sono stati male: tentati suicidi, droghe, depressioni, e lo stesso si può dire per i figli delle vittime. E allora ti accorgi che quando si tratta di figli non ci sono vittime o carnefici, siamo tutti bambini traumatizzati da una Storia che non ci apparteneva e non abbiamo scelto».

Corriere della Sera 16.2.09
Filosofia
Cuba a «lezione» da Severino
di Armando Torno


Dal 21 febbraio al 7 marzo Emanuele Severino sarà a Cuba, invitato dal governo. Non semplici conferenze, ma un dialogo dal valore istituzionale e politico. È stato ritenuto lo studioso più affidabile per analizzare le problematiche relative agli sconvolgimenti attuali, anche in una società legata al modello socialista. Parlerà all'Università dell'Avana (dove sono previste tre sue lezioni, una delle quali aperta a tutti, con la presenza di Raúl Castro) e al Centro di Studi Superiori d'Arte. I temi trattati: lo sviluppo verso la civiltà della tecnica da parte delle forme di società capitalistica oggi esistenti, nonché quei sistemi a economia pianificata ancora operanti nel globo (tra i quali, appunto, Cuba). Si approfondirà il rapporto tra questi temi e la concezione speculativa di fondo del filosofo, che riassumiamo così: se le forze della tradizione occidentale sono destinate ad essere oltrepassate dalla tecnica, d'altra parte quest'ultima deve rendere conto di sé al senso radicale della verità (ciò che Severino chiama con la parola destino). Tra i numerosi inviti che ha ricevuto, anche se non ama muoversi, ricordiamo quelli delle Università di Mosca, Buenos Aires, Atene, Madrid e della Sorbona.
Inoltre ne accettò uno in Iran, a Teheran, dove ha parlato del dialogo tra i popoli. Fonti informate, che riferiamo per completezza ma senza conferma, segnalano un invito alla Columbia University di New York (non accettò quelli in Colorado e a Oxford). Ma questa è un'altra storia.
Ne parleremo.

Corriere della Sera 16.2.09
A Firenze Il presidente della Provincia sarà il candidato sindaco del Pd: con il 40,5% evita il ballottaggio. Sconfitto Pistelli
E Renzi «l'anti-sistema» sbaraglia i rivali alle primarie
di Andrea Garibaldi


FIRENZE — Si decide il candidato sindaco di centrosinistra, a Firenze, il Partito democratico si divide in quattro candidati, e vince quello che più si distingue dal partito, che fa una campagna tutta personale: il giovane, ambizioso, Matteo Renzi.
Nella notte Renzi raggiunge il 40,5 per cento dei voti, quindi è vincitore al primo turno. Non era favorito, ma ha tenuto a buona distanza tre avversari molto più di apparato. Il secondo classificato, 14 punti percentuali indietro (26%) è Lapo Pistelli, responsabile esteri del Pd, ex democristiano, molto vicino al segretario Veltroni. Terza è Daniela Lastri (15%), ex sinistra Ds, da dieci anni assessore all'istruzione in Comune. Ultimo, Michele Ventura (12%), già vicesindaco negli anni anni '90, dalemiano, ministro ombra pd per l'Attuazione del programma, sceso in campo per compensare il ritiro di Graziano Cioni, assessore comunale, ex comunista di ferro, coinvolto nell'inchiesta giudiziaria sullo sviluppo urbanistico dell'area di Ligresti in zona Castello. Fanalino di coda (5%) Eros Cruccolini (Sinistra democratica più vendoliani).
Renzi ha fatto una campagna all'americana. Ha puntato su se stesso: simpatico, piacente, battuta pronta, capace di ascoltare pensionati, casalinghe, imprenditori, costruttori. Maniche della camicia arrotolate.
Maglione viola, il colore della Fiorentina, lo indossava anche ieri sera. Duecento giovani volontari, in bicicletta. Grande utilizzo di Facebook. «Se perdo torno a casa a lavorare ». Cento punti per cambiare Firenze. Il tracciato della tramvia che passa accanto al Duomo, da rivedere, in contrasto con la battaglia condotta dal sindaco per dieci anni, Leonardo Domenici. Quanto a Eluana, «Napolitano non poteva firmare quel decreto, ma l'idea che sia morta disidratata mi fa star male».
Nato nei dintorni, a Rignano, 34 anni fa. Figlio del titolare di un'impresa di marketing. Carriera negli scout. A 19 anni va alla «Ruota della Fortuna» di Mike Bongiorno, vince 48 milioni e due cucine. A fine '99 è il più giovane segretario provinciale del Partito popolare, cinque anni fa diventa il più giovane presidente di Provincia, quella di Firenze. Capocorrente, Rutelli.
Tuttavia, man mano Renzi molla ogni ormeggio: «Francesco resta un grande amico, però... ». Però lui si sente maggiorenne, pronto a farcela con le sue forze, dando uno sguardo pure agli elettori di centrodestra. Punta su Palazzo Vecchio, per diventare il più giovane sindaco di Firenze. Dice che ha fatto una campagna delle primarie «contro il sistema». Contro Veltroni, contro D'Alema.
Slogan, «facce nuove a Palazzo Vecchio». Dice che hanno inventato il ballottaggio per danneggiare proprio lui, il candidato fuori nomenclatura. Al secondo turno tutti si sarebbero coalizzati contro di lui, l'incontrollabile. Certo, il Pd segna un altro punto critico, a Firenze. Da questa notte fredda esce un risultato che né il partito in Toscana né i dirigenti giù a Roma avevano desiderato o previsto. Il Pd trae comunque buoni auspici dalla domenica di sole e di voto.
Trentasettemila fiorentini (su circa 150 mila elettori di centrosinistra) sono andati a votare per le primarie. Per Veltroni, ottobre 2007, furono 35 mila. Voglia di partecipazione. Adesso Renzi, col suo sganciamento dalle discipline di partito potrebbe generare il rigetto di tanti che furono elettori Pci-Pds-Ds e dare una chance al centrodestra.

Corriere della Sera 16.2.09
Hugh Laurie: il medico della tv è uno Sherlock Holmes con un carattere degno di Mr. Hyde, ambivalente come il mio
I segreti del Dr. House: combatto la depressione
«La terapia? Tante personalità come Peter Sellers»
di Giovanna Grassi


L'attore inglese sul grande schermo Usa: è la voce di uno scienziato folle nel cartoon «Mostri contro alieni»
LOS ANGELES — «Sin da quando ero uno studente, figlio di un medico, educato alla religione presbiteriana, vincevo ogni mia depressione imitando Peter Sellers. Non mi piace andare in una sola direzione... ». Hugh Laurie si confessa. E' lui il dottore televisivo più abituato a esaminare complicati casi clinici, il più provocatorio, quello con il carattere più contorto e disilluso, un uomo brusco, spesso arrogante. Lui, che nella fiction deve sempre combattere contro i dolori a una gamba (e per questo è farmaco-dipendente) nella realtà ha combattuto fin dalla giovinezza il male oscuro della malinconia ingiustificata. Come altri grandi dello spettacolo. Come Sellers, appunto, che visse con la paura di non essere all'altezza del suo pubblico. Al punto che affermava di non avere una personalità propria, ma sempre quella del personaggio che stava interpretando.
Dice Laurie a proposito del suo House: «E' una sorta di alter ego torturato, uno Sherlock Holmes con un carattere degno di Mr. Hyde, dark e ambivalente come il mio». Proprio recentemente ha toccato quota cento episodi nel serial: «Abbiamo festeggiato con le casalinghe disperate, anche loro "centenarie"» Ricorda quando fu scelto dal regista Bryan Singer per la prima serie. «Nel 2004 pensavo che dopo un mese avremmo finito. Recitai con accento americano e conquistai il ruolo. I produttori non sapevano che imitare gli accenti era stato uno dei miei divertimenti sin da quando salivo sul palcoscenici dell'università e del festival di Edimburgo».
Aggiunge: «Tanti inglesi mi considerano un traditore perché ormai recito perlopiù con accento americano, con 19 milioni e passa di spettatori per ogni puntata e la mia faccia è entrata a far parte della cultura pop Usa. La tv americana mi era sempre parsa serializzata e commerciale. Ma mi era piaciuto il copione, una sorta di detective story dark, con caratteri anomali rispetto agli standard. Mai avrei immaginato che mi avrebbe fatto vincere due Golden Globe e il premio del sindacato attori».
E' orgoglioso della sua carriera eclettica. Ma a Laurie non era mai capitato di diventare un dottor Scarafaggio. E, invece, a quasi cinquant'anni (Oxford, classe 1959), Hugh, per il mogul Jeffrey Katzenberg e il film d'animazione Mostri contro alieni (il primo in 3D della Dreamworks), ha prestato la sua voce a un ingegnoso e folle scienziato.
Non è la prima volta che s'impegna nei cartoon il colto attore che per contratto sarà House fino al 2012. Studi a Eton, laurea in Antropologia e Archeologia, è anche uomo di lettere perché scrive thriller politici ( Il venditore di armi è stato pubblicato anche da Marsilio, e un altro suo romanzo sta per uscire in Usa), ha una passione per la musica e infatti, è un pianista apprezzato nonché tastierista e voce di un gruppo musicale formato da attori delle televisioni Usa e inglese (la
Band from TV).
Osserva: «L'America a lungo è stato un paese dove mi sentivo di passaggio sognando di poter un giorno recitare con il mio mito, Clint Eastwood, e di percorrerla con mia moglie in motocicletta da una costa all'altra. Le cose che mi fanno sorridere con ironia sono la considerazione che il pubblico femminile mi ha eletto attore sexy in età matura e che alcuni professori di Filosofia e saggisti americani dedicano pagine anche su riviste come Time al mio dottore».
Gli piace fare cose alternative al suo House e conclude: «Mi ha riportato alla giovinezza da attore brillante il recitare in Monsters vs. Aliens, contro l'umanoide Galaxhar, che mira a conquistare potere e a creare cloni, come oggi vorrebbero tanti politici e... dottori».

Repubblica 16.2.09
A Siena la rassegna "Arte Genio Follia " curata da Vittorio Sgarbi
Gli incubi della mente diventano capolavori
di Fabrizio D’Amico


Prima di concludere questo scritto vogliamo dire una parola sui pazzi. La follia alleggerisce l´uomo, gli dà ali ed aiuto alla veggenza... D´altra parte, la distinzione fra normale e anormale ci sembra abbastanza irrealizzabile; chi è normale?
Dov´è il vostro uomo normale? Mostratecelo! L´atto d´arte, con l´estrema tensione che implica, l´alta febbre che l´accompagna, può mai essere normale?» Scriveva così Jean Dubuffet nel 1949, introducendo una mostra, fatta in buona misura da «oggetti» (così Dubuffet battezzava i manufatti dei "primitivi" di cui s´occupava) creati da «clienti di ospedali psichiatrici». La mostra si tenne presso la galleria René Drouin di Parigi (una delle tane della più azzardata avanguardia post-bellica), ed ebbe grande successo di pubblico (lasciando invece interdetta la critica); era una delle prime manifestazioni della «Compagnie de l´Art Brut», fondata qualche anno avanti, che ha ancor oggi sede a Losanna e che continua a occuparsi, ricercare, promuovere l´arte che nasce nella clandestinità e nell’emarginazione, ovunque nel mondo.
Dubuffet, il grande padre dell´informale europeo, fu certamente colui che più d´ogni altro s´è battuto nel secolo scorso per quest´arte, ch’egli ha chiamato «Brut», inconsapevole di sé, solitaria, esclusa e spesso reclusa fra le mura di un manicomio o di un istituto di cura. Appoggiando la sua ricerca disinteressata a una profonda cultura, a un sommo talento d’artista, ad un´autorevolezza presto vastissima e a una straordinaria capacità critica e polemica, trascinò «l´arte dei folli» lontano dai ghetti ove era confinata (fatti di drastiche repulse, o al più di compiacenti curiosità) e le diede un nuovo statuto socialmente accettabile. Forse non si rese conto - o forse sì: tant’è che cercò per essa varie strade, prima d’istituzionalizzarla in una situazione stabile - che nel momento stesso in cui la musealizzava, le sottraeva in larga misura la sua capacità di sorprendere, d´incantare.
A Dubuffet e all’«Art Brut» guarda con attenzione la mostra oggi aperta al Museo di Santa Maria della Scala di Siena «Arte Genio Follia. Il giorno e la notte dell´artista», curata da Vittorio Sgarbi e dalla Fondazione Mazzotta di Milano (Mazzotta è anche il catalogo che l´accompagna, ricco di interessanti e godibili saggi di studiosi di molte discipline). Ripercorre un tema, quello appunto del rapporto fra arte e disagio mentale, sovente già affrontato in esposizioni maggiori. Ma lo fa con notevole larghezza (sono oltre quattrocento le opere esposte): sia con una inusitata curiosità verso territori esorbitanti da quello meramente storico-artistico, sia con l´intelligenza flessibile di chi sa che tracciare una semplice equazione fra follia e genialità sarebbe stata un´operazione rischiosa.
D´altra parte la mostra, pur giovandosi di grandi nomi e di opere clamorose (i Van Gogh del d´Orsay di Parigi e della Galleria Nazionale di Roma; o i Munch del Museo Munch di Oslo; e molto altro), non s´accontenta di essere una parata di stelle, ma indaga sui tanti rivoli, a volte assai poco noti, in cui il tema ha trovato sviluppi: già nel secolo XIX, quando le conoscenze sulla psiche e i suoi meandri erano pressoché nulle, e quando grande credito veniva riconosciuto, ad esempio, alle teorie di Cesare Lombroso (autore tra l´altro di un saggio intitolato proprio Genio e follia). Una interessante sezione della mostra, a cura di Giulio Macchi, documenta, all´avvio della mostra, «La scena della follia», dove fra molti brividi e qualche sorriso ritroviamo, effigiati nelle incisioni di Georges Meunier o realmente esposti, gli strumenti di cura in dotazione dei manicomi di allora: la vasca per i bagni gelati o l´armadio verticale per imprigionare il demente di turno; il letto e le manette di contenzione, le camicie di forza. Già qui, però, assieme alla memoria di tante inutili torture, una perla inattesa: le undici opere in terracotta di Paris Morgiani, che trascorse chiuso in vari istituti gran parte della breve vita, e che in queste sue piccole sculture affollate di eventi, narra, affabula, e talvolta sogna, guardando lucido i suoi giorni di prigionia e vagheggiando l´aria aperta oltre le finestre sbarrate del manicomi.
Poi il lungo viaggio attraverso la pittura: da Kirchner che si autocertificò pazzo, forse per sfuggire alla guerra, agli echi di un´altra guerra ancor più crudele nelle opere di Dix, Grosz, Guttuso; fino alla guerra tramutata in danza allucinata dalle Fantasie di Mario Mafai. Fra alti e bassi si incontrano poi i surrealisti (Masson, Brauner, Ernst), e, introdotti in catalogo da Jean-Jacques Lebel, alcuni straordinari frottage di Henri Michaux e gli inchiostri di Unica Zurn, altra rivelazione della mostra. E tanti altri: una sezione della mostra è dedicata «al matto» Ligabue; un´altra all´azionismo viennese: per dire l´ampiezza degli argomenti affrontati. Un´immagine fra le tante, silenziosa e inquietante, che ci segue è quella di Carlo Zinelli; che ha trascorso trent´anni di vita in ospedale, e vi ha dipinto per dieci: piccoli preti neri in fila ordinata, ma senza che un solo attimo di pace ne traspaia.
Post scriptum: guai a chi ponga a una mostra vasta e difficile come questa questioni sulle assenze: ma come mai il ferrarese Sgarbi non ha voluto con sé gli stupendi de Pisis ultimi di Villa Fiorita?

Repubblica 16.2.09
Futurismo
Le mille facce dell’avanguardia
di Cesare De Seta


Dopo Milano e Parigi anche Roma celebra il centenario del movimento con la grande rassegna alle Scuderie del Quirinale
Le analogie e le differenze tra l´esposizione di oggi e quella famosa del 1912
Tra i tanti, Carrà Boccioni, Balla e gli "invitati" parigini Duchamp Picasso e Delaunay

Il Futurismo è tra i pochi eventi del Novecento che pone l´Italia in prima fila e il centenario ha dato la stura a molte mostre. Una moneta, quella del futurismo, che il nostro paese avrebbe dovuto saper spendere da protagonista: sia perché i maggiori studiosi del movimento sono italiani, sia perché avevamo un "diritto di prelazione" da far valere. Il Centre Pompidou ha preceduto tutti con la mostra "Le Futurisme à Paris", ora alle Scuderie del Quirinale (in apertura il 20 febbraio). La mostra, per la cura di Didier Ottinger, fin dal titolo - "Avanguardia - Avanguardie" - ha un´articolazione saccente e debole per il modo in cui i futuristi vengono affogati in un cubismo+futurismo=cubofuturismo, come Ottinger titola il saggio d´apertura. Marinetti, Boccioni, Severini e Carrà, girando per la mostra, si torcerebbero dalla rabbia: perché non sopportarono d´esser giudicati epigoni dei cubisti e in effetti non lo furono.
Non a caso la mostra si apre nel nome di Picasso e Braque, di Delaunay e Metzinger, di Léger e Gleizes. Ciò non toglie che gli amici francesi abbiano messo assieme, con apprezzabile tempestività, una selezione eccellente di tele di Boccioni, Severini, Carrà, Russolo, mentre Balla è mortificato con solo due tele. Nessuno nega che i futuristi si inseriscono in un terreno già arato dal cubismo, ma la mostra alla galleria Bernheim-Jeune del febbraio 1912 fu solo un momento dell´articolata politica di lancio orchestrata da Marinetti con gran talento. Che le opere futuriste fossero una novità assoluta lo testimonia il fatto che esse scandalizzarono i parigini e i giornali francesi contemporanei dicono delle reazioni violente sia di pubblico che di critica. La rivoluzionaria serie de Gli stati d´animo di Boccioni sono del 1911, e scarse relazioni hanno con l´Adamo-cubista: le radici stesse della pittura di Boccioni sono radicalmente diverse (Officine a Porta Romana, L´idolo moderno, 1910-1911), come quelle di Carrà (Il funerale dell´anarchico Galli, Sobbalzi di carrozza, La donna al caffè, Ciò che mi ha detto il tram degli stessi anni). Le tematiche futuriste della città, della velocità, della simultaneità sono per larga parte estranee al milieu parigino: sono una tale novità che creano disagio anche a uno spregiudicato occhio come quello di Apollinaire.
L´edizione delle Scuderie, commissario Ester Coen, ha il merito di aver eliminato molte tele non pertinenti e di aver puntato decisamente sul futurismo col qualificato serto di tele già ricordate. Complessivamente una settantina di opere, con preziose aggiunte, su 115 esposte a Parigi: un freddo dato notarile, significativo. In premessa al catalogo (Electa) Antonio Paolucci saggiamente scrive che per il futurismo «più che di arte italiana è giusto parlare di varianti italiane di fenomeni globali e policentrici»: tra gli invitati parigini, riuniti al secondo piano, i Delaunay con la Tour Eiffel e su tutti il geniale Marcel Duchamp del Nu descendant l´escalier: questi sì strettamente collegati alla ricerca sul moto dinamico.
Una periodizzazione completamente diversa ha la mostra milanese al Palazzo Reale, a cura di Giovanni Lista e Ada Masoero (catalogo Skira), che si spinge agli anni Trenta, con il capitolo dell´Aereopittura (Tato, Prampolini, Diulgheroff, Dottori) e un finale dedicato a "L´eredità del futurismo" (Fontana, Burri, Dorazio, Schifano). La mostra milanese è una sventagliata a tutto campo e ha il vantaggio, rispetto e contro la mostra parigina e romana, di avere una sezione introduttiva dedicata alla grande tradizione lombarda di fine Ottocento. È pure vero che i futuristi sbeffeggiarono i pittori «montagnisti e laghettisti», ma per capire le radici di Carrà, ma dello stesso Boccioni e di Balla, è impossibile prescindere dalla pittura simbolista e divisionista (Previati, Segantini, Pellizza) che ebbe peso ben maggiore dei cubisti nella formazione dei futuristi. Perché, e la mostra lo ribadisce, Marinetti ebbe sì un´indelebile formazione francese, ma operò sempre a Milano e la metropoli dell´industria e della tecnica fu il grande crogiolo della modernità. Gino Severini a Parigi fin dal 1906, con puntate di Soffici e Boccioni, fu più direttamente influenzato dal cubismo, ma con un´originalità compositiva e cromatica di sicura tenuta.
Scandita in diverse sezioni la mostra milanese sfiora anche "Metafisica" - a cui approdò Carrà intorno al 1916 - che fu il vero controcanto al futurismo. Si fatica a inserire Sironi tra i futuristi, ma pure l´esordio fu in quel solco, come per Funi: poi entrambi approdarono sulle rive limacciose di "Novecento". Il movimento irradiò i suoi tentacoli fino a Firenze ("Lacerba" è un nodo essenziale), a Roma, Torino, Napoli, ma anche in centri minori e aree di ricerca che vanno emergendo, come il caso Bologna con la mostra a Palazzo Saraceni a cura di Beatrice Buscaroli.
La grande vitalità dell´avanguardia futurista fu quella di aver pervaso la fotografia e il cinema (i Bragaglia), la musica e il teatro (Pratella, Russolo, Cangiullo), le arti decorative, la pubblicità e la moda (Balla, Depero, Prampolini, Dottori). Al paroliberismo concorsero letterati (Paolo Buzzi, Palazzeschi, Cavacchioli, Govoni, Altomare, Folgore) e pittori sia del primo che del secondo futurismo: a questa ricerca sperimentale è dedicata un´altra mostra, a cura di Luigi Sansone (catalogo Motta), alla Fondazione Stelline di Milano. Essa pone in prima linea Marinetti su cui è appena uscita una densa monografia (Mondadori) di Giordano Bruno Guerri e il volume di Vladimir Pavloviè nella bella collana Mart inediti.
Il museo d´arte di Lugano fa eco con una mostra dedicata a "La dinamo futurista": un omaggio a Boccioni nei disegni del toscano Primo Conti per la Donna che venne dal mare. Un profilo del movimento sul versante ideologico e politico è quello di Emilio Gentile edito da Laterza.
Il grande assente nei fuochi d´artificio futuristi (se si escludono una decina di acquerelli a Milano) è Antonio Sant´Elia, e davvero non si spiega visto ché l´architetto comasco fu per i futuristi una bandiera e uscì persino un periodico col suo nome: le immagini santeliane sono icone fondamentali della modernità a cui Le Corbusier attinse a piene mani, ma mai lo citò nei suoi scritti. More parisiano!

Repubblica 16.2.09
Giorgio De Chirico. La fabbrica dei sogni
Parigi, Musée d'Art Moderne de la Ville de Paris. Fino al 24 maggio.


L'esposizione, che riepiloga l'attività del maestro in centosettanta opere provenienti da musei di tutto il mondo, come il Moma e il Metropolitan di New York o la Tate Modern di Londra, riabilita se così si può dire la sua pittura in Francia, dopo la celebre scomunica pronunciata da Breton. In occasione della personale tenuta alla galleria di Léon Rosenberg nel 1925, la rivista "La Révolution Surréaliste" pubblica, infatti, una critica negativa del nuovo corso del suo lavoro. L'anno seguente scende in campo lo stesso Breton, già autore nel 1922 della presentazione alla sua personale allestita alla galleria di Paul Guillaume, considerandolo addirittura un «genio perduto». La frattura con i Surrealisti si aggrava negli anni successivi. Il percorso espositivo approfondisce in particolare i rapporti del maestro con l'ambiente parigino: De Chirico arriva nella capitale dell'arte nel 1911, dove incontra Apollinaire che lo introduce nella cerchia degli intellettuali. La sua pittura ha una vasta risonanza sulle ricerche di Magritte, Ernst e Picabia. Tra i capolavori esposti, da segnalare i Gladiatori , realizzati per la casa parigina di Rosenberg.

Repubblica 16.2.09
Shah'Abbas e la rinascita dell'Iran
Londra, British Museum. Dal 19 febbraio.


Il museo invita a riflettere sullo sviluppo della cultura durante il regno dello Shah'Abbas (1587-1629), figura di grande rilievo nella storia dell'antica Persia. Dopo un periodo di guerre civili e invasioni straniere, il sovrano rafforza infatti l'economia, creando solidi rapporti commerciali con l'Europa, e mette le basi dell'attuale identità sociale, religiosa e culturale del paese, promuovendo la rinascita dell'architettura e delle arti. La mostra, organizzata in collaborazione con l'Iran Heritage Foundation, pone utilmente a confronto capolavori mai usciti dal paese e opere provenienti da collezioni europee e americane, tappeti dorati, raffinatissime sete, oggetti, acquerelli e manoscritti miniati. L'indagine si focalizza su quattro luoghi cardine: Isfahan, divenuta capitale nel 1598 e città simbolo della rinascita per la bellezza dei suoi edifici, moschee, palazzi, interi quartieri, dove opera il grande miniaturista Ali Riza Abbasi; Ardabil, sede della tomba del sufi e mistico Shaykh Safi, antenato del sovrano, nonché del santuario dei safavidi; Mashad, dove è situata la tomba dell'Imam Riza, l'unico discendente di Maometto sepolto in Iran; Qum, la città santa dedicata a sua sorella Fatima, con il santuario sciita.

domenica 15 febbraio 2009

l’Unità 15.2.09
Il senatore Pd al convegno radicale. Rodotà: una legge truffa. Bonino: l’Italia con Englaro
Dorina Bianchi:sarebbe un grave errore andare al voto. Turco: battaglia in Parlamento
Bioetica, lo stop di Marino: referendum se passa la legge
di Jolanda Bufalini


È gremito il Piccolo Eliseo per il convegno radicale «Menzogne e verità sul caso Englaro». Tanti i parlamentari del Pd. Rodotà: «Non c’è un vuoto normativo da colmare, in discussione una legge truffa».
Quando arriva Ignazio Marino, Stefano Rodotà ha appena iniziato il suo intervento. Viene interrotto dall’assemblea per un lungo applauso di saluto al senatore, il chirurgo dei trapianti, diventato personaggio simbolo della battaglia per la libertà di cura. La sala del “Piccolo Eliseo”, dove si svolge il convegno “Menzogne e verità su Englaro, Coscioni, Welby” organizzato da radio radicale, è colma: sul fondo la gente sta in piedi, la galleria si riempie rapidamente. Nel parterre e sul palco tanti esponenti Pd: da Franca Chiaromonte a Paola Concia, da Furio Colombo a Luigi Manconi. C’è anche, ed interviene, il radicale “berlusconiano” Benedetto Della Vedova.
La denuncia, attraverso gli spezzoni di Tg e “Porta a porta”, è quella dell’accanimento mediatico sul corpo di Eluana. La proposta, che è anche appello al Pd, è di mobilitazione subito contro il disegno di legge Calabrò. «Sono abbastanza vecchio per poter affermare che è una legge truffa - dice Stefano Rodotà - che nega i diritti della persona e rende lo Stato arbitro della vita e della morte». Emma Bonino: «I sondaggi dicono che la stragranze maggioranza del paese è con Beppino Englaro, ma se non ci si muove subito rischiamo di trovarci con una pessima legge approvata in tre settimane». E il professor Marino elenca ad uno ad uno gli impedimenti che quel testo di legge frappone alla possibilità di autodeterminazione: «Parlano di acqua e cibo. E allora perché non anche di aria, visto che c’è la ventilazione artificiale? La nutrizione e l’idratazione artificiale le prescrive il medico, non il cuoco».
Ogni tre anni
La dichiarazione prevista dalla legge Calabrò dovrebbe essere rinnovata ogni tre anni, presso un notaio che dovrebbe farlo gratuitamente - ma i notai non sono stati consultati - l’interessato dovrebbe andare dal notaio con il medico di famiglia e il fiduciario. «Immaginate questo iter moltiplicato per migliaia di persone?». Ma, aggiunge Marino, «non basta, perché tutto questo non è vincolante». E dunque? Marino getta il sasso nello stagno rispondendo alle domande a margine del convegno: «Faremo di tutto per modificare quella legge ma se passasse così com’è e i radicali decidessero una campagna referendaria io sarei d’accordo». Ai parlamentari radicali, del resto, Marino aveva appena riconosciuto «lealtà e trasparenza» dal palco dell’Eliseo.
La proposta referendaria, però, non trova grandi sponde. Nel Pd Livia Turco è possibilista: «Ritengo che la battaglia in parlamento non sia persa e che sia ragionevole andare avanti e non darsi per vinti. ma in caso contrario», ovvero se il disegno di legge sul testamento biologico «portasse a un arretramento, allora il referendum sarebbe uno strumento altrettanto ragionevole».
Dorina Bianchi che, fra le polemiche, ha assunto al posto di Marino la carica di presidente del gruppo in commissione sanità, al Senato, approfitta subito dell’occasione per distinguersi: «Sarebbe un grave errore».
Ma che parlare di referendum sia almeno prematuro lo pensa anche Rosy Bindi: «Parlarne ora è un regalo a chi non vuole fare la fatica di definire una buona legge sul fine vita». «Il Pd - rileva Bindi - non può sottrarsi alla responsabilità di lavorare ad un testo che sia il più possibile condiviso e non credo voglia lasciare alla sola maggioranza l'onere di legiferare, tanto più in materie così complesse e delicate».
favorevoli e contrari
«Si deve lavorare perché la legge non sia questa», dice anche Fiorenza Bassoli, la senatrice che non ha voluto votare per la nuova presidente della commissione sanità. E perplessità esprime anche Stefano Rodotà, che pure denuncia «la regressione culturale impressionante. Per il dialogo - dice ci vuole una lingua comune che si basa sul rispetto concreto della legalità e della Costituzione, che non sono feticci da omaggiare».
Il sì all’ipotesi di referendum arriva, invece, da Claudio Fava, (Sinistra democratica): «Restiamo ancora una volta stupefatti di fronte all'ostinazione con cui il Pd riesce a dividersi perfino su una scelta di elementare decenza come quella di sottoporre al giudizio degli elettori una pessima legge».

Repubblica 15.2.09
"Referendum sul testamento biologico", la proposta Marino divide il Pd
Fine-vita, Marino infiamma i laici "Referendum se passa il testo Pdl"
Annuncio dai Radicali. Bindi: un regalo agli integralisti
Ovazione per l’ex capogruppo nella commissione che discute il testa-mento biologico
di Carmelo Lopapa


ROMA - Referendum, se la proposta del Pdl sul testamento biologico diventerà legge. L´annuncio di Ignazio Marino, cattolico e senatore Pd, irrompe nel dibattito già caldo sul fine-vita e surriscalda, entusiasma la platea radicale prescelta, forse non a caso, per lanciare la mobilitazione. D´altronde, in Parlamento i numeri sono quelli che sono e l´attenzione si sposta già al dopo. E se i tribuni della maggioranza accettano la sfida, sicuri di spuntarla, autorevoli cattolici del Pd - da Enrico Letta a Rosy Bindi a Dorina Bianchi - bocciano la soluzione. Proprio la Bianchi, neo capogruppo in commissione Sanità, subentrata non senza polemiche proprio a Marino, parla di «grave errore».
Centinaia di persone, qualcuno dice mille, comunque tante per un convegno organizzato su due piedi il sabato mattina da Radio Radicale in un teatro romano. Alle spalle, la settimana segnata dall´epilogo tragico del caso Eluana. Si parla di "Menzogne e verità su eutanasia, Coscioni, Welby, Englaro". Il neurologo di Eluana Carlo Alberto Defanti e Mina Welby, intellettuali come Stefano Rodotà e parlamentari laici. Benedetto Della Vedova, unico Pdl (ex radicale), spera ancora che «il premier torni moderato, dopo che ha ceduto a pressioni». C´è soprattutto tanta gente comune. A metà mattinata entra Ignazio Marino ed è standing ovation, la stessa che lo accompagnerà a fine intervento. E sa tanto di onore delle armi dopo il passaggio di testimone da capogruppo Pd in commissione Sanità con strascichi polemici. «Il mio impegno proseguirà con forza», rassicura. Ringrazia i radicali «perché sono sempre stati trasparenti e leali molto più di tanti altri», in barba a chi li vorrebbe fuori dal gruppo democratico. Ripete che il ddl Calabrò del centrodestra sul testamento biologico è un attacco «alla libertà di scelta sancita dalla nostra Costituzione». Sfoggia cifre che lasciano di sasso la platea: «Ma ci pensate? Stando alla legge, ognuno deve depositare il testamento dal notaio accompagnato dal medico di famiglia. Ora, ogni medico ha circa 1.500 pazienti. Se anche solo un terzo decidesse di fare testamento, dovrebbe accompagnarne 500 dal notaio. In un anno, escludendo i festivi, farebbe quattro volte al giorno. E se un terzo degli italiani volesse depositare le proprie disposizioni, ciascuno dei 4.729 notai dovrebbe redigere in media 100 mila». Dunque, «se non saranno recepiti emendamenti, allora ci batteremo perché questa legge venga cancellata». Emma Bonino accetta e lancia un appello al Pd, affinché si mobiliti, consapevole delle difficoltà: «Sarà come per il referendum sulla legge 40, assisteremo allo schieramento di parrocchie e tg». Furio Colombro, deputato Pd, alza il tono contro le gerarchie d´Oltretevere, «il loro è stato un intervento aggressivo» e «un insulto» la critica al capo dello Stato. Per Rodotà questa è «una legge truffa».
Trascorrono poche ore e l´annuncio di Marino viene stroncato da una parte del Pd. La Bianchi parla di «grave errore: spostare l´attenzione dalle Camere alle piazze significa alimentare uno scontro fra due radicalismi». Strategia sbagliata anche secondo la Bindi: «È un regalo a chi non vuole fare una legge buona e condivisa, guai a cercare rivincita dopo la legge 40». E Letta: «Occorrono convergenze, senza spirito di crociata». Si spacca anche la sinistra: dice sì Claudio Fava di Sd, non la giudica la via migliore, invece, il segretario del Prc Paolo Ferrero. Referendum? Si faccia pure, ribattono dal Pdl. Il relatore Raffaele Calabrò difende la sua «creatura», Eugenia Roccella, sottosegretario e alfiere del Family Day, pronostica «un´altra grande sconfitta per il Pd, come per la legge 40». Insomma, chiosa Gaetano Quagliarello, la consultazione «non ci spaventa». E monsignor Rino Fisichella, presidente del Pontificio consiglio per la vita, che nei giorni scorsi aveva giudicato una buona mediazione la proposta della maggioranza, ora avverte: «L´istanza cattolica non può essere né emarginata né data per ovvia». In serata, in risposta alle critiche, Marino assicura che in Senato saranno moltiplicati gli sforzi per «modificare il ddl della destra», fermo restando il ricorso all´arma finale referendaria se le modifiche non saranno accolte.

Repubblica 15.2.09
La Chiesa del dogma in conflitto con lo Stato
di Eugenio Scalfari


VOGLIO oggi intervenire ancora una volta sul tema della nostra Costituzione e dei rapporti tra di essa e la Chiesa cattolica. Cioè, per essere ancora più concreti e per delimitare con precisione l´argomento, tra lo Stato repubblicano e costituzionale e la Santa Sede e gli organi gerarchici che da lei dipendono.
Si tratta d´un tema di permanente attualità; infatti ha connotato gran parte della vita pubblica italiana, sia durante la monarchia sia durante la Repubblica, attraverso le varie fasi susseguitesi in centocinquant´anni di storia: il periodo liberale, il regime fascista, il quarantennio democristiano e infine gli ultimi quindici anni a partire dal 1992, la fase di transizione tuttora in corso che ci porterà non sappiamo dove, una terra incognita resa ancora più incerta a causa della profonda crisi economica che sta squilibrando gli assetti sociali del mondo intero.
Altre persone qualificate si sono cimentate su quest´argomento. Ne cito alcune: Gustavo Zagrebelsky anzitutto, ed anche Schiavone, Prosperi, Magris, Rodotà, Mancuso. Il caso Englaro con tutto il carico di drammaticità e di umanità sofferente di cui era pervaso, ha sottolineato l´attualità del tema rendendolo ancora più palpitante e alzando i toni d´un conflitto che sembrava di natura soltanto intellettuale ed accademica e che coinvolge invece sentimenti universali come la sofferenza e la pietà. Il rapporto tra una Costituzione liberal-democratica e la Chiesa chiama in causa quello tra la fede e la ragione, tra l´etica promanante dalla religione e la libertà di ciascuno. Infine tra la verità assoluta e quella relativa. Non c´è posto per l´indifferenza.
Margini per compromessi pragmatici esistono ed è bene che siano esplorati, ma sono esigui perché mettono in gioco principi e valori che non possono essere imposti né con la spada né con la dittatura delle maggioranze. Il tema dunque è di rilievo e non eludibile.
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Quali sono i pilastri che sorreggono l´architettura d´una Costituzione liberal-democratica? si è chiesto nel suo intervento sul nostro giornale Gustavo Zagrebelsky. Ed ha risposto: il diritto di tutte le opinioni a confrontarsi, la garanzia di poter esercitare i diritti di libertà, l´eguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge senza alcuna eccezione. Questa è ciò che noi chiamiamo la legalità costituzionale e che lo Stato deve garantire e tutelare.
In questa visione è escluso per definizione che lo Stato possa avere un qualsiasi contenuto etico, cioè la realizzazione di un valore come propria finalità. Salvo uno: il valore cui deve tendere uno Stato liberal - democratico è appunto e soltanto quello di realizzare i principi sopra indicati. Ogni altro valore gli è estraneo; se mette in causa quei principi fondativi gli diventa avversario e al limite nemico.
Si pone a questo punto la questione se gli sia estranea, avversaria o addirittura nemica la Chiesa cattolica. La risposta è il riconoscimento dell´estraneità. Lo Stato liberal-democratico e la Chiesa cattolica sono due entità (come del resto recita lo stesso Concordato) che non si incontrano: operano su piani diversi, si muovono su linee parallele all´infinito che non potranno mai convergere se non su obiettivi specifici e delimitati.
Si può chiedere a questo punto perché io abbia ristretto il tema alla Chiesa cattolica e non consideri alla stessa stregua le altre chiese e le altre religioni. La risposta è semplice: la Chiesa cattolica è la sola che disponga di una struttura di potere e di gerarchia. Nessuna delle altre confessioni cristiane dispone di strutture gerarchiche e centralizzate, nessuna delle altre religioni storiche si è data un assetto politico.
è accaduto in qualche caso che uno Stato si sia identificato con una religione e per conseguenza che una religione abbia occupato uno Stato dando vita ad un regime teocratico. Quando e laddove questo è accaduto le sembianze e la natura dello Stato hanno inevitabilmente assunto fisionomia integralista, fondamentalista, totalitaria. I cittadini si sono trasformati in fedeli. Anche la religione si è trasformata: da movimento spirituale e partecipato è diventata una struttura di potere. I dissenzienti sono stati considerati non soltanto eretici rispetto all´ortodossia religiosa ma ribelli rispetto allo Stato teocratico.
Queste sono le ragioni per le quali gli spiriti religiosi più consapevoli considerano il potere temporale della Chiesa cattolica come una devianza molto grave con l´effetto inevitabile di allontanare la Chiesa dal messaggio cristiano e dalla predicazione di Gesù trasmessa dai Vangeli: «Il mio regno non è di questo mondo» questa affermazione ricorre con frequenza in tutti i Vangeli, negli Atti, nelle lettere di Paolo alle prime comunità, nella tradizione patristica e in tutto il pensiero cristiano.
Purtroppo la struttura gerarchica della Chiesa di Roma assunse fin dal III secolo la dimensione temporalistica come indispensabile garanzia della propria libertà. Da quel momento la prassi si discostò dall´affermazione di Cristo che puntava sul regno extraterreno disinteressandosi ed anzi rinunciando a qualsiasi tentazione di regno mondano.
Rimase l´altra affermazione di natura però assai diversa: «Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio». Qui l´estraneità delle due sfere è simultanea e lascia quindi ampie zone di reciproca interferenza specie quando lo Stato può riempirsi di contenuti etici e la Chiesa di contenuti temporalistici.
Questa situazione, dove le due parallele si incontrano, è all´origine di conflitti drammatici durati secoli, anzi millenni. Con un aspetto tuttavia positivo che è d´obbligo ricordare: la Chiesa cattolica è stata contaminata (nel senso positivo del termine) dalla modernità così come lo Stato è stato a sua volta contaminato dai principi dell´amore e della solidarietà.
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Il Concilio Vaticano II fu il momento più alto di questa contaminazione.
Dopo di allora ha avuto inizio un movimento di riflusso dapprima quasi impercettibile ed ora sempre più evidente, culminato pochi giorni fa con il rientro del movimento lefebvriano nella Chiesa di Roma. Un particolare, ma con valenze simboliche, liturgiche e dottrinali che non possono esser sottovalutate.
è vero, questi problemi riguardano soprattutto il clero e il laicato cattolico. Soprattutto, ma non esclusivamente. Il riflusso rispetto al Vaticano II si accompagna al risorgere di una visione temporalistica della Chiesa che non ha più come obiettivo il possesso e il governo d´uno spazio territoriale, di un regno terrestre da affiancare al regno celeste.
Il temporalismo attuale ha l´obiettivo di trasformare ovunque sia possibile (e quindi specialmente in Italia, giardino del Papa per storica definizione) il peccato in delitto, il precetto dottrinale in norma, la legge divina in diritto positivo, l´etica religiosa in etica pubblica, con la conseguenza di imporre ai cittadini comportamenti ed obblighi non condivisi.
Il terreno sul quale questo riflusso temporale pesa con maggior forza è quello della bioetica, della vita e della morte. Qui lo spazio pubblico del quale la Chiesa gode legittimamente si sta trasformando in un´arena di scontro nella quale la gerarchia episcopale e curiale guida i fedeli ad una battaglia che ha addirittura coinvolto il Capo dello Stato.
Chi crede nell´immortalità dell´anima e nella beatitudine suprema che ristora le anime nel regno celeste e bandisce vere e proprie crociate per conservare una persona che non ha più nulla di quella che fu, commette un peccato mortale contro la vita, tanto più quando si tratti di vescovi, di cardinali e perfino del capo della Chiesa di Roma.
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Il laicato cattolico non ha dato fin qui segnali rilevanti di preoccupazione per quanto sta accadendo nella sua Chiesa. Per quel che se ne sa segnali di disagio e di dissenso sono venuti piuttosto da vescovi e cardinali non italiani e da una parte non disprezzabile del clero italiano. Da alcune comunità locali e da alcune località di rilievo nazionale ed internazionale.
Qualche segno di disagio è venuto anche da alcuni settori di cattolici direttamente impegnati in politica. Soprattutto nel Partito democratico, dove sono confluiti un anno fa gran parte degli ex popolari. I giornali hanno dato notevole rilievo ai parlamentari cattolici del Partito democratico che hanno votato in favore del disegno di legge governativo sul caso Englaro.
è giusto, ma non tanto per il dissenso con il proprio partito quanto per il fatto che quel disegno di legge impone un comportamento e impedisce l´esercizio d´una libera scelta, cosa che un parlamentare democratico dovrebbe rifiutare in forza della propria coerenza politica. Ma il fatto che ha avuto in quella circostanza un´importanza almeno pari se non addirittura maggiore è stato a mio avviso il voto dato da parlamentari cattolici in dissenso con il messaggio tambureggiante lanciato dalla Chiesa.
Il tema comunque si riproporrà tra poco, quando sarà affrontata dal Parlamento la legge sul testamento biologico. è chiaro a tutti che su tali argomenti non può esistere una disciplina di partito, ma è altrettanto chiaro che un partito ha il diritto-dovere di esprimere pubblicamente l´atteggiamento della maggioranza dei propri aderenti.
Il test che avremo sotto gli occhi in questa occasione non riguarda dunque il dissenso dei cattolici politicamente impegnati rispetto ai partiti nei quali hanno deciso di militare, ma il loro eventuale dissenso nei confronti del temporalismo cattolico, del distacco cattolico dal Concilio Vaticano II, della regressione dogmatica della gerarchia.
Questo sarà il test cui saranno chiamati. La risposta che daranno sarà molto importante per l´evoluzione o l´involuzione della democrazia italiana e della Chiesa.

Repubblica 15.2.09
La nuova legge truffa
di Stefano Rodotà


Torna un´espressione che sembrava confinata nel passato - "legge truffa". Ed è giusto che si dica così, perché non altrimenti può essere definito il testo preparato dalla maggioranza per introdurre nel nostro sistema le "direttive anticipate di trattamento" (o testamento biologico) e che, in concreto, ha l´opposto obiettivo di cancellare ogni rilevanza della volontà delle persone.
Non solo per quanto riguarda il morire, ma incidendo più in generale sulla possibilità stessa di governare liberamente la propria vita. Poiché, tuttavia, si discute di fondamenti, appunto dello statuto della persona e del rapporto tra la vita e le regole giuridiche, bisogna almeno fare un tentativo di andar oltre la rozzezza delle argomentazioni che ci hanno afflitto in queste difficili settimane e che rischiano di trascinarsi anche nell´immediato futuro.
Due ammonimenti dovrebbero guidare chi si accinge a legiferare sulla dignità del morire. Il primo viene da un grande giudice americano, Oliver Wendell Holmes: "Hard cases make bad laws", i casi difficili producono leggi cattive. Questa affermazione lapidaria è stata variamente interpretata e discussa, ma se ne può cogliere il nocciolo nell´invito a separare la legge dall´occasione, la creazione di una norma destinata a durare dall´emozione di un momento. Rischia di accadere il contrario. L´ossessione della turbolegge (ieri in tre giorni, oggi in tre settimane) possiede la maggioranza e frastorna il Pd. Non riflessione pacata, ma frettolosa imposizione di norme incuranti della loro coerenza interna e, soprattutto, della loro conformità alla Costituzione.
Il secondo ammonimento è nell´alta riflessione di Michel de Montaigne: "La vita è un movimento ineguale, irregolare, multiforme". Quest´intima sua natura fa sì che la vita appaia come irriducibile ad un carattere proprio del diritto: il dover essere eguale, regolare, uniforme. Da qui, da quest´antico conflitto, nascono le difficoltà che oggi registriamo, più intense di quelle del passato perché l´innovazione scientifica e tecnologica fa progressivamente venir meno le barriere che le leggi naturali ponevano alla libertà di scelta sul modo di nascere, vivere, di morire. L´occhio del giurista, e del politico, deve registrare questa difficoltà, e cogliere le novità del quadro. Da una parte, l´impossibilità di continuare ad usare il diritto secondo gli schemi semplici del passato, pena la sua inefficacia, la sua riduzione a puro strumento autoritario, la perdita di legittimazione sociale. E, dall´altra, l´ampliarsi delle possibilità di scelta che appartengono alla libertà individuale, che riguardano solo la propria vita, e che per ciò non possono essere sacrificate da mosse autoritarie, da imposizioni ideologiche, senza violare l´eguale libertà di coscienza.
La legge, dunque, deve abbandonare la pretesa di impadronirsi d´un oggetto così mobile, sfaccettato, legato all´irriducibile unicità di ciascuno - la vita, appunto. Quando ciò è avvenuto, libertà e umanità sono state sacrificate e gli ordinamenti giuridici hanno conosciuto una inquietante perversione. Non a caso "la rivoluzione del consenso informato" nasce come reazione alla pretesa della politica e della medicina di impadronirsi del corpo delle persone, che ha avuto nell´esperienza nazista la sua manifestazione più brutale. L´autoritarismo non si addice alla vita, né nelle sue forme aggressive, né in quelle "protettive". Riconoscere l´autonomia d´ogni persona, allora, non significa indulgere a derive individualistiche, ma disegnare un sistema di regole che mettano ciascuno nella condizione di poter decidere liberamente. Non a caso, riflettendo proprio sul consenso informato, si è detto che questo strumento, sottraendo il corpo della persona alle pretese dello Stato e al potere del medico, aveva fatto nascere "un nuovo soggetto morale".
Se il testo sul testamento biologico proposto dalla maggioranza dovesse diventare legge, sarebbe proprio questo soggetto a scomparire. Ma qui s´incontra un altro, e ineludibile, ammonimento, l´articolo 32 della Costituzione. Ricordiamone le ultime parole: "la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana". è, questa, una delle dichiarazioni più forti della nostra Costituzione, poiché pone al legislatore un limite invalicabile, più incisivo ancora di quello previsto dall´articolo 13 per la libertà personale, che ammette limitazioni sulla base della legge e con provvedimento motivato del giudice. Nell´articolo 32 si va oltre. Quando si giunge al nucleo duro dell´esistenza, alla necessità di rispettare la persona umana in quanto tale, siamo di fronte all´indecidibile. Nessuna volontà esterna, fosse pure quella coralmente espressa da tutti i cittadini o da un Parlamento unanime, può prendere il posto di quella dell´interessato.
Siamo di fronte ad una sorta di nuova dichiarazione di habeas corpus, ad una autolimitazione del potere. Viene ribadita, con forza moltiplicata, l´antica promessa che il re, nella Magna Charta, fa ad ogni "uomo libero": "Non metteremo né faremo mettere la mano su di lui, se non in virtù di un giudizio legale dei suoi pari e secondo la legge del paese". Il corpo intoccabile diviene presidio di una persona umana alla quale "in nessun caso" si può mancare di rispetto. Il sovrano democratico, una assemblea costituente, ha rinnovato la sua promessa di intoccabilità a tutti i cittadini.
La proposta della maggioranza si allontana proprio da questo cammino costituzionale. Nega la libertà di decisione della persona, riporta il suo corpo sotto il potere del medico, fa divenire lo Stato l´arbitro delle modalità del vivere e del morire. Le "direttive anticipate di trattamento", di cui si parla nel titolo, non sono affatto direttive, ma indicazioni che il medico può tranquillamente ignorare, con un grottesco contrasto tra la minuziosità burocratica della procedura per la manifestazione della volontà dell´interessato e la mancanza di forza vincolante di questa dichiarazione, degradata a "orientamento". La libertà della persona viene ulteriormente limitata dalle norme che indicano trattamenti ai quali non si può rinunciare e, più in generale, da norme che vietano al medico di eseguire la volontà del paziente, anche quando questi sia del tutto cosciente.
Tutto questo ha la sua origine in una premessa che altera gravemente il quadro costituzionale, poiché si afferma che "la Repubblica riconosce il diritto alla vita inviolabile e indisponibile". Ora, se è ovvio che nessuno può disporre della vita altrui, altrettanto ovvio dovrebbe essere il principio che vuole ogni persona libera di rifiutare la cura, qualsiasi cura, disponendo così della sua vita. Proprio questo diritto viene illegittimamente negato quando si vieta al medico "la non attivazione o disattivazione di trattamenti sanitari ordinari e proporzionati alla salvaguardia della sua vita o della sua salute, da cui in scienza e coscienza si possa fondatamente attendere un beneficio per il paziente". Conosciamo, infatti, infiniti casi in cui persone hanno rifiutato interventi sicuramente benefici - dalla dialisi, alla trasfusione di sangue, all´amputazione di un arto - decidendo così di morire. Si introduce così un "obbligo di vivere", che contrasta proprio con i diritti fondamentali della persona.
è abusivo anche il divieto di rifiutare l´alimentazione e l´idratazione, definite "forme di sostegno vitale e fisiologicamente finalizzate ad alleviare le sofferenze", con una inquietante deriva verso una "scienza di Stato". Quella affermazione, infatti, è quasi unanimemente contestata dalla scienza medica, sì che un legislatore rispettoso davvero dei diritti delle persone dovrebbe, se mai, limitarsi a prevedere modalità informative tali da mettere ciascuno in condizione di valutare e decidere liberamente, davvero in "scienza e coscienza": ma, appunto, scienza e coscienza della persona, non del medico o di un legislatore invasivo. E si tratta pure di una affermazione puramente ideologica, che ha come unico fine quello di continuare a gettare un´ombra sulla conclusione della vicenda di Eluana Englaro. Inoltre, dietro il nominalismo della distinzione tra "trattamento" e "sostegno", si coglie la volontà di aggirare l´articolo 32, dove l´imposizione di trattamenti obbligatori è legata a situazioni particolari o eccezionali (vaccinazioni obbligatorie in caso di epidemia). Questa prepotenza legislativa si concreta anche in un trasferimento di enormi poteri ai medici, caricati di responsabilità che li indurranno ad assumere atteggiamenti fortemente restrittivi, così trasformando la proclamata "alleanza terapeutica" con il paziente in una situazione che prepara nuovi conflitti che, alla fine, saranno ancora i giudici a dover decidere.
Delle molte sgrammaticature giuridiche di quel testo si potrà parlare in un´altra occasione. Ma qui conviene concludere con una domanda francamente politica. Nonostante il terrorismo mediatico, con le sue accuse al "partito della morte", una salda maggioranza di cittadini continua a dichiarare che debba essere solo la persona a dover decidere della sua vita. Chi li rappresenterà in Parlamento, vista la debolezza dimostrata finora dal Partito democratico?

Repubblica 15.2.09
L’armata del Vaticano alla battaglia dell’etica
Fede e potere
di Marco Politi


Come può un potentato religioso che condiziona solo tra il tre e il cinque per cento dei voti detenere la golden share del governo di centrodestra? Dalla vittoria nel referendum sulla procreazione assistita al caso Eluana, ecco quanto conta la politica della Chiesa cattolica
Dopo l´implosione della Dc, i credenti si sono divisi
La nuova strategia è sorta negli anni Novanta con Ruini

Enigma e paradosso sono il marchio del potere della Chiesa in Italia. Un potere a volte pesante, a volte impalpabile, alternativamente gridato e silenzioso, evidente e nascosto. Capace di mobilitare e al tempo stesso privo di consenso maggioritario. Ma quel che conta: un potere che c´è.
L´ultima vittoria elettorale di Santa Romana Chiesa si registrò alle elezioni regionali del Lazio nel 2000, quando il presidente della Cei cardinale Camillo Ruini volle punire la giunta ulivista di Piero Badaloni per aver tentato di regolamentare le coppie di fatto. Vinse, con l´appoggio di congregazioni e parrocchie, il post-missino Francesco Storace.
Otto anni dopo, la rivelazione clamorosa dell´impotenza ecclesiastica nell´orientare larghe masse alle elezioni politiche del 2008: l´Udc prese poco più del cinque per cento. Eppure, auspice sempre il cardinale Ruini, il direttore dell´Avvenire Dino Boffo si era speso a favore del partito di Casini, indicandolo come «presenza che fa esplicito riferimento alla dottrina sociale della Chiesa». In mezzo (anno 2005) si colloca il trionfo nel referendum sulla procreazione assistita, che ha visto la Chiesa esibire dalla sua parte il vessillo del settantaquattro per cento di non votanti.
Dove sta il potere politico della Chiesa e dove il suo tallone d´Achille? In che consiste la sua capacità di pesare sul ceto politico italiano? Sono tramontati i tempi quando la gerarchia ecclesiastica, agendo sull´associazionismo cattolico, i gruppi professionali e sindacali bianchi, le parrocchie e le congregazioni religiose, riusciva a convogliare una parte notevole del voto sulla Democrazia cristiana. Dopo Tangentopoli e l´implosione della Dc i credenti si sono divisi e frammentati e si è profilato sempre più chiaramente quello che Alessandro Castegnaro, direttore dell´Osservatorio Religioso Triveneto, chiama il «doppio registro» dei cattolici: «Da un lato c´è il riconoscimento dell´utilità che la Chiesa formi le coscienze, dia indicazioni, inviti alla riflessione sui valori; e dall´altro, di fronte alle scelte di vita, la stragrande maggioranza della popolazione sostiene che riguardano la propria coscienza. Fatta eccezione per una minoranza di fedeli». In varie inchieste dove la domanda era "chi decide cosa è male?", il novanta per cento ha risposto: la coscienza individuale. Altri, la legge di Dio. Ultimi quelli per cui la Chiesa "può" dare l´indicazione decisiva. Nei giovani, sintetizza, la distinzione tra sfera etica e dimensione religiosa è visibilissima.
E tuttavia nell´ultimo quindicennio la gerarchia ecclesiastica ha sempre detto l´ultima parola sulle leggi riguardanti i rapporti di vita. Ha impedito l´introduzione del divorzio breve, ha voluto una legge sulla fecondazione assistita che prevede il divieto di scartare gli embrioni malati, ha bloccato una legge sulle coppie di fatto e infine - sul caso Eluana - è riuscita a trascinare Berlusconi, inizialmente riluttante, a sfiorare la crisi istituzionale pur di impedire l´esecuzione della sentenza, che autorizzava l´interruzione del suo calvario.
Una delle risposte sta nella fragilità della classe politica. La Chiesa non muove molti voti, forse qualcosa tra il tre e il cinque per cento. Però in un bipolarismo, in cui il cambio di governo può dipendere da ventiquattromila voti (come nel 2006), i partiti sono ossessionati dalla paura di avere contro la gerarchia ecclesiastica. «La parola d´ordine sotterranea è che non conviene litigare con i preti», riassume ironicamente il sociologo Arnaldo Nesti, che punta l´attenzione sulla rete discreta di personaggi ex democristiani o provenienti dall´associazionismo cattolico, piazzati in provincia in posizioni anche economicamente importanti. Si muovono in autonomia e al tempo stesso hanno come riferimento ultimo il vescovo: specie nelle battaglie sulle «leggi eticamente sensibili», in cui schierarsi diventa mostrare bandiera pro o contro il verbo della Chiesa. Tanto, aggiunge Nesti, c´è la riserva mentale che «ognuno nel privato fa ciò che vuole». Di pari passo, conclude, si manifesta l´atteggiamento rinunciatario della cultura laica.
Castegnaro rovescia il discorso. Nell´indubbia debolezza del sistema politico, spiega, risalta la debolezza delle culture secolari post-novecentesche. La Chiesa non trova più competitori come un tempo: ad esempio, la sub-cultura del Pci. E allora essa appare come l´istanza che «offre più informazioni, più opzioni, più indicazioni di valore». I laici parlano solo di libertà individuale e tende a mancare nel loro discorso l´orizzonte dell´edificazione di un tessuto solidale.
La strategia dell´istituzione ecclesiastica è stata costruita negli anni Novanta dal cardinale Ruini, allora presidente della Cei. Si basa su due assi. La pretesa di rappresentare la visione antropologica «vera», consona alla tradizione cristiana dell´Italia, e al tempo stessa «retta» interprete della ragione e della natura, è il primo. Ne deriva la spinta a presentarsi come il referente autentico per la legislazione sui temi etici: dall´embrione alla famiglia, dalla pillola del giorno dopo alla ricerca sulle staminali, al testamento biologico. Indispensabile a questo disegno è l´assoluto centralismo della Cei, il cui vertice riverbera il volere del Papa, unito al silenziamento del dibattito tra i vescovi e nel mondo cattolico. Risultato raggiunto. Negli ambienti del laicato cattolico l´afasia è acuita dalla scomparsa di figure prestigiose come lo storico Pietro Scoppola, il sociologo Roberto Ardigò, lo studioso di storia della Chiesa Giuseppe Alberigo.
Il secondo elemento strategico è la compatta utilizzazione dei media ecclesiastici per occupare la scena pubblica: l´Osservatore Romano, l´Avvenire, il Sir, i settimanali e le radio diocesane, i comunicati della Cei. Non è un caso che Dino Boffo sia contemporaneamente direttore di Avvenire, della Tv dei vescovi Sat2000 e del circuito radio della Cei. A questa rete, che nei momenti cruciali martella ossessivamente l´opinione pubblica e la classe politica - si tratti del no ai Dico, del referendum sulla procreazione assistita o del testamento biologico o di Eluana - si aggiunge come alleato esterno, di area laica, il Foglio che nel nome dell´ideologia occidentalista teocon rilancia aggressivamente i comandamenti del magistero ecclesiastico. Sul piano sociale agiscono in primo piano i gruppi più integralisti: l´Associazione Scienza e Vita, il Movimento per la Vita, i Centri di aiuto alla vita, il Forum delle famiglie. Insieme a due movimenti che occhieggiano alle manifestazioni anti-Zapatero in Spagna: i neo-pentecostali di Rinnovamento dello Spirito e i Neo-Catecumenali. Sul piano parlamentare si muovono Cl e l´Opus Dei.
Alle associazioni tradizionali, conoscendone il pluralismo interno di fatto, i vertici ecclesiastici chiedono solo il pubblico allineamento nelle grandi occasioni. Dal Family Day al referendum sulla procreazione artificiale, al contrasto delle sentenze della magistratura favorevoli a Beppino Englaro. Ai deputati cattolici, infine, la dottrina Ratzinger impone ubbidienza nella legislazione sui valori «non negoziabili».
Su questa base la gerarchia ecclesiastica si presenta sulla scena come portavoce (presunto) della cattolicità e preme incessantemente sul fragile sistema politico, approfittando del fatto che nel centrodestra l´area liberal-socialista si è completamente allineata alle posizioni della Chiesa e che nel centrosinistra i teodem si ergono insistentemente come unica «voce cattolica». Con una carta in più: la Chiesa interviene a tutto campo, ma se si levano voci di critica, allora reagisce con vittimismo aggressivo lamentando il tentativo di imbavagliarla.
Eppure da anni nei sondaggi la grande maggioranza della popolazione ribadisce che la Chiesa non deve interferire nella legislazione. Nell´ultima indagine Swg dell´estate scorsa, l´ottantadue per cento. Per questo al referendum del 2005 la presidenza della Cei, incerta sulla consistenza dei fedeli a proprio favore, giocò la carta dell´astensione. Teorema dimostrato dall´audience televisiva la notte della morte di Eluana. Se otto milioni guardano il Grande Fratello e solo quattro milioni Porta a Porta (mostrandosi nelle mail spaccati sul sì o sul no alla decisione di Englaro), cos´è più conveniente se non arruolare alla propria strategia gli otto milioni che non vogliono porsi problemi?
Perché la comunità dei credenti è estremamente variegata. Sotto la cappa della linea ufficiale si possono incontrare suore che sbuffano perché «Santa Madre Chiesa non si sta un po´ zitta», responsabili diocesani che esprimono «fatica per le posizioni attuali» e persino cardinali che confessano: «Non parlo, perché sarei eretico». La maggioranza dei fedeli non ha nascosto in queste settimane di stare dalla parte di Eluana. Lo dicevano anche tanti pellegrini la domenica in piazza San Pietro. E dopo la sua morte (sondaggio di Nando Pagnoncelli) il settantaquattro per cento sostiene ancora che sul testamento biologico debba decidere il soggetto o, in caso di coma, la sua famiglia.
Riassume Angelo Bertani, direttore dell´agenzia Adista e già direttore di Segno (Azione cattolica) e caporedattore di Avvenire: «In Italia assistiamo all´incontro di due debolezze. La Chiesa ha bisogno di mezzi esterni… dello Stato… delle leggi, perché non possiede il linguaggio per convincere. E la politica di centrodestra, incapace di unire il Paese, cerca una legittimazione morale e un mantello sacrale».

Repubblica 15.2.09
Il vuoto dei partiti riempito dalla dottrina
di Ilvo Diamanti


Qualcuno si sorprende dell´influenza della Chiesa nel dibattito pubblico in Italia. Dell´attenzione riservata, negli ambienti politici, alle sue posizioni su questioni sociali e morali. Nonostante il sensibile declino della pratica religiosa e delle adesioni all´associazionismo confessionale. I cattolici praticanti sono, infatti, meno del trenta per cento, concentrati nelle periferie e molto ridotti nei centri (urbani). Le iscrizioni alle associazioni cattoliche più importanti sono diminuite ormai da molti anni.
Inoltre, dal punto di vista elettorale, è finita l´epoca dell´unità politica dei cattolici. Insieme alla Dc e alla fine del comunismo. Alle elezioni politiche del 2008 il voto dei cattolici praticanti si è distribuito in modo proporzionale fra i partiti più importanti. Come mostrano i dati di un´indagine (LaPolis-Università di Urbino) condotta nelle settimane successive al voto su un campione nazionale di oltre 3300 casi. Il trenta per cento di chi frequenta assiduamente la messa domenicale ha, infatti, votato per il Pd; il quarantuno per cento Pdl. Rispettivamente, tre punti percentuali in meno e in più rispetto al risultato ottenuto fra gli elettori nel complesso. Il che significa, calcolato in termini di voti validi, l´uno per cento. L´Udc - l´ultimo partito a esibire l´identità cattolica come bandiera - ha intercettato il dieci per cento degli elettori cattolici (praticanti). Sul totale dei voti validi: meno del quattro per cento.
Peraltro, larga parte dei cattolici praticanti e (a maggior ragione) non praticanti, pensa che la Chiesa si debba esprimere sui più importanti aspetti dell´etica personale e pubblica. Anche se alla fine si affida alla propria coscienza. E ritiene che i parlamentari debbano fare lo stesso. Da ciò i dubbi, le perplessità circa l´influenza della Chiesa sulla politica italiana. In particolare, sulle scelte dei partiti, non solo di centrodestra, anche di centrosinistra, come si è potuto verificare nella recente vicenda di Eluana. E come avverrà in occasione del ddl sul testamento biologico.
Tuttavia, l´influenza della Chiesa sulla società e sulla politica italiane non è misurabile in termini di "controllo elettorale". Né attraverso la quota dei "cattolici praticanti". D´altra parte, quasi nove italiani su dieci si dicono cattolici. Gran parte di essi intende questa professione di fede come l´adesione a una comunità e a un sistema di valori. Una sorta di "religione pagana", aggiungono alcuni. Ma si tratta comunque di un sentimento di appartenenza, che conta in una società afflitta da un profondo deficit di identità. Tanto che quasi otto su dieci tra i non praticanti considera importante dare ai figli un´educazione cattolica (Demos-Eurisko, febbraio 2007). Non va trascurato che una larghissima maggioranza delle famiglie destina l´otto per mille del proprio reddito alla Chiesa cattolica e accetta che i figli a scuola frequentino l´ora di religione.
Peraltro, circa il sessanta per cento degli italiani dice di provare fiducia nella Chiesa, e una quota di poco superiore nelle parrocchie. Il che richiama un´altra importante ragione dell´influenza della Chiesa. Il suo radicamento nella società e sul territorio. Attraverso la sua struttura, la sua offerta di servizi, la sua rete associativa, il volontariato. Che operano in molti e diversi campi. Dall´educazione al tempo libero, fino all´accoglienza agli immigrati e all´assistenza caritativa ai più poveri.
Senza dimenticare i media cattolici. Dai giornali - locali e nazionali - alle emittenti radiofoniche (che hanno una copertura ampia e capillare) alle antenne satellitari. Alla comunicazione via internet. Naturalmente la Chiesa esprime anche valori e "contenuti". Da qualche tempo, aggredisce le questioni critiche dell´etica pubblica e privata in modo aperto e diretto. Offre risposte magari discutibili e discusse, non importa. Contestate da sinistra, sui temi della bioetica. Ma anche da destra, sui temi della pace e dell´immigrazione. Tuttavia, esprime "certezze". E ciò rassicura il suo popolo, anche il più tiepido e indifferente. Che ha bisogno di riferimenti e valori. Anche se, poi, ciascuno agisce secondo coscienza. Cioè: fa a modo suo.
Occorre aggiungere, infine, che il cardinal Ruini, per oltre quindici anni presidente della Cei, ha accentrato la guida - e il controllo - della gerarchia su questo mondo largo e complesso, che oggi si mobilita, come un movimento o un gruppo di pressione, attraverso campagne tematiche. A cui i partiti italiani, poveri di idee e lontani dalla società, spesso si adeguano. Magari senza troppa convinzione. Fra molte polemiche. Ma, al tempo stesso, senza troppa discussione.

Corriere della Sera 15.2.09
L'incontro tra laici è cattolici. Una stagione al tramonto
di Ernesto Galli Della Loggia


Tutto sembra indicare che una stagione italiana sta finendo: la stagione che è andata sotto il nome di incontro o dialogo tra laici e cattolici. Si capisce a quale stagione, a quale incontro mi riferisco: a quella che si aprì intorno agli inizi degli anni Novanta, nel momento della crisi della Prima Repubblica e con essa della Democrazia cristiana, del centro sinistra, ma anche del Partito comunista colpito a morte dalla fine dell'Urss, e che ricevette una spinta decisiva dall'attentato newyorkese dell'11 settembre. Quegli eventi, nonché la sensazione più generale che si stesse chiudendo un'intera epoca storica, aprirono o catalizzarono una serie di interrogativi e di problemi riguardanti l'Italia e il mondo: immaginare una nuova collocazione e una nuova «missione» politica sia per i cattolici che per le forze laiche non attratte nell' orbita del vecchio Partito comunista; elaborare l'avvicinarsi di una temperie culturale nuova aperta dai progressi impressionanti della tecnoscienza in settori quali l'ingegneria genetica; affrontare le inedite tensioni geopolitiche, vieppiù dominate da componenti fondamentalistiche, che sembravano imporre un ripensamento/rilancio della categoria di Occidente. Dunque un dialogo tra laici e cattolici che però aveva poco a che fare con quello tradizionale della storia politica italiana, a suo tempo avviato dal Pci togliattiano, e proseguito per decenni, con la sinistra cattolica poi ribattezzata con il nome di «cattolicesimo democratico». Diversi i contenuti, ancora più diversi i protagonisti.
I risultati non sono mancati: soprattutto, direi, la nascita di quotidiani, riviste, libri, iniziative culturali varie, dove, per la prima volta in modo così continuo e sistematico nella storia italiana, la tradizione liberale e il cristianesimo cattolico hanno intrecciato analisi, rilevato coincidenze e scambiato punti di vista; dove si sono stabiliti importanti rapporti e consuetudini anche personali. Da tempo però tutto sembra avviato verso una ripetitività sempre più stanca, i contenuti non si rinnovano, non si aggiungono energie nuove mentre all'opposto si sommano nuove ostilità. E mentre continua ad apparire sempre assai lontano, quasi irraggiungibile, il traguardo della nascita nel nostro Paese di una cultura civica capace di coniugare quotidianamente, senza contrasti ultimativi, una dimensione pubblica della religione e un ethos democratico condiviso.
Qui mi limiterò a indicare alcuni motivi che a mio giudizio hanno reso sempre più difficile e sempre meno produttivo il dialogo di cui sto dicendo.
Innanzi tutto tale dialogo, che aveva una natura sostanzialmente culturale (anche se con possibili, evidenti, conseguenze politiche), si è trovato fortemente squilibrato per la scarsissima presenza in campo cattolico di un'opinione pubblica colta non orientata a sinistra. Sul versante cattolico i pochi interlocutori disponibili sono stati perlopiù figure di giovani intellettuali, quasi sempre cresciuti nei movimenti, e alcuni di quegli stessi movimenti (penso specialmente a Comunione e Liberazione). Dominati tuttavia, gli uni e gli altri, da un fortissimo spirito di parte, orientati a un forte radicalismo, pronti assai spesso a perdere repentinamente interesse, e magari a guardare con sospetto, proprio coloro dell'altro campo con i quali fino al giorno prima si erano trovati a discutere insieme.
E' accaduto così che il dialogo ha finito per vedere protagonisti, da parte cattolica, soprattutto gli esponenti della gerarchia, la Chiesa.
Molti prelati vi hanno visto un'occasione, nel caso migliore per uscire dal proprio ruolo intellettualmente non troppo appagante, nel caso peggiore per mettersi in mostra, per acquistare un'immagine pubblica di maggior rilievo. Ne sono derivate due conseguenze negative intrecciate insieme. Che l'incontro tra laici e cattolici, non avendo visto alcun impegno di parti significative del laicato cattolico, non ha potuto ricevere l'apporto di energie culturali vaste e profonde che non fossero quelle di qualche vescovo o cardinale (pochi per la verità, ben pochi!). Con il che, però, esso è divenuto di fatto un incontro con la Chiesa, caricandosi in tal modo di un significato immediatamente e inevitabilmente politico, o comunque potendo facilmente essere così etichettato. E dunque facilmente suscitando, da parte dei laici intransigenti e della sinistra, un fuoco d'interdizione rivelatosi alla fine efficace.
Il ruolo assunto dalla Chiesa ha evidenziato un ulteriore fattore negativo. Ha infatti reso ancora più chiara l'autoreferenzialità con la quale il mondo cattolico è abituato da un paio di secoli a improntare il suo rapporto con chi non ne fa parte storicamente, e che nel caso dell'organizzazione ecclesiastica raggiunge l'apice. Autoreferenzialità significa difficoltà di stabilire rapporti realmente paritari con chi è fuori da quel mondo, difficoltà di farsi persuaso che perché ci sia una reale interlocuzione con chiunque è necessario dare nella stessa misura in cui si riceve, non lesinare riconoscimento e visibilità, capire che se si vogliono conseguire obiettivi di rilievo non si può prendere come bussola solo se stessi, solo il proprio immediato tornaconto. E' così accaduto tante volte, per esempio, che pur mostrandosi molto interessata al dialogo con i laici di orientamento liberale la Chiesa e i suoi esponenti fossero pronti, però, con lo stesso interesse (anzi assai spesso di più), a incontrarsi con i più aspri avversari di quelli, con quei laici intransigenti che magari vituperavano gli altri proprio a causa — colmo dei paradossi — del dialogo da essi intrattenuto con il mondo cattolico: fossero pronti a invitarli, a scrivere sui loro giornali, a chiederne la collaborazione.
Forse qualcuno potrebbe giudicare tutto ciò una manifestazione di quella malizia e spregiudicatezza talvolta considerate proprie della più sofisticata abilità politica. Sono convinto del contrario. A ben vedere, infatti, l'autoreferenzialità — di cui tanto spesso la Chiesa e il suo mondo ancora non riescono a liberarsi, e che è emersa con chiarezza nel dialogo con i laici interessati ad avviare un rapporto nuovo con il cattolicesimo — non è che la conseguenza della separatezza a cui la vicenda storica ha costretto la Chiesa stessa insieme al retroterra sociale che fa capo ad essa. Una separatezza che costituisce un grave ostacolo proprio rispetto alla possibilità di fare politica davvero, cioè di avere una visione strategica, di fare scelte nette e conseguenti, di scegliere chi sono i propri amici culturali e chi no, magari perfino di farsi arricchire da essi (non oso dire cambiare). E' su questi scogli che il dialogo tra laici e cattolici si è incagliato e forse sta naufragando. Di sicuro non sarà qualche progetto di legge disposto a recepire per intero il punto di vista della Santa Sede che cambierà le cose.

Liberazione 15.2.09
Un convegno dei radicali raccoglie i piddini scontenti della linea veltroniana. Il chirurgo ai pannelliani: «Siete più leali»
Testamento biologico, Marino: referendum. Il Pd lo sconfessa
di Laura Eduati


La parola d'ordine è «mobilitazione».
Mobilitazione per fermare la legge berlusconian-vaticana sul testamento biologico che paradossalmente annullerebbe la possibilità di fare un testamento biologico. Come dice con espressione provata Carlo Alberto Defanti, il neurologo amico degli Englaro e autore del protocollo medico applicato a Eluana: «Meglio niente che questa legge» visto che la Costituzione italiana già garantisce il diritto a rifiutare le cure.
Con il ddl Calabrò il medico non potrebbe decidere se sospendere idratazione e alimentazione; il paziente perderebbe ogni voce in capitolo dato che il testamento voluto dalla maggioranza non sarebbe vincolante. L'allarme è chiaro: con l'obbligo del nutrimento artificiale si abbatterebbero sui tribunali italiani migliaia e migliaia di contenziosi tra famigliari e medici, tra camici bianchi e pazienti. E se proprio dovesse passare questa norma, allora ecco Ignazio Marino che promette un referendum abrogativo per dimostrare «a quattrocento parlamentari», quelli del centrodestra, che il Paese sta camminando in un'altra direzione e basta osservare i sondaggi: la maggioranza degli italiani sta con Beppino Englaro.
E' proprio Marino la star del convegno sulle menzogne e le verità propinate da politici e media sul caso Englaro, organizzato dai radicali al teatro Eliseo. Lui, il chirurgo dalla faccia pulita applaudito fragorosamente dalla platea straboccante, si rivolge alla «pattuglia radicale» come a compagni di partito «più leali e trasparenti di tanti altri componenti della nostra vita politica». Leggi: più leali dell'ala cattolica del Partito democratico che ha premuto per sostituirlo in corsa con la ex Udc Dorina Bianchi alla guida del gruppo in commissione sanità del Senato. Proprio Marino, attivissimo propositore di una legge laica sul testamento biologico che porta la firma di cento senatori e raccolto oltre centomila firme on-line.
E dunque il convegno diventa la riunione dei piddini stanchi del moderatismo di Veltroni, piddini stizziti dall'onnipresenza clericale nelle questioni di bioetica: presenti Luigi Mancuso, Paola Concia, Cinzia Dato, Furio Colombo, Giovanni Cuperlo. E con loro l'unico «berlusconiano», Benedetto Della Vedova: «Spero che Berlusconi torni liberale sulle questioni etiche».
Emma Bonino parla al teatro ma sta parlando virtualmente ai vertici del Pd: «Mi sono stufata dell'espressione libertà di coscienza. Anche io ho una coscienza, e la chiamo dissenso nei confronti di un atteggiamento da talebani che non lascia la libertà di scegliere come morire». Immediatamente la proposta del referendum balza alle agenzie, Dorina Bianchi e Rosy Bindi frenano il compagno di partito Marino: «Grave errore portare lo scontro dalle aule parlamentari alle piazze». Perplessità condivise anche da Paolo Ferrero, per ragioni diverse: su questo tema meglio un dibattito ampio altrimenti si rischia di creare «il partito della vita e il partito della morte». Bonino commenta soltanto a margine: non pensiamo al referendum, mobilitiamoci contro il ddl per scongiurare la sconfitta sulla legge 40.
Il maxi-schermo manda in onda un collage di telegiornali e trasmissioni televisive nei giorni della bufera istituzionale: un florilegio di suore che assicurano di aver visto Eluana sorridere, Eluana portata in giardino, la sottosegretaria Eugenia Roccella informa che la donna di Lecco può deglutire («non riusciva nemmeno a deglutire la propria saliva» correggerà poi Defanti), il cardinale Barragan che minaccia «questa cosa non dovrà succedere più nel mondo e specialmente in Italia», Bruno Vespa sul dolore di chi muore per fame e per sete, il neurologo convinto che la donna avrebbe sofferto nel passaggio dalla vita vegetale alla morte. Per i radicali si è trattato di una battaglia disinformativa a senso unico che è riuscita in poche ore, distorcendo il vero, a modificare la percezione dell'opinione pubblica sulle reali condizioni di salute di Eluana e sul diritto alla morte sancito dalla Corte di cassazione.
«Falsità, tutte falsità» sottolinea con vigore il membro della Consulta nazionale di bioetica Maurizio Mori. Falsità specialmente su alimentazione e idratazione: per la letteratura scientifica mondiale sono trattamenti medici e dunque rifiutabili dal paziente così come garantito dall'art. 32 della Costituzione. Proprio la carta costituzionale, sottolinea Rodotà, garantisce «un pieno di diritti» che contrasta con la vulgata del «vuoto legislativo» ripetuta a destra come a sinistra. Per il testamento biologico basterebbe insomma una indicazione procedurale e non una legge articolata come il ddl Calabrò che dichiara la vita «indisponibile», e cioè nemmeno disponibile per il malato come accade oggi. «Una legge truffa, scritta malissimo» commenta il costituzionalista, preoccupato dalla inquietante «regressione culturale».
Marino ironizza sulla eccessiva burocratizzazione che si verrebbe a creare se la legge venisse approvata: poiché si dovrebbe rinnovare il testamento biologico ogni tre anni di fronte al notaio e con il medico di base, i medici ambulatoriali dovrebbero recarsi dal notaio circa 500 volte l'anno, mentre i notai dovrebbero prepararsi a firmare circa centomila testamenti biologici ciascuno.
«Siamo grati ai radicali che continuano a fare la guardia» concede Furio Colombo. In sala qualcuno bisbiglia: «E il resto del Pd?»

Liberazione 15.2.09
«Subito in piazza per evitare una nuova legge 40»
intervista a Emma Bonino di Laura Eduati


Emma Bonino lo dirà anche sul palco del teatro Eliseo, dopo l'intervista: «Se ci limitiamo alla sola battaglia parlamentare abbiamo già perso». La leader dei radicali teme che la lotta contro il testamento biologico formato vaticano diventi «un film già visto», il film della legge 40 approvata dal governo Berlusconi e poi sottoposta al referendum che consacrò la vittoria dell'asse chiesa-centrodestra. Una sconfitta così lacerante, e recente, che i radicali non vogliono sperimentare ancora una volta. Ecco perché Bonino preferisce la mobilitazione immediata nella speranza di modificare almeno in parte il ddl Calabrò.

Autorevoli giuristi avvertono che la legge sul testamento biologico è incostituzionale, dunque basterebbe, una volta approvata, ricorrere al giudice.
Dobbiamo capire che questo è un precedente esplosivo. Da molti anni sono impegnata sul fronte dei diritti civili, ma la vicenda Eluana pone un punto di non ritorno. I media ci hanno bombardato a senso unico, il contradditorio è andato in onda soltanto nelle ore notturne. Questa, lo ripeto, è una campagna goebbelsiana. Per fortuna abbiamo guadagnato tre settimane di tempo, la discussione dovrebbe arrivare all'aula del Senato a metà marzo. Mobilitiamoci subito altrimenti poi sarà troppo tardi perché quella legge è la negazione del testamento biologico e per farla passare questo governo potrebbe inventare un caso qualunque simile a quello di Eluana.

Come si spiega il fatto che il Pd abbia votato il contingentamento dei tempi per approvare più velocemente quel decreto legge, poi fermato dalla morte di Eluana?
Questo è accaduto alla Camera. E in Senato è difficile fare ostruzionismo, sono le regole.

Favorevole ad un eventuale referendum?
Giuridicamente esistono i presupposti, ma le condizioni politiche sono ancora da chiarire

Non protesta per la sostituzione del laico Marino con Dorina Bianchi?
Confesso che la tempistica scelta non è delle più brillanti. Nessuna disistima nei confronti di Bianchi, ma la battaglia politica è dura e se avessero aspettato un mese lo avrei preferito.

Avete intitolato il convegno all'eutanasia, tra virgolette. Qual è la menzogna più grave di questi giorni?
Hanno presentato Eluana come una donna bella e capace di fare figli, un peso per il padre Beppino. Una serie di finti scoop senza contradditorio. Non ci sono più pali e paletti, dopo questa storia.

Liberazione 15.2.09
Da questa chiesa vogliamo la scomunica
Cara "Liberazione", incredibilmente - per una volta - sono d'accordo con un cardinale. Con quello che, dall'alto della Congregazione per i Sacramenti, chiede che «chiunque si sia attivato per la morte di Eluana sia scomunicato». Allora ce l'abbiamo fatta! Qualcuno ricorderà certamente la provocazione che lanciammo tempo fa e che fu raccolta da tante persone, occupando per giorni e giorni le pagine del "Riformista" e di altri quotidiani, agenzie e siti internet. Era il maggio 2007 e la guida del giornale era affidata a Paolo Franchi: un manipolo di eretici chiedeva addirittura la scomunica dalla Chiesa cattolica! Certo, ci si diceva: «ma se siete già fuori dalla Chiesa, una scomunica che vi fa?». Un baffo, potremmo rispondere. Ma è anche vero che, se ci è consentita un po' di ingerenza all'incontrario, sarebbe un atto dovuto da parte di lorsignori scomunicare tutti quelli che come noi combattono per il primato dei diritti civili e della vita umana, quasi sempre contravvenendo a dogmi religiosi. Sì, ci siamo attivati perché la non-vita di Eluana finisse. E ci attiveremo ancora in favore della libertà di essere... esseri umani. Sì, ci siamo attivati per la fecondazione assistita, omologa ed eterologa. Sì, continueremo a sostenere la ricerca scientifica sulle cellule staminali; a difendere la legge sull'interruzione volontaria di gravidanza e ad invocarne una per il testamento biologico. Per tanti diritti sgraditi al Vaticano, continueremo a lottare giorno dopo giorno. Perciò, si tolgano il pensiero e ci scomunichino tutti, ma sappiano che siamo tanti, sempre di più. Mentre lorsignori sono pochi, sempre di meno, anche se vogliono parlare a nome di tutti: spermatozoi, embrioni, feti e morti viventi compresi.
Paolo Izzo

Che dio ci salvi delle religioni
Caro direttore, mi associo alla lettera nella quale il lettore Fabio Della Pergola loda Roberta Ronconi per la recensione del film "Religiolus" e, soprattutto, alla risposta di Ronconi. E' verissimo quando lei dice che certe considerazioni e domande «le hai ripetute tante e tante volte nella tua testa che ormai ti sembrano scontate». Alle frasi che smitizzano la religione sparite dal lessico della sinistra, come scrive Della Pergola aggiungerei un ossimoro inventato lì per lì: visti i risultati, che dio ci salvi dalle religioni. Magari potrebbe recitarlo anche qualche credente.
Renzo Butazzi

Il coraggio di Beppino Englaro e la religione
Cara "Liberazione", in questo tempo in cui il dubbio sui temi eterni dell'umanità non si deve porre perché il tempo per la riflessione non porta guadagno ma è solo indice di debolezza è facile assumere dogmi e principi assoluti senza interrogarsi più di tanto, la velocità del decreto per esempio, ma ci vuole comunque uno sforzo notevole per non arrossire di fronte al comportamento e alle dichiarazioni del "cavaliere", "imperatore" nel senso di "Comandante"e "Cesare". Al tempo dei romani però i comandanti erano comandanti veri ,andavano alla guerra con i soldati. Ora Silvio, che si atteggia a tale, per mantenere il potere, deve accontentare due "eserciti":il Vaticano e la Lega. Così, ecco l'ingerenza della potere religioso nella politica che pretende di decidere in che modo è giusto morire, si intende a difesa della vita e nega l'elemento primo della vita stessa, la facoltà di scegliere. Ecco che con il decreto sulla sicurezza si dà seguito ai comizi e alla propaganda leghista, negando di fatto alle persone più deboli il modo giusto di vivere e di convivere, arrivando a trasformare i medici in delatori, negando il diritto alla salute e promovuendo la clandestinità a vita. La schizofrenia è evidente tant'è che mentre il Vaticano elogia il coraggio del governo sulla decretazione d'urgenza per il caso Englaro il ministro Maroni è alle vie legali con "Famiglia cristiana" che accusa il governo di razzismo per il decreto sulla sicurezza Si potrebbe dire che non c'è più religione? No, non mi pare che il nostro stato sia laico. Forse bisogna mettersi d'accordo sul significato vero delle parole: cos'è il coraggio e cos'è la religione ? Mi viene da dire che il coraggio è quello di Beppino Englaro che nell'affrontare un percorso di vita doloroso, difficile ha comunque lottato per esercitare una scelta, quella di sua figlia, legittima perché svolta secondo le regole e a seguito di una sentenza definitiva, mentre la religione, quella vera, è una fede che comporta uno stile di vita che deriva da convinzioni personali che non possono essere imposte. Per definire il governo e il Presidente Berlusconi, nonché i suoi ministri giudicanti e urlanti, paladini della vita, solo un grande senso di vergogna e l'esigenza di chiedere scusa a tutti quelli che la vita se la vedono negare senza averlo chiesto.
Marina Giusti

il Riformista 15.2.09
Marino pronto al referendum. Ma il Pd torna a spaccarsi
di Alessandro Calvi


«Se faranno questa legge ci batteremo perché venga cancellata». Dunque, sul testamento biologico ci si potrebbe avviare verso il referendum. Lo ha annunciato ieri Ignazio Marino. Ma, mentre dalle parti del Pdl facevano sapere che nessuno ha paura del referendum, la prima reazione di area Pd arrivava proprio da colei che di Marino ha preso il posto come capogruppo in commissione Sanità del Senato, Dorina Bianchi, che ha parlato di un «grave errore». Lo stesso ha fatto Rosy Bindi mentre Enrico Letta chiede convergenze. Il Pd, insomma, torna a dividersi.
Dunque, la Bianchi guarda in tutt'altra direzione rispetto a Marino. D'altra parte, la stessa Bianchi nell'intervista rilasciata ieri al Riformista, escludeva un cambio di linea del Pd ma ammetteva una correzione di rotta. Ora, per capire da che parte stia il partito, si dovranno attendere gli emendamenti che il Pd presenterà al disegno di legge del Pdl. Ormai è una questione di giorni: entro martedì tutti dovranno scoprire le carte.
Per la sua prima uscita dopo il cambio che ha fatto parlare di un "caso", Ignazio Marino ha scelto la platea del convegno «Verità e menzogne su "eutanasia", Coscioni, Welby, Englaro», organizzato ieri da Radio Radicale al Teatro Eliseo di Roma e moderato da Massimo Bordin. È una platea alla quale si rivolgeranno anche altri ospiti, da Stefano Rodotà - che ha messo in guardia contro la «legge truffa» del Pdl - a Carlo Alberto Defanti, neurologo che ha seguito Eluana Englaro, che ha ripercorso gli ultimi giorni prima della sua morte, spiegando di aver ascoltato «colossali falsità» sulle condizioni di Eluana anche da colleghi e raccontando che un famoso fotografo aveva fatto una cospicua offerta per poterla fotografare. È a questa platea che Marino ha spiegato che, se passerà il disegno di legge del Pdl sul testamento biologico così come è oggi, «sarà necessario lanciare un referendum abrogativo». L'intervento di Marino si era aperto con un ringraziamento ai radicali - «persone trasparenti e leali, molto più di altri componenti della vita politica» - ed era proseguito con un affondo contro il Pdl. Sul Pd, invece, nemmeno una parola.
Ha applaudito la platea dell'Eliseo e si è spellata le mani quando Marino ha annunciato che il suo impegno «continuerà con grande forza». Ma di lì a poco le agenzie battevano la risposta della Bianchi. «Parlare oggi di referendum - ha detto - è un grave errore. Spostare lo scontro dalle aule delle Camere e portarlo nelle piazze significa alimentare uno scontro sbagliato fra due radicalismi». E Rosy Bindi poco dopo aggiungeva che «parlare ora di referendum è un regalo a chi non vuole fare la fatica di definire una buona legge sul fine vita». Dall'altra parte, Gaetano Quagliariello ha avvertito che nel Pdl nessuno teme il referendum. «Si tratterà - ha spiegato - di una replica del referendum sulla legge 40». E non è il solo ad averne parlato. Lo aveva fatto Emma Bonino per chiedere al Pd di mobilitarsi ancor prima che il ddl faccia il suo ingresso in aula. Le risposte, per ora, sembrano di segno diverso.

il Riformista 15.2.09
Il rabbino e la bioetica degli ebrei
di Francesca Bolino


Di Segni. Il capo della Comunità di Roma dice la sua su caso Englaro, idratazione e temi etici. L'eccessivo clamore, le forzature legislative, la "bioetica della quotidianità", l'ebraismo tra ortodossia e modernità. La soluzione? Il compromesso.

A seguito della vicenda di Eluana Englaro, abbiamo intervistato Riccardo Di Segni, capo Rabbino della Comunità Ebraica di Roma, al quale abbiamo chiesto un parere sul rapporto tra religione, politica e bioetica dal punto di vista dell'ebraismo e non.
Quali sono gli atteggiamenti dell'ebraismo rispetto ad alcuni aspetti della bioetica?
Innanzitutto bisogna capire di quale ebraismo si parla, perché esistono tanti tipi di ebraismo e tante concezioni diverse di ebraismo. Qui mi riferisco specificamente alla posizione del rabbinato ortodosso in merito ai temi di cui abbiamo deciso di parlare.
Gli ebrei però non si rifanno solo al rabbinato ortodosso e non si rifanno magari a nessun rabbinato, giacché spesso ragionano con la loro testa; e quindi se si fa una ricerca di opinione rispetto a qualsiasi problema generale tra gli ebrei sarà possibile trovare opinioni disparate.
Quindi non c'è un'autorità centrale?
I cattolici hanno un'autorità centrale. Da noi non c'è. Ci sono tante autorità, ciascuna delle quali rispetto allo stesso problema può dare una risposta differente. Il rapporto con queste autorità delle persone è articolato: in mondi strettamente legati alla tradizione, la persona si rivolge all'autorità religiosa e a questa rimane assolutamente vincolata. In altri casi, o non ci si rivolge affatto, o ci si va solamente per sentire un parere orientativo, ma non vincolante.
Nella mia comunità nello specifico, si pongono spesso e purtroppo seri problemi di natura bioetica, dei quali vengo a sapere, a volte, solo a posteriori. A volte, invece, si chiede un parere consultivo e in pochi altri si fa esattamente ciò che il rabbino indica.
Questi casi hanno implicazioni ovviamente drammatiche, per cui cerco sempre di consultarmi con grandi esperti internazionali, giacché la condivisione di queste scelte è molto difficile. Da una parte c'è la tradizione, la Torah e la legge ebraica, cioè l'Halachà. Dall'altra c'è un elemento, per così dire di modernità: lo Stato di Israele.
L'Halachà è l'unico testo cui fare riferimento?
Gli ebrei osservanti sono fermi all'Halachà. Ma è l'Halachà che non è ferma. Nel senso che cammina progressivamente e affronta tutti i problemi che la tecnologia di oggi propone e che un tempo non esistevano. Lo fa secondo le regole dell'Halachà: si deve confrontare il caso precedente con il caso nuovo e dedurne le conclusioni. È un meccanismo che richiede il rigore dell'analisi giuridica, ma ha dei margini di libertà, per cui non è detto che alla stessa domanda si risponda in maniera univoca. L'Halachà è un sistema aperto che si sviluppa.
Lo Stato di Israele è uno stato laico che ha un suo parlamento e funziona come qualsiasi società democratica. È però diventato costume del parlamento israeliano fare delle leggi che, sia per rispetto alla minoranza più fedele alla tradizione - che è comunque una minoranza - sia per rispetto nei confronti di una propria radice culturale, tengono conto del parere della tradizione.
Per esempio per un'importante legge che è stata approvata nel 2005 sul problema degli stati terminali e delle disposizioni anticipate di trattamento, è stato fatto un grandissimo lavoro preliminare con una commissione presieduta da Avraham Steinberg, che è un neurologo di professione ma che è anche l'autore della Encyclopedia of Jewish Medical Ethics. Partendo da ciò che la tradizione afferma su questi argomenti, si è poi scelto laicamente come proporre al parlamento di fare una legge. La legge che poi è stata fatta, nel rispetto della tradizione ebraica ma che si esprime liberamente.
In altri casi, come nella legge che stabilisce come debbano essere divise le proprietà tra ex coniugi, la soluzione adottata è estremamente laica e non segue ciò che l'Halachà stabilisce. Può spiegare come si contrappongono pensiero laico e religioso nell'ebraismo?
Si pensi a un principio fondamentale: semplificando si potrebbe dire che il pensiero laico si basa sul diritto della persona a ragionare con la propria testa. Il pensiero religioso, invece, si basa su un'autorità che si ritiene proveniente da un'origine sacra e sovrannaturale. Quindi le due cose dal punto di vista concettuale sono differenti. Ma quando si va a confluire su una decisione pratica non è detto che le cose debbano andare necessariamente in conflitto. Spesso partendo da posizioni ideologicamente contrapposte, si arriva a conclusioni condivisibili.
Un esempio emblematico di questa situazione è il conflitto tra la posizione ideologica dell'autonomia che dice "il corpo è mio e decido io cosa farne" che è in conflitto con la posizione religiosa secondo la quale "il corpo non è mio, mi è stato dato in prestito". Perciò nel momento stesso in cui si deve restituire il corpo, lo si deve fare nelle migliori condizioni possibili. Questa concezione religiosa potrebbe, apparentemente, aprire la giustificazione totale al paternalismo medico, che è stato il modo prevalente di fare medicina fino a trent'anni fa: il medico possiede la verità, la salute, quindi il paziente si deve attenere rigorosamente a ciò che il medico stabilisce.
Da un punto di vista pratico, però, la tradizione religiosa ebraica - fermo restando che è dovere tutelare la propria salute - inserisce su questo dovere una serie di riflessioni e di dubbi che concorrono, per così dire, a smantellare l'impianto paternalistico: per esempio "chi ci dice che quel medico è affidabile su questioni così delicate?".
Poi ci sono altre variabili, come quella della sofferenza. La sofferenza, secondo l'ebraismo, produce meriti, ma i Maestri stessi dicono che «io non voglio né la sofferenza, né i meriti che ne possono derivare». Nessuno è costretto a soffrire. Perciò il principio secondo il quale ci si deve affidare completamente alle cure del medico va a cozzare con altri principi. Alla fine, quando ci si deve confrontare con le decisioni pratiche come, per esempio, staccare la macchina o no, tante differenze in fondo non ci sono.
E il caso Englaro?
Io proprio non capisco i motivi per cui ci sia stato questo enorme clamore attorno alla vicenda. Il caso è noto, non è affatto singolo, poiché purtroppo ce ne sono altri molto simili. Ma è divenuto un problema di natura politica che si è prestato a uno scontro tra forze politiche oltre che a forze istituzionali. È difficile parlare di questo caso senza rimanere coinvolti in qualche cosa che ti costringa a schierarti per una fazione o l'altra. Cosa che non si dovrebbe assolutamente fare quando si parla di etica o di bioetica, giacché in tali casi bisogna esprimere un giudizio di valori indipendentemente da una scelta politica.
In linea di massima i grandi decisori rabbinici che si sono occupati dell'argomento ritengono che l'idratazione e l'alimentazione non rappresentino eventi o trattamenti di tipo eccezionale o straordinari e quindi come tali non debbano essere interrotti. Questa è la posizione fondamentale, fermo restando che poi ogni caso va discusso singolarmente. Comunque, posso dire che con tutto il dolore e la condivisione della sofferenza nei confronti del caso Englaro, trovo strano che ci sia stata la necessità di un ricorso alla legislazione eccezionale. Mentre esistono problemi che interessano grandi collettività o malati a rischio di vita o di sicurezza e che, in questo Paese, non vengono riconosciuti in modo adeguato. Eppure avrebbero bisogno di provvedimenti legislativi.
Per esempio?
C'è stata una deviazione dell'interesse generale e che proprio non capisco. Ma il fenomeno non è solo italiano. Per esempio negli Stati Uniti c'era stato il caso Terry Schiavo, che per alcuni aspetti era simile al caso Englaro, per altri no (perché i genitori di Terry volevano che restasse in vita, mentre il marito voleva porre fine alle sue sofferenze. Nel caso Englaro, al contrario, c'era un unico genitore che voleva che la sofferenza finisse). Comunque nel caso Schiavo il Senato americano ha fatto una legge in tre giorni. Il Presidente degli Stati Uniti l'ha firmata di notte, ma ciò non ha comunque fermato i giudici.
Questo è significativo. Certi scenari avvengono anche negli Stati Uniti. Non è che la politica italiana abbia problemi in più rispetto a quella di altri paesi! L'altro giorno, davanti all'ospedale presso cui lavoro, c'è stato il Barella-day: alcuni collaboratori della sanità hanno manifestato per protestare contro il fatto che, in molti ospedali, i pazienti che arrivano al pronto soccorso e devono essere ricoverati spesso non trovano posto e vengono date loro delle barelle dove stazionare, anche per giorni.
Non è forse questo un vero e proprio problema bioetico?
Lo è certamente ma non fa parte della bioetica dell'eccezionale - come può essere il caso Englaro - quanto della bioetica della quotidianità, che non finisce sulle prime pagine, ma che attende interventi decisivi da parte della politica.
Dal punto di vista medico è stato decretato, secondo la tradizione ebraica, il momento della morte?
Il problema è stato posto in maniera forte quando si è affrontata la questione dei trapianti cardiaci. Perché il trapianto è consentito quando non sacrifica la vita di un'altra persona. Quindi il donatore deve essere già morto. Ma quando il decretare il momento della morte? La trapiantistica di alcuni organi come cuore e fegato si basa sulla necessità di prelevarli quando il cuore sta ancora battendo. E questo va contro la tradizionale concezione per cui la morte è decisa dalla fine del battito cardiaco. Si è sviluppato in quegli anni il concetto scientifico della morte cerebrale: si ha la morte cerebrale quando cessano le funzioni fondamentali vitali. La definizione scientifica si rifà ai criteri di Harvard che stabiliscono quali attività debbano essere valutate e misurate.
A questo punto il mondo rabbinico si è spaccato in due parti: una non accetta il principio della morte cerebrale, ma solo la morte o l'arresto cardiaco. L'altra ha accettato la morte cerebrale con riserve, cioè ha chiesto ulteriori tempi di attesa nella diagnosi e ulteriori indagini. La posizione ebraica tradizionale ha espresso quindi due pensieri differenti.

l’Unità 15.2.09
Il comune senso dello stupro
di Luigi Manconi e Andrea Boraschi


L’invettiva contro il “buonismo” costituisce una delle pagine più triviali della cultura politica italiana. Da alcuni decenni, quella categoria viene agitata scompostamente, per criticare la presunta ispirazione lassista o, Dio non voglia, garantista delle politiche destinate a contrastare i fenomeni di marginalità e devianza. In realtà, il sarcasmo contro il “buonismo” mira a occultare il fatto che, più corposamente, procede nella società e nelle istituzioni una tendenza schiettamente “cattivista”. Ovvero un’idea dei rapporti sociali connotata dall’aggressività reciproca, dal disciplinamento forzato di tutte le manifestazioni di irregolarità sociale e culturale, da una concezione sostanzialista (disinteressata alle forme, alle regole, alle garanzie) del governo delle contraddizioni sociali. A ciò ha dato voce Roberto Maroni, rivendicando la necessità di essere “cattivi”. Più che star dietro a tali scemenze, è utile considerare come quel “cattivismo” stia diventando una sorta di diffuso senso comune. Si prendano in esame le reazioni successive alle visita, fatta da due dirigenti radicali, Rita Bernardini e Sergio D’Elia, ai romeni arrestati per i “fatti di Guidonia” (il resoconto è pubblicato da innocentievasioni.net). Sulla posta elettronica di Rita Bernardini sono piovute centinaia e centinaia di email. A leggerle, c’è da rimanere sgomenti: non tanto per la prevedibile aggressività che esprimono, ma per il connotato peculiare che l’offensiva contro una donna tende immediatamente ad assumere. Il linguaggio, il ritratto psicologico, la cultura, i valori di riferimento, le idee dominanti, i modelli sociali: tutto, proprio tutto ciò che quelle lettere dicono - contro chi ha voluto verificare il trattamento subito dagli arrestati per stupro - richiama esattamente quella che possiamo definire la “mentalità dello stupro”. Ovvero un’idea della donna come corpo da prendere, violare, buttare via, come preda della propria libidine, come proprietà privata di cui disporre a piacimento. Di più: emerge una visione del sesso come esercizio di potere, come espressione di forza e come strumento di controllo, come affermazione di sé e negazione dell’altro (dell’altra). Dunque, il sesso, come penetrazione e sottomissione, riduzione in schiavitù (magari solo per una notte), spossessamento. E se qualcuno (una donna!) osa rompere l’ordine dispotico-maschile del circuito delitto-vendetta, deve essere punito: se è donna, la punizione è fatalmente quella. Subire la medesima onta e la medesima violenza patite dalla vittima di coloro per i quali quella donna (Rita Bernardini, in questo caso) ha chiesto il rispetto dei più elementari diritti.
Scrivere a : abuondiritto@abuondiritto.it

l’Unità 15.2.09
Mengele 30 anni dopo
La Germania fa i conti col boia di Auschwitz tra ombre e misteri
di Paolo Soldini


Josef Mengele (Günzburg, 16 marzo 1911 – Bertioga, 7 febbraio 1979) medico nazista di Auschwitz, è diventato tristemente famoso per gli esperimenti sugli esseri umani effuttuati sui reclusi del campo di concentramento. Il suo comportamento gli valse il soprannome di «angelo della morte», per la crudeltà e la freddezza con cui operava sui detenuti, in particolare ebrei e zingari, spesso bambini. Ad Auschwitz ebbe pieni poteri. Nel 1949 riuscì a raggiungere l’Argentina sfuggendo ai servizi segreti israeliani. Si trasferì poi in Paraguay e dal 1960 in Brasile. Morì per un ictus mentre nuotava in piscina nel 1979 a Bertioga, in Brasile È sepolto sotto il falso nome di Wolfgang Gerhard.

La polizia tedesca, il Mossad israeliano, i cacciatori di nazisti di Simon Wiesenthal lo cercavano ancora nel 1985. E quando fu scoperta la sua tomba, nel cimitero di una località vicina a San Paolo del Brasile, molti continuarono a cercarlo. L’uomo aveva mille risorse, era intelligente e poteva contare su amici potenti: i documenti presso il cimitero raccontavano che quello era il corpo di Josef Mengele, tedesco, morto per un infarto nella prima metà di febbraio del 1979, esattamente trent’anni fa, mentre nuotava in mare, ma non si poteva escludere un trucco, una manovra per scomparire definitivamente inscenando la propria morte. Solo nel 1992 gli ultimi dubbi caddero, il test del DNA dimostrò che i resti di San Paolo erano proprio quelli di Mengele, il medico boia di Auschwitz, l’inventore e l’esecutore delle più atroci torture mai inflitte da un essere umano ad altri esseri umani, in nome della «medicina» e del «progresso scientifico». Gli esperimenti di Mengele e gli «studi» sui gemelli e il nanismo provocarono direttamente la morte di almeno 40 mila prigionieri del Lager e indescrivibili sofferenze per i sopravvissuti, soprattutto donne e bambini.
Quando arrivò, con la prova del DNA, la certezza sulla fine del suo «esimio collega e professore dott. Mengele» anche l’allievo più solerte, il medico delle SS Aribert Heim se ne andò all’inferno a pagare le sue infamie. Da anni il «macellaio di Mauthausen» era inseguito da un mandato di cattura della procura di Ludwigsburg (quella che indaga sui crimini nazisti) e dai segugi del centro Wiesenthal e tutti erano convinti che anch’egli si trovasse in Sud America, in Brasile, in Paraguay o nell’ospitalissima Argentina. Invece Heim era in Egitto, al Cairo, dove viveva sotto il nome di Tarek Farid Hussein, frequentava i celebri caffè cittadini ed era un appassionato di dolci, che mandava a parenti e conoscenti in Germania e in Austria con mielosi bigliettini firmati «zio Tarek». Aveva persino mantenuto la proprietà di un appartamento a Berlino, che affittava con il proprio nome e fu proprio questo che permise a un cronista del New York Times di rintracciarlo. Non era benestante come Mengele, però, e neppure come i tanti (decisamente troppi) suoi colleghi che passata la denazificazione avevano riavuto cattedre e onori negli ospedali e nelle università della Germania federale: fu sepolto in una tomba provvisoria nella Città dei morti del Cairo e i resti non vennero mai trovati. Ancor meno si sa di Alois Brunner, il collaboratore più stretto di Adolf Eichmann, catturato nel 1960 in Argentina e giustiziato nel ’62 in Israele. Potrebbe essere morto a Damasco, dove aveva trovato rifugio con il nome di dott. Fischer e dove era stato nominato dalle autorità «consulente per la questione ebraica». Dal 2001 il «dott. Fischer», che in diversi attentati del Mossad aveva perso un occhio e alcune dita delle mani ma rispondeva volentieri alle domande dei giornalisti che lo cercavano, non è stato più visto in giro. Al centro Wiesenthal hanno sospeso la caccia, ma non c‘è alcuna prova della sua morte. Oggi, se fosse ancora in vita, avrebbe 96 anni.
Ne ha 88, di anni, l’unico sopravvissuto dei criminali nazisti su cui penda ancora un procedimento giudiziario. E’ l’ucraino Ivan Demjanjuk, che nel campo di sterminio di Sobibor avrebbe ordinato la morte di 29 mila ebrei. Demjanjuk, che vive nei pressi di Chicago, era stato estradato in Israele nell’81 e condannato a morte nell’88 per gli orrori commessi nel campo di Treblinka, ma nel ’93 la sentenza era stata cassata perché la Corte suprema di Gerusalemme aveva espresso dubbi sulla reale identità dell’imputato. I dubbi, ora, sono caduti e l’ucraino è formalmente sotto processo in Germania. Ma è malato ed è dubbio che si arriverà a una nuova estradizione. Dopo la morte di Erna Wallisch, che portava personalmente i bambini nelle camere a gas di Majdanek e, quando era incinta, uccise a pugni e a calci un prigioniero che non ce la faceva ad alzarsi dal letto, i processi ai criminali nazisti vanno ormai verso l’estinzione naturale. Quello per l’eccidio delle Fosse Ardeatine a Erich Priebke, in Italia, rischia di essere stato l’ultimo. Questo non significa però che sia arrivato il momento di stendere il velo sulle responsabilità. Come ricorda il settimanale «Die Zeit» in un dossier dedicato al trentesimo anniversario della morte di Mengele, rimangono ancora due capitoli sui quali va fatta luce. Il primo riguarda l’atteggiamento tenuto, negli anni ’50 e ’60, dalle autorità tedesco-federali. Si dice, ad esempio, che il cancelliere Konrad Adenauer già nel 1958 fosse stato informato dai servizi segreti americani del fatto che il ricercatissimo (in teoria) Eichmann si trovava in Argentina. Adenauer si sarebbe tenuto il segreto per sé perché temeva che l’arresto dell’organizzatore delle deportazioni degli ebrei avrebbe potuto coinvolgere il suo strettissimo collaboratore Hans Globke. D’altronde, una parte dell’establishment era certamente complice. L’esilio di Brunner a Damasco, ad esempio, fu organizzato dal deputato cristiano-democratico Rudolf Vogel, che a suo tempo era stato membro dell’ufficio di propaganda nazista di Salonicco. Ed è cosa nota che la fuga di molti criminali nazisti, nell’ambito del famoso piano Odessa, fu non solo favorita ma direttamente gestita dalla «Organisation Gehlen», ovvero i servizi segreti della Repubblica federale che fino al 1968 fecero capo all’ex capo dello spionaggio della Wehrmacht Richard Gehlen.
Ancora più delicato il capitolo che riguarda la chiesa cattolica e il Vaticano. Nel Baden-Württemberg esiste una Klosterweg, una strada dei monasteri che tocca i principali centri religiosi della Foresta Nera. Ma dalla fine degli anni ’40 a tutti gli anni ’50 ci fu un’altra Klosterweg, che portava verso la Spagna di Franco e da qui al Sud America ed era controllata direttamente dalla Croce rossa italiana insieme con e per conto della Santa Sede. Si tratta di una storia abbastanza nota, anche se non è mai stata raccontata nei dettagli se non nel libro «La auténtica Odessa» del giornalista argentino Uki Goñi e nell’indagine disposta negli archivi del tempo di Peron dal presidente Néstor Kirchner. Una storia che ora si scontra con un dubbio davvero inquietante. È stato accertato che Mengele ottenne i documenti per l’Argentina spacciandosi per Helmut Gregor, un altoatesino di Termeno. È esattamente la strada che portò in Sud America migliaia di tedeschi, austriaci, fascisti croati e italiani, che ricevettero l’appoggio (accertato) di influenti ambienti della Santa Sede. Anche Mengele fu salvato dal Vaticano?

Repubblica 15.2.09
Il leader della Cgil contro Bonanni e Angeletti: sono un´anomalia in Europa, gli unici a non essersi mobilitati
Epifani: "Cisl e Uil con Berlusconi e il Pd torni in mezzo ai lavoratori"
intervista di Roberto Mania


Una parte grande dei precari resta senza sostegno. E per usare gli 8 miliardi passeranno due mesi
Va nella giusta direzione: un mix per rilanciare i consumi, ridurre la pressione fiscale, sostenere il made in Italy

ROMA - «L´anomalia non è la Cgil che sciopera da sola per ottenere di più dal governo contro la crisi. La vera anomalia sono Cisl e Uil: gli unici sindacati in Europa a non essersi mobilitati. Nemmeno una passeggiata, un sit-in. Mentre con il governo Prodi i pensionati della Cisl erano pronti a incatenarsi al ministero. In Francia c´è stato lo sciopero generale, in Germania quello dei servizi, in Grecia hanno scioperato, e così via. È davvero difficile rintracciare in Europa un profilo come quello della Cisl e della Uil, in particolare a livello nazionale».
Sta dicendo che Bonanni e Angeletti sono "filo-governativi"?
«Lo vogliano o meno, così appare».
Guglielmo Epifani, segretario generale della Cgil, ha appena partecipato all´incontro con tutte le parti sociali promosso dal Pd di Walter Veltroni. La sua Cgil è tornata al centro della scena politica, soprattutto di quella della sinistra. Il Pd si è diviso sull´adesione alla manifestazione di metalmeccanici e statali di sabato scorso e Pierluigi Bersani ha scelto un´impostazione decisamente "pro-labour" per contendere la leadership a Veltroni. Epifani apprezza: «Ho sempre detto in tempi non sospetti che il Pd dovesse avere, nella sua autonomia, una maggiore presenza nel mondo del lavoro e provare a rappresentarlo».
Come giudica l´iniziativa di Veltroni di una "concertazione ombra"?
«Che è stata un´iniziativa utile con proposte che si muovono nella direzione giusta. Diversamente dal governo non c´è una sottovalutazione della crisi. Anzi. Le proposte sono positive: un mix per rilanciare la domanda di consumi, ridurre la pressione fiscale su salari e pensioni, sostenere in maniera selettiva il made in Italy. La Cgil ha detto per prima che la crisi c´è, che è eccezionale e che servono provvedimenti non ordinari».
Lei ha anche detto di condividere le conclusioni del G7. Perché, allora, critica il ministro Tremonti che si muove lungo la stessa direzione?
«Perché la ricetta di Tremonti ha un difetto di fondo. È giusto il suo ragionamento quando sostiene che la crisi nasce da problemi finanziari, ma sbaglia quando si limita a curare solo quelli, mentre è anche l´economia reale a soffrire».
Il governo, però, ha approvato un pacchetto per sostenere l´auto e gli elettrodomestici e poi ha destinato agli ammortizzatori sociali otto miliardi di euro.
«Il governo italiano è arrivato per ultimo in Europa. Se fosse intervenuto prima ci saremmo risparmiati due mesi catastrofici per l´industria dell´auto. E poi l´entità dei provvedimenti non è paragonabile a quello degli altri Paesi. Anche gli otto miliardi per gli ammortizzatori sociali arrivano troppo tardi. Per il 2008 non c´è niente e prima che siano realmente disponibili possono passare ancora due mesi. Non risolvono i problemi per una parte grande dei precari e si tratta di risorse, per la quota nazionale, che vengono tolte dai finanziamenti per le aree svantaggiate. In sostanza si aiutano i lavoratori in cassa integrazione e si creano meno posti di lavoro. È una partita di giro. Per questo ho detto a San Giovanni che continueremo con la nostra mobilitazione».
Tuttavia l´adesione allo sciopero è stata bassa: il 14 per cento tra i metalmeccanici, secondo la Federmeccanica; il 7,41 per cento tra gli statali, secondo il ministro Brunetta. Non si può dire che sia stato un successo.
«Non è così. Sappiamo benissimo quanto sia difficile scioperare con la crisi, con i redditi che non ce la fanno. Ma in molte grandi imprese, e non solo, lo sciopero è andato bene».
Il governo, con Brunetta, dice che siete una minoranza che sciopera "per tigna ideologica" e ha chiesto agli iscritti Cgil di restituire gli aumenti del contratto che contestano.
«Chi sciopero perde i soldi. Ci vorrebbe più rispetto per queste persone. Il problema non è essere una minoranza bensì verificare se le cose che dici sono giuste. Noi abbiamo detto che c´era la crisi, che era grave, che sarebbe arrivata una valanga di cassa integrazione, che servivano più soldi per gli ammortizzatori sociali, che bisognava sostenere l´industria dell´auto. Gli altri, come la Confindustria, dicevano che le cose andavano bene».
Una Confindustria "acquiescente" verso il governo, come ha detto D´Alema?
«Da quando la crisi che si è aggravata, la Marcegaglia ha cominciato a chiedere di più al governo. Ma proprio per questo non capisco perché abbia scelto la strada dell´accordo separato sui contratti, mentre si sta ballando davvero sul Titanic».
Riuscirete a ricucire con Cisl e Uil?
«È chiaro che nella crisi l´unità sarebbe fondamentale ma vedo anche che le divisioni restano profonde».

Repubblica 15.2.09
L’altra metà del Futurismo
Le donne e l’aerorivoluzione
di Daria Galateria


Cento anni fa il Manifesto del Futurismo glorificava "il disprezzo della donna" Eppure, come ora documenta un libro di Giancarlo Carpi, molto della pittura, scultura, danza, letteratura, cinema di quel movimento d´avanguardia fu dovuto alla creatività femminile
Si rifiutavano la femme fatale del decadentismo, l´amore-guinzaglio e la famiglia
"Disarmonica, sgarbata, sintetica, antigraziosa". Così fu definita la danza di Giannina Censi
La marcia beffarda con le suffragette per le vie di Londra dei giovani Boccioni e Marinetti

«Glorificare», intima il Manifesto del Futurismo del 1909, «il disprezzo della donna». «Noi disprezziamo la donna», ribadiva nel 1910 Marinetti, «concepita come ninnolo tragico». A scherno, Arturo Martini aveva intitolato Méprisez la femme una sua litografia, nel 1912. A Torino, nel 1909, Poupés électriques - bambole elettriche - col titolo italiano La donna è mobile metteva in scena fantocci elettromeccanici sostitutivi della donna. Naturalmente, si rifiutava la femme fatale del decadentismo, il «guinzaglio immenso» dell´Amore, la famiglia, «soffocatoio delle energie vitali», il debilitante sentimentalismo femminile («La donna che avevo io, pretendeva di monopolizzare il mio sesso, il quale è collezionista», si protesta con enfasi, sempre nel 1910, nella tragedia satirica Le Roi Bombance, il Re Baldoria).
Noi vogliamo combattere contro il femminismo, proclamava pure quel primo Manifesto; però nel 1910 si valutavano le ricadute positive del movimento: «Se l´entrata aggressiva delle donne nei parlamenti� finirà per distruggere il principio della famiglia, cercheremo di farne a meno». E del resto, in una spedizione a Londra nel marzo 1912 Marinetti e Boccioni si ritroveranno a sfilare «sottobraccio alle pochissime suffragette carine» - un corteo era passato sotto l´Hotel Savoy e i due futuristi erano scesi a unirsi alle donne in marcia - ma si erano infrante alcune vetrine, e la polizia a cavallo era intervenuta verso Trafalgar Square; tra cariche e manganellate, aveva anche sparato in aria; i due italiani erano fuggiti infilando un portone, ma le suffragette avevano poi applaudito le conferenze in francese di Marinetti - evidentemente, senza capirne una parola. L´«inferiorità assoluta della donna» (manifesto Contro l´amore e il parlamentarismo) è radicata nell´educazione; «se la donna sogna oggidì di conquistare i diritti politici, è perché, senza saperlo, essa è intimamente convinta di essere, come madre, come sposa e come amante, un cerchio ristretto, puramente animale» (la donna è naturale, dunque abominevole, aveva già scritto, per dandysmo, il poeta Charles Baudelaire, mezzo secolo prima).
A Marinetti rispose nel 1912, con il Manifesto della donna futurista, una parigina di Lione, Valentine de Saint-Point. Bella e inquieta, Anne Valentine Desglans de Cessiat Vercell era pronipote di Lamartine, e aveva preso come pseudonimo il paesino della Loira dove riposava il prozio poeta; Marinetti aveva ospitato i suoi versi già nel 1906 nella rivista Poesia. Intanto Valentine aveva tentato il romanzo (L´incesto) e la pittura, posando nuda per i suoi maestri Alphonse Mucha e Auguste Rodin. Nel 1912 aveva trentasette anni; a Parigi, sempre insieme a Ricciotto Canudo, l´intellettuale detto "le barisien" perché pugliese, era nota per i suoi immensi cappelli. Con Marinetti, furono tre anni di amore «infuocato e intervallato» (diceva il pittore Severini: «Marinetti è capace anche d´innamorarsi, se si tratta di aprire la strada al futurismo»).
Ciò che manca di più alle donne come agli uomini è la virilità, argomentò dunque Valentine nel Manifesto della donna futurista. I modelli sono le Erinni, le Amazzoni, Giovanna d´Arco, Charlotte Corday, Cleopatra e Messalina; e Caterina Sforza che, dai merli del castello sotto assedio, al nemico che minacciava di ucciderle il figlio, aveva mostrato, sollevando le vesti, le intimità: «Ammazzatelo pure! Mi rimane lo stampo per farne altri». Riacquisti dunque la donna la sua crudeltà e la violenza: perché - fatto salvo il femminismo, portatore d´ordine, dunque antifuturista - «nessuna rivoluzione deve rimanerle estranea».
Si volantinò, a Parigi e a Milano, anche il successivo Manifesto della lussuria: «La Lussuria è una forza», è ricerca carnale dell´ignoto: bisogna farne un´opera d´arte. «Cessiamo di schernire il Desiderio, questa attrazione di due carni, qualunque sia il loro sesso». Marinetti, «politimbrico», declamò il testo nella sala Gaveau di Parigi mentre Valentine, sotto l´ombrello di una scintillante costruzione di aigrettes, e un anello che «invetrinava il più bel piede del mondo», mimava una danza «ideista». Ci fu una scazzottatura, a causa «di alcuni imbecilli che insieme ai futuristi prendevano sul serio tutto ciò senza però esser d´accordo, disgraziati»; il pittore Severini era pronto a buttarsi dal palco in sala per dare man forte, ma era stato trattenuto dal colosso Cravan, boxeur pre-surrealista, nipote, si diceva, di Oscar Wilde. Severini poteva pure pensare che fosse una réclame furibonda per della paccottiglia rancida, ma insomma il Futurismo era movimento. E la danza della Saint-Point, in particolare la performance Metachorie (oltre la danza), antipsicologica, perché il volto era coperto da un velo neutro, con le sue singolari disposizioni a stella - il corpo steso come una ranocchia, le braccia a squadro a toccare le dita del piede - stravolse il balletto classico, e finì, nel 1917, al Metropolitan di New York.
Misoginia a parte, la danza della Saint-Point, la pittura polimaterica e la scultura cinetica di Ru�ena Zátková, il ruolo di Benedetta Marinetti nell´invenzione del Tattilismo fanno del Futurismo uno dei movimenti d´avanguardia con la maggiore partecipazione femminile, afferma oggi Giancarlo Carpi in Futuriste. Letteratura Arte Vita, quasi settecento pagine di saggio e antologia del futurismo al femminile (Castelvecchi). Oltre le specifiche ricognizioni, negli anni Ottanta, di Claudia Salaris e Lea Vergine, e più recentemente di Cecilia Bello Minciacchi, e poi di Mirella Bentivoglio e Franca Zoccoli - il bel saggio delle due studiose, Le futuriste italiane nelle arti visive, approda, ampliato, da New York alla De Luca editori d´arte -, Carpi nel vastissimo (e divertente) panorama di testi, e grazie a un ampio corredo iconografico, testimonia di questa importante presenza femminile, dalle prime tavole parolibere di Maria Angelini, la cameriera di Marinetti, attraverso le grandi poetesse e aeropittrici, fino ai coloratissimi arredi apprestati dalle figlie-vestali di Balla.
Agiografico il ritratto di Marinetti stilato nel 1916 dalla fantesca Marietta Angelini, che aureolava di parole in libertà l´asta gigante di un "1". Ironica invece la tavola parolibera del 1919 di Benedetta Marinetti, dal titolo irriverente Benedetta fra le donne, e la dicitura «Spicologia di 1 uomo» - non psicologia, ma «spico», spillo: i fili tesi tra gli spilli, come in un manufatto femminile, circondano un cerchio con la scritta: «vuoto». Marinetti nel �19 ha più di quarant´anni; nello studio di Balla (si entrava perlopiù dal balcone, saltando la ringhiera) ha visto per la prima volta l´angelica e flessuosa Benedetta Cappa: lunghe trecce scure, padre ufficiale piemontese, madre valdese; però, a diciannove anni e quattro mesi, è già futurista. Parlano di Bergson, e i primi amori pestano, in un campo oltre Sant´Agnese extra-moenia, otto metri quadrati di erba: «Non avremo mai un letto così grande», sospira Benedetta; si sposeranno qualche anno dopo. Velocità di un motoscafo, già dal 1919, traduce una scia in mare in una vibrante esplosione astratta di linee e triangoli blu e oro. Si orienterà poi su toni pastello - e intimi, nella narrativa: L´ultimo sogno di Astra, in Astra e il sottomarino (1935), evoca «una casa bianca. Astra espresse da sé quattro figlie e successivamente aperse un vano tondo senza imposte nella facciata� Metodicamente il padre murò il tondo occhio». Il «romanzo chirurgico» Un ventre di donna (1919) racconta una laparotomia in «non diluiti», dinamici termini futuristi («CORAGGIO + VERITÀ"). È inserita una lettera di Marinetti, che suggerisce una cura futurista: «Perfezionare il desiderio di un oggetto».
È Enif Robert, che con Rosa Rosà e Fanny Dini collabora alla nuova rivista Italia futurista, animata da Maria Ginanni. Enrica Piubellini firma tavole parolibere ispirate alla guerra, mentre si prepara la pattuglia di aeropoetesse e aeropittrici (Zátková, Barbara, Marisa Mori). Ma è l´aerodanza di Giannina Censi - in costume di lieve alluminio disegnato da Prampolini, nelle splendide foto rivelate dalla studiosa di danza moderna Leonetta Bentivoglio - uno dei capolavori del futurismo. Scoperta nel 1930 da Escodamé - pseudonimo di un "buttafuori" futurista - Giannina Censi, che ha studiato a Parigi con la russa Ljubov Egorova (la grande maestra su cui stava cristallizzando la sua follia Zelda Fitzgerald) si prepara ora con arditi voli aerei e realizza, superando «le passatiste ondulazioni di cosce montmartroises per forestieri», la danza «disarmonica, sgarbata, antigraziosa, asimmetrica, sintetica» preconizzata dal manifesto marinettiano nel 1917. Tra le fotografe, Wanda Wulz, con Io+gatto, impressiona Marinetti, e passa alla storia. Nel 1930, Tina Cordero firma, con Guido Martina e Pippo Oriani, Velocità, il capolavoro del cinema futurista. Pulsazioni e battiti di luce animano nel finale la scomposizione di un manichino metallico: «L´uomo d´acciaio resta con la sua ombra, l´unica cosa che ci appartiene».

Corriere della Sera 15.2.09
L'intervista. Il sindaco Domenici: no a queste primarie, sembrano una corrida
«Partito balcanizzato, a Firenze si può perdere»


FIRENZE — Sindaco Domenici, va a votare oggi?
«Ma sì. Andrò».
Elezioni primarie di coalizione, si sceglie il candidato sindaco suo successore, dopo dieci anni di "era Domenici". In campo, quattro esponenti del suo partito, il Pd, e uno della Sinistra. Lei sembra poco convinto...
«Sia chiaro: io sono favorevole alle primarie. Però nel Pd qui si è tutto ridotto a una corrida. Uno scontro fra i quattro gruppi che sostengono i quattro candidati».
Lapo Pistelli, ex Margherita, vicino al segretario Veltroni. Matteo Renzi, ex Margherita, molto autonomo, campagna "all'americana". Michele Ventura, dalemiano, già vicesindaco negli anni 80. Daniela Lastri, assessore nella sua giunta, ex sinistra Ds.
«Già. Ma io ho detto a Veltroni: se le primarie sono di coalizione, il candidato del partito dovrebbe essere uno. La segreteria nazionale, però, a un certo punto si è disinteressata a Firenze. Ci sono state autocandidature. Ed eccoci qua: la balcanizzazione del partito. Parcellizzazione. Personalismo. Così si disperde un patrimonio».
Quale?
«Il 48,7 per cento dei voti al Pd alle ultime politiche. Secondi solo a Bologna. Ma non basta».
Cos'altro?
«A Firenze è stato realizzato ciò che è nel codice genetico del Pd. Si è costruito il partito riformista di massa, con il movimento operaio e i cattolici democratici. Abbiamo governato per dieci anni senza la sinistra radicale. Nessuno ha pensato di valorizzare questa esperienza, di rivendicarla».
Cosa è accaduto, invece?
«Lo slogan di Lapo Pistelli è "Lapo punto a capo". Quello di Renzi, "Facce nuove a Palazzo Vecchio". Quello di Ventura, "Firenze merita di più". Il rischio ora è grave».
Che rischio?
«Che il Pd venga ridimensionato, proprio a Firenze, una roccaforte».
In che modo?
«Innanzitutto, qui, cosa unica in Italia, si svolgono le primarie con il ballottaggio. Per il timore che nessun candidato prenda una percentuale convincente. Allora, facciamo un' ipotesi probabile: vanno al ballottaggio Renzi e Pistelli, due ex Margherita. Come reagiranno gli elettori più legati alla sinistra, gli ex Ds, che sono almeno i due terzi di quel 48,7 per cento?».
Ma ora siete tutti assieme, nel Pd.
«E' vero, ma la fusione non c'è stata. E non c'è stata la gestione di queste primarie. Il Pd si è mostrato labile, impalpabile.
Così, è naturale che riemergano le antiche appartenenze».
Può vincere il centrodestra, a Firenze?
«Due mesi fa ero sicuro di no. Ora sono meno sicuro. Anche perché la balcanizzazione porta la proliferazione delle liste civiche».
Quanta gente si prevede andrà a votare alle primarie?
«Non so. Spero poi che i controlli sui votanti siano migliori di quelli fatti per l'elezione dell' assemblea cittadina del Pd».
Come furono le elezioni per l'assemblea cittadina?
«Nel mio circolo di Santa Croce ci fu quasi una rissa perché qualcuno portò a votare albanesi e rumeni che non sapevano nemmeno dove si trovavano. In altri posti gli "elettori" sono stati pagati 20 euro per partecipare».
Che compiti ha l'assemblea cittadina?
«Dovrà elaborare le liste elettorali. E i secondi e i terzi arrivati alle primarie apriranno il mercato: io ho preso tot per cento, ho diritto a tot candidati...».
Il Pd da Roma dovrebbe intervenire?
«Il problema è: cosa vogliamo fare del Pd? Ha ancora senso che i partiti siano strumento di selezione e formazione della classe dirigente, senza nulla togliere alle primarie? Io credo di sì, ma ciò che è accaduto a Firenze dimostra che il Pd ha abdicato a svolgere questa funzione».

Aprile on line 13.2.09
Testamento biologico, una battaglia di tutti
di Walter Bianco


Testamento biologico, una battaglia di tutti Il ddl della maggioranza, in discussione in Commissione Sanità del Senato, è una proposta che, se diventasse legge, circoscriverebbe a tal punto l'efficacia delle dichiarazioni anticipate di trattamento da renderle del tutto inutili. Un obiettivo, questo, che viene perseguito nel contenuto e nel metodo da parte del centrodestra e di spezzoni dell'opposizione. Contrastarlo è interesse di ogni cittadino

La morte di Eluana Englaro, la sua tragica vicenda umana, la dignità, l'altissimo senso civile della sua famiglia, lasceranno un segno profondo nelle coscienze di tutti noi.
Il nostro pensiero va innanzi tutto ad Eluana, a questa povera donna che ha visto spezzato nel fiore degli anni il suo percorso di vita, rimanendo sospesa nel limbo tremendo di una non vita e che ora ha finalmente trovato pace.
Il nostro pensiero va anche ai genitori di Eluana, i quali con un coraggio, una dignità ed un senso civile quasi sovrumani, hanno portato avanti, giorno dopo giorno, anno dopo anno, una battaglia che era di grande amore per la figlia e di grande rispetto per le istituzioni.
Tante altre soluzioni, più semplici, meno dolorose, avrebbero potuto trovare. Loro hanno percorso quella più difficile, ma anche quella più trasparente, ponendo così tutti noi di fronte ad una realtà che preferiremmo non vedere, che ci costringe a porci domande profonde sulla dignità della vita, sulla libertà dell'individuo, sul limite oltre il quale lo Stato, con i suoi precetti non può arrivare, sull'autodeterminazione della persona in ciò che di più sacro, di laicamente sacro, c'è nell'esistenza di ognuno di noi: la vita stessa, e la fine della vita.
Ora la famiglia di Eluana è arrivata al termine di quel percorso: liberiamoli da questo fardello, ed abbracciamoli nel loro dolore, lasciandoli tornare nel loro privato, rispettando i loro sentimenti.
Rimane però, enorme, incombente, il problema irrisolto della libertà dell'individuo di autodeterminazione su un punto cruciale quale è quello della decisione in merito alla prosecuzione delle forme di sostentamento anche in assenza di ogni ragionevole speranza di ritorno alla vita cosciente.
E rimane, altresì, irrisolto, il risvolto, ancora più inquietante, emerso in questa vicenda, e cioè il tentativo, la "prova generale" da parte del governo, di portare a compimento uno strappo rispetto all'ordinamento ed agli equilibri tra i poteri e le istituzioni, nel tentativo di ridimensionare i poteri del Capo dello Stato a tutto vantaggio del Presidente del consiglio.
Sotto quest'ultimo profilo, è evidente che Berlusconi, allorché ha ventilato l'ipotesi di approvare la disciplina del "testamento biologico" con decreto legge, per renderlo applicabile al caso specifico di Eluana Englaro, era ben consapevole di proporre un provvedimento che il Presidente della repubblica non avrebbe mai potuto controfirmare, in quanto palesemente incostituzionale, perché, anche a tacer d'altro, esso avrebbe inciso su una fattispecie che era già stata oggetto del vaglio dell'autorità giudiziaria, a tutti i livelli, e definita con sentenze ormai passate in giudicato, provocando così uno stravolgimento radicale di tutti i principi su cui si fonda la separazione dei poteri nel nostro ordinamento.
Il vero obiettivo del premier era pertanto un altro, e cioè quello di tastare il polso dell'opinione pubblica - e della docilità parlamentare - su un'ipotesi da lui stesso ventilata: quella di sottrarre al vaglio del Presidente della repubblica lo strumento della decretazione d'urgenza, in nome di una piena libertà d'azione del governo, negata, a suo dire, dai troppi "pesi e contrappesi" del nostro ordinamento istituzionale.
Se tale disegno dovesse mai arrivare a compimento, la conseguenza sarebbe un Capo dello stato ridotto a mera figura di rappresentanza, un Parlamento privato di fatto del proprio potere di discutere le leggi, ed una concentrazione assolutamente abnorme di poteri in capo al governo: non servono altre parole per sottolineare lo sfregio alle istituzioni ed al nostro ordinamento che ciò rappresenterebbe.
Venendo al merito ed al contenuto del disegno di legge varato dal Governo, occorre ribadire un punto preliminare, ma indispensabile, per porre la discussione in termini corretti: La Repubblica Italiana è uno Stato non confessionale. Ciò significa che, per quanto le posizioni espresse dal Vaticano possano legittimamente rappresentare un punto di vista autorevole, rappresentativo del pensiero di una buona parte della nostra popolazione, esse non possono avere per ciò stesso accoglienza a dispetto di ogni altra considerazione e punto di vista. Uno Stato non confessionale, infatti, deve essere consapevole che le proprie leggi debbono valere per tutti, compresi coloro che non condividono quei principi religiosi. Esso non può accettare il magistero di una confessione religiosa, per quanto diffusa e radicata nel sentire comune, quale criterio guida delle proprie scelte.
La Chiesa Cattolica può legittimamente professare, per i propri fedeli, il principio per cui la vita non appartenga ai singoli individui, ma sia un dono divino "indisponibile"; lo Stato, al contrario, non può tuttavia adottare tale visione quale unica possibile - nemmeno in maniera implicita - a meno di non deviare in maniera radicale dai principi posti alla base del nostro ordinamento costituzionale: sottrarre all'individuo l'inviolabile diritto all'autodeterminazione, infatti, fa venir meno il rispetto di un diritto di libertà e di dignità della persona, che invece la nostra Costituzione sancisce in maniera incontrovertibile nell'art. 32.
Il disegno di legge (ddl) che il Governo ha predisposto e portato in discussione nella drammatica seduta del Senato di lunedì 9 febbraio, e che adesso - sfumata per il Governo l'opportunità di far leva sulla vicenda di Eluana Englaro per accelerarne in maniera inaudita i termini di approvazione - tornerà in discussione in Commissione Parlamentare, introduce una disciplina che di fatto nega ogni libera autodeterminazione dell'individuo in una materia delicatissima qual è quella del testamento biologico.
In realtà questa proposta, se diventasse legge, circoscriverebbe a tal punto l'efficacia del testamento biologico da renderlo del tutto inutile. Ciò attraverso due barriere: una di merito ed una di forma.
Nel merito, a prescindere da ciò che la persona dispone nella propria D.A.T. (dichiarazione anticipata di trattamento), sarebbe comunque vietato al medico attivare o disattivare un trattamento, se da ciò possa derivare la morte del paziente, e, in ogni caso, la decisione di interrompere l'alimentazione o l'idratazione forzata non potrà essere oggetto della dichiarazione anticipata di trattamento, con ciò condannando di fatto, anzi di diritto, persone in stato vegetativo irreversibile a protrarre tale condizione a tempo indeterminato.
Nella forma, la dichiarazione dovrà essere resa davanti ad un notaio e sottoscritta dal medico di famiglia, e dovrà essere rinnovata ogni tre anni, rendendo così oltremodo farraginoso il ricorso a tale dichiarazione.
Infine, ed a sancire la totale inutilità di tale "dichiarazione", essa, secondo il disegno di legge predisposto dal governo, non sarà vincolante. Disposizione che suona come la definitiva vanificazione di questo simulacro di testamento biologico.
Se questo disegno di legge dovesse essere approvato, la scelta di ogni individuo di terminare la propria esistenza, in casi tragici ed estremi, in maniera dignitosa, senza inutili accanimenti, gli sarebbe totalmente sottratta, così creando un vulnus gravissimo nei principi fondamentali di libertà, di difesa della dignità dell'individuo, di libera determinazione della propria esistenza. Ipotesi questa che ripugna, o dovrebbe ripugnare, non solo ogni persona di sinistra, ma ogni individuo che si ritenga sinceramente democratico e liberale, indipendentemente dal proprio essere cattolici o meno.
Mentre infatti una disciplina che riconosca all'individuo la libertà ed il diritto di disporre le proprie volontà per tali eventualità non imporrebbe a nessuno una scelta e certamente non imporrebbe a chi creda in valori religiosi di adottare scelte in contrasto con le proprie convinzioni, questo ddl finisce con l'imporre a tutti una strada, limitandone pesantemente la libertà di scelta.
E' questo il motivo per il quale ogni partito che si professi democratico e che riconosca nella Costituzione dei valori ancora validi e degni di essere difesi e concretamente attuati nel nostro ordinamento, non può non opporsi nel merito a questo disegno di legge, ed impegnarsi per l'approvazione di una legge sul testamento biologico che riconosca ad ogni individuo il diritto di scegliere per la propria esistenza.
Si tratta di una battaglia che la sinistra dovrà, come ha già fatto, portare avanti, pur nella consapevolezza dei limiti dati dal non essere presente in Parlamento, movimentando su questi punti l'opinione pubblica non solo per evitare che questo scellerato disegno di legge venga approvato, ma anche perché l'Italia abbia finalmente una disciplina del testamento biologico che la metta in linea con i Paesi più avanzati dell'Occidente.
*Coordinatore Sinistra Democratica Pomezia

Aprile on line 12.2.09
Carità o quattrini?
di Nane Cantatore


Carità o quattrini? La veemenza con cui il fronte clericale e vaticano si è mobilitato sulla vicenda di Eluana Englaro fa pensare a un'offensiva sulle emozioni per ottenere una legge fortemente addomesticata, che faccia i poco limpidi interessi delle strutture sanitarie private, che non poco guadagnano dalle degenze croniche

La storia che viene raccontata dai fautori della cosiddetta "vita" (non la vita di qualcuno, che ne dispone liberamente, ma la "vita" in generale, che non è di nessuno, tanto che nessuno ne può disporre) è che Eluana è stata sottratta alle amorevoli cure delle suore misericordine, che l'avrebbero protetta e coccolata fino alla fine "naturale" dei suoi giorni. Proprio in nome di tale carità si sono sprecati gli insulti a Beppino Englaro e a chiunque sostenesse il diritto di interrompere la non vita, in nome di un'autodeterminazione sulla propria vita e il proprio corpo che ogni Stato laico dovrebbe tutelare.
Potrebbe essere allora significativo esaminare un po' più a fondo come si esprima e che cosa sia davvero questa carità, visto che siamo alle soglie dell'approvazione di una legge sul testamento biologico che ha tutte le probabilità di essere scritta secondo i più sfrenati sogni bagnati dei cosiddetti difensori della vita. C'è infatti da pensare che l'intera vicenda di Eluana, la chiamata alle armi della maggioranza, la mobilitazione di tutto il mondo cattolico ossequiente con il suo corollario di atei devoti, servano proprio a definire in questo nome una normativa estremamente stringente sul fine vita, con modalità fortemente prescrittive.
Sembra già chiaro, insomma, che i trattamenti nutrizionali non potranno in alcun caso essere sospesi, e che andranno protratti nel tempo senza alcuna possibilità di metterli in discussione. Ciò significa che, visto che la legge dello Stato ne imporrà l'erogazione, saranno le finanze pubbliche a farsene carico, attraverso i servizi sanitari. Servizi che agiscono ormai da tempo in pieno regime di sussidiarietà, secondo il principio per cui, nella fornitura di un bene o di un servizio di pubblico interesse, il pubblico e il privato possono erogarlo allo stesso modo, atteso il loro adempimento rispetto a standard di qualità e di costo.
In altre parole, visto che la nutrizione assistita di un paziente in stato vegetativo permanente non è un'operazione particolarmente complessa dal punto di vista medico, e che non richiede personale particolarmente qualificato, c'è da aspettarsi che, seguendo questa legge, la domanda di strutture per l'accoglienza di questi pazienti registri una forte crescita, anche perché non ha molto senso tenerli in strutture mediche ad alta intensità, destinate a bisogni più urgenti e più complessi. Del resto, quella che è la prassi comune, anche se non sancita da leggi, in tutti gli ospedali italiani, si troverà improvvisamente illegale: non sarà più possibile decidere di interrompere un trattamento medico e, per evitare guai e denunce da parte dei numerosi colleghi ansiosi di fare carriera grazie all'obbedienza ai dettami religiosi, saranno ben pochi i medici in grado di fermare forme ben più invasive di accanimento terapeutico.
Torniamo allora alle suore misericordine e alla loro carità, che resterà per poco prive di oggetto, e chiediamoci come potrebbe funzionare la questione con la nuova legge.
Stando a indiscrezioni raccolte in rete , la degenza di Eluana costava circa 3.800 euro al mese; un paio di riscontri con medici e dirigenti sanitari stimano comunque in più di 100 euro al giorno il costo di ospedalizzazione in una residenza sanitaria assistita di un paziente in stato vegetativo. È, del resto, noto che le suorine, i fraticelli e i tanti volontari che si prodigano a mostrare il loro amore non prendono stipendio, tanto che i religiosi risultano essere tra i maggiori destinatari della celebre social card dell'amato Tremonti (e chissà se anche le loro carte sono completamente vuote, o se nel loro caso la Provvidenza ha provveduto a dotarle di fondi), come è noto che contributi, straordinari e tutela dei dipendenti, per non parlare di corsi di formazione permanente e verifiche della qualità, sono poco meno che bestemmie di fronte a tanta carità.
Insomma, tra esenzioni fiscali, immobili di proprietà, donazioni e il dumping sociale esercitato dalle strutture sanitarie religiose, è chiaro chi si prenderà cura dei pazienti e a vantaggio di chi saranno i nuovi oneri sanitari. Anche una piccola struttura con una dozzina di letti, come quella magnificata recentemente in una trasmissione del limpido Bruno Vespa, insomma, potrà tranquillamente raccogliere cinque-seicentomila euro all'anno; mettiamoci uno di quei medici di chiara fama presso la parrocchia locale, che faccia da direttore sanitario e magari anche da direttore amministrativo e, perché no, da imprenditore a capo della struttura, un po' di glucosio e soluzione fisiologica, ed ecco che ci troviamo con un guadagno netto sui due-trecentomila euro puliti.
Moltiplichiamo il tutto per il boom di ricoveri garantito da una legge ad hoc, ed ecco che viene quasi la voglia di diventare caritatevoli anche noi.

Aprile on line 13.2.09
''Le bandiere rosse ci indicano un vuoto''
intervista a Fausto Bertinotti di Marzia Bonacci


Sfila tra il popolo della Fiom e della Fp. Stringe mani e ascolta quanti lo chiamano per esortare all'unità. Fausto Bertinotti non poteva non esserci all'appuntamento di oggi. E non poteva che provare un senso di soddisfazione nel vedere insieme, unite, due categorie di lavoratori per storia così diverse. Una soddisfazione che però lascia spazio alla coscienza che manca la sinistra e che va ricostruita. Ci ha spiegato perchè

Sfila tra i volti noti della politica, lui che dice di averla lasciata dopo averne fatto parte a lungo per dedicarsi allo studio, alla riflessione, alla sua rivista, Alternative per il socialismo. Avvolto nel tradizionale cappotto verde, con l'immancabile sigaro in mano, Fausto Bertinotti non poteva non esserci oggi, al corteo della Cgil. Poco distante Paolo Ferrero, attuale segretario, con cui i motivi di lontananza politica non sono mancati, tanto da spingere i "suoi", con Nichi Vendola in testa, a lasciare Rifondazione per imbarcarsi nel progetto costituente di una nuova formazione della sinistra. Sebbene sia fuori dall'agone politico in senso stretto, Bertinotti quel progetto di una nuova sinistra lo ha sostenuto e lo sostiene, mentre resta, a giudicare dalle mani che stringe in questa piazza, un punto di riferimento della sua comunità politica. Con lui abbiamo parlato proprio a margine del palco, davanti ad un fiume di bandiere rosse che lo hanno profondamente colpito.
La Fiom e la Funzione pubblica insieme, a sfilare per le strade capitoline e a ritrovarsi a S.Giovanni. Che cosa ti suscita questa compresenza?
E' molto bello. Ma forse anche di più. E' un fatto che dovrebbe interessare la cultura politica del paese. Questa manifestazione di lotta comune di due popolazioni lavorative per storia così diversa, come appunto i metalmeccanici e il pubblico impiego, è un reciproco vantaggio. Aiuta infatti a far vedere il lavoratore pubblico italiano come un lavoratore e non un privilegiato, e aiuta anche il metalmeccanico, che dimostra come non rappresenti la fine di una grande storia, la classe operaia che esce di scena, ma come una realtà sociale che ancora resiste, che ancora c'è.
Ed è poi un segnale di unità, tra due categorie che negli ultimi anni sono state anche distanti?
Si, rappresenta l'idea di mettere al centro dell'iniziativa politica e sociale l'unità della compagine lavorativa, del mondo del lavoro. Il che è un fatto straordinario, una risposta importante anche al contesto che il mondo sta vivendo.
Ti riferisci alla crisi?
Ovviamente, la recessione divide il mondo del lavoro, basta guardare Oltre Manica a quanto accaduto in Galles. E la crisi economica non fa che aumentare il rischio di conflitti che possono intervenire ogni giorno fra i lavoratori, spinti dalla scarsità di occupazione, dalla concorrenza spietata che il padrone impone loro. Ecco, di fronte a questo scenario, la costruzione dell'unità del lavoro diventa fondamentale, importantissima, vitale. Per questo dovrebbe interrogare la cultura politica.
E i partiti. Che messaggio manda questa piazza Cgil alla sinistra?
Il messaggio che manda lo si vede dal colore, da questa distesa di bandiere rosse che è assolutamente straordinaria. Sta avvenendo qualcosa di singolare. Veniamo da un tempo lontano in cui le manifestazioni della sinistra politica erano un tappeto di bandiere rosse mentre quelle sindacali erano multicolore, perché c'erano diversi simboli, perché si sosteneva che il sindacato dovesse comprendere tutti. Oggi questa distesa di bandiere rosse riempie di un vuoto il paese. Col che non è richiesto al sindacato di sostituire le forze politiche, ma indica un problema: se da una parte testimonia infatti una presenza forte di un sindacato che offre la mano ai lavoratori e questi che la prendono - senza chiedersi chi è, perchè sanno che è il sindacato e questo è ciò che conta, che basta- d'altra parte prova che non c'è, come dovrebbe esserci, la sinistra. Ma questo è un compito che è di questa gente e di questo popolo, ma non di questa organizzazione.
La gente e il popolo a cui ti riferisci però chiede alla sinistra unità. Durante la manifestazione non pochi si sono avvicinati a te per esprimerti questa esigenza, anche per dire che non capiscono però la nascita di un altro nuovo partito della sinistra che impegnerebbe Nichi Vendola...
Non milito direttamente nella politica, quindi non è giusto che mi pronunci, Nichi Vendola è un caro amico e compagno, penso però che il problema sia complessivamente della sinistra. Credo che oggi in Italia non esiste una sinistra e bisognerebbe, senza scorciatoie, porsi il problema di ricostruirla. Personalmente poi ritengo che ciò possa avvenire, intendo questa ricostruzione, solo da un grande big bang, che riapra un capitolo nuovo nella forza politica del paese.