martedì 17 febbraio 2009

Repubblica 17.2.09
L'oggetto del desiderio del potere politico
di Filippo Ceccarelli


Ma che gli è preso, e tutto insieme, e all´improvviso? Preghiere, strilli e vaniloquio mediatico-istituzionale attorno al corpo vivo-morto, reale e virtuale di Eluana Englaro. E adesso, senza nemmeno il tempo per un respiro, ecco una seconda ondata di pensieri, parole, opere e prevedibile ottusità normativa attorno ai corpi femminili violati, come in Bosnia o ai tempi delle "marocchinate", da fronteggiare magari a colpi di castrazione, chi dice chimica e chi – vuoi mettere l´effetto degli schizzi di sangue? – chirurgica, addirittura.
Biologia, eutanasia, stupri, la vita nuda, primordiale e drammatica, ma pure quotidiana e debitamente stralunata. L´altro giorno è venuto fuori che il ministro della Difesa La Russa vuol far fare ginnastica obbligatoria ai militari del ministero: flessioni, corsetta, piegamenti, vedi l´accluso manuale. E dopo le feste di Natale la sottosegretaria Martini è intervenuta sulle diete, così come il ministro Sirchia s´era preso a cuore di favorire normativamente le mezze porzioni al ristorante. A suo tempo, d´altra parte, la Livia Turco creò una task-force contro junk-food, fumo, alcool e sedentarietà; mentre la Melandri ce l´aveva con le taglie 38 e Napolitano premia la stilista delle taglie forti.
Corpi, corpi e ancora corpi da difendere, disciplinare, sorvegliare, punire, salvare. Chissà cosa direbbe Michel Foucault, teorico della microfisica del comando, che nell´involucro di carne e ossa vedeva il "luogo assoluto" della politica. A Varallo Sesia danno dei soldi a chi dimagrisce; lo sceriffo Alemanno vieta il vino dopo una certa ora e la Lega continua a organizzare l´etno-festival di Miss Padania, ma con tale severità da mettere al bando la danza del ventre.
Un tempo il corpo apparteneva al suo legittimo proprietario. Bene, adesso sembra che il potere o i poteri rivendichino di nuovo un qualche interesse al riguardo. Di questa specialissima cura offre plastica e spudorata testimonianza il presidente Berlusconi. Sempre con garbo e simpatia, s´intende, egli abbottona di continuo giacche a diplomatici, anche davanti al Santo Padre, suggerisce interventi estetici ai ministri, approva nuove acconciature, depreca la barba di La Russa, consiglia i pantaloni anziché la gonna alla Brambilla, si preoccupa per la magrezza della Carfagna e all´inizio della scorsa campagna elettorale ha proposto addirittura la maglia di lana a Veltroni.
Quest´ultimo gli ha risposto: «Me lo diceva pure mia nonna!». Ma del tutto incurante, il Cavaliere ha semmai alzato il tiro dell´immaginazione corporale. Così una volta da don Gelmini, sempre ridendo, ha spiegato che non gli dispiacerebbe se i ministri s´inginocchiassero davanti a lui; e in un´altra occasione, anzi due, ma sempre al tempo della monnezza, ha fatto presente che a Singapore chi sporca viene frustato. E l´altro giorno, infine, per dire il bene che vuole al nipotino Alessandro, gli è parso simpatico evocare un suo possibile intervento legislativo per fermare la crescita del bimbo, lasciandolo così: «Amabile e piccolino» ha soggiunto. Per decreto.
Ecco. Che cosa è accaduto nella storia di questo paese perché dagli sfuggenti pallori democristiani, dalle rarefatte astrazioni di una classe dirigente quasi del tutto disincarnata si arrivasse ai milioni di euro che Berlusconi versa all´istituto di medicina predittiva di don Verzé per far campare lui, e magari chi vuole lui, fino ai 120 anni? Che segno reca questo teatro dell´immortalità e del potere faustiano? Possibile e problematica risposta: tramontate le ideologie, espulse le culture politiche e raschiate via le appartenenze, ormai senza più progetti, interessi e insediamenti, la politica si è de-politicizzata. O meglio: ridotta ai minimi termini della semplificazione, ma al massimo format dell´evoluzione spettacolare e tecnologica, questa benedetta politica, o post-politica che sia, si è reincarnata.
Messa così, l´ipotesi può suonare ermetica, per non dire incomprensibile. Così come appare morboso, stucchevole e irrilevante lo scatenarsi dei media sul capoccione di Prodi, l´ombelico della Santanché, le tette della Carfagna chiamata a rispondere della loro integrità («Tutta roba mia») alle Invasioni barbariche. E certo lasciano il tempo che trovano i servizi fotografici sullo scarso appeal di Veltroni in spiaggia («Aiuto, arrivano i tettoni!»), sulle ascelle forse depilate di Casini, sul merolone di Fini o sul microfallo che tanto ha infastidito il professor Fagioli su Liberazione.
Perché la storia è spesso oscura, la sociologia politica anche di più e di sicuro i media sono impazziti. Ma intanto il sindaco di Verona Tosi fa il bagno a Capodanno. Da Storace a Rosy Bindi è una gara a chi perde più peso. Il sottosegretario Bonaiuti pubblicizza la sua dieta. Il Cavaliere scappa da Messegué. Il padano Gentilini chiede bimbi "razza piave". L´intero gruppo parlamentare dell´Udc, pompetta in bocca, si sottopone al test anti-droga. I giovanotti di Forza Nuova spediscono per posta raccapriccianti cuori di maiali e bambolotti fatti con le rigaglie di pollo. Bossi fa eleggere il suo medico. Il maratoneta Bassolino ha il preparatore atletico. Prodi ammette una certa somiglianza con Jimmy Fontana. E la Brambilla accavalla e riaccavalla le gambe nei talk-show: «Ah – commenta Berlusconi – sapeste quanto suda Bondi ogni volta che la vede!».
«Io, senatore Pannolone»: così esordisce nell´aula di Palazzo Madama Francesco Cossiga per rispondere provocatoriamente a chi solleva la questione anagrafica. Il corpo e i suoi accessori. La stampella, l´autoreggente, il cilicio, il massaggio, il lifting, il botulino, pure andato a male, il frustino, la saga incessante sulla tintura dei capelli, con i loro riflessi ramati, ma pure con gli shampini sbagliati... Viene da chiedersi che cosa sarebbe oggi, la politica, senza questa immensa pressione di carne; senza questa urgenza anatomica che sempre più chiaramente cerca di travolgere i confini tra sfera pubblica e sfera privata, che s´incrocia con la tirannia dell´intimità, con la deriva esibizionistica e guardona dei talk-show; e nel frattempo rimbalza nel linguaggio, ne abbassa le soglie cognitive, accende il turpiloquio a colpi di "vecchio", "panzone", "nano", "mettiti la dentiera".
Chi abbia cominciato a raccogliere con certosino entusiasmo quanti più possibili sfoghi e ogni ragionevole follia del corpo politico della nazione si sorprende oggi a rileggere tutto questo materiale con fatica e sgomento. In poco più di un anno, per varie ragioni, ben tre esponenti politici (la Mussolini, il sindaco di Palermo Cammarata e Giulianone Ferrara) hanno sentito il bisogno di rendere pubbliche le loro analisi del sangue e delle urine.
Meno idee circolano e più strappano attenzione, sputi, malori, sorrisi, gesti, smorfie, lacrime, desideri. Ogni tanto il dito medio si leva a condensare l´energia insieme primaria e terminale del discorso politico, unico sicuro indizio di valori estetici e morali. Con il povero risultato che sia pure per frammenti e per abbagli, per simboli misteriosi e materiali organici, acquista un senso il monito di Nietzsche: «C´è più ragione nel tuo corpo che nella tua migliore saggezza». E vai a sapere per quanto ancora, a che scopo, e a che prezzo.

Corriere della Sera 17.2.09

L’onda lunga
di Massimo Franco


Dire che è un risultato locale suona scontato e, insieme, molto riduttivo. La tesi sarebbe convincente se la sconfitta del Pd in Sardegna arrivasse come una parentesi inaspettata ed isolata. Ma segue di nemmeno un anno le elezioni politiche; di due mesi la disfatta in Abruzzo; e arriva in coincidenza con le primarie fiorentine, nelle quali è stato scelto come candidato sindaco del centrosinistra l'esponente che si opponeva al vertice nazionale del partito. I fattori regionali c'entrano poco, dunque. E pesa molto, invece, l'onda lunga del voto dell'aprile scorso. È la conferma che quel risultato non ha rappresentato solo una vittoria, ma uno spartiacque nel Paese.
Il «domino» che sta travolgendo ad una ad una le roccheforti dell'opposizione appare una conseguenza di quanto è accaduto allora; e dell'incapacità degli avversari di Silvio Berlusconi di capirlo e di affrontare una stagione nuova. Per questo lo schiaffo sardo ha un'eco dolorosamente nazionale, per Walter Veltroni. E porta a chiedersi se non abbia funzionato «l'effetto Soru»; oppure se il governatore uscente della Sardegna sia vittima della maledizione di un Pd ormai incapace di leggere le pulsioni più profonde del-l'Italia. Gli indizi mostrano un elettorato d'opposizione in lenta erosione; e avviato ad un voto europeo che si profila ogni giorno di più come una disfatta.
La crisi economica comincia a mordere il Paese. Il paradosso è che le responsabilità non si scaricano sul governo, ma sui suoi avversari. Merito, senz'altro, di un presidente del Consiglio che continua a macinare consensi, nonostante tutto; e che sulla Sardegna ha investito con una campagna martellante quanto invadente. Ma anche demerito del centrosinistra, che non è stato capace di opporre alla «politicizzazione» del voto regionale un antidoto credibile. Si possono evocare come scusante la guerra di logoramento all'interno del Pd; e le voci velenose su un Soru futuro leader nazionale. Tanto che all'inizio, mentre i dati affluivano con lentezza esasperante, lunare per un Paese occidentale, veniva accarezzata l'illusione di una sua vittoria.
Tutto questo, però, non basta a cancellare il sospetto di un'implosione che coinvolge la nomenk-latura del centrosinistra e la sua cultura politica. Ormai non serve sottolineare neppure l'inutilità di un antiberlusconismo che mobilita porzioni sempre più minoritarie. Il problema del Pd e dei suoi alleati è la mancanza di un'analisi seria della vittoria berlusconiana del 13 e 14 aprile del 2008. La domanda da porsi è se il centrosinistra non abbia avuto il coraggio di farla; o se più banalmente non ne sia stato capace. Qualunque sia la risposta, viene da pensare che sia stato sciupato quasi un anno. E la lotta per la successione a Veltroni, che già si intravede, non promette recuperi miracolosi.

Corriere della Sera 17.2.09
E Silvio affondò l'astro nascente
di Aldo Cazzullo


l custode della «sardità» sconfitto da Silvio-Ercole
Il motto dell'ex governatore: la simpatia non serve

Soru era molto più del presidente della Regione Sardegna e forse non era solo «il nostro piccolo Berlusconi», come lo definì l'altro grande sardo Cossiga.
Il personaggio L'ultima sfida: far trapelare la volontà di duellare con il Cavaliere per la guida del Paese
INon si sentiva un nuovo Illy, per citare l'altro imprenditore divenuto governatore di una Regione mai espugnata prima dalla sinistra e infine sconfitto da un carneade berlusconiano. Piuttosto, un giggirriva al contrario: non il lombardo che trova una nuova vita in Sardegna, ma il sardo che sbancata Milano torna a casa vincitore. Nel suo intimo, mutato il moltissimo che c'è da mutare, Soru si sentiva una sorta di Sciascia di Sardegna: non Sciascia lo scrittore, quello vero, ma il guardiano dell'anima isolana, il custode della specificità insulare, l'idea che di Sciascia si erano fatti in continente i lettori che lo veneravano e coloro che, come il Michele Serra dei Falsi («La mia tata si chiamava Peppinedda. Tutti dovrebbero chiamarsi Peppinedda...»), lo prendevano rispettosamente in giro. Anche per questo, essere battuti dal figlio del commercialista di Berlusconi è una sconfitta all'apparenza umiliante; in realtà, testimonia la forza e la singolarità di Soru. Il Cavaliere, come Ercole, ha strozzato in culla il serpente che un giorno avrebbe potuto stritolarlo. Ha fatto testare il suo peso nazionale dai sondaggisti. Ne ha seguito l'ingresso nell'editoria con l'acquisto dell'Unità, che ne ha raccontato la campagna con mediterraneo calore. Ha letto le interviste in cui Soru evocava le due vittorie di Prodi. E ha dimostrato che chi invoca «non tutto è in vendita!» sbaglia, almeno qui in Italia, isole comprese.
Quando è venuto in Sardegna l'inviato del Monde, Soru ha rilasciato un'intervista di silenzi, lunghi anche trenta secondi; quando il malcapitato pensava che la risposta fosse finita e tentava un'altra domanda, lui chiedeva un po' stizzito: «Per cortesia, non mi interrompa ». Quando si era candidato per la prima volta, nell'autunno 2003, Soru aveva portato il cronista del Corriere a vedere Sa Illetta, l'isoletta, la sede di Tiscali inaugurata appunto da Cossiga, poi la laguna dei fenicotteri (Soru dice «fenicoteri»), quindi la spiaggia del Poetto, dove si fermò a parlare con i mendicanti che lo conoscevano tutti e gli davano del tu (ricevendo il lei). Spiegò di aver deciso di scendere in politica dopo aver visto l'insegna di un negozio che si chiamava SARDEGNERIA. «Pensai: mai più. Mai più faranno mercato della nostra terra. Mai più villaggi turistici finti, che non sono costruiti da sardi, non impiegano sardi, non usano prodotti sardi, non distribuiscono utili ai sardi. La Sardegna è il campo giochi di partite altrui; di suo non ha neppure uno scivolo. Basta con le lottizzazioni sulla costa, con le moto d'acqua a tutto gas, con l'assedio degli yacht di ferragosto. Non possiamo diventare un'immensa Ibiza, perché anche Ibiza sta cambiando. Portiamo cavi e fibre ottiche, ma ritroviamo la nostra anima profonda, perché è quella che interessa al mondo globale ».
Soru era così complicato e così sardo che non solo detestava la Costa Smeralda, nelle due versioni di Tom Barrack e del Billionaire, della ricchezza internazionale e delle paillettes de noantri (e si seccò molto quando al bar dell'aeroporto di Cagliari vide nel menu il panino Porto Cervo). Non lo convinceva neppure l'idea della Sardegna cara a continentali che l'hanno molto amata, ad esempio Montanelli, affascinato da quello che gli pareva il Far West italiano, con i banditi, le cavalcate, gli spazi sconfinati, le sparatorie e tutto. L'idea dell'isola di Mesina e delle greggi gli pareva inutilmente romantica, ai limiti dell'oleografia: «Io la Sardegna la sento nel buio, nel silenzio. Due risorse quasi esaurite nel resto d'Europa, che sono la vera ricchezza naturale da sottrarre agli speculatori».
Anche per la profondità del suo radicamento, oltre che per i cinque anni di potere, la sconfitta di Soru che si profila nella notte appare un'impressionante dimostrazione di forza del suo rivale: non l'oscuro Cappellacci, ma Berlusconi. Certo, Soru lamenta che il vescovo di Cagliari, Giuseppe Mani, abbia benedetto il Cavaliere in arcivescovado: «Ricordatevi che questo presidente vuole bene ai sardi» («non è vero, non vuole bene ai sardi ma al potere!» fu la sua replica). D'accordo, l'Unione
sarda di Sergio Zuncheddu, editore e costruttore, non l'ha mai intervistato, «neppure una volta in cinque anni, e la sua tv Videolina a stento ha fatto sentire la mia voce». Di sicuro la tassa sul lusso gli ha alienato simpatie influenti, così come la vecchia nomenklatura di sinistra da Cabras in giù ha remato contro. Ma è evidente che la sua hybris è stata la sfida con Berlusconi, che della Sardegna conosce soprattutto le proprietà di famiglia ma si è rivelato in sintonia con i sardi d'oggi almeno quanto lui.
E' stato proprio Soru ad accettare il duello. Conscio delle divisioni del centrosinistra e della sua debolezza endemica nell'isola, il governatore ha tentato di risvegliare l'orgoglio sardo contro l'invasore brianzolo, e magari ha cominciato a fare un pensierino anche alla partita nazionale. Intervistato per Vanity Fair da uno scrittore conterraneo, Pino Corrias, che gli chiedeva della successione a Veltroni, ha risposto: «Non credo. Però vedremo ». E poi, quasi come motto finale: «Per governare non si deve necessariamente essere simpatici».
Un rischio che Soru non ha mai corso, sostengono i suoi nemici («quali sono? Se ha il pomeriggio libero le faccio l'elenco »). «Pescecane travestito da spigola» l'ha definito con metafora ittica Giovanni Valentini, ex direttore dell'Espresso ed ex dirigente Tiscali. In realtà, Soru non è antipatico. E' asciutto, essenziale, rapido. A 46 anni (ora ne ha 51) era già nonno. Scuola dai padri Scolopi («la mia famiglia era molto cattolica, e non di sinistra»). Un passaggio in autostop da un signore milanese fiero di avere gli eredi alla Bocconi; l'iscrizione alla Bocconi. Il padre aveva un minimarket; lui aprì un supermarket. Poi la finanza. La tecnologia. «A Milano ho passato 17 anni, sono nati due dei miei quattro figli, mi sono trovato benissimo. E' tutto diverso dal Sud, là nessuno ti chiede nulla del tuo passato, basta quel che sei e quanto hai da dare. Però, quando ci torno, mi pare di non esserci mai stato». La scoperta di Internet e dell'Est: Praga. L'amicizia con Grauso. Il boom in Borsa, quando Tiscali capitalizzava più delle grandi aziende italiane, e il rapido declino della new economy, che Berlusconi gli ha rinfacciato come fosse uno smacco personale («ho verificato l'ingiustizia del Lodo Alfano: lui mi insultava, mi calunniava, e io non potevo neppure querelarlo»). Ai sardi ha parlato di nuove tecnologie ma anche di formaggi («l'80 per cento del pecorino romano è fatto con il nostro latte!») e di leppe, il coltello tradizionale, di cui lamentava aver trovato alla festa dell'Assunta a Bonaria una versione made in China. Amava raccontare di quando da bambino andò a vedere la prima e ultima partita del Cagliari in Coppa Campioni: eliminato dall'Atletico Madrid, neanche dal Real. «Avevamo un grande allenatore, Scopigno, autore di una delle migliori battute di ogni tempo: "Tutto mi sarei atteso nella vita, tranne vedere Niccolai via satellite"». E' successo davvero, una volta. Ma era molto tempo fa.

Corriere della Sera 17.2.09
E il Pd in frantumi litiga sulla leadership
di Alessandro Trocino


Partito sotto choc. D'Alema apre al Prc: ripartire da un nuovo centrosinistra
Rutelli: nessuna scissione, ma non sono contento. Bisogna scegliere gli alleati che condividano il nostro programma
ROMA — Qualcuno sperava in un esito diverso, qualcuno forse lo temeva. Quel che è certo è che l'esito disastroso delle elezioni sarde si va a inserire in un dibattito ormai più che aperto su leadership e congresso, con un partito sull'orlo di una crisi di nervi che si muove tra autocandidature, ipotesi di congressi anticipati, scissioni temute, vocazioni maggioritarie quasi tramontate e auspici di ritorni al passato del centrosinistra. L'autocandidatura di Bersani ha portato allo scoperto l'insofferenza di una parte del partito. E lo choc sardo non può che rafforzare gli oppositori. Nicola Latorre è cauto sulla prospettiva di un congresso anticipato: «Se ne discuta, ma a ragion veduta ». E Bersani dice no: «Si rispettino i tempi fisiologici. Da questa posizione non mi sposta neanche Gesù Cristo». Gli ulivisti sono scettici: «Tonini chiede il Congresso perché sa che non si farà». I radicali predicono sventure: «La situazione è meno che brillante — dice Emma Bonino —. Non penso che il Pd possa reggere fino alle Europee ».
Il voto sardo sembra voler alimentare le nostalgie identitarie. Francesco Rutelli smentisce un ritorno alla Margherita: «Piacerebbe ad alcuni, ma il tema della scissione non esiste». Però, concede, «è chiaro che non sono contento: dobbiamo fare del Pd la forza riformatrice del Paese. E scegliere alleati che condividano il nostro programma ». Non è un mistero che Rutelli guardi all'Udc. E non è un mistero che D'Alema e Bersani guardino a sinistra. Ieri l'ex ministro degli Esteri l'ha detto con più chiarezza del solito: «Occorre ripartire da un centrosinistra rinnovato. Il Pd è una conquista importante ma non è una forza autosufficiente». Messaggio alla vocazione maggioritaria veltroniana, da ieri — con il Pd in caduta libera ben sotto i voti di Soru — ancora più in crisi. Alla presentazione di «Nessun Dio ci salverà», titolo apocalittico per il libro dell'ex segretario Prc Franco Giordano, D'Alema parla della collocazione europea: «Costruiamo qualcosa di nuovo insieme ai socialisti». Poi spiega che da noi «non si è avuto abbastanza coraggio per innovare». Però, aggiunge, «non abbiamo governato così male, il giudizio su Prodi andrebbe articolato meglio». Anche se è finita maluccio: «La sconfitta della sinistra radicale non ha coinciso con la vittoria dei riformisti, ma con quella di Berlusconi». La sconfitta del Pd in Sardegna sembra una conferma indiretta. Fausto Bertinotti sollecita D'Alema: «Sospendiamo le dispute identitarie. Rimettiamoci tutti in gioco». D'Alema approva: «Occorre ripartire insieme, non fare terra bruciata. Il Pd deve aiutare una sinistra disposta a misurarsi con la sfida del governo». Definisce «scemenze» l'ipotesi che «oltre il fallimento del Pd ci possa essere un nuovo partito socialista alleato del centro». Ma spiega: «Serve un nuovo centrosinistra che riparta dai diritti e dai grandi problemi del Paese».

Corriere della Sera 17.2.09
Dietro le quinte. Dalemiani sul piede di guerra. Bindi: serve un outsider
Ora gli anti-Walter stringono l'assedio: l'obiettivo è il cambio prima del congresso
di Maria Teresa Meli


ROMA — Sul far della sera Walter Veltroni preferisce andare a casa. Non è proprio aria di aspettare i risultati della Sardegna al partito, tanto l'andazzo si è capito. E non è certo dei migliori.
A largo del Nazareno l'atmosfera è a dir poco mesta. Il segretario prima di lasciare la sede del Pd si immerge in un turbinìo di telefonate. Dalla Sardegna c'è Achille Passoni, commissario del partito in quella regione, poi ci sono i dirigenti nazionali che si informano. Il ritornello è sempre lo stesso: è un testa a testa. Finché alla fine anche i più ottimisti devono prendere atto della sconfitta. E Veltroni, sconsolato, commenta al telefono con un compagno di partito: «Non c'è stato nessun segnale di inversione di tendenza».
Già, nessun Trentino, questa volta, a mitigare l'insuccesso. Il segretario deve ammettere che il «vento non cambia ancora». E pensare che durante la giornata i dati di un sondaggio riservato che arriva ogni settimana ai partiti del centrosinistra avevano rallegrato Veltroni. Il Pd veniva dato in ascesa, al 26,5 per cento. Certo, ancora piccole cifre, ma comunque un altro passo avanti, tanto più che quella percentuale non tiene conto dei radicali che alle politiche si erano candidati nel Pd, senza correre da soli come faranno invece alle Europee.
Ma la contentezza di Veltroni per quelle rilevazioni dura poco. La sconfitta a metà sera si palesa in tutta la sua pesantezza: il Partito democratico rispetto ai risultati delle politiche ha perso tra i nove e gli undici punti in percentuale. Un risultato che preoccupa gli uomini del segretario, i quali già sanno che da stamattina gli avversari interni chiederanno conto al leader di quel che è accaduto in Sardegna. E' infatti probabile che i dalemiani tentino di accelerare i tempi per il cambio della guardia al vertice del partito, senza aspettare il congresso d'ottobre.
Difficilmente Veltroni potrà contrastare quest'offensiva sostenendo, come sosteneva ancora ieri, che in Sardegna è andato in scena un duello tra Renato Soru e Silvio Berlusconi, «molto personalizzato ». Come a dire: questa non è la mia sconfitta, il mio Pd non c'entra niente. Non basterà questo a spiegare perché e per come bisogna andare ancora avanti con il progetto del Partito Democratico, anche di fronte all'ennesima sconfitta.
Ma Veltroni non intende nemmeno giocare all'attacco come vorrebbero due degli uomini a lui più vicini, Giorgio Tonini ed Enrico Morando. Il segretario non pensa di giocare la carta del congresso anticipato. No, non è questa la strategia del leader, che a questo punto fatica a trovare il bandolo del suo partito.
Dunque i dalemiani sono sul piede di guerra e poco importa se l'ex ministro degli Esteri e Pierluigi Bersani hanno poco da rallegrarsi. Sì, perché se Veltroni versa in mille difficoltà non è che D'Alema e il ministro ombra dell'Economia stiano meglio. Anzi. Hanno lanciato la sfida al segretario ma finora non hanno messo a segno neanche una vittoria nella guerra intestina che sta agitando il Partito democratico. A Firenze il loro candidato sindaco, Michele Ventura, è riuscito a far molto peggio di Lapo Pistelli, che era appoggiato dai vertici del Pd nazionale. Ventura, infatti, ha perso pesantemente alle primarie, arrivando penultimo. E a Forlì, Prato e Riccione i candidati sostenuti da Bersani alle primarie hanno subìto un'analoga sorte.
Dovunque vincono gli «outsider », quelli che non sono sostenuti dagli apparati di partito. E comunque contro Berlusconi non vince nessuno. E allora forse, come dice Rosy Bindi in un'intervista alMessaggero, per il Pd bisognerà attendere anche a livello nazionale il «nome nuovo», l'outsider che si incunei tra Bersani e Veltroni, rompendo schemi, correnti e logiche d'appartenenza.

Repubblica 17.2.09
La prova di forza del cavaliere
di Massimo Giannini


«Qui l´invasore non passerà», aveva detto con troppa sicumera Walter Veltroni, in chiusura di campagna elettorale. Invece, secondo i dati parziali dello spoglio, Berlusconi ha vinto anche in Sardegna. L´invasore non solo è passato. Ma ha dimostrato di essere il «padrone dell´isola». Ha confermato di essere il «padrone d´Italia». Se lo scrutinio finale non si discosterà dalle percentuali della notte, questo dice il risultato del voto regionale sardo. Trasformato fatalmente in un test di mezzo-termine, per il rapporto tra il Cavaliere e il Paese, per gli equilibri interni al Pdl e per il futuro del Pd.
Nel rapporto tra il Cavaliere e il Paese (salvo sorprese clamorose nello spoglio definitivo) il voto della Sardegna evidenzia un dato politico incontrovertibile. La luna di miele tra il premier e l´Italia non è affatto finita. Nonostante le difficoltà del governo su scala nazionale, nonostante i morsi della crisi economica. Con questa vittoria, Berlusconi rinnova il mito del Leader Invincibile. A sconfiggere Soru non è stato Ugo Cappellacci, ma il premier in persona. «Ci ho messo la faccia», ha detto. E per questo ha vinto, battendo l´isola palmo a palmo, weekend dopo weekend. E ancora una volta, forte di questa personalizzazione della campagna, e di questa presidenzializzazione del voto, ha sbaragliato l´avversario. Ha spazzato via la logica antagonista sulla quale avevano contato Soru e il Pd: la Sardegna in carne e ossa del modello Tiscali e dei modernizzatori schierati per lo sviluppo sostenibile contro la Sardegna di cartapesta di Villa Certosa e dei ricchi cementificatori della costa. La banda larga di Renato contro la bandana di Silvio. Questo schema «sociologico» non ha retto alla prova dell´urna. Il dato politico dice che le percentuali di voto ottenuto in Sardegna dal Pdl e dal Pd (se saranno confermate dal risultato definitivo) ricalcano quelle già registrate alle ultime politiche: tra il 48 e il 50% il primo, tra il 44 e il 46% il secondo. È la conferma che il blocco sociale creato dal centrodestra è ormai strutturale, e non è scalfibile dal centrosinistra.
Per gli equilibri interni al Pdl, con questa vittoria Berlusconi rafforza il ruolo del Sovrano Indiscutibile. Regola, una volta per tutte, i conti con la sua maggioranza. Quando c´è un voto da conquistare, quando c´è un consenso da rafforzare, non ce n´è per nessuno. Vince il Cavaliere, da solo. Può anche candidare un Carneade contro il parere dei suoi alleati, come ha fatto con Gianni Chiodi in Abruzzo. Può anche candidare il figlio del suo commercialista facendolo sapere agli alleati attraverso i giornali, come ha fatto con Cappellacci in Sardegna. Può anche candidare il suo cavallo, come fece Catilina. Ma se poi è lui a corrergli in groppa, il traguardo finale è assicurato. Non c´è Bossi che tenga con i suoi diktat sul federalismo e i suoi distinguo sulla Costituzione. Meno che mai c´è Fini, con le sue difese lealiste di Napolitano e le sue pretese «laiciste» sulla bioetica. Chi vince ha sempre ragione, e comanda. Da domani, in un Pdl sempre più militarizzato, sarà probabilmente impossibile registrare il benché minimo caso di ammutinamento. E forse, vista l´esperienza sarda, sarà verosimilmente possibile che nell´Udc scatti di nuovo la tentazione di un arruolamento.
Per il futuro del Pd, la sconfitta in Sardegna (se sarà ribadita dall´esito ufficiale) rischia di suonare come una doppia campana a morto. Innanzi tutto per Soru, che aveva a sua volta personalizzato questa battaglia, accreditando l´idea che un suo trionfo lo avrebbe accreditato per una «nomination» nazionale: a questo punto il suo sogno tramonta, e per quanto abbia inciso il voto disgiunto il governatore uscente non è riuscito a ripetere il miracolo del 2004, quando vinse grazie al sostegno di quei ben 94 mila elettori che votarono per lui e non per la coalizione. Ma soprattutto per Veltroni e per la sua leadership. Se fossero vere (e confermate) le prime indicazioni sul voto alle liste, il distacco patito dal Pd rispetto al Pdl sarebbe drammatico: oltre i 20 punti percentuali. Si avvicina il momento di una inevitabile resa dei conti per un «apparatciki» troppo autoreferenziale nella gestione del partito e troppo ondivago nell´azione politica. La ricomposizione della Sinistra Arcobaleno, alla luce della vicenda sarda, non è sufficiente. E ora cade anche l´illusione che Berlusconi si batta con un «uomo nuovo», fuori dalle nomenklature romane. Neanche questo basta a espugnare la fortezza del Cavaliere. Per Veltroni, e per il centrosinistra riformista, è un vicolo cieco. Per uscirne urge almeno un vero congresso. Da statuto, è previsto dopo le europee. Ma di questo passo c´è da chiedersi cosa resterà del Pd, dopo l´Election Day del prossimo giugno.
m.gianninirepubblica.it

Repubblica 17.2.09
L´ex premier dialoga con Bertinotti: non siamo autosufficienti. Rutelli: nessuna scissione
"Va ricostruito il centrosinistra" D´Alema chiede un cambio di rotta
Oggi nella riunione del coordinamento l´ammonimento di Veltroni: non esistono due Pd
di Giovanna Casadio


ROMA - Un cambio radicale di linea. Una questione che Massimo D´Alema ha messo sul tavolo del Pd da tempo, sconfessando la rotta di Walter Veltroni. E mentre sul telefonino gli arrivano sms su Soru e il calo del partito in Sardegna, l´ex ministro degli Esteri dice che bisogna mantenere i nervi saldi, guardare più in là e invita alla «ricostruzione del centrosinistra»: «La nostra vocazione non è quella di fare terra bruciata ma di ricostruire una prospettiva di centrosinistra». Più chiaro: «Il Pd è un passo importante ma è una forza non autosufficiente, e ha interesse che nell´area della sinistra radicale prevalgano posizioni non identitarie ma di una sinistra critica, disposta a misurarsi con la sfida del governo».
La sinistra di Fausto Bertinotti, di Franco Giordano, non quella identitaria di Paolo Ferrero. Fausto e Massimo si sfidano e si confrontano durante la presentazione del libro di Giordano "Nessun Dio ci salverà". «Nel Pd vive la migliore tradizione della sinistra italiana, o parte di essa, forse bisognerebbe dirlo più spesso», insiste D´Alema «Basta con le dispute identitarie», condivide Bertinotti. E Massimo ci scherza su: «È come se prendessimo entrambi lo stesso bus, noi riformisti per andare a Napoli, voi a Bari, purché non si fermi a Frosinone...».
In casa dei Democratici la situazione è pesante. Si parla di anticipare il congresso ad aprile, senza aspettare fino ad ottobre. Francesco Rutelli sgombra il campo dei veleni delle ultime settimane: «Piacerebbe molto ad alcuni, ma il tema della scissione non esiste. È chiaro che non sono contento, abbiamo fondato il Pd per contribuire a dargli un profilo. Ma per me c´è Veltroni, punto. L´ho appoggiato, lo appoggio, è fino in fondo il segretario del partito e deve farcela a portarlo nella direzione giusta. Anche se certe iniziative sono state sbagliate». Oggi sarà il giorno del chiarimento. Nel coordinamento del Pd, il segretario stesso - guardando in faccia Pierluigi Bersani, che si è candidato a sfidarlo al congresso e che rappresenta la linea-D´Alema - bacchetterà: non esistono due Pd, il partito non può diventare un condominio. Ma è evidente che la sconfitta annunciata in Sardegna - anche se fino a notte si spera in una rimonta - provocherà una resa dei conti non più rinviabile. D´Alema ha parlato di «partito indeterminato». Enrico Letta, altro papabile alla successione a Veltroni, s´infuria quando apprende della possibilità di congresso anticipato nell´intervista al Corriere della sera del veltroniano Giorgio Tonini: «Vorrei che i dirigenti del partito anziché parlare con le interviste, se hanno delle proposte da fare le facessero nelle sedi preposte».
La giornata era già iniziata con le polemiche sulle primarie per il candidato sindaco a Firenze. Le vince Matteo Renzi, trentaquattrenne presidente della Provincia, un ex Margherita vicino a Rutelli, l´anti-Domenici. Indica una specie di terremoto nel partito fiorentino, la fine dell´era del sindaco uscente. Cattivo risultato alle primarie per il dalemiano Michele Ventura. Veltroni si era complimentato: «Bene, dalle primarie c´è una spinta al rinnovamento». Rutelli soddisfatto: «È la vittoria del coraggio».

il Riformista 17.2.09
Sardegna; Cacciari: Colpa non è di Veltroni o Soru, il Pd non va
E' un vento nazionale che spira in questo senso


Roma, 17 feb. (Apcom) - "La Sardegna non è fuori dal mondo, il vento è quello. Questo risultato così importante non me l'aspettavo, francamente, ma anche dopo la mia breve visita in Sardegna qualche mese fa prevedevo che Soru non ce l'avrebbe fatta". Massimo Cacciari, sindaco di Venezia del Pd, commenta così al quotidiano online Affaritaliani.it la sconfitta di Renato Soru alle regionali in Sardegna. "In parte - afferma - le ragioni derivano anche dalla situazione locale, ma è un vento nazionale che spira in questo Paese. E il Partito Democratico non è in grado di tenerlo". La colpa della sconfitta è di Soru o di Veltroni? "Né di Soru né di Veltroni - ribatte Cacciari - è il Pd nel suo insieme che non va. Tutta la leadership del partito in questi mesi si sta dimostrando non all'altezza della situazione. Non si affrontano i problemi organizzativi (che ho sottolineato tante volte), non si sviluppa un dibattito politico-strategico all'interno del partito, la dialettica è ancora bloccata sulle vecchie leadership e non si promuovono forze giovani. In questa situazione quanta strada si vuole fare? E' evidente che finisca così". Veltroni oggi si dovrebbe dimettere da segretario del Pd? "No - risponde il sindaco di Venezia - per delle elezioni di carattere regionale o locale un segretario non si è mai dimesso. Ma certamente è necessario che Veltroni ripensi radicalmente il suo ruolo e l'impostazione che finora ha assunto il Partito Democratico. Però - conclude - l'avrei detto anche se Soru avesse vinto di misura".

l’Unità 17.2.09
Il linguaggio della cattiveria
di Nadia Urbinati


La soluzione Berlusconi agli stupri sarebbe: via le donne belle, via i clandestini
Poi si lanciano messaggi per incitare i cittadini a farsi giustizia da sè
Il Ministro dell’Interno ha dichiarato qualche giorno fa che «per contrastare l’immigrazione clandestina non bisogna essere buonisti, ma cattivi e determinati nell’applicazione della legge». Non dovrebbe essere necessario spiegare al Ministro che la legge non si applica né con cattiveria né con bontà: si applica con equità e giustizia. Sono le azioni delle persone che possono essere buone o cattive, e che quando sono cattive, come quella che si è consumata alla Stazione di Nettuno, non ci puó essere ambiguità nel giudizio e nell’applicazione della legge. La condanna morale deve essere univoca e determinata e la legge applicata con giustizia. Ma l’attenzione al linguaggio é ció che dovrebbe premere di più. Poiché é un fatto che se le parole di un ministro suggeriscono un’inferenza fra il successo della lotta all’immigrazione clandestina e la «cattiveria» nel modo di contrastarla, chi le ascolta potrebbe facilmente trovare in esse quello che cerca: la giustificazione del proprio sentimento discriminatorio e violento contro i clandestini, contro i deboli, contro tutti coloro che non rientrano nel loro modello «cattivo» di umanità. Chi ricopre incarichi pubblici o ha lo straordinario potere di essere ascoltato e letto da tutti dovrebbe sentire il peso della responsabilità delle parole che pronuncia.
La società italiana é piú violenta e intollerante e nello stesso tempo massicciamente più esposta a un linguaggio pubblico che é sempre meno pubblico e sempre più usato con stile privatissimo, e quindi anche esagerato e rozzo. Ecco allora che la violenza contro i clandestini diventa il segno di un’emergenza che non si può contenere se non con la forza, perché pare ovvio che se ci sono casi di violenza é perché i clandestini non se ne stanno a casa loro e continuano ad arrivare sulle nostre coste. Ecco allora che la violenza contro le donne diventa un oggetto di ironia: impossibile contenerla, occorrerebbe mettere un militare a scortare ogni donna (bella naturalmente); dove non é chiaro perché ad essere scortati non debbano essere i maschi, visto che sono i potenziali criminali il problema, non le potenziali vittime.
In ogni caso la violenza viene dipinta come un fatto naturale. Nell’un caso perché é naturale che i padroni di casa (la nazione non é forse “nostra”?) vogliano tener fuori gli ospiti non desiderati, con tutti i mezzi che hanno a disposizione. Nell’altro, perché é nella natura del maschio desiderare le donne (soprattutto se belle). Non c’é nulla da fare. Se non ci fossero stranieri alle porte e se le donne fossero brutte, la sicurezza sarebbe garantita senza sforzo. Ma cosí non é e quindi ci sono e ci si devono aspettare reazioni, anche cattive. Ma non doveva essere la sicurezza la preoccupazione centrale di questo governo di destra? Certo che lo doveva e lo é ancora. Il problema é che, poiché non sembra che i progetti del governo, anche quelli più autoritari (militarizzare la funzione ordinaria di polizia; schedare i rom; e ora anche costringere i medici a fare gli agenti informatori), producano grandi risultati, allora si ricorre ad un’arma aggiuntiva, quella populista. Si lanciano messaggi infiammanti che implicitamente stimolano i cittadini a pensare che debbano prendersi cura della sicurezza nei modi loro propri, sostenendo il governo nella sua azione cattiva e determinata. Una domanda da donna mi viene a questo punto spontanea (lasciando ai potenziali predatori decidere se sono bella abbastanza da meritare il loro desiderio di violenza, secondo il suggerimento del nostro Presidente del Consiglio): non é chiaro cosa dovrebbero fare le donne (belle) per difendersi dai loro potenziali stupratori, visto che non possono essere protette dai guardiani della legge. Armarsi e attaccare prima di essere attaccate, come Hobbes pensava che succedesse nello stato di natura?

l’Unità 17.2.09
Castrazione chirurgica, l’escalation della destra
Sull’onda emotiva uomini e donne della maggioranza
perdono i freni inibitori. Fino alla legge del taglione
di Susanna Turco


La castrazione chimica, sì, antico cavallo di battaglia. Ma a questo punto Roberto Calderoli ha il «dubbio» che non basti: «Forse quando si arriva a violentare un bambino non rimane che la castrazione chirurgica». È ministro alla Semplificazione normativa, che diamine. Bisturi, e via. «Ma senza arrivare alla pena di morte».
Ecco, magari no. Però, certo, la notizia degli stupri di San Valentino ha galvanizzato il centrodestra. E il partito di Calderoli fa proseliti. In prima fila (oltre a una sorprendente e taglionesca Afef Jnifen), c’è il collega Luca Zaia, che, riflette: «La castrazione chimica darebbe sicuramente quantomeno una tranquillità». Quantomeno, il sistema si utilizza in Svezia, Danimarca, Canada, Gran Bretagna, Spagna: «Mica è una cosa astrusa». Anzi. «Una giusta pena», spiega la Pdl Michela Biancofiore, che la trova «utile anche come deterrente». A “La vita in diretta”, Alessandra Mussolini usa il tu: «Con la castrazione rendi inoffensivo il violentatore, lo disarmi». Sembra uno spot. La realtà, più complicata: gli esperti spiegano che in pratica bloccare la produzione di testosterone è complicata, che non ci sono certezze sull’efficacia del sistema. Ma non importa. La spinta emotiva è forte, il centrista Maurizio Ronconi, stentoreo: «Si passi dagli atti dimostrativi a quelli risolutivi». Polemizza col governo, lui. Non sa, forse, che l’esecutivo è già un pezzo avanti.
«Una somministrazione di farmaci che inibiscano la libido dello stupratore: oggi è consentita solo su richiesta, ma deve diventare un trattamento sanitario obbligatorio», è il sogno della sottosegretaria leghista alla Salute Francesca Martini. Su Facebook, d’altra parte, sono centomila gli iscritti a gruppi schierati a favore dell’inibizione chimica del testosterone per gli stupratori. «Pro castrazione e poi torture medievali», sessantamila iscritti. «È ora di dire bastaaa...Castrazione per gli stupratori», ventiquattromila sottoscrizioni, e avanti così.
Reazioni emotive, contro emotive, comunque in crescendo. Perché poi, le denunce per stupri sono dati alla mano 4.600 ogni anno, più di dieci al giorno. Quindi,certo, se è emergenza, non lo è da oggi. «Nelle zone controllate dalla malavita organizzata gli stupri non esistono», chiarisce intanto il presidente emerito Francesco Cossiga a Radiouno. Per rafforzare l’ordine pubblico, però, il ministro Ignazio La Russa vorrebbe non tanto le ronde, quanto «pattugliamenti a piedi delle forze dell’ordine in tutta Italia, a tutte le ore del giorno e della sera, ai quali potrebbero prendere parte anche le foze armate, la polizia penitenziaria e perfino vigili urbani addestrati». A Roma, La Destra, propone che si dotino le donne di un kit anti-stupro. Uno spray al peperoncino che, nella sua versione basic, costa 34 euro. Troppo. Un po’ come il gratuito patrocinio per le vittime di stupri, che il governo aveva tagliato per questioni di budget, prima che vincesse l’emotività.

l’Unità 17.2.09
«Aumentano gli stupri commessi dagli immigrati»
In 20 anni la percentuale è passata dal 9% al 40%, più della metà è composta da irregolari
Molte violenze non vengono denunciate.
Maria Teresa Palieri intervista Marzio Barbagli. Sociologo, storico della famiglia, per Il Mulino


Negli ultimi vent’anni la quota di stranieri sulle persone denunciate per stupro nel nostro Paese è passata dal 9 al 40%. Tenuto conto che gli immigrati restano solo il 6% della popolazione, è una cifra spaventosa. Ma, su questa cifra, dobbiamo ragionare» ci dice Marzio Barbagli. Sociologo, storico della famiglia, per Il Mulino a fine 2008 ha pubblicato la ricerca Immigrazione e sicurezza in Italia.
Professor Barbagli, la cifra è, diceva, allarmante. In che modo va letta?
«Primo, sapendo che la violenza sessuale è un argomento difficile. Perché è altissima la quota di vittime che non denunciano. Per questo ciò che è più significativo è appunto il “trend”. Ora, la prima annotazione che va fatta è che le violenze sessuali, in genere, avvengono all’interno dello stesso gruppo nazionale: gli uomini italiani violentano le donne italiane, i romeni le romene, i tunisini le tunisine. I giornali valorizzano le notizie che concernono stupri commessi da stranieri su italiane. Ciò che ci colpisce, i giornali lo sanno, è la ragazzina bolognese violentata dall’immigrato tunisino. Ma mettono la sordina quando avviene il contrario, o quando una donna romena è violentata da connazionali».
La maggior parte delle violenze avviene in famiglia o nella coppia. E questo collima con la bassa percentuale di violenze “interetniche”. Però la cifra iniziale resta: gli immigrati, 6% della popolazione, oggi sono il 40% degli autori di stupri denunciati. Perché?
«Continuiamo l’analisi dei dati. A commettere queste violenze sono al 60% immigrati irregolari, al 40% in regola. Rispetto ad altri reati, qui la percentuale di regolari è più alta: lo spaccio, per esempio, è praticato al 92% da immigrati irregolari. Ed eccoci al problema che, dopo due leggi, la Turco-Napolitano e la Bossi-Fini, il nostro Paese ha tuttora: la difficoltà a rimpatriare. Nel discorrere comune si parla di “irregolari” facendo di ogni erba un fascio. In realtà magistratura e forze dell’ordine fanno ancora dei distinguo: quelli che andrebbero rimpatriati sono gli irregolari sospettati di fare lavori illeciti, non la badante col permesso scaduto. Ma il rimpatrio avviene solo per un quarto dei casi. C’è un numero di persone, come il cittadino tunisino arrestato l’altro giorno a Bologna, che commettono vari reati. Tra questi, stupri. Commettono anche omicidi: c’è un’alta quota di omicidi commessi da immigrati. Ci sono persone che vengono qui per compiere attività illecite. Ma se il meccanismo della giustizia funzionasse, non sarebbero qui».
Il permesso di soggiorno, però, non basta, visto che il 40% delle violenze sono commesse da «regolari». Il problema è culturale, allora?
«Molti di noi dell’immigrazione godono i vantaggi. Ma c’è uno scarso impegno pubblico nel prevenirne gli svantaggi. C’è difficoltà di controllo sul territorio. Siamo indietro nell’integrazione sociale. Dove non c’è una rete solida, parentale, amicale, è più facile succedano questi fatti. Poi, ci sono anche quanti hanno disturbi di personalità, ma qui entriamo in campo psichiatrico...».
Il nostro modello di costume può, in alcune culture, suscitare scandalo? E dunque paura, aggressività?
«Non credo sia questo un motivo. Oggi la nostra tv, i nostri film, circolano, gli immigrati arrivano qui sapendo dove vengono».

Corriere della Sera 17.2.09
Sindacalista e femminista
La Camusso: si sentono padroni delle donne
di Daniela Monti


MILANO — Dal delitto di Giovanna Reggiani allo stupro di Guidonia. La violenza sulle donne — mentre camminano per strada, rientrando dal lavoro o sottobraccio al fidanzato — messa in pratica con una bestialità che, forse, ci si era illuse facesse parte del passato. Le associazioni femministe sono compatte: «L'emergenza è dentro casa, l'orrore vero sta lì». Gli episodi di Roma e Bologna e Milano raccontano però anche un'altra realtà: la violenza degli immigrati, lo stupro di donne e ragazzine incrociate per caso, con rom e nordafricani nella parte dei carnefici. Bisogna farci i conti. Susanna Camusso, segretario confederale della Cgil, in prima fila tre anni fa alla marcia delle ventimila che a Milano, con lo slogan «Usciamo dal silenzio », alzò la voce per difendere la legge 194, misura le parole, cammina sui vetri. Il binomio stupro-immigrati non le piace. Però. Solo una coincidenza, la sequenza drammatica di stupri commessi da immigrati, oppure bisogna avere il coraggio di ammettere che c'è dell'altro? «Un uomo che considera la sharia il suo punto di riferimento oppure che viene da Paesi in cui non c'è una cultura del rispetto difficilmente potrà avere nei confronti di una donna, che ritiene se stessa libera, una relazione di riconoscimento — riflette —. Il problema culturale c'è. Ciò non fa di lui un violentatore, è evidente. Però voglio dire dell'altro. Questa cultura del non rispetto, invece di essere stroncata, arginata, marginalizzata, trova da noi una sorta di alimento: in Italia non c'è fermezza nel combattere la violenza sulle donne. Le donne nelle nostre case vengono picchiate. E se è questa l'aria che si respira, chi viene qui ha la percezione che sia permesso, sì, sia permesso stuprare o picchiare una donna».
Susanna Camusso parla di «complicità maschili» e qui torna fuori l'anima femminista che, di fronte al problema irrisolto dello stupro, contesta agli uomini — troppi, indipendentemente da razze ed etnie — di non aver saputo fare i conti con la propria sessualità, e con la libertà delle donne. Poi torna agli immigrati: «L'integrazione non si fa ammettendo, in fondo in fondo, che ciascuno possa fare quello che vuole in nome della propria storia, cultura, tradizione — dice —. La sinistra troppe volte non ha alzato la voce per paura di essere accusata di razzismo».
E le donne? «C'è un clima che non mi piace — dice la Camusso —. Cupo, triste. Il tema della violenza è il più difficile da affrontare, raramente c'è la ribellione, più spesso il senso di colpa. Ma ora sento solo paura e un futuro che ci vedrà sempre più chiuse in casa».
Ma le ronde non sono la soluzione: «Siamo un Paese che non ha una legge sessuale all'altezza, partiamo da lì. Non dalle ronde che, oltre a essere insopportabili, mi sembrano una dichiarazione di resa dello Stato. Mettiamo più lampioni, più servizi attivi di notte, diamo alle donne la certezza di non essere sole, per la strada».
Violenza sulle donne e violenza sulle donne immigrate. Sono loro la parte più debole? «Hanno consentito alle comunità di stranieri di diventare le padrone dei destini dei migranti, gli uomini fanno da rete di complicità contro le donne, andrebbe scoperchiato questo sistema — chiude —. Ma sarebbe sbagliata l'idea che dentro le comunità migranti avvengano chissà quali soprusi. Le dinamiche di violenza sulle donne sono le stesse ovunque».

Repubblica 17.2.09
Se è un pericolo essere donna
di Natalia Aspesi


La donna è tornata ad essere un corpo fragile, a disposizione di quello del maschio violento di ogni nazionalità e colore.

E i maschi violenti italiani, per lo meno quelli che progettano le ronde, sprangano immigrati e auspicano torce umane, adesso urlano a caso «Bastardi! Così imparate a stuprare le "nostre" donne!». Attraverso il confuso moltiplicarsi di fatti e notizie orribili, la donna sta perdendo la propria autonomia, la propria libertà, la fiducia in sé e negli altri. Sono gli uomini a riprendere il potere su di lei: quelli che la violentano, quelli che dovrebbero proteggerla, quelli che la vorrebbero soggetta, quelli che dicono, è "nostra". Quelli che a nome suo pretenderebbero la castrazione del violentatore; e qui bisognerebbe sapere se il provvedimento, caso mai i leghisti insistessero, vale solo per i rom o anche per quegli italiani (forse persino leghisti) che nel confortevole riparo di casa ogni tanto sottopongono la "loro" donna alle massime molestie non solo sessuali. O per tutti quegli altri, sempre italiani, che erano il 58% degli autori dei 4465 stupri denunciati (più di 12 al giorno, solo una parte di quelli realmente avvenuti e taciuti) nel 2008.
Si sa che le donne hanno dovuto combattere anni perché lo stupro, da reato contro la moralità pubblica e il buon costume, fosse considerato finalmente un reato contro la libertà personale, e alcuni legislatori non erano poi così contenti, parendo ai più resistenti che fare quella brutta cosa lì era più che altro un peccato mortale, da punire appunto perché immorale. Quindi è solo dal 1996 che il codice penale riconosce il diritto della donna alla libertà di disporre del proprio corpo e di negarlo con tutte le sue forze a chiunque, senza per questo essere obbligata a imitare Maria Goretti. Anche se sino a un paio di decenni fa, una ragazza che uscisse viva da uno stupro e non stesse zitta, metteva in sospetto: senza dimenticare che più recentemente la Corte di Cassazione aveva ritenuto impossibile per uno stupratore riuscire a togliere i jeans a una ragazzina senza la complicità della stessa. Insinuando anche nella sentenza che tale è l´orrore dello stupro, che per impedirlo la vittima non avrebbe dovuto aver paura «di patire altre ipotetiche e non certo più gravi offese alla propria incolumità fisica». Tipo la morte.
Uno studio della solita Università di Princeton che ha un pallino per le cose del sesso, ha stabilito che in certi uomini, si presume insaziabili, la fotografia di una bella ragazza accende la stessa sezione del cervello che reagisce agli oggetti desiderabili; «come se la donna non fosse del tutto un essere umano», comunque umano quanto può esserlo un´automobile o un giubbotto firmato. Percepire la donna come un oggetto, qualcosa quindi da prendere, possedere, sottomettere, per ragioni biologiche e irrazionali, forse è vero e forse no, ma se fosse vero, basterebbe che gli uomini stessero davanti alla televisione perché i loro cervelli lampeggiassero di luci come Piedigrotta causando loro seri tormenti e impulsi riprovevoli. Ma a parte questa eventualità bizzarra, fa più paura una sorta di rancore muto e protervo che le donne sentono salire dal mondo maschile, rancore per la loro libertà di essere sessualmente disponibili o indisponibili a seconda della sola loro volontà, per la loro capacità di non aver padroni, di non dipendere, di non aver bisogno, di cavarsela da sole anche quando troppo spesso sono lasciate sole. Dagli anni 70 la maggior parte degli uomini ci ha provato ad accettare, e ce l´ha fatta, ma le donne sono a poco a poco diventate sempre più estranee al ruolo loro assegnato, intaccando il senso e il valore del ruolo opposto, quello maschile. Sono state troppo fiduciose e hanno creduto davvero di poter contare sulla libertà personale sino a usare il loro corpo da immettere sul mercato dell´immagine come un oggetto virtualmente desiderabile e accessibile. Non avevano fatto i conti forse col cervello maschile e le sue reazioni, certo non con la nuova fragilità e rabbia maschile.
Essere donna è tornato ad essere un pericolo, ed è la sua debolezza fisica ad essere colpita: minacciandola, spaventandola, violentandola, promettendole protezione. Ma se mai oltre alle parole si trovassero i soldi, che non ci sono, per quella famosa sicurezza che per ora consiste solo nel prendersela con gli stranieri e non riesce ad impedire le violenze (straniere e italiane) non solo contro le donne, si raccomanda alle eventuali forze dell´ordine di tener d´occhio anche le ronde, non si sa mai, nella storia ne han fatte di tutti i colori.

il Riformista 17.2.09
La destra, la sinistra e gli stupri
di Piero Sansonetti


Con questo articolo Piero Sansonetti inizia la sua collaborazione con il Riformista.
La repressione e la sospensione delle garanzie e dei diritti non porta a niente. E la caccia all'immigrato è una barbarie. Ma non possiamo certo cavarcela scrollando le spalle.

Serve a qualcosa minacciare gli stupratori, avvertendoli che rischiano il carcere? Direi di no. Il decreto promesso dal governo (niente domiciliari per gli imputati di stupro) è acqua fresca. Diciamo meglio: è propaganda, pura propaganda. Chi violenta una ragazzina in un parco sa benissimo che rischia di finire in cella. Non ne ha molta paura. Il governo, il sindaco di Roma, i partiti del centrodestra, si trovano di fronte a un guaio politico che loro stessi hanno provocato, e ora non sanno come risolvere.
Negli anni scorsi hanno usato il terrore della gente nei confronti della delinquenza come una arma politica semplice e potente, per colpire il centrosinistra. E hanno spinto il centrosinistra a usare la stessa arma per difendersi. Così è nata quella sindrome epidemica che si chiama "percezione dell'insicurezza": è una valanga e nessuno è capace di fermarla. I reati possono aumentare o diminuire di numero, ma la "percezione di insicurezza", una volta che è stata innescata, non cambia, tende ad aumentare, a incattivirsi, a condizionare la vita di milioni di persone. E produce notevoli effetti politici.
Questa sindrome ha aiutato Berlusconi ed Alemanno a vincere le elezioni. Ora però colpisce loro, li pone di fronte all'evidenza delle cose: hanno promesso che avrebbero risolto il problema, hanno esagerato il problema perché gli conveniva, e poi non sono riusciti a risolverlo. Il problema - del resto - non è inventato. Esiste, è un grande problema. La frequenza degli stupri è uno dei fenomeni che minaccia la nostra civiltà. È un reato odioso, per due ragioni. La prima è che colpisce solo una metà dell'umanità, e cioè le donne - la parte fisicamente meno forte, la parte meno protetta socialmente - e si basa sulla prepotenza e sul maschilismo. Non esiste nessun altro reato che ha queste caratteristiche. La seconda ragione è più sfuggente, ma è importante: lo stupro è un atto violento che si accanisce sull'aspetto più alto delle relazioni umane, cioè l'amore; e deturpa l'amore, deturpa il sesso, impone un'idea terrificante dei rapporti tra le persone. Lo stupro non è solo un "furto" d'amore, è un modo di concepire l'amore come violenza, sopraffazione, potere. La violenza non è un "mezzo", è il "fine" dello stupro, fa parte dell'atto sessuale del violentatore.
Lo stupro nel parco, per strada, talvolta ad opera di uno straniero, di un immigrato clandestino, o di un ragazzo della malavita, è l'espressione simbolica più evidente e più esecrata - anche perché ha un'enorme eco di stampa - di un fenomeno vastissimo. Noi siamo a conoscenza solo di un numero molto esiguo delle violenze sessuali che avvengono nelle nostre città. Ne avvengono più di dieci ogni giorno, circa quattromila all'anno. Pochissime vengono denunciate. La maggior parte avviene ad opera di un parente o di un amico, l'80 per cento degli stupri sono stupri in famiglia. Lo stupro è la principale causa di morte, nel mondo, per le donne giovani.
È impensabile una società più civile, più avanzata, se non si estirpa questa malattia. Lo stupro è il simbolo più forte del maschilismo, sconfiggere lo stupro vuol dire indebolire il potere maschilista. E allora, di fronte agli stupri di questi giorni, ci troviamo di fronte a un dilemma. Dobbiamo difendere la donna, anche a costo di violare certe nostre idee garantiste, o dobbiamo mettere il garantismo davanti a tutto, considerarlo un principio intoccabile? Dobbiamo far finta che il problema non c'è, se scopriamo che un numero consistente di stupri è responsabilità di stranieri?
Esiste un solo modo, per la sinistra, di uscire dalla contraddizione. Dire, a ragione: «Lo stupro di strada è la punta dell'iceberg, lasciamolo stare, cerchiamo di affrontare alle radici la questione del maschilismo violento». È una via ragionevole, in linea di principio, ma è sbagliata, perché è inefficace. Più che sbagliata è rassegnata. Corrisponde a quell'animus della sinistra che crede che il suo motivo d'essere sia "pensare" le cose giuste, non "fare" le cose giuste. Adesso voi vi aspettate che io vi proponga una soluzione. Vi deludo: non la possiedo. So che la repressione e la sospensione delle garanzie e dei diritti non serve a niente. So che la caccia all'immigrato è una barbarie. So anche che invece sono quelli gli obiettivi della destra. Credo che un uso più ragionevole delle forze dell'ordine (che ci sono, sono una quantità enorme: l'Italia è il paese europeo più munito di polizia) sarebbe un vantaggio. Non so dire di più. Vorrei solo che la sinistra riuscisse a affrontare questo tema senza scrollare le spalle. Senza dire: «È solo propaganda forcaiola». La propaganda forcaiola è evidente, ma è evidente anche l'urgenza di combattere il fenomeno degli stupri.

l’Unità 17.2.09
Caso Englaro: al Colle hanno scritto in 13968
Anche 280 testamenti


Sono 13.968 i messaggi tra lettere, mail, fax e telegrammi arrivati sino a ieri mattina alla Presidenza della Repubblica sulla dolorosa vicenda di Eluana Englaro con valutazioni e considerazioni di segno diverso. Un numero eccezionale che proprio per questo non può avere risposte dirette e personali. Attaverso una nota del Quirinale a tutti è stato espresso «un ringraziamento per il contributo offerto e per lo spirito di partecipazione democratica che li ha animati».
Al Colle sono arrivati anche 280 plichi contenenti dei testamenti biologici personali ma «queste comunicazioni non possono essere intese che come manifestazioni di sensibilità personale, dato che alla Presidenza della Repubblica non compete alcuna funzione al riguardo, né la responsabilità di conservarle». Nella nota viene ricordato che è in corso in Parlamento l’esame di varie proposte di legge sul “testamento biologico”, quindi non si può che «mantenere un atteggiamento di rigoroso riserbo nel rispetto dell’attività e delle scelte delle Camere». L’auspicio è che si arrivi «ad una decisione, il più possibile condivisa, che tenga conto del dovuto equilibrio tra i beni costituzionali coinvolti».

Repubblica 17.2.09
Binetti: se vince Marino lascio i democratici
La parlamentare teodem: "Nelle parole di Ignazio vedo un´apertura reale verso l’eutanasia"
Sono per il sì al ddl del Pdl Minacciare il referendum è un no al dialogo
di Carmelo Lopapa


ROMA - «Quell´ovazione a Ignazio Marino al convegno organizzato da Radio radicale, quella singolare convergenza tra il senatore del Pd e gli sponsor della posizione più spinta verso l´eutanasia, ecco, non fa che confermare tutta una serie di preoccupazioni».
Quali, onorevole Paola Binetti, paladina dei teodem democratici?
«La sensazione è che l´evoluzione del pensiero di Marino costituisca un´apertura reale proprio all´eutanasia».
Non sarà un´esagerazione? Ha solo annunciato il referendum se diventerà legge il ddl del centrodestra sul testamento biologico.
«Quella proposta di legge è perfettibile, ma io come altri democratici del Pd la sosterremo perché sancisce il principio di indisponibilità della vita, esprime un no tondo all´eutanasia in tutte le sue forme, qualifica l´interruzione dell´alimentazione come causa di morte».
Voterete sì, insomma?
«Sarà approvata dalla maggioranza del Parlamento e anche solo per questo merita il suo spazio e il suo tempo di sperimentazione. Minacciare il referendum vuol dire essere indisponibili al dialogo. Del resto, l´esperienza dimostra che col quorum in Italia non si va lontano. Sconsiglierei al collega di imbarcarsi in una nuova campagna referendaria. Ricordi come andò nel 2005 con la legge 40, in difesa della quale mi sono spesa in prima persona per l´astensione. La verità è che siamo ancora scossi dall´accelerazione volontaria della morte di Eluana».
Pensa anche lei che sia stata una morte indotta?
«Con la somministrazione di sedativi per ridurre una sofferenza che c´era, hanno di fatto anticipato intenzionalmente la morte. Si è trattato di una forma di suicidio assistito».
Condivide l´accusa lanciata in aula da Quagliarello?
«No, lui ha dichiarato che Eluana è stata ammazzata. Io parlo di suicidio assistito. E molti di noi, in linea con la tradizione cristiana, abbiamo diritto di gridare il nostro no a tutto questo».
Eravate pronti a votare il ddl Berlusconi per l´alimentazione?
«Lo avremmo votato, certo. Siamo arrivati troppo tardi, purtroppo».
E la sostituzione di Marino con Dorina Bianchi capogruppo Pd in commissione Sanità al Senato come l´ha giudicata?
«Due pesi e due misure, in questo Pd. Sorprende che si sia pretesa una dichiarazione di equidistanza da Dorina che pure non è firmataria di alcun ddl, che si è espressa più volte in favore della vita, che è stata relatrice della legge 40. Mentre al senatore Marino, che pure ha portato avanti a spada tratta una proposta di parte, non è mai stata chiesta alcuna garanzia di imparzialità. Dispiace, quasi ci sia una certa diffidenza nei nostri confronti».
Onorevole, ma anche Ignazio Marino è un cattolico.
«Questo lo saprà solo il Signore. Contano i fatti. E conta la rappresentazione culturale di una posizione. Noi diciamo che la vita costituisce un bene non disponibile».
Anche lui, da medico, si schiera in difesa della dignità della vita e chiede che il paziente sia libero di scegliere.
«Parla da chirurgo. Io, da psichiatra, so per certo che il paziente chiede solo di essere aiutato a misurarsi col dolore. La sua volontà poi è mutevole a seconda della situazione».
Ma voi e laici come Marino potete ancora convivere nel Pd?
«Tutti sapevamo che il Pd nasceva da culture, anime diverse. Stiamo provando a resistere con la maggiore lealtà e schiettezza possibile, lo faremo fin dove si potrà arrivare. Laddove non dovesse essere più possibile, se i dirigenti riconosceranno che non ci saranno più spazi per la convivenza, allora ognuno andrà per la propria strada».
È un messaggio al segretario Veltroni?
«A lui chiediamo, fin tanto che sarà il leader, pari dignità. Che il Pd sappia garantire davvero, non solo la sacrosanta libertà di voto, ma il rispetto delle diverse posizioni culturali. Tengano in debito conto il fatto che un giovane come Matteo Renzi, vicino a valori cristiani e moderati, abbia vinto le primarie del Pd nella rossa Firenze».

Repubblica 17.2.09
Una cosa senza proprietario
Il presupposto dello scontro istituzionale sul caso Englaro era che, non potendo più essere proprio, il possesso di quel corpo dovesse essere trasferito in altre mani come avviene per tutte le cose che perdono il proprietario naturale
Può una persona "appartenere" a un altro?
Il conflitto e la nuda vita
di Roberto Esposito


È difficile sfuggire alla sensazione di un nesso oscuro tra vicende, pure così diverse, come quella che si è consumata intorno al corpo morente di Eluana Englaro e la violenza inflitta quotidianamente al corpo di giovani donne stuprate. Oggi è fin troppo ovvio catalogare il primo caso sotto la rubrica di biopolitica. Ma in tal modo non si è ancora arrivati al fondo di evento troppo inquietante per non sollecitare una riflessione più profonda, che in qualche modo tocca anche la questione delle violenze carnali.
In realtà, l´oggetto della contesa politica e giuridica relativa ad Eluana non è stata una forma di vita, nel senso pieno che già i Greci conferivano all´espressione "bios", ma quella vita senza forma e qualità che essi chiamavano piuttosto "zoé". Agli inizi dell´Ottocento il grande fisiologo francese Xavier Bichat ripropose a suo modo questa differenza capitale, distinguendo una vita di relazione destinata alle prestazioni superiori ed una vita puramente vegetativa, ridotta alla circolazione del sangue e alle funzioni respiratoria e digestiva, del tutto irriflessa ed automatica. Una "vita di dentro", egli aggiungeva riferendosi a quest´ultima, capace di durare più a lungo di quella "di fuori", come dimostra il fatto che per qualche tempo le unghie e i capelli continuano a crescere impercettibilmente anche dopo la morte.
A questa vita residua, non più propriamente tale, perché situata dopo, o prima, della vita di relazione, Walter Benjamin dette il nome di "nuda vita", cogliendo in essa il luogo estremo su cui, come nel caso mitico di Niobe, può scaricarsi la violenza degli dei. Ma, evidentemente, non solo di essi. Perché il dato più impressionante di quanto è appena successo è che proprio su questa "nuda vita", entrata in una zona di indistinzione con la morte, si sono scontrati i rappresentanti dello Stato, della Chiesa e della magistratura con una violenza senza precedenti. Ad essere disputata non è stata, come si dice, la vita, ma un corpo inanimato � ridotto allo stato ultimo di semplice materia vivente. Su di esso i pubblici poteri hanno reclamato la decisione ultima, cogliendo tutta la rilevanza di questa prerogativa. Il presupposto di tale scontro istituzionale era che, non potendo più appartenere a se stesso perché privo di capacità soggettiva, il possesso di quel corpo dovesse essere trasferito in altre mani, come avviene per tutte le cose che perdono il proprietario naturale. E ciò, paradossalmente, nel momento stesso in cui si dichiarava l´assoluta l´indisponibilità, e perfino la sacralità, della vita che continuava a palpitare dentro di esso.
È a questo tragico grumo di antinomie che conviene misurarsi se si vuole penetrare davvero dentro la scatola nera di ciò che da qualche tempo, forse troppo facilmente, abbiamo iniziato a indicare con il termine "biopolitica". D´altra parte che, contrariamente a quanto pure afferma il diritto, il corpo umano possa essere ridotto al rango della cosa è l´esito inevitabile dello stesso linguaggio giuridico di origine romana, delle sue ancora operanti procedure di selezione e di esclusione. Conosciamo tutti il rilievo, e anche l´enfasi, con cui da molte parti si dichiara il valore assoluto dell´idea di persona � intesa come la garanzia contro qualsiasi attentato alla dignità dell´essere umano.
Eppure basta poco ad accorgersi che, nella storia antica e in quella recente, questi due termini � persona ed essere umano � non siano mai stati considerati pienamente coincidenti. È sempre esistito un resto della vita trattenuto fuori dal recinto, concettuale e simbolico, della persona. Una volta identificata quest´ultima con la parte razionale e volontaria dell´essere vivente, tutto ciò che rimane, vale a dire il suo stesso corpo, non può che scivolare nel regime della cosa. A riprova di ciò, anche nel linguaggio comune si afferma normalmente di "avere", piuttosto che di "essere", un corpo.
Ma se, nella fase terminale della vita, il corpo è assimilabile a una cosa, esso dovrà avere, come tutte le cose, un proprietario. Chi deve essere considerato tale quando si spegne il soggetto che lo abita? Dio, lo Stato, chi lo ha generato, chi lo ha in custodia? È sulla risposta a questa domanda che teologia, politica e diritto sono entrati in una collisione inevitabile a partire dal momento in cui la vita umana è diventata non solo il luogo di ogni decisione pubblicamente significativa, ma la fonte di legittimazione di ogni tipo di potere. Ad essere in gioco è la separazione, sempre rinnovata, tra forma di vita e nuda vita, tra persona e corpo. È intorno a tale limite oscillante che ruota vertiginosamente l´attuale regime biopolitico. Finché non modificheremo radicalmente il nostro linguaggio, i termini e i concetti che ancora adoperiamo, resteremo immobili davanti a questa soglia � senza sapere andare avanti, senza potere tornare indietro.

Repubblica 17.2.09
Posta in gioco
L´idea sociale di corpo precede e plasma gli individui in carne e ossa. La persona è in ogni caso il frutto di una normalizzazione che passa attraverso forme di controllo, dal diktat della bellezza alla riproduzione, dalla salute al look
Così la società crea il modello ideale
Da madre natura a madre cultura
di Marino Niola


Che cos´è il corpo? Quel che ci dà madre natura o quel che ne fa madre cultura? Quello che tutti gli uomini hanno quando vengono al mondo è solo un minimo comune denominatore biologico, una cera bianca sulla quale ogni cultura disegna il suo modello ideale di corpo. Dando così il proprio imprinting a una sorta di semilavorato ancora da finire. E che ciascuna società rifinisce e definisce a suo modo.
Non basta nascere, dunque, per avere un corpo. È necessario costruirlo, specializzarlo, conformandolo a quell´idea di corpo che ogni collettività fabbrica e impone ai suoi membri, cucendogliela letteralmente sulla pelle come un abito, sin dai primi istanti di vita. I modi di muoversi, di mangiare, di fare l´amore, perfino quelli di respirare, di correre, di dormire sono le parole di una lingua materna che o si apprende dalla nascita o la si parlerà sempre con accento straniero. Ne sanno qualcosa quelli che negli anni Settanta andavano a Bali per strappare ai danzatori il segreto di quei movimenti da marionette divine che mandarono in estasi Antonin Artaud. Tutto vano. Il loro hardware somatico era incompatibile con quello dei nativi.
Moda, maquillage, diete, body building, piedi fasciati, orecchi e nasi forati, colli allungati, decorazioni cutanee, mortificazioni ascetiche e modificazioni estetiche. Sono altrettanti esempi di quella autentica body art sociale dalla quale nasce quella sorta di scultura vivente che chiamiamo persona. Un termine che non a caso in latino significa anche maschera. Il nostro sembiante � letteralmente quel che vogliamo e dobbiamo sembrare � non è altro che la messa in scena della cultura che si mostra in noi e attraverso di noi, indossando i nostri corpi proprio come si indossa una maschera. Nessuno, insomma, è solo nel proprio corpo. Il nostro essere somatico è sempre caratterizzato da una doppiezza che è soggettiva e oggettiva insieme. Il corpo è il nucleo centrale del mio mondo, ma anche un oggetto nel mondo degli altri. In altri termini, noi siamo il nostro corpo e al tempo stesso abbiamo il nostro corpo. Anche se ne avvertiamo la presenza soprattutto quando si trasforma, si altera, ci diventa estraneo e indecifrabile. Quando la malattia lo riduce a un´officina surriscaldata che invia segnali d´allarme. Proprio quando siamo malati, ci rendiamo conto che non viviamo soli, ma incatenati al nostro corpo: un essere di un regno diverso, sconosciuto, abissalmente lontano e dal quale è impossibile farsi comprendere.
Lo diceva Marcel Proust rivelando l´alterità costitutiva del nostro corpo, la sua trasparente opacità nella quale si sovrappongono e si confondono i codici della natura e quelli della cultura.
In realtà nella nostra come in altre civiltà il corpo non è mai una sostanza oggettiva, non è mera fisiologia ma è, per dirla con Michel Foucault, la posta di una battaglia biopolitica, un campo di forze dove si incontrano e si scontrano individuo e società, materiale e spirituale, religione e desiderio, saperi e volontà, etiche e libertà. Nella foresta amazzonica come nell´Occidente tecnologico l´idea sociale di corpo precede e plasma gli individui in carne ed ossa. E la persona è in ogni caso il frutto di una normalizzazione che passa attraverso forme di controllo sui corpi. Dal diktat della bellezza alla riproduzione, dal vigore al pudore, dalla salute al look. Si tratta in ogni caso di modificazioni dell´essere, di leggi sociali che hanno la loro superficie d´iscrizione nel corpo.
E se in passato l´uomo, fatto di un corpo mortale e di un´anima immortale, appariva lo specchio di un modello trascendente, a immagine e somiglianza di Dio � in questo senso il mistero dell´incarnazione di Cristo è la grande matrice somatica dell´Occidente cristiano � la modernità ha segnato il trionfo dell´immanenza, la morte di dio e quella dell´anima insieme. Il mistero del corpo contemporaneo è diventato il codice genetico. Mentre medici e scienziati sono diventati i nuovi sacerdoti che divinano la verità dell´essere, ne interpretano gli arcani codificati nel Dna. La sacralità normalizzatrice che fu dell´anima si secolarizza e tuttavia non svanisce, semplicemente cambia luogo e si trasferisce nella dietetica, nell´estetica, nella tecnologia. Continuiamo in fondo a inseguire un modello di perfettibilità che in principio fu divino e che ora è semplicemente biologico, una volta sopra di noi adesso dentro di noi.

Corriere della Sera 17.2.09
Testamento biologico, una proposta liberale
Sergio Romano risponde a Luigi Manconi


Le associazioni A Buon Diritto e Luca Coscioni promuovono la sottoscrizione del Testamento biologico da parte di quei cittadini che intendono affermare il diritto all'autodeterminazione in materia di trattamenti sanitari. La tragica vicenda di Eluana Englaro rischia di avere un effetto perverso: nel nome della donna in stato vegetativo persistente da 17 anni verrà approvata, con molta probabilità, una legge che mira a impedire che chi si trovasse nelle sue condizioni possa chiedere la sospensione della nutrizione e dell'idratazione artificiali.
E ciò sarebbe interdetto anche in presenza di un'esplicita dichiarazione anticipata di volontà. Se ancora c'è una qualche possibilità di ottenere una buona legge, ciò dipende dai cittadini, che possono sottoscrivere la «Carta di vita» che abbiamo elaborato e che si trova nei nostri siti: abuondiritto.it e lucacoscioni.it. Le nostre associazioni si impegnano a diffonderne il testo con tutti i mezzi a disposizione.
Chiunque creda nei principi di responsabilità e libertà, come affermati dalla Carta costituzionale, dall'ordinamento e dalle convenzioni internazionali, è invitato a sottoscrivere il documento e a inviarlo agli indirizzi presenti nei siti.
Provvederemo a fare arrivare i nostri testamenti biologici ai presidenti di Camera e Senato.
Luigi Manconi
abuondiritto@ abuondiritto.it Caro Manconi,

Per i lettori che non hanno avuto occasione di leggere il testo del progetto cercherò di riassumerne le principali caratteristiche. Il vostro testamento biologico ha il merito di rompere l'unità astratta della questione e di individuare una serie di specifici punti su cui vorreste che ogni italiano prendesse le sue decisioni. In primo luogo gli chiedete se intenda essere informato sulla gravità del suo male e sull'utilità delle terapie; e gli chiedete, se preferisse non essere informato, di indicare la persona a cui tali informazioni dovranno essere fornite. In secondo luogo lo pregate di dare sin d'ora alcune indicazioni, da utilizzarsi se non avrà più la capacità di decidere. Potrà modificare queste decisioni se vorrà in piena coscienza annullarle o sostituirle. Ma nel frattempo, secondo il vostro progetto, è necessario che risponda ad alcune domande. Vuole che il trattamento venga continuato anche se il risultato fosse uno stato di incoscienza permanente, demenza avanzata, paralisi «con incapacità totale di comunicare verbalmente, per iscritto o grazie all'ausilio di mezzi tecnologici»? In terzo luogo il testo affronta, nell'eventualità di una malattia terminale, questioni particolari e pone domande specifiche. Volete o no che vengano usati farmaci oppiacei, anche se possono abbreviare la vostra vita? Volete la rianimazione cardiopolmonare, la respirazione meccanica, l'idratazione e la nutrizione artificiale, la dialisi, gli interventi di urgenza, le trasfusioni di sangue, le terapie antibiotiche?
In quarto luogo voi chiedete al sottoscrittore del testamento di nominare un fiduciario a cui delegare il compito di garantire la scrupolosa osservanza dei desideri del malato se egli non fosse più in condizione di decidere. E in quinto luogo infine gli chiedete se voglia un funerale, religioso o laico, e se voglia donare i propri organi per i trapianti o il proprio corpo per scopi scientifici e didattici.
Credo che abbiate formalizzato ciò che avviene da sempre nell'intimità delle famiglie, spesso con l'aiuto del medico. A me piacerebbe che continuasse a esistere un'area di libertà familiare in cui lo Stato non ha nulla da dire e da fare. Ma è indubbiamente vero che le nuove tecnologie mediche, il più largo ricorso agli ospedali e la trasformazione del dottore in «funzionario della Salute» hanno complicato il problema, e che i parlamenti europei, quando non lo hanno già fatto, sono costretti ad affrontarlo. Ho l'impressione tuttavia che i maggiori Stati europei e in particolare l'Italia non siano ancora pronti ad adottare il vostro progetto. Voi offrite a ogni persona la possibilità di scegliere per sé la formula che tiene maggiormente conto delle sue convinzioni morali e religiose. Ma una legge fondata sul vostro testo riconoscerebbe implicitamente che l'alimentazione e l'idratazione possono essere legalmente interrotte. Quanti italiani sarebbero d'accordo con questa legge? Quanti medici e infermieri sarebbero disposti a scegliere l'interruzione anche se l'interessato, con una dichiarazione formale, li avesse autorizzati a farlo? Il problema in questo caso non è la volontà del paziente, ma la coscienza di coloro che lo curano. Anche se i paladini della buona morte sembrano avere vinto, il caso Englaro ha avuto l'effetto di rafforzare le obiezioni e le resistenze. È giusto criticare le pressioni della Chiesa cattolica, ma sarebbe impolitico e sostanzialmente anticlericale dimenticare che queste pressioni possono contare su molti italiani spontaneamente allineati sulle sue posizioni. Questo non significa che la vostra battaglia sia inutile. La prossima legge sarà soltanto una prima approssimazione alla definizione del problema. Voi lo affrontate in termini schiettamente liberali. Non vincerete il prossimo match, ma potreste vincere quello successivo.

Repubblica 17.2.09
Pensando oggi al rogo di Giordano Bruno
Corrado Augias risponde a una lettera di Paolo Izzo


Caro Augias, mai come quest'anno va celebrato il ricordo di Giordano Bruno, che il 17 febbraio 1600 fu arso vivo a Campo de' Fiori, condannato da una combutta micidiale tra potere ecclesiastico e potere temporale. Era reo di aver detto che l'uomo nasce libero dal peccato originale e che l'inferno non esiste, che la natura infinita va amata senza credere che in essa si annidi il Male e che l'infinitezza stessa dell'universo va contro l'idea della trascendenza, va contro la religione stessa, le religioni tutte... Aveva bestemmiato così: "Stolti del mondo voi che avete formata la religione, gli maggiori asini del mondo siete voi che per grazia del cielo avete riformata la corrotta fede? Vedete se sono o furon giammai solleciti circa le cause secrete de le cose; se mai pensano al dissolvimento qualunque dei regni, dispersione de' popoli, incendii, sangui, ruine ed esterminii; se curano che perisca il mondo tutto? purché la povera anima sia salva, purché si faccia l'edificio in cielo, purché si ripona il tesoro in quella beata patria, niente curando della fama, comodità e gloria di questa fragile e incerta vita: tutto per quell'altra certissima ed eterna vita". Oggi è la rivoluzione di Giordano Bruno a dover essere tenuta a mente, contro chi vuole anteporre quella inesistente «beata patria» alla nostra esistentissima realtà umana, al nostro universo infinito, interno ed esterno. Se quella «beata patria» è violenta, intollerante, inquisitoria e impietosa come sta mostrando ancora nel nuovo millennio, facciamo bene a voler rimanere «apatridi» e liberi.
Paolo Izzo Roma paolo@paoloizzo.net

Nel 2000 il pontefice regnante inviò il Segretario di Stato cardinale Angelo Sodano con un messaggio per il convegno che si teneva a Napoli per il quattrocentesimo anniversario del martirio di Giordano Bruno. Vi si affermava tra l'altro che quel "triste episodio della storia cristiana ci invita a rileggere anche questo evento con spirito aperto alla piena verità storica". Il Cardinale ricordò che il pensiero del filosofo era maturato nel secolo XVI, quando la cristianità era divisa perché Lutero, Calvino, Enrico VIII avevano staccato da Roma intere nazioni. Aggiunse che le sue "scelte intellettuali" rimanevano "incompatibili con la dottrina cristiana"; concludeva affermando che "aspetti delle procedure" seguite dai tribunali dell'Inquisizione di Venezia e di Roma, per giudicare il frate accusato di "eresia", ed "il loro esito violento per mano del potere civile non possono non costituire oggi per la Chiesa motivo di rammarico". Il contenuto del messaggio era assolutamente lodevole compreso il fatto che le dottrine rimanevano 'incompatibili' anche se dal XVI secolo a oggi la dottrina della Chiesa ha fatto parecchi passi proprio in direzione del pensiero bruniano. Un dettaglio mi parve non all'altezza del resto. Là dove il testo affermava che 'l'esito violento' cioè l'essere bruciato vivo era da addossarsi al "potere civile". Certo fu il Governatore di Roma a organizzare il rogo. Ma era solo la mano che dava fuoco alle fascine; i tribunali ecclesiastici sapevano benissimo quali conseguenze avevano le sentenze da loro emesse. Quando si riconosce un errore criminale come fu quello, sarebbe bene ammetterlo fino in fondo.

409 anni fa Giordano Bruno
Mai come quest’anno va celebrato il ricordo di Giordano Bruno, che il 17 febbraio 1600 fu arso vivo a Campo de’ Fiori, condannato da una combutta micidiale tra potere secolare e potere temporale. Aveva bestemmiato così: «Stolti del mondo voi che avete formata la religione, gli maggiori asini del mondo siete voi che per grazia del cielo avete riformata la corrotta fede… Vedete se sono o furon giammai solleciti circa le cause secrete de le cose; se mai pensano al dissolvimento qualunque dei regni, dispersione de’ popoli, incendii, sangui, ruine ed esterminii; se curano che perisca il mondo tutto… purché la povera anima sia salva, purché si faccia l’edificio in cielo, purché si ripona il tesoro in quella beata patria, niente curando della fama, comodità e gloria di questa fragile e incerta vita: tutto per quell’altra certissima ed eterna vita».
Oggi è la rivoluzione di Giordano Bruno a dover essere tenuta a mente, contro chi vuole anteporre quella inesistente «beata patria» alla nostra esistentissima realtà umana, al nostro universo infinito, interno ed esterno. Se quella «beata patria» è violenta, intollerante, inquisitoria e impietosa come sta mostrando ancora nel nuovo millennio, facciamo bene a voler rimanere «apatridi» e liberi.
Paolo Izzo, Roma

Repubblica 17.2.09
Raccolti gli scritti di Jacques Derrida sull´arte del costruire
L’architettura nell’era della post-città
di Vittorio Gregotti


Il pensatore descrive lo stato di mutazione di una realtà urbana, ma afferma che non vi è rottura finché resistono abitabilità, funzionalità e altri valori estetici

Sono passati quasi cinque anni dalla morte di Jacques Derrida e più di una ventina dal periodo in cui la sua attenzione nei confronti dell´architettura si è trasformata, con la superficialità che sovente caratterizza la pratica della nostra disciplina, nella moda del "decostruzionismo".
Liberatici da quella moda (ma certo non dei suoi successivi deleteri effetti che sono scivolati verso un superficiale esibizionismo), forse bisognerebbe rendere giustizia al pensiero del grande filosofo e cercare di riflettere ancora su cosa significhi "decostruzione" per l´architettura. L´occasione ci è offerta dalla utilissima pubblicazione dei suoi scritti di architettura raccolti di recente a cura di Francesco Vitale (Jacques Derrida, Adesso l´architettura, Scheiwiller, pagg. 374, euro 24).
Derrida insiste «sull´intersezione tra architettura, letteratura, musica e storia» e questo coincide con il desiderio del confronto e della relazione tra le arti, confronto ed interesse reciproco che ha caratterizzato gli architetti della mia generazione. Tale interesse si è poi degradato nell´attuale tendenza verso una costruzione mediatica in cui arti, moda, pubblicità si sono sciaguratamente mescolati in nome della comunicazione in sé; ma questo richiederebbe un´altra riflessione.
L´elaborazione di questi principi da parte degli architetti dovrebbe quindi muoversi dalla critica al carattere ricompositivo della tradizione del moderno (e più in generale dalla tradizione del classico), dalla messa in evidenza delle stratificazioni e dei contrasti che anche per la scrittura architettonica sono materiale progettuale privilegiato, sottolineando anche simbolicamente, la necessità ed insieme lo spazio della possibilità.
Comunque l´era della post città, a cui fa sovente riferimento, afferma è anche l´era della post architettura, anche se "la sua fine - egli scrive - potrebbe essere un limite ma anche un´origine". Comunque la sua insistenza sulla fine della città e dell´architettura e cioè la loro perdizione è richiamata più volte nei suoi discorsi. «In quel momento», cioè nel mondo dell´avvento della decostruzione, scrive nel 1991, «l´architettura avrà perso il suo nome, la sua unità. Diventerà straniera a sé stessa. E questo sarà un bene o meglio sarà forse fatale». Nel suo testo del 1985 Maintenant l´architecture (il più importante di questa raccolta) Derrida descrive lo stato di mutazione dell´idea di città per affermare però che, nonostante le grandi trasformazioni «non vi è rottura» perché «abitabilità, funzionalità, valori d´uso e anche il valore estetico (che riconduce alla distinzione fra il sensibile e l´intelligibile) sono valori con i quali bisogna sempre negoziare, quali che siano i progetti architettonici e la loro audacia. Se tutto ciò resta intatto allora la "rottura" di cui scrive evidentemente non è una rottura».
Ma più avanti egli propone un secondo momento, a partire dal modello di storicità in cui si situa l´architettura ponendo anche il problema della messa in questione del valore della memoria. «Come chiamarlo, questo secondo momento? E un momento di decostruzione è quello della rimessa in questione pratica, effettiva, di tutti i valori o di tutti i significati che ho enunciato più sopra: valore di riunione, valore di allocuzione immediata, la parola, il rapporto con l´origine, la memoria, l´abitabilità, l´estetica, eccetera». Forse questa operazione non può chiamarsi architettura perché fondata sulla «sottrazione di tutti i valori prima enunciati», oppure sottraendola a tutti i valori «ciò che resterebbe sarebbe l´architettura stessa»: senza per questo aspirare né alla purezza né alla rovina.
Nel contempo cosa terrà insieme questo «corpo smembrato, questa molteplicità», si chiede Derrida affinché questa "maintenance" senza "maintenant" sia possibile. Egli risponde "una promessa", qualcosa che si manda avanti senza sapere, un avvenire non determinato. E qui la polemica non solo con il postmoderno ma contro il prefisso "post" perché esso sottintende qualcosa di definitivamente terminato, è ribadita, stabilendo nei suoi confronti una distinzione radicale.
Ciò che affascina in queste affermazioni mi sembra sia, anche oggi, l´invito a guardare proprio anche per mezzo dell´architettura e attraverso la messa in discussione radicale dei suoi fondamenti, ciò che non è in alcun modo presente. Un invito affascinante per la sua impossibilità nei confronti della natura costruttiva della stessa architettura.
Ma, in un altro scritto, Derrida introduce un nuovo concetto per noi importante: quello di "reinscrizione". Egli afferma cioè che una volta liberata l´architettura "dall´egemonia dell´estetica, dell´utilità, dell´abitare, dell´economia e persino del passato, quei valori vanno "reinseriti" nell´architettura, una volta però perduta la loro egemonia esterna. E questo riapre un processo che credo però sia già da secoli impegno comune a tutti gli architetti per i quali lo scopo dell´organizzazione architettonica di un problema è precisamente la sua reinscrizione in una morfologia che promuova non tanto il futuro quanto il possibile.
A più di vent´anni di distanza bisogna però ammettere che ciò che è rimasto dell´influenza di questa straordinaria avventura culturale di un grande filosofo che si è occupato direttamente di architettura è stato, nei casi migliori, un esercizio calligrafico sperimentale di interesse essenzialmente "linguistico" e, in quelli peggiori, un immenso inutile spreco, spesso inconscio, proprio di quei valori che secondo Derrida ne costituivano il travestimento ma anche l´inevitabile materiale da far confliggere per mezzo della decostruzione del progetto. Pur con tutte le oscillazioni dei suoi significati interpretativi possibili: ma anche, io aggiungo, "del possibile". Come Jacques Derrida continuamente ci ricorda.

l’Unità 17.2.09
Giorgio de Chirico
La maschera del genio per depistarci nel labirinto dell’arte
di Paolo Baldacci


Il volume appena uscito degli Scritti di de Chirico può essere recensito in vari modi. O con gli osannanti soffietti editoriali ai quali siamo da tempo abituati sui principali quotidiani, o, come ha fatto in modo esemplare Raffaele Manica su Alias del 7 febbraio, trasferendo al lettore le impressioni ricavate dalla lettura di un corpus straordinario e poco conosciuto di saggi e novelle oniriche del novecento, oppure esaminandolo per quello che vuole essere, cioè edizione critica e strumento di studio. Su questo piano l’opera è deludente e dannosa per il cattivo esempio che può dare ai giovani che intraprendono un’attività di ricerca.
Filologia e tradizione scientifica insegnano che i testi di un autore vanno pubblicati in ordine cronologico e con apparati critici che permettano il confronto tra le varie forme di espressione, tra i registri linguistici adottati e tra i testi editi e inediti, nonché la conoscenza delle varianti, dei tagli, delle aggiunte e delle censure presenti nelle diverse edizioni. Solo così si può studiare e capire, soprattutto quando si tratti di un artista che ha scritto in due lingue, che ha abbinato prosa e lirica poetica e che ha posto enormi problemi di interpretazione della sua opera. Questa edizione, scorretta nel metodo, incompleta e piena di errori materiali, sembra invece concepita più per ostacolare che per aiutare la comprensione dell’autore.
Contrasti taciuti. La vita e la carriera di de Chirico sono dominate dal drammatico contrasto tra una timida spinta ad aprirsi al mondo esterno e una fortissima tendenza a chiudersi e nascondersi, che alla fine prevalse. Un rapporto difficile con gli altri, dai quali era troppo vulnerabile; un conflitto interno che lo rese incapace di accettare inclinazioni psicologiche e morali in contrasto con l’educazione ricevuta; i turbamenti prodotti in lui dagli attacchi dei suoi avversari, come Longhi o Breton, sono gli elementi che contribuirono a questa chiusura. De Chirico cominciò allora a spargere false tracce su di sé e sulla genesi della sua opera, e invece di aiutare le indagini che lo riguardavano, le ostacolò e cercò di depistarle perché erano per lui come sguardi indiscreti che lo turbavano nel profondo. Indossò una maschera che non volle più togliere, come notò anche suo fratello Savinio chiedendosi: «di quale mutamento psichico sono indizio questi travestimenti?».
Studiare de Chirico significa allineare tutti gli indizi, le tracce, le frasi e i temi ricorrenti sparsi nella sua opera, confrontarne tutte le versioni e le contraddizioni, e infine vagliare i risultati con tutti i documenti disponibili. Significa togliergli la maschera, le tante maschere che indossò a partire dagli anni ‘40, e farlo emergere nelle vette della sua grandezza così come negli abissi delle sue debolezze.
Questo libro fa esattamente il contrario. Abbandonando l’ordine cronologico seguito da Maurizio Fagiolo nell’edizione Einaudi del 1985, e mettendo prima i «libri» usciti quando de Chirico era in vita o da lui approntati per la pubblicazione ma rimasti inediti, e solo dopo, nella seconda parte, tutti gli altri scritti chiamati chissà perché «dispersi», Cortellessa presenta de Chirico non in modo da facilitarne uno studio obiettivo, ma con la maschera che lui stesso si era messo per depistarci. Già la disposizione dei testi è un ostacolo alla comprensione perché induce il lettore a credere che vi siano testi più importanti e altri meno. Il risultato è stridente, perché il volume inizia con il Piccolo trattato di tecnica pittorica del 1928, un testo che insegna a preparare le tele e i colori e ci dà le ricette per fare la tempera. Se il lettore non è un pittore o un restauratore, chiude il libro e va a dormire. Seguono Ebdòmero (1929), Il Signor Dudron (1998) e Commedia dell’arte moderna (1945). Ebdòmero è pubblicato in una traduzione dell’autore, senza il testo originale francese, senza spiegare il perché delle varianti, e soprattutto senza segnalare i tagli apportati da de Chirico all’edizione Bompiani 1942, dove fu tolto l’intero passo sul suo «amore per gli ebrei», reintegrato solo nel dopoguerra. Si vuole nascondere che de Chirico flirtava col regime anche durante la campagna razziale?
Ancor più grave il caso del Signor Dudron, libro che de Chirico non terminò e non pubblicò mai. La versione data da Cortellessa risulta dall’unione rimaneggiata di spezzoni scritti in epoche e in lingue diverse. Strano cocktail che non vide mai la luce ad opera dell’autore e fu pubblicato dalla Fondazione nel 1998. Un libro con questa storia meritava si desse conto della sua genesi e delle varianti, numerose e di gran rilievo, invece manca persino il nucleo originale intitolato Monsieur Dusdron con frammenti importantissimi ma sessualmente imbarazzanti non inclusi nel successivo Dudron.
Dove si manifesta il vero intento del curatore è nel caso di Commedia dell’arte moderna, libro composto nel 1945 in due parti. La prima parte, firmata da de Chirico, comprendeva scritti editi tra il 1918 e il 1943 oltre a qualche piccolo inedito; la seconda parte, attribuita alla moglie Isabella Far, comprendeva scritti, sempre di de Chirico, redatti e pubblicati tra il 1941 e il 1945: testi molto reazionari, talvolta venati di razzismo (per es. l’equazione ebrei = arte moderna). Cortellessa ha voluto avallare la lettura di sé data da de Chirico nel 1945 senza avvertire bene i lettori. Infatti la successione degli scritti della prima parte, con modifiche e censure rispetto agli originali, fu accuratamente studiata dall’autore senza tanto rispettarne la cronologia per dare ad intendere che tutta la sua carriera, dalla metafisica in avanti, fosse finalizzata a perfezionare la tecnica pittorica. Nessuno può vietare a Cortellessa di fare una scelta scientifica aberrante per ottemperare alla volontà dell’autore, ma aver sottratto questi scritti alla loro storia, al contesto in cui sono nati e alla loro naturale cronologia è quasi come falsificarli. L’incuria si è spinta fino a ripubblicare i refusi dell’edizione 1945, col risultato che spesso vi sono passi incomprensibili (per esempio p. 289 e p. 941).
Traduzione assurda e censure. Nella seconda parte, le note di poetica più importanti di de Chirico, i Manoscritti parigini, in originale francese, sono presentati in modo confuso. Non si spiega il criterio seguito per dare un nuovo ordine ai frammenti. Il commento sembra casuale e la traduzione è raccapricciante: le ciminiere diventano camini, le imposte delle finestre diventano baveri di cappotti, le camere hanno cattivo sapore invece che cattivo odore, e soprattutto non si capisce la differenza tra romain (romano) e roman (romanico), che per un libro d’arte è il massimo. Nella Cronologia si censurano le origini dalmate della famiglia; la madre, canzonettista nata a Smirne, è «una nobildonna genovese»; i primi quadri metafisici risultano dipinti a Firenze e non a Milano e tutta l’attività del 1909-1910 a fianco del fratello è completamente cancellata dalla storia. Il tutto in ossequio a quanto voluto da de Chirico nelle Memorie del 1945. Proiettare sulla vita di questo grande artista l’ombra che emerge dalle sue Memorie significa dare un’immagine falsa che si ottiene solo cancellando i documenti e le testimonianze che possono contraddirla, a partire dalla voce di suo fratello Alberto Savinio. Censurare i risultati di ricerche che non collimino con le volontà dell’artista è un metodo che dà sempre risultati di cattiva qualità.

La battaglia di uno studioso in difesa dell’artista da giovane
A trent'anni dalla morte di Giorgio de Chirico (novembre 1978), mentre si avvicina il centenario della nascita della pittura metafisica (autunno 1909), scoppia la guerra tra gli esperti. Paolo Baldacci, affiancato da un gruppo di storici dell'arte italiani e stranieri, accusa la Fondazione intitolata all'artista di censurarne l'opera e di diffonderne un'immagine falsa e non corrispondente alla realtà storica. Ovvero di privilegiare la lunga e successiva fase del pittore, che rivedeva la sua arte ma anche il suo pensiero, rispetto a quella d’avanguardia degli anni Dieci del ’900.
Contro quella che Baldacci definisce «disinformazione scientifica», lo studioso ha dato vita a Milano al centro di studi intitolato Archivio dell'Arte Metafisica. Pubblichiamo in queste pagine un breve estratto di una recensione al primo volume Bompiani degli Scritti di Giorgio de Chirico che uscirà prossimamente - a firma di Baldacci e Gerd Roos - su una rivista italiana di storia dell'arte.

Repubblica.it 18.2.09
I professori di diritto civile contestano punto per punto le aberrazioni della proposta di legge governativa.



1. Nelle ultime concitate settimane si sono verificate attorno al caso Englaro forzature istituzionali molto preoccupanti in sé e per sé, ma assolutamente inaccettabili quando si controverte di valori fondamentali della persona come il significato del diritto alla vita, la dignità dell’uomo, l’habeas corpus, il diritto all’autodeterminazione: temi che per rispetto delle radici stesse della convivenza civile in una società pluralistica richiedono di essere affrontati, in sede normativa, sulla base di approfondite e documentate conoscenze, di mediazione ed ascolto delle diverse posizioni etiche, e con procedure adatte a consentire la discussione, il confronto, la ricerca di un attento bilanciamento.

2. Ora il Parlamento sta per approvare in tempi stretti una legge in materia di direttive anticipate (c.d. testamento biologico). A quanto è dato di conoscere, la maggioranza pare intenzionata ad una discussione rapida di un testo fortemente limitativo del fondamentale diritto all’intangibilità del corpo. Verso questo obiettivo si procede a passi spediti, senza tener conto dei principi costituzionali di diritto interno e sovranazionale ed ignorando l’esigenza di rispetto di posizioni morali diverse.

3. Sembra quindi necessario richiamare alcuni capisaldi giuridici in materia:

a) La Convenzione di Oviedo, che l’Italia ha sottoscritto e di cui è stata approvata la legge di ratifica, dispone all’art 5, che “Un intervento nel campo della salute non può essere effettuato se non dopo che la persona interessata abbia dato consenso libero e informato. Questa persona riceve innanzitutto una informazione adeguata sullo scopo e sulla natura dell’intervento e sulle sue conseguenze e i suoi rischi. La persona interessata può, in qualsiasi momento, liberamente ritirare il proprio consenso”. La previsione non riguarda solo le terapie in senso stretto, ma ogni “intervento nel campo della salute”, espressione più ampia che può corrispondere a quella di “atto medico”, vale a dire qualsiasi atto che, anche a fine non terapeutico, determini un’invasione della sfera corporea.
All’art 9 si prevede che “I desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell’intervento, non è in grado di esprimere la sua volontà saranno tenuti in considerazione”, ove se da un lato non si qualificano i “desideri” come vincolanti, dall’altro è evidente che il rispetto va dato non soltanto alle “dichiarazioni di volontà” (men che meno alle sole dichiarazioni solenni come l’atto pubblico) ma ad ogni espressione di preferenze comunque manifestata.

b) La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea protegge il diritto alla vita (art.2) e il diritto all’integrità della persona (art.3) nel titolo dedicato alla Dignità, che è anche il primo, fondamentale diritto della persona (art.1). All’integrità della persona, in ragione della dignità, è consustanziale il principio di autodeterminazione stabilito nel secondo comma dell’art. 2, secondo il quale “Nell'ambito della medicina e della biologia devono essere in particolare rispettati: il consenso libero e informato della persona interessata, secondo le modalità definite dalla legge, ecc.” Ancora una volta il principio non è limitato ai trattamenti terapeutici, ma riguarda la libera determinazione nel campo medico-biologico.

c) La Costituzione italiana, che tutela l’autodeterminazione all’art. 13, configura all’art. 32 il principio del consenso come elemento coessenziale al diritto alla salute, e prevede che anche nei casi in cui il legislatore si avvalga del potere di imporre un trattamento sanitario, “in nessun caso possa violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Tale dignità non può essere intesa solo in un senso affidato a criteri oggettivi, ma implica il rispetto dell’identità senza la quale cade la ragion d’essere della dignità dell’uomo. 

d) Il principio che consente il rifiuto di atti medici anche benefici è un’acquisizione consolidata della giurisprudenza europea, a valle di una evoluzione che risale alla fine dell’800; e più volte si è confermato che anche di fronte allo stato di necessità il libero, consapevole, lucido dissenso dev’essere rispettato. Un tale diritto di rifiutare le terapie, anche di sostegno vitale, non ha nulla a che fare con l’eutanasia, che consiste invece in una condotta direttamente intesa a procurare la morte. 

e) Egualmente estraneo all’eutanasia è il principio condiviso in bioetica e in biodiritto per cui l’interruzione delle cure, anche senza volontà espressa del paziente divenuto incapace, debba essere praticata non solo quando le cure sono sproporzionate (c.d. accanimento terapeutico) ma anche quando esse siano inutili o abbiano il solo effetto del mantenimento in vita artificiale (cfr. l’art. L 1110-5, 2° comma, del Code de la santé publique, modificato dalla L. n. 2005-370 del 22 aprile 2005 “Relativa ai diritti del malato ed alla fine della vita”, e l’art. R 4127-37 del Code de la santé publique, modificato dal decreto n. 2006-120 del 6 febbraio 2006).

Confidiamo che il legislatore italiano saprà e vorrà tenere in conto questi principi e adeguare ad essi la disciplina delle direttive anticipate, evitando di espropriare la persona del diritto elementare di accettare la morte che la malattia ha reso inevitabile, di combattere il male secondo le proprie misure e - se ritiene - praticando soltanto il lenimento della sofferenza, senza rimanere prigioniera, per volontà di legge, di meccanismi artificiali di prolungamento della vita biologica.

Il documento è sottoscritto dai seguenti Professori di diritto civile:… Omissis…