giovedì 19 febbraio 2009

Repubblica 19.2.09
"Con il Vaticano totale identità di vedute"
Berlusconi a tu per tu con Bagnasco. E Fini ricuce dopo le scontro sugli ebrei
di Marco Politi


ROMA - Non è un anniversario, è un party per festeggiare il "caro estinto" dell´opposizione. Al ricevimento nell´ambasciata d´Italia presso la Santa Sede per commemorare gli 80 anni del Concordato, un Silvio Berlusconi radioso si ferma molto più del presidente Napolitano, mentre i cardinali Bertone e Bagnasco nascondono la gioia tenendo le bocche rigorosamente chiuse davanti ai giornalisti. Pier Ferdinando Casini va incontro calorosamente al premier. Sembrano i generali Wellington e Bluecher dopo la vittoria di Waterloo.
Governo e Vaticano esibiscono un feeling, esaltato dalla battaglia comune sul caso Eluana. Il premier conferma il filo diretto con le gerarchie vaticane nei momenti cruciali della vicenda: «Non ho parlato direttamente con il Papa, ma abbiamo intrattenuto rapporti con i cardinali Bertone e Bagnasco. E poi c´era il dottor Letta…».
Le relazioni tra Vaticano e il leader del centro-destra sono al massimo. «Assoluta identità di vedute - dichiara Berlusconi - da parte di tutti i rappresentanti della Santa Sede c´è un riconoscimento entusiasta che mai si era verificato un clima come quello attuale, con la soluzione di praticamente tutti i problemi. Tranne piccole questioni». Monsignor Mariano Crociata, segretario della Cei, conferma: «Un clima sereno». «Ottimo», chiosa il presidente del Senato Schifani.
Colpisce tra la folla degli invitati l´eclisse totale del Pd. Fassino non si fa vedere, Rutelli è a Bruxelles. Vagano tra prelati, ambasciatori, calici di champagne e stuzzichini, il deputato Pd Ivano Strizzolo, il teodem Enzo Carra, Maria Pia Garavaglia e Paola Binetti. A sorpresa appare un tranquillo Ignazio Marino.
Per il vertici vaticani e della Cei l´implosione dei Democratici è il frutto di un martellamento di quindici anni per scongiurare l´alleanza organica tra la cultura cattolica progressista e la cultura di un socialismo riformista nell´ambito di un partito di stampo europeo. Via via sono stati pestati psicologicamente i cattolici non ossequienti alla Santa Sede. Prodi, poi la Bindi, Marino stesso. L´Avvenire ha ricordato martedì all´ex popolare Franco Marini che non ci si può «contrapporre ai vescovi su argomenti da sempre appannaggio delle religioni». Una singolare «riserva legislativa» per il Vaticano nell´80. dei Patti Lateranensi.
Mentre Napolitano era a colloquio con il Segretario di Stato Bertone, il premier ha passato in rassegna con il cardinale Bagnasco l´agenda bilaterale. Per la Chiesa sono importanti una legge sul testamento biologico, che escluda l´autodeterminazione del paziente, il finanziamento delle scuole private, il sostegno alle famiglie, una gestione equilibrata del problema immigrazione. Berlusconi garantisce un´"attenzione puntuale" ai problemi della scuola cattolica, assicura di aver fatto molto per le famiglie, sottolinea la «visione comune» con la Chiesa sul tema del testamento biologico, respinge ogni ipotesi di legge sulle coppie di fatto: «Il progetto Rotondi-Brunetta? E´ un progetto loro che non ha niente a che fare con il governo».
Se l´incontro tra Bertone e Napolitano riconferma la stima vaticana per il presidente della Repubblica, un altro colloquio tra il Segretario di Stato, il presidente della Camera e Bagnasco ha smussato gli screzi suscitati dalle critiche di Fini sul rapporto tra Chiesa e ebrei negli anni del fascismo. Un disgelo tra il presidente della Camera e le gerarchie vaticane preparato già in mattinata: in un convegno, Fini aveva lodato «l´azione di coesione svolta dalla Chiesa nella società italiana». Il capo dello Stato, uscendo dall´ambasciata, ribadisce che il concordato riformato ha tante «potenzialità da sviluppare» e, come già in un suo messaggio ufficiale, esorta ad intensificare il «fruttuso dialogo» tra Stato e Chiesa.

Repubblica 19.2.09
Il corpo mitico di re Silvio
Un libro ricostruisce come Berlusconi ha creato la propria icona
L’ossessione per la sua immagine
di Filippo Ceccarelli


Una maschera istrionica, pura esteriorità come privata dell´anima
In quei ritratti, dagli antichi ai più recenti, si coglie l´essenza della sua personalità
"Ci ho messo la faccia e ho vinto" potrebbe essere la sua insegna
In quella fisicità così esibita si nasconde l´arcano del potere e del comando

«Ci ho messo la faccia e ho vinto» ha detto l´altro giorno il presidente Berlusconi. Ecco, di solito le fatiche degli autori, come quelle dei giornalisti, non fanno notizia, ma rispetto al mistero glorioso della faccia del Cavaliere si rende indispensabile un´eccezione, tanto più davanti a un testo debitamente illustrato che dischiude prospettive a loro modo sconvolgenti: Il corpo del capo, appunto, di Marco Belpoliti (Guanda, 157 pagine, 12 euro).
Le fatiche di Belpoliti non riguardano tanto le parole, ma l´immane ricerca di reperti e fotografie per così dire primigenie del Cavaliere, un lavoro di scavo dentro archivi, cassetti, magazzini e mitologie che per qualche tempo ha reso questo poliedrico intellettuale un appassionato archeologo del berlusconismo visivo, o meglio della sua autorappresentazione ottica, psichica, magica e quindi pure elettorale. Perché in quelle prime, antiche immagini scampate dai rastrellamenti di Miti Simonetto, che acquistava a caro prezzo ogni istantanea che potesse danneggiare il Signore di Arcore, è custodito l´antefatto e forse anche il segreto della più straordinaria storia di potere degli ultimi settant´anni.
Intuizione fulminante. E davvero già allora, anzi meglio di oggi si coglie in quei ritratti � espressioni, acconciature, pose, vestiti, particolari, sfondi � «una esagerata volontà» di essere presente nell´album di famiglia degli italiani. Si coglie in quel giovanotto un istinto, «a tratti perfino diabolico», di pensarsi in rapporto al pubblico. Una totale determinazione, «una forza di megalomania altamente efficace» che fin dagli anni Settanta porta quel rampante costruttore milanese a riflettersi negli sguardi altrui come in uno specchio, attivando dispositivi a un livello assai profondo, suscitando comportamenti che solo lui, poi, è in grado di sfruttare.
Non si ha un´idea delle leggende iconografiche che accompagnano il primo Berlusconi: apocrifi, falsi, foto ritoccate, attribuzioni incerte, a torso nudo come l´ha fatto vedere Mamma Rosa in tv, oppure modello della pubblicità (liquori, gelati): forse è lui, forse no, forse è un fotomontaggio, magari da lui stesso messo in circolo per qualche ermetica, ma funzionale strategia mediatica. Comunque Belpoliti è risalito alle fonti, ai fotografi, quelli che per primi hanno "visto" e sentito l´incantesimo di un consenso che è anche fisico, quella maschera di simpatia istrionica e di pura esteriorità come privata dell´anima, come un fantasma che già abita dentro ciascuno e grazie a quella disumana alterità si attiva.
Viene da chiedersi se mai Berlusconi leggerà questo libro, e se rivedrà queste immagini che documentano la mostruosa vocazione di un imprenditore che prima di tutti ha compreso che il potere degli spettacoli inesorabilmente si commuta nello spettacolo del potere. Giuseppe Pino, un grande delle foto di musica, lo riprende mentre fa il gesto di Fonzy. Mauro Vallinotto lo immortala sul primo predellino della sua carriera e poi fondatore di utopiche città del sole. Alberto Roveri, che a distanza di trent´anni ricorda con ammirazione l´entusiastica disponibilità del soggetto davanti all´obiettivo, gli ha acchiappato al volo una fantastica aria tra il furbo e lo strafottente, qualcosa che in ultima analisi confessa l´essenza del potere: «Vi ho fregato, perciò fidatevi di me».
Il primo fotografo ufficiale del Cavaliere è Evaristo Fusar. A lui si devono dei significativi ritratti nei quali Berlusconi, quasi per scherzo, entra nel ruolo del gangster fascinoso, con Borsalino in testa e sigaretta accesa tra le dita, alla Alain Delon. Giustamente Belpoliti suggerisce di guardare sempre le mani del Cavaliere: non le vedi, eppure ci sono, stanno là dove meno te le aspetti, immobili in un corpo in movimento, emblemi arrivati chissà da quale realtà, le dita come ganci sulle spalle della prima moglie, regina vaporosa. Nell´elegante, irreale bianco e nero di Fusar la star sta per farsi re e poi idolo. Ha poco più di quarant´anni, ma già ritocca a matita e con l´aerografo i suoi ritratti, nasconde calvizie, alleggerisce il naso. E presto cambierà anche fotografo.
Nel libro ci sono tesori d´interpretazione "alta" e complessa, a partire da Jung a Debord, poi i grandi della sociologia europea e americana, naturalmente Kantorowicz, e Simmel, Baudrillard, Meyrowitz, Goffman, Morin, Bauman, quindi Calvino, Pasolini. Ma gli spunti sono parecchi, da Susan Sontag a un romanzo di Franco Cordelli, studi sul sorriso, i capelli, il travestitismo, le mummie, la civetteria, certe immagini di Philip Dick, fino a Andy Warhol che utilmente, secondo l´autore, si sarebbe esercitato sul Cavaliere e i suoi colori (rosa e azzurro) e che per un soffio non l´ha conosciuto, a Milano, durante l´esposizione sull´Ultima cena.
Perché forse solo a partire dal corpo, così come avviene con un altro grande capo italiano, Mussolini, ci si avvicina al nucleo più misterioso, al grumo indicibile del comando, qualcosa che ha a che fare con l´ambiguità della vita, con il transito nel tempo e nei cervelli, un´«accelerazione nel nulla», un «arcano spiazzamento», un´«alterità segreta», androgina, una doppia natura maschile e femminile di cui il corpo-icona è la più abbagliante testimonianza.
E allora certo le veline, le battute galliste, ma la bandana sembra il fazzoletto di una contadina e intreccia passi di danza come una pin-up, il Cavaliere, nell´istantanea di un altro importante fotografo, Giorgio Lotti, cui è in pratica appaltato il corredo iconico del "fotoromanzo" elettorale Una storia italiana, favola per adulti, capolavoro di intimità costruita, rivelata, poi coscientemente tradita in nome della sua missione ormai incarnatasi alla guida dell´Italia.
Così, quando i ritocchi fotografici non bastano più, c´è la dieta, la ginnastica, la corsa rituale con i seguaci alle Bermuda; e poi c´è il primo, poi il secondo trapianto di capelli e i lifting (molti, in realtà, a partire dagli anni ottanta) che gli danno l´immobilità plastificata del pupazzo: ma vivente, altroché! Sullo sfondo si profila � ed è ormai cronaca � la più evidente lotta berlusconiana per l´immortalità, un presente indifferenziato e senza tempo. Esito come s´immagina del tutto illusorio, al di là di ogni umano pronostico. Ma intanto Berlusconi la faccia ce la mette, e continua a vincere. E allora tanto vale appassionarsi alla questione del suo corpo, se non altro perché ne va del destino di tutti.

Liberazione 19.2.09
Veltronismo, il tramonto del virtuale
E' durata sedici mesi la parabola del veltronismo
Tonino Bucci intervista Giovanni De Luna, docente di storia contemporanea all’Università di Torino



E' durata sedici mesi la parabola del veltronismo. E dire che al momento dell'acclamazione a segretario del Pd Veltroni si era accreditato come portatore di un progetto di rinnovamento della politica. Il veltronismo ha avuto l'ambizione, a suo modo, di gettarsi alle spalle la crisi della rappresentanza, di svecchiare il ceto dirigente, di reinventare la relazione tra cittadini e istituzioni, di proiettare sul piano virtuale della politica l'Italia migliore. Su queste ambizioni oggi si misura il suo fallimento. A dirla in maniera sbrigativa, il veltronismo ha incarnato l'idea di una società postideologica, postnovecentesca, disgregata nel gioco di interessi e gruppi parziali non più componibili in identità collettive più ampie. Il veltronismo è stata la rinuncia a rappresentare il mondo del lavoro, nella convinzione che i conflitti materiali non potessero essere più il motore di sviluppo della democrazia. Il veltronismo, ancora, si è ispirato a una visione rigorosamente interclassista, ha sciolti i legami tradizionali con il sindacato (leggi Cgil), ha vagheggiato l'equidistanza dalle parti sociali - in realtà smentita da più d'una consonanza con i vertici confindustriali. Dopo aver smantellato i riferimenti della propria identità, al veltronismo non restava che imboccare una politica dall'alto. Ha sperato che una dimensione evocativa, simbolica, virtuale potesse supplire all'incapacità della sinistra di rappresentare la società. Abbiamo chiesto un ragionamento a partire da questi nodi a Giovanni De Luna, docente di storia contemporanea all'università di Torino.

A differenza dei partiti novecenteschi e anche di quelli di fine Ottocento il Pd è nato senza che ci fossero movimenti sociali dal basso né grandi processi culturali. E' stata solo un'operazione di vertice?
Se la vogliamo dire con un pizzico di ironia gli eventi più significativi e più fecondi nella storia della sinistra e dei partiti del movimento operaio nel Novecento italiano sono state più le scissioni che non le unificazioni. Mentre le scissioni sono state sempre salutari come quella di Livorno del '21, le unificazioni tipo quelle tra Nenni e Saragat tra Psi e Psdi negli anni '60 furono un disastro. Dopo qualche anno ognuno se ne andò per conto suo e ciascuno raddoppiò i propri voti. Detto questo, ragionare sull'esperienza del passato non ci aiuta molto tanta è la discontinuità tra il Novecento e il sistema politico italiano di oggi. Il partito democratico è un'esperienza post-novecentesca. Ragionando sullo scenario attuale è ovvio che nel processo di formazione del partito democratico c'è una tara genetica. La nascita del Pd è assomigliata più alla fusione tra due consigli d'amministrazione che alla fusione tra due partiti. E' stata un'operazione verticistica. Questo tipo di formazione non ha dato il tempo a due linguaggi fino ad allora totalmente estranei l'uno all'altro, di trovare categorie comuni. Diciamolo con franchezza, si sono sommati due ceti politici totalmente diversi. Il ceto politico di tradizione democristiana, popolare e Margherita, era un ceto manovriero, duttile, attrezzato per stare nella stanza dei bottoni, mentre il ceto politico dei Ds aveva un altro imprinting. Perché si potesse amalgamare questa alchimia così complessa ci voleva più tempo. Invece tutto è precipitato in maniera vertiginosa sotto l'incalzare di scadenze troppo urgenti e troppo immediate in concomitanza con la crisi del governo Prodi. Questo processo ha influito molto negativamente sull'ambizione del Pd a proporsi come un soggetto forte e credibile.

Ma agli inizi il veltronismo si candidava a essere un punto d'attrazione per gli intellettuali. Quella promessa è stata mantenuta? Possiamo dire che il veltronismo è stato un modello culturale, un'idea di società oppure si è dimostrato alla fin fine solo una concezione pragmatica di fare politica tra questioni istituzionali e appuntamenti elettorali?
No, io penso che Veltroni non abbia mai provato a dare questo profilo culturale. Non è esistita una visione culturale del Pd in quello che a mio parere è un luogo nevralgico: la costruzione dell'album di famiglia. Il primo appeal culturale che un partito in atto di nascere può avere è quello di schierare in campo il proprio albero genealogico. Questa operazione non l'hanno fatta, hanno avuto paura del passato. Nella carta costitutiva del Pd avevano persino omesso il riferimento all'antifascismo. Non solo non hanno guardato al passato come a una fonte di legittimazione, ma non hanno neppure compiuto delle scelte su ciò che avrebbero potuto recuperare di quel passato. Potevano scegliere De Gasperi al posto di Togliatti, Gobetti al posto di Gramsci, sarebbe stata comunque un'operazione che avrebbe reso riconoscibile e percepibile l'ambito culturale in cui si volevano muovere. Non c'è stato nulla del genere per cui io non parlerei assolutamente di veltronismo sotto il profilo culturale. Un appeal il partito democratico l'ha avuto non nei confronti degli intellettuali o degli operai, ma verso una generica opinione pubblica di sinistra che dinanzi all'implosione dello schieramento politico della sinistra si aggrappa a qualsiasi novità con la speranza che funzioni. Per fare un esempio avevo personalmente molta speranza in Soru e invece è andata come è andata. A ogni modo non farei un processo al veltronismo o al Pd, penso che sia più utile riflettere su come la sinistra, in tutte le sue componenti, da quelle più radicali a quelle più riformiste, abbia consegnato questo paese a Berlusconi. E' un dramma dal quale nessuno di noi può tirarsi fuori. Dove eravamo? Anche la tragedia o la comica del Pd e del veltronismo ci tocca perché siamo tutti coinvolti in un unico grande fallimento. Non me la sento di dare giudizi. Però non credo nella necessità dei tempi lunghi e della traversata nel deserto. La storia novecentesca qui ci può aiutare. Nel 1966 ci fu il rinnovo del contratto dei metalmeccanici. Fu il punto più basso mai raggiunto dalla classe operaia italiana senza che venisse organizzata un'ora di sciopero. Non ci fu praticamente niente, neppure una manifestazione. Tutti noi, ragazzi, studenti, avevamo deciso che la classe operaia era finita, che in Italia non c'era più niente da fare e che se volevi fare la rivoluzione dovevi andare a Cuba. Pensavamo che con la politica dei redditi il centrosinistra avesse irrimediabilmente integrato la classe operaia. Due anni dopo successe il finimondo. Il '68-'69 fu la smentita plateale di tutte quelle previsioni. Per questo dico che bisogna essere più cauti nel dare per spacciata la situazione di oggi. Solo tre o quattro anni fa il centrosinistra era al governo in quindici Regioni. Berlusconi non è invincibile. Da quando è sceso in campo nel '94 è stato battuto due volte. Una volta che avremo elaborato il lutto dovremo riflettere pacatamente. I tempi della contemporaneità postnovecentesca sono talmente veloci che è inutile dare per scontato lunghi anni di purgatorio. Stiamo calmi.

A sinistra oggi s'è fatta strada l'idea che nella società ci sia un ristagno e che di fronte all'assenza di movimenti e conflitti la politica debba porre rimedio con operazioni dall'alto per supplire a questo vuoto di aggregazioni collettive. La cosa riguarda tutti noi ma, nella fattispecie, il limite del Pd non è consistito in questa autonomia del politico dalla società?
Sono d'accordo. C'è la forte tentazione a risolvere nella politica anche le condizioni materiali, i rapporti di forza concreti, i fermenti della società. Illudersi di poter risolvere tutto con un'operazione di vertice è un'idea sbagliata che non paga. L'antidoto all'egemonia della destra si trova solo se ci decidiamo a ripristinare il concetto di rappresentanza in contrapposizione a quello di rappresentazione. Inseguire la destra sul terreno della rappresentazione, della virtualità, della messa in scena è perdente in assoluto perché è il loro terreno. La forza della sinistra, invece, è sempre stata l'aderenza alle condizioni materiali e alla concretezza dei conflitti. La rappresentanza implica un rapporto diretto con gli interessi e i valori da rappresentare. Dico con franchezza che personalmente non credo che nel comunismo ci sia la possibilità di intercettare la realtà di oggi. Credo però che ci possa servire una tradizione della sinistra italiana che porta il conflitto al centro della propria elaborazione. Recuperare il modello di una democrazia conflittuale contrapposto al modello di una democrazia consociativa o virtuale o televisiva, questo è decisivo. Il problema è che oggi il conflitto non si muove più con la generalità che aveva in passato, non mette più in discussione l'ordine sociale, non critica più un progetto di società. Il conflitto, oggi, si presenta come microconflitto, come conflitto territoriale, come conflitto culturale, come conflitto religioso. La forza della sinistra deve essere quella di leggere questi conflitti e ripartire da essi proprio nella consapevolezza della loro discontinuità rispetto ai conflitti novecenteschi. Ma il punto è che solo nei conflitti ci può essere l'identità e la risorsa della sinistra.

L'errore di dare il primato alla rappresentazione in luogo della rappresentanza dei conflitti concreti è stato fatto anche, sul versante opposto, dalla Sinistra l'Arcobaleno. E anche il riferimento al comunismo non è nulla se non vive nella concretezza del conflitto. A suo modo però il veltronismo partiva dalla crisi della rappresentanza. Dava per acquisito che la società contemporanea è una somma di interessi parziali che non si possono ricomporre in identità collettive. Il Pd ha pensato di risolvere la frantumazione sociale col modello americano delle primarie. O no?
Ma è stato un percorso molto abborracciato, non c'è stata nessuna elaborazione. A determinare la nascita del Pd è stata una congiuntura drammatica e immediata. Si trattava di dare una risposta alla pessima prova del governo Prodi e di tutta la sinistra nel suo complesso, litigiosa, incapace di di privilegiare la rappresentanza delle questioni reali. Il Pd nasce da questo sussulto e non ha avuto il tempo di elaborare un modello conflittuale di democrazia o di partecipazione diversa. Le primarie sono state come i girotondi, esplosioni di voglia di protagonismo che non trova altre strade per manifestarsi. Sono uno sfogo all'insofferenza. Le primarie sono state la certificazione che non se ne poteva proprio più. Una sana epidermica reazione, ma niente di più. Non credo che nel Pd ci sia stata un'elaborazione reale sulla crisi della rappresentanza.

Veltroni ha incarnato la politica post-ideologica. Non è stato un errore visto che dall'altra parte il berlusconismo è stato capace di fare egemonia, di rendere la propria ideologia un senso comune di massa? Perché indebolire la propria proposta culturale in questo momento?
Il Pd ha pagato un prezzo alto, non tanto per la rinuncia all'ideologia, ma per la rinuncia all'identità. La destra, in realtà, ha un profilo fortemente identitario che può essere ripugnante finché si vuole, ma è forte. Per la sinistra la rinuncia all'identità significa sguarnire il fortino nel quale si deve difendere. L'identità non è soltanto un valore residuale, ma è la trincea da cui parti per riaggregare ed egemonizzare. Ma se non hai un'identità cosa proponi? Come fai a costruire schieramenti, alleanze, proposte in chiave elettorale se non sai chi sei? Il pragmatismo di Berlusconi è stato quello di armonizzare prima ancora che i progetti dei vari partiti, le varie identità: quella statalista di An, quella localistica e territoriale della Lega e così via. Sono state ricollocate in un impianto dal profilo identitario molto aggressivo sul piano della memoria e del revisionismo. Su questo piano il berlusconismo ha dato prova di enorme vitalità. Non c'è uno del partito democratico che si sia schierato contro il revisionismo storiografico. Sulla storia del Pci sono state dette idiozie inenarrabili, ma non c'è stato uno tra gli ex comunisti che stanno nel Pd che sia sceso in campo o che si sia indignato. Questa rinuncia a un profilo d'identità dimostra la miseria di una proposta culturale che è destinata ad affievolirsi se non ha valori di riferimento a cui ancorarsi.

Paradossalmente l'unico valore di riferimento è stato la governabilità e proprio mentre il Pd era destinato all'opposizione. Un cortocircuito, no?
Emilio Lussu, cito a memoria, diceva che la sinistra più sta lontana dal potere e meglio è. Sembra un pensiero po' rozzo, ma il senso è che c'è più democrazia in un'assemblea di fabbrica che in un qualsiasi tipo di organismo raprpesentativo.Servire il proprio paese dall'opposizione, sulla base delle proprie proposte, dei propri ideali, della propria capacità di alimentare il conflitto è ancora più meritorio che servirlo dal governo. Questa cultura dell'opposizione gli eredi del Pci-Pds-Ds l'hanno completamente persa. Il fatto che oggi ci ritroviamo Di Pietro come paladino dell'opposizione è la prova del fallimento. Non ne abbiamo azzeccato una.

Corriere della Sera 19.2.09
Intellettuali e sinistra
Il blocco mentale
di Pierluigi Battista


Nel 2002, a un anno dalle elezioni perse contro Berlusconi, la sinistra stordita e sopraffatta dalla sindrome della sconfitta consegnò agli intellettuali girotondisti la missione di riaccendere lo spirito della grande battaglia contro il «Caimano»: fu l'inseguimento affannoso del radicalismo estremista, il rifugio nella sfera onirica della guerra totale contro il nemico. La sinistra riconquistò voti e tensione emotiva fino alla risicata vittoria del 2006. Ma quella fiammata, come i fatti si sono incaricati di dimostrare, era destinata a spegnersi nel peggiore dei modi. Oggi, a un anno dalla sconfitta del 2008 e dopo un'impressionante sequenza di rovesci culminata nella disfatta sarda e nella crisi devastante del Pd, la sinistra potrebbe trarre una salutare ispirazione da un altro intellettuale, un sociologo lontanissimo dalla tipologia girotondista ma che non ha mai nascosto la sua appartenenza alla cultura della sinistra: Marzio Barbagli.
Nell'intervista rilasciata a Francesco Alberti per il
Corriere, Barbagli racconta di una formidabile lotta tra i suoi «schematismi» culturali e i dati della realtà che lo hanno costretto, sul tema della criminalità connessa all'immigrazione, a rivedere drasticamente le proprie «ipotesi di partenza». «Non volevo vedere », confessa con cristallina onestà intellettuale Barbagli, «c'era qualcosa in me che si rifiutava di esaminare in maniera oggettiva i dati sull'incidenza dell'immigrazione rispetto alla criminalità. Ero condizionato dalle mie posizioni di uomo di sinistra. E quando finalmente ho cominciato a prendere atto della realtà e a scrivere che l'ondata migratoria ha avuto una pesante ricaduta sull'aumento di certi reati, alcuni colleghi mi hanno tolto il saluto». Il racconto di Barbagli riassume con grande pathos espressivo il senso di un percorso sofferto: «ho fatto il possibile per ingannare me stesso»; «era come se avessi un blocco mentale ». Fino alla conclusione catartica, ma malinconica e solitaria: «sono finalmente riuscito a tenere distinti i due piani: il ricercatore e l'uomo di sinistra. Ora sono un ricercatore. E nient'altro».
La conclusione di Barbagli segna il dramma della sinistra italiana che si strazia nel vortice delle ripetute sconfitte. Il suo bagno nella realtà, il suo immergersi nei dati empirici per capire che cosa si muove nella società italiana senza essere percepito dagli occhiali deformanti del politicamente corretto, sanciscono un divorzio tragico tra il «ricercatore» e «l'uomo di sinistra». La sinistra lamenta ritualmente il proprio distacco dalla realtà, il proprio ripiegarsi autoreferenziale in una retorica incomprensibile al «vissuto » della società come realmente è e pensa. Ma per lasciarsi «assalire dalla realtà », come usava dire tra i
liberal americani sommersi dall'ondata culturale neoconservatrice, deve impegnarsi per ricomporre la frattura esistenziale raccontata da Barbagli. Deve dimostrare che tra la «ricerca » e la sinistra, tra i «dati» e il discorso dominante nei suoi circuiti autisticamente chiusi in se stessi non c'è guerra o alterità, e che per risollevarsi occorre disfarsi del «blocco mentale» che l'ha paralizzata in questi anni, precludendosi ogni comunicazione con ciò che sta fuori di essa. Scegliere Barbagli e non chi gli «ha tolto il saluto». La realtà e non i sacerdoti di una «correttezza» politica sempre più vuota.

Corriere della Sera 19.2.09
Voglia di ricucitura tra istituzioni e gerarchie vaticane
di Massimo Franco


C’è una gran voglia di ricucire, fra i vertici dello Stato. Il tentativo di ridimensionare le tensioni istituzionali sul caso di Eluana Englaro ieri è diventato esplicito: fra Giorgio Napolitano e Silvio Berlusconi; e fra il Quirinale e la Santa Sede. È emersa una volontà comune di diplomatizzare lo strappo consumatosi con la morte della donna in coma da diciassette anni. Il primo segnale è arrivato martedì, nel colloquio al Quirinale fra il presidente della Repubblica ed il premier, accompagnato dal sottosegretario a palazzo Chigi, Gianni Letta. La nomina di Paolo Grossi come giudice costituzionale ha rappresentato un primo gesto di concordia ritrovata.
Ma non solo con Berlusconi. La scelta di Grossi, stimato anche in Vaticano, viene letta come un indizio di tregua: sebbene preparata da tempo. E ieri è arrivato il secondo passo, in una cornice che favoriva e quasi obbligava alla concordia: la cerimonia per l'80˚ dei Patti lateranensi. Poteva rivelarsi un'occasione di imbarazzo; invece, è servita a ridurre le distanze e limitare i malintesi. L'invito di Napolitano alla «collaborazione feconda fra Stato e Santa Sede» è arrivata poco prima dell'incontro con i vertici vaticani. Ed ha finito per segnare positivamente il clima dei colloqui.
Lo stesso presidente della Camera, Gianfranco Fini, che aveva detto parole accolte con irritazione dalle gerarchie cattoliche, ha cercato il dialogo. La sua conversazione col segretario di Stato, Tarcisio Bertone, e col presidente della Cei, Angelo Bagnasco, ha accreditato un disgelo, per quanto parziale. Ma soprattutto, ha colpito l'insistenza con la quale Berlusconi si è premurato di affermare che con Napolitano non ci sarebbe «mai stata nessuna distanza»: un modo per cercare di allontanare i sospetti di un rapporto non risolto.
L'ombra del caso Englaro, infatti, non sembra dissolta. La legge sul testamento biologico fa dire al premier che si cercherà una proposta condivisa come vuole il Quirinale. Ma il capo del governo sottolinea anche una completa «unità di vedute» con la Chiesa. E ieri il cardinale Camillo Ruini, ex presidente della Cei, ha avvertito che la prossima legge dovrà escludere eutanasia ed accanimento terapeutico; e che non si dovrà rinunciare a «idratazione e nutrizione, pessima forma di eutanasia». Per questo, Berlusconi appare più convincente ed a proprio agio quando rivendica «il clima entusiastico», fra palazzo Chigi e Santa Sede.
Di fatto, è diventato l'interlocutore principale del Vaticano: anche perché le gerarchie cattoliche criticano puntualmente l'ostilità della Lega contro gli immigrati. Quanto all'opposizione, i tormenti del Pd hanno giustificato la sua assenza quasi totale dalle cerimonie di ieri. Ma anche in una situazione normale, le distanze fra Santa Sede e Pd sarebbero risultate ugualmente vistose, quasi imbarazzanti. È un altro dei «buchi neri» strategici che i successori di Walter Veltroni dovranno analizzare a fondo per risalire la china.

il Riformista 19.2.09
Un Kadima italiano. Una stagione revisionistica per ripartire senza la sinistra
È finita, il Pd è stato il nostro 8 settembre
di Peppino Caldarola, ex direttore dell’Unità


La sinistra italiana è finita. Il rilancio del Pd è praticamente impossibile. La nascita di un partito socialista è una boutade. Non fai un grande partito socialista solo dopo che hai cercato con tutti i mezzi di non farlo per due decenni. È finita la fase propulsiva degli ex Pci che erano riusciti (eravamo riusciti) a nascondere sotto il tappeto delle sconfitte altrui la sconfitta mondiale del comunismo. Scompare l'ultimo tentativo degli ex democristiani di rinverdire una tradizione spostandosi a sinistra. Non vale neppure la pena di parlare della sinistra radical o giustizialista, l'ultimo accrocco di conservatori estremi che si è affacciato sulla scena della politica italiana.
È finita la sinistra. Ce la teniamo nel cuore, come una patria portatile, ma siamo condannati a essere sempre più apolidi di sinistra. In politica non esiste il vuoto e probabilmente lo spazio che lascerà aperto la lunga agonia del Pd produrrà ancora micro-formazioni comuniste, piccoli raggruppamenti radical, una casamatta di piccolo formato dei riformismi delusi. La sinistra oggi ha solo due scelte davanti a sé e ciascuna prevede una forma di eutanasia politica. Si può fare come hanno fatto tanti socialisti berlusconizzati, cioè chiedere ospitalità al Cavaliere considerandolo ormai un capo spirituale e politico di gran parte del Paese che può dare asilo nelle sue file anche a una corrente di sinistra. È in fondo la strada scelta da Tremonti, Sacconi e Cicchitto e Stefania Craxi. Morta la sinistra si cerca ospitalità dove non c'è traccia degli assassini della sinistra. È un'idea che assomiglia a un regime con il Cavaliere pigliatutto che garantisce con magnificenza ai suoi vecchi avversari il diritto di tribuna. È una scelta che faranno in molti ma che non può diventare un disegno strategico.
C'è un'altra strada, più difficile, che parte proprio dalla consapevolezza che la sinistra è finita e che bisogna ripartire senza la sinistra. Questa strada prevede una vera e propria stagione revisionistica che abbia la forza di mettere sotto processo l'intera storia della sinistra. Soprattutto quella che ha manifestato la maggiore grandezza e la maggiore miseria. Cioè la storia di una sinistra democratica che ha vissuto per decenni dentro l'utopia antidemocratica del comunismo. Kadima italiano può nascere solo da una dichiarazione solenne di anticomunismo. Conosco le obiezioni. Il Pci è stato un partito democratico oppure il Pci non c'è più. Ma solo una frattura storica, come accade in tutte le rivoluzioni, produce il nuovo. Solo rinnegare una parte del passato apre la porta del futuro. L'ha fatto il comunismo con il socialismo, lo può fare una politica democratica di sinistra contro il comunismo.
Nei prossimi giorni sentiremo altre sirene. Veltroni ha detto che il partito di cui lascia la guida è l'avvenire. È la sua ultima bugia. Il Pd è stato il nostro 8 settembre. L'alternativa è secca: c'è chi andrà legittimamente con Berlusconi e chi, berlusconianamente, ricostruirà la sinistra fuori dai miti della vecchia sinistra. Non c'è terza via.

il Riformista 19.2.09
Veltronismo addio. Tocca ai socialdemocratici
Ho (ri)fatto un sogno
di Piero Sansonetti


La rinuncia di Veltroni è una grande notizia: riapre tutto. Conclude la fase di "congelamento" della sinistra italiana che era iniziata sedici mesi fa con il discorso del Lingotto. Veltroni aveva assunto la leadership del Pd a due condizioni. Prima condizione: che il vecchio troncone riformista e socialdemocratico dei Ds si mettesse da parte e rinunciasse alla propria autonomia. Seconda condizione: che si sospendesse ogni discussione e ogni ricerca politica, che si subordinasse tutto all'unico, vero, sacro obiettivo: quello di battere Berlusconi e governare. Il risultato è stata la fine della politica. Quando la politica è ferma - per una legge quasi naturale - la sinistra è sconfitta.
Tutto questo va all'aria. Io credo che l'epoca glaciale di Veltroni abbia prodotto danni gravissimi per la sinistra, in parte irreversibili. Però, seppure in condizioni disastrose, ora bisogna ricominciare a lavorare, a fare. La sinistra socialdemocratica deve tornare a dire la sua, a produrre pensiero, e non solo mosse tattiche. La sinistra radicale deve cominciare a immaginare sé stessa come una forza viva, importante, rinunciare all'idea di essere diventata un pezzo da museo. E tutti devono cercare di uscire da quella tragica visione "poterista" che assegna alla politica, esclusivamente, o la vocazione a governare o la vocazione a opporsi. Qualunque forza politica seria deve essere capace di fare tutte e due le cose, le deve considerare altrettanto dignitose. Altrimenti affida la sua sopravvivenza a un risultato elettorale. È chiaro che una forza politica deve avere l'aspirazione a governare, altrimenti non è forza politica. Non può però autolimitarsi, rinunciando a essere forte e coerente forza di opposizione quando serve. Non può sentirsi obbligata a un ruolo. Veltroni aveva ingessato il Pd in un ruolo innaturale.
Ora che succede? Le ipotesi sono due. Che il Pd non sappia uscire dalla sconfitta, cioè non sappia capire che la sconfitta è nel dna del Pd, e che per uscire dalla sconfitta bisogna uscire dal Pd. Bisogna dichiarare chiusa quella fase. Il Pd non è un partito, è una alleanza di governo che oltretutto non governa. Per rimettere in moto la politica bisogna tornare ai partiti - ai partiti come titolari di un progetto di società - anche se devono essere partiti molto diversi da quelli del '900. Questa è la prima ipotesi: il trascinamento del veltronismo, cambiando magari il leader e niente più. Sarebbe la rovina. La seconda ipotesi è che la vecchia guardia socialdemocratica esca allo scoperto, rompa coi conservatori, con la Confindustria, col Vaticano, e si candidi a essere il nucleo centrale di un nuovo forte partito di sinistra di massa, che possa attrarre la sinistra radicale. Io spero che la seconda ipotesi vinca. Io spero che vinca in tempi rapidissimi. La politica oggi è molto veloce, perdere il tempo vuol dire perdere tutto. Bisogna fare in fretta, prima delle europee. Magari è un sogno, almeno è un bel sogno. Prima della caduta di Veltroni non riuscivo a fare bei sogni.

il Riformista 19.2.09
Ex Dc ed ex Ds possono soltanto dividersi
di Lorenzo De Caprio


Che succederà nel Pd? Quel che è inevitabile: che le sue due anime si separeranno. Non ho mai creduto nel Pd, non lo ho votato pur avendo votato Ds. Un calcolo elettorale e un sogno americano mi sembrano alla base di un progetto politico ambizioso sì ma senza costrutto, senza fondamenti culturali. Il calcolo che la somma dei voti al Pd sarebbe stata maggiore di quanto avrebbero raccolto i due partiti separati. Il sogno di fondare un partito a imitazione di quello americano, trascurando il fatto che i fondamenti culturali del partito americano sono il liberalismo e il liberismo e che la sua prassi è fondata sul pragmatismo, sull'utilitarismo.
Dall'unione dei resti di un partito ispirato e condizionato dal cattolicesimo, e dai resti di un partito ispirato e condizionato dall'ideologia del marxismo-leninismo (entrambi per tradizione illiberale) sarebbe dovuto nascere un partito nemmeno socialdemocratico ma addirittura liberaldemocratico. L'emergere dirompente di questa che è una contraddizione culturale prima, e politica poi, è apparsa evidente nel caso del testamento biologico.
Ex Dc di sinistra ed ex Ds possono convergere su problemi concreti, ma solo se questi non chiamano in causa l'anima ideologica originaria, vale a dire le opposte visioni del mondo. La soluzione migliore è paradossalmente quella peggiore: la separazione, e la ricerca di convergenze pragmatiche là dove sia possibile. Ma, in questa prospettiva, gli ex Ds e Pci hanno il problema maggiore da risolvere. La fine del comunismo reale ha fatto crollare l'ideologia marxista, e da allora la sinistra italiana si è trovata nuda; senza più riferimento culturale solido è andata perdendo identità politica, consensi e contatto con la società reale.Timide, balbettanti mi sono sembrate tanto le aperture culturali verso la socialdemocrazia nord-europea, e inconsistenti perché impossibili quelle verso il liberalesimo.

il Riformista 19.2.09
La ruina sua? Non tenere "Il Principe" sul comodino
di Biagio De Giovanni


Il Pd, in realtà, non è mai esistito e Veltroni non ha fatto nulla perché esistesse, mi sembra che questa sia la sua principale responsabilità politica. Ed esser segretari di ciò che non esiste, è cosa di alta improbabilità

Coloro e' quali solamente per fortuna diventano di privati principi, con poca fatica diventano, ma con assai si mantengono; e non hanno alcuna difficoltà fra via, perché vi volano; ma tutte le difficultà nascono quando sono posti». È Machiavelli che parla, bellezza!, e forse parla delle primarie che portarono Veltroni al governo del Pd. E sembra prevedere, per tanti aspetti, proprio la storia di Walter Veltroni, che potrebbe esser intessuta di citazioni dal "Principe". «Chi non fa e' fondamenti prima, li potrebbe con una gran virtù farli poi», ma questa virtù fra quanti scogli deve muoversi, e soprattutto fra quante tristizie, che la eterna ferinità della politica richiede! «Spenti adunque questi capi, e ridotti li partigiani loro amici sua, aveva il duca gittati assai buoni fondamenti alla potenzia sua». Perché si sa bene «come li uomini si hanno o guadagnare o perdere», e altrove Machiavelli aveva detto «o vezzeggiare o spegnere». Giacché le ingiurie antiche non vengono dimenticate, «e chi crede che ne' personaggi grandi e' benefizii nuovi faccino dimenticare le iniure vecchie, s'inganna», e chi tutte queste cose trascura «è cagione dell'ultima ruina sua». Veltroni, nonostante l'originario, straordinario carisma (era l'uomo della provvidenza, e la cosa era fondata), o forse proprio abbacinato da esso, queste cose le ha dimenticate, e uomo di buona cultura com'è, questo è imperdonabile: ho sempre pensato che, chiunque governa, debba tenere il "Principe" sul comodino, c'è praticamente tutto.
Walter Veltroni non ha governato, dall'anno e mezzo in cui «con poca fatica» diventò "principe". Non ha provato a spegnere (o vezzeggiare: è meglio, in democrazia) i capi, e a ridurre li partigiani loro «amici sua». Né spento né vezzeggiato, né guadagnato né perduto, e intorno ci si è divisi fra deboli promossi dell'ultima ora e forti che covavano nell'ombra.
Fra queste cose, a far da baluardo, non sono state collocate le idee (com'è possibile questa sottovalutazione? Qui veramente l'interrogativo è senza risposta) che dovevano nascere da un confronto senza rete, forse vincente, nonostante le sconfitte elettorali peraltro prevedibili e dunque in qualche misura digeribili.
Le idee avrebbero potuto trasformare i nemici in correnti politiche costringendoli a questo passaggio democratico, e rendere trasparente e non da congiura e rissa continua la vita interna del partito. Invece, in mancanza di idee, le vecchie oligarchie hanno tenuto in pugno quella piccola, esigua forma che si chiama Pd. È vero che Walter ha avuto tanto da fare, e soprattutto, lo si diceva, sconfitte da gestire, il che rendeva tutto più improbabile e difficile; ma ti ritrovi, per forza di cose, con il risultato presente, se ad esse aggiungi il non-governo, la mancata costruzione dei fondamenti, l'assenza devastante di idee, il non aver provato a ridurre, con la forza di una situazione originariamente carismatica, la potenza dei tuoi nemici che sono stati «cagione dell'ultima ruina sua», e ne hanno preparata scientificamente le cadenze. Il Pd, in realtà, non è mai esistito e Veltroni non ha fatto nulla perché esistesse, mi sembra che questa sia la sua principale responsabilità politica. Ed esser segretari di ciò che non esiste, è cosa di alta improbabilità, per quanto virtuale sia diventato il mondo, e leggere ed aeree siano diventate le idee. Peccato, perché Veltroni era la personalità politica che più di ogni altra poteva fare il tentativo. E l'andar da soli era stata prova di grande virtù politica, sia pure con l'imperdonabile scivolata sulla buccia di banana dipietresca.
Ora, il rischio è enorme. Forse mai la sinistra italiana ha vissuto un momento simile, che però sembra sgorgare dalla storia di questi anni, e proprio da una carenza profonda di coscienza storica, che sta avvitando la sua vicenda nel nulla. Rischio grande, per il centrosinistra e per l'Italia. Ed è sull'Italia che è necessario riflettere. L'implosione del Pd potrebbe mettere in discussione il bipolarismo politico che dovevamo a Berlusconi e a Veltroni. Alleati, contro questo fronte, Casini e D'Alema. E immaginare il ritorno in campo di tutto quel mondo di frammenti e scaglie e scorie che il Pd aveva gettato in archivio - ma la storia lo aveva già fatto per conto suo - fa letteralmente rabbrividire per il destino del paese. Che fare? Che sperare? Primo: che la crisi del Pd non faciliti quella del Pdl. Può sembrare paradossale, ma è proprio così: se nasce il Pdl sarà più difficile l'implosione del Pd, e se implode il Pd sarà più difficile la nascita del Pdl. È la legge della dialettica, spesso dimenticata. Ci si metta, dunque, a tifare per la costituzione del Pdl che non mi pare peraltro seriamente in discussione. Secondo: andare a un congresso di idee, di aperta battaglia culturale e politica per poter legittimare lo stare insieme e capire anche i confini di questa possibilità. La politica è rischio, ma i sepolcri imbiancati che vengono da partiti dove il rischio era abolito - come dire? - dalla cooptazione, questo lo hanno dimenticato. Oggi la realtà impone le sue leggi, e aggirarle ancora una volta sarebbe la rappresentazione della rovina finale.

il Riformista 19.2.09
Che cosa vuol dire sinistra?
In Francia non lo sanno più
di Luca Sebastiani


Parigi. «Veda, non credo che si tratti di un problema solo italiano o della sinistra italiana. Credo piuttosto che sia una questione più ampia, che concerne l'insieme della socialdemocrazia e della sinistra riformista europea, che ancora oggi non è in grado di presentarsi come una vera e credibile alternativa di governo». Gérard Grunberg, direttore del Centro di ricerche politiche di Science Po a Parigi, e analista del socialismo europeo, non ha dubbi. L'ennesima sconfitta elettorale della sinistra italiana che ha portato alle dimissioni del segretario del Pd Walter Veltroni, va inquadrata nella crisi più ampia della sinistra del Vecchio continente, ancora «in cerca di un'identità positiva» da quando è caduto il Muro di Berlino. «Guardi qui in Francia, dove da molto tempo il Partito socialista non è che un partito che cerca di caratterizzarsi come anti-destra, senza una visione del mondo chiara e un programma definito che vada al di là dell'eterno quanto vago ritornello del volontarismo sociale e del rilancio attraverso il consumo».
La crisi economica non porta con sé un vantaggio politico per la sinistra?
Non per adesso, anzi. La sinistra da voi ha imboccato da tempo la strada riformista, mentre in Francia il Ps ha sempre esitato. Si stava orientando in questa direzione con la nuova Dichiarazione di principi, ma la mia sensazione è che la crisi ha completamente trasformato il paesaggio ideologico a sinistra. I socialisti sono tornati a fare un discorso esclusivamente antimercato e sono scesi in piazza seguendo il movimento sociale condotto dai sindacati. Prima difendevano il mercato e oggi lo criticano solamente. Si sono posizionati più a sinistra con l'idea che questo spostamento possa pagare in termini elettorali e di popolarità. Ma i sondaggi mostrano che agli occhi dei francesi la sinistra non costituisce in questo momento un'alternativa credibile alla destra.
E in Europa?
Sono stato sorpreso, ultimamente, dalla lettura del programma del Pse, che sembra piuttosto a sinistra. In fondo la linea non è molto differente da quella francese che consiste nel cercare di creare una contrapposizione destra-sinistra sul tema del mercato. Eppure non sembra che i partiti della sinistra europea se la stiano passando bene. In Germania la Spd è in difficoltà. In Italia idem. In Gran Bretagna i laburisti hanno tanti di quei guai che è molto probabile che alle prossime elezioni vincano i conservatori. Anche in Spagna i socialisti hanno mesi difficili davanti. Non si ha proprio l'impressione che la sinistra possa convincere gli europei che con loro al governo la crisi sarà gestita meglio. Credo che ci sia un problema di definizione generale di che cose sia la sinistra.
Eppure neanche la destra sembra attrezzata di strumenti coerenti di fronte alla crisi.
È vero, la crisi compromette anche la destra, perché il liberalismo è visto come la causa della rovina economica attuale. Solo che la destra può rispondere meglio alla paura della gente, sia in termini di sicurezza che di protezione nazionale e protezionismo. Spesso anche la sinistra è tentata da questo discorso, ma per lei è ben più complicato.
Ségolène Royal si era avventurata su questo terreno. Rappresenta ancora una possibilità per la sinistra francese?
Il suo discorso oggi è molto confuso e faccio fatica a ritrovare quegli elementi di novità che aveva due anni fa. Il problema vero è che tra i socialisti francesi non ci sono personalità che possano presentarsi di fronte a Sarkozy, nonostante sia lui stesso indebolito dalla crisi.

l’Unità 19.2.09
La Loggia P2 e la memoria dei ragazzi
di Maurizio Chierici


Proprio quando il suo piano pare realizzarsi nessuno parla più della loggia di Gelli
Ma dei giovani hanno cominciato a studiarla

Le città perdono la memoria che distingueva le passioni di chi le abitava: immense periferie omogeneizzate dal pensiero unico Tv. E i ragazzi cominciano a non capire. Perché rimpastare la Costituzione e svuotare le alte corti e sfidare il Capo dello Stato? Cosa serve incatenare la magistratura? Malgrado l'apparenza, Berlusconi non sta inventando niente: è solo il copista scrupoloso del programma disegnato trent'anni fa da Licio Gelli, maestro della loggia segreta P2.
Piano Rinascita. I nuovi elettori non sanno cos'è. La P2 ha avvelenato l'Italia eppure nessuno ne vuol parlare. I licei la trascurano, per il cinema è un thrilling pericoloso: meglio lasciar perdere mentre i poteri decidono il futuro. Mai un'inchiesta a puntate, o un film alla Oliver Stone o un giorno della memoria come per le foibe di Tito e Mussolini. Quel giorno potrebbe essere il 17 marzo perché il 17 marzo 1981 i carabinieri scoprono nella cassaforte di Gelli i documenti di una banda segreta e un elenco di nomi, 962, ma la numerazione fa capire che mancano 1559 affiliati, facce importanti anche se i notabili rivelati non sono niente male: generali, ministri, onorevoli, banchieri. Controllano Tv, ministri, case editrici. Tanti giornalisti, soprattutto del Corriere della Sera. Berlusconi è il numero due del settore informazione. Scrive per il Corriere fondini da seconda pagina. E sul Corriere Gelli annuncia il futuro. Interviste blindate: proibito tagliare una virgola. E appunti quotidiani che arrivano all'amministratore delegato Bruno Tassan Din, gerarca P2. Ordina a chi di dovere: articolo per domani. Piduisti sugli altari ma altri vengono suicidati: Sindona, Calvi, Pecorelli.
Poi Gelli scappa con baffi finti, arrestato, torna libero: «gravemente malato di cuore». Trentacinque anni dopo la salute è di ferro. Nessun osa sfiorarlo. I suoi segreti possono travolgere la politica mentre il Piano Rinascita diventa programma di governo: Berlusconi, presidente, I ragazzi crescono con questo vuoto alle spalle com'erano cresciuti i ragazzi cileni: solo nel declino di Pinochet imparano l'orribile storia. «Quando ho scoperto cos'era la P2, chi erano i protagonisti e cosa sono diventati, è finita la mia adolescenza ed é cominciata una complicata maturità». Gianluca Grassi, studente lavoratore di Reggio Emilia, sta scrivendo la tesi che insegue le fortune dei signori passati a fil di spada dal maestro venerabile. «Un pugno allo stomaco». Compagni di studio mai illuminati su quel P e quel 2. Pensano a un dentifricio o alla pistola ultima generazione. «Assieme a loro mi sono sentito preso in giro dalla scuola, dai politici, dal silenzio dei giornali. Sorridono: storie del passato. Se fossero del passato se ne potrebbe parlare liberamente. Invece, silenzio, perché i protagonisti di ieri in buona parte restano protagonisti di oggi».
Gelli programmava una Tv privata più importante della Tv di Stato; mani sui giornali «per far pensare alla gente ciò che noi vogliamo. Nuove generazioni con le nostre idee». Fiori di plastica affidati alla pedagogia degli allievi del Maestro. Proibito ricordare. Parlando di quando scriveva per il Corriere, Vittorio Feltri confessa su Libero il rimpianto per Bruno Tassan Din: «Lo stimavo». E la P2? «Una bufala». A parte condanne e galera, Tassan Din nascondeva nelle banche di paesi lontani i tesori spariti dalla Rizzoli. Milioni di dollari, Banco Andino, Montevideo: finanziava le squadre della morte delle dittature dei generali con tessera P2, 30 mila ragazzi spariti solo in Argentina. La villa uruguayana di Tassan Din allungava i suoi giardini attorno alle ville di Gelli e di Ortolani, ministro delle finanze P2. Ma era anche il buen retiro di un ministro in divisa passato alla storia per i prigionieri svaniti nelle prigioni di Stato. Vicini di casa non immacolati anche in Italia. Accanto alle aiuole di Tassan Din, Costa degli Dei calabrese, piedi dell'Aspromonte, negli anni '70 (anni del trionfo P2) mafia e ‘ndrangheta s’incontravano. Riunioni nella villa Spagnola, antica proprietà del principe golpista Julio Valerio Borghese. Arriva clandestino Stefano Delle Chiaie, Avanguardia Nazionale, intoccabile all'ombra di Pinochet. Incontra mafiosi ma anche i generali Maletti e Miceli (P2), Lino Salvini, fiduciario di Gelli e le facce senza nome dei padrini. Tassan Din non appare fra gli ospiti, dorme lì accanto. Avrà offerto almeno un tè ai confratelli della loggia. Passano gli anni e si fa autorevolmente sapere «io stimavo Tassan Din». Poveri ragazzi 2000 che invecchiano inconsapevoli e tranquilli.

l’Unità 19.2.09
Eluana: ma che c’entra l’eutanasia
di Vittorio Angiolini, professore di diritto costituzionale


Moderiamo il linguaggio. In tanti Paesi dell’Europa e dell’Occidente ciò che i Giudici hanno autorizzato per Eluana Englaro, non è considerato eutanasia, bensì interruzione dei trattamenti di cura invasivi dell’altrui persona, i quali, se possono essere rifiutati da chi è in grado di opporsi consapevolmente, non possono essere praticati ad oltranza su chi, incapace di autodeterminarsi, è più bisognoso di tutela.
Questo distinguo giuridico è talora liquidato come sofisma. L’interrompere la nutrizione di Eluana Englaro è stato da taluni paragonato a una iniezione letale, sulla premessa, in apparenza limpida, che occorra incondizionatamente aiutare ed essere solidali. Ma la distinzione tra l’uccidere, anche di “buona morte”, e l’interrompere la cura ha, in diritto, solide basi. Al contrario dell’eutanasia come “suicidio assistito” (ammessa in quanto tale, ad esempio, in Belgio e in Olanda), l’interruzione di trattamenti anche di sostegno vitale non comporta che il medico sia chiamato a provocare la morte, ma semmai sottolinea che le sue competenze non possono dargli titolo per intromettersi nella sfera altrui. È stato sostenuto, anche per Eluana Englaro, che l’interruzione dei trattamenti sarebbe stata contraria a prudenza, per il carattere sempre perfettibile della verità scientifica; e si è dimenticato, però, che nutrendola senza esserne richiesti, i medici l’hanno costretta a vivere per lungo tempo in una condizione disperata. La questione è se, nel dubitare, si debba assumere il punto di vista del medico curante oppure, come parrebbe più congruo, quello del paziente. Il punto di vista del medico curante, in nome della precauzione, ci fa correre il rischio di trasformare l’uomo di scienza in un essere sovrumano, chiamato a prendere sulla vita di un altro decisioni non sostenute dal suo sapere scientifico. Quando, come nel caso di Eluana Englaro, la scienza non dimostri di poter corrispondere alle esigenze di chi dovrebbe essere curato, il consegnare la decisione sul da farsi al medico significa dare al medico stesso, come uomo tra altri uomini, il pre-potere di decidere, senza ragione, sulla sorte e sulla vita altrui. Il limite alla cura, e dunque l’interruzione di trattamenti anche di sostegno vitale, vanno stabiliti per lo stesso motivo per cui si reputa di dover vietare l’“eutanasia”. L’obiettivo è scongiurare che un uomo, qualsiasi uomo, con l’intento genuino di salvare si arroghi un potere arbitrario sulla vita di altre persone. Nel respingere la “cultura dell’abbandono” e nell’essere solidali, bisogna rendersi conto che la forma in apparenza più avanzata di solidarietà, tradotta in divieto assoluto di dismettere la cura, può finire per confondere la stessa cura dell’altro con l’opprimerne la personalità, la libertà individuale con il potere oppressivo della stessa, la decisione scientifica con la rivendicazione di onnipotenza.

Repubblica 19.2.09
Prof toglie il crocifisso dalla classe gli studenti lo denunciano: sospeso
di Salvo Intravaia


TERNI - Staccare il crocifisso dal muro durante la lezione può costare un mese di sospensione dal servizio. È questa la sanzione disciplinare cui potrebbe andare incontro Franco Coppoli, insegnante di Italiano e Storia all´istituto superiore Casagrande di Terni. La vicenda inizia lo scorso mese di settembre, quando Coppoli si trasferisce da Bologna a Terni.
Il docente, «rivendicando la libertà di non fare lezione sotto un simbolo di una specifica confessione religiosa appeso dietro la cattedra, invocando la libertà di insegnamento, la libertà religiosa e la laicità dello Stato e della scuola pubblica previste dagli articoli costituzionali», decide di staccare il crocifisso dalla parete durante le sue lezioni.
All´inizio la cosa non sembra creare problemi, ma dopo qualche settimana gli studenti si riuniscono in assemblea e "a maggioranza", ci tiene a sottolineare Coppoli, decidono che nelle classi il simbolo religioso va alla parete e denunciano l´episodio.
Ma il professore non si arrende e, durante le lezioni di Italiano, continua a staccare dal muro il crocifisso per riappenderlo prima di uscire dalla classe. A questo punto interviene il preside, Giuseppe Metastasio, che intima al professore di non rimuovere il crocifisso. E di fronte all´ennesimo rifiuto lo denuncia al Consiglio nazionale della pubblica istruzione (Cnpi), che lo ha ascoltato lo scorso 11 febbraio, proponendo la sospensione dal servizio, e dallo stipendio per un mese.
La patata bollente passa ora nelle mani del direttore dell´Ufficio scolastico regionale dell´Umbria, Nicola Rossi, che dovrà irrogare l´eventuale sanzione. «È un fatto gravissimo � commenta Piero Bernocchi, dei Cobas della scuola che hanno difeso il docente � Il Cnpi � continua Bernocchi � si è dimostrato più reazionario della magistratura che ha recentemente assolto il giudice che si rifiutò di fare udienza col crocifisso in aula».

Repubblica 19.2.09
Della Robbia, la magia della nuova arte
di Paolo Vagheggi


Sabato 21 febbraio apre ad Arezzo una rassegna su una delle famiglie più importanti di scultori e ceramisti. Le loro opere realizzate tra ´400 e ´500 sono messe a confronto con quelle dei protagonisti assoluti del tempo da Donatello al Perugino, da Lippi a Leonardo

AREZZO. Il Medioevo, il Rinascimento e le maioliche di Pablo Picasso. E i Della Robbia. Non v´è dubbio che senza i Della Robbia il contemporaneo in questo particolare settore avrebbe avuto una storia assai diversa, a cominciare da quella di Picasso.
I Della Robbia furono, tra il XV e il XVI secolo, una delle famiglie più celebri e importanti di scultori e ceramisti, fiorentina d´origine, celebrata dall´aretino Giorgio Vasari nelle sue Vite. Ed è proprio Arezzo, con una mostra allestita nelle sale del Museo statale d´arte medievale e moderna da sabato 21 febbraio al 7 giugno 2009, che ora ricostruisce la loro operosa e splendida attività, dai primi decenni del Quattrocento fin ben oltre la seconda metà del Cinquecento. Sono più di cento anni che segnarono in modo indelebile tutta la moderna cultura occidentale come ricorda il titolo dell´esposizione, "I Della Robbia. Il dialogo tra le arti nel Rinascimento", che vuol evidenziare gli intrecci, le relazioni che connotarono l´età rinascimentale. Per questo i fulminanti capolavori dei Della Robbia, le straordinarie realizzazioni di Luca, Andrea, Giovanni e Girolamo, sono a confronto con le opere dei protagonisti assoluti del tempo: Donatello, Ghiberti, Verrocchio, Rossellino, Pisanello, Filippo Lippi, Pollaiolo, Ghirlandaio, Perugino, Leonardo, Domenico Veneziano, Sansovino...
E´ questo il viaggio che presenta la mostra curata da Giancarlo Gentilini e da Liletta Fornasari, che ha come punto di partenza l´esperienza di Luca Della Robbia (Firenze 1400-1482), con i suoi bianchi specchianti, il verde dei festoni, gli azzurri celestiali, il giallo dei limoni, celebrato da Leon Battista Alberti tra i padri della Rinascita poiché nella sue innovative "sculture e pitture invetriate" si rivelò capace di far convergere e declinare varie forme d´arte.
La scultura in terracotta invetriata rappresentò nella produzione artistica dell´epoca un´innovazione fondamentale e una sorpresa per un pubblico abituato a opere in marmo, pietra, legno. Fu un´idea geniale. Consisteva e consiste nell´applicare alla scultura monumentale fittile il rivestimento di smalto tannifero della maiolica, solidificato in seconda cottura e colorato con ossidi metallici. Fu Luca che si applicò, con successo, in questa ricerca. Ricorda il Vasari che «andò tanto ghiribizzando... per che dopo aver molte cose sperimentato trovò che il dar loro una copertura d´invetriato addosso, fatto con stagno, terra ghetta, antimonio et altri minerali e misture, cotte al fuoco d´una fornace...».
Fu una vera invenzione, "un´arte nuova, utile e bellissima". Il successo presso le corti e gli aristocratici collezionisti di tutta Europa fu eccezionale, le commissioni enormi, la concorrenza e la rivalità tra artisti e botteghe fortissima. Anche per questo la formula della terracotta invetriata restò a lungo segreta. I Della Robbia la nascosero gelosamente non lasciando alcuna indicazione o appunto su metodi e procedimenti tecnici da seguire. La leggenda narra che la "magica ricetta" passò nelle mani di Benedetto Buglioni grazie a una donna di casa Della Robbia e che così si sfatò il misterioso arcano. Cominciò una vera e propria produzione di massa tanto che sul finire del Quattrocento Andrea "industrializzò" le opere facendogli assumere caratteristiche decorative convenzionali. E la stessa strada seguirono i suoi figli, Gerolamo e Giovanni.
Ma il fulgore è quello che fu toccato da Luca e dal nipote Andrea, il primo ben attento alla lezione di Donatello e del Ghiberti, il secondo al Verrocchio. E´ un universo segnato dalla molteplicità dei colori, da effetti sempre felicemente brillanti che riscoprono, in realtà, una tecnica elaborata dalle civiltà orientali, ereditata dal mondo romano e bizantino, e quindi trasmessa per mano degli arabi nelle regioni europee di cultura moresca, poi arrivata fino ai giorni nostri, fino al contemporaneo, a Pablo Picasso, ai cretti di Alberto Burri, alle meraviglie di Lucio Fontana.
Fu Luca a ritrovare questa eccellenza, portandola a livelli eccelsi: la sua fu una nuova arte spesso dalle tonalità sgargianti che colpì profondamente e fece dibattere artisti e scrittori, tanto che l´aretino Vasari si scusò per essersi troppo dilungato con la vita di Luca Della Robbia: «scusimi ognuno, poiché l´aver trovato Luca queste nuove sculture, le quali non ebbero, che si sappia, gl´antichi Romani, richiedeva che, come ho fatto, se ne ragionasse allungo».

Repubblica 19.2.09
Rita Levi Montalcini e i due cervelli
di Paolo Giordano


"Di cervelli ne abbiamo uno arcaico, che non si è più evoluto da tre milioni di anni. E un altro, quello cognitivo, molto più giovane, nato con il linguaggio"

Anticipiamo parte dell´intervista che ha realizzato con Rita Levi Montalcini e che compare su Wired, la rivista americana che da oggi esce in una versione italiana.

Ebri è l´acronimo di «European Brain Research Institute». La brochure della Fondazione riporta il testo a fronte in inglese e un bel ritratto di Rita Levi Montalcini in seconda pagina: una mano nascosta dietro la nuca e niente orecchini. Un accenno di sorriso, o forse no. L´ho studiata a lungo senza decidermi.
Dice: «Nel 2001 ho avuto quest´idea. Mi sono chiesta: in che cosa l´Italia ha sempre primeggiato? Nelle neuroscienze. Nel Settecento Galvani e Volta scoprirono l´elettricità animale; a fine Ottocento Golgi inventò la colorazione con l´argento delle cellule nervose; Vittorio Erspamer riuscì a isolare la serotonina e altri neurotrasmettitori e Giuseppe Levi, il mio professore, fu tra i primi a sperimentare la coltura in vitro».
RLM – aggiungo io – ha scovato il Nerve Growth Factor (Ngf), per il quale ha preso il Nobel nel 1986. Dice: «Allora perché non fondare un istituto per le neuroscienze? La cosa ha preso fuoco. Tutte le regioni italiane si sono candidate e alla fine l´ha spuntata Roma, perché aveva a disposizione la struttura adatta».
L´Ebri è un ente senza scopo di lucro. Uguale: è sempre con l´acqua alla gola. Al fondo della brochure trovo gli estremi per le donazioni a sostegno e le istruzioni per devolvere il 5 per mille. Nel 2007 la Lega Nord ha proposto un emendamento alla finanziaria per tagliare i fondi all´Ebri. RLM, senatrice a vita, ha scelto di non votare per conflitto d´interessi. Dice: «Con l´Ebri stiamo ottenendo ottimi risultati. È un centro internazionale, libero dalle logiche che regolano gran parte della ricerca in Italia. Assumiamo solo ottimi ricercatori». L´emendamento della Lega è stato respinto. (...)
RLM sta scrivendo un nuovo libro. E questa è la prima sorpresa. Diamo per scontato che a cento anni ci si porti addosso più passato che futuro, ma la Professoressa non comincia dalla guerra, o dal Nobel o dal suo soggiorno statunitense: comincia dal libro che sta scrivendo. Dice: «Non so se piacerà agli altri quanto piace a me. Te lo racconto brevemente. Quello che in molti ignorano è che il nostro cervello è fatto di due cervelli. Un cervello arcaico, limbico, localizzato nell´ippocampo, che non si è praticamente evoluto da tre milioni di anni fa a oggi, e non differisce molto tra l´homo sapiens e i mammiferi inferiori. Un cervello piccolo, ma che possiede una forza straordinaria. Controlla tutte quelle che sono le emozioni. Ha salvato l´australopiteco quando è sceso dagli alberi, permettendogli di fare fronte alla ferocia dell´ambiente e degli aggressori. L´altro cervello è quello cognitivo, molto più giovane. È nato con il linguaggio e in 150.000 anni ha vissuto uno sviluppo straordinario, specialmente grazie alla cultura. Si trova nella neo-corteccia. Purtroppo, buona parte del nostro comportamento è ancora guidata dal cervello arcaico. Tutte le grandi tragedie – la Shoah, le guerre, il nazismo, il razzismo – sono dovute alla prevalenza della componente emotiva su quella cognitiva. E il cervello arcaico è così abile da indurci a pensare che tutto questo sia controllato dal nostro pensiero, quando non è così». (...)
RLM fatica a vedere – è l´età –, ma mentre parla ti guarda sempre. Sbatte le palpebre a una frequenza che è la metà, forse un terzo della mia, come se il suo tempo scorresse un po´ più lento. «Il cervello arcaico ha salvato l´australopiteco, ma porterà l´homo sapiens all´estinzione. La scienza ha messo in mano all´uomo potenti armi di distruzione. La fine è già alla portata».
È seduta composta. Indossa un abito dei suoi, elegante, completamente nero, che scende fino alle caviglie. Le spalline sporgenti sembrano mimare l´acconciatura ondulata dei capelli, divisi in due emisferi. Al centro del petto una complicata spilla d´oro. Impossibile non crederle mentre predice la fine.
Supponiamo che tutto vada bene e che per un po´ non ci estinguiamo, – provo ad approfondire – cosa arriva dopo l´homo sapiens? Ma RLM si ritrae: «Non sono una futurologa. Posso solo vedere quello che capita oggi. Il passato lo conosco. Il futuro... speriamo». Poi fa una pausa. Si sporge verso di me: «Paolo, come vedi il tuo futuro? (...) Bisognerebbe spiegarlo ai giovani, dei due cervelli. I giovani di oggi si illudono di essere pensanti. Il linguaggio e la comunicazione danno loro l´illusione di stare ragionando. Ma il cervello arcaico, maligno, è anche molto astuto e maschera la propria azione dietro il linguaggio, mimando quella del cervello cognitivo. Bisognerebbe spiegarglielo». Lei ha idea... RLM: «Paolo, dammi del tu. Altrimenti...». Tentenno. Riparto.
Tu hai idea del perché i giovani oggi avvertano un così forte senso di minaccia riguardo al futuro? RLM: «Più che una minaccia, avvertono la precarietà in tutto. C´è una difficoltà nel rendersi conto che il nostro comportamento è molto complesso, che il cervello è fatto di tante componenti. E c´è una difficoltà nel vedere in ogni catastrofe la possibilità di un rovesciamento. Forse io sono un´innata ottimista, ma penso che ci sia sempre qualcosa che ci salva. Le leggi razziali (nel 1938, ndr) si sono rivelate la mia fortuna, perché mi hanno obbligata a costruirmi un laboratorio in camera da letto, dove ho cominciato le ricerche che mi hanno in seguito portato alla scoperta dell´Ngf». (...)
L´età, gli impegni e anche i grandi riconoscimenti non hanno un po´ affievolito la tua fame di scoperta?» RLM: «Al contrario. L´hanno accresciuta. Io ho ottimi rapporti con le giovani che lavorano qui, perché sentono che posso aggiungere qualcosa che manca alla loro formazione: l´intuito». Com´è la vita a cento anni? RLM: «Ho perso un po´ la vista, molto l´udito. Alle conferenze non vedo le proiezioni e non sento bene. Ma penso più adesso di quando avevo vent´anni. Il corpo faccia quello che vuole. Io non sono il corpo: io sono la mente» E quando muore il corpo? RLM: «Sopravvive quello che hai fatto. Il messaggio che hai dato». Pausa. RLM: «Paolo, come vedi il tuo futuro?» Io: «...»
Volevo ancora chiederti dei vestiti. Dove prendi gli abiti eleganti che indossi sempre? RLM: «È un lato debole della mia personalità. Non ho mai tentato di camuffare gli anni: le rughe ci sono e non le nascondo. Ma mi è rimasta questa piccola forma di vanità. Ne soffro, a volte». Arrossisce appena. Potrei giurarlo.

Corriere della Sera 19.2.09
Turismo sessuale in crescita. Nuova meta: Europa dell'Est
Dieci milioni di bambini sfruttati
di Ga. Ja.


Le cifre. Il giro d'affari è di 250 miliardi. E sono ottantamila gli italiani che ogni anno viaggiano per cercare incontri con minori
La rotta. Nelle stazioni di servizio delle autostrade della Repubblica Ceca ci sono ragazzini «offerti» anche per 5 euro

Nove milioni di bambine, un milione di ragazzini. Un giro d'affari da 250 miliardi. Ottantamila viaggiatori — giovani, colti, reddito medio — che ogni anno lasciano l'Italia (salda in testa alle classifiche dei predatori) a caccia di sesso proibito. Cifre così enormi da sembrare inventate. Invece sono i dati del nuovo rapporto che oggi Ecpat Italia presenterà alla Bit, la Borsa internazionale del turismo di Milano. L'occasione: lanciare una campagna e dare il via, con Astoi (Associazione tour operator italiani), al progetto internazionale Offenders Beware!. «Perché a un anno di distanza, qualcosa è cambiato: i cacciatori si sono fatti furbi. E colpiscono sempre più vicino, anche in Europa».
Marco Scarpati, avvocato e docente universitario, si dedica da anni alla difesa dei diritti dei bambini. È il presidente di Ecpat Italia ( www. ecpat.it),
sezione nazionale di una rete diffusa in 70 Paesi. Scarpati era a Rio, in novembre, per il III Congresso mondiale sullo sfruttamento sessuale dei minori. «E lì si è visto come da parte di alcuni Stati ci sia più attenzione al fenomeno ». Il trend globale, però, sembra ancora in crescita. Scarpati precisa: «Bisogna valutare il rapporto tra numeri "oscuri" e casi venuti allo scoperto. Questi ultimi sì, sono aumentati; portiamo avanti da anni indagini e attività di formazione...». È anche vero, però, che se la rete della giustizia stringe le maglie, i predatori sanno trovare mille scappatoie per scivolare, liberi, in mare aperto.
Perché le strategie si affinano, anche nella scelta dei luoghi. Via dalle rotte tradizionali, verso mete in cui ci siano forze dell'ordine pronte a chiudere un occhio, genitori ignari, albergatori compiacenti. Soprattutto, povertà diffusa.
E l'Europa, da area di provenienza, è diventata terreno di caccia. La Repubblica Ceca, per esempio, «è ormai nota per il numero spaventoso di materiale pedopornografico che arriva in Rete». Qui la mappa della vergogna segue una linea quasi retta, dal confine tedesco fino a Jachymov, passando per Cheb e Karlovy-Vary. Lungo le autostrade E48 ed E49, nelle stazioni di servizio e alle fermate dei bus, le donne esibiscono i propri figli, i protettori gettano sulla strada i ragazzini; «Ce lo segnalano perfino i camionisti...». I clienti: tedeschi e austriaci, italiani, qualche americano. Il prezzo: dai 5 ai 25 euro. «In Russia settentrionale, la situazione è la stessa». San Pietroburgo, Vyborg. Qui la prassi, con i bimbi di strada che vivono stordendosi di droghe, è sesso in cambio di dosi. «E poi, dietro l'angolo, c'è il Marocco: una meta storica, dove i problemi economici si sommano all'intolleranza verso l'omosessualità. Perfino su Facebook
ci sono adolescenti marocchini con foto ammiccanti». E gli orchi ne approfittano.
«Il turista sessuale ormai sa in quali Paesi la polizia fa più accertamenti, e applica un approccio ragionato. Evita gli hotel, magari prende casa; si ferma per mesi, "coltiva" le vittime e le famiglie, rientra in patria solo per il visto. Non più turista, ma "turnista" del sesso. In Thailandia ce ne sono tantissimi ». E chi si è stancato di Pattaya e dintorni, può sempre fare un salto a Bali o in Cambogia, in Vietnam o in Laos (dove Ecpat, a dicembre, ha creato il primo centro per vittime di sfruttamento sessuale); ma anche in Africa, o in America Latina. «Grazie ai sistemi di polizia europea, ora è possibile lavorare sui frequent flyers, cercando di capire perché all'improvviso alcune città diventino "popolari". E si scopre che hanno aperto un hotel condiscendente, un bordello...». Scarpati non fa nomi, «non vogliamo aiutare i sex tourists,
che già sanno passarsi informazioni su canali difficili da intercettare. In alcuni casi, i poliziotti stessi si sono dovuti fingere pedofili».
Ci sono altri numeri, nel rapporto Ecpat, che fanno orrore solo a pensarli. Sono le conseguenze più visibili e strazianti degli abusi commessi da adulti che sfogano sul corpo di chi non sa difendersi il loro desiderio di proibito. Trecentomila nuovi casi di Hiv all'anno. Quattro milioni e mezzo di bambini infettati da Papilloma virus, 500.000 da epatite C, in Paesi dove un attacco di diarrea è spesso fatale. Oltre 2 milioni di aborti. Un milione 640 mila tentativi di suicidio. Due milioni e mezzo di stupri (come se, in questa fiaba nera, ogni rapporto sessuale non fosse di per sé una violenza). Bisognerebbe saper moltiplicare per mille, centomila, un milione il viso dei propri figli, nipoti, fratelli, per comprendere la portata di queste cifre.
In Italia, però, qualcosa si muove. «Molto, per la verità. Il ministro per le Pari opportunità, Mara Carfagna, sta dedicando parecchia attenzione al tema; è stata a Rio con una task force di funzionari e poliziotti. E sta realizzando il piano d'azione su cui ci eravamo impegnati a Stoccolma, nel '96…». C'è, però, un problema. Che va sotto il nome di disegno di legge sulle intercettazioni. Scarpati, avvocato, conosce a memoria gli atti dei processi ai sex tourists.
«E non ricordo un'indagine dove il telefono non sia stato fondamentale. È impossibile aspettare di avere altri elementi per agire. Non stiamo parlando di un furto di mele, ma di bambini: ogni giorno in più è un giorno di morte ». Per questo, le associazioni del settore hanno lanciato «un appello, che consegneremo all'inizio della prossima settimana. Chiunque voglia unirsi, contatti Ecpat. Non è un problema politico; vogliamo solo che sia concesso alla magistratura di mandare in galera i pedofili». Per non far crescere, ancora, le statistiche dell'orrore.

Corriere della Sera 19.2.09
Contestati i ritardi del processo contro i nazisti
Class action su Marzabotto «L'Italia paghi 480 milioni»
I parenti delle vittime: le carte dimenticate in un armadio
In 7 giorni vennero trucidate più di 800 persone. Il fascicolo rimase nascosto per mezzo secolo a Roma
di Marco Imarisio


BOLOGNA — «Tra il 29 settembre e il 5 ottobre del 1944 le prime cinque Compagnie del 16˚ Reparto Esplorante (Aufklahrung Abteilung) della 16ma Panzergranadierdivision Reichsfuhrer SS, giunte sull'acrocoro di Monte Sole realizzarono un massacro di tutta la popolazione civile presente nella suddetta area territoriale ricompresa tra i Comuni di Marzabotto, Monzuno e Grizzana. In soli sette giorni vennero trucidate più di 800 persone». Ci sono anche i dettagli. «Il carattere rituale dell'omicidio di massa si tradusse nell'uccisione di gruppi di bambini sterminati con un colpo alla testa davanti gli occhi della madre, costretta così ad assistere all'uccisione dei propri figli, prima di essere a sua volta uccisa». Gli stupri, l'anziano che non riuscendo a marciare alla stessa velocità delle altre persone rastrellate «veniva gettato vivo in un pagliaio in fiamme».
La giustizia è arrivata tardi, e in versione Bonsai rispetto a quel che era accaduto. Adesso i familiari delle vittime presentano il conto per questo ritardo, e ne quantificano i danni, chiedendo allo Stato 450 milioni di euro. Lo strumento utilizzato dai loro legali per questa sorta di class action è la cosiddetta legge Pinto, che prevede «l'equa riparazione del danno da irragionevole durata del processo». Si fanno forza anche di alcune recenti sentenze della Corte europea, che obbligano l'Italia a conteggiare nella eccessiva lunghezza del procedimento il periodo delle indagini preliminari.
Sessant'anni, per arrivare ad una sentenza. Il processo iniziato a La Spezia nel 2006 e finito nel 2007 ha condannato i pochi carnefici ancora in vita, dimostrando che se non si fosse perso tutto questo tempo, forse sarebbe stato possibile arrivare ad una vera giustizia. Ma prima, il nulla. Un vuoto pneumatico tutt'altro che involontario. Dal 14 agosto 1960, data di una «archiviazione provvisoria » già scandalosa di suo, fino all'agosto 1994, il fascicolo delle indagini sul più grande eccidio compiuto dai tedeschi in Italia rimase chiuso nel famoso armadio della vergogna, due ante rivolte verso il muro in un ufficio della Procura militare di Roma. Nascondevano 695 fascicoli sui crimini compiuti dai tedeschi dall'8 settembre 1943 al 25 aprile 1945.
Venne tenuto nascosto per 50 anni. Ma alla sua apertura, nel 1994, seguì un altro limbo. Solo nel 2002 la Procura militare di La Spezia avviò le indagini.
I familiari delle vittime di Marzabotto hanno presentato quattro ricorsi, due a Bologna e altrettanti a Genova, dopo che la Corte d'Appello di Perugia aveva indicato queste due sedi come competenti a giudicare. I primi riguardano l'armadio della vergogna, gli altri il periodo 1994-2002. Sfogliare il ricorso dei familiari delle vittime è immergersi in una delle più grandi e rimosse ingiustizie italiane. A cominciare dall'abnormità del concetto di «archiviazione provvisoria », privo allora come oggi di cittadinanza nell'ordinamento giuridico italiano. Nel fascicolo su Marzabotto ritrovato nel 1994 c'era davvero tutto. «Va rilevato che agli atti vi erano elementi descrittivi assolutamente idonei ad individuare i componenti delle quattro Compagnie che avevano eseguito il massacro». Nonostante questo, «nessuna investigazione veniva posta in essere», si legge nel ricorso. Ma anche dopo il ritrovamento, fino all'aprile 2002 «pressoché nulla fu fatto dagli organi inquirenti territorialmente competenti a cui era stato trasmesso il fascicolo ». Lo Stato è tenuto a rispondere di questo insabbiamento, sostengono gli autori del ricorso. I responsabili furono individuati in magistrati e funzionari della Procura generale militare, dipendenti dal ministero della Difesa, che ora viene chiamato a rispondere in solido. E non si tratta di bruscolini. Le tabelle della legge Pinto fissano il risarcimento del danno per la violazione della durata ragionevole del processo in 1.500 euro al giorno. Moltiplicato per 50 anni e per 120 famiglie che hanno fatto ricorso, si arriva a 9 milioni di euro. Ma l'uccisione di 800 persone, tra i quali 316 donne e 216 bambini di età inferiore ai 12 anni, «importa astrattamente il diritto dei congiunti al risarcimento del danno non patrimoniale per la loro morte, il danno da lesione del rapporto parentale, quello che qualcuno chiama esistenziale, così come riconosciuto dalla Corte di Cassazione ». In cifre, fanno 480 milioni di Euro, somma che i pochi ex nazisti condannati nel 2007 mai potranno rifondere. Ma nel 1960 sarebbe stato ancora possibile identificare tutti i 360 soldati responsabili dell'eccidio. Non averlo fatto, è colpa che per i 270 ricorrenti ricade sullo Stato. La prima udienza si terrà domani presso la Corte d'Appello del tribunale civile di Bologna.
«Quello che ci importa è far capire. Il dolore, la vita cancellata da una intera comunità, il senso di abbandono per una giustizia mai arrivata. Chiediamo che lo Stato si assuma la sua responsabilità, e spieghi davvero perché quelle indagini vennero insabbiate. Non vogliamo denaro, ma chiarezza e rispetto», così parla Valter Cardi, presidente dell'associazione delle vittime. A Marzabotto perse dieci familiari. Porta lo stesso nome di suo cugino, che aveva 15 giorni. Lo lanciarono in aria, e poi spararono.

mercoledì 18 febbraio 2009

Repubblica 18.2.09
Presi d'assalto siti e blog di area. Il coro è unanime: ora facce nuove e opposizione dura
Dalla base sale un urlo sul web "Adesso via tutta la nomenklatura"
di Alessandra Longo


ROMA - Via tutti, via Veltroni, ma anche, come direbbe Crozza, per l´ultima volta, via tutti gli altri. Via Bersani, via Fioroni, via D´Alema, via Rutelli, via Soro, via Letta, via Latorre e persino i meno visibili Carra e D´Ubaldo... Via «le compagnie brutte», via «tutta la classe dirigente che nasce dal ventre del vecchio Pci», via «i pericolosi ipocriti doppiogiochisti», via «quelli che trattano il Vaticano non come uno Stato estero ma come il consigliere privilegiato», via la «Binetti che ascolta Radio Vaticana prima di votare», via «la nomenklatura arroccata nella torre d´avorio», «via quelli che anche quando cadono per terra, poi c´è sempre uno champagne, una prima all´opera, un vernissage che li aspetta».
Un grido collettivo, un´onda inarrestabile di emozioni, quella del dopo-Veltroni. La delusione, la rabbia, la voglia di reagire, prendono forma nelle migliaia di messaggi che intasano i siti online dell´Unità, di Repubblica, degli altri indirizzi web occupati da una sinistra travolta dalla sconfitta bruciante di Soru e poi da quel «me ne vado» senz´appello del leader. Cambia tutto, all´improvviso. Ed ecco che la reazione di molti, della maggioranza, prende la strada rancorosa, livida, della ribellione nei confronti di un establishment di partito, vissuto come «casta».
Messa così, non basta, non sazia, la testa caduta di Veltroni. Della vecchia guardia non si salva nessuno, chi stava in prima fila e chi in seconda, chi si opponeva e chi era organico al progetto. «Vorrei che se ne andassero tutti gli apparatnik, gli uomini di corridoio, i lecchini, i rutelli e i rutellini, i faziosi, i moralisti cattopapisti, gli arrivisti, i terzomondisti, i precisini, i benaltristi, i sempresentisti, gli entusiasti di ogni cambiamento». E´ la furia del cupio dissolvi. Il segnale che gli elettori del Pd vogliono girare pagina, anche brutalmente. Non vedevano l´ora di dirlo, di urlarlo: «Qui è un´intera classe dirigente che ha fallito! Invece di creare una scuola quadri, di promuovere facce nuove, i soliti hanno lottato per le poltrone. Veltroni ha solo accelerato il processo con la sua linea morbida...». Veltroni che lascia, Veltroni che passa dal «Yes we can, al Yes I go». Veltroni che qualche militante ostile, già non rimpiange: «Era ora, è la prima cosa buona che fa, ma troppo tardi». Però anche Veltroni che distrugge un sogno: «Grazie Walter, gentiluomo tra gli sciacalli, con te finisce la mia storia politica ed elettorale».
Fa impressione leggere in sequenza gli sfoghi, gli sbandamenti. E´ una base sofferente, mai più disposta ad illudersi: «A questo punto l´intera classe dirigente dovrebbe riflettere sullo stato del Partito. Il problema non è un semplice cambio di leadership. Abbiamo bisogno di una nuova sintesi che provenga da un´altra generazione». Aria nuova, dunque, «volti nuovi, idee fresche, opposizione dura»: «Facciamo la lista di quelli che se ne devono andare, tutti quelli che hanno trasformato il sogno in un incubo. Se si vogliono migliorare le cose va cambiato l´intero gruppo dirigente, vanno allontanate le cariatidi, si dimettano la direzione e il governo ombra o io non voterò più».
Quasi mille messaggi solo all´Unità e l´aria che tira è principalmente questa: Veltroni è stato troppo «soft» contro il Caimano, è stato travolto dal suo «maanchismo che in politica non paga», aveva «i capibastone che gli remavano contro», ma nessuno pensi di rimpiazzarlo con i soliti o il Pd, che adesso è «ircocervo», diventerà un guscio vuoto. «Bye bye Walter, non è l´epoca giusta per te. Adesso nuovo segretario, nuova linea politica». La rabbia per la sconfitta che brucia trasformata in opportunità: «E´ questa l´occasione per fare piazza pulita della nostra parte di casta». S´infila nella discussione online anche il giovane deputato Andrea Sarubbi: «Sono spaesato, mi ha voluto Walter, su suggerimento di Rutelli, è la prima volta che mi capita nella vita... Ma so che adesso bisogna avere coraggio, non aggrapparsi alle figure di garanzia, ad una classe dirigente nata quattro partiti fa». Modello Renzi, modello Bersani, i germi di una prossima divisione.
Tra tanto furore, note di tristezza: «Povera sinistra italiana, mi manca... Ma chi sono oggi gli italiani di sinistra? Cosa hanno in testa? Cosa vogliono veramente? Forse è tutto finito... Lo confesso: ho paura».

Repubblica 18.2.09
"Il ko è colpa di un partito che non c´è" Soru attacca e guarda alla sfida nel Pd
Nell´isola il Pd è crollato al 24 per cento, perdendo soprattutto nelle città e sulle coste
di Umberto Rosso


CAGLIARI - Lascia o raddoppia dopo la stangata elettorale? E´ cominciato un lungo day after per Renato Soru, con lo tsumani che dalla Sardegna travolge anche Veltroni, e la coda di queste elezioni che sembra non voler finire mai: tutti i voti in tribunale, gli scrutini non si sono conclusi entro le 24 ore e adesso appunto saranno i giudici a concludere lo spoglio, non si sa bene quando. Il grande sconfitto comincia dunque a guardarsi attorno, e intanto mette un grande imputato sul banco degli accusati: il Pd dell´isola, crollato al 24 per cento, che ha sparato anche raffiche di fuoco amico contro Soru ma che soprattutto «è un partito che non c´è - ha spiegato l´ex governatore - e che adesso va assolutamente ricostruito».
Un compito arduo per il commissario veltroniano Achille Passoni, che dopo la batosta si prepara a passare la mano a nuovi organismi che dovrebbero rinascere al più presto, «ma - ammette - non sarà una passeggiata dopo una sconfitta che nessuno si immaginava tanto pesante». L´ex presidente non fa dichiarazioni e s´interroga sul futuro ma intanto alcuni uomini della sua squadra hanno già le idee chiare. E hanno fatto partire il pressing. «Renato, soprattutto ora che Veltroni ha rassegnato le dimissioni, non puoi restare alla finestra: devi entrare nel dibattito nazionale che si è aperto nel Pd». Consigliano perciò di prendere parte al «confronto», suggeriscono di allargare l´orizzonte della «partecipazione» da Cagliari alla capitale. Vietato tradurre tutto e subito in «candidatura», in corsa alla segreteria, parola tabù.
Ma Soru sembrerebbe sintonizzato su un´altra lunghezza d´onda.
Altro che Roma. Sarà così difficile guidare l´opposizione alla Regione, se come pare nella pattuglia di consiglieri del Pd entreranno molti suoi nemici di partito, che all´ex governatore in queste ore verrebbe quasi la voglia di mollare la politica.
Tornare a fare l´imprenditore, con Tiscali che dopo la batosta elettorale ha bruciato in Borsa un altro 7,81 per cento del titolo. Siccome però i suoi sanno anche che non lo farà, insistono sulla missione romana: scendere in pista nel confronto sulla leadership non oscura il compito di contrastare il neo presidente del centrodestra, «si possono conciliare benissimo le due cose». Cappellacci intanto tende la mano, «basta con i veleni, sarò il presidente di tutti».
Un ko clamoroso in Sardegna - il distacco dal vincitore è quasi di dieci punti, il centrosinistra è sotto di diciotto - che diventa un trampolino di lancio sulla scena nazionale? Meno paradossale di quel che può sembrare, secondo i ragionamenti che circolano a Palazzo Chapel, quartier generale della corsa elettorale. Battuto dall´effetto-Berlusconi, con il Pdl al 30 per cento. Impallinato dal fuoco amico, che con il voto disgiunto si è preso la rivincita sull´«uomo solo al comando» alla Regione. Ma soprattutto senza un «vero» partito democratico alle spalle. In nome di questa mission, allora, Soru potrebbe portare la sua battaglia dalla Sardegna a Roma. Per provare a invertire la sconfortante tendenza registrata nell´isola. Il Pd perde nelle città e sulle coste, le enclave che resistono sono soltanto le aree rosse nelle zone rurali. Il partito lascia 12 punti a Olbia e in Ogliastra. Otto a Sassari e tre a Nuoro, che pure risultano le migliori performances. In Sardegna il Pd non c´è, «e questa assenza - ammette sconsolato Passoni - ha consegnato il potere ai capi corrente, col naufragio dell´unità».

Repubblica 18.2.09
La responsabilità dei riformisti
di Ezio Mauro


Il Partito democratico è senza un Capo, nel momento in cui Berlusconi si riconferma leader incontrastato della destra, anzi padrone del Paese, che tiene ormai in mano come una "cosa" di sua proprietà, tra gli applausi degli italiani. Il risultato della Sardegna era atteso come un test nazionale e ha funzionato proprio in questo senso, rivelando la presa sul Paese di questa destra, che vince anche mentre attacca il Capo dello Stato, rinnega la Costituzione, offre un patto al ribasso alla Chiesa e non riesce ad affrontare la crisi economica. L´Italia sta con Berlusconi. E come conseguenza, il Pd va in frantumi.
L´uscita di scena di Walter Veltroni mentre tutti i capipartito ieri gli chiedevano di restare è un gesto inusuale in un Paese di finti abbandoni, di dimissioni annunciate, di mandati "messi a disposizione": talmente inusuale che può persino essere seme di una nuova politica, dove finiscono le tutele, gli scambi, le garanzie reciproche di una "classe eterna" che si autoperpetua. Ma quelle dimissioni erano ormai obbligatorie. Il Pd trascinava se stesso nel deserto della sinistra giocando di rimessa in un´agenda politica imposta da Berlusconi, prigioniero di un senso comune altrui che non riusciva a spezzare. Il segretario - il primo segretario di un nuovo partito, dunque in qualche modo il fondatore - ha detto in questi mesi cose anche ragionevoli e giuste. Ma non è mai riuscito a spezzare l´onda alta del pensiero dominante, anche quando le idee della destra arrancavano davanti alla realtà, diventavano inadeguate, non riuscivano a mordere la crisi economica.
Il problema vero è che non c´è stato un altro pensiero in campo oltre a quello della destra, un pensiero lungo, riformista, moderno, occidentale, di una sinistra risolta che con spirito nazionale e costituzionale sappia parlare all´intero Paese, cambiandolo.
Di questa insufficienza, la responsabilità è certo di Veltroni, ma la colpa è dell´intero gruppo dirigente che oggi si trova nudo ed esposto dalle dimissioni del segretario, e palesemente non sa che pesci pigliare. Dev´essere ben chiaro, infatti, che se Veltroni paga, com´è giusto, nessuno tra i molti sedicenti leader del Pd può considerarsi assolto, per due ragioni ben evidenti a tutti gli elettori.
La prima, è nel gioco continuo di delegittimazione e di interdizione nei confronti di Veltroni, come se il Pd fosse riuscito nel miracolo di importare al suo interno tutti i veleni intestini e i cannibalismi con cui la destra di Dini e Mastella da un lato e la sinistra di Bertinotti e Pecoraro dall´altro avevano prima logorato e poi ucciso il governo Prodi. Con Berlusconi non solo leader ma egemone di una destra ridotta a pensiero unico, i Democratici hanno parlato sempre con mille voci che volevano via via affermare vecchie autorità declinanti e nuove identità incerte, e finivano soltanto per confondersi, imprigionando il leader e impaurendolo. La sintesi paralizzante di tutto questo è la guerra tra Veltroni e D´Alema, che nel disinteresse totale degli elettori litigano da quattro partiti (pci, pds, ds e pd), mentre nel frattempo il mondo ha fatto un giro, è nato Google, ci sono stati cinque presidenti americani e l´Inter è tornata a vincere lo scudetto.
La seconda ragione è nell´incapacità del gruppo dirigente nel suo insieme di produrre una chiara cultura politica di riferimento per gli elettori, la struttura di idee di una moderna forza di progresso, la definizione di che cosa deve essere il riformismo italiano oggi. Il deficit culturale è direttamente un deficit politico. Perché come dimostra il caso Englaro le idee oggi predeterminano le scelte politiche, soprattutto in partiti che sono nati appena ieri, e dunque non hanno un portato storico, una cultura di riferimento elaborata negli anni, una struttura di pensiero a cui potersi appoggiare. Ridotto a prassi, il Pd non poteva che appiccicare le sue figurine casuali nell´album di Berlusconi, dove la prassi sostituisce la politica, l´energia prende il posto della cultura, la figura stessa del leader è il messaggio e persino il suo contesto.
Ecco perché il deficit culturale diventa oggi deficit di leadership. Il progetto del Pd è rimasto un grande orizzonte annunciato: il superamento del Novecento, la fine della stagione grigia e troppo lunga del post-comunismo, l´approdo costituente e definitivo della cultura popolare irriducibile al berlusconismo, anche dopo la crisi evidente del cattolicesimo democratico, la speranza di crescita di una sinistra di governo, che coniughi finalmente davanti al Paese la rappresentanza e la responsabilità, la difesa della Costituzione e dello Stato di diritto e il cambiamento di un Paese immobile, la rottura delle sue incrostazioni e delle troppe rendite di posizione.
Per fare questo serviva un partito forte ma disarmato, nuovo in quanto scalabile, aperto perché contendibile, e tuttavia presente sul territorio, nell´Italia dei comuni, in mezzo ai cittadini. Un partito forte della serenità delle sue scelte. Ci vuol tanto a spiegare che la sinistra è in ritardo nella percezione dell´insicurezza, e tuttavia è una mistificazione sostenere che questa è la prima emergenza del Paese, una mistificazione che mette in gioco la civiltà italiana dei nostri padri e delle nostre madri? È davvero così difficile sostenere che credenti e non credenti hanno a pari titolo la loro casa nel Pd, ma il partito ha tra le sue regole di fondo la separazione tra Stato e Chiesa, tra la legge del Creatore e la legge delle creature? Soprattutto, è un tabù pronunciare la parola sinistra nel Partito democratico, pur sapendo bene che socio fondatore è la Margherita, con la sua storia? Quando ciò che è al governo è "destra realizzata", anzi destra al cubo, con tre partiti tutti post-costituzionali e l´espulsione dell´anima cattolica dell´Udc, come può ciò che si oppone a tutto questo non definirsi sinistra, naturalmente del nuovo secolo, risolta, europea e riformista?
Molte volte il Pd non sa cosa dire perché non sa cos´è. È stato certo una speranza, per i milioni delle primarie, per quel 33,4 per cento che l´ha votato alle politiche, segnando nelle sconfitta con Berlusconi il risultato più alto nella storia del riformismo italiano. Oggi quella speranza è in buona parte delusa e prende la via di una secessione silenziosa, cittadini che si disconnettono dal discorso pubblico, attraversano una linea che li porta in qualche modo nella clandestinità politica, convinti di poter conservare individualmente una loro identità di sinistra fuori dal "campo", pensando così di punire un intero gruppo dirigente che giudicano colpevole di aver risuscitato qualche illusione, e poi di averla tradita. Ma come dimostra il risultato di Soru, il migliore tra i possibili candidati in Sardegna, senza l´acqua della politica non si galleggia.
Non è il momento della secessione individuale, della solitudine di sinistra. Berlusconi dopo il trionfo personale in Sardegna può permettersi di aggiornare la sua strategia, rinviando la scalata al Quirinale, che farà, ma più tardi. Oggi può provare a prendere ciò che gli manca dell´Italia. Napoli, la Campania. Poi portare la sfida direttamente nel cuore della sinistra del Novecento, a Bologna. Quindi pensare a Torino, magari a Firenze. Chiudere il cerchio. Per poi finalmente pensare ai giornali.
Il Pd in questi mesi si è certamente opposto al governo Berlusconi, e anche a suoi singoli provvedimenti. Ma a me ha dato l´impressione di non avere l´esatta percezione della posta in gioco, che non si contende, oggi, con il normale contrasto parlamentare e televisivo di una destra normale. Qui c´è in campo qualcosa di particolare, l´esperimento di un moderno populismo europeo che coltiva in pubblico la sua anomalia sottraendosi alle leggi, sfidando le istituzioni di controllo, proponendosi come sovraordinato rispetto agli altri poteri dello Stato in nome di un rapporto mistico e sacro con gli elettori. Un´anomalia vittoriosa, che ha saputo conquistarsi il consenso di quasi tutti i media, che ha indotto un riflesso di "sazietà democratica" anche a sinistra ("il conflitto di interessi esiste ma basta, non ne posso più") che ha reso la sinistra e il Pd incapace di pronunciare il suo nome mentre non sa pronunciare il nome del suo leader: e che quindi proprio oggi, per tutte queste ragioni, può chiedere apertamente di essere "costituzionalizzata", proponendo di fatto all´intero sistema politico, istituzionale e costituzionale italiano di farsi berlusconiano.
Se questa è la partita - e con ogni evidenza lo è - dovrebbero discendere comportamenti politici e scelte all´altezza della sfida. E persino del pericolo, per una sinistra di governo. Dunque il Pd, se vuole continuare ad esistere - cominciare davvero ad esistere: il partito non ha nemmeno ancora un tesseramento - deve capitalizzare le dimissioni di Veltroni, come la spia di un punto d´allarme a cui è giunto il partito, ma anche come un investimento di generosità. Deve restituire infine un nome alle cose, leggendo Berlusconi per ciò che è, un potere anomalo e vincente, che tuttavia può essere battuto, come ha fatto per due volte Prodi.
La situazione è eccezionale, non fosse altro per la crisi gravissima della sinistra davanti al trionfo della destra. Si adottino misure d´eccezione. Capisco che è più comodo prendere tempo, studiarsi, far decantare le cose, misurare i pericoli di scissione, cercare una soluzione di transizione. Ma io penso che serva subito una soluzione forte e vera, la scelta di un leader per oggi e per domani o attraverso un congresso anticipato o attraverso le primarie. È in gioco la stessa idea del Partito democratico. Ci si confronti su programmi alternativi, idee diverse di partito, schemi di alleanza chiari, qualcosa di riconoscibile, che si tocca con mano, in modo che il cittadino si veda restituita una capacità reale di scelta. Quei leader che oggi dovrebbero sentirsi tutti spodestati e dimissionari, per l´incapacità dimostrata di costruire una leadership collettiva, facciano un patto pubblico di responsabilità, pronti ad accettare l´autorità del segretario e l´interesse del partito - per una volta - , invece di minacciare scissioni striscianti, veti feudali. Solo così ritroveranno quel popolo disperso che conserva comunque una certa idea dell´Italia alternativa a quella berlusconiana: e chiede per l´ultima volta di essere rappresentato.

Corriere della Sera 18.2.09
Si acuisce la crisi interna E torna il fantasma della scissione del partito
di Massimo Franco


Le dimissioni di Walter Veltroni drammatizzano la crisi del Pd, senza risolverla. Ufficializzano la decapitazione di una leadership bocciata dall'elettorato, senza indicazioni sul futuro. Dopo l'addio del segretario, travolto dalla sconfitta in Sardegna, si parla di «collegialità»: termine che evoca una rivincita delle correnti, dopo una gestione accusata di eccessivo verticismo. Ma potrebbe essere una rivalsa di breve durata. Le elezioni europee di primavera colgono un centrosinistra in pieno marasma, condannato alla provvisorietà dall'uscita di scena di Veltroni e dalla scelta di un segretario di transizione; ed a rischio di sopravvivenza.
La rapidità con la quale gli avversari tendono ad archiviare i sedici mesi di segreteria è un segnale pessimo. Mostrano la tentazione di scaricare su una sola persona una crisi di identità collettiva. Veltroni sostiene di fare un passo indietro per salvare il progetto del Pd. Ma non è credibile: la sua strategia è stata già punita dagli elettori.
L'accelerazione ha provocato disorientamento nel gruppo dirigente, a conferma che non si prepara solo un cambio al vertice, ma una metamorfosi del partito.
Veltroni era il tentativo estremo di emanciparsi da un prodismo ormai logoro. E proponeva un partito in grado di fare a meno di Rifondazione e Pdci. La residualità dell'«antagonismo» è stata confermata nel voto del 2008; in parallelo, però, è finito il lungo braccio di ferro fra berlusconismo e avversari. Il successo del Pdl ha segnato una nuova fase, alla quale il centrosinistra oppone formule e alleanze che appaiono proiettate nel passato.
L'ambiguità del fallimento veltroniano è questa. Si chiude una fase di primato velleitario. Ma il Pd sembra rimbalzare verso un'identità comunque indefinita; con un profilo magari più chiaro in senso socialdemocratico: al prezzo, però, di un ridimensionamento secco e di una frattura interna. L'idea di una leadership transitoria affidata al vice di Veltroni, Dario Franceschini, conferma il limbo. Sembra figlia della volontà di scaricare sulla dirigenza attuale una sconfitta alle Europee.
Non solo. Costretto dall'emergenza, o forse con quel pretesto, il Pd rinuncia alle primarie per scegliere chi lo guiderà. La prospettiva di un'opposizione polverizzata è nelle cose. E potrebbe risultare indigesta alla stessa maggioranza di governo. È indubbio che si sta confermando un primato berlusconiano capace di frantumare qualunque avversario. Ma l'insidia è che, con un centrosinistra tutto da ristrutturare, cominci nel Pdl una caccia ai voti in libera uscita: con una competizione fra alleati in grado di riservare sorprese.
L'appello ad un nuovo centrosinistra rimanda ad alleanze già fallite

l’Unità 18.2.09
Risposte chiare
di Concita de Gregorio


Tremila commenti in un'ora alla notizia delle dimissioni di Veltroni, sul web. Una folla all'unisono. Provo a riassumere. C'è più emozione che ragione, in momenti come questi capita. C'è disorientamento, sgomento, sconcerto. Soddisfazione, paura. E adesso?, domandano. E ora? Quelli che fino a ieri urlavano andatevene tutti sono ancora lì, certo: dicono «tutti a casa, anche gli altri». C'è sempre una quota che demolisce e non propone, anche nelle assemblee di condominio e nei consigli di classe, esiste in natura. Poi ci sono quelli che pensano oltre l'istante presente. Domandano: c'è qualcuno che vorreste al suo posto? Chi?
Perché è del tutto evidente che qualcuno dovrà farsi avanti e anche subito: non quando converrà a ciascuno, non dopo che si sarà andati alle europee in ordine sparso per la massima soddisfazione del presidente del consiglio in carica, libero intanto di zittire i giudici e bloccare le indagini, di massacrare la giustizia e di demolire i cardini dello stato, di non rispondere di alcun reato (se l'avvocato Mills è stato corrotto con 600mila euro per testimoniare il falso nel processo contro Berlusconi qualcuno può dire chi sia il corruttore? Domanda facile), di sabotare il sindacato e di avvilire la scuola pubblica, di cambiare la Costituzione come gli convenga e di farsi eleggere presidente della Repubblica ridisegnata a sua immagine, un fantasma di repubblica. Prima di tutto questo, dicevamo. Perché certo conviene alla destra suonare oggi il requiem per l'opposizione. Più difficile capire perché voglia farlo qualcuno anche a sinistra.
Dunque: c'è qualcuno disposto a farsi avanti? I lettori scrivono Bersani, Cofferati, Soru, Di Pietro, Epifani. Un giovane. Ottimo. Quale giovane? Facciamo le primarie, suggeriscono allora: primarie subito. Però, obietta qualcun altro, bisogna rispettare le regole: almeno noi dobbiamo farlo. Allora convocare gli organismi dirigenti, eleggere un segretario di transizione, poi fare le primarie. Poi il congresso. C'è il tempo? Bisogna fare in fretta, lo diciamo da mesi. Molti dicono: il tempo è già scaduto.
E invece c'è il dovere di trovarlo, il tempo che serve, e di starci dentro. Perché poi il problema non sono le procedure e i candidati, il tema vero è: per fare cosa. Ci vuole un partito laico. Un partito che dica cosa vuole fare in tema di immigrazione, di sicurezza, di politica per il lavoro, di scuola, di salute. Che non si pieghi alla logica imperante della corruzione endemica nè soccomba al dettato del clero. È così difficile? Resto convinta che agli elettori più delle tessere delle alleanze e delle strategie importi sapere cosa pensa il Pd sul testamento biologico, tanto per fare l’ultimo esempio. Ecco. Bisognerebbe che potesse dire: se la signora Silvia vuole essere alimentata artificialmente per sessant'anni nel malaugurato caso che resti in stato vegetativo è libera di farlo, nessuno glielo impedirà, ma se Carlo non vuole, invece, nessuno deve imporglielo. Liberi di scegliere: è impossibile? Garantire la scelta di ciascuno. È così complicato? Il Partito democratico sarà riconosciuto come la casa comune se saprà dare risposte semplici e chiare, risposte così. Si può fare, volendo. Si può ancora fare.

il Riformista 18.2.09
Macaluso: «Ora è in discussione il Pd»
INTERVISTA. «Un partito che si è basato su un'analisi politica sbagliata. Questo è il risultato dell'unione di due formazioni giunte al capolinea».
di Alessandro Calvi


«Le dimissioni di Veltroni mettono in discussione lo stesso Partito democratico». Emanuele Macaluso, non dice mai: «Io l'avevo detto», ma rimanda al pamphlet Al capolinea. Controstoria del partito democratico. Sostiene che quella del Pd è una crisi strutturale e la sconfitta rimediata in Sardegna ha radici che affondano molto lontano dall'isola. La vittoria di Berlusconi, dunque, non è che «l'altra faccia della crisi del Pd» che oggi è un partito «che non riesce più ad andare avanti sulla linea che si era dato ma che non può più neppure tornare indietro».
Veltroni si è dimesso. Siamo alla fine del Pd?
Le dimissioni non sono un fatto burocratico. Quelle dimissioni mettono in discussione lo stesso modo di essere del Pd. Veltroni era l'interprete della possibilità di una mediazione alta tra le due anime del partito. Proprio questo è risultato impossibile. Ora il pericolo è che si apra una crisi che non riguarda più soltanto la sostituzione del segretario ma che metta in discussione lo stesso partito, congresso o non congresso. C'è già qualcuno con un piede dentro e un piede fuori.
Pensa a qualcuno in particolare?
Constato che c'è una operazione di matrice cattolica che tende a rafforzare l'Udc per farne un ragruppamento in grado di condizionare sia il Pdl sia il Pd.
Come si è arrivati a questo punto?
Ci sono stati certamente errori di gestione ma è in crisi il progetto stesso del Pd che si è basato su un'analisi politica sbagliata.
Insomma, sta scontando una sorta di peccato originale?
L'Ulivo era un'alleanza politica che lasciava in piedi le identità di Ds e Margherita, legandole con una idea di governo del paese. L'idea sbagliata è che un'alleanza di governo possa essere anche un partito. Si è invece ritenuto che fosse possibile dare vita a un nuovo partito con la fusione tra gli eredi del Pci e gli eredi della sinistra Dc. Fu Eugenio Scalfari a scrivere in un suo articolo di due partiti al capolinea, parlando dei Ds e della Margherita. Quei due partiti, però, invece di fare l'analisi del perché fossero arrivati al capolinea, pensarono di mettersi insieme saltando del tutto quell'analisi, rifiutandosi di capire cosa erano diventati, che rapporto avevano con la società. Già allora, infatti, non avevano più un'anima e si dedicavano soprattutto alla gestione del potere.
Ma in un partito contano anche i valori, le idee.
Già. In molti spiegavano che il Pd avrebbe dovuto essere una sintesi dei valori originari eppure non c'è stato un solo tema sul quale il Pd non si sia diviso, dalla collocazione internazionale alla laicità. Sulla laicità, poi, si è passati addirittura dalla sintesi alla libertà di coscienza. Ma come si può dare libertà di coscienza a un parlamentare che poi vota con quelli che negano la libertà di coscienza ai cittadini? Non si può certo pensare di superare ogni ostacolo in nome di un generico ecumenismo veltroniano. E, poi, non ha funzionato la forma partito. C'è stata una gran confusione e, nella confusione, comandano quelli che loro stessi hanno definito cacicchi, ovvero coloro che hanno un potere reale: i sindaci, i presidenti di Regione.
E allora quale è la via di uscita?
Certo non quella di decidere di sciogliere il partito né di cambiare il segretario pensando che cambiare una persona con un'altra possa risolvere tutti i problemi. C'è un problema di scelte, di linea, di identità da affrontare. Non basta dire che Veltroni non va bene e allora si prova con Bersani, occorre costruire una alternativa che dia risposte alle domande alle quali il Pd non ha mai risposto. Ora serve pazienza, si deve mettere da parte quell'ansia di mettere in scacco Berlusconi che alla fine ha messo in scacco lo stesso Pd. Servono scelte politiche chiare sulle quali si confrontino una maggioranza e una minoranza, non serve un congresso che sia una semplice resa dei conti tra i big del partito. Non so se nel partito si riuscirà a farlo. Però deve essere chiaro che nessuno può dire: io non c'ero.

Repubblica 18.2.09
No al crocifisso in aula, la Cassazione dà ragione al giudice
La Suprema Cassazione ribalta la sentenza che aveva condannato in appello Luigi Tosti
di Giuseppe Caporale


ANCONA - «Il fatto - per la Cassazione - non sussiste». Il giudice Luigi Tosti, nel rifiutare di celebrare udienze in un´aula dove era presente il crocifisso, non ha commesso alcun reato. Così, ieri, la Sesta sezione penale della Suprema Corte ha ribaltato la sentenza della Corte d´Appello dell´Aquila che - quasi due anni fa - aveva condannato Tosti a sette mesi di reclusione e un anno di interdizione dai pubblici uffici, con l´accusa di interruzione di pubblico servizio e omissione di atti d´ufficio. La battaglia del magistrato che, in nome della laicità dello Stato, vuole che il crocifisso sia rimosso da tutti gli uffici pubblici (a cominciare dalle aule giudiziarie) dura ormai da sei anni. Ovvero da quando il giudice, in servizio al tribunale di Camerino, sollevò per la prima volta il caso, con perentorie prese di posizione: dallo sciopero delle udienze alla restituzione del certificato elettorale, sino al conflitto di attribuzioni contro il ministro della Giustizia davanti alla Consulta. Una vicenda che gli è costata anche un procedimento disciplinare con tanto di sospensione da parte del Csm. Ora, anche se Tosti ha ottenuto un´importante vittoria, non tornerà subito nelle sue funzioni, dato che il procedimento del Consiglio Superiore della Magistratura è ancora in corso.
«La sentenza della Cassazione è un passo importante - ha spiegato Tosti - eliminato l´aspetto penale ora attendo serenamente le risultanze del procedimento disciplinare. Ma un dato è certo: se tornerò in aula a fare il giudice, è ovvio che continuerò la mia battaglia: "o me o i crocifissi in aula". La mia presa di posizione - ha continuato il magistrato - é per il rispetto del principio di laicità, che in Italia è violato soltanto dalla religione cattolica, mentre tutte le altre lo rispettano. Infatti l´unico simbolo che ricorre negli uffici pubblici è il crocifisso. Non abbiamo mai visto, ad esempio, simboli islamici o buddisti».
Invece per i giudici della Corte d´Appello dell´Aquila che lo avevano condannato «la presenza o meno del crocifisso in un´aula di giustizia è irrilevante ai fini dello svolgimento di un processo e non crea alcuna condizione di illegittimità». Tosti, invece, dopo la sentenza del tribunale abruzzese si è sempre considerato «vittima della discriminazione religiosa». Ora la Cassazione lo ha assolto.

Repubblica 18.2.09
Un libro postumo del filosofo Jean Baudrillard
Quando l’immagine cancella la realtà
di Jean Baudrillard


Trasmissioni come il Grande Fratello corrispondono al desiderio imperscrittibile di essere assolutamente "Nulla" e di essere guardati in quanto tali

La violenza dell´immagine (e, in generale, dell´informazione o del virtuale) consiste nel far sparire il Reale. Tutto deve esser visto, tutto deve essere visibile. L´immagine è il luogo per eccellenza di questa visibilità. Tutto il reale deve convertirsi in immagine, ma quasi sempre è a costo della sua scomparsa. È d´altronde proprio nel fatto che qualcosa in essa è scomparso che risiede la seduzione, il fascino dell´immagine, ma anche la sua ambiguità; in particolare quella dell´immagine-reportage, dell´immagine-messaggio, dell´immagine-testimonianza. Facendo apparire la realtà, anche la più violenta, all´immaginazione, essa ne dissolve la sostanza reale. È un po´ come nel mito di Euridice: quando Orfeo si volta per guardarla, Euridice sparisce e ricade negli inferi. Così il traffico di immagini sviluppa un´immensa indifferenza nei confronti del mondo reale. In ultima istanza, il mondo reale si converte in una funzione inutile, un insieme di forme ed eventi fantasma. Non siamo lontani dalle ombre sui muri della caverna di Platone.
Un buon esempio di questa visibilità forzata, e in cui (in linea di massima) si mostra tutto, è il Grande Fratello e tutti i programmi dello stesso genere, reality show ecc. È qui, nel momento in cui tutto è mostrato, che ci si rende conto che non c´è più nulla da vedere. È lo specchio della piattezza, del grado zero. È qui che ci si inventa una socialità di sintesi, una socialità virtuale in cui si comprova, contrariamente alle intenzioni, la scomparsa dell´altro e, forse, anche la natura non essenzialmente sociale dell´essere umano. A questo si aggiunge il fatto che il mito del Grande Fratello, quello della visibilità poliziesca totale, riguarda il pubblico stesso, mobilitato come voyeur e come giudice. È il pubblico che è diventato Grande Fratello.
Ci troviamo oltre il panottico, con la visibilità come fonte di potere e di controllo. Ormai non si tratta più di far sì che le cose risultino visibili ad un occhio esterno, ma di renderle trasparenti a se stesse, di cancellare cioè le tracce del controllo e di rendere invisibile anche l´operatore. La capacità di controllo si interiorizza e gli uomini non sono più vittime delle immagini: si trasformano inesorabilmente essi stessi in immagini (non esistono ormai più che in due dimensioni, o in una sola dimensione superficiale). Questo significa che sono leggibili in qualsiasi istante, sovraesposti alle luci dell´informazione, e sollecitati ovunque a mettersi in mostra, a esprimersi. È l´espressione di se stessi come forma ultima di confessione di cui parlava Foucault.
Farsi immagine è esporre tutta la propria vita quotidiana, tutte le sue disgrazie, tutti i suoi desideri, tutte le sue possibilità. È non mantenere nessun segreto. Parlare, parlare, comunicare instancabilmente. Questa è la violenza più profonda dell´immagine. È una violenza che va in profondità, all´essere particolare, al suo segreto. Al tempo stesso è una violenza contro il linguaggio che, a partire da questo momento, perde anch´esso la propria originalità; non è nient´altro che un operatore di visibilità, nient´altro che un medium, perde la sua dimensione ironica di gioco e distanza, la sua dimensione simbolica autonoma: quella in cui il linguaggio è più importante di ciò che dice.
Anche l´immagine è più importante di quello che dice: è ciò che si dimentica, ed è anche, oltre che della violenza dell´immagine, la fonte della violenza contro l´immagine. Tutto quello che si vede nell´operazione Grande Fratello è una realtà virtuale, un´immagine di sintesi della realtà, una trasposizione dell´every day life, già trattata a sua volta secondo i modelli dominanti.
Si tratta di voyuerismo pornografico? No, quello che la gente davvero brama non è sesso, ma spettacolo della banalità, che è il vero porno di oggi, la vera oscenità - quella della piattezza, dell´insignificanza e della nullità, una specie di parodia del suo estremo opposto: il Teatro della crudeltà di Antonin Artaud. Ma può darsi che ci sia in questo una forma di crudeltà, almeno virtuale: dal momento in cui la televisione è sempre più incapace di offrire un´immagine degli eventi del mondo, finisce per disvelare la vita quotidiana, la banalità esistenziale come l´evento più mortifero, come l´attualità più violenta, come il luogo stesso del Crimine Perfetto. Che poi è quello che in effetti lei è. E la gente resta affascinata, terrorizzata e affascinata dall´indifferenza del Niente-da-vedere, del Niente-da-dire, dall´indifferenza dello Stesso, dalla propria stessa esistenza.
Non si tratta più di una metafisica del crimine e del sesso. È una patafisica del crimine perfetto: assunzione della banalità come destino, come il nuovo volto della fatalità. Contro-transfert illustrato dal fatto che tutti sono diventati Grande Fratello. Perfusione del Super-io nella massa. Non solo gli spettatori: tutti sono presi nella spirale della Grande Gidouille (il ventre di Ubu). La contemplazione del Crimine Perfetto, di questa perpetrazione della banalità, è diventata una autentica disciplina olimpica, o l´ultima metamorfosi degli sport estremi.
In fondo, tutto questo corrisponde al diritto (e al desiderio) imprescrittibile di non essere Nulla e di essere guardati in quanto tali. Ci sono due maniere di scomparire: o si esige di non essere visti (è la problematica attuale del diritto all´immagine), o si cade nell´esibizionismo delirante della propria nullità. Ci si fa nulla con il fine di essere visti e guardati come nulla - estrema protezione contro la necessità di esistere e l´obbligo di essere se stessi. Da qui l´esigenza contraddittoria e simultanea di non esser visti e di essere perpetuamente visibili. Tutti giocano su due tavoli allo stesso tempo e non c´è nessuna etica né legislazione che possa porre fine a questo dilemma, quello che comportano il diritto incondizionato di vedere ed il diritto, altrettanto categorico, di non esser visti. La massima informazione possibile fa parte dei diritti dell´uomo e, pertanto, lo è anche la visibilità forzata, la sovraesposizione alle luci dell´informazione.
La cosa peggiore in questo gioco televisivo "interattivo" è la partecipazione forzata, questa complicità automatica dello spettatore che va intesa come un autentico ricatto. Questo è l´obiettivo più chiaro dell´operazione: il servilismo, la sottomissione volontaria delle vittime che godono del male che gli si infligge, della vergogna che gli si impone. Tutta la società condivide questo meccanismo fondamentale: la abiezione interattiva, consensuale.

Corriere della Sera 18.2.09
Personaggi Tradotto per la prima volta in italiano un commento sulla rivoluzione americana: il volto inedito del poeta
Elogio libertario di Ezra Pound
Scambiò Mussolini per Jefferson. Ma il suo era un Canto contro i tiranni
di Giulio Giorello


«Boston era allora grande come Rapallo » (la cittadina ligure prediletta da poeti come Pound e Yeats), quando i coloni del Massachusetts passarono all'azione contro il governo di sua maestà. Eppure, «la rivoluzione ebbe luogo nella mente del popolo», tra il 1760 e il 1764, prima che a Lexington (19 aprile 1775) «parlassero i fucili». I
Cantos di Ezra Pound narrano, fra tante vicende storiche, anche l'epica del «virginiano» Thomas Jefferson e del «puritano» John Adams, due degli estensori della Dichiarazione d'indipendenza (4 luglio 1776). Non fu solo guerra di separazione di tredici colonie dalla madrepatria, bensì creazione di una realtà nuova, capace di legare, nel bene e nel male, le sorti dei discendenti dei primi «migranti » dalla vecchia Europa con quelle dei nativi americani e degli stessi africani gettati oltre Atlantico dalla tratta degli schiavi. Una «rivoluzione», appunto, che Jefferson e Adams volevano «permanente », contro ogni tentazione dispotica che venisse dall'interno o dall'esterno del Paese.
Riassumendo in poche pagine per la North American Review (inverno 1937-38) lo scambio epistolare tra i due, Pound chiedeva polemicamente: «Dovremmo perdere la nostra rivoluzione prostituendoci a esotismi moscoviti o europei?». Rispondeva risolutamente di no, non nascondendo la critica al modello comunista e la diffidenza per quello nazista (come mostra il suo uso dell'aggettivo «teutonico»). Il testo compare ora in lingua italiana, corredato da un'introduzione di Luca Gallesi:
Il carteggio Jefferson-Adams come tempio e monumento (Edizioni Ares). Ma «tempio» e «monumento » sono termini che potrebbero far pensare a qualcosa di immobile nel flusso della storia; mentre quella corrispondenza è «una dinamo ancora funzionante », che dovrebbe restituire il piacere per la libertà e l'odio per i tiranni. Per l'autore dei Cantos
l'eclisse dello spirito rivoluzionario nella sua patria era conseguenza della lacerazione della cultura «in frammenti inutilizzabili o incompetenti »: letterati che si disinteressano della propria storia, storici che ignorano l'economia, scienziati che si nascondono dietro il loro specialismo. Come nota Gallesi, il ripensamento del ruolo della moneta nel capitalismo avanzato era diventato il chiodo fisso di Pound. Prendendosela con Freud e i suoi seguaci, dichiara il poeta che «per ogni persona con uno stato d'ansia causato dal sesso, ve ne sono nove con uno stato d'ansia causato dalla mancanza del potere d'acquisto» del proprio denaro!
Forse, le nostre preoccupazioni non sono troppo diverse da quelle diffuse dopo la crisi del 1929. Ma io non penso tanto che dobbiamo cercare risposta ai guai di oggi nelle dottrine economiche care a Pound, quanto che possiamo sfruttare come un tesoro nascosto l'insofferenza per ogni dispotismo fatta rivivere dalla parola poundiana: mai sacrificare libertà e responsabilità dei singoli individui al sogno della centralizzazione burocratica o della sorveglianza totale, fosse pure in nome dell'efficienza, della sicurezza, o magari della sacralità della vita. Troppo incline, all'inizio, a cedere alle richieste dei «federalisti» (il nome negli Usa indica i fautori del centralismo) e «caparbio» nel contenere le esuberanze di Jefferson, John Adams, successore di Washington alla presidenza (1797-1801), finì col «giocarsi i successivi quattro anni» a vantaggio dell'amico-rivale. Jefferson, divenuto il terzo presidente Usa (1801-1809), doveva presentarsi come il garante della democrazia contro ogni velleità di imitare, magari sotto altre forme, il potere britannico, con il suo monarca, la sua Camera dei Lord, la sua Chiesa di Stato e il suo imperialismo. Ma lasciò prosperare quella Banca centrale che anni prima aveva condannato come un «meccanismo » usurpatore dei diritti dei vari Stati dell'Unione. «Tu e io non dobbiamo morire prima di aver spiegato noi stessi l'uno all'altro», scriveva Adams a Jefferson nel 1813. Per un caso della sorte, John e Thomas chiusero le loro esistenze lo stesso giorno, il 4 luglio 1826, nel cinquantesimo anniversario della Dichiarazione d'indipendenza. «Per più di mezzo secolo — commenta Pound — in America sono vissute, e per molti versi hanno regnato, due persone civili ». Civiltà è qui sinonimo non solo di buon governo, ma (come scrive nei Cantos) di «sincerità, onestà, dirittura»: vi acconsentirebbe anche il più tenace repubblicano!
I Cantos, definiti dal loro autore un esperimento di laboratorio, dovevano segnare il transito dal Purgatorio al Paradiso dell'umana avventura con l'elogio delle virtù di John Adams. Ma come doveva imparare a sue spese il poeta, «insegna la nuova luna che non dura la fortuna»: alla fine degli anni Trenta scoppiò «la guerra di merda » che non doveva risparmiare nemmeno l'artista. Innamorato dell'Italia e curiosamente convinto che Mussolini fosse una sorta di rispecchiamento europeo dell'americano Jefferson, Pound venne ufficialmente accusato dalle autorità del suo Paese di tradimento, nel luglio 1943, per i suoi discorsi pacifisti alla radio fascista. Sorpreso a Roma l'8 settembre, aveva poi raggiunto la Val Pusteria, in Tirolo (a piedi!), per ritornare al suo appartamento sul lungomare di Rapallo. Dalle vicine colline di S. Ambrogio, dove era infine «sfollato», assistette al crollo del regime di Salò. Ai primi di maggio del 1945 due partigiani lo conducono al comando alleato di Lavagna. Il 24 è trasferito al Disciplinary Trading Center presso Pisa, cioè nelle mani della polizia militare Usa. Il 18 novembre è a Washington: dichiarato infermo di mente, rimarrà rinchiuso dodici anni al Saint Elizabeths Hospital. Il processo al «traditore» non è stato mai celebrato.
Che razza di democrazia è quella che sequestra i suoi pretesi nemici senza sottoporli al giudizio di un'equa giuria? La libertà, aveva scritto Pound nel suo saggio su Jefferson e Adams, «è ancora il diritto di fare qualsiasi cosa non danneggi il prossimo». Si può essere nel più ampio disaccordo con le idee politiche di Pound; ma mi pare bene riconoscere quanto sia preziosa l'invocazione che ricorre nei Canti pisani, scritti al tempo della prigionia «in una gabbia per belve»: democrazia ascolta, «libertà di parola senza libertà di parola via radio vale zero »! Il 18 aprile 1958 la Corte suprema Usa faceva ritirare l'accusa di tradimento: Pound poteva così ritornare in Italia. Il lettore troverà nelle pagine ora tradotte l'idea che «se si vuole una classe politica responsabile» non bisogna «restare nella penombra», ma «fare come gli scienziati», risalendo da fatti isolati alla connessione dei fenomeni. Il poeta si spense a Venezia il 1˚novembre del 1972. All'irlandese Yeats, che aveva cantato «la terribile bellezza» dell'insurrezione di Dublino (Pasqua 1916), amava ripetere che «il bello è difficile ». Lo è anche restare un democratico. In entrambi i casi ne vale la pena.

l’Unità 18.2.09
I segreti della DDR
Un computer ricostruirà le vite degli altri distrutte dalla Stasi
di Laura Lucchini


Un impiegato colloca su una cintura meccanica diversi frammenti di carta, facendo attenzione a che gli angoli siano ben stesi. Ogni foglietto entra in una specie di grande scanner e inizia ad apparire sullo schermo. Una volta entrati tutti i pezzi, un software inizia ad assemblarli come tasselli di un puzzle. Poco dopo, compaiono sullo schermo le immagini di fogli A-4, alcuni scritti a macchina, altri a mano, e datati fino all'ottobre del 1989, non oltre. Sono i documenti che furono distrutti dal Ministerium für Staatsichereit, la Stasi, alla vigilia della caduta del muro di Berlino, il 9 novembre dell'89. Nel 2010, il loro contenuto sarà interamente fruibile grazie a un computer che è stato in grado di ricostruirli. Nel 2007 gli scienziati tedeschi dell'istituto Fraunhofer ricevettero il via libera del governo per mettere in moto la loro macchina di assemblaggio che avrebbe ricostruito 600 milioni di stralci di carta per un totale di circa 45 milioni di documenti. Due anni dopo, il direttore dell'iniziativa, Bertrand Nicolay ha fatto sapere che il progetto pilota ha funzionato, e che prima della fine del 2010 tutti i documenti saranno stati digitalizzati.
Quasi nello stesso momento in cui «cadeva» il muro di Berlino, gli agenti della Stasi ricevettero l'ordine dal loro capo Erich Mielke di distruggere tutti gli archivi e accumulare i resti di carta in sacchi da bruciare. Il tentativo si risolse in una commedia degli errori in cui inizialmente le macchine tritacarta si ruppero sotto la pressione dell'enorme mole di documenti e i funzionari dovettero continuare l'opera a mano. L'impresa aveva richiesto più tempo del previsto e nessuno era stato in grado di organizzare dei camion che trasportassero i 16.000 sacchi al luogo in cui dovevano essere bruciati. L'opera di distruzione fu finalmente interrotta da una manifestazione popolare e i sacchi non andarono mai completamente distrutti. Due anni dopo, 30 impiegati di Norimberga iniziarono a ricostruire manualmente i documenti, armati di lente d'ingrandimento e nastro adesivo. «Dieci anni fa abbiamo visto una trasmissione in televisione che mostrava come gli archivi della Stasi venivano lentamente ricostruiti a mano e con un gran dispendio di energia», spiega Nicolay, coordinatore dell'iniziativa al Fraunhofer, «a partire da quel momento ci siamo posti il problema di come risolvere questa situazione sviluppando uno strumento». Il software, chiamato E-Puzzler funziona grazie alla creazione di un file d'immagine basato sulla digitalizzazione dei vari frammenti. Come in un gigantesco rompicapo, lo scanner ricava informazioni riguardo al colore, il tessuto, l'inchiostro e il tipo di carattere usato nel documento. «Grazie alle informazioni su ogni singolo pezzetto, si riesce ad associare ad altri possibili tasselli, e come in un puzzle, poco a poco si ricostruiscono i fogli», spiega Beate Koch del Fraunhofer.
Lo Stato ha stanziato, non senza polemiche, circa 6 milioni di euro nella ricostruzione dei documenti della Stasi. La ragione di questo enorme sforzo, scientifico ed economico, è che il contenuto dei sacchi potrebbe fare luce su i nomi dei 174.000 collaboratori non ufficiali del Ministero di Sicurezza della Germania dell'est e i 6 milioni di persone che, si calcola, vennero spiate durante la Guerra Fredda. Nel 2010 l'intera mole di documenti potrà finalmente passare agli archivisti della BStU, la commissione federale per i documenti segreti, che deciderà come e quando renderli pubblici. La richiesta sarà alta. Già ora, questo istituto riceve più di 8.000 domande al mese per la consultazione dei file.
La BStU non è ancora in grado di rivelare dettagli specifici del contenuto dei documenti, però ha confermato che quelli che furono ricostruiti a mano contenevano materiale esplosivo riguardo a diversi aspetti dell'attività della Stasi: dalle violazioni dei diritti umani nel trattamento dei detenuti, alle relazioni con il gruppo terrorista armato della Germania dell'ovest, la RAF, e soprattutto la struttura della rete degli "spioni", nonché la loro identità. "Inoltre, il loro contenuto potrebbe essere utile a interpretare i documenti rimasti intatti", spiega Sylvia Dalitz, di BStU.
Il progetto di ricostruzione è stato ostacolato da molti funzionari pubblici sulla base di motivazioni economiche. Alcuni deputati del parlamento tedesco attuale furono membri del partito comunista della Germania dell'est. Ma non solo: la stampa tedesca ha avanzato l'ipotesi che numerose reputazioni di personaggi pubblici potrebbero essere rovinate attraverso la pubblicazione del contenuto dei documenti. Da questa impresa ciclopica esce sicuramente vincitore il software E-Puzzler che presto potrebbe essere messo a disposizione di altre situazioni analoghe: è stato richiesto dalle autorità di altri paesi dell'est come la Polonia, ma anche da Argentina e Cile, paesi che soffrirono una dittatura militare con feroce repressione del dissenso.

Left 29/08 18 luglio 08
Ignazio Marino: Le persone vogliono una legge sul testamento biologico
di Simona Maggiorelli


Un sondaggio Eurispes rivela che l'ottanta per cento degli italiani è a favore del testamento biologico. Ma i parlamentari sembrano un gruppo di sordi, che se ne stanno chiusi nel Palazzo di Simona Maggiorelli

Nella scorsa legislatura, come presidente della commissione Sanità del Senato, si è battuto con tutte le forze perché anche in Italia, come negli altri Paesi, ci fosse una legge sul testamento biologico. La triste sorpresa è stato vedere che la proposta di ampia mediazione del senatore e chirurgo diessino è stata "boiccottata", non solo da esponenti del centrodestra, ma anche da parlamentari di area Partito democratico. Ma il professore non si è arreso e dai banchi dell'opposizione rilancia un disegno di legge che sussume le precedenti proposte. Lo abbiamo incontrato per capire meglio di che si tratta.
Il caso Englaro rende ancora più chiaro quanto sia necessaria una legge?
È importante riconoscere l'esistenza di situazioni personali come quella di Eluana, ma il mio obiettivo come medico e legislatore è cercare di arrivare a una legge che rappresenti la sensibilità dei cittadini, al di là delle singole situazioni drammatiche.
Da medico come descrive la situazione di Eluana?
È la condizione di una persona che dopo un grave incidente d'auto si trova in stato vegetativo permanente. Ha avuto un periodo di coma di alcuni mesi, il che già significa che le possibilità concrete di recupero dell'integrità intellettiva sono praticamente inesistenti. Inoltre sono già 16 anni che è in stato vegetativo permanente. Non esiste nella letteratura scientifica internazionale nessuna persona che abbia recuperato l'integrità intellettiva dopo così tanto tempo. Sul piano della legge e della bioetica, in questi giorni è stato detto molto per disorientare il cittadino: la vera centralità della questione non è "staccare o meno la spina". Il punto è: come esseri umani abbiano il diritto, rispetto alle tecnologie esistenti, di indicare le terapie a cui vogliamo sottoporci e quelle che rifiutiamo? C'è un diritto riconosciuto in tutti i Paesi: io posso dire no a un trapianto di cuore. Posso dire preferisco avviarmi al percorso che mi porterà alla morte. Quello non è suicidio, non è eutanasia, è un percorso naturale. Allora se io quel percorso lo posso accettare oggi che sono in grado di ragionare e comunicare, perché non posso lasciare delle indicazioni per quando, supponiamo, non fossi più cosciente? Personalmente se mi trovassi in certe condizioni non vorrei che le terapie fossero proseguite. L'ho scritto nel testamento biologico che ho fatto negli Usa dove ho vissuto per 18 anni. Serve una legge per dare indicazioni sulle terapie che voglio e non voglio ricevere, in positivo e in negativo.
Per questo c'è l'articolo 32 della Costituzione.
Ecco, questa legge sul testamento biologico dovrebbe servire a estendere al momento in cui non mi potrò esprimere i diritti garantiti dall'articolo 32. È davvero molto semplice. Quando negli anni Quaranta i padri costituenti lo hanno stilato non potevano neanche immaginare che un giorno ci sarebbero state tecniche in grado di mantenere in vita persone in gravi condizioni, anche per anni. All'epoca erano appena arrivati gli antibiotici, come si poteva immaginare una cosa simile quando si moriva di polmonite? Oggi dobbiamo decidere se la tecnologia è un obbligo. Chi lo deve stabilire? Lo Stato, la religione, la cultura, il Parlamento, un medico, o il cittadino? Io credo quest'ultimo.
C'è stata una particolare violenza sul pensiero di Eluana, un accanimento contro ciò che diceva quando stava bene.
Ho incontrato il padre, Beppino, sono andato in ospedale, è evidente che ci sia bisogno di una legge. La situazione di Eluana è stata molto difficile. Se ci fosse stata una legge avrebbe potuto scrivere le sue scelte. In una situazione di vuoto legislativo, invece, i tribunali hanno agito seguendo le norme esistenti, secondo l'indirizzo che sembrava più logico ai magistrati. Penso che tutta questa fase debba essere superata con una legge. Del resto, già il presidente della Consulta, diversi magistrati, molti medici e gli stessi cittadini si sono espressi in questo senso. Un sondaggio Eurispes rivela che oltre l'ottanta per cento degli italiani è favorevole a una legge. Sembra quasi di vedere parlamentari sordi, chiusi nel Palazzo.
In questa legislatura sarà discussa la sua proposta?
Il mio disegno di legge ha già la firma di molte decine di senatrici e senatori del Pd. È il frutto di riflessioni sul disegno di legge che avevo presentato la scorsa legislatura e che ho ampliato ascoltando tutti, anche coloro che mi segnalavano l'importanza di riflettere sulla malattia nel suo insieme, non solo pensando agli aspetti formali della fine della vita. Così mi sono occupato di malattia terminale, di cure palliative, della necessità di distribuire meglio gli hospice sul territorio. Adesso ne abbiamo circa 103 al Nord su un totale di 130. Solo 17 sono nel Sud. Ma il Nord ha una popolazione di 25 milioni di abitanti e il Sud di 22 milioni. Infine c'è un capitolo dedicato alle terapie per il dolore. Nel nostro Paese c'è una grande difficoltà nel somministrare i farmaci anti dolore: 5 milioni di italiani soffrono di dolore cronico. La loro qualità di vita è molto ridotta a causa di cure inadeguate.
Più di cento medici hanno scritto al ministro Maurizio Sacconi perché si torni a discutere di terapie intensive e accanimento terapeutico sui prematuri, che ne pensa?
Credo che ci sia un confine molto sottile tra l'assistenza e l'interruzione delle terapie. Lo dico da medico che ha avuto a che fare con molti casi di trapianto d'organo. Penso che all'inizio della vita non si possa decidere per regolamenti. Si deve risolvere questo problema del confine sottilissimo: se il neonato non ha molte possibilità, c'è accanimento. Ci sono casi molto rari di sopravvivenza dei cosiddetti grandi prematuri. Ma quelle situazioni vanno approfondite tra famiglia e specialisti in grado di dare delle indicazioni prognostiche ai genitori. Non compete solo al rianimatore o al neonatologo, ma anche al genetista, al pediatra, al neurologo. Ci vuole un approccio collegiale che porti a definire se in quella circostanza sia il caso di proseguire le cure oppure se ci sia solo accanimento sul prematuro. Bisogna cercare di migliorare il suo stato.
Parlare di questioni eticamente sensibili invece che di diritti può essere un controsenso con temi simili?
Credo che sia sbagliato parlare di temi eticamente sensibili in questi casi. Per me legiferare sulle armi, la guerra, ma anche il fumo potrebbero essere temi eticamente sensibili. Invece le decisioni sulla nostra vita sono diritti civili. Dopo la rivoluzione francese in molti li chiamano così.
Una Ue dei diritti civili, non solo delle merci?
È auspicabile ma molto improbabile, ci sono Paesi come l'Inghilterra che, per cultura, vogliono essere liberi di seguire un proprio percorso. Negli ultimi anni hanno fondato degli organismi che stabiliscono le linee della ricerca da portare avanti, peraltro molto democratici perché prevedono la consultazione popolare, che permettere di procedere in una direzione piuttosto che in un'altra. Ma non mi sembra che gli inglesi stiano dimostrando interesse a un percorso condiviso con il resto dell'Ue.
In Italia non c'è più un ministero della Salute, ma ci sono due sottosegretari preposti a due leggi, la 40 e la 194.
Al Consiglio dei ministri, luogo supremo dove riportare gli interessi dei cittadini, partecipano soltanto i ministri, i sottosegretari non entrano e non votano. Questo significa che il premier Berlusconi sceglie le aree strategiche. In tutto 12, tra queste può metterci le riforme, la semplificazione, le pari opportunità, oppure la sanità. È evidente che si ha la percezione che ministeri come quello della Semplificazione o, mettiamo, dei Rapporti con il Parlamento siano più importanti delle divisioni dove si curano i tumori.

Liberazione 17.2.09
Mi ha già scomunicata PioXII

Caro direttore, mi associo alla lettera di Paolo Izzo nel chiedere la scomunica. Il mio è un gesto di solidarietà perché sono felicemente scomunicata da molti anni, dalla famosa scomunica di Pio XII inflitta ai comunisti e a chi leggeva, diffondeva, condivideva, idee comuniste. Non avevo l’età del voto né la facoltà di andarmene di casa ma ero comunista e atea, tormentata ogni domenica da mia nonna che voleva portarmi alla messa. Alle mie proteste contrapponeva gli esempi di “lavoratori e donne del popolo” credenti e osservanti. Io rispondevo che queste erano solo la conferma del fatto che “la religione è oppio dei popoli”. La scomunica mi liberò. Nonna non poté replicare quando le dissi che sarebbe caduta in peccato mortale portando in chiesa una scomunicata e andai allegramente a diffondere “l’Unità”. Oggi liberarsi dai dettami della chiesa è un po’ più difficoltoso, non si tratta più di una nonna bigotta ma della concreta minaccia delle leggi di uno Stato avviato verso un nuovo clericofascismo, ma è un passo avanti, piccolo ma forte, dichiarare la nostra indisponibilità a essere governati dal catechismo invece che dalla Costituzione. Complimenti per il giornale a te e alla Redazione, un particolare abbraccio al carissimo Apicella.
Bianca Bracci Torsi

Anche io chiedo la scomunica. Me la merito!
Che la chiesa mantenga la“promessa”
Cari amici, ho letto su “Liberazione” di ieri la bella lettera firmata da Paolo Izzo, il quale provocatoriamente (ma neanche tanto) invitava la chiesa a dare concretezza alla minaccia del quel cardinale che invocava la scomunica per tutti coloro che si sono attivati per la liberazione di Eluana. Ebbene, anche io, come Paolo Izzo (e tanti altri) chiedo la scomunica a gran voce, e aggiungo che sono fiera di meritarmela.
Barbara Sbrocca

Facciamo sentire la nostra voce laica
Carissimi, sono iscritta al gruppo di facebook “scomunicateci” per condividere con altri un pensiero: se è vero che la destra e la religione cattolica presidiano la paura umana con l’uso strumentale e violento dell’ignoranza, la paura di essere nati con dentro un nocciolo mostruoso e malvagio (…), quella della morte (…), quella di chi è diverso (…), quella di chi non aderisce ai dogmi e vuol pensare, e… aiutatemi anche voi a dire cos’altro; se è vero che molti dei conflitti e dei confini umani nascono e si alimentano nella paura, forse è di vitale importanza che questi temi vengano ampiamente e continuamente dibattuti, e forse è fondamentale affrontarli ora, insieme, con la nostra voce laica, per poi essere in grado di lottare per le leggi ed i diritti civili che ad essi si legano, saper leggere con chiarezza i prossimi tentativi di atterrirci e resistere.
Donatella Buti