sabato 21 febbraio 2009

Repubblica 21.2.09
Via alle ronde anti stupri il Quirinale prende le distanze
Reclutati ex agenti. I sindacati di polizia: misura inutile
di Luana Milella


ROMA - Roberto Maroni la spunta, le ronde passano per decreto. Bossi, Calderoli esultano, ma il prezzo politico è pesante. Il ministro dell´Interno arriva ai ferri corti con il Quirinale, e pure con il Vaticano. Dopo lo scontro su Eluana si riapre la ferita della decretazione d´urgenza, ma stavolta all´altolà del Colle non farà seguito una bocciatura. A Napolitano le ronde non piacciono, per questo fa un sobbalzo quando legge di un Maroni che parla di «testo concordato», ma lo rassicura la coincidenza frutto della sua moral suasion: le ronde partiranno solo quando, tra due mesi, il Viminale avrà scritto il regolamento. A quel punto anche il decreto avrà ottenuto l´imprimatur parlamentare.
Doveva essere la mossa del governo contro gli stupratori, è diventato il testo per far passare sì le norme contro gli aguzzini di donne e bambini, ma soprattutto due vessilli del Caroccio: ronde "made in Padania" e Cie fino a sei mesi. Maroni s´è visto due volte con Napolitano, ha fatto degli aggiustamenti, ma ha portato le ronde in consiglio. Dove An ha fatto muro (Andrea Ronchi: «O passano le nostre modifiche o non se ne fa niente»), dove Ignazio La Russa è arrivato con emendamenti scritti che Maroni ha accettato. La giornata si chiude con i sindaci di sinistra che protestano (Vincenzi a Genova, Chiamparino a Torino, Emiliano a Bari), anche se quelli di destra plaudono (Moratti a Milano, Alemanno a Roma), con i sindacati della polizia che parlano di «rinuncia dello Stato» e di «ronde inutili e pericolose», con magistrati e penalisti che rifiutano «misure d´emergenza». Maroni ritiene di aver vinto. Anche se dovrà vedersela con un´opposizione pronta alla contestazione. Dice D´Alema: «Con le ronde solo più confusione». Minniti: «È uno strappo istituzionale». Finocchiaro: «Solo fumo negli occhi». Tenaglia: «Parlamento espropriato». Il centrista Rao: «Stato impotente».
L´attrito istituzionale più forte è con il Colle. Dove vengono lette con preoccupazione le parole di Maroni. Queste: «C´è stato un confronto diretto con Napolitano. Da lui non è venuto alcun veto o invito a non inserire norme. Abbiamo concordato il testo senza alcuna difficoltà, obiezione o forzatura». La replica gela il Viminale. Napolitano ribadisce la consultazione informale, frutto di «leale collaborazione istituzionale», per verificare «profili di costituzionalità, coerenza e correttezza legislativa». Da qui all´accordo sulle ronde ce ne corre. Perché il dl è frutto di «autonoma ed esclusiva responsabilità del governo». Tra i due c´è stato un confronto tecnico, ma nessuno testo concordato, né dal Colle è giunto avallo politico. L´ex ministro dell´Interno supergarantista non ha nascosto perplessità (meglio un ddl), timori (ancoraggio rigido ai prefetti), l´invito a cercare intese con l´opposizione. Maroni prima ha pensato di soprassedere, poi è andato avanti.
Il confronto duro in consiglio. Lì La Russa ha puntato i piedi: «Se nel dl mettiamo le ronde i giornali parleranno solo di quello». Ronchi lo spalleggia. Lui elenca: «Serve un regolamento, ex poliziotti ed ex Cc con un ruolo guida, niente membri sotto 25 anni né armi "improprie", controllo sui carichi pendenti, divieto d´uso di fondi pubblici sennò si crea il corto circuito coi sindaci». Poi il nome, «non chiamiamole ronde». Bossi sta con Maroni: «Non perdiamo di vista la gente che vuole contribuire alla sicurezza». E Calderoli: «Saranno la rete di protezione civica». Giorgia Meloni spalleggia La Russa: «I partiti devono stare fuori, più ci si allontana da loro e più ci si avvicina ai prefetti meglio è».
Maroni accetta. Dirà poi: «Non ci muoviamo su un´onda emotiva. Si chiameranno volontari della sicurezza. Staranno sotto il sindaco, controllati dal prefetto e dai comitati provinciali per la sicurezza. Sarà un modo, controllato, visibile per gestire una realtà che già esiste. Le prefetture terranno gli elenchi come per le associazioni antiracket. Non avranno armi, ma telefonini e ricetrasmittenti. Mi fido dei sindaci». Quanto ai poliziotti, «quelli che vanno per strada sono d´accordo».
Berlusconi è soddisfatto. Si vende i successi contro il crimine, come il calo del 10% degli episodi violenza, «anche a Roma» e «grazie ai militari». Giustifica il dl perché «il Parlamento è lento». Alza la voce il ministro per le Pari opportunità Mara Carfagna («I molestatori hanno le ore contate»). Il Guardasigilli Angelino Alfano, in versione "femminista", garantisce alle donne che «vengono anticipate di cento giorni norme fondamentali per tutelarle». Nega che il ddl sulle intercettazioni vada in direzione opposta: «Tutti i reati sono intercettabili». Ma con i «gravi indizi di colpevolezza» e la durata di soli 60 giorni pure perseguire lo stalking sarà impossibile.

Repubblica 21.2.09
A piccoli passi verso l’inciviltà
di Gad Lerner


Un governo estremista e irresponsabile introduce d´urgenza nel nostro ordinamento le ronde dei cittadini, nonostante le perplessità manifestate dalle stesse forze di polizia, accampando la più ipocrita delle motivazioni: lo facciamo per contenere la furia del popolo. Spacciano le ronde come freno alla "giustizia fai-da-te", cioè alle ormai frequenti aggressioni di malcapitati colpevoli di essere stranieri o senza fissa dimora.
Ma tale premura suona come una cinica beffa: la violenza, si sa, è stata fomentata anche dai messaggi xenofobi di sindaci e ministri. Il decreto governativo giunge come una benedizione delle camicie verdi padane e delle squadracce organizzate dalla destra romana. Propone agli italiani di militarizzarsi nell´ambito di un "Piano straordinario di controllo del territorio" fondato sul concetto di "sicurezza partecipata". I benpensanti minimizzeranno, come già hanno fatto con le "classi ponte" per i bambini stranieri, i cancelli ai campi rom, l´incoraggiamento a denunciare i pazienti ospedalieri sprovvisti di documenti regolari. Cosa volete che sia? Norme analoghe sono in vigore altrove, si obietta. Mica vorremo passare per amici degli stupratori? Così, un passo dopo l´altro, in marcia dietro allo stendardo popolare della castrazione chimica, cresce l´assuefazione all´inciviltà. La promessa del grande repulisti darà luogo a sempre nuove misure che lo stesso Berlusconi fino a ieri dichiarava inammissibili.
Il presidente del Consiglio era dubbioso anche sulle ronde, ma si è lasciato trascinare dai leghisti per istinto: forza e marketing non sono forse le materie prime del suo potere suggestivo? Poco importa se ciò lo pone in (momentanea) rotta di collisione con il Vaticano, che denuncia "l´abdicazione dallo stato di diritto". A lui la Chiesa interessa come potere, non come Vangelo: si adeguerà. Quanto al distinguo del presidente Napolitano, gli viene naturale calpestarlo: come prevede la forzatura berlusconiana della costituzione materiale del Paese.
Il capo del governo concede che gli stupri sono in calo del 10% nella penisola. Ma più della statistica vale per lui il "grande clamore suscitato da recenti episodi". Per la verità nel novembre 2007, dopo l´omicidio con stupro della signora Reggiani a Tor di Quinto, fu posseduto dal medesimo impazzimento mediatico anche il centrosinistra, guidato all´epoca dal sindaco di Roma. Mal gliene incolse.
La destra populista invece trova nell´insicurezza il suo principale fattore di radicamento territoriale. Prospetta la riconquista dell´ambito esterno al domicilio privato, vissuto da tanti come ostile. Le parole "ronda", "squadra", "pattuglia", "perlustrazione" � un incubo negli anni della violenza politica - vengono adesso sdoganate come potere calato dall´alto per guidare il popolo. Nuove milizie, nelle quali i volontari dei partiti di governo e gli uomini dello Stato si fondono e si confondono. Come avveniva nel regime fascista.
Lunedì scorso all´"Infedele" una giornalista rumena ha provocato un senatore leghista: «Noi le abbiamo conosciute già, le vostre ronde. Si chiamavano "Securitate"». Lungi dall´offendersi per tale paragone con le squadracce comuniste di Ceausescu, il senatore leghista le ha risposto: «All´epoca in Romania c´era molta meno delinquenza».
Ora anche il governo minimizza. Le ronde saranno disarmate (a differenza di quanto previsto nella prima versione, bocciata al Senato). Mentre la Lega esulta, gli altri cercano di ridimensionarle a contentino simbolico, poco rilevante nella gestione dell´ordine pubblico. Fatto sta che è sempre l´estremismo a prevalere. Berlusconi si era opposto pubblicamente anche al rincaro della tassa sul permesso di soggiorno. Si sa com´è finita. La Gelmini aveva dichiarato che per i bambini stranieri prevede corsi di lingua pomeridiani anziché classi separate. Ma i leghisti stanno per riscuotere le classi separate. Tutte le peggiori previsioni si stanno avverando. La prossima tappa, c´è da scommetterci, saranno le normative differenziali sull´erogazione dei servizi sociali (agli italiani sì, agli stranieri no, e pazienza se pagano anche loro le tasse); seguirà il distinguo nei sussidi di disoccupazione (c´è la crisi, non possiamo mantenere gli stranieri, e pazienza se hanno versato i contributi). Fantascienza? Ha davvero esagerato "Famiglia Cristiana" denunciando il ritorno al tempo delle leggi razziali?
Le ronde dei volontari guidate dagli ex funzionari di polizia annunciano un clima di guerra interna che non si fermerà certo agli stupratori e agli altri delinquenti. Quale che sia la volontà del presidente del Consiglio, cui la situazione sta già sfuggendo di mano.

Repubblica 21.2.09
Il senatore, protagonista delle polemiche sul testamento biologico, all’inaugurazione dell´anno accademico
Arriva Marino e Genova si spacca proteste e manifestazioni all´università
Veronesi boccia il ddl Calabrò sul testamento biologico, ok da mons. Fisichella
di Michela Bompani


GENOVA - Polemica e assedio all´inaugurazione dell´anno accademico di Genova. Ospite d´onore, sabato 28 febbraio, nell´aula magna dell´Università, sarà il senatore Ignazio Marino, ex capogruppo del Pd nella commissione Sanità del Senato (poi "sostituito" dalla teodem Dorina Bianchi) che, nei giorni scorsi, ha invocato il referendum se dovesse essere approvato il disegno di legge in materia presentato dal centrodestra. Dopo il deflagrare del caso Englaro, l´Ateneo genovese suscita l´attenzione nazionale per questo ospite protagonista del dibattito politico e che all´inaugurazione dell´anno accademico parteciperà con l´intervento «La legge e la bioetica al confine tra umanità e progresso scientifico». La polemica infatti è ancora accesissima: solo ieri l´oncologo Umberto Veronesi ha definito "un obbrobrio giuridico" il ddl della maggioranza, che porta la firma del senatore Calabrò, mentre per monsignor Fisichella, presidente della pontificia Accademia per la Vita, l´adozione del testo da aprte del Senato "è un buon passo".
Marino è genovese, ha un pedigree scientifico di prim´ordine (è professore al Jefferson Medical College di Filadelfia) ed autore di una proposta di legge sul testamento biologico, e un paio di mesi fa era stato invitato dal rettore Giacomo Deferrari a tenere una "lectio magistralis". Allora nessuno ebbe nulla da ridire, ma l´esplosione del caso Englaro ha cambiato le carte in tavola e ora il rettore si ritrova suo malgrado al centro di una bufera. Oggi l´arrivo di Marino spacca gli studenti, lacera il corpo accademico e crea problemi anche nel mondo della sinistra genovese. I giovani di Comunione e Liberazione stanno preparando un documento da distribuire il giorno dell´inaugurazione, contestando le convinzioni del senatore. Mentre gli studenti della sinistra si riuniranno lunedì per organizzare una contromanifestazione in favore del senatore Pd.
Inoltre il vicepresidente della Regione, Massimiliano Costa, cattolico, ex Margherita e compagno di partito di Marino, annuncia che non parteciperà alla cerimonia: «Ho altri impegni - spiega - e poi non condivido la posizione del senatore Marino, che ha agitato l´opzione referendum quasi come un ricatto, ancor prima di vedere che tipo di legge si sta discutendo». Costa precisa che questa assenza non inficia il rapporto di stima e fiducia che la Regione ha nei confronti dell´Università e del Rettore Giacomo Deferrari: «Vado d´accordo con il Rettore, sono in disaccordo con Marino sul referendum: e poi credo che la scienza e la politica dovrebbero rimanere separate».
A tentare di "invadere", pacificamente, la cerimonia (da alcuni ribattezzata «inaugurazione del (d)anno accademico»), ci saranno i ragazzi dell´Onda, già in assemblea nelle diverse facoltà per proseguire la lotta anti-Gelmini. Ma il fronte della protesta non si esaurisce qui: voci del dissenso potrebbero levarsi anche tra gli stessi "togati", che vorrebbero cogliere l´occasione per rivendicare l´intoccabilità della radice pubblica dell´Università.

Repubblica 21.2.09
Sul testamento biologico meglio un referendum
risponde Corrado Augias


Caro Augias, di una cosa sono sicuro: una persona dev'essere libera di accettare o non accettare cure mediche; nello stesso modo il medico deve essere libero di non accettare le richieste del paziente. Questo viene impedito dalla Chiesa che entra in merito alle decisioni dello Stato in teoria laico. Non voglio certo dire che il papa e i suoi adepti debbano tacere. Dicano pure il loro pensiero ma senza imporlo a tutti. Che siano i medici e i pazienti cattolici ad ascoltarlo ma gli altri devono essere liberi di decidere secondo coscienza.
Roberto Fuschi robertoche@hotmail.it

E gregio dott.Augias, Il ddl che il Governo (e non solo lui) sta preparando sul testamento biologico, si sta dimostrando un atto di estrema violenza contro la libertà di ogni cittadino. Il lavaggio del cervello che Tv, radio e giornali stanno facendo è un fatto che penso non succeda in nessun altro paese d'Europa. Spero che la voce di chi porta avanti questa vera battaglia di libertà continui a farsi sentire per evitare che venga scritta un'altra brutta pagina di storia.
Piero Gardenghi Imola pgardeng@libero.it

Il disegno di legge sul testamento biologico è stato redatto nel modo più arretrato possibile in modo che, anche dopo possibili emendamenti, mantenga il segno d'una concezione originaria che si può così riassumere: il parere del soggetto interessato dev'essere manifestato ripetutamente, convalidato ogni volta alla presenza di un medico e davanti a un notaio. In ogni caso il medico curante potrà tenere o non tenere conto della volontà espressa. Leggi come queste sono sempre concepite in modo da rendere lungo, costoso, incerto l'ottenimento del diritto. E' la vecchia regola dei regimi autocratici fatta per scoraggiare le persone più semplici e lasciare spazio di manovra agli 'azzeccagarbugli'. Torna, anche in questo ddl, la vecchia Italia nella quale si pensa che più il popolo rimane a testa bassa, ignaro dei suoi diritti, ostacolato nell'ottenerli, meglio è. In questo pantano la proposta del senatore Marino (se passa questo ddl, si va al referendum) ha suscitato scalpore sia a destra sia a sinistra. Marino è abituato agli Stati Uniti dove le cose si dicono con chiarezza. Qui la chiarezza fa paura, anche all'interno di quel Pd che non ha mai avuto una linea in proposito. La deputata Paola Binetti si è affrettata a dire che se passa Marino lei lascia il partito. La mia opinione è che se mai questo referendum si facesse passerebbe con largo vantaggio per una semplice ragione. Al contrario di quanto è accaduto con quello sulla Legge 40 (procreazione assistita) qui il quesito è chiaro: volete o no essere padroni di decidere della vostra vita? E, se fosse il caso, della vostra morte? Sono questioni che, come per il divorzio, come per l'aborto, tutti capiscono; e hanno a cuore.

il Riformista 21.2.09
Sul bio-testamento Pd sempre più diviso
laici e cattolici. I teodem supportano l'astensionismo della Bianchi sul testo del Pdl, Marino è fermo su una «azione di contrasto rigorosa», D'Alema invoca una «sintesi» molto complicata.
di Paolo Rodari


È il disegno di legge sul testamento biologico ad agitare le acque all'interno del Partito democratico. Acque che, come è logico che sia, minacciano di riversarsi addosso al futuro segretario del Partito. Già, perché sull'argomento i punti di vista sono diversi e diversificati.
L'altro ieri si è avuta una chiara manifestazione di tutto questo. In commissione Sanità del Senato, il ddl della maggioranza che esclude dalle volontà alimentazione e idratazione artificiali, è passato con 13 voti favorevoli, 6 contrari e 3 astenuti, questi ultimi tutti del Pd. A nulla, dunque, sono serviti i tentativi di mediazione messi in atto dai democratici.
All'interno del partito la differenza di posizione sul testamento biologico non c'è soltanto tra l'ex capogruppo Ignazio Marino, appunto l'autore di una proposta di legge sul trattamento di fine vita che esclude l'alimentazione e l'idratazione artificiali e che vorrebbe bocciare il testo Calabrò e indire un referendum se dovesse passare, e la neo-capogruppo, cioè la cattolica Dorina Bianchi, la quale, invece, vorrebbe limitarsi a migliorarlo. Lo scontro è più ampio e riguarda gran parte dell'anima cattolica del Pd e quella più laica. Sempre l'altro ieri, infatti, era stata la "teodem" Paola Binetti a contestare la proposta di Marino di una consultazione popolare. Per far naufragare il referendum promosso, tra l'altro, da molti dei suoi futuri compagni di partito come Umberto Veronesi, Binetti aveva ricordato la mobilitazione capillare dei cattolici per la legge 40: «Abbiamo spiegato le nostre ragioni casa per casa, in incontri, in conferenze con migliaia di persone, nei salotti, nei dopocena con gli amici, nei caffè, nei bar, in metropolitana, con le e-mail, con articoli fatti circolare, in modo che nessuno fosse escluso».
Ma si possono anche ricordare le differenti posizioni espresse quando il consiglio dei ministri approvò il ddl sulla vicenda di Eluana Englaro. Allora in diversi tra i cattolici del Pd si dichiararono disposti a votarlo.
Ieri, in favore di Marino, sostituito in corsa dai democratici come capogruppo del Pd in commissione, è dovuto scendere in campo Massimo D'Alema. Dalle colonne di Repubblica ha definito «un grave errore sostituire Marino». D'Alema ha detto la sua anche sulla contrapposizione cattolici-laici all'interno del Pd: «La vera forza di un partito nuovo non sta nella semplice giustapposizione di linee differenti». E ancora: «Io rispetto i cattolici ma la libertà di scelta in materia di trattamenti sanitari è un principio costituzionale e di civiltà. Sia chiaro, non metto in discussione la libertà di coscienza. Ma un grande partito, su un tema come questo, non può non capire che deve discutere, deve rispettare la diversità, ma alla fine deve arrivare a una sintesi».
Eppure una sintesi sembra oggi difficile. Parecchi tra i cattolici del Pd ritengono sagge le dichiarazioni di ieri di monsignor Rino Fisichella, presidente della Pontificia Accademia per la Vita, per il quale occorre «creare un clima in cui il Parlamento possa lavorare con serenità in un saggio confronto, perché su questi temi non c'è bisogno di conflitto». E come ha detto ieri il cattolico Luigi Bobba (Pd), l'astensionismo della Bianchi mira proprio «a porre le condizioni per un dialogo tra maggioranza e opposizione evitando quel "bipolarismo etico" che sarebbe una iattura su argomenti così delicati e complessi e che non aiuta a trovare soluzioni condivise». Mentre invece la posizione di Marino è quella di «un'azione di contrasto parlamentare rigorosa, con tutti gli strumenti disponibili». «Io - ha detto ieri - ho pronunciato un discorso di apertura. Calabrò invece sbarra la porta».
Tra maggioranza e opposizione lo scontro è anche su Beppino Englaro. Questi ha annunciato battaglia contro la legge voluta dal governo. Il sottosegretario alla salute Eugenia Roccella ha sottolineato che quella del papà di Eluana è stata fin dall'inizio «una scelta politica», ne è prova il fatto che oggi sarà in piazza a Roma contro la legge allo studio sul testamento biologico mentre «aveva detto che dopo la morte della figlia si sarebbe ritirato in composto silenzio».

Repubblica 21.2.09
Miep Gies la nascose in casa con la famiglia Fu lei a trovare il diario: "La ricorderò sempre"
L’angelo custode compie 100 anni
"Dipendevano da me, ero il loro unico contatto con il mondo. Fu un periodo straziante"
di Alberto D’Argenio


BRUXELLES «Con il tempo tutto passa, ma fino a quando ci saranno dei sopravvissuti il ricordo continuerà ad esistere». Anna Frank la chiamava la sua «protettrice», poi è stata ribattezzata la «guardiana della memoria». Miep Gies era la giovane donna dal viso dolce che dal luglio 1942 all´agosto 1944 ha nascosto Anna Frank e la sua famiglia, l´angelo che li ha tenuti in contatto con il mondo e ha portato loro le provviste e gli oggetti capaci di rendere la vita meno soffocante. Era lei che comprava la preziosa carta con cui Anna ha scritto il suo diario, che la ascoltava e rispondeva alle sue mille domande. Domenica scorsa Miep ha computo 100 anni ed è tornata a parlare al mondo.
Via e-mail ha concesso a Repubblica qualche domanda in bilico tra passato e presente. Ricorda Anna - «era il sole di quella casa, il motore che ha unito tutti» - e parla di oggi, del negazionismo, delle polemiche sui lefebvriani: «Le parole e i precetti della Chiesa cattolica mi sono indifferenti. Posso però dire di non essere d´accordo con tutte queste cose». Poi si tuffa nel tempo e parte da dove tutto è cominciato. Ci porta ad Amsterdam, nel 1933, quando è diventata la segretaria di Otto Frank, proprietario del magazzino al 263 della Prinsengracht. Una vita dopotutto felice, per lei che a soli 11 anni era scappata dalla povertà post-bellica dell´Austria. Ma poi è arrivata una nuova guerra, i nazisti e la memoria si tinge di tragedia. C´è quel giorno del 1942 in cui Otto Frank la chiamò: «Miep, ti devo dire una cosa importante, un grande segreto. Ci stiamo preparando a nasconderci, qui, in questa casa: ci vuoi aiutare?». Il suo «sì» fu dettato da un sentimento naturale, spontaneo e noncurante dei rischi. Poi arriva il 9 luglio, il giorno della fuga. E´ lei a portare nel nascondiglio Margot, la sorella maggiore di Anna finita nelle liste dei nazisti. Ricorda: «Margot e la madre erano sotto shock, stavano sedute lì con lo sguardo perso nel vuoto. Era orribile. Anna, invece, era allegra e contenta come sempre». Eppure la vita era diventata una prigionia.
In che misura lo capì tempo dopo, quando venne invitata a trascorrere una notte nel nascondiglio: «Non ho chiuso occhio: solo allora ho capito davvero cosa volesse dire nascondersi. Eri schiacciato da una forte pressione, dalla paura. Mi sentivo incatenata e ho pensato: domani sarò di nuovo libera».
Quella notte le insegnò più di due anni in cui tutte mattine andava a raccogliere la lista della spesa dei Frank: «Anna era sempre la prima a dire: «Hello Miep, cosa c´è di nuovo?». Era così, era normale ed impulsiva. Ma io sentivo che loro dipendevano da noi, che mi aspettavano con ansia per parlare, per avere notizie. Lo trovavo terribile. Il fatto che fossero docili mi faceva male, era straziante». Fu invece di pomeriggio che capì il legame tra Anna e la scrittura: era salita nel nascondiglio fuori orario e trovò la bambina che scriveva «con grande concentrazione». Quando la vide, Anna le rivolse «uno sguardo ostile» e chiuse il diario sbattendolo. Lei rimase sconvolta.
«Quella era la Anna che scriveva». Poi arrivò la tragedia, il 4 agosto 1944. Miep era in ufficio quando la porta si aprì ed entrò un uomo armato. Pensò: «Ci siamo». Seguirono densi minuti di angoscia. Lei fece scappare i complici e rimase da sola: «Avevo sentito qualcuno parlare in tedesco, con un accento che conoscevo. Quando entrò mi alzai e dissi: «Lei è di Vienna, anch´io lo sono». L´uomo rimase a bocca aperta. Gli diedi i documenti e lui sbraitò: «Non ti vergogni? Stai aiutando della spazzatura ebrea! Sei una traditrice e dovresti morire». Rimasi in silenzio e lui a muso duro disse: «Per me puoi rimanere, ma se scappi prenderemo tuo marito». Desolata sentì i passi dei Frank che scendevano le scale. In quelle ore fu lei a trovare il diario di Anna e a custodirlo. Glielo voleva restituire di persona, ma la piccola non tornò: sette mesi dopo lei e Margot morirono a Bergen-Belsen. Così lo diede a Otto Frank, l´unico sopravvissuto della famiglia. Lui lo fece pubblicare ma per anni Miep non lo volle leggere. Poi trovò il coraggio: «Una sensazione bellissima si impossessò di me. Questa era l´Anna che conoscevo, la sentivo di nuovo vicina: quel diario è Anna». Fu quello il momento in cui capì che la sua vita sarebbe stata dedicata alla memoria.

Repubblica 21.2.09
L’Italia fuori legge
di Luciano Gallino


L’intervento di Luciano Gallino alla "settimana della politica"
Ecco perché dilaga l´abuso

Dall´ambiente al fisco. Dal lavoro alla criminalità Come un paese, fra violazioni e inadempienze, scende molti gradini nella scala della civiltà
Da vent´anni è noto che il 17 per cento del Pil è prodotto dall´economia sommersa Il triplo di ciò che accade nelle società sviluppate
Le strade che escono da Roma o da altre grandi città sono affiancate per chilometri da case costruite senza licenza

Si possono utilizzare diverse immagini allo scopo di definire il nocciolo del caso Italia. Tra le tante ho scelto l´immagine d´una società che con i suoi comportamenti collettivi si pone molto al di sotto della lex, la Legge con la maiuscola, quel sistema di rapporti tra individui e collettività che è considerato un elemento essenziale della condizione civile nell´età moderna ed ha il suo sommo nella Costituzione. Nella lunga scala che porta a una condizione civile la società italiana ha salito molti gradini, ma altri ne ha discesi. Al presente si colloca forse a uno dei livelli più bassi della sua storia, non foss´altro perché i rapporti che la legge dovrebbe regolare onde far procedere la società verso una ideale condizione civile diventano sempre più complessi.
Vi sono vari modi per restare al di sotto della lex, la legge in generale. Il primo consiste nella violazione in massa delle particolari leggi in vigore. Un secondo va visto nell´evitare di elaborare leggi che da generazioni sono pubblicamente riconosciute come indispensabili. Un terzo si materializza nella elaborazione di leggi incivili, nel senso che ostacolano, piuttosto che favorire, la salita della scala che porta una società a una condizione civile. Un ultimo modo consiste nel non attuare le leggi che ove lo fossero porterebbero espressamente in tale direzione, a partire da vari articoli della Costituzione concernenti il lavoro. Tratterò in breve dei primi tre, per soffermarmi poi più ampiamente sull´ultimo.
La violazione di leggi vigenti compiuta in massa dai cittadini abbraccia diversi capitoli. Tra i principali vanno collocati il controllo del territorio esercitato dalla criminalità organizzata; la devastazione del territorio stesso ad opera di comuni cittadini mediante costruzioni abusive; l´evasione fiscale, e la corruzione. Il monopolio dell´uso della forza spetta soltanto allo Stato, ricorda dottamente qualche ministro dopo ogni fatto di sangue. Tuttavia chiunque svolga una qualsiasi attività economica nel territorio a sud del 41° parallelo, si tratti d´un piccolo negozio o d´una grande impresa, d´un cantiere minimo per riparare un muro o di lavori autostradali, sa benissimo che si tratta come minimo di un duopolio, e che il secondo polo è assai più pervasivo, minaccioso e rapido nell´agire punitivamente che non il primo. Ora, la presenza d´un potere territoriale che si contrappone collocandosi, in termini di forza, quasi sullo stesso piano allo Stato era nota, discussa in Parlamento e oggetto di leggi, un buon secolo addietro. Domanda: la società, lo Stato, la politica non sanno, oppure bisogna concludere che non vogliono, riappropriarsi di un terzo del territorio nazionale?
Quanto all´evasione fiscale come pratica collettiva: da vent´anni è noto che circa il 17 per cento del Pil italiano è prodotto dall´economia sommersa. Che esiste anche in altri paesi, ma la quota ad essa imputabile da noi è almeno tripla tra le società sviluppate. Nell´economia sommersa lavorano circa due milioni di persone fisiche in posizione totalmente irregolare, più un milione di "unità di lavoro" statistiche formate da tre milioni di persone che svolgono un secondo lavoro non dichiarato. Il 17 per cento del Pil vale oggi 270-280 miliardi. L´evasione fiscale e contributiva è stimabile in circa 90 miliardi sottratti ogni anno a scuola, sanità, previdenza, infrastrutture. In realtà l´ammontare dell´evasione è assai superiore, perché ad essa andrebbe aggiunta la quota dovuta al 50 per cento delle società di capitali che ogni anno dichiara di non avere avuto utili; alle banche e alle imprese che hanno centinaia di sussidiarie in paradisi fiscali create per sfuggire al fisco; alla manipolazione da parte delle medesime dei cosiddetti prezzi di trasferimento tra società facenti capo alla stessa holding; alle legioni di professionisti, commercianti e artigiani che dichiarano per intero il fatturato della loro microimpresa, e però redditi personali trascurabili. In qualunque altro paese dell´eurozona, per non parlare degli Stati Uniti, forse la metà dei contribuenti italiani sarebbe sotto processo per frode fiscale. (...)
La devastazione economica e civile operata sul territorio dalla criminalità organizzata è visibile � stragi a parte � soltanto a chi deve a piegarsi ad essa. È invece visibile a tutti la devastazione fisica e paesaggistica del territorio operata dall´abusivismo edilizio, cui collaborano efficacemente milioni di cittadini e migliaia di imprese. Non v´è quasi regione, tratto di costa, o valle alpina che siano stati risparmiati. Le strade che escono da Roma come da altre grandi città sono affiancate per decine di chilometri, in ogni direzione, da case abusive. Sul totale Italia, si presume siano centinaia di migliaia le costruzioni fuori legge che sono state condonate; altre sono in paziente attesa. Tutto ciò ad onta del fatto che i pubblici poteri non abbiano mancato di far sentire la loro forza: negli ultimi anni, infatti, circa l´1 per cento delle costruzioni abusive è stato demolito.
La devastazione compiuta dagli abusi del costruire è stata accentuata ed estesa dall´assenza di leggi ad hoc: ossia leggi sulla pianificazione territoriale e sulla la gestione idrogeologica del territorio. Chiunque percorra la penisola non può che giungere ad una conclusione: gli italiani hanno collettivamente fatto del loro paese il più brutto d´Europa. Lo hanno anche reso il più pericoloso per quanto riguarda inondazioni, allagamenti, incendi, frane e ogni genere di crolli. (...)
Tra i dispositivi di legge che, ove fossero attuati, farebbero invece salire la società italiana verso una condizione più civile vi sono gli articoli della Costituzione compresi nel Titolo III. Gran parte della legislazione italiana sul lavoro degli ultimi decenni li ha ignorati, se non anzi formalmente violati. La sola proliferazione dei contratti atipici, ormai una quarantina, appare in contrasto con ciascun articolo del predetto titolo. Si prenda l´art. 36: «Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un´esistenza libera e dignitosa. La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge». La riduzione del reddito conseguente all´alternanza di periodi di occupazione e disoccupazione nel corso dell´anno, propria dei lavori atipici, e fatta drammaticamente risaltare dalla crisi in corso, contrasta con il primo comma di detto articolo, così come la direttiva della Commissione Europea, recepita dai governi italiani, la quale non stabilisce, ma lascia intendere che la giornata lavorativa possa essere allungata sino a 13 ore. Oppure si veda l´art. 41: «L´iniziativa economica privata� non può svolgersi in contrasto con l´utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana»; il sistematico venir meno delle sicurezze dell´occupazione, del reddito, della previdenza e delle altre, connaturato alla diffusione delle occupazioni precarie, è in palese conflitto con tale articolo. O si legga ancora l´art. 46: «Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende». Tale forma di collaborazione dei lavoratori alla gestione delle aziende è in realtà oggi resa impossibile, in forme pur minime, dalla frammentazione dei processi produttivi, e dalla concomitante moltiplicazione delle tipologie di contratto e di categoria d´appartenenza che si oggi ritrova in ogni azienda. Resta da chiedersi quando mai l´attuazione delle indicazioni programmatiche del titolo III della Costituzione troverà posto nell´agenda della politica italiana.

Corriere della Sera 21.2.09
Esce il romanzo che scandalizzò Parigi negli anni 80. L'autore spiega le origini del suo racconto grottesco. E incolpa politici e religiosi
Juan Goytisolo
Scontri di civiltà nel quartiere: il mio incubo divenuto profezia
Volevo narrare la spaventosa comicità del genere umano
di Mario Porqueddu


MARRAKECH – È comparso ieri per la prima volta nelle librerie italiane un romanzo scritto all'inizio degli anni Ottanta. Si intitola Paesaggi dopo la battaglia, lo pubblica Cargo (traduzione di Francesco Francis). La prima edizione risale al 1982: «Ma è un libro attuale, più di tanti che si possono trovare in circolazione oggi» sorride l'autore, Juan Goytisolo, seduto al tavolino di un caffè che si affaccia sulla Djemmaa el Fna, la grande piazza di Marrakech. È attuale al punto che il protagonista, trasformato in uomo-bomba da un gruppo terrorista e morto a pagina 178 del romanzo di 27 anni fa, è riemerso dal passato tornando fino a noi nell'ultima opera dello scrittore catalano, El exiliado de aquí y allá, uscita in Spagna nel 2008 (anche questa in Italia sarà pubblicata da Cargo).
Goytisolo è nato a Barcellona nel 1931 e da tempo vive in Marocco. Ma nel '56, subito dopo la fuga dalla Spagna di Franco, finì a Parigi e si stabilì nel Sentier: «Abitare in quel quartiere e la lettura di Cervantes sono state due cose decisive per la mia vita», spiega lo scrittore. E proprio il Sentier è uno dei protagonisti del suo libro. Appare come una «medina terzomondista», una babele di lingue e Paesi animata da commercianti ebrei, portinai lusitani, facchini del Bosforo, operai maghrebini, e da una «massa gregaria» di «iloti» scappati dal Pakistan o dal Bangladesh e pronti a mettere in vendita «a basso prezzo la forza delle loro braccia». Insomma, il quadro è radicalmente diverso dalle atmosfere della città-museo cantate dai molti autori che in quegli anni trovarono sulla rive gauche ispirazione o riparo. Tanto che per Parigi la pubblicazione di Paesaggi dopo la battaglia fu un piccolo shock.
«Il libro venne accolto dal silenzio della critica francese — ricorda Goytisolo — perché raccontava una città agli antipodi rispetto a quella che i parigini percepivano e riconoscevano. La direttrice di un importante supplemento letterario disse: "Ma perché si permette di parlare di Parigi in questo modo?"». E cioè raccontando il Sentier, e per di più attraverso le disordinate esperienze di un personaggio disdicevole, dedito alla collezione e stesura di annunci erotici, rapito da fantasie sessuali che alternano sodomizzazioni a mezzo di carote e pomeriggi trascorsi inseguendo le bambine fotografate da Lewis Carroll. Strano tipo di «dimissionario dal mondo », che coltiva la passione per i gruppi armati, si prende gioco di politica e ideologie, recita da guastatore dell'ortodossia sociale e culturale. Un «mostro» che spesso si confonde con l'autore e che, dalla prima all'ultima pagina, confonde il lettore. «Il protagonista vive tutte le contraddizioni senza risolverne alcuna — racconta Goytisolo —. E il lettore può farsi mille domande ma non troverà nessuna risposta. Quelle spettano ai leader della politica e delle religioni».
Anni fa, parlando di questo libro, l'autore disse che mantiene una relazione chiara con Bouvard et Pécuchet, l'opera satirica di Gustave Flaubert pubblicata incompiuta nel 1881 (un anno dopo la sua morte): lì il francese denunciava la stupidità umana, qui Goytisolo usa la parodia per raccontare la «spaventosa comicità del genere umano» e disegnare «una mappa universale dell'idiozia ». Nel 1982, mentre presentava Paesaggi dopo la battaglia nelle università spagnole, Goytisolo lo definì una sorta di «pseudo-autobiografia grottesca». Di certo, i rimandi alla vita dello scrittore non mancano: intanto, Goytisolo condivide con il suo personaggio l'esilio (condizione dolorosa, ma anche strumento per liberare la sensibilità e la lingua da abiti di pensiero nazionali e ristretti, luoghi comuni, frasi fatte), poi lontano da Barcellona l'autore scoprì la sua omosessualità, e infine si serve di un episodio reale del suo periodo francese, la misteriosa comparsa di scritte in caratteri stranieri sui muri del Sentier. «Dopo il golpe militare ad Ankara — è l'aneddoto — il quartiere si riempì di turchi; uscendo di casa vedevo cartelli nella loro lingua che non riuscivo a capire. Cominciai a sentirmi uno straniero e chiesi a un poeta comunista esiliato dove potevo imparare il turco. Mi indicò un'associazione politica di emigrati. Era gente simpatica. Ogni sera mi preparava la lezione».
In Paesaggi dopo la battaglia l'arabo prende il posto del turco, ma la storia comincia proprio così: scritte redatte in un alfabeto strano, ghirigori senza senso colorano i muri, unico tratto distintivo è l'illeggibilità. «La mia attitudine — raccontò anni fa Goytisolo a Santiago Gamboa — è da sempre criticare la propria tradizione e rispettare quella aliena, in ciò che ha di rispettabile ». Insomma, tentare di muoversi lungo quel cammino — per nulla stretto, semmai così ampio da fare paura — che consente di opporsi all'infibulazione senza rinunciare a «imparare qualcosa dall'arrivo di ogni cultura altra». Nel suo libro, invece, la mescolanza finisce per provocare la battaglia: l'ecatombe. Lui la racconta in una sequenza di capitoli brevissimi, senza una vera e propria trama, scegliendo una struttura narrativa frammentaria. A segnare profondamente l'opera è piuttosto lo stile. Goytisolo dice che gli è stato imposto dai temi trattati. Razzismo, terrorismo, sessualità, identità in crisi. «Quelle che parlano nel romanzo — spiega — sono le voci». E cita una frase di Kraus: «Il mio stile si impossessi di tutti i rumori del tempo». Così, nel testo trovano spazio annunci pubblicitari su laser per l'autodifesa e bunker atomici monofamiliari, comizi sul comunismo in Albania (segue dibattito), avvertimenti ai lettori abbronzati dei rischi che corre chi ostenti una carnagione più scura del «lecito», e persino un'analisi
ante litteram — anche questa piuttosto grottesca — delle conseguenze dell'effetto serra.
Immagini e incubi che a quasi trent'anni di distanza sembrano essersi trasformati in profezie. «Quello che il mostro del Sentier nel libro, si è convertito in realtà — dice lo scrittore —. Le predizioni fatte allora hanno trovato amara conferma». Ecco spiegato come mai nel 2008 il personaggio di 27 anni fa può, o forse deve ricomparire. Vittima del terrorismo, vuole capire perché lo hanno ucciso. «E la sola maniera che ha per farlo — dice Goytisolo — è mettersi nei panni di chi ammazza in nome di principi politici o religiosi». Ma questo è un altro romanzo.
Il libro «Paesaggi dopo la battaglia» di Juan Goytisolo (Cargo, pp. 183, e 15). Sotto, un disegno dalla prima edizione e l'autore esule a Parigi (foto Jerry Bauer / G. Neri)

Corriere della Sera 21.2.09
In cerca dell' Eden
Flaubert, Baudelaire, Ingres La seduzione di un «altrove» fra inganni, sogni e illusioni
Si inaugura domani un'esposizione con le opere di venticinque artisti che, dalla metà dell'800, hanno trovato il loro «paradiso» in terre esotiche
di Dacia Maraini


Si inaugura domani un'esposizione con le opere di venticinque artisti che, dalla metà dell'800, hanno trovato il loro «paradiso» in terre esotiche

Credo di avere avuto una prima idea dell'esotismo quando da bambina ho visto in Giappone il quadro di un allievo di mio padre che rappresentava gli scalini degradanti di un anfiteatro romano in una città fantasiosa, cosparsa di statue in pietra coperte da viluppi di edera e fiori selvatici che crescevano in mezzo alle colonne spezzate di un tempio romano. E io, che non avevo ricordi dell'Italia, essendo partita per il Giappone quando avevo un anno, sono subito stata spinta a identificarmi con quella visione di una città che pure mi era stata descritta tante volte dai miei genitori, ma con occhi razionali: una metropoli caotica, affollata, dominata dai preti e da una antica nobiltà terriera bigotta e senza scrupoli. Una città che ospitava il Parlamento, di cui aveva fatto scempio il fascismo. Questo era il pensiero dei miei. Ma io me la trovavo davanti molto piu accattivante, la grande capitale lontana e sconosciuta, come un misterioso luogo selvatico e silenzioso, abitato da lucertole e farfalle. Un luogo in cui il tempo era sospeso, e le memorie di fatti crudeli giacevano morte e rese inoffensive dal vento della storia, inghiottite da una specie di giungla vegetale fatta di riccioli contorti e spinosi. Per i giapponesi quello era l'esotico: un'Italia astratta e mai esistita in cui contavano solo le rovine di una civiltà scomparsa. Esotico è quel «sentimento che tende a esaltare forme e usanze di paesi lontani» come dice il vocabolario, una «predilezione per tutto ciò che è straniero».
Tornando in Italia nel dopoguerra ho scoperto che le cose che per me erano state la realtà quotidiana, per gli italiani rappresentavano qualcosa di affascinante, di sconosciuto ed esotico. Il teatro Noh, la festa dei ciliegi, i giardini di sabbia e pietra, i grandi Budda di legno, le pagode e i templi verniciati di rosso e di nero che per me erano pane di tutti i giorni, diventavano improvvisamente stranezze da scoprire.
Ho avuto la fortuna di provare in un tempo neanche tanto lungo cosa fosse il sentimento dell'esotismo. Capivo che era un innamoramento del diverso. Ma in che rapporto stava questo amore con l'opposto sentimento di sospetto e di odio per il dissimile? Non c'erano forse dei legami sotterranei che ne facevano l'uno la faccia scura e l'altro la faccia chiara di qualcosa che ci turba e ci inquieta?
Ricordo la prima volta che sono capitata davanti a un quadro di Gauguin. Quei cavalli azzurri, quelle palme rosa, quelle madonne dai piedi nudi e il seno fasciato da una veste di cotone, leggera, a colori sgargianti, mi sorprendevano e mi ammaliavano. Era l'esotismo europeo del XlX secolo. Un sogno succoso e colorato che rammentava isole lontane immaginate felici. Le stesse isole che si trovavano nei libri di Conrad, nei romanzi di Stevenson che io divoravo con fame insaziabile.
Certamente l'esotismo è seducente. Ti soggioga attraverso il sogno di qualcosa che non c'è e non ci sarà mai, ma lo stesso vive per i tuoi sensi abbagliati, in un interno sottile godimento che tocca le viscere.
Solo leggendo Flaubert e studiando le sue lettere ho capito quanto l'esotismo possa essere ingannevole e perverso. Flaubert detestava l'esotismo, lo considerava un moto dell'anima da disprezzare, un'emozione incolta, primitiva e infantile. Di cui però poi si ingozzava pure lui. Per pentirsene in un secondo tempo e attribuire i suoi «bassi gusti» alla eroina Madame Bovary.
Flaubert disprezzava le fantasticherie esotiche di Emma, ma nel fondo del suo cuore ne era attratto anche se si impediva di praticarle. Questo non lo fermerà, sui trent'anni, dall'intraprendere un lungo viaggio in Oriente che lo farà stare lontano dalla Francia per ben due anni. E non gli impedirà di andare a cercare una famosa prostituta «nera e bellissima, tutta unta di oli speziati» di cui avevano parlato e scritto famosi esploratori dell'Africa del Nord. La cerca, la incontra, ci passa una notte e ne esce con la sifilide. Malattia che lo porterà poi alla morte. Ma subito comincia a ingrassare e a perdere i capelli. Tanto che quando rientra in Francia, la madre che va a incontrarlo al porto, non lo riconosce.
Per quanto io abbia amato e frequentato gli scrittori romantici, non riesco a vedere l'esotismo come una tentazione inesorabile dello spirito. Forse l'avere scoperto da bambina che l'esotismo è relativo e quindi fatto di fumi, mi ha salvato dall'innamoramento di paesi lontani e sconosciuti. Il mio viaggiare ha preso altri significati, quelli della conoscenza e dell'esperienza dell'altro, senza nebbie e vaghezze.
Eppure dobbiamo dire che l'esotismo ha guidato le mani di magnifici poeti e di generosi pittori. Ho amato e continuo ad amare Baudelaire per i suoi ritmi che conoscono il respiro delle grandi maree. «La stupidità è spesso ornamento della bellezza; è la stupidità che dà agli occhi la limpidezza opaca degli stagni nerastri, la calma oleosa dei mari tropicali», scrive Baudelaire nei «Diari intimi». E si capisce che questa esaltazione della bellezza come stupidità, natura perfetta in quanto incapace di capire e volere, non poteva che portare infelicità nei suoi rapporti con l'altro sesso.
Ma allora, ci chiediamo: esiste un esotismo incolto, volgare e un esotismo colto? O è proprio l'esotismo che porta alla falsificazione della conoscenza? O addirittura esclude ogni possibile conoscenza del reale? Per Flaubert questa è la maledizione sghemba e infida dell'amore idealizzato per paesi lontani. Consapevolezza che non gli ha impedito di costruire un intero romanzo, «Salambò », sugli ori, le gemme e il sangue di una civiltà tutta immaginata e grondante di misteri mai svelati.
Per altri, l'Oriente è un'occasione per ragionare da osservatori obiettivi, come per Montesquieu con le sue «Lettere persiane ». Ma questo accadeva un secolo prima. Saranno Ingres e Delacroix a svelarci un aspetto inedito e giocoso dell'esotismo con i loro corpi femminili, le loro teste fasciate, i loro abiti dal gusto fortemente teatrale.

Corriere della Sera 21.2.09
La rassegna Dai quadri di Klee alle foto di Schifano
Fuggendo dall'Occidente verso mondi (forse) liberi
di Marcello Parilli


I viaggi che segnarono una rivoluzione creativa
A Ravenna, patria di grandi cartografi e da sempre crocevia di culture, «un'antica vita si screzia in una dolce ansietà d'Oriente», come diceva Montale. Praticamente il luogo ideale dove parlare (da domani, nella mostra «L'artista viaggiatore Da Gauguin a Klee, da Matisse a Ontani») di artisti che hanno scelto il viaggio verso terre lontane, alla ricerca dell'ispirazione perduta, lasciandone poi tracce significative nelle proprie opere.
«La mostra racconta il viaggio reale, geografico, compiuto da venticinque artisti "esemplari" dalla metà dell'Ottocento ad oggi — dice Claudio Spadoni, Direttore del Museo d'Arte della città di Ravenna —, ma si tratta anche di un viaggio interiore esemplificato dalla "Boite en valise di Duchamp", dove l'artista ha raccolto le riproduzioni delle sue opere, la sintesi del proprio percorso operativo. Non per nulla la mostra, che prende avvio da un galeone storico che salpa idealmente verso i continenti extraeuropei, si conclude con la sala di Ontani, con la testimonianza dei suoi viaggi asiatici che al tempo stesso rappresentano un interrotto viaggio intorno alla propria immagine».
A muoversi furono in tanti, e la mostra ne documenta tutte le rivoluzioni espressive: l'Africa attira, per ragioni diverse, pittori come Klee (che in Tunisia scopre la potenzialità della luce), Macke, Moilliet, poi Matisse, Kokoschka, mentre Gauguin, Nolde e Pechstein avevano puntato alle isole del Pacifico. Già a Novecento inoltrato la rivoluzione nella pittura di Dubuffet nasce nel deserto sahariano e quella di Mathieu in Giappone, mentre, per arrivare ai contemporanei, ecco il mondo esotico di Mondino o le foto di Schifano in Thailandia e di Ontani in India.
Ma il concetto di «viaggio d'arte» era irrimediabilmente cambiato: erano lontani i tempi dei primissimi viaggi di formazione rinascimentali, quando Donatello e Brunelleschi arrivarono a Roma facendo dissotterrare capitelli e colonne per poterli studiare e disegnare. Ma anche la tradizione tardo settecentesca del grand tour, che aveva come mete obbligate le culle della civiltà classica e del Rinascimento, era ormai in netto declino. Gli artisti cercavano altro: in fuga da un'Europa creativamente prosciugata, da un occidente soggiogato dalla cultura egemone e dai suoi riti di massa, andavano alla ricerca di mondi rimasti ai margini delle rivoluzioni industriali, di ambienti e costumi incontaminati, non ancora intaccati dalle trasformazioni già inarrestabili nei paesi che avevano condizionato per secoli la cultura figurativa dell'Occidente «evoluto». Luoghi, di fatto, dove vivere esperienze nuove, anomale, grazie alle quali liberare un processo di rimodellamento della propria personalità e della propria opera. Una vera e propria fruchtland,
un paradiso della fertilità creativa. E da questo Eden misterioso, spesso al seguito di spedizioni scientifiche ed etnografiche, tornavano infatti con quadri carichi di colori, documento più o meno fedele del paesaggio, della vita, del folclore locale, ma anche con schizzi monocromatici, minimalisti, ricchi di forme e segni quasi grafici che, rimandavano alla giovinezza dell'uomo, determinando esiti espressivi inediti.
Ma, a partire dal secondo decennio del '900, a chi raggiunge quei luoghi non più sperduti come un tempo, diventa chiaro che quel mondo va scomparendo sotto la brutale pressione del colonialismo europeo. Gli sguardi degli indigeni si fanno ostili, il bianco è diventato il nemico che governa con la forza. E anche l'artista, in qualche modo, non sfugge a questa logica: i Maori di Gauguin, che in quel momento erano veramente il diverso, il desueto, lo «scandalo » (anche sessuale), vengono addomesticati per l'Occidente. I quadri, alla fine, tornano «a casa» e, come dice Marco Antonio Bazzocchi, diventano «oggetto di rappresentazione che viene consumato, gustato, giudicato, lancia una moda, modifica il gusto, rompe con le tradizioni o le reinventa».

Corriere della Sera 21.2.09
Isabella Ferrari narra la pellicola che percorre le tappe di 120 gravidanze: «Inno alla vita»
Tutto il parto minuto per minuto con De Maistre
di R. Fra.


MILANO — In una piscina tra i delfini o in riva al Gange con una guaritrice, in sala operatoria o in casa con amici che cantano, nel deserto dei Tuareg o negli affollati ospedali vietnamiti. Un giro del mondo per veder nascere un bambino nelle varie culture è Il primo respiro, film-documentario di Gilles De Maistre, nelle sale. Tre anni di lavoro, 15 mesi di riprese, 120 donne incinte incontrate, 10 parti mancati. «Non è solo un film sulla nascita ma anche sulle donne. Inno alla vita, omaggio alla femminilità e alla maternità », spiega il regista. Il film — voce narrante Isabella Ferrari — si apre col parto in piscina in compagnia di un delfino. L'ostetrica spiega che gli ultrasuoni emessi dall'animale rassicurano e stimolano il bambino.
«Ci sono contrasti di paesaggi, climi, ma anche di usi, livello di vita. Volevo il deserto, l'acqua, la città. Confrontare un parto super assistito in ospedale con la precarietà di tanti altri ». Il documentario porta agli occhi proprio la naturalità del parto. Una dimensione che noi occidentali — tra ecografie, amniocentesi e translucenze nucali — abbiamo dimenticato. Ma non è un film a tesi, perché se colpisce la dissonanza tra un parto nell'azzurrissimo mare messicano e il via vai di dottori in un ospedale vietnamita con donne stipate su brandine, la voce di Isabella Ferrari spiega che in Vietnam da quando è obbligatorio partorire in ospedale le statistiche dicono che si salvano molte più vite.
Sembrano godersela i fricchettoni attorno all'amica e compagno che partoriscono in casa, senza aiuto. Si preoccupano solo quando, a 3 ore dal parto, la placenta non esce. «C'è tanto da imparare dai parti tradizionali e primitivi », racconta il regista. Il film fa riflettere, il tema è attuale, tanti i libri tra cui quello di Elisabetta Malvagna («ho fatto due figli in casa, come le fettuccine ») Partorire senza paura (Red): con il 38%, l'Italia ha il primato di tagli cesarei fra i Paesi occidentali, i parti in casa sono lo 0.17%.
Dice De Maistre: «Esperienza elettrizzante ma sfinente. In India temevo di diventar pazzo. Un mese in attesa del parto per l'ecografia tardiva». Poi, ironico: «Impossibile rivedere o rifare la scena di un parto. Buona la prima».

Corriere della Sera 21.2.09
Se prevale solo il malcontento
Pd, il rischio della rivolta
di Ernesto Galli Della Loggia


E' la sala della Pallacorda, non uno squallido hangar della Fiera di Roma, il luogo vero — vero perché definito dalla misteriosa verità dei simboli — dove si riunisce oggi l'assemblea del Partito democratico. Quella sala della Pallacorda, a Versailles, dove nella primavera del 1789 si riunirono i rappresentanti del Terzo Stato in rivolta contro il timido riformismo paternalistico di Luigi XVI, dando così inizio alla rivoluzione. Oggi i 2.800 delegati dell'«Assemblea costituente» (potenza dei nomi che ritornano) possono essere gli emuli di quei rappresentanti del Terzo Stato. Dalla loro riunione, dominata presumibilmente dalla delusione e dall'ira, può uscire di tutto. Se lo vogliono possono sfiduciare in blocco l'intera leadership
del loro partito approfittando del suo stato comatoso, possono imporre la convocazione di un nuovo congresso, possono avviare la procedura per l'elezione di un nuovo segretario e più o meno chiaramente indicare chi deve essere. Possono fare la rivoluzione, appunto, e in fin dei conti il loro attuale gruppo dirigente se la meriterebbe. Lasciamo perdere Veltroni, di cui si è detto già tutto; ma quando sulla Repubblica
di ieri leggiamo Massimo D'Alema affermare con la più sfacciata disinvoltura che nel Pd «nessuno ha complottato» e che lui comunque di quel gruppo dirigente non fa parte «da un pezzo», allora viene davvero da pensare che i capi «democratici» si meritino dalla loro base il trattamento più duro.
Ma un'assemblea del Pd che oggi cedesse al desiderio di rivalsa e di rivolta avrebbe l'unico risultato di avviare il Partito democratico verso un salto nel buio molto probabilmente mortale.
A questo esito quasi sicuro condurrebbe, infatti, l'eventuale scelta a favore sia di un congresso in tempi brevissimi sia dell'elezione immediata di un nuovo segretario: due decisioni che cozzerebbero entrambe in modo potenzialmente disastroso con la necessità di preparare e affrontare le prossime elezioni amministrative ed europee e il loro pressoché sicuro esito negativo.
Alla democrazia italiana non serve un Pd sull'orlo dell'abisso e a rischio catastrofe. Serve un Pd vivo. Ma proprio per questo serve un Partito democratico diverso, assai diverso, da quello che è stato fino a ora. Serve un partito nel quale i vecchi oligarchi iscrittisi alla Dc e al Pci a diciotto anni si mettano finalmente da parte, in cui si liquidino una buona volta i vari passati che opprimono il presente, un partito in cui la base abbia davvero voce in capitolo e i dirigenti del quale, quando compaiono ogni sera alla televisione, non ricordino immediatamente, e simultaneamente, il secolo scorso, il salotto Angiolillo e «Fortunato al Pantheon».
A conti fatti, e benché possa apparire (e forse essere) paradossale, una reggenza di Dario Franceschini fino all'autunno si presenta in questo momento come la soluzione più ragionevole e meno traumatica. A condizione che tale reggenza, però, sia chiaro, non nasca assediata dai capicorrente di sempre, ma fin da subito si presenti con un segno reale di frattura: per esempio con tutti gli incarichi direttivi affidati a un manipolo di segretari regionali della nuova leva, i quali, sotto qualunque bandiera siano stati a loro tempo scelti, sono pur sempre espressione degli iscritti. Che in questo modo potranno forse cominciare a essere finalmente i padroni del loro partito.

il Riformista 21.2.09
Elezioni europee, appello Ferrero, Vendola, Fava, Francescato, Diliberto, Nencini
A sinistra o vi unite o siete cretini
di Piero Sansonetti


Il Parlamento ha approvato l'altro giorno la leggina sullo sbarramento elettorale alle europee, e ha introdotto un codicillo che cambia un po' le cose. Il codicillo prevede che le liste che resteranno escluse dal Parlamento europeo, perché troppo piccole (sotto il 4 per cento), ma che comunque raccoglieranno il 2 per cento dei voti, otterranno il finanziamento pubblico.
Questo vuol dire che i partitini che prevedono di ottenere il due o tre per cento dei voti potrebbero decidere di fregarsene dello sbarramento - che impedisce loro di eleggere deputati - e di presentarsi lo stesso alle elezioni per beccare un po' di soldi. Se succederà questo, per la sinistra radicale sarà una sciagura. Uscirà polverizzata dalla prova elettorale. E oltretutto dimostrerà di considerare se stessa non una forza politica ma semplicemente una organizzazione, una specie di azienda. Presentarsi alle elezioni sapendo che non si avranno seggi ma soldi equivale a una autocertificazione di morte politica.
Caro Paolo Ferrero, caro Vendola, cari Fava, Francescato, Diliberto, Nencini, Bernardini e tutti gli altri; avete due possibilità davanti a voi: mettervi insieme, presentare un'unica lista alle elezioni, oppure suicidarvi. Vi prego, date un ultimo segno di vitalità e intelligenza. Diteci: un pezzettino di sinistra non piddina esiste ancora, ha i suoi guai, è litigiosa, piena di dissensi su tanti temi, ma è ancora capace di guardare all'interesse generale, intendendo stavolta per interesse generale l'interesse del povero e bistrattato "popolo della sinistra".
Non c'è possibilità di discutere molto sulle cifre. I risultati delle elezioni sarde e i sondaggi ci dicono che una alleanza tra tutte le forze della sinistra - comunista, socialista, liberale e tutto il resto - sicuramente porterebbe a superare il quorum del 4 per cento, ad avere una rappresentanza nel Parlamento europeo, e a dare una voce, anche se flebile e piccola piccola, alla gente di sinistra. E ci dicono anche che se ogni partito e partitino vorrà invece correre da solo, con ogni probabilità nessuno supererà il quorum. Voi - cari Ferrero, Vendola eccetera eccetera - tutto questo lo sapete benissimo.
Esistono obiezioni valide a questo ragionamento? L'unica obiezione che sento è quella sulle diversità. Si dice che le idee della Rifondazione "ferreriana" siano troppo lontane da quelle dei vendoliani o degli ex ds di Fava, e ancor più lontane da quelle dei socialisti o dei radicali. In parte è vero, in parte no. Ma l'obiezione non regge. Per due ragioni. La prima ragione sta nella legge elettorale. Io sono convinto che una forza politica che vuole far politica deve adeguarsi alla situazione nella quale opera. Non si può dire: questa legge elettorale, questo sistema politico non mi piacciono, e dunque io mi muovo come se non ci fossero... Se si ragiona in questo modo si rinuncia a fare politica.
La seconda ragione è inconfessabile: molti di voi, leader delle formazioni di sinistra, vi opponete all'unità non per ragionamenti politici ma per questioni e idiosincrasie personali. Avete l'ideologia del "Con Lui Mai…". Preferite ferire il leader concorrente che ottenere un risultato politico. Non è così?
Figuratevi se io - personalmente - posso avere simpatia, ad esempio, per Paolo Ferrero, che appena un mese fa mi ha cacciato via da Liberazione! Se però subordinassi i miei ragionamenti politici alle mie vicende personali, sarei un vero cretino. Ecco, diciamola così: cari amici, cari compagni, o mettete insieme una lista elettorale unica - diciamo pure una alleanza tecnica - o siete dei veri cretini. È un po' brutale ma è chiaro, no?

P.S. Naturalmente sarebbe preferibile che nessuno di voi facesse quei giochetti - antichissimi, stupidissimi - di dire: certo, tutti insieme purché ci si dichiari tutti comunisti, o tutti ci si dichiari non comunisti, o socialisti o pannelliani eccetera eccetera. Oppure: tutti uniti sotto il mio simbolo… Sono giochetti troppo scoperti. E naturalmente bisogna che ciascuno di voi si assuma le sue responsabilità. Anche di fronte all'elettorato bisognerà dire: «Io ho voluto l'unità», oppure: «Io ho impedito l'unità».

venerdì 20 febbraio 2009

Repubblica 20.2.09
Testamento biologico, il padre di Eluana in campo. E la destra l’attacca
Englaro: ora tutti in piazza
Il padre di Eluana si collegherà con la manifestazione convocata domani da Micromega
di Caterina Pasolini


Primo sì al testamento biologico Englaro: "Barbarie, ora in piazza"
Il centrodestra lo attacca. Pd diviso nel voto sul testo

«Una vera e propria barbarie, una legge assurda e incostituzionale che nega le libertà fondamentali. La decisione sulla propria vita deve essere affidata a chi la vive» dice Beppino Englaro.
Il papà di Eluana continua così la sua battaglia e boccia senza mezzi termini il disegno di legge sul testamento biologico approvato ieri mattina in commissione Sanità del Senato con 13 voti di maggioranza e la spaccatura annunciata nel Pd: 6 contrari e 3 astenuti.
Beppino, che ha lottato 16 anni nelle aule di giustizia perché fosse rispettata la volontà di sua figlia, è nettamente contrario a questo disegno di legge appena approvato. Tanto che ha invitato «tutti i cittadini a far sentire la loro voce, a scendere in piazza contro un provvedimento incostituzionale, che mette in discussione i diritti fondamentali mettendo le basi per uno stato etico». Per questo parteciperà in collegamento telefonico alla manifestazione organizzata da Micromega che si terrà domani in piazza Farnese alle 15 «Per la vita e contro la tortura di stato», alla quale hanno aderito da Eco a Margherita Hack, da Camilleri a Rodotà e anche 17 sacerdoti. Cattolici in disaccordo con la linea del Vaticano che anche ieri è tornato a discutere «se si possa considerare morta una persona in coma irreversibile a cui batte il cuore».
Englaro e l´opposizione contestano - del ddl presentato dal senatore Pdl Calabrò - il fatto che non preveda la possibilità per la persona di rinunciare ai trattamenti di nutrizione e idratazione artificiale, e che considera comunque l´opinione del paziente non vincolante per il medico.
«Così rendono inutile una legge sul testamento biologico», sottolinea Ignazio Marino, medico chirurgo, senatore del Pd, che nella passata legislatura aveva presentato un testo che aveva raccolto 100 firme da colleghi di opposti schieramenti in nome della libertà di scelta. E aggiunge: «È un arretramento rispetto al testo approvato all´unanimità del 2005. Avevamo lavorato perché le persone potessero decidere preventivamente quali cure chiedere o rifiutare nel caso in cui si fossero trovate incoscienti. Con questo disegno di legge nessuno, neppure in piena lucidità, potrà decidere sul fine vita. Non solo, in contrasto con l´articolo 32 della Costituzione che dice che a nessuno si possono imporre cure o trattamenti sanitari, questo avverrà. Il testo rende impossibile ai medici di seguire le indicazioni dei malati, come Welby o la donna che preferì morire di cancrena piuttosto che farsi amputare una gamba. In questi due casi i sanitari sarebbero messi sotto accusa oppure obbligati a intervenire, a tagliare la gamba e a non togliere il respiratore. Disattendendo così le volontà del paziente».
Il via libera al ddl Calabrò è arrivato con la votazione che ha visto i 13 i sì della maggioranza, mentre il Pd si è diviso, con 6 senatori che hanno votato no e 3 astenuti, tra cui il capogruppo Dorina Bianchi che ha motivato il suo voto come «un atto di fiducia verso il relatore». Nel pomeriggio la frattura nel Pd si è ricomposta con la Bianchi che ha annunciato che voterà «contro nel caso il testo del disegno di legge resti uguale». Rispetto ad altri testi presentati mancano riferimenti alle cure palliative, agli aiuti alle famiglie con malati terminali e in difficoltà. Entro lunedì verranno presentati gli emendamenti - tra gli altri Buttiglione (Udc) chiederà che vengano consentite terapie anti dolore anche se queste rischiano di affrettare la morte il malato terminale - ed entro il 5 marzo andrà in votazione. Col voto a favore comunque di Paola Binetti, teodem del Pd, che contraria all´ipotesi del referendum lanciata da Marino nel caso passi questo testo, ha promosso invece una «battaglia per i veri valori della vita».
Difficili i cambiamenti al testo sostanziali visto che Raffaele Calabrò (Pdl) che lo ha presentato, si è detto disposto a valutare gli emendamenti «fatti salvi il no ad eutanasia, accanimento terapeutico e suicidio assistito». In serata Quagliarello e Gasparri del Pdl hanno accusato Beppino Englaro di aver «offeso gratuitamente il parlamento» con le sue affermazioni.

Liberazione 20.2.09
Il testo del Pdl approvato in commissione. Sabato la manifestazione "sì alla vita no alla tortura di Stato"
Englaro sul testamento biologico: «Una barbarie, tutti in piazza»


La notizia più importante è che Beppino Englaro - uno che purtroppo se ne intende - definisce la legge sul testamento biologico una barbarie. La seconda notizia è che la commissione sanità del Senato ha dato il via libera al progetto di legge della destra berlusconiana. Infine, per gli amanti del gossip, la curiosità di un Pd diviso in tre: c'è chi, come la capogruppo in commissione Dorina Bianchi, fa «un'apertura di fiducia nei confronti del relatore», chi, come il senatore Ignazio Marino, ha già invocato il referendum su una legge che vieterebbe la sospensione dell'alimentazione e dell'idratazione artificiali, e chi, come la senatrice Paola Binetti, ha già lanciato la mobilitazione contro la «minaccia» del referendum. Insomma il Pd, con le sue differenze di sensibilità.
Il disegno di legge Calabrò sul testamento biologico, ovvero il testo della maggioranza, ha raccolto ieri mattina il suo primo voto: la commissione Sanità del Senato lo ha scelto come testo base per arrivare a una legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento. Un testo che non prevede la possibilità per il soggetto di decidere sui trattamenti di nutrizione e idratazione artificiale e che raccoglie varie critiche, a partire da quelle di Beppino Englaro: la legge che il Parlamento si appresta ad approvare, ha detto, «è una vera e propria barbarie». La crociata della destra continua, Berlusconi & c non guardano in faccia nessuno. Sono o non sono la maggioranza?
Il via libera al ddl Calabrò è arrivato con la votazione di ieri mattina: 13 i sì della maggioranza, mentre il Pd si è diviso, con 6 senatori che hanno votato no e 3 che si sono astenuti, tra cui la capogruppo Pd Bianchi. Un voto su cui la direzione del Pd, con la commissione Sanità, ha cercato di ricompattarsi. Intanto a Micromega, Beppino Englaro afferma la propria posizione: la legge sul testamento biologico che il parlamento si appresta ad approvare, dice, «è assurda, incostituzionale. E' assolutamente necessario che i cittadini facciano sentire la propria voce e scendano in piazza a manifestare». Beppino Englaro ha inoltre aderito alla manifestazione "Sì alla vita, no alla tortura di Stato", che si svolgerà a Roma domani in piazza Farnese. Paolo Ferrero ringrazia Englaro «per le sue parole e il suo coraggio», Rifondazione sarà in piazza.
Per il momento, comunque, la polemica è innanzi tutto sul voto in Senato: «Sono molto contento che sia questo il testo sul quale lavorare con gli emendamenti - ha commentato Raffaele Calabrò (Pdl), relatore del ddl - fatti salvi il no ad eutanasia, accanimento terapeutico e suicidio assistito, credo che si possa migliorare tutto nel tentativo di fare una buona legge». Sul fronte Pd la giornata è stata più intensa. Mentre Dorina Bianchi ha spiegato che «il voto di astensione è stato un atto di fiducia verso il relatore, che ha mostrato delle aperture agli emendamenti dell'opposizione», Ignazio Marino e altri senatori sono di tutt'altro avviso: «Il senatore Calabrò ha mostrato una chiusura totale sui punti indicati dalla opposizione - ha detto Marino - se questo è l'atteggiamento, ne prendiamo atto e porteremo avanti un'azione di contrasto parlamentare rigorosa». Ed un altro fronte si è aperto con le dichiarazioni di Paola Binetti che, rispetto alla «minaccia» del referendum annunciato da Marino contro la futura legge sul testamento biologico, lancia nel Paese una «mobilitazione e battaglia culturale» per «ricostruire il tessuto dei valori in favore della vita». Ti pareva. Anche Anna Finocchiaro e Luigi Zanda, presidente e vicepresidente del Pd al Senato, valutano il testo Calabrò come «un arretramento rispetto a quello approvato all'unanimità in commissione nel 2005». Dopo una riunione nel pomeriggio sembra comunque che, almeno per il momento, il Pd sia riuscito a trovare un accordo. I senatori Ignazio Marino e Daniele Bosone lavoreranno alla redazione e selezione degli emendamenti del gruppo, il cui termine di presentazione scade lunedì 23 alle 11. A fare da raccordo e coordinamento saranno Dorina Bianchi, e la direzione del gruppo al Senato con Finocchiaro, Zanda e Latorre. La cifra degli emendamenti ancora non si conosce, «ma saranno chiari, netti e in numero congruo - precisa Bosone - tra i punti su cui interverremo c'è senz'altro la nutrizione e idratazione artificiale, la durata della dat, la sua vincolatività, l'uso del notaio e l'obiezione di coscienza del medico». E Bianchi aggiunge che «se il ddl rimarrà tale il nostro voto sarà di dissenso».
In serata Maurizio Gasparri e Gaetano Quagliariello, capogruppo e vicecapogruppo vicario del Pdl al Senato, attaccano Beppino Englaro, lo accusano di voler assassinare i vivi, altro che eutanasia. Senza garbo, senza stile, senza civiltà politica.

Corriere della Sera 20.2.09
Testamento biologico Sì in commissione al ddl che esclude la sospensione della nutrizione. Bufera sulla capogruppo democratica
«Fine vita», Pd diviso. Duello Englaro-Pdl
di Margherita De Bac


Il padre di Eluana: barbarie. La replica: offende il Parlamento. La Bianchi si astiene
Pollastrini e Chiaromonte attaccano la collega di partito, che replica: ho premesso che non parlavo a nome di tutto il Pd

ROMA — Passa in commissione Sanità del Senato il disegno di legge sul testamento biologico che esclude dalle volontà la richiesta di sospendere alimentazione e idratazione artificiali. Beppino Englaro non usa mezzi termini su MicroMega: «Una barbarie». Alla conta ci sono 13 favorevoli, 6 contrari e 3 astenuti, questi ultimi tutti del Pd, che si spacca in un clima da «resa dei conti », come dice il segretario del partito socialista, Riccardo Nencini.
In mezzo alle polemiche, Dorina Bianchi, da pochi giorni al posto di Ignazio Marino come capogruppo in commissione dei democratici, un passato nella Margherita. Con Daniele Bosone e Claudio Gustavino è tra i tre astenuti e ha attirato su di sé critiche feroci dai colleghi di un partito già con i nervi scoperti per le dimissioni di Walter Veltroni. Accusata di non aver rispettato i patti, di aver mantenuto un comportamento ambiguo non dichiarando con sufficiente chiarezza che la sua astensione era una scelta personale, di minoranza, e che il Pd non avrebbe appoggiato il testo presentato da Raffaele Calabrò, Pdl.
«Cronaca di un evento annunciato, una cronaca avvilente. La Bianchi aveva il dovere di farsi carico della posizione maggioritaria oppure in subordine doveva rinunciare alla funzione che ricopre», attacca Barbara Pollastrini. Franca Chiaromonte e Donatella Poretti esprimono «stupore soprattutto alla luce della chiusura a qualsiasi confronto da parte del Pdl».
Subito dopo il voto i democratici si sono riuniti per un confronto. Tra l'altro è stato deciso di affidare a Marino e Bosone il compito di selezionare gli emendamenti del gruppo.
Scelta che secondo alcuni indicherebbe la volontà di oscurare la senatrice che si sarebbe resa responsabile di questo nuovo incidente di percorso. La Bianchi però con Anna Finocchiaro, Luigi Zanda e Nicola Latorre coordinerà il lavoro dei Pd. Lei si difende: «Non è vero, ho premesso che mi esprimevo a titolo personale e che nel gruppo c'erano sensibilità diverse. Chi non la pensa così, vada ad ascoltare le registrazioni. E poi nei miei confronti c'è preconcetto. Le diversità sui temi etici sono una ricchezza. Non siamo un partito caserma. L'astensione voleva significare dare credito alla possibilità di apertura del relatore di maggioranza». E attacca il suo predecessore Marino: «Chi parla di referendum vuol far naufragare il dialogo».
In tarda serata Calabrò ha negato esplicitamente che si possa trattare sui principi della legge: «Non si toccano, la richiesta di sospendere alimentazione e idratazione non sarà prevista dal testamento biologico ». Marino non si faceva illusioni: «Se questo è l'atteggiamento porteremo avanti un'azione di contrasto parlamentare rigorosa, con tutti gli strumenti disponibili. Ho pronunciato un discorso di apertura. Calabrò invece sbarra la porta». Il piano del Pd potrebbe essere quello di bloccare con una pioggia di emendamenti (da presentare entro lunedì) i lavori della Commissione. Il testo andrà in aula il 5 marzo.
«La legge è una barbarie vera e propria» secondo Beppino Englaro. Il padre di Eluana, morta due settimane fa, ha aderito ma non sarà presente alla manifestazione «Sì alla vita, no alla tortura di Stato», organizzata per sabato a Piazza Farnese. Maurizio Gasparri e Gaetano Quagliarello (Pdl) replicano: «Offende il parlamento ».
Padre Beppino Englaro nella casa di Lecco circondato dalle foto della figlia Eluana, morta il 9 febbraio scorso nella clinica La Quiete di Udine

Repubblica 20.2.09
Il diritto di disporre della nostra vita
risponde Corrado Augias


Caro Augias, la pletora di parole e buoni sentimenti che ci ha inondati tutti, nei giorni scorsi, sulla vicenda umana di Eluana Englaro, è la prova provata di quanto due misteri silenziosi, come la vita e la morte, siano puntualmente "tirati per la giacchetta" da quanti politici, media, cardinali e vescovi sembrano essere pronti a darsi battaglia per rivendicare la fondatezza di una Tesi o la sacralità di un Principio, sulla pelle degli altri. Mentre quella vita, così lieve, andava via e, simbolicamente, portava con sé tante altre vite come quella, pensavo che non ci fosse nulla di davvero irrinunciabile da dire.
Oggi, invece, è tempo di parlare ed esercitare il proprio diritto di critica. Sono due i riferimenti che mi hanno accompagnato nella riflessione che le propongo. Il primo è un documento della Società Italiana di Cure Palliative e della Federazione Cure Palliative che spiega come con la nuova legge, che rende obbligatorie nutrizione e idratazione forzate, si moltiplicherebbero le sofferenze dei malati terminali. Mi è parso, quello dei medici dei malati terminali, un contributo fondamentale al dibattito: una legge siffatta, "estenderebbe tale obbligo anche a coloro che vivono una fase di inevitabile e prossima terminalità, per le quali non si tratta di non iniziare o sospendere una terapia ma di accompagnarle a una fine dignitosa".
L'altro documento è quello dei teologi del Centro studi teologici di Milano: "È significativo il nuovo oscurantismo tutto cattolico, che mentre proibisce le tecniche di supporto scientifiche e le metodiche sofisticate per permettere alle donne una procreazione assistita (dicono artificiale) in caso di grave e irreversi-bile sterilità, e quindi si oppone alla nascita di una nuova vita, vuole invece che altrettanto sofisticate macchine e ausili di supporto continuino a funzionare per tenere in vita una vita morta".
Ora, invece, quando tutte le provocazioni verbali sembrano essersi assopite e per esercitare il sacrosanto diritto, democratico, dunque libero, di espressione "politica" nel senso più alto del termine della nostra cittadinanza, credo sia giunto il momento di "manifestare" l'esistenza di un senso più alto che la vicenda di Eluana ci ha lasciato "in eredità": a Roma, a piazza Farnese, sabato 21 febbraio alle ore 15. Perché, leggo nell'appello lanciato da tanti intellettuali italiani e sottoscritto da migliaia di cittadini, "La vita di ciascuno non appartiene al governo e non appartiene alla Chiesa. La vita appartiene solo a chi la vive".
Ilaria Donatio Roma

Del testamento biologico bisognerà credo parlarne molto nei prossimi giorni. La sostituzione del senatore Marino alla presidenza della commissione Salute è stata un pessimo segnale. Un altro segnale molto negativo viene dalle dichiarazioni del presidente del Consiglio. Prendendo la parola all'uscita del ricevimento per la ricorrenza del Concordato, ha detto di essere pienamente d'accordo con le posizioni del Vaticano. La somma di questi due segnali ci dice che bisognerà avere notevole capacità d'iniziativa e di resistenza per continuare a disporre della nostra vita, compreso il momento e il modo in cui lasciarla.

Repubblica 20.2.09
Al convegno organizzato da associazioni Usa anche la relazione di Seifert della pontificia Accademia
E sul confine tra morte cerebrale e vita si riapre la discussione in Vaticano
di Marco Polito


Il dibattito era stato rilanciato da Lucetta Scaraffia sull’Osservatore nel settembre 2008

CITTÀ DEL VATICANO - Si riapre nella Chiesa cattolica il dibattito sulla morte cerebrale. All´ombra della basilica di San Pietro un gruppo di organizzazioni cattoliche americane pro-vita ha organizzato un convegno dal titolo «La morte cerebrale è ancora vita?». Obiettivo dell´iniziativa - promossa da tra l´altro dall´associazione Famiglia domani, American life league, Family of America Foundation, Human Life International, United States Coalition pro Life - è di sottolineare che il «principio di precauzione in favore della vita», che la Chiesa cattolica ha invocato per non sospendere l´alimentazione artificiale a Eluana Englaro, va riconosciuto anche nel caso di morte cerebrale laddove nel corpo si manifestino altri «segni» vitali. Tipico il caso del trapianto di cuore, che va fatto a cuore ancora battente. In altre parole il convegno contesta il criterio stabilito nel 1968 dal «Rapporto di Harvard», che è stato accettato dalla comunità scientifica internazionale.
Dunque la sortita di Lucetta Scaraffia sull´Osservatore Romano del 2 settembre scorso non era casuale. «L´idea che la persona umana cessi di esistere quando il cervello non funziona più, mentre il suo organismo (grazie alla respirazione artificiale) è mantenuto in vita - scrisse allora la Scaraffia - comporta una identificazione della persona con le sole attività cerebrali, e questo entra in contraddizione con il concetto di persona secondo la dottrina cattolica, e quindi con le direttive della Chiesa nei confronti dei casi di coma persistente».
Al convegno, convocato all´hotel Columbus, partecipano come relatori Josef Seifert, membro della pontificia Accademia della Vita e critico nei confronti del concetto di morte cerebrale.
Sulla stessa linea è il filosofo Robert Spaemann, molto apprezzato da papa Ratzinger. E´ noto peraltro che in Vaticano le posizioni sul tema sono divise. Nel 2005 la pontificia Accademia delle Scienze organizzò un convegno sulla questione e molte relazioni si mostrarono contrarie al «Rapporto di Harvard», secondo cui l´encefalogramma piatto equivale alla fine dell´individuo.
Alla riunione hanno partecipato come osservatori alcuni consultori della Congregazione per la Dottrina della fede, che in futuro sarà chiamata a dare istruzioni in merito. Oggi si aprirà in Vaticano un altro convegno sull´eutanasia e mons. Fisichella ha già preannunciato che non tocca solo agli scienziati stabilire «cosa è lecito o meno».
(m. pol.)

Repubblica 20.2.09
Roma, nel campo del Casilino 900: siamo trattati come ad Auschwitz
Così parla la città dei rom
di Gabriele Romagnoli


Viaggio dentro il Casilino 900 di Roma, il più grande campo nomadi d´Europa, nei giorni in cui l´Italia è scossa dalla paura dopo gli ultimi casi di stupro e dai raid punitivi contro i romeni. Ecco le storie di chi abita in queste baracche tra sogni e speranze, rabbia e illegalità: "Noi non violentiamo, al massimo rubiamo per dare da mangiare ai figli"
"Qui nessuno stupra le donne Non siamo ‘rumoni´. E loro sono in Europa..."
"Il sindaco ci ha promesso un posto nuovo, ma non ha mai mantenuto un impegno"

Ci sono i carabinieri alla porta, ghiaccio e fango per terra, fumi tossici nell´aria. I bambini giocano letteralmente con il fuoco, le donne imprecano, gli uomini (quelli rimasti) vagano. Le parole più pronunciate, esattamente come vengono pronunciate, sono "sgombero", "spulzione", "Rumonia" e "cittadino". Cittadini del limbo. Non più jugoslavi, mai italiani. Zingari che non vogliono più essere nomadi. Bloccati dalla storia personale e del continente in questo lembo di Roma che fa vergognare l´Europa, Casilino 900, il ghetto a cielo aperto di seicento rom. Confinante con l´esasperazione di chi li vuole cacciare perché rubano, con la rabbia di chi li vuole punire perché stuprano e se non sono loro ma quegli altri non fa differenza, con il cinismo di un´amministrazione comunale che sta cercando di prenderli per fame. E freddo. E buio. Coabitano da troppi anni con le proprie divisioni razziali, non meno razziste di quelle che li isolano. Con gli alibi per le proprie colpe. E con l´improbabile attesa di qualcosa che non solo la logica, perfino la fede esclude possa arrivare. Questa terra non sarà mai la loro terra. Però ci vivono sopra, assediati.
In una mattina di sole in cui il solo uomo al lavoro sembra essere uno spaccalegna rumeno entro ad ascoltare le loro voci. Le riporto così come le ho sentite, i dialoghi per quelli che sono realmente stati.
La prima a venirmi incontro è una donna, madre di 4 figli che giocano alle sue spalle con ferri taglienti, scalzi mentre la temperatura balla intorno allo zero.
Dice: «Basta voi venire qui scrivere che noi ladri, mangia cani. Anche stamattina venuti carabinieri, alle sei. Buttato giù porta con piedata. Quando noi sappiamo, noi scappiamo nei cespugli. Portano via uomini, trattati come maiali. Portano a Ponte Galeria. Cosa vogliono? Non conoscono? Io venuta qui da Bosnia diciassette anni fa, per guerra, no madre, no padre, solo nonna. Trovato uomo qui, fatto figli. Adesso se malati non posso portare dottore. Paura. Paura di spulzione. Spulzione per tutti. Se prendono mio marito: spulzione. In Francia non è così. In Germania non è così».
Perché non siete andati là? Perché non ci andate adesso?
«Noi qui, figli nati qui».
Che cosa avete paura di perdere? Quella è una baracca di legno, il gabinetto è un cilindro di plastica in mezzo ai rifiuti, può andare peggio di così?
«Dove sono nata, neppure baracca, non avrei niente là».
Sì, ma in Francia, in Germania? Perché non montate sul furgone e andate là, dove avreste diritti e condizioni migliori?
«Non parliamo lingua, non conosciamo, noi qui».
Non siete zingari, non siete nomadi?
Alza le spalle.
Un uomo anziano, appoggiato a un bastone e al cofano di un camioncino bianco strepita la parola: «Auschwitz!».
Mi avvicino. Dice: «Qui ci trattano come Auschwitz, e noi zingari già dato. Alemanno come Hitler».
Questo non è vero e lo sai.
«Io dico quel che penso. Sono qui da più di trent´anni, guarda mio camion, ci raccolgo ferro, è mio da diciassette anni, questa è patente, questo è timbro di quando pago in Montenegro, io vengo da Montenegro. E tutte le volte la polizia mi ferma e mi dice: l´hai rubato. Io non rubo».
Qualcun altro lo fa, qualcuno che abita qui, intendo.
«Sì. E allora? Qui nessuno uccide. Qui nessuno stupra. Non come rumoni, e loro in Europa, pure. Se qualcuno qui lo fa, noi lo diamo a polizia. O lo uccidiamo noi. Ma ruba? Ruba autoradio? Se tu hai otto figli e non ti lasciano fare lavoro e devi dare da mangiare tu che fai? Se tu rubi per questo, io ti condanno?».
E se tu sei quello che aveva l´autoradio?
«Bambini più importante. Dateci lavoro e nessuno ruba autoradio. Ma dice: lavoro non c´è per italiani. E dice: zingari non lavorare. Noi lavoriamo ferro, lavoriamo rame. Io ho famiglia: figli e figli di figli e parenti e figli di parenti. Totale: centocinquanta. Un nuovo bambino al mese. Nasce e non è cittadino di niente, non ha documenti di niente. Che può fare? Ma bisogna dargli da mangiare. Come lavorare? Dove?».
Vado dall´unico uomo che ha la risposta, uno che spacca la legna nello spiazzo davanti alle baracche meglio tenute del campo. Ha capelli e occhi chiari, è rumeno.
Finora mi hanno sempre parlato male di voi rumeni, detto che voi siete i veri criminali, che cosa ci fai qui?
«Io lavoro. Faccio quel che mi chiedono. Mi danno una birra, un panino e trentacinque euro al giorno. Che ora è?».
Le undici.
«Quando arrivano le cinque?».
Dove vai quando smetti?
«Casa. Vivo con un amico. Niente campo per me. Tu dici che danno colpa a rumeni. Io ti dico: sai di chi è la colpa se rumeni stuprano? Di Berlusconi».
Questa non verrebbe neppure a Sabina Guzzanti, se sai chi è.
«No, ti spiego. In Romania, se tu rubi gallina, carcere tre anni. Anche quattro. Qui se stupri, dopo un mese sei fuori. Legge sbagliata, fai legge dura, Berlusconi, e vedrai».
Quanto danno in Romania a uno stupratore?
«Sette anni».
Tre, anche quattro, a un rubagalline e sette a uno stupratore? Fai legge giusta, non solo dura. O no?
«Non so, io spacco legna, mangio panino, bevo birra, vado casa. No violenze, niente problemi».
Il ragazzo si è avvicinato con l´aria curiosa, ha diciassette anni e una tuta rossa. I suoi amici, dietro una berlina nera, urlavano: "Via da qui!", lui si avvicina uscendo dalla costruzione più accettabile: c´è un porticato, una specie di aiuola, la parabola del satellite.
«L´ha montata mio padre, lui è un tecnico. Vediamo tutto: Sky, il digitale terrestre, la tv in chiaro».
Siete la prima classe di questo scalcinato treno.
«Noi siamo diversi, non siamo come quelli là, i montenegrini. Noi siamo kossovari, e macedoni: diversi».
I bosniaci sono migliori dei rumeni, i montenegrini dei bosniaci, i kossovari e macedoni dei montenegrini. Volete essere uguali a quelli che vi discriminano e discriminate. Chiamate razzisti chi vi esclude e distinguete in nome della razza. È logico?
«È così. La gente è diversa».
Tu vieni trattato da diverso?
«Qualche volta, non sempre. C´ho la ragazza, fuori da qui. Lei è italiana. I genitori nun dicono niente per questo»
La porti qui?
«No, vado fuori io. Nun c´è problema. Dicono che mettono controlli agli ingressi: blocco alle dieci. Io torno alle tre di notte, anche in macchina. Si passa dalli sfasci, vedi?».
Gli sfasci?
«Gli sfasciacarrozze. Ce n´è tutt´intorno al campo. La gente perbene gli porta le macchine da tajare. Sai che cosa vuol dire, no? Denunciano furto, prendono assicurazione e lo sfascio le fa a pezzettini. Poi dicono: saranno stati gli zingari, qui è pieno, quei ladri. E assicurazioni dicono: era parcheggiata vicino a Casilino 900, rubata sicuro. E pagano».
Quanto pensi di restare qui?
«Meno di niente, per me. Appena posso me la do a gambe».
Perché non ora?
«Dovresti chiederlo a mio padre».
È quel che faccio. Il padre è il più articolato di tutti quanti. Ha una baracca decente, dove è entrato pure il sindaco Alemanno: salottino, due camere da letto, bagno con servizi in ceramica. Dice di averci investito 12mila euro.
Ne valeva la pena?
«Io non volevo venire qui. L´avessi saputo sarei rimasto a fare la guerra, piuttosto. Dovevo andare in Belgio, mi son fermato qui perché c´era mio fratello, lui mi ha chiesto di aiutarlo, sono rimasto. Sapevo fare un lavoro e mi sono messo a farlo: ristrutturavo. Con un amico abbiamo fatto società, ma è andata male».
Non trovavate clienti?
«Sì, ma non pagavano. C´è ancora chi mi deve tremila euro, chi settemila. Quello dei settemila lo vedo sempre, lui ha una Mercedes 5000 e io quattro figli, e mi deve settemila euro. Ma è italiano, sorride, dice: te li darò. Se io gli spacco con la mazza quelle scale di marmo che gli ho fatto lui mi denuncia e io vado in galera. Ho chiesto all´avvocato: niente posso fare».
E allora di che cosa vivi?
«Faccio lo stesso lavoro, ma in nero. In nero mi pagano. Dev´essere perché se denuncio poi ci vanno di mezzo pure loro che fanno contratti in nero».
Tuo figlio vorrebbe andarsene da qui. Tu no?
«Ho comprato terra in Kossovo, anno prossimo, se ho abbastanza soldi…».
Quanti?
«Trentamila euro»
Un anziano col bastone mi ha detto che se gli danno cinquantamila euro al confine, lo passa.
«A me ne bastano meno, mi basta arrivare a trenta, ma lavorando, non li voglio gratis, allora torno a casa. Ammenochè…».
Ammenochè?
«Io vado agli incontri col sindaco e l´assessore Sveva Belviso, vedi ho nel portafoglio anche il suo biglietto da visita, di Sveva Belviso. Loro hanno promesso che faranno campo come da regole europee. Io gli ho detto che per la mia comunità va bene anche fuori dal raccordo, va bene anche un condominio, ho centocinquanta kossovari e macedoni, garantisco io per tutti».
Per gli altri no?
«No, solo per i miei. Gli altri sono diversi. Se lo fanno, come hanno promesso, resto».
Finora quante promesse hanno mantenuto?
«Nessuna. Avevano promesso la luce, il posto alla nettezza urbana per trentasei di noi, gli ho anche dato i nomi, sono lì che aspettano, non so, forse mi stanno usando, ci stanno usando, forse non diventerò mai cittadino, forse vogliono solo che vada via, che andiamo tutti via».
Sua moglie ha preparato il caffè. Io ho bevuto il mio. Il suo è rimasto intatto, freddo e amaro.

Corriere della Sera 20.2.09
Gli alberghi, occupati da 500 militari, si sono trasformati in caserme. «Nessuna prenotazione per Pasqua, i negozi non riaprono»
Lampedusa, nel Cpt della rivolta Per andare via mangiano lamette
L'isola nel caos, mancano anche i pompieri. Venti arrestati dopo il rogo
di Felice Cavallaro


LAMPEDUSA — È diventata l'isola degli alberghi- caserma e non è un bel vedere per i titolari della Baia Turchese, dei Dammusi di Cala Creta, dei Paladini o del Medusa, tanto per citare alcune delle strutture dove in passato a febbraio non si riusciva più a prenotare un posto letto per Pasqua. Eppure, turisti a parte, sono quasi tutti pieni. Di militari, appunto. Cinquecento uomini che la sera riempiono ristoranti e pizzerie dopo aver passato la giornata insaccati in tute antisommossa con elmi e scudi davanti a quell'inferno del Centro clandestini. O facendo la spola col poliambulatorio per soccorrere il tunisino che si è iniettato le feci bucandosi le vene con un chiodo, il disperato che ingoia lamette, come fanno altri ingerendo bulloni o pezzi di legno. Un modo per sperare di volare via in elicottero verso gli ospedali di Palermo, prima tappa per i centri accoglienza di Crotone, Brindisi o delle altre mete di cui hanno sentito parlare sulle coste africane da amici e parenti poi fuggiti via verso un destino tutto da costruire.
È in questa fucina rovente che s'è scatenata l'ira di chi mercoledì ha ridotto in cenere metà del Centro. Un piano ben studiato da un gruppo di irriducibili, rimasto impresso nel video registrato dalla polizia. Immagini che richiamano gli scontri degli ultrà negli stadi.
Con 70 tunisini che si sono prima scagliati contro i loro compagni affamati, pronti ad andare in mensa al secondo giorno di digiuno, e che poi hanno cominciato a rovesciare sportelli, ferro, legno, sassi, rubinetti contro cordoni di agenti costretti ad intervenire quando i clandestini stavano ormai spalancando il cancello. Allora è stata la volta dei fumogeni. Lanciati alle spalle dei rivoltosi. Ma il vento ha rovesciato l'onda acida verso i poliziotti obbligati ad arretrare. Quanto è bastato perché una parte degli irriducibili si chiudesse dentro una delle camerate appiccando il fuoco ad una montagna di materassi.
«E hanno rischiato di morire in una strage sfiorata », racconta il questore Girolamo Di Fazio che a ventiquattro ore dal disastro divideva gli irriducibili fra i 20 arrestati ieri sera e i 50 trasferiti in centri del Nord con altri 250 clandestini. Un modo per svuotare camerate bruciacchiate e cercare di arrivare via via a quota 500, la metà di quanti ce n'erano nel mercoledì di fuoco.
Di questa guerra nel centro abitato s'è visto il fungo di fumo alzarsi come l'effetto di una bomba, mentre incredibilmente non si trovavano nemmeno vigili del fuoco per spegnere le fiamme e il poliambulatorio precipitava nel caos. Qui, fra medici e infermieri affannati, si vive il dramma di una trincea dove corre Giusi Nicolini, storico leader di Legambiente: «Vogliamo stare anche noi vicini ai sanitari che curano questi ragazzi tanto disperati da iniettarsi le feci in vena con ogni sistema, o quelli che si lanciano dal balcone per rompersi le vertebre». E la conferma arriva da Roberto Zagami, il radiologo che deve passarli ai raggi X anche per stabilire l'«età ossea»: «Noi medici finiamo per dovere decidere se un ragazzo ha meno o più di 18 anni, se deve restare in Italia come minore o se deve essere rimpatriato. Controllando lo sviluppo del radio, di un polso. Con mille dubbi. E sia chiaro che nel dubbio umanità impone di credere all'immigrato».
È questa pietas che si ripresenta parlando con chi sta in prima linea e con chi sorprende perfino un agente di guardia, come fa Paola La Rosa, un tempo avvocato a Palermo, da sei anni col suo compagno Carmelo titolare a Cala Pisana di una pensione sul mare: «Ma lo sai che in agosto per badare a duemila clandestini c'erano 23 carabinieri? ». E quello stupito replica frastornato: «Ma adesso siamo 500». E Paola l'albergatrice: «Perché da centro accoglienza dove gli immigrati stavano due, tre giorni, l'avete ridotto a un carcere dove non si può resistere 50 giorni».
E le dà man forte un'altra innamorata di Lampedusa che ha lasciato Roma, Paola Pizzicori, da biologa ad artigiana, pronta a descrivere l'altra faccia del disastro: «Non ci sono prenotazioni per Pasqua. Il mio negozio non riapre. Né posso vendere le mie decorazioni ai carabinieri. Ma così si militarizza tutto e si distrugge una microeconomia che marciava sulle sue gambe». E bisogna sentire la voce di una ragazza come Mariangela Greco, 25 anni, per capire come vive una famiglia: «Mio padre manutentore in un albergo, mia madre cuoca in un altro. Lavorando da giugno a settembre ci hanno tirato su facendoci studiare fuori. Qui viviamo tutti così. Senza pensioni di invalidità. Ma se ci togliete tutto...». E arriva l'eco di Gianfranco Rescica, un quarantenne smilzo che faceva il sarto a Torino per Valentino, Ferrè e Armani: «Licenziato perché rumeni e cinesi costano meno. Sono tornato a casa e mi sono inventato un lavoro. Il turismo naturalistico. Accompagno turisti nelle aree protette. Fino alla punta da dove si vedono Linosa e Lampione. Ma adesso ci sono i posti di blocco e l'altro giorno mi hanno fermato armati. E dove li porto i turisti?».
Sono i quesiti che rimbalzano alla Bit di Milano dove un gruppo di lampedusani vive l'imbarazzo di pubblicizzare spiagge stupende come l'Isola dei Conigli. È il caso di Ezio Bellocchi, il titolare dei Dammusi di Cala Creta che in estate organizza una rassegna cinematografia con Massimo Ciavarro: «È dura la strategia dei "nasi lunghi". Ripetiamo a tutti di non preoccuparsi, di scommettere sul-l'estate di Lampedusa. Ma ci scambiano per mercanti di merce avariata. È arrivata l'ora della svolta ». È l'appello lanciato dall'avamposto d'Europa nel Mediterraneo. Perché nulla bruci. Visto che mancano perfino i pompieri.
Radiografie
«Noi medici decidiamo tra mille dubbi se un ragazzo ha meno o più di 18 anni, se deve restare in Italia o no controllando su una radiografia lo sviluppo del radio»

Repubblica 20.2.09
Bologna
Medici, espulso da Ordine chi denuncia gli irregolari


BOLOGNA - I medici che tra i propri pazienti denunceranno gli immigrati irregolari andranno incontro alla sospensione dall´attività professionale. Lo ha affermato Giancarlo Pizza, presidente dell´Ordine dei medici di Bologna durante un incontro affollato di camici bianchi, nel quale un chiaro «no» al norma sulla denunciabilità è arrivato dall´intera sanità locale. Intanto a Lampedusa, dopo la rivolta nel Centro di identificazione e espulsione, 18 clandestini sono stati arrestati.

Repubblica 20.2.09
Tempi lunghi per i processi, spese alte e a carico della vittima. Telefono Rosa: vince il silenzio
Violenze, sei anni per avere giustizia "Così le donne pagano due volte"
Solo quattro su cento denunciano i loro violentatori "Troppi ostacoli legali e culturali"
di Anais Ginori


ROMA - «Il processo alla donna è una prassi costante. La vera imputata è la donna, perché solo se la donna viene trasformata in un´imputata si ottiene che non si facciano denunce per violenza carnale». Sono passati trent´anni da quando Tina Lagostena Bassi parlò così in un´aula di tribunale, tredici anni da quando una legge - la n.66 del 15 febbraio 1996 - ha trasformato lo stupro da reato contro la morale pubblica a reato contro la persona, prevista una pena fino a dodici anni. Eppure poche, pochissime donne violentate si rivolgono all´avvocato. Solo il 4% presenta una denuncia. La metà, il 53%, non lo racconterà mai a nessuno.
Vince il silenzio. Per paura, per vergogna. I processi per stupro continuano a essere molto inferiori ai reati constatati dalla polizia. «Arrivano in lacrime. Poi si asciugano il viso, riflettono. "Lasciamo stare, non fa niente". E tutto finisce così». Maria Di Sciullo lavora da vent´anni nella squadra legale di Telefono Rosa. «La legge italiana prevede in pochi casi il procedimento d´ufficio: è la donna che deve sporgere querela. Sempre la vittima che deve assumersi i costi dell´accusa».
Secondo piano, scala B, palazzo umbertino del quartiere Prati. Nato nel 1988 come «esperimento», il primo centralino di ascolto per le vittime di violenze non ha mai smesso di funzionare. Milleottocento chiamate l´anno scorso, ogni tre giorni viene raccolta una denuncia di stupro. Di sovvenzioni pubbliche neanche a parlarne. L´ultima Finanziaria ha anzi tagliato 20 milioni previsti per i centri antiviolenza. «Il patrocinio gratuito delle vittime che promette il governo non cambierà nulla» precisa subito Di Sciullo. «Le donne violentate avranno lo stesso diritto riconosciuto agli sfrattati, e poi? Lo Stato non finanzia l´apposito fondo». L´avvocato di Telefono Rosa è una donna piccola, testa di ricci neri, qualche vistoso gioiello d´oro. Non sorride quasi mai. Da questo osservatorio la certezza della pena invocata dalla politica appare una battuta estemporanea. «Passano 65 mesi per ottenere una sentenza definitiva: cinque anni almeno per vedere uno stupratore condannato. La custodia cautelare obbligatoria è una buona misura. Purché i magistrati si impegnino a convocare le udienze entro la decorrenza dei termini. Spesso accade il contrario».
L´idea di sedersi un giorno indefinito davanti a un giudice che chiederà «Signorina, ci ricordi i fatti» spaventa sempre. L´urgenza è dimenticare. Un calvario giuridico senza garanzie: la possibilità di proscioglimento dell´imputato resta alta. «Sono fondamentali le prime ore per la raccolta delle prove. La vittima deve resistere all´impulso di lavarsi subito». Soltanto pochi ospedali prevedono automaticamente tampone vaginale, prelievo del liquido seminale, fotografia delle lesioni. Dieci anni fa, Telefono Rosa difese quattro ragazze violentate nel parco di Villa Borghese. «Riuscimmo ad incastrare l´aggressore soltanto grazie alla prontezza di una delle vittime, che aveva tenuto gli indumenti strappati e guidato i poliziotti. È capitato anche - ricorda l´avvocato - di vedere una donna arrivare con la mutandina insanguinata sigillata in una busta, ma era una turista americana».
La sensazione è che le vittime siano sempre sole. Che si sia fatta tanta strada senza allontanarsi molto. «"Era consenziente" continua a essere la difesa più classica dell´imputato» racconta Di Sciullo. Nei casi di violenze sessuali compiute da partner (6 su 10), pesa ancora la discrezionalità del giudice. «Non trattandosi di estranei bisogna interpretare l´effettiva volontà della donna». Nei corridoi di Telefono Rosa giocano bambini, aspettano le mamme. «Ci sono ancora molti ostacoli legali e culturali da superare» spiega la penalista. «Recentemente un magistrato ha sostenuto che infilare la mano in una scollatura è un "corteggiamento maldestro". È capitato a me. Ma questo è dovuto anche al fatto che in Italia non esiste ancora il reato di molestie sessuali: le pare possibile?». Corteggiamento. Maldestro. La strada da fare è ancora tanta.

Repubblica 20.2.09
Due milioni e mezzo di donne sono vittime di stalking I persecutori sono ex mariti o fidanzati. Un´inchiesta dà loro voce
"Mentre mi sfregiava diceva: ti amo troppo"
di Federica Angeli e Emilio Radice


"La spiavo, sì. Ma lo facevo per il suo bene. Avevo il dovere di difenderla..."

La commissione giustizia del Senato si sta occupando di una proposta di legge, già passata alla Camera, che vuole introdurre nel nostro ordinamento il reato di "atti persecutori". Nel mondo anglosassone lo chiamano "stalking" ed è punito già da tempo severamente. Si tratta di un reato molto diffuso (per l´Istat le vittime in Italia superano i due milioni e mezzo) e che colpisce soprattutto le donne, tormentate, a volte fino a conseguenze tragiche, da spasimanti, ex mariti, ex fidanzati e mitomani. Ma ancora oggi l´unica arma per difendersi è una denuncia per molestie, con un deterrente ridicolo: 6 mesi come massima pena. Questo libro, «Rose al veleno, Stalking, storie di amore e d´odio» fa parlare le persone che quelle ossessioni le hanno vissute davvero. Ecco alcuni brani.

io o lui
«Ho amato mio marito, l´ho amato con tutte le mie forze, e credo che anche lui abbia amato me. Eppure l´ho ucciso, per non morire (...). Ecco, questo è l´assurdo, la vera malattia. Io non ho ucciso l´uomo che amavo ma quello che mi perseguitava, quello che mi metteva le mani attorno al collo per strozzarmi salvo poi chiedermi scusa, quello che minacciava di morte chiunque incontrassi, quello che controllava ogni mio passo, ogni mio fiato, quello che mi seguiva di nascosto, quello che mi mandava appresso due "bravi" per sorvegliarmi, quello che mi ha mandato in ospedale a suon di botte, quello che mi ha violentato, quello che ho denunciato per tentativo di omicidio, quello che il tribunale ha poi diffidato dall´incontrarmi ancora, dall´avvicinarmi, dal darmi altro tormento� Oggi persone così le chiamano stalker, un nome importato dall´America. Le poverette come me invece si chiamano sempre allo stesso modo: vittime. Nel mio caso è tutto più complicato: io sono una vittima che ha ucciso il suo persecutore».

Lo stalker
«La spiavo, sì. Ma lo facevo per il suo bene. Quel ragazzo per lei era pericoloso, temevo volesse farle del male. Uno che costringe una donna a mandare una mail del genere all´uomo che ama, può diventare pericoloso. E io avevo il dovere di difenderla. Vedendola da lontano, quando ero appostato, dava l´impressione di essere abbastanza serena. Ogni tanto rientrava con un´amica. Qualche volta il fidanzato (o il presunto tale, ossia quello che io ritenevo essere il fidanzato) la accompagnava su. Cronometravo il tempo che trascorrevano insieme: potevano passare due ore prima che lui scendesse, altre volte pochi minuti. «Maiale - pensavo quando la visita si protraeva - la starai costringendo a fare l´amore con te. Certo non immagini che lei è me che vuole, che viene a letto con te ma intanto immagina che sia io a sfiorarla». E anche io me lo immaginavo».

Sfregiata
«Ho cinquantasette punti nel viso. Me li procurò Gianfranco, con un taglierino da calzolaio, sotto i portici di piazza Augusto Imperatore, nel cuore di Roma. Tornavo dal lavoro e lui s´era messo in agguato dietro a una colonna (...). Finii all´ospedale San Giacomo con la faccia aperta dai colpi della lama. Una donna di 50 anni distrutta, finita. Lui voleva che tornassimo insieme. "Ti amo troppo" mi diceva. Me lo disse anche mentre ero a terra, con le mani sul volto insanguinato, e urlavo come una pazza, terrorizzata, nel buio. Ricordo la sua presenza accanto a me, in ginocchio: "Emma, io t´amo. Scusa, l´ho fatto perché t´amo". Però poi, quando sentì che arrivava gente scappò. Vigliacco. Già una volta aveva provato a strozzarmi. L´avevo anche denunciato: tentato omicidio».

Repubblica 20.2.09
L’Argentina espelle Williamson
Il vescovo negazionista britannico ha 10 giorni per lasciare il Paese
di Omero Ciai


Per le autorità sudamericane il lefebvriano ha mentito sui motivi della permanenza

Il vescovo che nega l´Olocausto ha dieci giorni per lasciare l´Argentina. A Richard Nelson Williamson, il lefebvriano negazionista, è stato ordinato ieri di lasciare il paese dal ministro degli Interni argentino, Florencio Randazzi, ma il motivo non sono le sue posizioni ideologiche. L´escamotage trovato da Buenos Aires per liberarsi di un personaggio piuttosto scomodo è amministrativo e riguarda le leggi sull´immigrazione. Il ministero, secondo il Clarin, avrebbe motivato la sua decisione sostenendo che Williamson ha mentito sui veri motivi della sua permanenza in Argentina. Ai responsabili dell´immigrazione, infatti, egli risulta come un impiegato amministrativo presso una associazione civile, «La Tradicion», mentre in realtà era nel paese come direttore di un seminario lefebvriano della Fraternità di San Pio X a Moreno, nei pressi di Buenos Aires. Nel comunicato argentino si fa comunque riferimento al caso, la negazione della Shoah, in seguito al quale il vescovo è diventato noto in tutto il mondo: «Episodi come questi - dice la nota del governo - nuocciono profondamente alla società argentina, al popolo ebraico e a tutta l´umanità, pretendendo di negare una comprovata verità storica».
Nella nota si precisa anche che Williamson verrà espulso se non accetterà di andarsene come gli è stato ordinato.
Il caso di Williamson, uno dei quattro vescovi consacrati da Marcel Lefebvre, era scoppiato a gennaio quando Papa Ratzinger aveva revocato la scomunica imposta alla comunità dei lefebvriani.
Sessantotto anni, vescovo dall´88, Williamson ha sempre negato l´esistenza delle camere a gas nei lager nazisti. Lo scorso novembre, in una intervista concessa alla televisione svedese aveva detto: «Io credo che le camere a gas non siano mai esistite. Penso che dai 200 mila ai 300 mila ebrei siano morti nei campi di concentramento, ma nessuno nelle camere a gas». Le affermazioni del vescovo e la revoca della scomunica avevano provocato molte proteste anche se il Vaticano aveva chiarito che, se non ritrattava le sue dichiarazioni negazioniste, Richard Williamson non poteva «essere considerato un vescovo cattolico».
«Affermazioni che negano l´Olocausto degli ebrei - aveva spiegato il cardinale Ruini - sono incompatibili con l´essere un vescovo cattolico. Il Papa ha tolto la scomunica, ma non ha affatto riammesso i lefebvriani nella piena comunione».
In Argentina Williamson era stato denunciato per «apologia di reato» e qualche giorno fa il rabbino di Buenos Aires, Daniel Goldman, aveva chiesto alle autorità di dichiararlo «persona non grata». In dichiarazioni rilasciate all´agenzia ebraica di notizie, Goldman aveva sottolineato che le dichiarazioni del vescovo lefebvriano erano da considerarsi «assolutamente offensive e devastanti, non solo per il popolo ebreo ma per l´umanità intera. Sarebbe importante che le autorità nazionali dichiarino Williamson persona non grata, poiché questi apologeti dell´odio non possono essere ospitati nei nostri territori», aveva aggiunto Goldman, uno tra i rabbini più noti dell´Argentina, molto impegnato sul fronte del dialogo interreligioso.

Repubblica 20.2.09
L’appello di Battisti "L’Italia cristiana mi perdoni"


SAN PAOLO - In una lettera scritta nel carcere di Papuda, in Brasile, dove si trova in attesa della decisione del Tribunale federale se concedere o meno l´estradizione nel nostro Paese, l´ex terrorista Cesare Battisti si chiede «se non è giunta l´ora che l´Italia mostri il suo lato cristiano», per il quale «il perdono è un atto di nobiltà». La lettera è lunga otto pagine, è stata consegnata ai senatori Eduardo Suplicy, del Partito dei lavoratori e al socialista Josè Nery, che l´ha letta al Senato brasiliano. Battisti sostiene di essere vittima di una «manipolazione», che a suo giudizio hanno perpetrato «coloro che hanno qualcosa del loro passato da nascondere, come alcuni attuali ministri del governo italiano, attivisti di quell´estrema destra (fascista!) responsabile diretta o indiretta dei massacri con le bombe». L´ex militante dei Pac, condannato a quattro ergastoli per omicidio, cita anche Berlusconi, dicendo «che è stato membro della P2 di Gelli e oggi fa leggi razziste». Battisti conclude: «La società soffre di più con il carcere per un innocente che con l´assoluzione di un colpevole».

Corriere della Sera 20.2.09
Discussioni Dopo l'intervento di Giulio Giorello sul pensiero politico del grande poeta americano
Fa scandalo il «Pound libertario»
Accame: profeta del crollo economico. Sampietro: utopista autoritario
di Dino Messina


«Beautiful is difficult», scriveva Ezra Pound: la bellezza è difficile. E senz'altro è difficile capire come uno dei geni poetici del Novecento volesse conciliare Benito Mussolini e Thomas Jefferson, la libertà e la scelta per la Repubblica sociale. A sciogliere queste contraddizioni in un «elogio libertario di Ezra Pound» ci ha provato l'altro ieri sul Corriere della Sera il filosofo Giulio Giorello in un articolo dedicato a un saggio di Pound tradotto da Andrea Colombo per la prima volta in italiano, Il carteggio Jefferson- Adams come tempio e monumento (Edizioni Ares, introduzione di Luca Gallesi).
L'intervento di Giorello non è passato inosservato. Non ci riferiamo tanto al commento entusiastico di Luciano Lanna sulla prima pagina del
Secolo d'Italia, «Pound (come Jünger) era un libertario », quanto all'attenzione che ad esso ha dedicato Giano Accame, ex direttore del Secolo d'Italia, ma soprattutto uno dei maggiori esperti italiani del pensiero politico di Pound. «Negli anni Novanta avevo pubblicato per Settimo Sigillo il saggio Pound economista. Contro l'usura
— ci dice Accame —. Un lavoro cui mi dedicai quando Pound, soprattutto per i lavori poetici, era stato ampiamente rivalutato dalla critica di sinistra, a cominciare dai fondamentali saggi del professor Massimo Bacigalupo, che collaborava al manifesto e, detto per inciso, era figlio del medico italiano dell'autore dei Cantos. Mi sembra che l'intervento di Giorello possa rappresentare l'inizio della rivalutazione non soltanto poetica, ma del pensiero complessivo di Pound, anche alla luce della crisi finanziaria internazionale ».
Che cosa c'entra, si potrebbe obiettare, il crollo dei mercati finanziari, evocato peraltro anche da Giorello, con il poeta americano che aveva scelto di vivere in Italia? «Pound — spiega Accame — si reputava un patriota, legato ai valori della Costituzione, che affidava al Congresso di Washington la custodia della moneta. Egli considerava un'abiura della sovranità popolare l'aver delegato la gestione della moneta e della finanza alla Banca centrale, un ente i cui responsabili non rispondono delle proprie azioni al popolo. Da questa concezione derivava la proposta ingenua di una moneta deperibile... Al di là degli aspetti utopistici e sconclusionati del suo pensiero economico, restano oggi, in questa situazione, i moniti profetici. Pound considerava i poeti come le antenne di un popolo».
Pensiero economico a parte, definire «libertario» uno scrittore che si schierò pubblicamente per la Repubblica sociale italiana può essere visto da alcuni intellettuali di sinistra come un'impostura. «Non è affatto un'impostura — risponde Accame — perché il sogno finale di tutti i grandi intellettuali fascisti, da Giovanni Gentile all'eretico Berto Ricci e all'artista Mario Sironi, era realizzare la grandezza italiana nella libertà. Il fatto poi che Pound fosse vicino al fascismo in declino rispondeva un po' alla natura dei pionieri americani, gente costretta a fuggire perché negletta nella propria terra».
Internato in un campo di concentramento vicino a Pisa, dove scrisse i Canti pisani, da alcuni considerato il meglio della sua produzione, Pound passò poi dodici anni in un manicomio criminale a Washington, ma l'America non ebbe mai il coraggio di condannare per tradimento uno dei suoi geni. Nessuno può negare la tensione libertaria di testi composti in un campo di prigionia. Tuttavia, osserva Luigi Sampietro, docente di letteratura angloamericana all'Università Statale di Milano e frequentatore tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta di casa Pound a Brunnenburg, vicino a Merano, «non si deve confondere tensione democratica, certamente presente in Pound, e liberalismo, che è l'espressione culturale del mercato. In fondo Adams e Jefferson condussero una guerra economica, per la liberalizzazione del mercato, diedero l'indipendenza alla propria terra perché non volevano pagare tasse. Ezra Pound, invece, con la sua ossessione contro l'usura, da cui derivava il suo antiebraismo, e l'invenzione di una moneta deperibile basata sul valore accumulato con il lavoro, contrapposto al denaro neutro valido per tutti, si ispirava in fondo a principi antiliberali. Chi potrebbe realizzare, se non una dittatura con un'economia dirigista, la carta-lavoro ipotizzata dall'autore dei Cantos? ».
D'accordo con «l'elogio libertario» scritto da Giulio Giorello è lo scrittore Pietrangelo Buttafuoco, autore di Cabaret Voltaire (Bompiani). Tuttavia, dice Buttafuoco, il contesto politico- culturale del nostro Paese ci costringe sempre «alla scoperta dell'acqua calda. Sì, ha capito bene: scoperta dell'acqua calda. Perché fin quando non ci libereremo dell'incubo antifascista, non ci potremo accostare con serenità al grande patrimonio culturale del Novecento. E non solo, perché ricordo che in Italia la cultura marxista più retriva ha messo in dubbio persino i filosofi presocratici, considerandoli antesignani del pensiero negativo. Come per Pound, oggi assistiamo alla rivalutazione del Futurismo, dopo che per anni ci hanno annoiato con le scoperte della transavanguardia. Ci rendiamo conto soltanto adesso che il Futurismo è stato il maggiore movimento culturale italiano assieme al Rinascimento? Certo, ebbe anche una valenza politica».

Repubblica 20.2.09
Domani a Roma la kermesse del partito "leggero" tra incertezze regolamentari e cavilli
Quelle tremila anime in cerca di leader nei meandri della torre di Babele
L’Assembleona non ha un presidente perché Prodi non è mai stato sostituito
di Filippo Ceccarelli


Ma che delizia, adesso, radunare l´Assembleona! Oscillano significativamente fra 2.700 e 3.100 i membri di questo organismo che ha già cambiato nome, con le debite ricadute polemiche. Ma se il numero è incerto, incertissime appaiono le procedure del suo funzionamento, e ancora di più rischiano di esserlo le prospettive non solo politiche che questo immane consesso può aprire domani al Pd - e dopo tutto anche al suo elettorato.
Tanto per cominciare, l´Assembleona non ha un presidente, perché Prodi si è dimesso ormai diversi mesi orsono, e nessuno ha ritenuto di doverlo sostituire. Finora ha svolto questo compito - ha «coordinato», si dice nell´ambiguo gergo del potere - Anna Finocchiaro, e neanche troppo male: ma stavolta la faccenda è un po´ più complicata, essendo proprio il presidente colui che stabilisce i tempi e i modi del percorso che dovrebbe portare alla scelta di un nuovo leader. Ipotesi su cui i costruttori del partito si sono concentrati per circa tre mesi, nella mega-iniziatica Commissione Statuto, ma come si vede senza risultati certi.
Tale condizione di sicura indeterminatezza in qualche modo autorizza i giornalisti di colore, a lungo frustrati dalle pesanti melasse e dai sottili intrighi in voga nel Pd, a sbizzarrirsi prefigurando le più vistose immagini su quanto può accadere sabato alla Nuova Fiera di Roma: una corrida, una maionese impazzita, una torre di Babele, uno psicodramma di massa, il Giudizio Universale di Hieronymus Bosch. E tuttavia, senza smarrire la misura, converrà qui riconoscere che mai come in questa occasione trova conferma quello che disse una volta il leader uscente, Veltroni: «Lo statuto del Pd delinea un modello di democrazia interna che non ha precedenti nella storia dei partiti politici».
Ed è verissimo, ma in questi ultimi giorni è un problema: anzi è «il» problema. Sostiene più o meno l´onorevole Parisi, illustre professore di scienza della politica, che nel Partito democratico non esiste democrazia. Ma forse, più che una semplice colpa, questa mancanza è l´effetto di un processo, per certi versi inarrestabile, che ha spinto i fondatori a declamare la democrazia con la stessa determinazione con cui in concreto l´ha cancellata negli organi dirigenti. Tanto più numerosi e massicci, quanto più destinati all´irrilevanza, per non dire condannati a fare da foglia di fico: basti pensare alle difficoltà pratiche e logistiche di convocare 3.000 persone.
Forse è anche perché la tecnologia vive di velocità. O perché i politici di professione vogliono avere le mani libere e, senza immaginare che a volte certe soluzioni vengono meglio «dal basso», si accordano meglio tra loro. Fatto sta che al vertice del loft, sede peraltro presto abbandonata perché troppo piccola e troppo costosa, fin dall´inizio è stato un continuo di commissioni, comitati, cabine di regia, coordinamenti, segreterie semplici e allargate, caminetti e governi ombra. Con il risultato che adesso il Pd è certo un inedito nel paesaggio politico italiano, ma il superbo fastidio per il tema della democrazia interna e del suo funzionamento ha fatto sì che il Pd nascesse con una doppia natura di partito leaderistico e al tempo stesso oligarchico; personal-plebiscitario e insieme post-correntizio; un´entità centralistica, molto romana, mediaticamente anche assai presentabile, ma in periferia inchiodata al potere di diversi e non sempre raccomandabili capi-tribù, non a caso detti «cacicchi». Ed è come se il peggio della tradizione comunista e di quella democristiana si fossero date appuntamento in un partito che nel corso di tutti questi mesi ci si è vanamente sforzati di definire «aperto», «leggero», «liquido», «fluido», come pure «sudoku», «in franchising» o «all´americana».
Di questo andazzo l´Assembleona, eletta nell´autunno del 2007 al tempo delle primarie, è stata malinconica e finora docile testimone. Tre volte l´hanno convocata, quando Veltroni e i suoi alleati-controllori non potevano proprio farne a meno. La prima, nell´ottobre di due anni orsono, sotto le volte della Nuvola di Fucsas a Rho, fu un´occasione trionfalistica, ma in fondo si capiva pure. La seconda volta, febbraio del 2008, fu un´adunata terribilmente sbrigativa: si era quasi in campagna elettorale, né alcuno fiatò sulle future candidature (pure di parenti, segretarie e amici). La terza volta, nel doloroso giugno dopo la mazzata elettorale, le moltitudini disertarono la riunione presentandosi in 600, poco più del 20 per cento. E se il solito Parisi non avesse fatto il diavolo a quattro chiedendone in modo formale l´annullamento, Veltroni e i suoi infidi maggiorenti avrebbero pure fatto finta di niente. Dopo tre mesi, comunque, il Comitato Nazionale di Garanzia del Partito democratico decretò che era tutto nella norma. Così, tanto per fare salve le forme. Ma domani anche le formalità sembrano un po´ più complicate.

Repubblica 20.2.09
La voglia di votare
di Ilvo Diamanti


La sconfitta di Soru, in Sardegna, ha travolto anche Veltroni, insieme al Pd. Il quale è calato di quasi 12 punti percentuali rispetto alle elezioni politiche di un anno fa, unica occasione in cui si fosse presentato con questa sigla.
Tuttavia, al Pdl non è andata meglio. Anzi ha perso addirittura qualcosa di più. D´altronde, alle elezioni regionali le liste autonomiste e quelle territorialmente più radicate (come l´Udc) ottengono performance importanti a danno dei partiti nazionali. La coalizione di destra, tuttavia, ha stravinto. Trascinata da Berlusconi. Il che aiuta a rammentare che in Sardegna ha perso anzitutto Soru. Per certi versi, un Berlusconi di sinistra, immaginato, per questo, come alternativa allo stesso Veltroni. Soru, d´altronde, è una figura autorevole. In questi anni ha dimostrato grande personalità, ponendosi, talora, in aperto contrasto con ampi settori del Pd. Fino alla crisi finale. Affrontando, per questo, le elezioni con un partito profondamente diviso.
Da ciò una lezione utile anche in ambito nazionale. Oggi tutti i partiti si sono personalizzati. Hanno cioè bisogno di un leader riconoscibile in cui riconoscersi. Ciò avviene ormai in tutte le democrazie. Tuttavia, è altrettanto vero l´inverso: nessun leader può affermarsi senza un partito presente nella società e nelle istituzioni. Il caso di Berlusconi fa scuola. Ha fondato un partito personale. Ma un "partito". Coeso, con un´organizzazione professionale e personalizzata al centro che si è progressivamente allargata anche in periferia. A cui egli fornisce identità e comando. Ma ogni volta che ha pensato di essere "personalmente" autosufficiente, anche la sua leadership è stata messa in discussione. Com´è avvenuto dopo la sconfitta di Fi e del centrodestra alle regionali del 2005. Allora, non a caso, è sceso nuovamente in campo, in prima persona, trascinando, da solo, Fi e il centrodestra fino al quasi-pareggio nelle elezioni del 2006. Per questo, nel 2007, ha "inventato" un partito più largo, il Pdl. Ancora in progress: celebrerà il suo congresso di fondazione fra un mese. Non per caso ha affrontato le elezioni sarde con tanta veemenza. Per imporre subito la sua leadership "dentro" il Pdl e "dentro" la coalizione.
Invece Veltroni è segretario di un partito che ancora non c´è. Eletto nell´ottobre 2007 attraverso una consultazione popolare definita impropriamente "primarie". Le quali sono una procedura per «selezionare i candidati a cariche elettive nazionali o locali» (Pasquino e Venturino, Le primarie comunali in Italia, Il Mulino). Tuttavia le "primarie" sono un nome magico. Evocano l´Ulivo, di cui il Pd è l´erede. Il soggetto politico unitario e a vocazione maggioritaria e a larga partecipazione popolare, sperato dagli elettori di centrosinistra. Per questo vennero proclamate, mentre la sfiducia montava contro il governo Prodi. Come un rito propiziatorio, celebrato per promuovere un nuovo leader e, insieme, un nuovo partito. Che, però, non è mai stato veramente "fondato". I Ds e la Margherita si sono sciolti, ma l´Assemblea Costituente, eletta in quell´occasione, dopo un anno e mezzo, non ha mai realizzato il suo compito principale: "costituire" il Pd. Domani, invece, le verrà chiesto, probabilmente, di ratificare l´istituzione di una "unità di crisi". Un governo, per definizione, provvisorio, presidiato dai leader di ex partiti. In altri termini: qualcosa di analogo all´Unione o all´Ulivo di un tempo. Dove, però, coabitavano tutti: dal centro a sinistra, da Mastella a Bertinotti. Mentre oggi la compagnia è ridotta agli ex Ds e Margherita, a loro volta frazionati e divisi da profonde ostilità personali. La scelta di ricorrere a un portavoce transitorio, per questo, appare rischiosa. Il problema non riguarda l´identità del leader designato. Dario Franceschini è figura adeguata, con una storia pulita. Tuttavia, per avere potere e credibilità, di fronte agli elettori e ai leader delle altre forze politiche, egli non può e non deve apparire una figura di passaggio, in attesa di qualcun altro. Con quale credibilità potrebbe affrontare le prossime elezioni senza una leadership davvero legittimata? A maggior ragione, come pensano di essere credibili altri leader � Bersani, Bindi, Letta o la Finocchiaro: non importa � pronti a candidarsi alla segreteria del Pd in autunno ma non adesso? Per timore di perdere la faccia insieme alle prossime elezioni? (E dove sta scritto che debba avvenire?).
Per questo crediamo necessario, oggi più di ieri, che il cosiddetto Pd, nelle prossime settimane e nei prossimi mesi, affronti una consultazione popolare ampia e una competizione vera. Da cui emergano un segretario vero e organismi veri che possano costruire un partito vero. Se non le primarie, qualcosa che ci somigli. Dove la partecipazione e il voto corrispondano all´iscrizione. Imponendo, per questo, agli elettori un contributo più impegnativo rispetto alle primarie vere e proprie. Si tratterebbe, peraltro, di una mobilitazione importante in vista delle prossime elezioni.
D´altra parte, gli elettori del centrosinistra hanno sempre risposto in massa a ogni offerta di partecipazione. È avvenuto nel 2005 e nel 2007, a livello nazionale. E in centinaia di città (per ultimo, a Bologna e Firenze), in occasione delle primarie. Gli elettori del centrosinistra: sono delusi, ma non rassegnati. Meritano rispetto e ascolto.
Meglio, altrimenti, dichiararlo subito: la biografia del Pd, prima ancora di iniziare, è già finita.

Corriere della Sera 20.2.09
Europee. Rimborsi elettorali
Soldi ai partiti La leggina anti sbarramento
di Gian Antonio Stella


Europee Astenuti i due esponenti radicali. La «promozione» per autisti e banconisti della buvette di Montecitorio
Partiti, leggina anti-sbarramento: soldi a chi ha il 2%
Centrodestra e centrosinistra approvano l'emendamento che dà il via libera ai rimborsi

«Ah, se facessimo le riforme insieme!», dicevano di qua. «Ah, se facessimo le riforme insieme!», dicevano di là. Detto fatto, la destra e la sinistra un punto d'accordo al Senato l'hanno trovato: la donazione dei rimborsi elettorali anche ai partitini che alle Europee non arriveranno alla soglia del 4%.
Basterà che arrivino alla metà: il 2%. Crepi l'avarizia. Quando l'ha saputo, il democratico Gianclaudio Bressa è caduto dalle nuvole: «Trasecolo. Ma come è possibile?»
Era stato lui, due settimane fa, a mettersi di traverso a Montecitorio all'emendamento del tesoriere diessino Ugo Sposetti che puntava a distribuire soldi anche alle forze politiche che dovessero superare appena appena l'1%: «E mica l'avevo fatto di mia iniziativa. Avevo chiesto a Sposetti di lasciar perdere a nome del partito. Ed ero convinto che il partito...» In due settimane è cambiato tutto. Addio Sardegna, addio Soru, addio Veltroni. E se proprio era ormai impossibile ribaltare la scelta già votata e concordata con il Pdl per inserire lo sbarramento alle Europee al 4%, almeno un segnale alla sinistra rifondarola, verde, comunista e socialista per riaprire il dialogo i democratici hanno deciso di darlo. E cosa c'è di meglio di un contentino in denaro? Così ieri mattina, a palazzo Madama, quell'emendamento giudicato «inammissibile» dalla conferenza dei capigruppo di Montecitorio, è rispuntato con le firme di due senatori democratrici (della sinistra) Vincenzo Vita e Paolo Nerozzi. E visto che anche il PdL voleva svelenire i rapporti con la Destra di Francesco Storace, il voto è stato trionfale. Avete presente gli insulti che volano ogni giorno dall'una all'altra parte degli schieramenti? Bene, stavolta tutti d'amore e d'accordo: 254 votanti, due astenuti (i radicali Marco Perduca e Donatella Poretti: l'astensione a Palazzo Madama equivale a una bocciatura) e nessun contrario. Manco uno.
Per carità, se dovesse essere tutto confermato alla Camera (ammesso che la soglia dei soldi non sia abbassata ancora...) andrà comunque meglio che alle Europee del 2004. Cinque anni fa non solo l'Ulivo prese di rimborsi elettorali sette volte più di quanto aveva dichiarato d'avere speso, i comunisti di Diliberto dodici e Rifondazione tredici. Ma la Fiamma Tricolore moltiplicò l'investimento per quasi 82 volte e il Partito dei pensionati addirittura per 180. Aveva investito in manifesti, comizi, spot, viaggi e volantini 16.435 euro e si ritrovò benedetto da un acquazzone di quasi tre milioni. Pari a 7 euro e 95 cent per ogni voto avuto.
Male che vada, queste perversioni dovrebbero stavolta essere evitate. L'anomalia italiana, però, resterà. E se cambierà (in parte) la distribuzione del pubblico denaro, non cambierà la somma complessiva da spartire. Somma che, rispetto agli altri paesi europei (non parliamo degli Stati Uniti dove ci sono finanziamenti solo per le «presidenziali», pari nel 2004 a neanche mezzo euro ad americano) è enormemente superiore. Basti dire che, secondo un dossier della Camera, le elezioni europee del 2004 sono costate di rimborsi ai partiti 42 centesimi a ogni francese, 86 a ogni italiano. Più, naturalmente, tutti gli altri soldi distribuiti dalla leggina votata nel luglio 2002 da una larghissima maggioranza trasversale e pubblicata dalla Gazzetta Ufficiale tre giorni più tardi. Tre giorni: record planetario di velocità legislativa.
Riassumiamo? Le pubbliche casse danno ogni anno ai partiti 50 milioni di rimborsi elettorali per le Regionali (anche quando non ci sono), più altri 50 per le Europee (anche quando non ci sono), più altri 50 per le Politiche alla Camera e più altri 50 per le Politiche al Senato, anche quando non ci sono. Non bastasse, un'ulteriore leggina del 2006 ha consentito come è noto la doppia razione di rimborsi per le «politiche » (cento milioni l'anno) per il 2008, 2009, 2010 e 2001 come se la vecchia legislatura non fosse mai naufragata.
Insomma, con tutto il rispetto per le difficoltà economiche dei piccoli partiti che vorrebbero legittimamente continuare a sventolare la loro bandierina, quella di ieri al Senato è una decisione assai lontana dalle scelte di altri paesi. I quali, per scoraggiare l'assalto di troppi partitini non solo non distribuiscono soldi a pioggia ma talora chiedono a chi presenta una lista alle elezioni addirittura un deposito cauzionale che perderà se non arriva a una certa soglia. Che a Malta arriva a uno stratosferico 10%.
Eppure, chi immagina che gli italiani resteranno perplessi si sbaglia: tutti, certamente no. A parte gli elettori di questo o quel partitino finanziariamente nei guai, hanno buoni motivi per esultare, ad esempio, i dipendenti della Camera. Il «ritocco» del finanziamento pubblico ai partiti rende meno vistose infatti altre due notizie date ieri dall'Ansa. La prima è che i 28 autisti e i 30 banconisti circa della buvette di Montecitorio si sono visti riconoscere dall'ufficio di presidenza (nel quadro di un riordino che dovrebbe portare entro il 2016 a una riduzione del personale) una cosa che aspettavano dal 1981: la promozione dal primo («operaio tecnico») al secondo livello («collaboratore tecnico») col risultato che, diventando graduati, peseranno sulla Camera per circa 700 mila euro in più l'anno.
E andranno a riposo con pensioni pari, in certi casi, a quelle di un docente universitario. Ma la notizia più stupefacente è la seconda: visto che al Senato non hanno mantenuto l'impegno di adottare per i dipendenti la «riforma Dini» (accettata solo per i neo-assunti), l'adeguamento concordato nella scorsa legislatura è stato cancellato: anche le pensioni di commessi, autisti, barbieri, segretari e dattilografi di Montecitorio assunti dopo il 2001 continueranno ad essere calcolate (quattordici anni dopo la svolta!) col vecchio sistema retributivo e non con quello contributivo usato per tutti gli altri italiani. E meno male che promettevano un taglio ai privilegi...

il Riformista 20.2.09
Conversazione con Fausto Bertinotti sulla crisi del Pd e dell'opposizione tutta
«Un filo lega il crollo delle due sinistre»
«Noi e il Pd». Un libro in preparazione, una tazza di caffè e pensieri sparsi: «Abbiamo perso tutti, noi radicali e i riformisti. Quando hanno governato hanno distrutto le loro fondamenta sociali e poi, con la globalizzazione, sono rimasti devastati. Ripartiamo dalla laicità, diciamo dei no alla Chiesa».
di Ritanna Armeni

Capita spesso in questo periodo a me e a Rina Gagliardi di discutere con Fausto Bertinotti nel suo studio accanto a Montecitorio. Siamo tre vecchi amici, stiamo scrivendo un libro sulla sua avventura politica e gli argomenti certamente non mancano. Ma, come spesso capita proprio fra vecchi amici, la riflessione sulla politica del giorno, la voglia di confrontarsi e di chiacchierare qualche volta ha la meglio sul lavoro che ci siamo prefissi. Complice una tazza di caffè non possiamo non interrogarci su che cosa avviene nel Pd, sulle dimissioni di Veltroni, mentre ritorna inevitabilmente la domanda: per la sinistra è finita? Nel futuro ci sarà ancora? Oppure la sconfitta, storica questa volta, è inevitabile? E poi: c'è una connessione fra quel che è avvenuto nel giugno scorso quando la sinistra radicale è stata cancellata dal Parlamento e quello che sta avvenendo oggi nel Partito democratico?
«Certo che c'è molto in comune - dice Fausto Bertinotti - sono due sconfitte, segnano la fine dell'era delle due sinistre, quella riformista e quella radicale. Erano nate nella globalizzazione, la prima assecondandola, la seconda contrastandola o, almeno provando a farlo. La prima esercitando quel liberismo moderato che in politica si è tradotto nei governi di centrosinistra, la seconda ponendosi in modo antagonistico e denunciando i danni sociali della globalizzazione. Entrambe non ce l'hanno fatta».
Le due sconfitte, quelle che l'ex presidente della Camera vede legate da un filo, sono avvenute a distanza di qualche mese. Che cosa le ha fatte precipitare? Insomma, Fausto, è abbastanza facile dire oggi che la sinistra radicale non ce l'ha fatta perché la globalizzazione almeno per una lunga fase ha vinto. Ma gli altri, quelli che la assecondavano, perché a loro volta hanno fallito? «Gli altri nel periodo in cui sono stati al governo hanno distrutto le loro fondamenta sociali e poi quando la globalizzazione è entrata in crisi sono rimasti spiazzati e devastati. Che si fa se ciò su cui si è puntato poi crolla?».
Certo c'è un paradosso: chi nella sinistra voleva fare le riforme non è riuscito a farne neppure una, chi voleva fare la rivoluzione, cioè modificare radicalmente il mondo, oggi assiste attonito al fatto che ciò che voleva cambiare, si è autodistrutto. E i "rivoluzionari" che potrebbero su molte cose affermare «noi l'avevamo detto» tacciono attoniti. Bertinotti va oltre questa analisi già impietosa. «Non è accaduto solo questo nel ciclo della globalizzazione - dice, riflettendo ad alta voce - è avvenuto che le riforme proposte dalla sinistra moderata sono state delle controriforme, cioè il loro opposto e che la sinistra radicale che doveva cambiare il mondo si è limitata a difendere l'esistente, giudicato comunque migliore dell'eventuale cambiamento. Il veltronismo è stato sconfitto quando è apparso chiaro a tutti che le magnifiche sorti e progressive della globalizzazione erano una illusione. E la sinistra radicale di fronte a quella crisi si è rivelata priva di una proposta per la società, è diventata identitaria, tornando ad una identità preesistente a quella di sinistra, ha voluto di nuovo dirsi comunista».
Ho un dubbio: forse la sconfitta delle due sinistre è nella distinzione che la globalizzazione ha rivelato insensata fra riforme e rivoluzione, quella distinzione che ha portato un "riformista" come Walter Veltroni a vedere la sua salvezza nella morte dei "rivoluzionari", cioè della sinistra radicale… Forse… È inevitabile quando si parla con Fausto Bertinotti volare alto, ma la risposta questa volta è secca. «Riforme e rivoluzione? Per me la risposta è venuta dagli anni 60, dalla definizione di riformisti rivoluzionari. Insieme gradualità e radicalità del cambiamento».
Ma c'è un altro punto che intriga l'ex leader di Rifondazione in questa vicenda del Pd. Da essa emerge la fine della coesistenza nello stesso partito di cattolici e laici. Risulta con chiarezza che si è conclusa l'epoca del dialogo, del rapporto fra marxismo e cristianesimo. Insomma è finita l'era aperta dal Concilio vaticano secondo. «Era un rapporto - spiega - che andava dal dialogo con la Chiesa istituzionale a quello con le associazioni cattoliche, fino all'unità sindacale. Oggi si è concluso a quasi tutti i livelli, il dialogo della sinistra rimane solo con la chiesa del dissenso mentre le gerarchie ecclesiastiche intervengono direttamente sul legislatore e chiedono il suo allineamento».
Mi pare conseguenza logica di questo ragionamento che oggi un partito di sinistra non possa essere che esclusivamente laico, che faccia dichiaratamente della laicità il suo fondamento. «Nei momenti in cui i cattolici si distaccano, solo i laici possono riaprire il dialogo. Ma questo significa un uso diverso della laicità nel quale possono essere aiutati dalle nuove comunità religiose che i migranti costituiscono anche nel nostro paese».
Si ripropone un altro paradosso, quello dei laici che finora non hanno costruito una laicità. E forse non la sanno costruire mentre la Chiesa si sta misurando con i grandi problemi posti dalla bioetica e dalle nuove frontiere della scienza. «È vero - riflette ancora Bertinotti - i laici sono indietro, ma bisogna cominciare a dire dei no, se si dicono dei no poi si può andare avanti si può approfondire il proprio pensiero. Se invece la prima reazione è il compromesso, il compromesso comunque...».
È Rina Gagliardi che riporta la chiacchierata ai temi che in questi giorni i mass-media hanno riproposto con insistenza di fronte alla crisi verticale del Pd. «Ma non conta nulla in questa crisi la mancata innovazione della classe dirigente? Non conta nulla che sono da decenni le stesse persone a dirigere questo partito?». Ancora una volta Fausto Bertinotti non entra nelle questioni che riguardano direttamente le persone. «La direzione politica è anche direzione di una cultura politica. Il disastro delle due sinistre deriva dalla mancanza di luoghi di ricerca. Non ci sono classi dirigenti perché manca cultura ed autorevolezza. E anche fraternità. Possiamo chiamare altrimenti la solidarietà, la connessione sentimentale necessaria fra chi si sente parte di uno stesso progetto? Ecco questa non la trovo più da nessuna parte». Deluso ma non rassegnato, l'ex presidente della Camera. E torniamo al nostro lavoro. La chiacchierata è finita.

il Riformista 20.2.09
Epifani: ora chi fa l'opposizione?
E forse anche la Cgil rischia l'unità
di Tonia Mastrobuoni


Sindacati e pd. Epifani convalescente e preoccupato ha telefonato al leader dimissionario. Cisl e Uil temono la spaccatura e vecchie logiche bipolari. Bonanni: «Se si sfascia conseguenze anche per noi».

Tra alcuni sindacalisti della Cgil circola una battuta un po' macabra: Veltroni si è fatto esplodere su un autobus: per fortuna su quell'autobus non c'era Epifani. A due giorni dalle dimissioni del segretario del Pd, nel maggiore sindacato italiano non si è aperta ancora la riflessione sul terremoto nel partito. Il motivo più banale è che Epifani è convalescente. Reduce da un piccolo intervento chirurgico, il segretario generale della Cgil ha seguito l'accelerazione drammatica della crisi da casa. Ha telefonato a Veltroni per esprimergli la sua vicinanza, ma ai suoi collaboratori ha confidato il timore che il paese resti senza un'opposizione e che nei prossimi mesi si materializzi uno squilibrio democratico. Il leader della Cgil guarda con una certa apprensione anche ai tempi per il congresso: per la tenuta del partito l'autunno sembra troppo lontano.
Ma se Epifani si sente lontano dall'"autobus esploso" non è certo per questo. Negli ultimi mesi, con una fetta consistente del partito e con il suo leader sono aumentate le tensioni. L'apice c'è stato sulla rottura tra la Triplice sulla riforma dei contratti. Al di là di questo, c'è l'autonomia dalla politica professata a ogni pie' sospinto dal leader Cgil. E l'angoscia crescente per la crisi economica. Tutte considerazioni che hanno contribuito al "gran rifiuto" di Epifani alla candidatura nelle liste del Pd per le europee. E che fanno dire però, in questo momento in cui è naturale chiedersi se cederà alla tentazione di fare il leader dell'opposizione, a una delle persone più vicine al segretario generale, che questo pericolo non c'è. Nessuna svolta "cofferatiana": «Non ci faremo prendere da tentazioni di supplenza o di sostituzione», scandisce Susanna Camusso, segretario confederale.
Quanto alla spaccatura con Cisl e Uil l'impressione ai piani alti di Corso d'Italia è che a meno che il partito non si spacchi - allora le due nuove formazioni rischierebbero di ripristinare le vecchie cinghie di trasmissione tra una parte più centrista che dialogherebbe con Cisl e Uil e una parte più spostata a sinistra in sintonia con la Cgil - il banco di prova vero sarà la crisi economica. Nella Uil sull'eventualità della spaccatura si fanno invece riflessioni più preoccupate. Luigi Angeletti lo dice a chiare lettere: «Io spero che non si torni indietro, ma se si tornasse indietro e si ripristinassero quelle vecchie cinghie di trasmissione, il centro-sinistra - a questo punto con il trattino - dovrebbe rinunciare davvero per sempre a diventare maggioranza nel paese».
Naturalmente, ogni iscritto al sindacato vota in base a molti fattori, è il ragionamento del numero uno della Uil, ma «indubbiamente quello che provoca cambiamenti nelle scelte elettorali è la constatazione se un partito è ostile o meno a un sindacato». Nel primo caso, chiosa, «può far perdere voti». Angeletti è convinto inoltre che il Pd abbia commesso molti errori, ma uno davvero enorme, con ripercussioni sui rapporti con i sindacati. «Un partito riformista deve avere un'idea autonoma della politica sociale». Va bene il partito-contenitore, ma ad un certo punto «Veltroni doveva fare una sintesi. Blair è diventato Blair perché ha imposto la sua linea. Anche contro la maggioranza del Labour». Su questioni dirimenti come la proposta del contratto unico o sulla riforma della contrattazione, il Pd è sempre arrivato dopo o non è arrivato proprio. Dunque, «nei prossimi mesi il Pd non può lasciare il paese senza un'opposizione. Deve diventare un partito strutturato. E fare il congresso il prima possibile».
Il leader Cisl Raffaele Bonanni ha fatto sapere subito come la pensa sul Pd: «Se si sfascia, ci saranno influenze anche sul sindacato: ciò che non convive lì non convive neanche nel sociale», ha detto mercoledì. Dividere il partito, ha aggiunto, vuol dire «perpetuare questo bipolarismo muscolare che ha creato tanti guai». Ma in Cisl e Uil molti scommettono anche sul fatto che l'unità interna alla Cgil, che sembra più forte che mai, comincerà a scricchiolare ai tavoli dei rinnovi contrattuali. Qualche segnale potrebbe arrivare già dall'imminente assemblea unitaria per il contratto degli alimentaristi, dove la Cgil non sembra avere tanta voglia di andare allo scontro con le altre confederazioni in nome della spaccatura sulla riforma del modello contrattuale. In effetto, la tesi che i tavoli negoziali per i rinnovi dei contratti saranno il banco di prova per l'unità della Cgil, sembra plausibile. «Sarà il loro referendum», maligna un esponente della Cisl.

Liberazione 20.2.09
Piddì, partito senza identità
di Giorgio Galli


Veltroni dice di essersi dimesso perché il progetto del Pd possa continuare. Ma è lecito chiedersi se proprio quel progetto non stia volgendo al termine. Avrebbe dovuto essere la sintesi di tutti i riformismi: quello socialista e poi comunista, quello liberale, quello cattolico. Ma il termine "riformismo" è molto logoro. Ha avuto la sua grande stagione nel partito socialista di Turati. Il Pci di Togliatti e Berlinguer è stato di fatto riformista, anche se aborriva il termine. Oggi è il Pdl che definisce "riforme" le sue pretese di modifica della scuola e della giustizia.
Il Pd, lungi dall'avere un progetto riformista, nel senso che questo termine purtuttavia ha nella cultura della sinistra, non è neanche un partito laico, nel senso dei vecchi partiti liberali, che si opponevano alle pretese della Chiesa. Se non fosse imploso dopo la sconfitta in Sardegna (dove peraltro Berlusconi non ha guadagnato voti), sarebbe probabilmente imploso prima in parlamento, dove molti rappresentanti di primo piano, da Rutelli, a Fioroni, a Castagnetti, oltre ai teodem alla Binetti, si accingevano a votare un disegno di legge che manometteva l'art. 32 della Costituzione ("nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario... La legge non può violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana"). Si trattava di un disegno di legge che ricalcava il decreto ritenuto incostituzionale dal Presidente della Repubblica; e il segretario del Pd lasciava ai parlamentari quella che definiva "libertà di coscienza", cioè il votare non a difesa della Costituzione, ma secondo i dettami della Chiesa. E il vice-segretario Franceschini, forse successore di Veltroni, giustifica questa posizione dicendo che il Pd non è un partito "identitario".
Vuol dire che non ha una identità, neanche laica? Ed è il sindaco di Torino, Chiamparino a chiedersi: «Il Pd sta con Beppino Englaro o con quello che suggerisce la gerarchia ecclesiastica? Si sta con i cortei della Cgil oppure si va ai tavoli della Cisl?».
Il Pd è imploso su queste questioni di fondo, emerse prima del voto sardo. Un editoriale del direttore de "la Repubblica" ne deduce che «Berlusconi è padrone del Paese tra gli applausi degli italiani, vince mentre attacca il capo dello Stato, rinnega la Costituzione e non riesce ad affrontare la crisi economica. L'Italia sta con Berlusconi». Non è vero. Il premier ha preso meno voti di prima, come già nel 2008 rispetto al 2006, e vince perché l'elettorato di sinistra si astiene; e si astiene perché ha perso fiducia nella sua rappresentanza. E' un problema che riguarda non solo il Pd, ma l'intera sinistra. Ma in parlamento l'elettorato di sinistra e l'opposizione di sinistra sono rappresentati dal Pd; e Berlusconi vince non perché "l'Italia applaude", ma perché l'opposizione del Pd è fiacca.
Non è vero che il regolamento permette alla maggioranza di fare quello che vuole. Un solo esempio, che riguarda Bossi e il suo "federalismo fiscale". La normativa in proposito, lo dice D'Alema, è «una scatola vuota»; ma è un messaggio propagandistico decisivo per l'elettorato leghista. Prima di Natale il progetto è ancora fermo in commissione al Senato, perché, come dice Bossi, «col regolamento del Senato l'opposizione ha un potere enorme... se si va avanti così la discussione sul federalismo si ferma almeno per qualche mese».
Ebbene, il Pd non va "avanti così". Sblocca la situazione in commissione e in aula al Senato, addirittura si astiene sulla "scatola vuota", regalando un successo di prestigio a Berlusconi e alla Lega. Governo e Lega puntano sul voto alla Camera, da presentare come trofeo per il voto di giugno. L'Italia non sta con Berlusconi. L'Italia, come insieme dei cittadini, su quarantasette milioni di iscritti alle liste elettorali e oltre trentasei di voti validi, ha dato a Berlusconi tredici milioni e mezzo di voti. Vince perché gli elettori di sinistra la votano sempre meno, astenendosi; e perché l'opposizione del Pd in parlamento è fiacca. Da qui deve partire la riflessione a sinistra. E il recupero del consenso non può essere opera di una dirigenza logora.

il manifesto 18.2.09
Non sono solo canzonette...
Povia, che vuole uscire dal «tunnel» dell'omosessualità
di Massimo Arcangeli


A sentirlo intonare Luca era gay, sebbene Povia dica di non aver mai affrontato psicologi o psichiatri, sembra abbia frequentato la scuola di Massimo Fagioli, un tempo guru ascoltatissimo da Fausto Bertinotti...

A sentirlo intonare Luca era gay, sebbene Povia dica di non aver mai affrontato psicologi o psichiatri, sembra abbia frequentato la scuola di Massimo Fagioli, un tempo guru ascoltatissimo da Fausto Bertinotti. Lo psichiatra, in un'intervista a Repubblica del 4 gennaio scorso, ha dichiarato: «Secondo me, la pulsione omosessuale non esiste, è pulsione di annullamento. Per me il desiderio è solo nel rapporto uomo-donna, ossia tra diversi e uguali: uguali perché tutti gli esseri umani lo sono per la nascita, diversi perché ognuno ha la sua identità». E Povia, in un'intervista: «I miei si separarono quando ero piccolo. Rimasi solo in un ambiente tutto femminile, giocavo con le bambole. Sbaglia chi crede che gay si nasce». Ovvio. Froci non si nasce, si diventa. Ma dal tunnel dell'omosessualità si può anche uscire. È accaduto anche al bambino che faceva ooh, come pure al suo alter ego musicale: «Luca era gay e adesso sta con lei». Anche lui, oplà, clinicamente guarito. E convertito a un sano rapporto etero.
Gli stereotipi sull'ambiente malsano da cui origina e trae alimento la «malattia» di Luca, nella canzone di Povia, ci sono tutti: una madre possessiva e morbosamente gelosa delle amiche del figlio, che dispensa precetti antifamiliari e sparla del coniuge, dal quale dopo dodici anni si separa; un padre assente e senza attributi («non prendeva decisioni / e stava fuori tutto il giorno»), che dopo la separazione prende a bere; un uomo più grande di lui che lo inizia al sesso omosessuale; un amore gay durato quattro anni e vissuto (ovviamente) tra tradimenti e inganni. Infine la redentrice salvezza fra braccia femminili che lo traghettano verso la giusta sponda, consegnandolo all'autentica maturità del distacco dalla vita familiare e a un'esistenza finalmente felice: «caro papà ti ho perdonato anche se qua non sei più tornato / mamma ti penso spesso ti voglio bene e a volte ho ancora il tuo riflesso ma / adesso sono padre e sono innamorato dell'unica donna che io abbia mai amato».
Non faccio di mestiere lo strizzacervelli, sono un intellettuale e uno studioso. So però abbastanza di teoria sull'identità per permettermi di sorridere davanti alle affermazioni di Fagioli messe sostanzialmente in musica da Povia. Molte discipline hanno da tempo abbandonato l'idea di un'identità «strutturale» a favore di un 'identità «di flusso»; talora preferiscono addirittura il termine identificazione a quello di identità, che si presta meno all'ipotesi del mutamento e della trasformazione, della instabilità e della contestualizzazione, a cui il concetto oggi sempre più soggiace. L'etnologo Jean-Pierre Warnier, non proprio l'ultimo arrivato, difende da anni l'idea che un individuo possa assumere «identificazioni multiple» (cfr. La mondialisation de la culture, Paris, La Découverte, 1999); ogni persona, dunque, non solo è diversa da qualunque altra persona ma, al limite, è diversa anche da se stessa. È evidente come tutto ciò debba coinvolgere anche l'identità sessuale. Anche in questo caso l'accordo tra gli studiosi è praticamente unanime: il sesso non è poi così rilevante ai fini della costruzione e della comunicazione dell'identità sessuale, che è piuttosto un'identità culturale che biologicamente predeterminata. Per Fagioli l'omosessualità sarebbe però «pulsione di annullamento». I malati di questo sciagurato disturbo mentale dovrebbero andare allora a curarsi da lui. Potrei andarci anch'io, non si sa mai. Prevenire, è assodato, è meglio che curare. E poi, se è guarito Povia, che i volatili li conosce così bene... Almeno i piccioni, protagonisti di Vorrei avere il becco, la stucchevole canzone vincitrice di Sanremo 2006. Speriamo davvero che la storia, una volta tanto, non si ripeta.

Il Mattino 20.2.09
La strategia del male
di Juan Goytisolo


«Paesaggi dopo la battaglia», il romanzo di Juan Goytisolo di cui in anteprima pubblichiamo l’inizio, venne pubblicato in Spagna nel 1982. Da oggi sarà in libreria anche in Italia edito da Cargo (pagg. 181, euro 15) che farà contemporaneamente uscire l’edizione economica di «Oltre il sipario» del 2003.

Fino a quel momento, il male - tanto per chiamarlo in qualche modo, quel sorprendente e solo in apparenza inopinato complesso di circostanze - si era insinuato poco a poco, passo dopo passo, in maniera occulta e a prima vista innocua, forse con il deliberato proposito di non allarmare i vicini, che la stessa tessitura eteroclita del quartiere aveva reso sensibili alla perdita del suo originario carattere familiare, quasi intimo, a causa della progressiva infiltrazione, dell’azione disgregatrice e funesta di individui di tutti i generi venuti da fuori, la cui vistosa e alla fine irritante presenza si andava trasformando, non c’era ombra di dubbio, un’invasione in piena regola. Ciò nonostante, volgendo lo sguardo indietro e analizzando le cose in retrospettiva, pareva evidente che quell’accumularsi di indizi non era un semplice prodotto del caso, ma aveva, per così dire, una sua propria dinamica, una dinamica ancora oscura, come quella del corso d’acqua sotterraneo che si ingrossa e si gonfia per poi di colpo affiorare tumultuoso: bastava riandare al tempo in cui erano comparsi i primi inquietanti sintomi e tracciare un grafico, un quadro clinico della sua inesorabile progressione. Nulla, al principio, o quasi nulla: qualche scritta con il gesso, tracciata da mani caute e furtive, probabilmente opera di ragazzini irrequieti in cerca di emozioni desiderosi di farsi notare. Unico tratto distintivo: l’inintelligibilità. Erano redatte in un alfabeto strano, e i vecchi abitanti del quartiere ci passavano accanto senza neanche farci caso, come se fossero sgorbi privi di senso. Quei ghirigori assurdi si ripetevano lungo tutti i muri scrostati e, non appena venivano cancellati dalla pioggia, dalle portinaie dei decrepiti palazzi o dai proprietari dei negozi adiacenti - in genere grossisti di pelli, jersey e articoli di maglieria - tornavano a comparire, ogni volta più appariscenti e beffardi: vere e proprie equazioni algebriche, che si rinnovavano casa dopo casa, con ossessiva caparbietà. L’ipotesi della banda di mocciosi determinati ad attirare l’attenzione su di sè che si scambiavano messaggi in linguaggio cifrato godette per qualche tempo di un certo consenso: nei caffè, nella mescita di alcolici del carbonaio o nei crocchi che si formavano sul marciapiede quando il bel tempo lo permetteva, si udivano le lamentele dei vicini per la maleducazione dei ragazzi d’oggi, per la loro sfrontatezza, mancanza di rispetto e mania di imbrattare tutto. Poi qualcuno, in una pausa di insonnia, si era affacciato alla finestra alle prime ore del mattino per prendere il fresco e aveva intravisto una sagoma china sulla parte bassa del muro dell'immobile a fianco: un tipo con i capelli neri e crespi, di cui non era riuscito a distinguere il viso ma che, di questo era sicuro e poteva giurarlo, di certo non era uno dei nostri. Aveva tracciato certi segni misteriosi e, una volta finito, aveva ripetuto l’operazione qualche passo più in là. Così l’aveva raccontato agli amici, il giorno dopo, davanti a un bicchiere di calvados, e da allora l’attribuzione a un qualche studentello rimbecillito dai serial televisivi e dalla lettura di fumetti fu definitivamente scartata. Gli scarabocchi erano opera degli immigrati che, sempre più numerosi, si infiltravano negli edifici fatiscenti abbandonati dai vecchi occupanti e offrivano la forza delle proprie braccia ai facoltosi commercianti del Sentier. Veramente, aveva precisato uno, non sono nè disegni nè aste, ma lettere di quelle che usano loro per scrivere, tutte al contrario, che non le capisce neanche il Padreterno: le aveva viste laggiù, nelle loro terre, e anche se non ne ricordava con certezza la forma elusiva, era sicuro che fossero le stesse. I bevitori di calvados approvavano con il capo: sì, sono quelli, prima le usavano solo al paese loro, adesso invece vengono qui a curiosare e a ficcare il naso, a sporcare dappertutto e a insozzare i muri come se la città fosse loro, un flagello, signori miei, dovrebbero vergognarsi! Invece no, quelli non avevano amor proprio, nè rispetto nè niente: li conosceva bene, ottusi e impermeabili a tutto, cercare di educarli era come lavar la testa all'asino. Bisognava assolutamente scoprire cosa significavano quei caratteri, chissà che non stessero architettando qualcosa e loro, i residenti, non se ne accorgevano neppure: magari ci stanno provocando, ci insultano e ci minacciano nella loro lingua, se non fosse così, andiamo, non ricorrebbero a quel trucco, questo è quello che dico io. Commenti, teorie, supposizioni reiterate giorno dopo giorno e intanto le scritte, dipinte con una spessa vernice a spruzzo, coprivano i muri delle stradine adiacenti al boulevard, oltrepassavano scopertamente anche quello, facevano un’insolente e provocatoria apparizione perfino sul muro del commissariato di polizia. Si è mai vista una cosa del genere, fra un po’ gli stranieri saremo noi e loro, quell’apocalittica marea di negri e meticci, tutti quei Bongo e quegli Alì, saranno loro a essere a casa propria: è la fine, proprio così, signori! Insomma, piagnistei sterili, lugubri profezie che, a forza di sentirle, nessuno prendeva sul serio. La fisionomia del quartiere stava cambiando, questo era certo, ma non si era ancora giunti a tanto: a lamentarsi e a drammatizzare le cose non ci si guadagnava nulla. In fin dei conti sono problemi loro, aveva obiettato un altro dei bevitori, ciascuno ha le sue usanze, se vogliono comunicare con quel linguaggio, affari loro, fin tanto che ci lasciano il nostro cosa ce ne importa? L’argomentazione, ragionevole, era risultata convincente: i bevitori di calvados, gomito a gomito sul ripiano di zinco del carbonaio, avevano assentito con malinconica rassegnazione. Ognun per sè e Dio per tutti, ecco come la pensava lui: come dice il proverbio, vicini sì, ma senza confondersi. Proprio per questo, qualche giorno più tardi, fu ancor più sbigottito e irritato quando uscì in strada mezzo addormentato, diretto al suo calvados mattutino e, alzando gli occhi dal marciapiede, dove era solito tenerli ben fissi mentre camminava, per via delle cacche di cane, scoprì che l’insegna del bar era stata sostituita con un’altra, composta in un alfabeto straniero. (Traduzione di Francesco Francis)